Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE

 

NOTA LEGALE: USO LEGITTIMO DI MATERIALE ALTRUI PER IL CONTRADDITTORIO

LA SOMMA, CON CAUSALE SOSTEGNO, VA VERSATA CON:

SCEGLI IL LIBRO

80x80 PRESENTAZIONE SU GOOGLE LIBRI

presidente@controtuttelemafie.it

workstation_office_chair_spinning_md_wht.gif (13581 bytes) Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)3289163996ne2.gif (8525 bytes)business_fax_machine_output_receiving_md_wht.gif (5668 bytes) 0999708396

INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA  - TELEWEBITALIA

FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

LA SICILIA

 

SECONDA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

PALERMO E LA SICILIA

QUALE MAFIA?

I PARTE

 

PALERMO E LA SICILIA

II PARTE

 

TUTTO SU PALERMO E LA SICILIA

QUELLO CHE NON SI OSA DIRE

 

I PALERMITANI ED I SICILIANI

SONO DIVERSI DAGLI ALTRI ?!?!

 

Quello che i Palermitani ed i Siciliani non avrebbero mai potuto scrivere.

Quello che i Palermitani ed i Siciliani non avrebbero mai voluto leggere. 

(*Su Messina c'è un libro dedicato)

di Antonio Giangrande

 

 

 

 

SOMMARIO I PARTE

 

INTRODUZIONE

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

A PROPOSITO DI INTERDITTIVE ANTIMAFIA E SEQUESTRI PREVENTIVI GIUDIZIARI.

LA DEMOCRAZIA SCIOLTA PER MAFIA. DANNI E SVANTAGGI DEI COMMISSARIAMENTI DEI COMUNI.

GIORNALISMO CONTROCORRENTE: GIORNALISMO MAFIOSO.

ANTIMAFIOSO SI NASCE O SI DIVENTA?

MERIDIONALI: MAFIOSI PER SEMPRE.

NDRANGHETA, COSA NOSTRA, MASSONERIA DEVIATA E STATO: TUTTI INSIEME APPASIONATAMENTE…

GIOVANNI AIELLO. FACCIA DA MOSTRO E LE MORTI PROVVIDENZIALI.

PARLIAMO DELLA SICILIA.

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

MAFIA: LE CONTRO VERITA’ CENSURATE. FALCONE, FALCE E MARTELLO. IL FILO ROSSO SULLA MORTE DI FALCONE E BORSELLINO E LA NASCITA DEL MONOPOLIO ROSSO DELL’ANTIMAFIA.

IL CORTO CIRCUITO. L'EREDITA' DI FALCONE: LE SPECULAZIONI DELL'ANTIMAFIA.

CHE AFFARONE I SEQUESTRI E LE AMMINISTRAZIONI GIUDIZIARIE. L’OMERTA’ DELL’ANTIMAFIA.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

STATO DI DIRITTO?

CHI E’ IL POLITICO?

CHI E’ L’AVVOCATO?

DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

ITALIA DA VERGOGNA.

ITALIA BARONALE.

CASA ITALIA.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

ITALIA: PAESE ZOPPO.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

NON VI REGGO PIU’.

 

SOMMARIO II PARTE

 

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

SE NASCI IN ITALIA…

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

IL SUD TARTASSATO.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

A PALERMO, TRA NUOVI PROCURATORI E VIADOTTI NUOVI CROLLATI: ARIA NUOVA O QUASI!

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

MAFIA VECCHIA E NUOVA……

L'ANTIMAFIA DELLE BUFALE?

L’ITALIA DEGLI IPOCRITI. GLI INCHINI E LA FEDE CRIMINALE.

LA VERA STORIA DI CORRADO CARNEVALE ED I MAGISTRATI POLITICIZZATI E PIGRI.

MARCELLO DELL’UTRI. LA VERA STORIA.

LA SICILIA DEGLI SPRECHI.

SPRECHI ESATTORIALI.

MAFIA. CUFFARO E LOMBARDO. LA REGIONE DEGLI ONNIPOTENTI. LA SICILIA COME METAFORA.

TOTO' CUFFARO: "LE MIE PRIGIONI".

LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA. LA "ROBBA" DEI BOSS? COSA NOSTRA...

IL BUSINESS DEI BENI SEQUESTRATI E CONFISCATI.

GIOVANNI FALCONE "ROVINAVA L'ITALIA".

MATTEO MESSINA DENARO: LATITANTE DI STATO?

MAFIA DEMOCRATICA.

MARCO BOVA, I PM E GLI ATTI D'INDAGINE SECRETATI TROVATI IN CASA DELL'INDAGATO.

GIANNI IENNA, MAFIOSO PER FORZA.

USURA ED ESTORSIONE: CONVIENE DENUNCIARE? RISPONDONO LORO. ANTONIO GIANGRANDE. PINO MANIACI E MATTEO VIVIANI DE LE IENE PER I FRATELLI CAVALLOTTI E L'ITALGAS. FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.

EQUITALIA. STROZZINI DI STATO.

MAI DIRE MAFIA. FRANCESCO CAVALLARI E LA SFIDUCIA NEI MAGISTRATI.

E POI PARLIAMO DELL'ILVA.

MAFIA E FALLIMENTI. AZIENDE SANE IN MANO AI TRIBUNALI. GESTIONE CRIMINALE?

IL MARCIO DOVE NON TE LO ASPETTI: NEI TRIBUNALI E NELLO SPORT.

ASSOLTI E CONFISCATI. I CAVALLOTTI: STORIE DI MAFIA O DI INGIUSTIZIA?

MAI DIRE ANTIMAFIA. ROSY CANALE E GLI ALTRI.

LEZIONE DI MAFIA.

PARLIAMO DI MAFIA ED INFORMAZIONE.

LA PUZZA SOTTO IL NASO DELLA POLITICA NAIF. ELEZIONI: GLI IMPRESENTABILI.

LA VERITA’, OLTRAGGIATA, MINACCIATA E SOTTO SCORTA.

MAFIA. SCARANTINO. TORTURATO PER MENTIRE.

LE COLLUSIONI CHE NON TI ASPETTI. AFFINITA' ELETTIVE.

PARLIAMO DEL GEN. C.A. CARLO ALBERTO DALLA CHIESA.

MARIO MORI E LA MAGISTRATURA.

IL VENTO DELLA SECESSIONE GRADITO A COSA NOSTRA ED ALLA MASSONERIA DEVIATA.

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE, MA NON PER TUTTI.

LE PRIMEDONNE DELL’ANTIMAFIA.

TRATTATIVA STATO-MAFIA. PROCESSO ALLO STATO.

AGENDA ROSSA DI BORSELLINO. PROCESSO ALLO STATO: IL PROCESSO MANCATO.

USURA E MAGISTRATURA.

LA MAFIA, COME MAI L'AVETE CONOSCIUTA E CONSIDERATA. LA MAFIA COME MAI L'AVETE STUDIATA.

MAFIOSO A CHI?

ANCHE I GIORNALISTI RUBANO?

PARTINICO. QUANDO I LEGALITARI VIOLANO LA LEGGE.

IL PROBLEMA DELLE CATTIVE FREQUENTAZIONI.

GIUSTIZIA E MAFIA: UNA GRANDE IPOCRISIA. DELL'UTRI: LA MAFIE E’ POTERE.

DIRITTO CERTO E UNIVERSALE. CONTRADDIZIONI DELLA CORTE DI CASSAZIONE: CONCORSO ESTERNO IN ASSOCIAZIONE MAFIOSA, UN REATO CHE ESISTE; ANZI NO!!.

CIANCIMINO: FIGLIO DEL MAFIOSO CHE NON SI FA I CAZZI SUOI.

BORSELLINO, L'ULTIMA VERITÀ.

MAFIA E STATO: DAGLI AMICI MI GUARDI IDDIO, CHE DAI NEMICI MI GUARDO IO. BORSELLINO. UN'ALTRA VERITA'.

PALERMO: MAFIA E POLITICA.

BRUNO CONTRADA E MARIO MORI.

PALERMO: DALLA MASSONERIA ALLA MAFIA.

LE RIVELAZIONI DEI COLLABORATORI DI GIUSTIZIA.

"LO STATO": MAFIOSO, PAVIDO E BUGIARDO.

UNA NUOVA VERITA' SULLE STRAGI MAFIOSE.

IL DIRITTO CHE SI ROVESCIA E GLI INNOCENTI IN CARCERE.

IL PATTO MAFIA-STATO, LE ORIGINI.

PARLIAMO DI MAFIA DENTRO LO STATO.

MAGISTRATI PARTIGIANI.

CASO DE MAGISTRIS: ULTIMA FERMATA, VIA D'AMELIO.

MISTERI DI STATO. MISTERI DI CASA (O COSA) NOSTRA.

C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA: PALERMO, I GIUDICI CANNIBALI.

CASO MAURO DE MAURO.

STORIE DI INGIUSTIZIA.

STORIE DI SPRECHI ED ABUSI.

CONCORSI TRUCCATI.

MALASANITA' E TRUFFE.

PARLIAMO DI AGRIGENTO

TANGENTI E FAVORI.

ACQUA PAZZA.

AGRIGENTO: GLI STAKANOVISTI DELLE COMMISSIONI.

AGRIGENTO: LA CAPITALE DELL'ASSENTEISMO.

AGRIGENTO ED I SUOI EROI: ROSARIO LIVATINO.

AGRIGENTO E LA MASSONERIA.

MAFIA E MASSONERIA.

MAFIA E CHIESA.

LAMPEDUSA, L'ISOLA DEGLI ABUSI.

PORTO EMPEDOCLE. MAI DIRE MAFIA, MAFIOSI E MAFIOSITA'.

PARLIAMO DI CALTANISSETTA

GIUSTIZIA PER MIRKO RUSSO.

MAGISTROPOLI. PROCESSO AI MAGISTRATI.

GELA COME TARANTO. MORTE ANNUNCIATA?

CALTANISSETTA MASSONE.

CALTANISSETTA MAFIOSA.

CALTANISSETTA. LA CITTA’ DEI BOSS BAMBINI.

QUANDO I BUONI TRADISCONO. DI CHI CI SI PUO' FIDARE?

DIPLOMIFICIO.

MAGISTROPOLI. EDI PINATTO: 8 ANNI PER SCRIVERE LE MOTIVAZIONI.

PARLIAMO DI CATANIA

IL RACKET TOGATO. L’OMBRA DEL MONOPOLIO NELLE DIFESE D’UFFICIO.

IL CALCIO TRUCCATO.

NICOLE DI PIETRO E LORIS ANDREA STIVAL: STORIE DI MALASANITA’ E DI MALAGIUSTIZIA?

LA VICENDA MAJORANA.

ABUSI DI POLIZIA. LA STORIA DI PAOLO RINO TORRE.

LA NEGLIGENZA DEI PM. MARIANNA MANDUCA E LE ALTRE O GLI ALTRI.

MAGISTROPOLI. PROCESSO AI MAGISTRATI.

CONCORSI TRUCCATI. PATOLOGICO? NO, FISIOLOGICO!

INTERROGAZIONE PARLAMENTARE CONTRO LA COMMISSIONE DI ESAME DI AVVOCATO.

CATANIA MASSONE.

CATANIA MAFIOSA.

MALAGIUSTIZIA ED IMPUNITA’.

MAGISTROPOLI.

QUANDO I BUONI TRADISCONO. LA VICENDA DI VALENTINA SALAMONE.

FISCO E SPRECHI, OSSIA MALAMMINISTRAZIONE.

CONCORSO TRUCCATO ALL’AGENZIA DELLE ENTRATE.

DAL CONCORSO TRUCCATO AL RAPPORTO TEMPESTOSO TRA CITTADINI E FISCO.

CATANIA, 850 MILIONI DI EURO SPRECATI.

CATANIA: COMUNE AL DISSESTO, MA I DIRIGENTI RICEVONO PREMIO DI UN MILIONE.

CATANIA È TUTTA UN BUCO.

TRUFFOPOLI. TRUFFA AL SERVIZIO SANITARIO, SCOPERTI 21MILA PAZIENTI "MORTI".

PARLIAMO DI ENNA

MAFIOPOLI.

ENNA: MAFIA E MASSONERIA.

MALAGIUSTIZIA.

PARLIAMO DI RAGUSA

LA “SVIZZERA” OMERTOSA DELLA SICILIA.

LE SCHIAVE RUMENE, LA MAGISTRATURA ORBA ED IL SOLITO RAZZISMO DEL NORD PER UN PROBLEMA COMUNE.

GIOVANNI GUARASCIO. MORIRE DI DEBITI O DI ASTE TRUCCATE?

MAFIOPOLI

MAGISTROPOLI

MODICA. PARADISO DEGLI ASSENTEISTI.

PARLIAMO DI SIRACUSA

MALAGIUSTIZIA.

LA MASSONERIA A SIRACUSA.

MASSONERIA E MAFIA.

LA STORIA DELLA MAFIA SIRACUSANA.

GIUSTIZIA: IN CHE MANI SIAMO MESSI.

PARLIAMO DI TRAPANI

LA GUERRA DEI VESCOVI.

PIU' ADDETTI CHE VISITATORI, MA IL MUSEO RESTA CHIUSO.

IL PARADOSSO DELLA BUROCRAZIA. LAVORARE UN MINUTO A SETTIMANA.

TRAPANI, BOSS E MASSONI.

GIUSTIZIA O INGIUSTIZIA? DENISE PIPITONE E PIERA MAGGIO. VITTIME DI UNO STATO MALATO.

STORIE DI INGIUSTIZIA. GIUSEPPE GULOTTA, INNOCENTE IN CARCERE. UNO DEI TANTI.

STORIE DI MALA AMMINISTRAZIONE.

CAMPOBELLO DI MAZARA. LA MAFIA DELL’ANTIMAFIA. 

CALATAFIMI: MAI DIRE ANTICORRUZIONE.

 

 

 

 

II PARTE

 

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

Italiani del Cazzo, sì. Italiani che, anzichè prender a forconate i potenti impuniti, responsabili della deriva italica, per codardia le loro ire le rivolgono a meridionali ed extracomunitari. D’altro canto, per onestà intellettuale, bisogna dire che i meridionali questi strali razzisti se li tirano, perchè nulla fanno per cambiare le loro sorti di popolo occupato ed oppresso dalle forze politiche ed economiche nordiche.

Radio Padania. Radio Vergogna. Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania“, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.

Questa è la mia proposta di riforma costituzionale senza intenti discriminatori.

PRINCIPI COSTITUZIONALI

L'ITALIA E' UNA REPUBBLICA DEMOCRATICA E FEDERALE FONDATA SULLA LIBERTA'. I CITTADINI SONO TUTTI UGUALI E SOLIDALI.

I RAPPORTI TRA CITTADINI E TRA CITTADINI E STATO SONO REGOLATI DA UN NUMERO RAGIONEVOLE DI LEGGI, CHIARE E COERCITIVE.

LE PENE SONO MIRATE AL RISARCIMENTO ED ALLA RIEDUCAZIONE, DA SCONTARE CON LA CONFISCA DEI BENI E CON LAVORI SOCIALMENTE UTILI.

E' LIBERA OGNI ATTIVITA' ECONOMICA, PROFESSIONALE, SOCIALE, CULTURALE E RELIGIOSA. IL SISTEMA SCOLASTICO O UNIVERSITARIO  ASSICURA L'ADEGUATA COMPETENZA. LE SCUOLE O LE UNIVERSITA' SONO RAPPRESENTATE DA UN PRESIDE O UN RETTORE ELETTI DAGLI STUDENTI O DAI GENITORI DEI MINORI. IL PRESIDE O IL RETTORE NOMINA I SUOI COLLABORATORI, RISPONDENDO DELLE LORO AZIONI PRESSO LA COMMISSIONE DI GARANZIA.

LO STATO ASSICURA AI CITTADINI OGNI MEZZO PER UNA VITA DIGNITOSA.

IL LAVORO SUBORDINATO PUBBLICO E PRIVATO E' REMUNERATO SECONDO EFFICIENZA E COMPETENZA. LE COMMISSIONI DISCIPLINARI SONO COMPOSTE DA 2 RAPPRESENTANTI DEI LAVORATORI E PRESIEDUTE DA UN DIRIGENTE PUBBLICO O AZIENDALE.

LO STATO CHIEDE AI CITTADINI IL PAGAMENTO DI UN UNICO TRIBUTO, SECONDO IL SUO FABBISOGNO, SULLA BASE DELLA CONTABILITA' CENTRALIZZATA DESUNTA DAI DATI INCROCIATI FORNITI TELEMATICAMENTE DAI CONTRIBUENTI, CON DEDUZIONI PROPORZIONALI E DETRAZIONI TOTALI. AGLI EVASORI SONO CONFISCATI TUTTI I BENI. LO STATO ASSICURA A REGIONI E COMUNI IL SOSTENTAMENTO E LO SVILUPPO.

E' LIBERA LA PAROLA, CON DIRITTO DI CRITICA, DI CRONACA, D'INFORMARE E DI ESSERE INFORMARTI.

L'ITALIA E' DIVISA IN 30 REGIONI, COMPRENDENTI I COMUNI CHE IVI SI IDENTIFICANO.

IL POTERE E' DEI CITTADINI. IL CITTADINO HA IL POTERE DI AUTOTUTELARE I SUOI DIRITTI.

I SENATORI E I DEPUTATI, IL CAPO DEL GOVERNO, I MAGISTRATI, I DIFENSORI CIVICI SONO ELETTI DAI CITTADINI CON VINCOLO DI MANDATO. ESSI RAPPRESENTANO, AMMINISTRANO, GIUDICANO E DIFENDONO SECONDO IMPARZIALITA', LEGALITA' ED EFFICIENZA IN NOME, PER CONTO E NELL'INTERESSE DEI CITTADINI. ESSI SONO RESPONSABILI DELLE LORO AZIONI E GIUDICATI DA UNA COMMISSIONE DI GARANZIA CENTRALE E REGIONALE.

GLI AMMINISTRATORI PUBBLICI NOMINANO I LORO COLLABORATORI, RISPONDENDONE DEL LORO OPERATO.

LA COMMISSIONE DI GARANZIA, ELETTA DAI CITTADINI, E' COMPOSTA DA UN SENATORE, UN DEPUTATO, UN MAGISTRATO, UN RETTORE, UN DIFENSORE CIVICO CON INCARICO DI PRESIDENTE. LA COMMISSIONE CENTRALE GIUDICA IN SECONDO GRADO E IN MODO ESCLUSIVO I MEMBRI DEL GOVERNO. ESSA GIUDICA, ANCHE, SUI CONTRASTI TRA LEGGI E TRA FUNZIONI.

IL DIFENSORE CIVICO DIFENDE I CITTADINI DA ABUSI OD OMISSIONI AMMINISTRATIVE, GIUDIZIARIE, SANITARIE O DI ALTRE MATERIE DI INTERESSE PUBBLICO. IL DIFENSORE CIVICO E' ELETTO IN OCCASIONE DELLE ELEZIONI DEL PARLAMENTO, DEL CONSIGLIO REGIONALE E DEL CONSIGLIO COMUNALE.

I 150 SENATORI SONO ELETTI PROPORZIONALMENTE, CON LISTE REGIONALI, TRA I MAGISTRATI, GLI AVVOCATI, I PROFESSORI UNIVERSITARI, I MEDICI, I GIORNALISTI.

I 300 DEPUTATI SONO ELETTI, CON LISTE REGIONALI, TRA I RESTANTI RAPPRESENTANTI LA SOCIETA' CIVILE.

IL PARLAMENTO VOTA E PROMULGA LE LEGGI PROPOSITIVE E ABROGATIVE PROPOSTE DAL GOVERNO, DA UNO O PIÙ PARLAMENTARI, DA UNA REGIONE, DA UN COMITATO DI CITTADINI. IL GOVERNO, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANA I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE FEDERALE. LE REGIONI, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANANO I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE REGIONALE.

LA PRESENTE COSTITUZIONE SI MODIFICA CON I 2/3 DEL VOTO DELL’ASSEMBLEA PLENARIA, COMPOSTA DAI MEMBRI DEL PARLAMENTO, DEL GOVERNO E DAI PRESIDENTI DELLE GIUNTE E DEI CONSIGLI REGIONALI. ESSA E' CONVOCATA E PRESIEDUTA DAL PRESIDENTE DEL SENATO.

Invece c'è chi vuole solamente i meridionali: föra,o foeura, di ball.

L'Indipendentismo padano, da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La bandiera della Padania proposta dalla Lega Nord, con al centro il Sole delle Alpi. L'indipendentismo padano o secessionismo padano è un'ideologia politica nata negli anni novanta del XX secolo e promossa storicamente dal partito politico Lega Nord, che cita testualmente nel proprio statuto l'indipendenza della Padania. L'ideologia è stata sostenuta o è sostenuta anche da altri partiti, come la Lega Padana, alternativa alla Lega Nord, da essi considerata filo-romana, e da figure, afferenti nella loro storia politica alla Lega Nord, come lo scrittore Gilberto Oneto, il politologo Gianfranco Miglio e Giancarlo Pagliarini. La Padania per alcuni geografi economici di inizio Novecento, corrispondeva al territorio italiano sito a nord degli Appennini. Gli indipendentisti padani di fine Novecento affermano che un territorio comprensivo di gran parte dell'Italia settentrionale (la Lega Padana teorizza una Padania formata da quattro nazioni: Subalpina, Lombarda, Serenissima e Cispadana) o centro-settentrionale (la Lega Nord estende più a sud tale confine), di estensione territoriale differentemente definita dai partiti stessi, e da essi stessi ribattezzato "Padania" (toponimo sinonimo di val padana, la valle del fiume Po, in latino Padus), sarebbe abitato da popoli distinti per lingua, usi, costumi e storia, chiamati nazioni della Padania e riconducibili, nelle loro differenze, a un unico popolo padano e che sarebbero stati resi partecipi contro la loro volontà del Risorgimento e, conseguentemente, dello Stato italiano; pertanto propugnano la secessione di queste nazioni dalla Repubblica Italiana e la creazione di una repubblica federale della Padania rispettosa delle peculiarità di ciascuna di esse. A fronte di alcuni geografi che ad inizio XX secolo solevano dividere il Regno d'Italia in Padania ed Appenninia, sino agli anni ottanta il termine Padania era principalmente usato con significato geografico per la pianura Padana, ma anche con accezione poetica, come dimostra l'opera dello scrittore Gianni Brera e nell'ambito di studi linguistici ed etnolinguistici nonché socio-economici. Il termine acquisisce, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, un significato politico - ovverosia comincia a essere utilizzato per indicare la Padania come, a seconda delle posizioni, reale o pretesa entità politica -, grazie al suo utilizzo costante da parte degli esponenti e dei simpatizzanti del partito politico Lega Nord, nato il 22 novembre 1989 dall'unione di vari partiti autonomisti dell'Italia settentrionale originatesi nel decennio precedente, tra i quali la Lega Lombarda, fondata il 10 marzo 1982 da Umberto Bossi, che diviene guida del nuovo movimento politico. Grazie al successo politico del partito e ai mezzi di comunicazione di massa, tale accezione politica del termine è entrata da allora a far parte della lingua corrente e del dibattito politico. La Lega propose inizialmente un'unione federativa della macro-regione Padania, dotata di autonomia, con le restanti parti dello Stato italiano, come forma di riconoscimento e tutela delle peculiarità etnico-linguistiche delle nazioni della Padania. Fallito il progetto e raggiunto un successo elettorale considerevole promosse il concetto di secessione della Padania dall'Italia, proclamata il 15 settembre 1996 a Venezia. La secessione è stata, successivamente al Congresso di Varese, messa parzialmente da parte a favore della Devoluzione, ovverosia del trasferimento di parte significativa delle competenze legislative e amministrative dallo Stato centrale alle regioni, e del federalismo fiscale. Una prima riforma della costituzione verso una maggiore autonomia delle regioni è stata approvata nel 2001. Una seconda riforma sempre in questo senso del 2005 è stata invece bocciata con il referendum costituzionale del 2006.

« Noi, popoli della Padania, solennemente proclamiamo: la Padania è una Repubblica federale indipendente e sovrana. Noi offriamo, gli uni agli altri, a scambievole pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore.» (Umberto Bossi, dichiarazione d'indipendenza della Padania, 15 settembre 1996)

Il 15 settembre 1996 a Venezia, nel corso di una manifestazione della Lega Nord, Umberto Bossi ha proclamato, al culmine della politica secessionista del partito, l'indizione di un referendum per l'indipendenza della Padania e ha battezzato il nuovo soggetto istituzionale con il nome di Repubblica Federale della Padania. Il 25 maggio 1997 si è svolto il "Referendum per l'Indipendenza della Padania". Oltre al SI/NO per il referendum, si è votato anche per il Presidente del "Governo Provvisorio della Repubblica Federale della Padania" e per sei disegni di legge di iniziativa popolare da presentare al Parlamento italiano. La Lega Nord ha predisposto i seggi elettorali in tutti i Comuni della supposta Padania. La Repubblica Federale della Padania non è stata mai riconosciuta formalmente da alcuno stato sovrano, né dalle altre forze politiche italiane. L'unico supporto in tal senso è venuto dal partito svizzero della Lega dei Ticinesi. In seguito alla dichiarazione d'indipendenza furono avviate delle inchieste giudiziarie a Venezia, Verona, Torino, Mantova e Pordenone per attentato all'unità dello stato, poi archiviate, e si ebbero scontri tra forze dell'ordine e militanti leghisti in Via Bellerio a Milano, sede della Lega Nord. Per quanto la dichiarazione di secessione non abbia comportato la reale separazione della Padania dall'Italia, la Lega Nord ha da allora promosso e continua a promuovere attivamente la concezione della Padania come entità politica attraverso la creazione e il mantenimento di strutture e organi rappresentativi delle Nazioni della Padania nonché attraverso la promozione di iniziative sportive e sociali di carattere indipendentista o quantomeno autonomista: ha costituito un Governo padano con un proprio parlamento, ha designato Milano capitale della Padania, il Va, pensiero di Giuseppe Verdi suo inno ufficiale, il Sole delle Alpi verde in campo bianco sua bandiera ufficiale, il verde come colore nazionale, ha creato le lire padane e i francobolli padani, una propria Guardia Nazionale, un proprio ente sportivo riconosciuto nel CONI sport Padania e, come organi di stampa ufficiali, il quotidiano La Padania, il settimanale Il Sole delle Alpi, l'emittente radiofonica Radio Padania Libera e l'emittente televisiva TelePadania. Vi fu anche la formazione spontanea, tra i militanti leghisti, delle cosiddette camicie verdi. La Lega Nord ha anche creato una Nazionale di calcio della Padania, non riconosciuta né a livello italiano, né a livello internazionale. Questa selezione Padana ha vinto per 3 volte consecutive il mondiale per le nazioni non riconosciute, la VIVA World Cup, battendo la selezione del Samiland (2008), quella del Kurdistan (2009) e quella della Lapponia (2010). Inoltre il partito padano sponsorizza il concorso di bellezza Miss Padania, aperto a tutte le giovani donne residenti in una regione della Padania da almeno 10 anni consecutivi e di età compresa tra i 17 e i 28 anni. Tra i requisiti necessari per partecipare al concorso vi è anche l'obbligo di non rilasciare dichiarazioni non in linea con gli ideali dei movimenti che promuovono la Padania. Nel 2009 la Lega Nord, in particolare tramite Umberto Bossi, promosse la realizzazione del film storico Barbarossa, coprodotto dalla Rai. Il film, incentrato sulle vicende della Lega Lombarda nel XII secolo, non ebbe buon riscontro né di critica né di pubblico. Il 2011 ha visto la prima edizione dell'evento ciclistico Giro di Padania. Il 26 ottobre 1997 la Lega Nord organizzò le prime elezioni per i 210 seggi del Parlamento Padano. Circa 4 milioni di Italiani residenti nelle regioni settentrionali, 6 secondo il Partito, si recarono ai seggi e scelsero tra diversi partiti padani. Il Parlamento della Padania, creato nel 1996 e oggi denominato Parlamento del Nord, ha sede nella Villa Bonin Maestrallo di Vicenza, che ha sostituito l'originale sede a Bagnolo San Vito in Provincia di Mantova. Si affianca al Governo della Padania, con sede a Venezia, che, storicamente, è stato guidato prima da Giancarlo Pagliarini (1996-97), da Roberto Maroni (1997-98), da Manuela Dal Lago (1998-99) ed è attualmente guidato da Mario Borghezio (dal 1999). Nell'esecutivo presieduto da Pagliarini, Fabrizio Comencini era Ministro degli esteri, subito dimessosi fu sostituito da Enrico Cavaliere, Giovanni Fabris della Giustizia, Alberto Brambilla del Bilancio e Giovanni Robusti, capo dei Cobas del latte, dell'Agricoltura. Nel governo presieduto da Maroni, il cui vice era Vito Gnutti, è stato introdotto un Ministero dell'Immigrazione, presieduto da Farouk Ramadan. L'esecutivo guidato da Manuela Dal Lago comprendeva Giancarlo Pagliarini come vice presidente e Ministro dell'Economia, Giovanni Fabris alla Giustizia, Alessandra Guerra agli Esteri, Flavio Rodeghiero alla Cultura e all'Istruzione, Giovanni Robusti all'Agricoltura, Roberto Castelli ai Trasporti, Francesco Formenti all'Ambiente, Sonia Viale agli Affari Sociali e della Famiglia, Alfredo Pollini, presidente della Guardia Nazionale Padana, alla Protezione Civile, Francesco Tirelli, del CONI sport Padania, allo Sport e Roberto Faustinelli, presidente di Eridiana Records, allo Spettacolo. Secondo l'art. 2 dello Statuto 2012, la Lega Nord considera il Movimento come una Confederazione delle Sezioni delle seguenti Nazioni: La Lega afferma dunque che il progetto della Padania comprende tutte le otto regioni dell'Italia settentrionale più le regioni dell'Italia centrale Toscana, Umbria e Marche, mentre al 2011 la sua attività si è estesa anche in Abruzzo e Sardegna. Il territorio rivendicato dalla Lega Nord come costituente la Padania comprende 160.908 km² di Italia, ossia il 53,39% del territorio dell'Italia (di 301.340 km²) e il 56,15% della sua popolazione (vedere tabella sottostante). Le rivendicazioni politiche padane ricomprendono quindi un territorio maggiore di quello riconducibile al significato geografico del termine Padania, che è geograficamente riferito alla sola Pianura Padana. La linea apertamente secessionista fatta propria dalla Lega Nord portò, tra il 1996 e il 2000, a un isolamento del movimento nel panorama politico italiano, col risultato che, nelle zone dove il radicamento leghista era minore, i suoi candidati alle elezioni amministrative erano nettamente svantaggiati rispetto a quelli di centrodestra e di centrosinistra, generalmente appoggiati da più liste. Per cercare di rimediare a questa situazione, nel settembre del 1998 Bossi lanciò il cosiddetto Blocco padano, una coalizione formata dalla Lega Nord con diverse liste in rappresentanza di varie categorie sociali e produttive del territorio. Già alle elezioni amministrative dell'aprile 1997 altre liste che si richiamavano apertamente all'indipendentismo avevano affiancato la Lega Nord: Agricoltura padana; Lavoratori padani; Padania pensione sicura; Non chiudiamo per tasse! - Artigianato, commercio, industria. Il risultato di queste liste fu complessivamente molto modesto, e nella maggior parte dei casi esse non riuscirono a portare i candidati leghisti al ballottaggio. Le ultime tre liste ottennero complessivamente l'1,1% al comune di Milano e lo 0,8% al comune di Torino. L'Agricoltura padana ebbe l'1,9% alla provincia di Pavia e i Lavoratori padani lo 0,9% alla provincia di Mantova. Un risultato di un certo rilievo fu però ottenuto dai Lavoratori padani nell'autunno dello stesso anno al comune di Alessandria, dove con il 4,4% contribuirono alla rielezione del sindaco uscente Francesca Calvo ed ebbero diritto a tre consiglieri. Nel 1998 il Blocco padano, di cui il coordinatore doveva essere il parlamentare europeo ed ex sindaco di Milano Marco Formentini, fu annunciato come costituito fondamentalmente da cinque partiti, oltre alla Lega: Terra (evoluzione di Agricoltura padana, con a capo Giovanni Robusti, portavoce dei Cobas del latte); Lavoratori padani; Pensionati padani (evoluzione di Padania pensione sicura, con a capo Roberto Bernardelli); Imprenditori padani (evoluzione di Non chiudiamo per tasse!); Cattolici padani (già presentatosi alle elezioni per il Parlamento della Padania del 1997, con a capo Giuseppe Leoni). A questi si unirono a seconda dei casi anche liste civiche di portata locale, che talvolta ebbero maggior fortuna: a Udine Sergio Cecotti raggiunse il ballottaggio e fu poi eletto sindaco grazie all'apporto di due liste civiche, senza che i partiti "regolari" del Blocco padano fossero presenti. La coalizione nel suo complesso risentì del calo di consensi generalizzato subito dalla Lega Nord, tanto che dopo il 1999 non fu più ripresentata se non in maniera sporadica, anche perché la Lega Nord, entrando a pieno titolo nella Casa delle Libertà, trovò alleati di maggiore consistenza elettorale.

Lega secessionista: ora vuole il Veneto indipendente, scrive "Globalist". L'1 e il 2 marzo 2014 i gazebo per la raccolta firme. Dopo oltre vent'anni di lotta per la Padania, ancora in Italia, ora il Carroccio riparte dal Nord Est. Che la voglia di secessione della Lega non si sia mai placata, è cosa nota. A volte viene messa da parte, per lasciare spazio ad altre battaglie come quella contro l'euro o contro lo ius soli, ma comunque è sempre lì, appesa alla mente del segretario Matteo Salvini e dei suoi compagni. E così ogni tanto torna a galla, come in questi giorni. E se tutto il Nord non si può staccare, almeno ci si può provare con una sua parte. Come il Veneto, ad esempio. "La Lega corre, la Lega c'è. La voglia d'indipendenza è tanta, sia da Roma, sia da Bruxelles" ha detto Salvini, intervendo a Verona con i vertici regionali del Carroccio per presentare la raccolta firme per il referendum per l'indipendenza del Veneto, che si terrà sabato e domenica in tutta la regione. "L'indipendenza da Bruxelles - ha aggiunto - è necessaria perchè fuori dall'euro riparte la speranza, riparte il lavoro, ripartono gli stipendi. L'indipendenza da Roma perchè sostanzialmente l'Italia ormai è un Paese fallito". Ogni anno, è la considerazione del segretario, "il Veneto regala 21 miliardi allo stato italiano ricevendo in cambio servizi da poco o niente". Dopo oltre 20 anni di tentativi secessionisti, dunque, la Lega riparte dal Nord-Est. Perché magari, potrebbe essere il pensiero, l'indipendenza si può ottenere a piccoli passi visto che la Padania, nonostante il loro impegno, continua a restare in Italia. "I veneti sono uniti da una lingua e da una cultura e hanno diritto alla propria autodeterminazione - ha detto la senatrice leghista, Emanuela Munerato -. Solo compatti e votando sì a questo referendum potremo fare scuola e aprire la strada anche alle altre regioni decretando l'inizio della fine del centralismo romano che sta uccidendo la nostra cultura e la nostra economia".

Non solo legisti.....

Grillo chiama gli italiani alla secessione. Sul suo blog il comico contro «l'arlecchinata» dei mille popoli, scrive Barbara Ciolli “Lettera 43”. Altro che Lega Nord, anche Beppe Grillo, leader del Movimento 5 Stelle, archiviate le espulsioni dal partito, grida alla secessione. Peggio ancora, al big bang, all'«effetto domino di un castello di carta», alla diaspora dei mille «popoli, lingue e tradizioni che non hanno più alcuna ragione di stare insieme» e «non possono essere gestiti da Roma». «Un'arlecchinata» bella e buona, a detta del comico ligure che ha postato sul suo blog l'ennesima e forse maggiore provocazione: «E se domani l'Italia si dividesse, alla fine di questa storia, iniziata nel 1861, funestata dalla partecipazione a due guerre mondiali e a guerre coloniali di ogni tipo, dalla Libia all'Etiopia» scrive il Beppe, suo malgrado, nazionale, parafrasando ironicamente - e populisticamente - la canzone di Mina? Sotto, il testo apparso l'8 marzo 2014 in Rete: «Italia, incubo dove la democrazia è scomparsa. Non può essere gestita da Roma». «Quella iniziata nel 1861 è una storia brutale, la cui memoria non ci porta a gonfiare il petto, ma ad abbassare la testa. Percorsa da atti terroristici inauditi per una democrazia assistiti premurosamente dai servizi deviati (?) dello Stato. Quale Stato? La parola "Stato" di fronte alla quale ci si alzava in piedi e si salutava la bandiera è diventata un ignobile raccoglitore di interessi privati gestito dalle maitresse dei partiti. E se domani, quello che ci ostiniamo a chiamare Italia e che neppure più alle partite della Nazionale ci unisce in un sogno, in una speranza, in una qualunque maledetta cosa che ci spinga a condividere questo territorio che si allunga nel Mediterraneo, ci apparisse per quello che è diventata, un'arlecchinata di popoli, di lingue, di tradizioni che non ha più alcuna ragione di stare insieme? La Bosnia è appena al di là del mare Adriatico. Gli echi della sua guerra civile non si sono ancora spenti. E se domani i Veneti, i Friulani, i Triestini, i Siciliani, i Sardi, i Lombardi non sentissero più alcuna necessità di rimanere all'interno di un incubo dove la democrazia è scomparsa, un signore di novant'anni decide le sorti della Nazione e un imbarazzante venditore pentole si atteggia a presidente del Consiglio, massacrata di tasse, di burocrazia che ti spinge a fuggire all'estero o a suicidarti, senza sovranità monetaria, territoriale, fiscale, con le imprese che muoiono come mosche. E se domani, invece di emigrare all'estero come hanno fatto i giovani laureati e diplomati a centinaia di migliaia in questi anni o di "delocalizzare" le imprese a migliaia, qualcuno si stancasse e dicesse "Basta!" con questa Italia, al Sud come al Nord? Ci sarebbe un effetto domino. Il castello di carte costruito su infinite leggi e istituzioni chiamato Italia scomparirebbe. È ormai chiaro che l'Italia non può essere gestita da Roma da partiti autoreferenziali e inconcludenti. Le regioni attuali sono solo fumo negli occhi, poltronifici, uso e abuso di soldi pubblici che sfuggono al controllo del cittadino. Una pura rappresentazione senza significato. Per far funzionare l'Italia è necessario decentralizzare poteri e funzioni a livello di macroregioni, recuperando l'identità di Stati millenari, come la Repubblica di Venezia o il Regno delle due Sicilie. E se domani fosse troppo tardi? Se ci fosse un referendum per l'annessione della Lombardia alla Svizzera, dell'autonomia della Sardegna o del congiungimento della Valle d'Aosta e dell'Alto Adige alla Francia e all'Austria? Ci sarebbe un plebiscito per andarsene. E se domani...» Si attendono reazioni.

ADDIO AL SUD.

"Addio al sud" di Angelo Mellone, scrive Paolo Tripaldi su “Il Corriere Romano”. Verrà un giorno in cui tutti i meridionali d'Italia, sparsi un po' ovunque, faranno rientro in patria per sconfiggere definitivamente tutti i mali che hanno affossato per anni il Sud. "Addio al Sud", poema dello scrittore tarantino Angelo Mellone, non è una resa bensì una voglia di rinascita, una chiamata alle armi contro il Sud malato e incapace di riscatto. Un poema che parla al cuore e allo stomaco di ogni meridionale e che cerca di farla finita con ogni stereotipo, con il piangersi addosso e con il  pensare che le colpe siano sempre degli altri. "Il punto di vista di questa voce narrante - scrive Andrea Di Consoli nella prefazione di Addio al Sud - è il punto di vista di chi è scampato a un naufragio, cioè di chi, senza sapere bene da cosa, si è salvato da un male ineffabile". Mellone ci ricorda però che anche se lontani il Sud continua a chiamare: "Tu, chiunque sarai, i vestiti e i profumi e l'accento che saprai sfoggiare, sempre da lì vieni. Da lì. Lì dove la salsedine non dà tregua e l'umido fa sudare d'inverno e sconfigge qualsiasi acconciatura  e il sole, quando c'è, e si fa tramonto, ti uccide di bellezza". Lo sapeva bene Leonida di Taranto, poeta del III secolo a.c., che aveva scelto l'esilio dalla propria patria per non essere schiavo dei romani e che aveva scritto in un suo celebre epitaffio: "riposo molto lontano dalla terra d'Italia e di Taranto mia Patria e ciò m'è più amaro della morte". L'Addio al Sud di Angelo Mellone è un addio ai mali del meridione: alla criminalità, all'assistenzialismo, alla industrializzazione  selvaggia che ha inquinato i territori, al nuovo fenomeno del turismo predatorio. E' un invito anche ad abbandonare il 'pensiero meridiano'  del sociologo Franco Cassano. "Smettiamola con la follia del pensiero meridiano - scrive Mellone - questa scemenza dell'attesa, dell'andare lento, della modernità differente, della sobrietà della decrescita", tutte scusanti "al difetto meridionale dell'amor fati". Mellone passa in rassegna tutti gli episodi che negli ultimi anni hanno affossato ancora di più il Sud: il fenomeno del caporalato, i fatti di Villa Literno, gli omicidi di camorra. Il racconto ci consegna immagini di una sottocultura del sud che partendo dall'omicidio di Avetrana giunge fino ai fenomeni populisti di Luigi de Magistris e Nichi Vendola. "Voglio tornare a Sud a fare la guerra - scrive Angelo Mellone - senza quartiere, senza paese, senza tregua, senza compromessi, con le micce del carbonaro di patria folle, con le ruspe spianando strade a un esercito che si tiene per mano, con la sola divisa dipinta dell'amore infedele che testardamente continui ad amare”. Addio al Sud, che nel sottotitolo e’ chiamato “un comizio furioso del disamore”, è in realtà un atto d’amore per una terra che è sempre nel centro del cuore.

Perché è impossibile dire addio al Sud. Il Meridione ha ancora la forza per rialzarsi, scrive Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”. Di Sud, in Italia, si parla tanto e si ragiona poco. E così le domande che si ponevano i grandi meridionalisti - i Cuoco, i Salvemini, i Fortunato - da decenni restano senza risposta: perché il Meridione italiano, terra di assoluta bellezza e di immense potenzialità, continua a galleggiare nel sottosviluppo e non impedire che i suoi figli migliori, quelli che Piercamillo Falasca ha definito «Terroni 2.0», facciano la valigia per emigrare (anche con un pizzico di risentimento)? A questa domanda prova a rispondere un poema civile scritto da Angelo Mellone, Addio al Sud, definito nel sottotitolo «un comizio furioso del disamore» (Irradiazioni, pp. 80, 8, prefazione di Andrea Di Consoli), una sorta di orazione civile tecno-pop congegnata come reading teatrale. Mellone ribalta due cliché dominanti. Il primo è quello del brigantaggio: qui l'autore trova il coraggio, da meridionale, di ammettere - in quanto «fottuto nazionalista» - che avrebbe scelto di arruolarsi con l'esercito italiano per combattere i Carmine Crocco e i Ninco Nanco, per «piantare tricolori su antiche maledizioni». Il secondo oggetto polemico di Addio al Sud è il nuovo meridionalismo, ovvero quel «pensiero meridiano» - sostenuto, ad esempio, dal sociologo Franco Cassano - che vorrebbe un Sud lento, sobrio, canicolare, che cammina a piedi e ammicca al mito della decrescita o all'idea del Meridione italiano come avanguardia di un'improbabile «alternativa allo sviluppo». Al contrario, il Sud di Mellone anela alla velocità, alla modernità, sia pure a una modernità intrisa di miti antichi e di antichi caratteri comunitari. Scrive Di Consoli nella prefazione: «Questo poema è, in definitiva, una dolorosa "possibilità di prendere congedo", ma è anche una possibilità della rifondazione di un patto "oscuro", ancestrale, e che dunque può essere tramandato nei tempi come accade in tutte le comunità che hanno conosciuto la diaspora, o il suo fantasma». Mellone infatti non sigla una lettera di abbandono dall'identità meridionale, ma rilancia la sfida immaginando che il Sud migliore - emigrato ovunque negli ultimi anni - a un certo punto decida di tornare a casa. In quel momento, dice l'autore, il Sud potrà finalmente essere salutato:

«Finita la guerra prenderò congedo

e solo allora dirò a mia figlia

e solo allora dirò a mio figlio:

tu questo sei.

Anche tu porti cenere, ulivo e salsedine.

Adesso anche tu vieni da Sud».

Quasi un congedo militare, anche se "i fuoriusciti" e i figli saranno chiamati, allorquando terminerà la fatica di Sisifo dell'eterno rientro - che è quasi un giorno d'attesa biblica - a una guerra civile contro il male del Sud: il fatalismo, il degrado, l'incuria del territorio, la dissoluzione del legame sociale, l'accettazione di un modello predatorio di turismo che rischia di distruggere nel breve periodo le bellezze meridionali. Difficile da argomentare, ma questo testo è un "addio" ed è anche un foglio di chiamate alle armi, e in questa contraddizione c'è tutta la modernità della posizione ineffettuale, e dunque estetizzante, di Mellone, che alla maniera di Pasolini si considera, rispetto al Sud, «con lui e contro di lui». Il suo è un appassionato "addio" al Mezzogiorno del rancore, della malavita, dell'inciviltà, della subcultura televisiva. È però anche un disperato e struggente ricordo di una giovinezza meridionale, al cui centro c'è Taranto, della quale Mellone ricorda le icone (il calciatore Erasmo Jacovone), le tragedie (l'Ilva, la mattanza criminale degli anni '80), gli aspetti più "privati" (la prematura morte del padre, la vendita della casa di famiglia). La narrazione scorre per icone, fotogrammi, eventi: dal delitto di Avetrana al matrimonio di Sofia Coppola, dai nuovi populismi (Vendola, de Magistris) alla camorra, dal caso Claps alla piaga del caporalato, Mellone attraversa e scandaglia con straordinaria velocità, e con alternarsi di registro basso e alto, l'immaginario contemporaneo collettivo del Meridione. Scrive per esempio su Sarah Scazzi: «Prendete tutta questa pornografia dell'incubo d'amore simboleggiata dallo scarto incolmabile tra il viso di Sarah Scazzi e il piercing, ripeto: il piercing, della cugina culona Sabrina Misseri di anni venti e due che forse a Taranto e nemmeno a Lecce sarà mai andata ma a Uomini e donne ha conosciuto il piercing che al padre dovrà essere parso roba da bestie all'aratro e non da esseri umani oggi le borgate di Pasolini sono i paesi del Sud in entroterra come Avetrana, tuguri dischiusi al mondo solo grazie all'antenna parabolica». Pugliese trapiantato a Roma, giornalista, scrittore, ora dirigente Rai, Angelo Mellone fa parte di quella generazione nata nei primi anni ’70 che da un giorno all’altro si sono ritrovati senza luoghi del dibattere e del confronto. Caduti i muri e le cortine, con essi sono crollati anche le sezioni e i partiti, luoghi simbolo del confronto e della sfida dialettica. E per chi aveva qualcosa da dire o da scrivere la strada è improvvisamente diventata ripida e scoscesa. Ma impegno e determinazione premiano sempre e se i luoghi non esistono, chi vuol farcela se li crea. La notorietà raggiunta nella capitale non gli ha fatto dimenticare le origini pugliesi, tarantine per la precisione. Una città che negli ultimi anni è balzata agli onori delle cronache prima per un tremendo dissesto di bilancio, poi per una sconsiderata gestione degli impianti industriali presenti sul territorio. E per dimostrare l’amore a l’attaccamento alla sua terra, Mellone ha ideato e messo in scena due monologhi poetici che andranno a far parte di una trilogia dedicata a Taranto: “Addio al Sud” e “Acciaiomare”. Quest’ultimo in particolare è una lunga requisitoria, (J’accuse!, direbbe Zola) nei confronti di un lembo di terra che oltre ad avergli offerto la vita lo ha costretto troppo presto a fare i conti con la morte. Ma quello scritto e cantato per la città di Taranto rimanendo pur sempre un eroico canto d’amore. «Acciaiomare. Il canto dell’industria che muore» (Marsilio Editore), tributo di amore e rabbia verso la propria terra martoriata. Un racconto impetuoso e rutilante, dedicato ai 500 caduti del siderurgico di Taranto, che diventa anche l’occasione per un reading teatrale che, mescolando parole, musica, immagini e rumori industriali, alza il sipario sull’industria morente del Sud che ha nell’ILVA il suo occhio del ciclone. Con lui sul palco, Raffaella Zappalà, Dj set Andrea Borgnino e Video di Marco Zampetti. Dopo il successo di «Addio al Sud. Un comizio furioso del disamore», Angelo Mellone scrive il secondo capitolo di una trilogia sulla sua terra, sempre nella forma di monologo poetico, di comizio civile e lirico. «AcciaioMare» è, in particolare, un canto funebre e peana d’amore, ma anche requisitoria e arringa al tempo stesso, invettiva ed engagez-vous, per un Sud e per una città (Taranto) al centro di uno dei più grandi casi economico-industriali al mondo. Mellone, in un caleidoscopio di immagini e ricordi, di luoghi e persone, di visioni ed emozioni, «scioglie all’urna un cantico» che ha la rabbia di una rivendicazione e l’amore di un figlio, il respiro della planata e la precisione del colpo secco. Perché "acciaio" a Taranto vuol dire tante, troppe cose, per chi ci vive e per chi da lì proviene. Lo scrittore (anche giornalista e dirigente di Radio Rai) concluderà la sua trilogia nel 2014, ma questo suo secondo lavoro è senz’altro quello più «doloroso»: con queste pagine Mellone si augura, infatti, di risvegliare «un minimo di coscienza» sul dramma del declino industriale italiano, nell’illusione di trasformare il Belpaese in una nazione di terziario avanzato, dimenticando così la Fabbrica e gli operai. Ma ora quei 500 e più eroi e martiri dell’acciaio (tra i quali c’è anche il papà di Mellone) hanno grazie a questo libro il loro "canto corale" e un sentito risarcimento alla loro memoria. Pagine toccanti dedicate soprattutto a suo padre, che Mellone accende di passione e rabbia, laddove racconta «di quando acciaio chiamava mare e su questa costa di Sparta nasceva l’industria della navi d’Impero e dei toraci siderurgici. Voglio raccontarti una storia d’amore. D’amore che muore». Così, che lo scorso mese d’agosto 2013 Mellone prese subito le difese «di un orgoglio siderurgico impacchettato in fretta e furia» per far posto «all’ondata ambientalqualunquista». E trasfromò le sue vacanze in un’indagine del suo passato. C’era una volta un ragazzino che quando a pranzo c’erano fave e cicoria restava digiuno. Sua madre voleva a tutti costi che le mangiasse, altrimenti pancia vuota. Oggi quel ragazzino mangerebbe tutti i giorni a pranzo e a cena il piatto principe della cucina pugliese. Che cosa è cambiato? Del piatto nulla, solo che allora gli era imposto oggi è una libera scelta.

Il vero Sud lo riscopri solo dal finestrino del treno. "Meridione a rotaia". Angelo Mellone conclude la sua trilogia lirica sul Meridione italiano, giungendo anche all’ultima fermata di un viaggio che è un canto appassionato e dolente, ma al tempo stesso un grido di rabbia, per la sua terra. Un ritorno nella propria terra, che è stata abbandonata anni prima con rabbia. Un ritorno a Meridione, compiuto con il mezzo che più associamo al viaggio: il treno. Sui treni sono partiti i primi emigrati meridionali, sulle carrozze di treni locali scassati, regionali in perenne ritardo, Intercity improbabili, l’Autore fa macchina indietro e, da Roma, arriva a Taranto. In mezzo a partenza e arrivo si alternano situazioni grottesche, aneddoti, ricordi, memorie dolorose, persino una pagina dedicata ai fanti meridionali mandati al massacro nella Prima guerra mondiale. Tutte queste pagine, che Mellone ci regala con lo stile consueto delle sue “orazioni civile”, accostano il tema tradizionale del ritorno a quello, nuovo per l’autore, di una riflessione sull’amore, che viaggia a ritroso attraverso due figure femminili e una singolare disquisizione sui tacchi... E dunque, se l’amore è contesto, radici, terra, e «Meridione tiene sempre i piedi per terra», per trovare amore autentico a Sud bisogna tornare. E questo fa, Meridione a rotaia, nelle scorribande tra paesini, locomotori diesel, vagoni stipati di varia umanità, stazioni metropolitane e stazioncine di montagna. Offrendo, alla fine, un affresco di meridionalità divertente, surreale, commuovente. Un tempo si tornava in rotaia per restare, oggi per ripartire. Ma il lento viaggio verso casa porta alle radici e invita a trovare la propria strada, scrive Giuseppe De Bellis su "Il Giornale". I treni che vanno a Sud sono diversi. D'aspetto, d'odore, d'umore. Non hanno niente di professionale. Non hanno cravatte e collane di perle. Il professionista che dal Nord sale su un treno verso casa, la vecchia casa del padre, è come Clark Kent che toglie l'abito di Superman. Via il vestito da lavoro nobile, su quello dell'essere umano così com'è. Perché è un viaggio nell'anima, quello che si sta per fare. È incredibile quanto il ritorno a Sud sia ancora nel 2014 legato al treno. Controintuitivo e persino antistorico. Da Milano a Bari ci vogliono più di otto ore, contro un'ora e un quarto d'aereo. Da Roma a Reggio Calabria, sei ore di treno contro le... Eppure chi è del Sud sa che in una conversazione con un altro meridionale arriverà a questo punto. - «Sai che “vado giù?”? Solo sabato e domenica». - «Come, ti fai tutto quel viaggio in treno per stare solo due giorni?». Il viaggio in treno è dato per scontato, perché ancestralmente è ormai sinonimo di trasferimento Nord-Sud. Puoi «salire» come vuoi, ma sembra che tu debba sempre «scendere» in treno. Perché è ricordo, memoria, passato che torna, è emigrazione e immigrazione. Noi terroni siamo legati alla ferrovia anche al di là della nostra volontà. Angelo Mellone lo sa perché appartiene alla categoria: professionista meridionale che per obbligo, passione e capacità è stato costretto a lasciare casa e andare verso Nord. Ha portato la testa e il corpo a Roma, ha mantenuto l'anima a Taranto. È uno degli intellettuali sudisti che meglio ha raccontato in questi ultimi anni la nuova questione meridionale, espressione tanto abusata quanto inevitabile. Lo fa anche ora, con il suo Meridione a rotaia (Marsilio, pagg. 92, euro 10), che chiude quella che lui stesso ha definito «trilogia delle radici». Il treno è il mezzo per tornare e tornando raccontare che cos'è il Sud e soprattutto com'è il rapporto tra quelle radici e chi le ha dovute lasciare superficialmente e poi scopre di avercele comunque attaccate al corpo e allo spirito: «Noi meridionali siamo fatti così. Amiamo la terra che abbiamo abbandonato quando la lasciamo, e la odiamo se ci costringe a restare o ci rende impossibile partire. In questo ha ragione Mario Desiati: la letteratura presuppone sempre una partenza. Un momento di straniamento, un distacco, una mancanza. Nel mio caso un'irrequietezza che è tutto il mio riassunto di meridionale atipico, innamorato di una terra ma distante, antropologicamente, dall'“andare lento” meridionalista. Preferisco viaggiare, consumare suole e bruciare le radici che poi voglio conservare. In questo sentimento pendolare sta il senso di Meridione a rotaia. Che è, a suo modo, un ritorno. Un viaggio a ritroso trasognato, surreale, infelice, virile, spavaldo, intimista, appresso alla memoria, dove si incontrano donne, amici, nemici, loschi figuri, personaggi improbabili, odori, panorami, sfondi e valigie di ricordi». Mellone parte da una casa posticcia di Roma per tornare a Taranto, dove è nato, cresciuto, l'Ilva gli ha tolto il padre, dandogli un dolore che nessuno potrà mai placare, ma nonostante il quale non ha ceduto all'idea che quello stabilimento fosse solo morte e non anche vita per tanta gente. È lì che torna a bordo di questo treno che è reale e onirico allo stesso tempo. Sceglie la formula del poema per rendere magico e però duro questo viaggio. Cita luoghi, paesaggi, facce, pensieri che sono familiari a ciascun meridionale che quel viaggio l'ha fatto davvero o anche con la fantasia. Perché è un dovere tornare, anche quando non si ha voglia. Perché è inevitabile farlo. Un viaggio che non è come gli altri, perché non porta a scoprire nulla che non si sappia già, ma è un modo per trovare la strada. La propria: «Meridione restituisce sempre/ ciò che avevi smarrito...». «Ritorno a Sud allora/ è condizione necessaria/ polvere a polvere, sasso a sasso/ tratturo a tratturo, chianca a chianca/ complanare a complanare, binario a binario specialmente/ al momento in cui il corpo sudato/ in discesa puzza/ e l'alito impasta/ la lingua assetata/ per riacciuffare i brandelli di tutto quello/ che ho abbandonato». È un libro malinconico, come dice Mellone, è l'ammissione della sconfitta di chi ha combattuto se stesso pensando di poter essere meridionale senza fare ritorno al Sud. Ecco, dal Sud non si può scappare, anche quando si emigra: te lo porti dentro esattamente come i settentrionali si portano dentro il Nord. Ciò che contraddistingue le nuove generazioni di fuggiaschi da una terra che non può dare non perché non abbia, ma perché è schiava dei propri vizi, è un orgoglio differente: prima si tornava per rimanere, per dire «ce l'ho fatta, ho combattuto lontano, ho vinto, adesso torno dalla mia amata». Era lo stesso spirito di un soldato mandato al fronte con l'unico obiettivo di riabbracciare una ragazza diventata donna o bambini diventati adolescenti. Ora si torna per ripartire, per tenersi agganciati, emigrati con l'elastico che ti riporta indietro fisicamente o idealmente. La sconfitta di Mellone è in un certo senso una vittoria. Perché ammettere di non riuscire a sganciarsi dalle proprie radici è una forza spacciata per debolezza solo per un gioco di forze che fa leva sulla maledizione della nostalgia. Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te. «Amore fatto di terra», dice Mellone. «Amore per la terra».

Ciononostante i nordisti, anzichè essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

“Ingrati. La sindrome rancorosa del beneficiato”. Libro di Maria Rita Parsi, Mondadori 2011. Cos'è la "sindrome rancorosa del beneficato"? Una forma di ingratitudine? Ben di più. L'eccellenza dell'ingratitudine. Comune, per altro, ai più. Senza che i molti ingrati "beneficati" abbiano la capacità, la forza, la decisionalità interiore, il coraggio e, perfino, l'onestà intellettuale ed etica di prenderne atto. La "sindrome rancorosa del beneficato" è, allora, quel sordo, ingiustificato rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente; altre volte, invece, cosciente) che coglie come una autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio, poiché tale condizione lo pone in evidente "debito di riconoscenza" nei confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli "dovrebbe" spontaneamente riconoscere ma che non riesce, fino in fondo, ad accettare di aver ricevuto. Al punto di arrivare, perfino, a dimenticarlo o a negarlo o a sminuirlo o, addirittura, a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi e a trasformare il benefattore stesso in una persona da dimenticare se non, addirittura, da penalizzare e calunniare. Questo nuovo libro di Maria Rita Parsi parla dell'ingratitudine, quella mancanza di riconoscenza che ognuno di noi ha incontrato almeno una volta nella vita. Attraverso una serie di storie esemplari, l'analisi delle tipologie di benefattori e beneficati, il decalogo del buon benefattore e del beneficato riconoscente e un identikit interattivo, l'autrice insegna a riconoscere l'ingratitudine e a difendersene, arginare i danni e usarla addirittura per rafforzarsi.

La culla dell'ingratitudine. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano, scrive Francesco Alberoni su “Il Giornale”. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano. Pensate a due innamorati. Ciascuno fa tutto quello che può per l’amato ma nessuno sente un debito di riconoscenza. Chi si ama non tiene una contabilità del dare e dell’avere: i conti sono sempre pari. Solo quando l’amore finisce riappare la contabilità e ciascuno scopre di aver dato più di quanto non abbia ricevuto. Però anche fra innamorati ci sono dei momenti in cui il tuo amato ti dona qualcosa di straordinario, qualcosa che non ti saresti mai aspettato ed allora ti viene voglia di dirgli un «grazie» che è anche riconoscenza. Insomma la riconoscenza nasce dall’inatteso, da un «di più». Perciò la proviamo spesso verso persone con cui non abbiamo nessun rapporto ma che ci fanno del bene spontaneamente. Per esempio a chi si getta in acqua per salvarci rischiando la vita, a chi ci soccorre in un incidente, a chi ci cura quando siamo ammalati. Ma anche a chi ci aiuta a scoprire e a mettere a frutto i nostri talenti nel campo della scienza, dell’arte, della professione per cui, quando siamo arrivati, gli siamo debitori. La riconoscenza è perciò nello stesso tempo un grazie e il riconoscimento dell'eccellenza morale della persona che ci ha aiutato. Quando proviamo questo sentimento, di solito pensiamo che durerà tutta la vita, invece spesso ce ne dimentichiamo. E se quella persona ci ha fatto veramente del bene allora la nostra è ingratitudine. Ma la chiamerei una ingratitudine leggera, perdonabile. Perché purtroppo c’è anche una ingratitudine cattiva, malvagia. Vi sono delle persone che, dopo essere state veramente beneficiate, anziché essere riconoscenti, provano del rancore, dell’odio verso i loro benefattori. Ci sono allievi che diventano i più feroci critici dei loro maestri e dirigenti che, arrivati al potere diffamano proprio chi li ha promossi. Da dove nasce questa ingratitudine cattiva? Dal desiderio sfrenato di eccellere. Costoro pretendono che il loro successo sia esclusivamente merito della propria bravura e si vergognano ad ammettere di essere stati aiutati. Così negano l’evidenza, aggrediscono il loro benefattore. E quanti sono! State attenti: quando sentite qualcuno diffamare qualcun altro, spesso si tratta di invidia o di ingratitudine malvagia. Guardatevi da questo tipo di persone.

QUALCHE PROVERBIO AFORISMO

Amico beneficato, nemico dichiarato.

Avuta la grazia, gabbato lo santo.

Bene per male è carità, male per bene è crudeltà.

Chi non dà a Cristo, dà al fisco.

Chi rende male per bene, non vedrà mai partire da casa sua la sciagura.

Comun servizio ingratitudine rende.

Dispicca l’impiccato, impiccherà poi te.

Fate del bene al villano, dirà che gli fate del male.

Il cane che ho nutrito è quel che mi morde.

Il cuor cattivo rende ingratitudine per beneficio.

Il mondo ricompensa come il caprone che dà cornate al suo padrone.

L’ingratitudine converte in ghiaccio il caldo sangue.

L’ingratitudine è la mano sinistra dell’egoismo.

L’ingratitudine è un’amara radice da cui crescono amari frutti.

L’ingratitudine nuoce anche a chi non è reo.

L’ingratitudine taglia i nervi al beneficio.

Maledetto il ventre che del pan che mangia non si ricorda niente.

Non c’è cosa più triste sulla terra dell’uomo ingrato.

Non far mai bene, non avrai mai male.

Nutri il corvo e ti caverà gli occhi.

Nutri la serpe in seno, ti renderà veleno.

Quando è finito il raccolto dei datteri, ciascuno trova da ridire alla palma.

Render nuovi benefici all’ingratitudine è la virtù di Dio e dei veri uomini grandi.

Tu scherzi col tuo gatto e l’accarezzi, ma so ben io qual fine avran quei vezzi

Val più un piacere da farsi che cento di quelli fatti.

In amore, chi più riceve, ne è seccato: egli prova la noia e l’ingratitudine di tutti i ricchi.

Philippe Gerfaut

L’ingratitudine è sempre una forma di debolezza. Non ho mai visto che uomini eccellenti fossero ingrati.

Johann Wolfgang Goethe, Massime e riflessioni, 1833 (postumo)

Spesso l’ingratitudine è del tutto sproporzionata al beneficio ricevuto.

Karl Kraus, Di notte, 1918

Ci sono assai meno ingrati di quanto si creda, perché ci sono assai meno generosi di quanto si pensi.

Charles de Saint-Evremond, Sugli ingrati, XVII sec.

Il cuore dell’uomo ingrato somiglia alle botti delle Danaidi; per quanto bene tu vi possa versare dentro, rimane sempre vuoto.

Luciano di Samosata, Scritti, II sec.

Un solo ingrato nuoce a tutti gli infelici.

Publilio Siro, Sentenze, I sec. a.c.

Quando di un uomo hai detto che è un ingrato, hai detto tutto il peggio che puoi dire di lui.

Fenomenologia rancorosa dell'ingratitudine. La rabbia dell'ignorare il beneficio ricevuto. Le relazioni d'aiuto contraddistinguono i diversi momenti del ciclo vitale di una persona e ne favoriscono l'autonomia e l'indipendenza. Esiste tuttavia la possibilità che nella sottile dinamica di dipendenza/indipendenza, caratterizzante questo tipo di rapporto, alla gratitudine per un beneficio ricevuto si sostituisca un sentimento d'ingratitudine, di rancore e di rabbia verso il "benefattore". Questo lavoro di Andrea Brundo prende in esame i fenomeni connessi alle relazioni d'aiuto e i processi collegati alla costruzione della personalità nel corso dell'età evolutiva (a partire dall'iniziale rapporto diadico madre-figlio). In base a questa ipotesi, chi prova rancore non ha avuto la possibilità di sperimentare, aggregare ed elaborare contenuti affettivi significativi nelle prime fasi della vita. Ignora, quindi, l'esistenza di autentiche relazioni d'affetto. È incapace di viverle, proprio per la mancanza di informazioni e per la carenza dei relativi schemi cognitivi. Il "rancoroso", pur potendo ammettere l'aiuto ricevuto, non è in grado di essere riconoscente perché ignora i contenuti affettivi che sono dietro la relazione di aiuto. Non potendoli riconoscere in se stesso non li può trovare neanche negli altri. L'incapacità di provare gratitudine è sostenuta da una generale difficoltà a condividere sentimenti e contenuti psichici. Nelle relazioni che instaura, la condivisione non è mediata dalla sfera affettiva, ma dalle prevalenti esigenze dell'io. Chi manca delle informazioni atte a soddisfare le proprie necessità può ricorrere all'aiuto dell'altro che le possiede. Ciò comporta, sul piano relazionale, il riconoscimento dell’autorevolezza e del relativo "potere" di chi dispone le conoscenze. Nel momento in cui si deve predisporre ad accettare le informazioni, il beneficiato, con prevalente modalità narcisistica va incontro ad una serie di difficoltà legate a:

non sapere;

essere in una posizione subordinata di "potere";

fidarsi e considerare giusta l'informazione ricevuta;

disporsi a ridefinire i propri schemi cognitivi e stili comportamentali;

vivere il disagio provocato dal contenuto affettivo associato all'informazione-aiuto.

Nel caso in cui le informazioni risultino troppo complesse rispetto alla rappresentazione della realtà del soggetto, lo sforzo per elaborarle e integrarle nei propri schemi mentali è eccessivo. A questo punto tale soggetto preferisce ricorrere a una modalità più semplice, quale è quella antagonista, e si mette contro la persona che lo sta aiutandolo. E ancora. Quando il divario tra l'immagine di sé (in termini di sistema di credenze, schemi cognitivi, stili comportamentali, ecc.) e le implicazioni di mutamento insite nelle informazioni-aiuto si rivela insostenibile, il beneficiato non può accettare di cambiare e il peso di questa difficoltà viene proiettato sul beneficiante. L'informazione donata e non elaborata rimane a livello dell'io, ristagna e diventa un qualcosa di stantio, di "rancido", di inespresso che risulta insopportabile. Un qualcosa che alimenta un incessante rimuginio, sostenuto anche dalla vergogna e dal senso di colpa. Nasce l'esigenza di eliminare il fastidio e il senso di oppressione, esigenza che conduce all'odio verso la causa (il beneficiante) di tanto "dolore". Si instaura così un circolo vizioso nel pensiero a cui solo gli sfoghi rabbiosi possono dare un minimo, seppur temporaneo, sollievo. Gli eccessi di rabbia costituiscono l'unica soluzione per tentare una comunicazione (impossibile) attraverso la naturale via dell'affettività. Pertanto, il rancore trova un’auto giustificazione in quanto permette di manifestare al mondo e alla persona beneficante contenuti mentali che non trovano altre modalità espressive.

Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012.  Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000. 

E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto.

Polentoni (mangia polenta o come dicono loro po' lentoni, ossia lenti di comprendonio) e terroni (cafoni ignoranti) sono pregiudizi da campagna elettorale inventati ed alimentati da chi, barbaro, dovrebbe mettersi la maschera in faccia e nascondersi e tacere per il ladrocinio perpetrato anche a danno delle stesse loro popolazioni.

Ma si sa parlar male dell'altro, copre le proprie colpe.

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

Il sud? Una palla al piede? “La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale” è il libro di Antonino De Francesco. Declinata in negativo, è tornata a essere un argomento ricorrente nei discorsi sulla crisi della società italiana. Sprechi di risorse pubbliche, incapacità o corruzione delle classi dirigenti locali, attitudini piagnone delle collettività, forme diffuse di criminalità sono stati spesso evocati per suggerire di cambiare registro nei riguardi del Mezzogiorno. I molti stereotipi e luoghi comuni sono di vecchia data e risalgono agli stessi anni dell'unità, ma quel che conta è la loro radice propriamente politica. Fu infatti la delusione per le difficoltà incontrate nel Mezzogiorno all'indomani dell'unificazione a cancellare presto l'immagine di un Sud autentico vulcano di patriottismo che nel primo Ottocento aveva dominato il movimento risorgimentale. Da allora lo sconforto per una realtà molto diversa da quella immaginata avrebbe finito per fissare e irrobustire un pregiudizio antimeridionale dalle tinte sempre più livide ogni qual volta le vicende dello stato italiano andarono incontro a traumatici momenti di snodo. Il libro rilegge la contrapposizione tra Nord e Sud dal tardo Settecento sino ai giorni nostri. Si capisce così in che modo il pregiudizio antimeridionale abbia costituito una categoria politica alla quale far ricorso non appena l'innalzamento del livello dello scontro politico lo rendesse opportuno. Per il movimento risorgimentale il Mezzogiorno rappresentò sino al 1848 una terra dal forte potenziale rivoluzionario. Successivamente, la tragedia di Pisacane a Sapri e le modalità stesse del crollo delle Due Sicilie trasformarono quel mito in un incubo: le regioni meridionali parvero, agli occhi della nuova Italia, una terra indistintamente arretrata. Nacque così un'Africa in casa, la pesante palla al piede che frenava il resto del paese nel proprio slancio modernizzatore. Nelle accuse si rifletteva una delusione tutta politica, perché il Sud, anziché un vulcano di patriottismo, si era rivelato una polveriera reazionaria. Si recuperarono le immagini del meridionale opportunista e superstizioso, nullafacente e violento, nonché l'idea di una bassa Italia popolata di lazzaroni e briganti (poi divenuti camorristi e mafiosi), comunque arretrata, nei confronti della quale una pur nobile minoranza nulla aveva mai potuto. Lo stereotipo si diffuse rapidamente, anche tramite opere letterarie, giornalistiche, teatrali e cinematografiche, e servì a legittimare vuoi la proposta di una paternalistica presa in carico di una società incapace di governarsi da sé, vuoi la pretesa di liberarsi del fardello di un mondo reputato improduttivo e parassitario. Il libro ripercorre la storia largamente inesplorata della natura politica di un pregiudizio che ha condizionato centocinquant'anni di vita unitaria e che ancora surriscalda il dibattito in Italia. I meridionali sono allegri e di buon cuore ma anche «oziosi, molli e sfibrati dalla corruzione». Sono simpatici e affettuosi, è un altro giudizio sempre sulla gente del Sud, ma pure «cinici, superstiziosi, pronti a rispondere con la protesta di piazza a chi intende disciplinarli». A separare il barone di Montesquieu e Giorgio Bocca, (sono dette da loro queste opinioni sul Mezzogiorno), vi sono circa 250 anni. Eppure nemmeno i secoli contano e fanno la differenza quando si tratta di sputar sentenze sul meridione. Così scrive Mirella Serri su “La Stampa”.  Già, proprio così. Credevamo di esser lontani anni luce dall’antimeridionalismo (il suo viaggio nell’Inferno del Sud, Bocca lo dedica alla memoria di Falcone e di Borsellino), pensavamo di essere comprensivi e attenti alle diversità? Macché, utilizziamo gli stessi stereotipi di tantissimi lustri fa: è questa la provocazione lanciata dallo storico Antonino De Francesco in un lungo excursus in cui esamina tutte le dolenti note su "La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale". La nascita dei pregiudizi sul Sud si verifica, per il professore, nel secolo dei Lumi, quando numerosi viaggiatori europei esplorarono i nostri siti più incontaminati e selvaggi. E diedero vita a una serie di luoghi comuni sul carattere dei meridionali che si radicarono dopo l’Unità d’Italia e che hanno continuato a crescere e a progredire fino ai nostri giorni. E non basta. A farsi portavoce e imbonitori di questa antropologia negativa sono stati spesso artisti, scrittori, registi, giornalisti, ovvero quell’intellighentia anche del Sud che l’antimeridionalismo l’avrebbe dovuto combattere accanitamente.

Uno dei primi a intuire questa responsabilità degli intellettuali fu il siciliano Luigi Capuana. Faceva notare a Verga che loro stessi, i maestri veristi, avevano contribuito alla raffigurazione del siculo sanguinario con coltello e lupara facile. E che sulle loro tracce stava prendendo piede il racconto di un Mezzogiorno di fuoco con lande desolate, sparatorie, sgozzamenti, rapine, potenti privi di scrupoli e plebi ignare di ordine e legalità. Ad avvalorare questa narrazione che investiva la parte inferiore dello Stivale dettero il loro apporto anche molti altri autori, da Matilde Serao, che si accaniva sui concittadini partenopei schiavi dell’attrazione fatale per il gioco del lotto, a Salvatore di Giacomo, che dava gran rilievo all’operato della camorra in Assunta Spina. Non fu esente dall’antimeridionalismo nemmeno il grande Eduardo De Filippo che in Napoli milionaria mise in luce il sottomondo della città, fatto di mercato nero, sotterfugio, irregolarità. Anche il cinema neorealista versò il suo obolo antisudista con film come Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, testimonial dei cruenti e insondabili rapporti familiari e sociali dei meridionali. Pietro Germi, ne In nome della legge, e Francesco Rosi, ne Le mani sulla città, vollero denunciare i mali del Sud ma paradossalmente finirono per evidenziare i meriti degli uomini d’onore come agenzia interinale o società onorata nel distribuire ai più indigenti lavori e mezzi di sussistenza, illegali ovviamente. A rendere la Sicilia luogo peculiare del trasformismo politico che contaminerà tutto lo Stivale ci penserà infine il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. In generale prevale il ritratto di un Sud antimoderno e clientelare, palla al piede del Nord. Milano, per contrasto, si fregerà dell’etichetta di «capitale morale», condivisa tanto dal meridionalista Salvemini quanto da Camilla Cederna, non proprio simpatizzante del Sud. Quest’ultima, per attaccare il presidente della Repubblica Giovanni Leone, reo di aver fatto lo scaramantico gesto delle corna in pubblico, faceva riferimento alla sua napoletanità, sinonimo di «maleducazione, smania di spaghetti, volgarità». «L’antimeridionalismo con cui ancora oggi la società italiana si confronta non è così diverso da quello del passato», commenta De Francesco. Non c’è dubbio.

Benvenuti al Sud, che di questi antichi ma persistenti pregiudizi ha lanciato la parodia, si è posizionato al quinto posto nella classifica dei maggiori incassi in Italia di tutti i tempi. Come un vigile che si materializza nell’ora di punta o un poliziotto che sopraggiunge nel vivo della rissa. Dopo le polemiche sugli afrori dei napoletani, dopo le dispute sul bidet dei Borbone e sulle fogne dei Savoia, mai libro è arrivato più puntuale. Edito da Feltrinelli, «La palla al piede» di Antonino De Francesco è, infatti, come recita il sottotitolo, «una storia del pregiudizio antimeridionale». E come tale non solo capita a proposito, ma riesce anche a dare ordine a una materia per molti versi infinita e dunque inafferrabile. Cos’è del resto l’antimeridionalismo? «È — spiega l’autore a Marco Demarco su “Il Corriere della Sera”  — un giudizio tanto sommario quanto inconcludente, che nulla toglie e molto (purtroppo) aggiunge ai problemi dell’Italia unita, perché favorisce il declino nelle deprecazioni e permette alle rappresentazioni, presto stereotipate, di prendere il sopravvento». Non solo. «Ed è — aggiunge De Francesco — anche un discorso eversivo, perché corre sempre a rimettere in discussione il valore stesso dell’unità italiana». Fin qui la quarta di copertina, ma poi, all’interno, pagina dopo pagina, ecco i testi, le tesi, i personaggi che hanno affollato la scena dello scontro tra meridionalisti e antimeridionali: da Boccaccio a Matilde Serao, da Montesquieu a Prezzolini, passando per Cuoco e Colletta, per Lauro e Compagna, per Mastriani e Totò. Fino a Indro Montanelli, che commentando il milazzismo picchia duro sui siciliani e scrive che «se in Italia si compilasse una geografia dell’abbraccio ci si accorgerebbe che più si procede verso le regioni in cui esso rigogliosamente fiorisce, e più frequente si fa l’uso del coltello e della pistola, della lettera anonima e dell’assegno a vuoto»; o a Camilla Cederna, che addirittura mette in forse la religiosità del presidente Leone: «Tutt’al più — scrive in piena campagna per le dimissioni — il suo è un cristianesimo di folclore...». Materiali preziosi, alcuni noti e altri no, ma tutti riletti all’interno di uno schema molto chiaro. Che è il seguente: negli anni di fuoco a ridosso dell’unità d’Italia, l’antimeridionalismo nasce molto prima del meridionalismo, non ha lasciato testimonianze meritevoli di interesse sotto il profilo culturale, ma, «ha svolto un preciso ruolo normativo nell’immaginario sociale del mondo». Ha creato, cioè, categorie mentali, visioni e schemi interpretativi che hanno condizionato politiche e strategie, alleanze e scelte di campo. In questo senso, l’antimeridionalismo si è rivelato per quello che davvero è: niente altro che uno strumento della lotta politica. L’antimeridionalismo appare e scompare, va e viene, morde e fugge, ma sempre secondo le convenienze del momento storico, del contesto. Così a Masaniello può accadere una volta di assurgere a simbolo del riscatto meridionale e di essere messo sullo stesso asse rivoluzionario che porta fino al ’99, quando del Sud serve l’immagine tutta tesa al riscatto liberatorio; un’altra di precipitare a testimonianza del velleitarismo plebeo, di un ribellismo pari a quello dei briganti, quando del Sud bisogna dare invece l’idea di un mostro da abbattere. Sulla stessa altalena possono salirci anche interi territori, come la Sicilia. Quella pre-garibaldina immaginata dalle camicie rosse è tutto un ribollire di passioni civili e di ansie anti borboniche; quella post-garibaldina descritta dai militari piemontesi è violenta, barbara, incivile. È andata così anche con il Cilento di Pisacane: prima dello sbarco, era la terra promessa del sogno risorgimentale; dopo, la culla del tradimento e del popolo imbelle. Perfino la considerazione della camorra cambia secondo il calcolo politico. Nel 1860 la stampa piemontese, prova ne è «Mondo illustrato», arriva perfino a elogiarla, ritenendola capace di dare organizzazione ai lazzaroni favorevoli al cambio di regime. Ma poi la scena si ribalta. Con Silvio Spaventa comincia l’epurazione del personale sospetto inserito negli apparati statali e la «Gazzetta del Popolo» prontamente plaude. Come strumento della battaglia politica, l’antimeridionalismo non viene usato solo nello scontro tra Cavour e Garibaldi, ma diventa una costante. Liberali e democratici lo usano per giustificare le rispettive sconfitte. E come alibi usano sempre il popolo, che di colpo diventa incolto, superstizioso, asociale, ingovernabile. Ai socialisti succede di peggio. Negli anni del positivismo, arrivano, sulle orme di Lombroso, a cristallizzare il razzismo antimeridionale. Niceforo parla di due razze, la peggiore, la maledetta, è naturalmente quella meridionale; mentre Turati, in polemica con Crispi, vede un Nord tutto proiettato nella modernità e un Sud che è «Medio Evo» e «putrefatta barbarie». Prende forma così quel dualismo culturale che vede ovunque due popoli, uno moderno e l’altro arretrato, dove è chiaro che il secondo, come già ai tempi di Cuoco, giustifica il primo. Ma questo dualismo finisce per mettere in trappola anche la produzione culturale. I veristi, ad esempio, raccontano con passione la vita degli ultimi, della minorità sociale. Ma come vengono lette a Milano queste storie? Chi fa le dovute differenze? Il dubbio prende ad esempio Luigi Capuana quando decide di polemizzare con Franchetti e Sonnino per come hanno descritto la Sicilia. Capuana addebita addirittura a se stesso, a Federico De Roberto e soprattutto all’amico Giovanni Verga, la grave responsabilità di aver favorito, con i loro racconti e con i loro romanzi, la ripresa dei luoghi comuni sull’isola. Credevamo di produrre schiette opere d’arte — scrive avvilito a Verga — «e non abbiamo mai sospettato che la nostra sincera produzione, fraintesa o male interpretata, potesse venire adoperata a ribadire pregiudizi, a fortificare opinioni storte, a provare insomma il contrario di quel che era nostra sola intenzione rappresentare alla fantasia dei lettori». E in effetti, commenta De Francesco, l’opera di Verga, nel corso degli anni Settanta, aveva liquidato l’immagine di una Sicilia esotica e mediterranea a tutto vantaggio della costruzione di potenti quadri di miseria e di atavismo. Il libro si chiude con il caso Bocca, forse il più emblematico degli ultimi anni. Inviato nel Sud sia negli anni Novanta, sia nel 2006. Racconta sempre la stessa Napoli, persa tra clientele, degrado e violenza criminale, ma la prima volta piace alla sinistra; la seconda, invece, la stessa sinistra lo condanna senza appello. La ragione? Prima Bassolino era all’opposizione, poi era diventato sindaco e governatore.

Ed a proposito di Napoli. “Il libro napoletano dei morti” di Francesco Palmieri. Bella assai è Napoli. E non nel senso sciuè sciuè. E’ bella perché sta archiviando una menzogna: quella di essere costretta allo stereotipo e infatti non ha più immondizia per le strade. Non ha più quella patina di pittoresco tanto è vero che il lungomare Caracciolo, chiuso al traffico, è come un ventaglio squadernato innanzi a Partenope. C’è tutto un brulicare di vita nel senso proprio della qualità della vita. Ovunque ci sono vigili urbani, tante sono le vigilesse in bici, sono sempre più pochi quelli che vanno senza casco e quelli che li indossano, i caschi, anche integrali, non hanno l’aria di chi sta per fare una rapina. E’ diventata bella d’improvviso Napoli. Sono uno spasso gli ambulanti abusivi che se ne scappano per ogni dove inseguiti dalla forza pubblica e se qualcuno crede che il merito sia di De Magistris, il sindaco, si sbaglia. Se Napoli è tornata capitale – anche a dispetto di quella persecuzione toponomastica che è la parola “Roma”, messa dappertutto per marchiare a fuoco la sconfitta dell’amato Regno – il motivo è uno solo: Francesco Palmieri ha scritto “Il Libro napoletano dei Morti” e le anime di don Ferdinando Russo e quelle dei difensori di Gaeta hanno preso il sopravvento sui luoghi comuni. Dall'Unità d'Italia alla Prima guerra mondiale, Napoli vive il suo periodo più splendido e più buio. Un'epopea di circa sessant'anni non ancora raccontata e che ne ha segnato il volto attuale. Le vicende avventurose dei capitani stranieri, arrivati per difendere la causa persa dei Borbone, s'intrecciano con quelle di camorristi celebri e dei loro oscuri rapporti con il nuovo Stato italiano. L'ex capitale si avvia verso il Novecento tra contraddizioni storiche e sociali risolte nel sangue o in un paradossale risveglio culturale. Ma, quando calerà il sipario sul drammatico processo Cuocolo, un clamoroso assassinio in Galleria rivelerà che la camorra non è stata sconfitta. E il "prequel" della futura Gomorra. Narratore dell'intera vicenda è il poeta Ferdinando Russo. Celebre un tempo e amato dalle donne, da giornalista ha coraggiosamente denunciato la malavita ma è stato attratto dai codici antichi di coraggio della guapparia. Russo cerca il fil rouge che collega i racconti dei cantastorie napoletani alla tragica fine dei capitani borbonici: questo nesso lo ritrova nell'ineffabile enigma della Sirena Partenope, la Nera, l'anima stessa di Napoli, che si rivela nel coltello dei camorristi o irretisce incarnata in quelle sciantose di cui fu vittima egli stesso, prima con un grande amore perso poi sposando un'altra che invece non amò.

“Il libro napoletano dei morti” è un viaggio alle radici di Gomorra, scrive Luca Negri su “L’Occidentale”. Esiste un antico Libro egiziano dei morti, anche uno tibetano. In poche parole, si tratta di affascinanti manuali di sopravvivenza per l’anima nei regni dell’oltretomba. La versione italica, universalmente nota per l’altissimo valore poetico, è la Commedia di Dante. Commedia appunto perché il finale è lieto: l’anima non si perde negli inferi, fra demoni, ma ascende a Dio, come pressappoco succede nelle versioni egizia e tibetana. Ora il lettore italiano ha a disposizione anche “Il libro napoletano dei morti” (Mondadori, nella collana Strade Blu), che non è un manuale per cittadini partenopei ed italiani prossimi alla fine. O forse sì, lo è. Soprattutto se consideriamo la città sotto il Vesuvio come paradigmatica dei nodi irrisolti della nostra esausta storia patria. Comunque, è un romanzo, un grande romanzo, il migliore uscito quest’anno, a nostro giudizio. Per lo stile felicissimo che combina momenti lirici, squarci storici, immagini cinematografiche. E poi riesce a toccare temi universali, partendo da un luogo e da un tempo ben precisi: Napoli negli anni che corrono dalla conquista garibaldina all’avvento del fascismo.

L’autore si chiama Francesco Palmieri, è un maestro di Kung Fu napoletano che nella vita fa il giornalista e si occupa di economia e Cina. Uno che conosce bene misteri d’oriente, vicende e canzoni della sua città e come va la vita. Per raccontare il suo libro dei morti, Palmieri è entrato nell’esistenza e nella lingua di Ferdinando Russo, poeta, giornalista, romanziere e paroliere di canzoni (la più nota è “Scetate”) nato ovviamente a Napoli nel 1866 e morto nel 1927. Russo era amico di d’Annunzio, firma di punta del quotidiano il Mattino, partenopeo verace che detestava la napoletanità di maniera delle commedie di Eduardo Scarpetta e nelle cantate di Funiculì funicolà. Per lui, come per l’amico-nemico Libero Bovio (autore di “Reginella”), le canzoni con il mandolino rappresentavano il Romanticismo esploso a Napoli con cinquant’anni di ritardo sul resto d’Europa, non roba da cartolina. Russo era una persona seria ed onorata, un guappo, cultore di Giordano Bruno e conoscitore di molti camorristi ma sempre spregiatore della camorra. E con i suoi occhi e le sue parole vere e immaginarie, in versi e prosa, Palmieri ci racconta proprio la degenerazione della camorra: dalla confraternita fondata e regolata nel 1842 nella Chiesa di Santa Caterina a Formello, figlia di “semi spagnoli e nere favole mediterranee” alle spietate bande di “malavitosi senza norma e senza morale”. Al guappo armato solo di scudiscio e coltello, talvolta della sola minacciosa presenza, si sostituiscono “facce patibolari” bramose di soldi e potere, vigliacche al punto da imbracciare solo armi da fuoco, che male modellano le mani di chi le usa. Russo, fin da bambino, si ispirava al teatrino dei Pupi, si sentiva un paladino, un Rinaldo sempre in lotta contro il male: il traditore Gano di Magonza. E vide gli antichi paladini reincarnati negli stranieri che combatterono per la causa persa dei Borbone contro i Piemontesi invasori. Non solo per il piacere di “tirare una sassata sulla faccia di liberali biondi”, ma per difendere “più che un principe, un principio”. Franceschiello diventava un novello Carlo Magno, sconfitto, però da un’imponente macchina bellica che nemmeno schifava il fomentare odi e delazioni e l’ammazzare cristiani appena sospettati di simpatia per l’insorgenza, per i “briganti”. A proposito, Palmieri e Russo ci ricordano che lo Stato risorgimentale si servì proprio della camorra per garantire l’ordine nel regno conquistato ed assicurarsi il successo nel plebiscito del 1860. Il processo di corruzione dell’”Onorata Società” ben s’accompagnò a quello del neonato Regno d’Italia; anzi, i rapporti si fecero sempre più stretti, i fili più inestricabili, al di là di tutte le repressioni di facciata e della professione retorica di antimafia. Sconfitti zuavi e lealisti, non rimarrà che cercare la “presenza dei paladini nelle notti scugnizze”, fra i guappi non ancora degenerati in spietati assassini ed avidi imprenditori senza scrupoli e freni. Ma è sempre più difficile, la cavalleria scompare, i proiettili uccidono anche gli innocenti. La camorra, circondata da una nazione irrisolta e corrotta, svela il suo volto, la sua dipendenza dal “perenne problema demoniaco” legato alla doppia natura della Sirena Partenope che come vuole la tradizione giace sotto Napoli; creatura bellissima e mostruosa “che fu madre di quei pezzenti tarantati, di cantanti e sciantose, di camorristi” e poeti come Russo. Siamo allora sull’orlo del baratro, sotto il vulcano, a Gomorra, come epicentro delle tensioni italiche. E allora serve più che mai “una mano capace di trasformare qualsiasi cosa in Durlindana”, in spada da paladino. Con la consapevolezza evangelica che fare il crociato, “crociarsi”, significa saper portare la propria croce. Ed aiutare i propri simili in questo “strabiliante Purgatorio umano che ci avvampa tra merda e sentimenti”.

"Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?" Così Pino Aprile inizia, nel modo provocatorio che gli è congeniale, questo suo pamphlet, che affronta l'annosa e scontata Questione meridionale da un'angolatura completamente diversa. In un mondo che sta cambiando a incredibile velocità, ha ancora senso definire la realtà in base a criteri geografici, come quelli di Nord e Sud, che nell'interpretazione dei più portano con sé una connotazione meritocratica ormai superata? E possibile utilizzare ancora definizioni di questo tipo quando internet, la Rete, sta tracciando una mappa che non tiene più conto dei vecchi confini, anzi se ne è liberata per ridisegnare uno spazio davvero globale, senza Sud e senza Nord, di cui fa parte la nuova generazione, tutta, figli dei "terroni" compresi? No, dice Aprile, tutto questo è irrimediabilmente finito, passato, travolto dal vento delle nuove tecnologie che, spinto da molte volontà, sta creando un futuro comune, un futuro che unisce, invece di dividere. Forse i padri non se ne sono ancora accorti, ma i figli sì, lo sanno, così come sanno che quella che hanno imboccato è una strada di non ritorno. "Il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta." Ma nello spazio virtuale, lo spazio dei giovani di tutti i paesi, le direzioni non esistono più. Boom di vendite, dice Antonino Cangemi su “Sicilia Informazioni”. E’ quasi una regola: ogni libro di Pino Aprile scatena un boom di vendite e un mare di polemiche.

Così è accaduto con “Terroni” e con “Giù al Sud”. Nel primo il giornalista  raccontava, all’anniversario del secolo e mezzo dell’Unità d’Italia, stragi, violenze, saccheggi, sottaciuti dalla storiografia ufficiale, commessi dal Settentrione contro il Meridione per accentuarne la subalternità, provocando le ire dei “nordisti” e le perplessità della maggior parte degli storici accademici. Nel secondo il meridionalista Aprile ribadiva le denunce contro i soprusi subiti dal Sud Italia, ma nello stesso tempo individuava nel Meridione le risorse migliori per “salvare l’Italia”. Nelle librerie “Mai più terroni”, un pamphlet edito da Piemme che già dal sottotitolo, “La fine della questione meridionale”, preannuncia dibattiti accesi.

Molti si chiederanno: come mai Pino Aprile paladino delle ragioni dei “terroni”, che non ha esitato a denunciare, in modo eclatante, i torti subiti dalla gente del Sud per opera di governi filosettentrionali, adesso cambia registro sino a sostenere che la questione meridionale non esiste più? Che cosa è successo nel giro di pochi anni? Lo si scopre leggendo l’agile saggio. Che sostiene una teoria piuttosto originale. E, secondo alcuni, azzardata. Nell’era industriale la distanza tra Nord e Sud si accentuava perché rilevava la posizione geografica dei luoghi dove si produceva ricchezza. Poiché le fabbriche, o la stragrande maggioranza di esse, si trovavano nel Settentrione, i meridionali erano costretti a spostarsi per lavorare e, con l’emigrazione, a vivere in un rapporto di sudditanza. Tutto è ora cambiato con l’avvento di internet. Nella stagione che si è da ultimo avviata, definita da Aprile l’era del Web, la geografia dei territori non assume più rilievo. La rete ha annullato le distanze geografiche, e non importano più dove sono collocate le imprese, la condizione delle sovrastrutture, se le autostrade o le ferrovie funzionano nel Nord e sono dissestate nel Meridione, tanto non occorre percorrerle grazie alla magia telematica. Almeno per i giovani, che a colpi di clic possono cambiare la realtà, dare sfogo al proprio estro creativo, inventare nuove fonti di ricchezza. Non a caso, sostiene l’autore, oggi l’omologazione del web ha fatto sì che tanta ricchezza sia concentrata in Paesi del Sud del mondo, quali ad esempio la Cina e l’India. D’altra parte, secondo Aprile “il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta”. Non vi sarà perciò più Sud e non vi saranno più “terroni” per effetto della rete che permette di viaggiare restando seduti e di superare ogni barriera geografica. Niente più sopraffazioni e prevaricazioni. Alla fine la spunta, nella competizione democratica del web, chi è più creativo. Ipse dixit Aprile. E’ proprio cosi, o le sue analisi peccano di superficialità? La discussione è aperta. Da "Terroni" a "Mai più terroni", spiega Lino Patruno su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Dal sottotitolo del primo libro («Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali») al sottotitolo di questo («La fine della questione meridionale»). È l’itinerario di Pino Aprile: dalla denuncia di 150 anni ai danni del Sud, alla profezia che fra poco il Sud non sarà più Sud e che gli italiani del Sud non saranno più figli di una patria minore. Ci si chiede cosa sia successo in due soli anni. E come il giornalista-scrittore pugliese dai libri tanto vendutissimi quanto contestatissimi possa passare dalla rabbia per le verità nascoste sulla conquista del Sud, alla convinzione che nonostante tutto il Sud è entrato nella nuova era della parità di condizioni di partenza. Esagerazione ora o prima?La risposta è nelle stesse parole di Aprile: «Per condannare i meridionali a uno stato di minorità civile ed economica, sono state necessarie prima le armi e i massacri, poi è bastato isolarli. Ma il web è viaggiare senza percorrere spazi: scompare, così, lo svantaggio di ferrovie mai fatte e treni soppressi, di autostrade e aeroporti mancanti. Il Sud è, da un momento all’altro, alla pari. E può prendere il largo, su quella pista, perché per la prima volta, dopo 150 anni, è nelle stesse condizioni dei concorrenti». Dire web è dire Internet. Che annulla le distanze: tu puoi stare in un qualsiasi posto del mondo e lavorare per qualsiasi altro posto del mondo. E con Internet vale il tuo talento davanti al computer e basta, anche se stai, chessò, a Matera, unica città italiana senza il treno delle Ferrovie dello Stato. In questo senso Internet annulla anche le differenze di opportunità fra i territori. Con un computer un cittadino in Bangladesh ha le stesse possibilità di lavoro di un cittadino degli Stati Uniti. Così Internet può cancellare anche l’attuale svantaggio del Sud, la sua perifericità geografica: che lo Stato in 150 anni ha accentuato invece di ridurla.

Come? Creando un divario nelle infrastrutture fra Centro Nord e Sud che supera 1140 per cento. E non solo infrastrutture materiali (dalle autostrade agli aeroporti, appunto), ma anche immateriali (ricerca, formazione, sicurezza) e sociali (scuole, ospedali, assistenza). Ecco perché il terrone per la prima volta in 150 anni potrà cessare di emigrare. Facendo da casa ciò che finora può fare soltanto andando via. E dimostrandosi, se lo è, bravo quanto un privilegiato italiano del Centro Nord che finora ha avuto più possibilità di lui perché la produzione di oggetti e il lavoro crescono dove ci sono più mezzi a disposizione: a cominciare dalle infrastrutture. Il «capitale sociale», beni pubblici alla base di qualsiasi sviluppo. Aprile ci ha abituato allo sguardo lungo. Dopo quello all’indietro sulle bugie storiche verso il Sud, ecco ora quello immaginifico su un futuro possibile a favore del Sud. Col superamento di un ritardo tanto tenace e mortificante quanto mai affrontato con leggi e mezzi necessari. E col sospetto che si fingesse di cambiare qualcosa per lasciare tutto come prima. In poche parole: la ricchezza di una parte del Paese basata sulla minore ricchezza dell’altra. Con Internet oggi si fanno la metà dei lavori del mondo. E se finora il vantaggio del Nord era sfornare merci, ora il vantaggio del Sud è poter sfornare idee. E di idee i giovani terroni scoppiano: ecco la grande occasione comunicata con la perentorietà della rivelazione. Ovvio che non tutto spunti per magia: anche i computer sono meno al Sud, e non c’è in Italia quella banda larga che li faccia funzionare da computer e non da catorci. Ma la forza evocativa, la visione di Aprile è contagiosa e irresistibile anche quando suona più controversa e forse (stavolta) troppo ottimistica. Ma col pessimismo non si fa nulla. E poi leggiamo questa sua sorta di libro-testamento: ci sono racconti su ciò che fanno i giovani sudisti proiettati nel domani tecnologico da convincere che il futuro d’Italia è proprio qui. Cose entusiasmanti che nessuno avrebbe potuto immaginare (soprattutto in Puglia), meno che mai chi non guarda, sentenzia. Come nessuno avrebbe potuto immaginare, conclude Aprile, che ciò che non è riuscito ai padri, può riuscire ai figli. Cosicché presto sarà solo un ricordo che per un secolo e mezzo fummo terroni. “Giù al Sud. Perché i terroni salveranno l’Italia” di Pino Aprile è il racconto di un’Italia ancora spaccata in due, di rancori non sopiti, di ferite non rimarginate, dove i ricordi di un passato di sudditanza e soprusi non sono stati cancellati. Ma è anche la storia di nuove generazioni, colte ed intraprendenti, che fanno ribaltare atavici pregiudizi. Già autore di "Terroni", l’autore conosce bene la Storia e si è documentato con serietà e rigore prima di stendere denunce e dare aggiornamenti sulle nuove risorse. In questo viaggio giù al sud si incontrano realtà inattese, che stimolano e inorgogliscono. Il libro può essere letto per capitoli separati, ognuno spunto di riflessione. Lucida ed interessante l’analisi della nuova generazione di trentenni meridionali, colti, scaltri e fantasiosi, affamati di storia, di ricostruzione dell’identità meridionale, avvertita come risorsa economica e personale. Esenti da quel senso di inferiorità che spesso ha frenato e ancora frena i loro padri, si sentono e sono cittadini del mondo, un mondo in cui si muovono sicuri. Forte è l’interesse per l’antropologia in Calabria: è una necessità di sapere di sé, è un “bisogno di passato”, di recupero di un terreno perduto.

Come l’Odisseo omerico, il cui futuro è nella sua radice: ha già fatto il viaggio e ora torna a casa, per essere completo. Hanno desiderio e capacità di riscatto, usano i problemi come risorse, hanno idee, e le portano avanti con creatività e fiducia. Sono interessati alla riscoperta di nomi e bellezze, di luoghi e di cose, dalla toponomastica all’agricoltura, alla produzione di olii, vini, pani; forte l’orgoglio e il senso di appartenenza, per una terra “ritrovata”, per la forza fisica e morale delle sue donne, per la musica che si miscela alla poesia di antichi testi grecanici, che i giovani studiano e tramandano. In questo viaggio si incontra la Murgia, “giardino di ulivi, ricamo di vigne, regione di orgoglio” grazie alla tenacia dei suoi abitanti, che dalla sterile roccia hanno fatto emergere terra grassa e feconda. E poi la Puglia, dove “un deserto si è fatto un orto” a prezzo di un lavoro disumano. Benessere e convivenza anche a Riace, altra tappa di questo percorso, dove nel convivere e condividere di Calabresi ed extra-comunitari integrati, o di passaggio, si evidenzia un forte senso di ospitalità e umanità, e così a Sovereto, luogo di accoglienza per stranieri e tossicodipendenti, luogo di rinascita fisica e morale. Esaltanti le tante storie di giovani coraggiosi, ricchi di ingegno ed iniziative, che restano nella loro terra, rendendola migliore. Di contro, altri emigrati sembrano voler prendere le distanze dai luoghi natii, rinnegando le proprie origini, disprezzando ciò che si è perso e sopravalutando ciò che si è acquisito, in una sorta di “amputazione della memoria”.

La minorità del Calabrese è atavica, è un senso di inferiorità non scalfito dal tempo. Le privazioni subite, l’espoliazione delle antiche ricchezze, hanno costruito ed alimentato la minorità meridionale.

Ma bisogna reagire, esorta l’autore, cercando la solidarietà e l’appoggio di tutti al Nord, perché tutti sappiano, perché si raggiunga un equilibrio perduto. I testi di Pino Aprile sono il tentativo di un riscatto storico, quello di un’Italia che 160 anni fa aveva una propria identità di stato e che dopo l’Unità l’ha persa, col dominio del Nord sul Sud; sono un’esortazione, soprattutto per i giovani, al recupero di questa identità. Questo testo è una guida, ricca, aggiornata, colta, che va al di là ed oltre i luoghi e la Storia, è un compendio di storie personali e familiari, che si intersecano col territorio, sino a trasformarlo, ad arricchirlo, a renderlo appetibile. Le pagine più belle sono quelle descrittive, in cui i luoghi fisici si trasformano in luoghi dell’anima; Vieste e il suo faraglione, la cui sommità uno stilita rubava ad un gabbiano; Aliano, in Lucania, nella valle dell’Agri, “fra due marce muraglie di terra lebbrosa, tagliata dal fiume e dai suoi affluenti, disciolta dalla pioggia, butterata dal sole, che asciuga e svuota gli alveoli di creta.” … e la loro struggente bellezza si fonde nella malinconia dell’abbandono, mentre l’animo si perde nel sublime di fronte ai calanchi “orridi, belli e paurosi”. La presenza di elementi naturali, come il mare, il vento e l’energia che da essi si crea, conferisce forza e pathos ai movimenti dell’uomo sulla terra, rendendo le vicende umane grandiose. Lo sguardo dell’autore ha il privilegio della lontananza, che consente una visione d’insieme, quindi più completa e reale. Le sue parole trasudano orgoglio di appartenenza, ampiezza di orizzonti, fisici e mentali. Sono arrivato alla fine del libro, ma non sono riuscito a trovare una risposta alla domanda che mi ero fatta leggendo il sottotitolo del libro: perché i terroni dovrebbero salvare l'Italia? Così commenta Rocco Biondi. Non vedo un motivo plausibile che dovrebbe spingere i meridionali, che per 150 anni sono stati annientati dalla cultura e dall'economia nordista, ad avere un qualsiasi interesse ad impegnarsi in un qualche modo per risollevare le sorti dell'Italia cosiddetta unita. Questa convinzione mi proviene dall'attenta lettura fatta a suo tempo di "Terroni" ed ora di "Giù al Sud". I due libri di Pino Aprile sono accomunati dal riuscito tentativo di indicare possibili strade di "guerriglia culturale" per far uscire i meridionali dalla minorità cui sono stati condannati dagli artefici della malefica unità. La strada maestra è stata ed è la ricerca della "propria storia denigrata e taciuta". E questa fame di storia è avvertita come risorsa economica e personale. Si cercano i documenti, si scrive l'altra storia, quella della stragrande maggioranza degli abitanti del Sud che dopo il 1860 si sono opposti alla invasione piemontese. Si scoprono i nostri padri briganti, che hanno lottato e sono morti per la loro terra, le loro famiglie, la loro patria. Si dà vita a progetti artistici che hanno come protagonista il proprio passato, del quale non ci si vergogna più. Per andare avanti bisogna ripartire da quel che eravamo e da quel che sapevamo. I nostri antenati subirono e si auto-imposero la cancellazione forzosa della verità storica. Bisogna riscoprirla questa verità se vogliamo diventare quello che meritiamo di essere. Nel Sud i guai arrivarono con l'Unità. Le tasse divennero feroci per «tenere in piedi la bilancia dei pagamenti del nuovo Stato e concorsero a finanziare l'espansione delle infrastrutture nel Nord».A danno del Sud, dove le infrastrutture esistenti vennero smantellate. Messina, perno commerciale dell'intera area dello Stretto, perse il privilegio di porto franco, con scomparsa di molte migliaia di posti di lavoro. La Calabria, che oggi appare vuota e arretrata, era partecipe di fermenti e traffici della parte più avanzata d'Europa. In Calabria si producevano bergamotto, seta, gelsomino, lavanda, agrumi, olio, liquirizia, zucchero di canna. Per favorire l'industria del Nord si provocò il crollo dell'agricoltura specializzata del Sud, chiudendo i suoi mercati che esportavano oltralpe. Scrive Pino Aprile: «L'Italia non è solo elmi cornuti a Pontida, pernacchie padane e bunga bunga».L'Italia è anche la somma di tantissime singolarità positive esistenti nel Sud. E il suo libro è la narrazione, quasi resoconto, degli incontri avuti con queste realtà nei suoi viaggi durati tre anni dopo l'uscita di "Terroni". Pino Aprile si chiede ancora: «Perché la classe dirigente del Sud non risolve il problema del Sud, visto che il Nord non ha interesse a farlo?». E risponde: perché la classe dirigente nazionale è quasi tutta settentrionale, perché il Parlamento è a trazione nordica, perché le banche sono tutte settentrionali o centrosettentrionali, perché l'editoria nazionale è quasi esclusivamente del Nord, perché la grande industria è tutta al Nord e solo il 7,5 per cento della piccola e media industria è meridionale. E allora che fare? «Finché resterà la condizione subordinata del Sud al Nord - scrive Pino Aprile -, la classe dirigente del Sud avrà ruoli generalmente subordinati. Quindi non "risolverà", perché dovrebbe distruggere la fonte da cui viene il suo potere delegato. Si può fare; ma si chiama rivoluzione o qualcosa che le somiglia. E può essere un grande, pacifico momento di acquisizione di consapevolezza, maturità. Succede, volendo».E non ci si può limitare alla denuncia, bisogna lasciarsi coinvolgere direttamente e personalmente, per governare questi fenomeni.

Negli Stati Uniti d'America i persecutori hanno saputo pacificarsi con le loro vittime indiane, riconoscendo il loro sacrificio ed onorandole. In Italia questo non è ancora avvenuto, gli invasori piemontesi non hanno ancora riconosciuto le motivazioni della rivolta contadina e dei briganti. Noi meridionali dobbiamo pretendere questo riconoscimento. Noi meridionali l'unità l'abbiamo subita, non vi è stata un'adesione consapevole. Nei fatti essa unità è consistita nel progressivo ampliamento del Piemonte, con l'applicazione forzata delle sue leggi, strutture, tasse e burocrazia. Il Sud, ridotto a colonia, doveva smettere di produrre merci, per consumare quelle del Nord: da concorrente, a cliente. Non è vero che la mafia esiste solo al Sud. Milano è la principale base operativa per 'ndrangheta e mafia siciliana, dove si trasforma il potere criminale in potere economico, finanziario, politico. Stiamo per uscire dalla minorità, dopo un sonno di un secolo e mezzo, il Sud sembra aprire gli occhi. Lo sconfitto smette di vergognarsi di aver perso e recupera il rispetto per la propria storia. L'interesse primario dei meridionali non deve essere quello di salvare l'Italia, ma quello di valorizzare se stessi. Solo indirettamente e conseguentemente, forse, potrà avvenire il salvataggio dell'Italia intera.

SE NASCI IN ITALIA…

Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.

Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui,  con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

La negligenza dei PM. Marianna Manduca e le altre o gli altri.

Per la Corte di Cassazione 12 denunce disattese valgono “la negligenza inescusabile” dei PM.

Commento di Antonio Giangrande. Scrittore e sociologo storico.

Trattare il caso di Marianna Manduca, anche in video, è come trattare miriadi di casi identici, così come ho fatto in “Ingiustiziopoli. Disfunzioni del sistema che colpiscono i singoli”, e mi porta ad affrontare un tema che tocca argomenti inclusi in vari saggi da me scritti e pubblicati su Amazon.it e su Lulu.com o su Createspace.com.

Per la verità la decisione della Corte di Cassazione, tanto enfatizzata dai media, è intervenuta solo per affermare un principio giuridico formale. La Suprema Corte ha accolto il ricorso con il quale il tutore dei tre bambini (Carmelo Calì che è un cugino della loro mamma che vive a Senigallia, nelle Marche) ha fatto valere il diritto dei piccoli a ottenere giustizia. La Corte di Appello di Messina non potrà più respingere la richiesta sostenendo che sono scaduti i termini e che l’azione andava esercitata entro i due anni dalla morte di Marianna. Per la Cassazione invece le argomentazioni dei magistrati messinesi «non hanno giuridico fondamento» perchè - spiegano i supremi giudici - il termine biennale, in un caso del genere, non può decorrere dal giorno della morte della donna ma «dal momento in cui i minori stessi avessero acquistato la capacità di agire», ovvero dal giorno in cui un adulto veniva ufficialmente nominato loro tutore.

La Corte Suprema, sulla base della legge del 1988 sulla responsabilità civile dei magistrati, ha affermato che  i figli di Marianna ora potranno avere un risarcimento dallo Stato per la «negligenza inescusabile» dei pm che avrebbero dovuto invece occuparsi di quelle denunce.

Tanto si è parlato del caso di Marianna Manduca. Per la Cassazione i magistrati non diedero importanza alle denunce della donna poi uccisa dal marito ed è per questo che i suoi tre figli hanno diritto ad un risarcimento. Il padre uxoricida è stato condannato a soli venti anni di reclusione. Le aggressioni alla ex moglie erano tutte avvenute in pubblico. Ciò nonostante nessuno condusse indagini e nemmeno prese provvedimenti a tutela della donna in pericolo, nonostante le sue richieste di aiuto.

«Spesso la legge non tutela le donne, ma in questo caso anche quelle previste non sono state applicate - denuncia l'avvocato Corrado Canafoglia - è incredibile che dodici aggressioni avvenute in strada, pubblicamente e alla presenza di testimoni l'uomo non sia stato allontanato». Ergo: sbagliano le toghe, pagano gli italiani, muoiono le vittime.

Ma a tutti è sfuggito un particolare importante che porta a chiederci: per le toghe quante denunce insabbiate valgono una vita umana? Una, due, tre, dieci…Oppure fino a che punto lo stantio o l’inerzia provoca l’inevitabile evento denunciato?

E perché, come ai poveri cristi, alle toghe omissive non viene applicato il reato di omissione d’atti di ufficio, ex art. 328 C.P.? Non si paventa il dolo omissivo?

Non si pensi che la morte di Marianna Manduca sia un caso isolato e riferito solo alla trinacride magistratura. Per i miscredenti vi è un dato, rilevato dal foro di Milano tratto da un articolo di Stefania Prandi del “Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano che puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. «La tendenza è di archiviare, spesso de plano, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di conflittualità familiare – spiega Francesca Garisto, avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico, che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano». Entrando nel merito della “leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: «Dopo una denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio».

La sua storia è esemplare: è il padre di Carmela. «Una ragazzina di 13 anni - scrive Alfonso - che il 15 aprile del 2007 è deceduta volando via da un settimo piano della periferia di Taranto, dopo aver subito violenze sessuali da un branco di viscidi esseri», ma poi anche le incompetenze e la malafede di quelle Istituzioni che sono state coinvolte con l’obiettivo di tutelarla», perché «invece di rinchiudere i carnefici di mia figlia hanno pensato bene di rinchiudere lei in un istituto (convincendoci con l’inganno) ed imbottendola di psicofarmaci a nostra insaputa». Carmela aveva denunciato di essere stata violentata; e nessuno, né polizia, né magistrati, né assistenti sociali le avevano creduto o l’avevano presa sul serio. Ma le istituzioni avevano anche fatto di peggio. Hanno considerato Carmela «soggetto disturbato con capacità compromesse» e, quindi, poco credibile.

Invece di perseguire chi l’aveva violentata, hanno di fatto perseguito una bambina rinchiudendola in vari istituti in cui Carmela non voleva stare. E, come ha denunciato il padre, usando il metodo facile di «calmarla» con psicofarmaci.

Fin qui la questione attinente al femminicidio.

L’uomo orco da scotennare? No! C’è un paradosso da non sottovalutare. Se i Pm insabbiano, i giudici sono punitivi.

«Giudici punitivi, sempre dalla parte delle madri. E padri disperati: troppe le storie quotidiane di sofferenza atroce». E’ agguerrito Alessandro Poniz di Martellago (Ve), coordinatore Veneto dell’associazione Papà Separati. Esprime la rabbia e la frustrazione che ogni giorno tanti genitori «vessati dall’ex coniuge» riversano su di lui. «Ci si scontra continuamente con madri “tigri” tutelate dalla legge - accusa Poniz - . Non mi stupisce il dramma del papà di Padova. Sì, sono convinto che per la disperazione si possa arrivare a togliersi la vita. Sapete quanti padri si presentano puntuali a prendere i figli, secondo le sentenze stabilite dai tribunali, suonano il campanello e vengono mandati via dalla madre con la scusa che il bimbo è ammalato? Escamotage simili vanno avanti per anni... E quanti scontano l’odio e il rancore di figli “plagiati” dalle madri?».

«Il sistema non è mai pronto a intervenire tempestivamente», sostiene Alessandro Sartori, presidente Veneto dell’associazione italiana avvocati per la famiglia e per i minori (Aiaf). «Ci vorrebbe una formazione specifica sia per i giudici che per i servizi sociali. A volte sono chiamati a pronunciarsi su questa materia delicatissima giudici che fino al giorno prima si occupavano di diritto condominiale...».

Divorzi e paternità: ecco come la donna violenta l'uomo. False denunce e false accuse tra violenze fisiche, verbali e paternità negate. Nella coppia la donna diventa sempre più violenta. Ecco i risultati sconcertanti del questionario, scrive Nadia Francalacci  su “Panorama”. “Sono prive di fondamento le teorie dominanti che circoscrivono ruoli stereotipati: donna/vittima e uomo/carnefice”. Ad affermarlo è la psicologa forense Sara Pezzuolo, dopo aver condotto in Italia la prima “Indagine conoscitiva sulla violenza verso il maschile”. “Dal questionario emerge come anche un soggetto di genere femminile sia in grado di mettere in atto una gamma estesa di violenze fisiche, sessuali e psicologiche - continua a spiegare a Panorama.it, l’esperta - che trasformano il soggetto di genere maschile in vittima”.

E quando gli affidi diventano scippi e le vittime sono i figli ed entrambi i genitori?

Ci sono i falsi abusi, ma che realizzano vere tragedie. Solo 3 denunce su 100 si concludono con una condanna.

Minori strappati dalle mura domestiche e rinchiusi all’interno di comunità.  Storie di sofferenze, abusi, maltrattamenti, ma anche di errori giudiziari, che segnano indelebilmente la vita di minori, costretti a vivere e crescere in comunità o famiglie affidatarie lontane dall’affetto dei genitori.

Da quanto detto si estrae una semplice conclusione. Il sistema esaspera gli animi ed il debole soccombe. Non vi è differenza di sesso od età. Solo i media esaltano il fenomeno del femminicidio. Lo fanno per non colpire i veri responsabili: i magistrati.

Bene. Anzi, male. Perché se è vero, come è vero, che  questo sistema della stagnazione delle denunce o la loro invereconda procedibilità viene applicato anche per qualsiasi altro tipo di reato violento, allora si è consapevoli del fatto che ogni vittima è rassegnata al peggio. Si badi bene. Qui si parla anche di vittime di estorsioni. Quindi vittime di mafia. Senza parlare poi delle vittime di errori giudiziari.

Ecco, allora, chiedo a Voi toghe. Quando scatterebbe la “la negligenza inescusabile” dei PM che provoca morte o rassegnazione, dopo una, due, tre, dieci…denunce? Ce lo dite con una vostra alta sonante pronuncia, in modo che noi vittime, poi, teniamo il conto di quelle già insabbiate. Se poi, in virtù dell’indifferenza sopravviene la morte, chissà, forse i nostri figli si potranno rivalere economicamente, non sui responsabili, come sarebbe giusto, ma, bontà vostra, sui nostri e vostri concittadini che pagano le tasse anche per quei risarcimenti del danno. Danni riferiti a responsabilità dei magistrati, ma non a questi addebitati. 

Giustizia per Marianna, uccisa dopo 12 denunce, scrive Gianluca Mercuri su “Il Corriere della Sera”. Marianna Manduca aveva 32 anni quando, il 3 ottobre 2007, il suo ex marito Saverio Nolfo la ammazzò con dodici coltellate. Dodici come le denunce che la ragazza aveva presentato alla Procura di Caltagirone, senza che nessuno prendesse sul serio le minacce e le aggressioni, perfino pubbliche, che subiva. Accadde a Palagonia, nel Catanese, e pochi giorni dopo Marianna avrebbe vinto la lunga battaglia giudiziaria per l’affidamento dei tre figli. L’uomo sconta una condanna a vent’anni, ma finora la vittima non aveva mai avuto vera giustizia, né in vita né in morte. Ora forse un inizio di giustizia c’è. Il 12 settembre la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso del cugino di Marianna, tutore dei suoi figli, che vivono con lui e la sua famiglia nelle Marche. In base a questa sentenza, la Corte di Appello di Messina non potrà più respingere per scadenza dei termini la richiesta di risarcimento ai tre ragazzi per la “negligenza inescusabile” dei pubblici ministeri che avrebbero dovuto prendere in esame le denunce della madre. Per i giudici messinesi, l’istanza andava presentata entro due anni dalla morte di Marianna. La Cassazione li costringerà a ragionare: la scadenza dei termini va calcolata «dal momento in cui i minori stessi avessero acquistato la capacità di agire», cioè dal giorno in cui un adulto è stato nominato loro tutore, cosa avvenuta solo nel dicembre 2010. Il rifiuto di ammettere la richiesta di indennizzo era stato solo l’ultimo affronto della giustizia di questo paese a Marianna Manduca e alla sua memoria. Prima c’era stata l’inerzia di fronte alle sue denunce, e prima ancora l’incredibile decisione di affidare i bambini al padre, nullatenente e tossicodipendente ma capace – dopo avere di fatto sequestrato i figli e impedito per mesi alla madre di vederli – di plagiarli fino a indurli a mostrarsi ostili a Marianna nelle udienze in cui si discuteva la loro sorte. La giustizia ci cascò: quando stava finalmente per rimediare, arrivarono le pugnalate di Saverio Nolfo. Alla ragazza non era bastato il coraggio di lasciare il marito dopo anni di violenze. La sua storia (raccontata da Amore criminale su Raitre e visibile su YouTube) ricalca le tante lette e ascoltate troppe volte: un amore ingenuo, l’errore di cedere alla richiesta di rinunciare al proprio lavoro, l’inizio dell’incubo, la vergogna e il terrore di ribellarsi: «Capisco che è difficile, a chi non ha mai vissuto nulla di simile, comprendere tutto ciò, soprattutto comprendere come sia possibile patire tutto e sempre in silenzio, ma avevo molta paura e il clima in cui vivevo era davvero pesante». Sono parole di Marianna. Poi Marianna la paura seppe vincerla, ma non le bastò. L’invito giusto e ovvio che viene sempre rivolto alle donne nella sua situazione – smettete di subire, affidatevi alle istituzioni – lei lo accolse ma le istituzioni la presero a botte come il marito. Ora che finalmente la Cassazione ha cambiato il corso di questa storia, sarebbe bello che la Corte di Appello di Messina e la Presidenza del Consiglio – nei cui confronti è stata avanzata la richiesta di risarcimento per gli orfani – si arrendessero al buon senso e la dessero vinta, senza il minimo ostruzionismo, a chi si prende cura di quei ragazzi. In nome di Marianna Manduca, sette anni fa vittima di femminicidio.

La Cassazione: «Dai pm negligenza inescusabile. Ora lo Stato risarcisca i figli di Marianna», scrive “La Sicilia”. Per la Cassazione i magistrati non diedero importanza alle denunce di donna poi uccisa dal marito ed è per questo che i suoi tre figli hanno diritto ad un risarcimento. La vicenda si riferisce all’omicidio di Marianna Manduca - uccisa il 3 ottobre del 2007 con dodici coltellate a Palagonia – vittima delle furia del marito nonostante essa l’avesse già denunciato dodici volte alla Procura di Caltagirone le intenzioni omicide dell’ex marito Saverio Nolfo. La Corte Suprema, sulla base della legge del 1988 sulla responsabilità civile dei magistrati, ora potranno avere un risarcimento dallo Stato per la «negligenza inescusabile» dei pm che avrebbero dovuto invece occuparsi di quelle denunce. La Cassazione ha insomma accolto la richiesta del legale dei tre adolescenti, l’ex pm antimafia Aurelio Galasso. La Suprema Corte ha accolto il ricorso con il quale il tutore dei tre bambini (che è un cugino della loro mamma che vive nelle Marche) ha fatto valere il diritto dei piccoli a ottenere giustizia. La Corte di Appello di Messina non potrà più respingere la richiesta sostenendo che sono scaduti i termini e che l’azione andava esercitata entro i due anni dalla morte di Marianna. Per la Cassazione invece le argomentazioni dei magistrati messinesi «non hanno giuridico fondamento» perchè - spiegano i supremi giudici - il termine biennale, in un caso del genere, non può decorrere dal giorno della morte della donna ma «dal momento in cui i minori stessi avessero acquistato la capacità di agire», ovvero dal giorno in cui un adulto veniva ufficialmente nominato loro tutore. La Corte di Appello ora deve considerare valida la domanda risarcitoria avanzata nei confronti della Presidenza del Consiglio dei ministri a nome dei tre figli di Marianna. Il padre uxoricida è stato condannato a venti anni di reclusione. La aggressioni alla ex moglie erano tutte avvenute in pubblico. Ciò nonostante nessuno condusse indagini, e nemmeno prese provvedimenti a tutela della donna in pericolo nonostante le sue richieste di aiuto. L’aggressione fatale avvenne alla vigilia della sentenza che doveva affidare i tre bambini alla mamma dopo la separazione. L’omicida accoltellò non solo la donna, ma colpì gravemente anche Salvatore Manduca (59 anni), il padre di Marianna, l’unico uomo che l’ha difesa.

Marianna Manduca, geometra di 32 anni di Pagonia, Catania aveva denunciato suo marito Saverio Nolfo ben 12 volte per percosse e minacce, tutte avvenute in pubblico, ma l'autorità giudiziaria non ha mai preso provvedimenti. Poi 12 coltellate hanno posto fine alla vita della donna, scrive Michele Pinoto su “Vivere Senigallia”. Ora i suoi tre figli, di 3, 5 e 6 anni, sono affidati ad una famiglia senigalliese. La storia di Marianna Manduca ha dell'incredibile. Dopo la separazione dal marito, Saverio Nolfo, 36 anni, tossicodipendente, è iniziato un vero e proprio inferno. Nolfo l'ha picchiata più e più volte, tanto che la donna ha presentato ai carabinieri ben 12 denuncie. Il presidente del tribunale ha in un primo momento affidato i tre figli della coppia al marito,  nonostante fosse nullatenente e tossicodipendente mentre Marianna aveva un lavoro fisso. Dopo una difficile e lunga battaglia legale la donna è riuscita a riprendere i bambini in via temporanea. A pochi giorni dalla sentenza che le avrebbe affidato i figli in via definitiva e le avrebbe quindi permesso di trasferirsi lontano, a Milano dove aveva dei parenti, il marito la tampona con l'auto, per costringerla a fermarsi, poi accoltella il padre della donna ed infine la uccide con 12 coltellate. "Spesso la legge non tutela le donne, ma in questo caso anche quelle previste non sono state applicate - denuncia l'avvocato Corrado Canafoglia - è incredibile che 12 dodici aggressioni avvenute in strada, pubblicamente e alla presenza di testimoni l'uomo non sia stato allontanato. Non appena sarà nominato il nuovo Ministro Guardasigilli chiederemo un ispezione ministeriale per sapere chi non ha svolto il proprio dovere e per intraprendere un'azione giudiziaria". Per rendersi conto dell'incubo vissuto dalla donna possiamo leggere alcune delle sue parole: "Ho riferito circostanze precise in merito all'ultima vile aggressione (non saprei definirla diversamente) perpetrata nei miei confronti culminata addirittura a colpi di sedia. Aggressione, che mi ha costretto ad abbandonare la residenza familiare per evitare ben più gravi conseguenze. In quella occasione i sanitari della guardia medica mi refertarono acchimosi in tutto il corpo. Ancora oggi porto i segni di tale aggressione. Purtroppo però quella non è stata l'unica volta che ho subito violenze. Mi ha sempre minacciato di morte se avessi raccontato a chiunque quello che mi faceva e a causa di ciò ho sempre temuto per la mia incolumità e per quella dei miei figli. Capisco che è difficile, a chi non ha mai vissuto nulla di simile, comprendere tutto ciò, soprattutto comprendere come sia possibile patire tutto e sempre in silenzio, ma avevo molta paura e il clima in cui vivevo era davvero pesante. Non ho mai raccontato prima di ora questi gravissimi episodi solo ed esclusivamente per paura ed anche perché mio marito minacciava ritorsioni contro i miei figli". Dopo l'omicidio Nolfo è stato arrestato ed i tre bambini sono stati affidati a Carmelo Calì, cugino di Marianna e residente a Senigallia. "Quando siamo andati a prendere i bambini, nell'ottobre del 2007, pochi giorni dopo l'omicidio di mia cugina, è stata necessaria la scorta delle forze dell'ordine, tale era il clima a Pagonia. Oggi i bambini stanno bene a casa mia, insieme ai miei due figli. Vorrei ringraziare il Comune di Senigallia per il sostegno: non è facile mantenere 5 figli, in particolare l'assessore Volpini e il dirigente Mandolini". La necessità di una scorta fa pensare che in questa storia non sia estranea la mafia, tanto che Calì ha anche oggi, a Senigallia, ha paura di ritorsioni.

In Italia, spesso, ottenere giustizia è una chimera. In campo penale, per esempio, vige un istituto non  previsto da alcuna norma, ma, di fatto, è una vera consuetudine. In contrapposizione al Giudizio Perenne c’è l’Insabbiamento.

Rispetto al concorso esterno all’associazione mafiosa, un reato penale di stampo togato e non parlamentare, da affibbiare alla bisogna, si contrappone una norma non scritta in procedura penale: l’insabbiamento dei reati sconvenienti.

A chi è privo di alcuna conoscenza di diritto, oltre che fattuale, spieghiamo bene come si forma l’insabbiamento e quanti gradi di giudizio ci sono in un sistema che a livello scolastico lo si divide con i fantomatici tre gradi di giudizio.

Partiamo col dire che l’insabbiamento è applicato su un fatto storico corrispondente ad un accadimento che il codice penale considera reato.

Per il sistema non è importante la punizione del reato. E’ essenziale salvaguardare, non tanto la vittima, ma lo stesso soggetto amico, autore del reato.

A fatto avvenuto la vittima incorre in svariate circostanze che qui si elencano e che danno modo a più individui di intervenire sull’esito finale della decisione iniziale.

La vittima, che ha un interesse proprio leso, ha una crisi di coscienza, consapevole che la sua querela-denuncia può recare nocumento al responsabile, o a se stessa: per ritorsione o per l’inefficienza del sistema, con le sue lungaggini ed anomalie. Ciò le impedisce di proseguire. Se si tratta di reato perseguibile d’ufficio, quindi attinente l’interesse pubblico, quasi sempre il pubblico ufficiale omette di presentare denuncia o referto, commettendo egli stesso un reato.

Quando la denuncia o la querela la si vuol presentare, scatta il disincentivo della polizia giudiziaria.

Ti mandano da un avvocato, che si deve pagare, o ti chiedono di ritornare in un secondo tempo. Se poi chiedi l’intervento urgente delle forze dell’ordine con il numero verde, ti diranno che non è loro competenza, ovvero che non ci sono macchine, ovvero di attendere in linea, ovvero di aspettare che qualcuno arriverà………

Quando in caserma si redige l’atto, con motu proprio o tramite avvocato, scatta il consiglio del redigente di cercare di trovare un accordo e poi eventualmente tornare per la conferma.

Quando l’atto introduttivo al procedimento penale viene sottoscritto, spesso l’atto stanzia in caserma per giorni o mesi, se addirittura non viene smarrito o dimenticato…

Quando e se l’atto viene inviato alla procura presso il Tribunale, è un fascicolo come tanti altri depositato su un tavolo in attesa di essere valutato. Se e quando….. Se il contenuto è prolisso, non viene letto. Esso, molte volte, contiene il nome di un magistrato del foro. Non di rado il nome dello stesso Pubblico Ministero competente sul fascicolo. Il fascicolo è accompagnato, spesso, da una informativa sul denunciante, noto agli uffici per aver presentato una o più denunce. In questo caso, anche se fondate le denunce, le sole presentazioni dipingono l’autore come mitomane o pazzo.

Dopo mesi rimasto a macerare insieme a centinaia di suoi simili, del fascicolo si chiede l’archiviazione al Giudice per le Indagini Preliminari. Questo senza aver svolto indagini. Se invece vi è il faro mediatico, allora scatta la delega delle indagini e la comunicazione di garanzia alle varie vittime sacrificali. Per giustificare la loro esistenza, gli operatori, di qualcuno, comunque, ne chiedono il rinvio a giudizio, quantunque senza prove a carico.

Tutti i fascicoli presenti sul tavolo del Giudice per l’Udienza Preliminare contengono le richieste del Pubblico Ministero: archiviazione o rinvio a giudizio. Sono tutte accolte, a prescindere. Quelle di archiviazione, poi, sono tutte accolte, senza conseguire calunnia per il denunciante, anche quelle contro i magistrati del foro. Se poi quelle contro i magistrati vengono inviate ai fori competenti a decidere, hanno anche loro la stessa sorte: archiviati!!!

Il primo grado si apre con il tentativo di conciliazione con oneri per l’imputato e l’ammissione di responsabilità, anche quando la denuncia è infondata, altrimenti la condanna è già scritta da parte del giudice, collega del PM, salvo che non ci sia un intervento divino,  (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. La difesa è inadeguata o priva di potere. Ci si tenta con la ricusazione, (escluso per il pm e solo se il giudice ti ha denunciato e non viceversa), o con la rimessione per legittimo sospetto che il giudice sia inadeguato, ma in questo caso la norma è stata sempre disapplicata dalle toghe della Cassazione.

Il secondo grado si apre con la condanna già scritta, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. Le prove essenziali negate in primo grado, sono rinegate.

In terzo grado vi è la Corte di Cassazione, competente solo sull’applicazione della legge. Spesso le sue sezioni emettono giudizi antitetici. A mettere ordine ci sono le Sezioni Unite. Non di rado le Sezioni Unite emettono giudizi antitetici tra loro. Per dire, la certezza del diritto….

Durante il processo se hai notato anomalie e se hai avuto il coraggio di denunciare gli abusi dei magistrati, ti sei scontrato con una dura realtà. I loro colleghi inquirenti hanno archiviato. Il CSM invece ti ha risposto con una frase standard: “Il CSM ha deliberato l’archiviazione non essendovi provvedimenti di competenza del Consiglio da adottare, trattandosi di censure ad attività giurisdizionale”.

Quando il processo si crede che sia chiuso, allora scatta l’istanza al Presidente della Repubblica per la Grazia, ovvero l’istanza di revisione perchè vi è stato un errore giudiziario. Petizioni quasi sempre negate.

Alla fine di tutto ciò, nulla è definitivo. Ci si rivolge alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che spesso rigetta. Alcune volte condanna l’Italia per denegata giustizia, ma solo se sei una persona con una difesa capace. Sai, nella Corte ci sono italiani.

Per i miscredenti vi è un dato, rilevato dal foro di Milano tratto da un articolo di Stefania Prandi del “Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano che puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. Secondo i dati su 1.545 denunce per maltrattamento in famiglia (articolo 572 del Codice penale) presentate da donne nel 2012 a Milano, dal Pubblico ministero sono arrivate 1.032 richieste di archiviazione; di queste 842 sono state accolte dal Giudice per le indagini preliminari. Il che significa che più della metà delle denunce sono cadute nel vuoto. Una tendenza che si conferma costante nel tempo: nel 2011 su 1.470 denunce per maltrattamento ci sono state 1.070 richieste di archiviazione e 958 archiviazioni. Nel 2010 su 1.407 denunce, 542 sono state archiviate.

«La tendenza è di archiviare, spesso de plano, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di conflittualità familiare – spiega Francesca Garisto, avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico, che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano». Entrando nel merito della “leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: «Dopo una denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio».

Scarsa anche la presa in considerazione delle denunce per il reato di stalking (articolo 612 bis del codice penale). Su 945 denunce fatte nel 2012, per 512 è stata richiesta l’archiviazione e 536 sono state archiviate. Per il reato di stalking quel che impressiona è che le richieste di archiviazione e le archiviazioni sono aumentate, in proporzione, negli anni. In passato, infatti, la situazione era migliore: 360 richieste di archiviazione e 324 archiviazioni su 867 denunce nel 2011, 235 richieste di archiviazione e 202 archiviazioni su 783 denunce nel 2010. Come stupirsi, dunque, che ci sia poca fiducia nella giustizia da parte delle donne? Manuela Ulivi, presidente Cadmi ricorda che soltanto il 30 per cento delle donne che subiscono violenza denuncia. Una percentuale bassa dovuta anche al fatto che molte, in attesa di separazione, non riescono ad andarsene di casa ma sono costrette a rimanere a vivere con il compagno o il marito che le maltrattata. Una scelta forzata dettata spesso dalla presenza dei figli: su 220 situazioni di violenza seguite dal Cadmi nel 2012, il 72 per cento (159) ha registrato la presenza di minori, per un totale di 259 bambini.

Non ci dobbiamo stupire poi se la gente è ammazzata per strada od in casa. Chiediamoci quale fine ha fatto la denuncia presentata dalla vittima. Chiediamoci se chi ha insabbiato non debba essere considerato concorrente nel reato.

Quando la giustizia è male amministrata, la gente non denuncia e quindi meno sono i processi, finanche ingiusti. Nonostante ciò vi è la prescrizione che per i più, spesso innocenti, è una manna dal cielo. In queste circostanze vien da dire: cosa hanno da fare i magistrati tanto da non aver tempo per i processi e comunque perché paghiamo le tasse, se non per mantenerli?

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

Giustizia da matti. L'ultima follia delle toghe: un'indagine sul morso di Suarez, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Una giornata come un’altra, quella di ieri 8 luglio 2014: assolvono i vertici di una delle prime aziende italiane (Mediaset) dopo aver però condannato il fondatore, condannano intanto il pluri-governatore dell’Emilia Romagna che perciò si dimette, aprono un’inchiesta surreale sul morso di Suarez a Chiellini - non l’inchiesta della Fifa: un'altra inchiesta tutta italiana - e per finire la magistratura apre, di passaggio, anche un’indagine sul concorso per magistratura. Questo senza contare le polemiche per gli sms inviati da un sottosegretario alla giustizia (un magistrato) i quali invitavano a votare un candidato per le elezioni del Csm, e senza contare, appunto, le elezioni del Csm, e senza contare, ancora, le dure parole del procuratore generale milanese Manlio Minale in polemica con l’archiviazione dell’esposto del procuratore aggiunto Alfredo Robledo contro il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati per presunte irregolarità nelle assegnazioni - prendete respiro - dopodiché Bruti Liberati ha provveduto a nuove assegnazioni che hanno portato a un nuovo esposto del procuratore aggiunto Robledo: tutto chiaro, no? Una giornata come un’altra, quella di ieri: e non dite che la magistratura sia un potere ormai incontrollabile e irresponsabile, perché potrebbero punirvi e togliervi i benefici di legge, non dite che la magistratura occupi ormai tutta la scena e, ormai priva di contrappesi, si stia cannibalizzando e al tempo stesso respinga qualsiasi riforma che possa farla riassomigliare a qualcosa di normale: non fate i berlusconiani, non fate i renziani travestiti. Da che cosa dovremmo incominciare? Quanto dovrebbe essere lungo, questo articolo, se davvero volessimo approfondire i vari addendi della giornata di ieri? Anche perché è la somma che lascia storditi. La Procura di Roma ha aperto un’indagine sul morso di Suarez durante Uruguay-Italia: l’ipotesi è violenza privata. Che dire? Come commentare? Cioè: davvero in questo preciso momento c’è un pubblico dipendente - ciò che è un magistrato - che sta occupandosi di questa sciocchezza per via di una denuncia del Codacons? E che gliene frega, al Codacons, del morso degli uruguaiani? Ma soprattutto: che ce ne frega, a noi, in un Paese che affoga nelle cause arretrate e dove gli imprenditori rinunciano ai contenziosi perché durerebbero 15 anni?

Poi c’è l’indagine della magistratura sul concorso per magistratura: e qui, invece, che cosa dovremmo pensare? Già è assurdo che basti un pubblico concorso, subito dopo gli studi universitari, per trascorrere tutta la vita da magistrato e percorrere automaticamente tutte le tappe di una lunga carriera: ma - domanda - è solo una battuta chiedersi che razza di magistrati possano uscire da un concorso truccato? Il concorso è quello del 25 e 26 e 27 giugno scorsi: un candidato ha denunciato una serie di irregolarità, il solito impiccione di un Codacons ha chiesto l’accesso ai verbali della commissione, c’è stata un’interrogazione parlamentare bipartisan, su un banco hanno trovato tre codici vidimati e timbrati dalla commissione nonostante il regolamento ne vietasse l’utilizzo: non male. Una candidata è stata scoperta mentre scriveva un tema prima ancora che la traccia venisse dettata: e questa ragazza, se passerà il concorso, finirà sino alla Cassazione. Stiamo facendo i brillanti e gli spiritosi? Rischiamo di scivolare, dite, nel qualunquismo anticasta? Ovunque rischiamo di scivolare, in verità, ci siamo già scivolati: è da almeno vent’anni che questo Paese è subordinato all’azione sempre più discrezionale delle magistrature: procure e tribunali avanzano in territori che appartenevano alla politica e l’imprigionano come i laccetti che imbrigliavano Gulliver. Quando non ci sarà più nessun mediocre politico con cui prendercela, forse, sarà a tutti più chiaro.

Strage Borsellino, errori o depistaggi? Ecco la storia “Dalla parte sbagliata”. In libreria nei primi giorni di luglio 2014 il volume di Rosalba De Gregorio, legale di sette imputati ingiustamente condannati nel primo processo su via D'Amelio, e Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico. La redazione de “Il Fatto Quotidiano” ne anticipa un brano. “Chi si nasconde dietro quel tanto vituperato «terzo livello» che ha legato mafia e pezzi delle Istituzioni attraverso il «papello», ha verosimilmente lo stesso profilo di chi ha ucciso il giudice Borsellino e di chi per 22 anni ci ha dato in pasto una storia da due lire, alla quale abbiamo voluto credere per sedare la diffusa ansia di giustizia che ha scosso il Paese nell’immediato dopo strage”, scrivono l’avvocato Rosalba Di Gregorio e la giornalista Dina Lauricella nel libro “Dalla parte sbagliata”, edito da Castelvecchi, con prefazione del magistrato Domenico Gozzo.Tre processi, 15 anni di indagini, 11 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e un nuovo processo, il “borsellino quater” che sta rimettendo tutto in discussione. Che cosa sappiamo oggi della strage di via d’Amelio e della morte di Paolo Borsellino? Davvero poco se consideriamo che la procura di Caltanissetta ha chiesto la revisione del vecchio processo. Un nuovo pentito, Gaspare Spatuzza, ha rimescolato le carte e oggi in aula, chi stava sul banco degli imputati, siede fra le parti civili. È il caso “dell’avvocato di mafia” Rosalba Di Gregorio, che da oltre vent’anni grida al vento le anomalie di un processo che si è basato sulle affermazioni di uno dei pentiti più anomali che i nostri tribunali abbiano mai visto, Vincenzo Scarantino. Per tutti e tre i gradi di giudizio ha inutilmente difeso 7 degli imputati condannati all’ergastolo (oggi tornati in libertà grazie alle dichiarazioni di Spatuzza), e nel libro racconta, con l’impeto e la passione che le è propria, in una sorta di diario di bordo, questi lunghi anni di processi e sentenze. Dina Lauricella, inviata di Servizio Pubblico, riavvolge il nastro di questa oscura storia del nostro Paese provando a riguardarla da una nuova prospettiva. I due punti di osservazione speciale sono quelli dell’ex pentito Vincenzo Scarantino e dell’avvocato Di Gregorio, legale di numerosi boss di Cosa Nostra, tra cui Bernardo Provenzano, Michele Greco e Vittorio Mangano. “Un racconto che parte dal basso, sicuramente di parte, dalla parte sbagliata, per costringerci all’esercizio di tornare indietro nel tempo, per sbarazzarci della confusione accumulata negli anni e, atti alla mano, rimettere al posto giusto le poche pedine certe”. Le stesse sulle quali, a 22 anni di distanza, è tornata ad indagare la procura di Caltanissetta. Seri e rodati cronisti, formati nell’aula bunker di Palermo durante il maxi processo, arrivati per primi sulle macerie e sui corpi dilaniati di via d’Amelio, hanno una fitta al cuore al pensiero che nei successivi 15 anni di vicende giudiziarie hanno visto, sentito e raccontato una storia che è crollata all’improvviso mostrandosi in tutta la sua fragilità. È stato l’ex procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato a chiedere che i processi «Borsellino» e «Borsellino bis» venissero revisionati a seguito delle rivelazioni del nuovo collaboratore, Gaspare Spatuzza. È per questo che tre anni fa, undici imputati, di cui sette condannati all’ergastolo, sono tornati in libertà. Clamoroso errore giudiziario o vile depistaggio che sia, la storia è da riscrivere e chi ha penna non dovrebbe risparmiare inchiostro. Ne serve molto per raccontare fedelmente i punti salienti dei tre processi che dal 1996 al 2008 hanno indagato sull’omicidio Borsellino. Sarebbe una semplificazione giornalistica dire che dobbiamo buttare all’aria tutti questi anni per colpa di Scarantino o di chi ha creduto in lui. Le sentenze del Borsellino ter, infatti, sopravvivono al terremoto Spatuzza, ma non è un caso: in questo processo Scarantino non ha alcun ruolo. Carcere a vita per l’allora latitante Bernardo Provenzano e per altri 10 imputati di grosso calibro, nessuno dei quali tirato in ballo da Scarantino. Questo troncone scaturisce infatti dalle dichiarazioni di mafiosi doc come Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante o Calogero Ganci. Il processo che la Procura di Catania dovrà revisionare, quando Caltanissetta stabilirà se Scarantino è o meno un calunniatore, come emerso dalle dichiarazioni di Spatuzza, è il Borsellino bis. È qui che Enzino fa da pilastro. Faticherà a distinguere i nomi dei mafiosi che coinvolge, non li riconoscerà in foto, talvolta si contraddirà, ma a fronte di un’informativa del Sisde che metteva in luce la sua parentela con il boss Salvatore Profeta, ha goduto di una fiducia che si è rivelata a dir poco esagerata.

Mostri a prescindere. Misteri e depistaggi. Finti pentiti e inchieste sballate. La strage palermitana di via Mariano D’Amelio, dove il 19 luglio 1992 morirono Paolo Borsellino e 5 agenti di scorta, non è soltanto uno dei peggiori drammi italiani: è anche uno dei più velenosi ingorghi giudiziari di questo Paese, scrive Rosalba Di Gregorio su “Panorama”. Tre processi, decine d’imputati, 7 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e tenute in carcere 18 anni per le false verità (incassate senza riscontri dai magistrati) del pentito Vincenzo Scarantino. Poi una nuova inchiesta, partita nel giugno 2008, ha iniziato a ribaltare tutto grazie alle rivelazioni (stavolta riscontrate) di Gaspare Spatuzza. Nel marzo 2013, a Caltanissetta, è iniziato un nuovo procedimento, con nuovi imputati: il "Borsellino quarter". Da oltre 21 anni Rosalba Di Gregorio, avvocato di Bernardo Provenzano e altri boss di Cosa nostra, contesta nei tribunali le anomalie di una giustizia che si è mostrata inaffidabile come alcuni dei suoi peggiori collaboratori. Con Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico, la penalista cerca adesso di riannodare i fili di una delle vicende più sconcertanti della nostra giustizia e lo fa in un libro difficile e duro, ma spietatamente onesto: Dalla parte sbagliata (Castelvecchi editore, 190 pagine, 16,50 euro). Per capire la portata del disastro d’illegalità di cui si occupa il libro, bastano poche righe della prefazione scritta da Domenico Gozzo, procuratore aggiunto a Caltanissetta: "Non ha funzionato la polizia. Non ha funzionato la magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm (...). Solo un avvocato di mafia ha gridato le sue urla nel vuoto". Urla che non sono bastate a evitare mostruosi errori giudiziari, per i quali nessun magistrato pagherà, e sofferenze indicibili per le vittime di tanta malagiustizia. Panorama pubblica ampi stralci del diario di una visita dell’avvocato Di Gregorio a un cliente sottoposto al "regime duro" del 41 bis nel carcere di Pianosa, appena un mese dopo via D’Amelio. Piombino, agosto 1992. Sotto il sole, all’imbarco, fa caldissimo anche se sono le 8 del mattino. Consegno i documenti e aspetto, ci sono altri due o tre colleghi e dobbiamo imbarcarci per Pianosa. Passano due ore di attesa e io cerco di capire perché mi sento ansiosa: in fondo, al carcere, ci vado da tanti anni. Alcuni colleghi mi hanno detto di vestirmi con abiti che possono essere buttati via, perché a Pianosa c’è troppa sporcizia, e ho indossato zoccoletti di legno, pantaloni di cotone e una maglia: tutto rigorosamente senza parti metalliche e sufficientemente brutto. Aspettiamo ancora, sotto il sole, e non si capisce perché. Tutte le autorizzazioni per i colloqui sono in regola e, infastidita dall’attesa, vado al posto di polizia per capire. "È per colpa sua se ancora non si parte". Non avevano previsto avvocati donne! Stanno convocando il personale femminile che si occupa dei colloqui dei detenuti con i parenti. Si parte. Il panorama è unico e spettacolare. Siamo arrivati a Pianosa e ci accolgono poliziotti e grossi cani che si lanciano ad annusarci appena scesi da una traballante passerella di legno. Meno male che non soffro di vertigini e non ho paura dei cani! Benvenuti a Pianosa. Sbarcati sull’isola, ci informano che è vietato avvicinarsi al mare, che non potremo acquistare né acqua, né altro: dovremo stare digiuni e assetati fino alle 17 sotto il sole, perché non c’è "sala avvocati", né luogo riparato ove attendere, né è consentito andare allo "spaccio delle guardie". (...) La perquisizione per me non è una novità, penso per rassicurarmi. E sbaglio. Nella stanzetta lurida, spoglia, vengo controllata col metal detector. Non suona perché non ho nulla di metallico addosso e allora sto per andarmene. Mi intimano di fermarmi, bisogna perquisire. Ma che significa? La perquisizione manuale non ha senso visto che non ho oggetti metallici. Chiedo a una delle due donne addette alla perquisizione perché ha indossato i guanti di lattice. Le due si guardano e una bisbiglia: "No, forse a lei no, perché fa l’avvocato". Ma che vuol dire? Ho imparato subito e ho sperimentato anche in successive visite, che a Pianosa nessuno sorride, tutti sembrano incazzati, gli avvocati sono i difensori dei mostri e quindi sembra che l’ordine sia di trattarli male: loro sono lo Stato e noi i fiancheggiatori dell’antistato. Questa etichetta, nei processi per le stragi del ’92, ce la sentiremo addosso, ma in modo diverso, forse più subdolo, certamente più sfumato: a Pianosa, invece, è proprio disprezzo. (...) Finalmente esco da quella stanzetta, sudata, anche innervosita, e passo nell’altra stanza a riprendermi il fascicolo di carte processuali, le sigarette e la penna per prendere appunti. O, almeno, pensavo di riprendere queste cose, ma la mia penna è "pericolosa" e mi danno una bic trasparente. Le mie sigarette resteranno lì, perché, per perquisire il pacchetto, sono state tutte tirate fuori e sparse sul bancone sporchissimo. Le mie carte processuali vengono lette, giusto per la sacralità del diritto di difesa. Sono di nuovo con i miei colleghi e sono nervosissima. Ci fanno salire su una jeep, con due del Gom, il Gruppo operativo mobile del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che, seduti davanti a noi, ci puntano i mitra in faccia, lungo tutto il percorso che va dal punto di approdo alla "Agrippa". Terra battuta, campetti coltivati dai detenuti: gli altri detenuti di Pianosa, non quelli del 41 bis. (...) Entriamo nella "sala colloqui", se così può definirsi quella stanza stretta, divisa in due, per tutta la sua lunghezza, da un muro di cemento ad altezza di tavolino, sormontato dal famoso "vetro del 41 bis". Come sedile c’è un blocco di cemento, alle nostre spalle c’è il "blindato" che viene chiuso rumorosamente. I rumori di Pianosa sono particolari: non senti parlare nessuno, la consegna pare sia il silenzio, senti solo rumori metallici, forti, sinistri, nel silenzio dell’isola. Non parlano nemmeno i 5 detenuti che ci portano dall’altro lato del vetro. I "boss" – fra loro c’erano anche incensurati, ma questo si scoprirà con 19 anni di ritardo – hanno lo sguardo terrorizzato, si limitano ad abbassare la testa, entrano già con la testa bassa e alle loro spalle viene rumorosamente chiuso il "blindato". Provo a chiedere, per educazione, come stiano, ma nessuno risponde. Io sono uscita da lì senza aver sentito la voce di nessuno di loro. Ma che succede? Perché, anziché guardare me o ascoltarmi, questi guardano, verso l’alto, alle mie spalle? Mi giro di scatto e vedo che lo sportellino del blindato dietro di me, quello che era stato chiuso al mio ingresso, è stato aperto e una guardia del Gom li osserva. No, forse è più giusto dire che li terrorizza con lo sguardo. (...) Torno sulla jeep e sono sconvolta. Per pochi minuti di non-colloquio, sono stata trattata come un delinquente. (...) Ho parlato con giornalisti, con colleghi, con magistrati, al mio ritorno da Pianosa e mi sono sentita dire che, in fondo, non ero obbligata ad andarci e che la mafia aveva fatto le stragi. Inutile ribattere che alcuni di quelli che erano a Pianosa erano presunti innocenti, persone in attesa di giudizio: in tempo di guerra le garanzie costituzionali vengono sospese. (...) "In ogni caso" mi ha detto un avvocato civilista illuminato "se hanno arrestato loro, vuol dire che, come minimo, si sono messi nelle condizioni di essere sospettati". E già... Un vantaggio estetico, però, c’è stato sicuramente. Alla mia seconda visita a Pianosa ho trovato i miei assistiti in forma fisica migliore: tutti magri, asciutti, quasi ossuti, direi. Il cibo razionato e immangiabile ha la sua influenza sulla dieta. (...) Nel ’94 sono stati arrestati, grazie a Vincenzo Scarantino, anche i futuri condannati (oggi scarcerati) del processo Borsellino bis: tra questi, Gaetano Murana, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso e Antonino Gambino erano incensurati e furono accusati da Scarantino di concorso nella strage di via D’Amelio. Di questi solo Nino Gambino sarà assolto dalla grave accusa d’aver partecipato al massacro del 19 luglio ’92. Gli altri, assolti in primo grado dopo la ritrattazione di Scarantino, saranno condannati e poi riarrestati a seguito dell’ulteriore ritrattazione della ritrattazione del "pentito a corrente alternata". Oggi, dopo Gaspare Spatuzza, sono scarcerati. Tutti, comunque, erano stati amorevolmente accolti nelle carceri di Pianosa e Asinara. Uno di questi, a Pianosa, ha subìto una lesione alla retina, per lo "schiaffo" di una guardia del Gom. A un altro sono state fratturate le costole. (...) Racconta, oggi, Tanino Murana: "Appena entrato a Pianosa dopo l’interrogatorio del gip, mi hanno portato alla “discoteca". La discoteca è il nome che i detenuti hanno dato alle celle dell’isolamento, perché li si balla per le percosse e per la paura. "Eppure" dice Tanino "so che dal ’92 al ’94, che è quando arrivai io, si stava peggio. Alcuni detenuti mi hanno detto, poi, quando li ho incontrati in altre carceri, che all’inizio il trattamento era peggiore". E perché non glielo hanno raccontato subito, mentre eravate a Pianosa? "Lì non si poteva parlare: si doveva stare in silenzio nelle celle a tre, o quattro posti. Le guardie del Gom non ci volevano sentire neppure bisbigliare. Ma questo vale da quando ci portavano in sezione. Alla discoteca si stava in cella singola". Era l’isolamento. L’accoglienza al supercarcere prevedeva, per iniziare, che il detenuto si spogliasse completamente e, nudo, iniziasse a fare le flessioni sulle gambe... tante, fino a non avere più fiato e, nel frattempo, veniva preso a botte dalle guardie, cinque, sei, otto... "Non lo so quanti erano... a un certo punto non capivi più nulla e trascinandoti di peso, ti portavano, nudo e stremato, fino alla cella, in discoteca, scaraventandoti dentro la stanzetta spoglia e sporca". Qui iniziava la seconda parte del trattamento: perquisizioni, flessioni, acqua e brodaglia razionati, botte, di giorno e di notte, per non farti dormire. "Appena ti addormentavi entravano le guardie, alcune pure incappucciate, spesso ubriache e davano pugni, calci, schiaffi... Dopo un po’ di tempo ho chiesto che mi uccidessero, non ce la facevo più". (...) Ma cosa vi davano da mangiare? "Una pagnotta al giorno, due tetrapak di acqua e poi se riuscivi a mangiarlo, il piatto del giorno". Cosa sarebbe? "Una brodaglia in cui, accanto a qualche pezzetto, o filo di pasta, galleggiava roba di qualunque genere". E cioè? "Io una volta ho trovato pure un preservativo". Ecco perché erano tutti magri e asciutti. Ecco perché, quando Scarantino, nel corso del processo Borsellino, il 15 settembre ’98, ha raccontato il suo trattamento a Pianosa, i detenuti sono rimasti impassibili e noi avvocati avevamo voglia di vomitare. All’epoca, non volendo prestare fede a Scarantino, neppure in ritrattazione, ho cercato di documentarmi. Ho trovato una sentenza del pretore di Livorno10, a carico di due guardie del Gom, processate a seguito della denuncia di un ex ospite di Pianosa, per fatti accaduti in quell’isola "dal luglio ’92 all’08/01/94". (...)

La sentenza (...) riporta il racconto del denunciante, giunto a Pianosa il 20 luglio ’92. "Manganellate, strattoni, pedate, sputi e schiaffi", sia all’entrata, sia all’uscita per andare all’aria. E se "all’aria" non ci andavi, il "trattamento" ti veniva fatto in cella. Il tragitto lungo il corridoio era scivoloso (cera, o detersivo, secondo altre fonti), così si cadeva a terra, diventando bersaglio del "cordone " di 10 o 20 uomini del Gom, che si schieravano nel corridoio, a dare libero sfogo al comportamento "animalesco". Racconta il denunciante – ma non è solo lui, oggi, a riferirlo – che nello shampoo si trovava l’olio, nell’olio si trovava lo shampoo e la pasta era a volte "condita" con i detersivi. Nessuno all’epoca denunciava nulla, perché avevano tutti paura di essere uccisi. Preferivano sopportare le angherie, le botte, gli scherzi, "l’inutile crudeltà" come dice la sentenza. (...) A cosa serviva tanta violenza? Scarantino, che narra d’averla subita tutta quella violenza, sostiene d’essersi determinato a fare il "falso" pentito, perché non era capace più di resistere e non solo alle costrizioni fisiche. Oggi, e nel tempo, ascoltando i racconti di ex detenuti di Pianosa, ti accorgi che il ricordo più vivo sembra quello delle torture psicologiche: le percosse hanno certamente segnato quei corpi, ma te le narrano in modo quasi distaccato. Le hanno subite e, sembra, ormai quasi metabolizzate.

Presentazione su “La Valle dei Templi di Nico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta,  “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio”. Un boato, sei morti, tanti misteri. Il 19 luglio del 1992 un’autobomba esplodeva in via D’Amelio uccidendo Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. A ventidue anni di distanza, nonostante le inchieste, i processi, le condanne e le successive assoluzioni, oggi ne sappiamo tanto quanto prima, tranne che per il fatto di aver preso coscienza che molto di più, rispetto la strage mafiosa, si cela dietro quell’evento criminale che ha visto falsi pentiti autori di depistaggi che ci hanno portati sempre più lontani dalla verità. Fallimenti dell’apparato investigativo e giudiziario, carenze e incongruenze che emergono sempre più chiare dalle carte processuali, che ci obbligano a fare i conti con una realtà che vorremmo inconsciamente ignorare e che ci mettono dinanzi ad una domanda alla quale non abbiamo una risposta da dare: furono soltanto madornali errori giudiziari o qualcosa di diverso e molto più grave si cela dietro le tante anomalie che hanno caratterizzato l’intera vicenda? “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio” è il libro della giornalista palermitana Dina Lauricella e dell’avvocato Rosalba Di Gregorio che racconta questi venti anni di indagini e processi, partendo dalle dichiarazioni del pentito Vincenzo Scarantino, ambigua figura le cui dichiarazioni sono spesso state smentite, per arrivare ad una certa antimafia parolaia e spesso fine a sé stessa alla quale forse poco importa che venga una volta per tutte fatta chiarezza sull’attentato che il 19 luglio del 1992 provocò la morte del Giudice Paolo Borsellino e di altri cinque innocenti caduti nell’adempimento del loro dovere. Non avrei mai pensato di dover scrivere dell’ “Avvocato del diavolo” – come ignominiosamente viene definita Rosalba Di Gregorio – difensore di fiducia di imputati dai cognomi “pesanti” quali Bontate,Pullarà, Vernengo, Marino Mannoia, Mangano, per finire con Provenzano, se non fosse stato per questo libro e per la coltre di silenzio con cui è stata artatamente coperta ogni sua presentazione. Ho conosciuto personalmente l’Avvocato Rosalba Di Gregorio e l’ho conosciuta in quelle aule giudiziarie laddove era in corso un processo per strage contro i vertici di Cosa Nostra. Lei “dalla parte sbagliata”, difensore di fiducia del boss o ex tale, io per scriverne “dalla parte giusta”, accanto ai familiari di vittime innocenti di mafia. In quell’aula non c’erano gli antimafiosi di professione, né, purtroppo, i tanti giornalisti che oggi artatamente ignorano la Di Gregorio. È facile fare antimafia così. Facile come porre il marchio di mafiosità a chi per ragioni professionali si trova a difendere “la parte sbagliata”, il “mostro”. Senza entrare nel merito del diritto, del codice deontologico della professione e su quel sacrosanto diritto alla difesa che è consentito ad ogni imputato, dell’Avvocato Di Gregorio ho avuto modo di apprezzare la professionalità, le doti umane e il contegno mantenuto durante le udienze che – a differenza di tanti difensori di cosiddette “persone per bene” che ho avuto modo di incontrare in questi anni – non l’hanno mai spinta ad andare oltre quella che era la difesa del proprio assistito avendo rispetto per l’altrui dolore e per il lavoro e la professionalità del rappresentante legale della controparte. Se questo libro dovesse servire anche a mettere un solo tassello al posto giusto per cercare di ricostruire quello che realmente accadde nel ‘92, sarebbe molto più di quanto tanti di coloro che si professano antimafiosi  hanno dato come contributo ad una Verità che forse in molti vorrebbero venisse taciuta per sempre. Se si è alla ricerca della Verità, perchè ignorare o censurare chi può dare un contributo? Perchè non conoscere o voler non fare conoscere le opinioni di chi per ragioni professionali ha seguito le vicende osservandole da un’ottica diversa ma non per questo meno valida o totalmente non rispondente a verità? Del resto – piaccia o meno -, ad oggi, la ricostruzione più verosimile di quei tragici eventi sembra essere proprio quella che emerge dal libro la cui esistenza si vorrebbe fosse ignorata. La prossima manifestazione in cui si parlerà del libro si terrà a Trieste il 12 luglio, organizzata da Libera, che da due anni è riuscita a coinvolgere i parenti di Walter Cosina, morto anche Lui nella strage del 19/7/92. Questi parenti dimenticati, di Vittime trattate come se fossero di serie” b”, hanno tanta fame anche Loro di Verità.

Questa la prefazione di Domenico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, al libro “Dalla parte sbagliata”, di Rosalba Di Gregorio e Dina Lauricella, edito da Castelvecchi: “Normalmente chi scrive la prefazione ha piena conoscenza del libro. Io ammetto di non averla, e per questo la mia è una «prefazione anomala». Ma conosco le autrici. E di loro parlerò. Conosco la vicenda, di cui non parlo, ma penso di avere il dovere, dopo le prime sentenze vicine al giudicato, di stimolare una riflessione che sino ad oggi è, incredibilmente, mancata. E allora, parlando in primis delle autrici, dico che Dina Lauricella mi è sembrata una giornalista indipendente e autonoma. Non fa parte di cordate, e pensa con la sua testa. Qualità rare e importanti. Quanto all’avvocato Di Gregorio, «l’avvocato del Diavolo», cosa dire? Rosalba è una persona che ha una faccia sola. Ha sempre detto, ostinatamente, le stesse cose sul processo di via D’Amelio. Ha sempre detto le stesse cose sui collaboratori. A viso aperto, sopportando, secondo me, conseguenze che l’hanno fatta diventare «un avvocato di mafia», del Diavolo, appunto. Rosalba non è un avvocato di mafia. È un avvocato. E la parola «avvocato» non dovrebbe sopportare ulteriori specifiche. A meno che non si voglia indicare, con quel termine, che si occupa soprattutto di processi di mafia. Il che farebbe anche di principi del Foro antimafia «avvocati di mafia». E a Milano, chi difende i corruttori, come dovremmo chiamarli? «Avvocati della corruzione»? La verità è che la «colpa» di Rosalba è di difendere, e bene, i mafiosi. Ma è una colpa questa? E può essere all’origine di una «messa all’indice» professionale? La verità è che dovremmo limitarci ad ammettere i nostri errori. Dopo le sentenze già intervenute sulBorsellino quater, e senza discutere di prove, dobbiamo o no discutere di questa giustizia, di questa stampa, di questa società, che secondo me, negli anni Novanta, hanno, almeno in parte, fallito? Dobbiamo discutere di chi ha consegnato per 17 anni le chiavi della vita di sette persone innocenti per il reato di strage ad un falso pentito, Scarantino? Dobbiamo avere il coraggio di discutere di una regola, quella della «frazionabilità» delle dichiarazioni dei collaboranti, che forse andrebbe ripensata, perché consente a «collaboranti» scarsamente credibili in via generale di essere utilizzati «per ciò che serve», aprendo il fianco a possibili strumentalizzazioni probatorie? Dobbiamo discutere del fatto che, pur con tutte le considerazioni contenute nelle passate tre sentenze sulla poca credibilità di Scarantino – il processo basato sulle sue dichiarazioni è arrivato sino all’ultimo grado, ed è stato approvato anche in Cassazione? Cosa non ha funzionato? Abbiamo il dovere di chiedercelo. Perché io penso che in questa triste storia nessuno dei relè dello Stato democratico ha funzionato a dovere. Non ha funzionato la Polizia. Non ha funzionato la Magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm. Non ha funzionato la cosiddetta Dottrina. Ma, soprattutto, non ha funzionato la «libera stampa», che dovrebbe essere, e non lo è stata, il vero cane da guardia di una democrazia. Solo un «avvocato di mafia» ha gridato le sue urla nel vuoto. Sin quando, fortunatamente, grazie a nuove prove, la stessa Giustizia ha avuto il coraggio di autoriformarsi. Ma alti sono i prezzi pagati per questo, soprattutto all’interno delle forze dell’ordine. È accettabile tutto questo? Sono accettabili questi 17 anni? E, soprattutto, dobbiamo chiederci con trepidazione: potrebbe nuovamente accadere, magari sta già riaccadendo, quanto è avvenuto in quella occasione? E allora, per evitarlo, devono assisterci i principi generali delle democrazie cosiddette «occidentali». Il diritto di difesa non è un optional. È un principio cardine delle democrazie, per l’appunto, «di diritto». Il difensore di un mafioso non può divenire, per il solo fatto di difendere un mafioso, inattendibile e pericoloso. La verità la può dire un famoso procuratore antimafia, come anche un «avvocato di mafia». Come tutti e due possono andare dietro ad abbagli. Tutto questo, lo capisco, ci costringe a una fatica immane: non ragionare per schemi (buono-cattivo; mafioso-antimafioso) ma ragionare con la nostra testa. Criticando. Leggendo. Facendoci le nostre personali idee. Ma in questo deve aiutarci una stampa autenticamente indipendente. Una stampa che non si schieri né a favore «a priori», né contro «a priori». E necessitiamo di una magistratura aperta ad essere criticata (se le critiche non sono preconcette), e rispettosa dei diritti della difesa. Perché il processo, ricordiamocelo, è, come dicevano i romani, actus trium personarum, è un rito che richiede il necessario intervento di tre persone: il Giudice, il Pubblico Ministero, e la Difesa. Solo così, tenendo in debito conto tutti questi attori, si può arrivare ad accertare una «verità processuale» che assomigli il più possibile alla Verità. In ultimo, qualche breve considerazione, permettetemi, sul cosiddetto fronte antimafia: ilmovimento antimafia, che è di importanza basilare in uno Stato democratico, deve però essere anch’esso democratico, e rispettoso delle opinioni di tutti. «Non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu la possa esprimere», diceva qualcuno più saggio di me. Isoliamo gli intolleranti per mestiere. Perché dobbiamo viverci tutti insieme, in questo nostro Stato. E dobbiamo edificarlo tutti insieme, su solide basi di verità, anche a costo di ammettere verità scomode. È un debito, questo della verità, che tutti dobbiamo pagare a chi, in quegli anni, perse la vita per una idea di Giustizia e di antimafia.

Rosalba Di Gregorio. Si laurea in Giurisprudenza all’Università di Palermo nel 1979. Nel periodo di praticantato fa esperienza politica nel Partito radicale. L’esperienza più impegnativa dell’inizio della professione sarà il primo maxiprocesso di Palermo, dove, assieme all’avv. Marasà, difenderà una decina di imputati, tra i quali Vittorio Mangano. Dall’esperienza del maxiprocesso e dall’«incontro» in aula con i primi pentiti nascerà il libro L’altra faccia dei pentiti (La Bottega di Hefesto, 1990).

Dina Lauricella. Palermitana «doc», vive a Roma da 14 anni. Ha scritto per diversi quotidiani e settimanali. Nel 2007 entra a far parte della squadra di inviati di Annozero. Per Michele Santoro firma diversi speciali, tra cui La Mafia che cambia, nella quale parla in tv per la prima volta Angelo Provenzano, il figlio del super boss. Stato criminale, la puntata di Servizio Pubblico con ospite Vincenzo Scarantino, trae spunto da questo libro.

Bombe, omicidi e stragi in Sicilia: ecco tutte le accuse a “faccia da mostro”. Pentiti lo additano, quattro procure lo indagano: Giovanni Aiello, ex poliziotto col volto sfregiato, sarebbe in realtà un sicario per delitti ordinati da pezzi deviati dello Stato, oltre che dai padrini. Dall'eversione nera degli anni '70 all'uccisione di Falcone e Borsellino: la storia scritta da Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. Ci sono almeno quattro uomini e una donna che l'accusano di avere ucciso poliziotti come Ninni Cassarà e magistrati come Falcone e Borsellino, di avere fornito telecomandi per le stragi, di avere messo in giro per l'Italia bombe "su treni e dentro caserme". Qualcuno dice che a Palermo ha assassinato pure un bambino. Su di lui ormai indagano tutti, l'Antimafia e l'Antiterrorismo. Sospettano che sia un sicario per delitti su commissione, ordinati da Cosa Nostra e anche dallo Stato. Lo chiamano "faccia da mostro" e ha addosso il fiato di un imponente apparato investigativo che vuole scoprire chi è e che cosa ha fatto, da chi ha preso ordini, se è stato trascinato in un colossale depistaggio o se è davvero un killer dei servizi segreti specializzato in "lavori sporchi". Al suo fianco appare di tanto in tanto anche una misteriosa donna "militarmente addestrata ". Nessuno l'ha mai identificata. Forse nessuno l'ha mai nemmeno cercata con convinzione. Vi raccontiamo per la prima volta tutta la storia di Giovanni Aiello, 67 anni, ufficialmente in servizio al ministero degli Interni fino al 1977 e oggi plurindagato dai magistrati di Caltanissetta e Palermo, Catania e Reggio Calabria. Vi riportiamo tutte le testimonianze che l'hanno imprigionato in una trama che parte dal tentativo di uccidere Giovanni Falcone all'Addaura fino all'esplosione di via Mariano D'Amelio, in mezzo ci sono segni che portano al delitto del commissario Cassarà e del suo amico Roberto Antiochia, all'esecuzione del poliziotto Nino Agostino e di sua moglie Ida, ai suoi rapporti con la mafia catanese e quella calabrese, con terroristi della destra eversiva come Pierluigi Concutelli. E con l' intelligence . Anche se, ufficialmente, "faccia da mostro" non è mai stato nei ranghi degli 007. Negli atti del nuovo processo contro gli assassini di Capaci — quello che coinvolge i fedelissimi dei Graviano — che sono stati appena depositati, c'è la ricostruzione della vita e della carriera di un ex poliziotto dal passato oscuro. La sua scheda biografica intanto: "Giovanni Pantaleone Aiello, nato a Montauro, provincia di Catanzaro, il 3 febbraio del 1946, arruolato in polizia il 28 dicembre 1964, congedato il 12 maggio 1977, residente presso la caserma Lungaro di Palermo fino al 28 settembre 1981, sposato e separato con l'ex giudice di pace.., la figlia insegna in un'università della California". Reddito dichiarato: 22 mila euro l'anno (ma in una recente perquisizione gli hanno sequestrato titoli per un miliardo e 195 milioni di vecchie lire), ufficialmente pescatore. Sparisce per lunghi periodi e nessuno sa dove va, racconta a tutti che la cicatrice sulla guancia destra è "un ricordo di uno scontro a fuoco in Sardegna durante un sequestro di persona", ma nel suo foglio matricolare è scritto che "è stata causata da un colpo partito accidentalmente dal suo fucile il 25 luglio 1967 a Nuoro". Il suo dossier al ministero dell'Interno, allora: qualche encomio semplice per avere salvato due bagnanti, un paio di punzioni, per molti anni una valutazione professionale "inferiore alla media", un certificato sanitario che lo giudicano "non idoneo al servizio per turbe nevrotiche post traumatiche ". Dopo il congedo è diventato un fantasma fino a quando, il 10 agosto del 2009, è stato iscritto nel registro degli indagati "in riferimento all'attentato dell'Addaura e alle stragi di Capaci e di via D'Amelio". Il 23 novembre del 2012 tutte le accuse contro di lui sono state archiviate. Ma dopo qualche mese "faccia da mostro" è scivolato un'altra volta nel gorgo. È sotto inchiesta per una mezza dozzina di delitti eccellenti in Sicilia e per alcuni massacri, compresi attentati ai treni e postazioni militari. Le investigazioni — cominciate dalla procura nazionale antimafia di Pietro Grasso — ogni tanto prendono un'accelerazione e ogni tanto incomprensibilmente rallentano. Forse troppe prudenze, paura di toccare fili ad alta tensione. Ma ecco chi sono tutti gli accusatori di Giovanni Aiello e che cosa hanno detto di lui. Il primo è Vito Lo Forte, picciotto palermitano del clan Galatolo. La sintesi del suo interrogatorio: "Ho saputo che ci ha fatto avere il telecomando per l'Addaura, ho saputo che era coinvolto nell'omicidio di Nino Agostino e che era un terrorista di destra amico di Pierluigi Concutelli, che ha fatto attentati su treni e caserme, che ha fornito anche il telecomando per via D'Amelio". Poi Lo Forte parla del clan Galatolo che progettava intercettazioni sui telefoni del consolato americano di Palermo, ricorda "un uomo con il bastone" amico di Aiello che è un pezzo grosso dei servizi, che ogni tanto a "faccia da mostro" regalavano un po' di cocaina. Dice alla fine: "Era un sanguinario, non aveva paura di uccidere". E racconta che Aiello, il 6 agosto 1985, partecipò anche all'omicidio di Ninni Cassarà e dell'agente Roberto Antiochia: "Me lo riferì Gaetano Vegna della famiglia dell'Arenella. Dopo, alcuni uomini d'onore erano andati a brindare al ristorante di piazza Tonnara. Insieme a loro c'era anche Aiello, che aveva pure sparato al momento dell'omicidio, da un piano basso dell'edificio". Il secondo accusatore si chiama Francesco Marullo, consulente finanziario che frequentava Lo Forte e il sottobosco mafioso dell'Acquasanta. Dichiara: "Ho incontrato un uomo con la cicatrice in volto nello studio di un avvocato palermitano legato a Concutelli... Un fanatico di estrema destra... dicevano che quello con la cicatrice fosse uomo di Contrada (il funzionario del Sisde condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, ndr) ". Il terzo che punta il dito contro Giovanni Aiello è Consolato Villani, 'ndranghetista di rango della cosca di Antonino Lo Giudice, boss di Reggio Calabria: "Una volta lo vidi... Mi colpì per la particolare bruttezza, aveva una sorta di malformazione alla mandibola... Con lui c'era una donna, aveva capelli lunghi ed era vestita con una certa eleganza". E poi: "Lo Giudice mi ha parlato di un uomo e una donna che facevano parte dei servizi deviati, vicini al clan catanese dei Laudani, gente pericolosa. In particolare, mi diceva che la donna era militarmente addestrata, anche più pericolosa dell'uomo ". E ancora: "Lo Giudice aggiunse pure che questi soggetti facevano parte del gruppo di fuoco riservato dei Laudani, e che avevano commesso anche degli omicidi eclatanti, tra cui quello di un bambino e di un poliziotto e che erano implicati nella strage di Capaci". Il quarto accusatore, Giuseppe Di Giacomo, ex esponente del clan catanese dei Laudani, di "faccia da mostro" ne ha sentito parlare ma non l'ha mai visto: "Il mio capo Gaetano Laudani aveva amicizie particolari… In particolare con un tale che lui indicava con l'appellativo di “ vaddia” (guardia, in catanese, ndr). Laudani intendeva coltivare il rapporto con “ vaddia” in quanto appartenente alle istituzioni ". Per ultima è arrivata la figlia ribelle di un boss della Cupola, Angela Galatolo. Qualche settimana fa ha riconosciuto Aiello dietro uno specchio: "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino". Tutte farneticazioni di pentiti che vogliono inguaiare un ex agente di polizia? E perché mai un pugno di collaboratori di giustizia si sarebbero messi d'accordo per incastrarlo? Fra tanti segreti c'è anche quello di un bambino ucciso a Palermo. Ogni indizio porta a Claudio Domino, 10 anni, assassinato il 7 ottobre del 1986 con un solo colpo di pistola in mezzo agli occhi. Fece sapere il mafioso Luigi Ilardo al colonnello dei carabinieri Michele Riccio: "Quell'uomo dei servizi di sicurezza con il viso sfigurato era presente quando fecero fuori il piccolo Domino". Poi uccisero anche il mafioso: qualcuno aveva saputo che voleva pentirsi. La figlia ribelle di un boss della Cupola ha incastrato l'uomo misterioso che chiamano "faccia da mostro". L'ha indicato come "un sicario" al servizio delle cosche più potenti di Palermo. È un ex poliziotto, forse anche un agente dei servizi segreti. Ed è sospettato di avere fatto stragi e delitti eccellenti in Sicilia. "Ne sono sicura, è lui", ha confermato Giovanna Galatolo dietro un vetro blindato. Così le indagini sulla trattativa Stato-mafia, sulle uccisioni di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino - ma anche quelle sul fallito attentato all'Addaura e probabilmente sugli omicidi di tanti altri funzionari dello Stato avvenuti a Palermo - dopo più di vent'anni di depistaggi stanno decisamente virando verso un angolo oscuro degli apparati di sicurezza italiani e puntano su Giovanni Aiello. Ufficialmente è solo un ex graduato della sezione antirapine della squadra mobile palermitana, per i magistrati è un personaggio chiave "faccia da mostro" - il volto sfigurato da una fucilata, la pelle butterata - quello che ormai si ritrova al centro di tutti gli intrighi e di tutte le investigazioni sulle bombe del 1992. "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari che dovevano restare molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino", ha confessato Giovanna Galatolo, l'ultima pentita di Cosa Nostra, figlia di Vincenzo, mafioso del cerchio magico di Totò Riina, uno dei padrini più influenti di Palermo fra gli anni 80 e 90, padrone del territorio da dove partirono gli squadroni della morte per uccidere il consigliere Rocco Chinnici e il segretario regionale del partito comunista Pio La Torre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e il commissario Ninni Cassarà. "È lui", ha ripetuto la donna indicando l'ex poliziotto dentro una caserma della Dia. Un confronto "all'americana", segretissimo, appena qualche giorno fa. Da una parte lei, dall'altra Giovanni Aiello su una piattaforma di legno in mezzo a tre attori che si sono camuffati per somigliargli. "È lui, non ci sono dubbi. Si incontrava sempre in vicolo Pipitone (il quartiere generale dei Galatolo, ndr) con mio padre, con mio cugino Angelo e con Francesco e Nino Madonia", ha raccontato la donna davanti ai pubblici ministeri dell'inchiesta-bis sulla trattativa Stato-mafia Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Un riconoscimento e poi qualche altro ricordo: "Tutti i miei parenti lo chiamavano "lo sfregiato", sapevo che viaggiava sempre fra Palermo e Milano... ". La figlia del capomafia - che otto mesi fa ha deciso di collaborare con la giustizia rinnegando tutta la sua famiglia - aveva con certezza identificato Giovanni Aiello come amico di Cosa Nostra anche in una fotografia vista in una stanza della procura di Caltanissetta, quella che indaga sulle uccisioni di Falcone e Borsellino. Dopo tante voci, dopo tanti sospetti, adesso c'è qualcuno che inchioda lo 007 dal passato impenetrabile, scivolato in un gorgo di inchieste con le ammissioni di qualche altro pentito e di alcuni testimoni. Sembra finito in una morsa, da almeno un anno Giovanni Aiello è indagato dai magistrati di quattro procure italiane - quella di Palermo e quella di Caltanissetta, quella di Catania e quella di Reggio Calabria - che tentano di ricostruire chi c'è, oltre ai boss di Cosa Nostra, dietro i massacri dell'estate siciliana del 1992. E anche dietro molti altri delitti importanti degli anni Ottanta. Ora, con le nuove rivelazioni di Giovanna Galatolo, la posizione dell'ex poliziotto è diventata sempre più complicata. Questa donna è la depositaria di tutti i segreti del suo clan, per ordine del padre faceva la serva ai mafiosi, cucinava, stirava, spesso lavava anche gli abiti sporchi di sangue, sentiva tutto quello che dicevano, vedeva entrare e uscire dalla sua casa i boss. E anche Giovanni Aiello. Giovanna Galatolo parla pure del fallito attentato dell'Addaura, 56 candelotti di dinamite che il 21 giugno del 1989 dovevano far saltare in aria Giovanni Falcone sugli scogli davanti alla sua villa. Erano appostati lì gli uomini della sua famiglia, i Galatolo. C'era anche Giovanni Aiello? E "faccia da mostro" è coinvolto nell'uccisione di Nino Agostino, il poliziotto assassinato neanche due mesi dopo il fallito attentato dell'Addaura - il 5 agosto - insieme alla moglie Ida? Il padre di Nino Agostino ha sempre raccontato che "un uomo con la faccia da cavallo" aveva cercato suo figlio pochi giorni prima del delitto. Era ancora Giovanni Aiello? La sua presenza è stata segnalata sui luoghi di tanti altri omicidi palermitani. Tutti addebitati ai Galatolo e ai Madonia. Lui, l'ex agente della sezione antirapine (quando il capo della Mobile era quel Bruno Contrada condannato per i suoi legami con la Cupola) ha sempre respinto naturalmente ogni accusa, affermando anche di non avere più messo piede in Sicilia dal 1976, anno nel quale si è congedato dalla polizia. Una dichiarazione che si è trasformata in un passo falso. Qualche mese fa la sua casa di Montauro in provincia di Catanzaro - dove Giovanni Aiello è ufficialmente residente - è stata perquisita e gli hanno trovato biglietti recenti del traghetto che da Villa San Giovanni porta a Messina, appunti in codice, lettere, titoli per 600 milioni di vecchie lire, articoli di quotidiani che riportavano notizie su boss come Bernardo Provenzano e su indagini del pool antimafia palermitano, assegni. Dopo quella perquisizione, gli hanno notificato a casa un ordine di comparizione per il confronto con la Galatolo, ha accettato presentandosi con il suo avvocato. Il riconoscimento di Giovanni Aiello segue di molti anni le confidenze di un mafioso al colonnello dei carabinieri Michele Riccio. Il confidente si chiamava Luigi Ilardo e disse: "Noi sapevamo che c'era un agente a Palermo che faceva cose strane e si trovava sempre in posti strani. Aveva la faccia da mostro". Era il 1996. Poco dopo quelle rivelazioni Luigi Ilardo - tradito da qualcuno che era a conoscenza del suo rapporto con il colonnello dei carabinieri - fu ucciso. Anche lui parlava di Giovanni Aiello? Le confessioni della Galatolo stanno aprendo una ferita dentro la Cosa Nostra palermitana. Non solo misteri di Stato e connivenze ma anche un terremoto all'interno di quel che rimane delle famiglie storiche della mafia siciliana. "Come donna e come persona non posso essere costretta a stare con uomini indegni, voglio essere libera e non appartenere più a quel mondo, per questo ho deciso di dire tutto quello che so", così è cominciata la "liberazione" di Giovanna Galatolo che una mattina dell'autunno del 2013 si è presentata al piantone della questura di Palermo con una borsa in mano. Ha chiesto subito di incontrare un magistrato: "Ho 48 anni e la mia vita è solo mia, non me la possono organizzare loro". Del suo passato, la donna ha portato con sé solo la figlia. L'uomo del mistero che chiamano "faccia da mostro" l'abbiamo trovato in un paese della Calabria in riva al mare. È sospettato di avere fatto omicidi e stragi in Sicilia, come killer di Stato. È un ex poliziotto di Palermo, ha il volto sfregiato da una fucilata. Vive da eremita in un capanno, passa le giornate a pescare. Quando c'è mare buono prende il largo sulla sua barca, "Il Bucaniere". Ogni tanto scompare, dopo qualche mese torna. Nessuno sa mai dove va. Sul suo conto sono girate per anni le voci più infami e incontrollate, accusato da pentiti e testimoni "di essere sempre sul luogo di delitti eccellenti" come ufficiale di collegamento tra cosche e servizi segreti. È davvero lui il sicario a disposizione di mafia e apparati che avrebbe ucciso su alto mandato? È davvero lui il personaggio chiave di tanti segreti siciliani? L'uomo del mistero nega tutto e per la prima volta parla: "Sono qui, libero, mi addossano cose tanto enormi che non mi sono nemmeno preoccupato di nominare un avvocato per difendermi". Ha 67 anni, si chiama Giovanni Aiello e l'abbiamo incontrato ieri mattina. Abita a Montauro, in provincia di Catanzaro. Da questo piccolo comune ai piedi delle Serre - il punto più stretto d'Italia dove solo trentacinque chilometri dividono il Tirreno dallo Jonio - sono ripartite le investigazioni sulle stragi del 1992. L'ex poliziotto trascinato nel gorgo di Palermo l'abbiamo incontrato ieri mattina, davanti al suo casotto di legno e pietra sulla spiaggia di contrada Calalunga. Sotto il canneto la sua vecchia Land Rover, in un cortile le reti e le nasse. "La mia vita è tutta qui, anche mio padre e mio nonno facevano i pescatori", ricorda mentre comincia a raccontare chi è e come è scivolato nella trama. È alto, muscoloso, capelli lunghi e stopposi che una volta erano biondi, grandi mani, una voce roca. Dice subito: "Se avessi fatto tutto quello di cui mi accusano, lo so che ancora i miei movimenti e i miei telefoni sono sotto controllo, dovrei avere agganci con qualcuno al ministero degli Interni, ma io al ministero ci sono andato una sola volta quando dovevo chiedere la pensione d'invalidità per questa". E si tocca la lunga cicatrice sul lato destro della sua faccia, il segno di un colpo di fucile. Tira vento, si chiude il giubbotto rosso e spiega che quello sfregio è diventata la sua colpa. Inizia dal principio, dal 1963: "In quell'anno mi sono arruolato in polizia, nel 1966 i sequestratori della banda di Graziano Mesina mi hanno ridotto così durante un conflitto a fuoco in Sardegna, trasferito a Cosenza, poi a Palermo". Commissariato Duomo, all'anti-rapine della squadra mobile, sezione catturandi. Giovanni Aiello fa qualche nome: "All'investigativa c'era Vittorio Vasquez, anche Vincenzo Speranza, un altro funzionario. Comandava Bruno Contrada (l'ex capo della Mobile che poi è diventato il numero 3 dei servizi segreti ed è stato condannato per mafia, ndr) e poi c'era quello che è morto". Di quello "che è morto", Boris Giuliano, ucciso il 21 luglio del 1979, l'ex poliziotto non pronuncia mai il nome. Giura di non avere più messo piede a Palermo dal 1976, quando ha lasciato la polizia di Stato. Dice ancora: "Tutti quegli omicidi e quelle stragi sono venuti dopo, mai più stato a Palermo neanche a trovare mio fratello". Poliziotto anche lui, congedato nel 1986 dopo che una bomba carta gli aveva fatto saltare una mano. Giovanni Aiello passeggia sul lungomare di Montauro e spiega quale è la sua esistenza. Mare, solitudine. Pochissimi amici, sempre gli stessi. Sarino e Vito. L'ex poliziotto torna alla Sicilia e ai suoi orrori: "So soltanto che mi hanno messo sott'indagine perché me l'hanno detto amici che sono stati ascoltati dai procuratori, anche mio cognato e la mia ex moglie. E poi tutti frastornati a chiedermi: ma che hai fatto, che c'entri tu con quelle storie? A me non è mai arrivata una carta giudiziaria, nessuno mi ha interrogato una sola volta". Ha mai conosciuto Luigi Ilardo, il mafioso confidente che accusa un "uomo dello Stato con il viso deturpato" di avere partecipato a delitti eccellenti? "Ilardo? Non so chi sia". Mai conosciuto Vito Lo Forte, il pentito dell'Acquasanta che parla della presenza di "faccia da mostro" all'attentato all'Addaura del giugno 1989 contro il giudice Falcone? "Mai visto". Mai conosciuto il poliziotto Nino Agostino, assassinato nell'agosto di quello stesso 1989? "No". E suo padre Vincenzo, che dice di avere visto "un poliziotto con i capelli biondi e il volto sfigurato" che cercava il figlio qualche giorno prima che l'uccidessero? "Non so di cosa state parlando". L'uomo del mistero si tira su la maglia e fa vedere un'altra cicatrice. Una coltellata al fianco destro. "Un altro regalo che mi hanno fatto a Palermo". E ancora: "Tutti parlano di me come faccia da mostro, ma non credo di essere così brutto". Continua a raccontare, del giorno che passò la visita per entrare in Polizia: "Pensavo di essere stato scartato, invece una mattina mi portarono in una caserma fuori Roma e mi accorsi che io, con il mio metro e 83 di altezza, ero il più basso". Estate 1964. "Molto tempo dopo ho saputo che tutti noi, 320 giovanissimi poliziotti ben piantati, eravamo stati selezionati come forza di supporto - non so dove - per il golpe del generale Giovanni De Lorenzo". La famosa estate del "rumore di sciabole" contro il primo governo di centrosinistra, il "Piano Solo". Il primo intrigo dove è finito Giovanni Aiello. Forse non l'ultimo. Forse. Di certo è che su di lui oggi indagano, su impulso della direzione nazionale antimafia, quattro procure italiane. Quelle di Palermo e Caltanissetta per le bombe e la trattativa, quelle di Reggio Calabria e Catania per i suoi presunti contatti con ambienti mafiosi. I dubbi su "faccia da mostro" sono ancora tanti. Non finiscono mai.

Quando di un’inchiesta si appropriano i mass media, vincono le illazioni, i sospetti, i teoremi su una colpevolezza che viene data per certa quando ancora nessun giudice si è pronunciato. Il libro diventa un circostanziato atto d’accusa contro il circuito infernale che da troppi anni lega parte della magistratura a pezzi dell’informazione. Il dr Antonio Giangrande, cittadino avetranese, autore di decine di saggi, tra cui i libri su Sara Scazzi, denuncia in tutta Italia: ora basta questa barbarie !!!

Maurizio Tortorella, vicedirettore di “Panorama”, discute con tempi.it del rapporto fra procure e redazioni: «Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco». Carcerazione preventiva e giustizia politicizzata. Due argomenti che nella serata di venerdì, all’incontro “Aspettando giustizia” organizzato da Tempi a Milano, hanno avuto profonda risonanza. Le testimonianze del generale Mori, di Renato Farina e di Ottaviano Del Turco sono rappresentative di una giustizia che si mischia con la stampa, diventando una raffigurazione inquietante della società italiana. Tempi.it ne parla con Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama e autore di un bel libro, La gogna (Boroli editore).

Quando nascono i primi processi a mezzo stampa?

«Tutto comincia con Tangentopoli. Anzi, ancora prima, quando nel 1989 una nuova modifica alla procedura penale cambia il procedimento tradizionale. Mentre prima le indagini erano portate avanti congiuntamente da due magistrati, il pubblico ministero e il giudice istruttore, che avanzavano congiuntamente, da quel momento il pm diventava l’unico titolare dell’azione penale. La polizia giudiziaria inizia a dipendere da lui. Per un tempo illimitato il pm decide su intercettazioni, perquisizioni e arresti, ecc. Nella sua azione diventa completamente libero. Ogni atto, poi, passa al vaglio del giudice preliminare, ma solo successivamente all’azione del pm. Non appena l’atto va a finire tra le mani dell’avvocato difensore dell’imputato e del giudice, diventa automaticamente pubblicabile. Spesso i pm hanno “amici” che lavorano in testate giornalistiche di cui condividono la visione politica. Questa stampa non aspetta la fine del processo, né tantomeno intervista la controparte, per gettare fango su imputati di cui non è ancora stabilita la colpevolezza».

Perché si è modificata la procedura penale?

«Si intendeva migliorare le nostre procedure penali. Il nostro codice aveva caratteristiche arretrate, ben lontane da quelle europee, considerate più moderne. Ma la cura è stata peggiore della malattia che si voleva debellare. Questo meccanismo infernale funziona anche laddove l’avvocato dell’indagato rifiuti di ritirare l’interrogatorio. È il caso di Guido Bertolaso. Sono usciti sulla stampa dei virgolettati di un interrogatorio che non potevano che venire dall’accusa, perché la difesa ha rifiutato il ritiro dei documenti. A quanto pare, è necessario sentire soltanto l’accusa per redigere un articolo».

La “gogna” mediatica colpisce tutti indiscriminatamente o ha una certa predilezione verso un colore politico?

«Il garantismo non è un’idea molto praticata in Italia. Un tempo, fino agli anni Settanta, era la sinistra a essere garantista, a fronte di una destra forcaiola che chiedeva più galera, pene pesanti e l’uso della custodia cautelare. Adesso, le parti si sono invertite. È la sinistra forcaiola a chiedere misure pesantissime, mentre il centrodestra ha un orientamento garantista».

Pubblicare stralci di documenti prima della sentenza segue la deontologia professionale?

«Si dovrebbero ascoltare più voci e diversi punti di vista prima di toccare temi così delicati. Trovo mortificante che in troppi casi un pezzo si risolva aspettando che dalla procura arrivino delle carte. Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco. Se consideri che il pm di Palermo, dopo che Panorama ha pubblicato parte dell’intercettazione tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino, ha smentito di aver passato lui stesso le carte, giustificandosi che Panorama non è un giornale “amico”, ti spaventi. Perché significa che ci sono media “amici” e media “nemici”. E quelli amici, inevitabilmente, sono dello stesso colore politico del magistrato in questione».

La carcerazione preventiva e le lungaggini della giustizia italiana aiutano “la gogna”?

«Certo. Nello Rossi, procuratore aggiunta a Roma e appartenente a Magistratura democratica, ammette che oggi ha più impatto un arresto di una sentenza di primo grado. Perché? Sul piano emotivo, l’immediatezza di un arresto ha più effetto di una sentenza, che impiega anni prima di essere confermata o smentita. Nessuno più segue i processi – come quello di Ottaviano Del Turco – perché questi si svolgono sui giornali. Il vero processo è di carta.

Sbattere il mostro in prima pagina: quando l’orco è uno di noi, scrive in un suo editoriale Raffaella De Grazia. Massimo e Carlo, padri di famiglia realizzati e felici. Massimo e Carlo, lavoratori stacanovisti dalla vita senza ombre. Sono i vicini di casa ideali, i mariti fedeli, coloro ai quali affidereste volentieri i vostri figli, gli amici di mille bevute al bar, mentre si guarda l’ennesima partita di calcio. Se è vero ciò che sostiene Goya – e cioè che “Il sonno della ragione genera mostri” – allora Massimo e Carlo sono gli esempi più eclatanti di come, spesso, la ricerca dell’esecutore di crimini tanto efferati quanto immotivati che macchiano di sangue il nostro Bel Paese debba essere indirizzata poco lontano dalle sempre meno rassicuranti mura domestiche, più vicino a quella che l’uomo medio, erroneamente, denomina la “zona sicura”. Il “mostro”, identificato comunemente come lo sconosciuto, lo “straniero” che porta via la serenità ad una piccola comunità pare essere, invece, sempre più spesso un componente della stessa. E’ inserito perfettamente nel tessuto sociale del paese che gli ha dato i natali, contribuisce all’economia autoctona, conosce tutto di tutti. Nessuno dei suoi parenti o amici ha però idea del suo “lato oscuro”, delle sue perversioni inconfessabili, nemmeno nell’attimo stesso in cui il mostro le confessa, lasciando attoniti persino i più diffidenti tra i suoi conterranei. Il caso di Avetrana ha fatto tristemente “scuola” in tal senso. Come dimenticare lo sgomento di parenti, amici e vicini di casa nel conoscere la vera, presunta natura della famiglia Misseri, umili braccianti fuori le mura domestiche ma, al contempo, spietati killer di una 15enne, peraltro loro stretta parente? Eventi drammatici come il caso di Sarah Scazzi hanno catalizzato l’attenzione mediatica, generando un’ondata di morboso interesse attorno a simili crimini dettati dall’odio. Nello stesso periodo in cui le indagini sull’omicidio della piccola Sarah proseguivano – tra dichiarazioni ufficiali e smentite mezzo stampa – un’altra piccola, innocente creatura spariva, inghiottita dal nulla. Si trattava della 13enne Yara Gambirasio, grande sorriso e voglia di vivere appieno la sua adolescenza, oramai alle porte. Il mostro che ha privato la 13enne Yara del suo bene più prezioso – il diritto alla vita – è stato cercato ovunque. Sin dagli istanti successivi alla sua sparizione, però, il dito dell’intera comunità di Brembate di Sopra e non solo era stato puntato solo contro un operaio extracomunitario. Qual era la sua colpa? Ai compaesani di Yara era forse sembrato più facile “sbattere in prima pagina” un “corpo estraneo” alla propria comunità? Erano tanti i dubbi che circolavano attorno ad un caso così complesso, con pochi reperti a disposizione. Di certo c’è che mai nessun abitante di Brembate avrebbe immaginato di dover cercare il mostro proprio vicino a casa propria, di identificarlo nelle vesti dell’ uomo qualunque, sposato, incensurato e papà di tre figli piccoli. Ancora più cruenta è stata la svolta nel terribile, triplice omicidio di Motta Visconti. Cristina, Giulia e Gabriele hanno perso la vita per mano di una persona talmente vicina a loro da risultare assolutamente insospettabile. Ricordiamo, quasi sempre, più facilmente i nomi dei killer che delle proprie vittime, quando non dovrebbe essere così. Difficilmente, però, dimenticheremo quei volti, visibilmente felici nelle foto di rito, la cui esistenza è stata strappata via per motivi tanto futili quanto squallidi. Voleva un’altra donna il “papà-mostro” che, nella notte d’esordio “mondiale” della nostra Nazionale, ha ucciso senza pietà sua moglie ed i suoi due piccoli bimbi, di appena 5 anni e 20 mesi. Una storia raccapricciante che, man mano che il tempo passa, si arricchisce di orpelli sempre più orridi. Un altro mostro dalla faccia pulita, che sorride beffardo abbracciando sua moglie. Un altro mostro da sbattere in prima pagina, per non dimenticare l’orrore perpetrato dall’uomo comune.

Di che ci stupiamo?

Yara, fermato un uomo. E’ già il killer, scrive “Il Garantista”. Non è detto che  sia la fine del giallo iniziato quattro anni fa ma di sicuro, dopo mesi di stasi apparente nelle indagini, si configura come una svolta cruciale l’arresto di uomo di quaranta anni accusato di essere l’assassino di Yara Gambirasio. A riferire della cattura del presunto colpevole è il ministro dell’Interno in persona: «Le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura, hanno individuato l’assassino di Yara Gambirasio. E’ una persona dello stesso paese dove viveva la vittima»- annuncia Alfano. Ad incastrare l’uomo, un muratore  della provincia di Bergamo, sposato e  padre di tre figli, sarebbe stata l’analisi del suo Dna che è stato ritenuto dagli esperti sovrapponibile con le tracce biologiche ritrovate sul corpo di Yara ( che era astato rinvenuto il 21 febbraio  2011 dopo quasi un anno di estenuanti ricerche). Per maggiori dettagli Alfano invita ad essere pazienti e aspettare le prossime ore. Pazienza di cui però il ministro e la maggior parte dei media non hanno dato prova additando un uomo che non è nemmeno  ancora stato messo sotto processo come  inequivocabilmente colpevole. 

Caso Yara, così la stampa sbatte il mostro in prima pagina, scrive Angela Azzaro su  “Il Garantista”. Un presunto colpevole – al solito – che diventa senza dubbio l’assassino. Un fermato che viene dato – al solito – in pasto alla rabbia del popolo. Le indagini sull’omicidio di Yara Gambirasio sono diventate una brutta pagina di giornalismo e politica, e stavolta non è colpa della magistratura. Anzi, la procura di Bergamo, a poche ore dal fermo di Massimo Giuseppe Borsetti, è dovuta intervenire in polemica con il ministro dell’Interno. Perché Alfano aveva dato la notizia parlando di “assassino”. Sentenza già emessa. Il procuratore Francesco Dettori si è sentito obbligato a intervenire, per correggere: «Volevamo il massimo riserbo. Questo anche a tutela dell’indagato in relazione al quale, rispetto alla Costituzione, esiste la presunzione di innocenza». Il capo del Viminale – ex ministro della Giustizia – questi dettagli del diritto non li conosce bene. Perciò ha tuonato, mettendo da parte ogni dubbio: il popolo italiano «aveva il diritto di sapere e ha saputo per essere rassicurato». L’intervento di Alfano ha provocato un vero e proprio linciaggio. Rafforzati dall’intervento del ministro, quasi tutti i giornali, sia nella versione cartacea ma soprattutto in quella on line, hanno dato libero sfogo alla caccia al mostro. Il muratore fermato è diventato immediatamente il reietto, la sua foto sbattuta in prima pagina. Con facebook ci vogliono pochi secondi, si entra nei profili, si prende l’immagine e si fa girare con scritto: è lui il killer. Ma è facile anche prendere altre foto, come quelle con i tre figli, due bambine e un bambino, o quelle con la moglie, adesso chiusi in casa per paura di ripercussioni. La caccia al mostro: giornali all’assalto. Tra i titoli peggiori letti ieri, spicca quello di Repubblica. “E’ lui l’assassino di Yara”, dove le virgolette servono formalmente per riprendere la dichiarazione di Alfano, sostanzialmente sono un modo per condannare ma salvandosi la coscienza. Senza ipocrisie, Libero (“Preso l’assassino di Yara”) e il Giornale che mette insieme Yara e il caso di Motta Visconti (“Schifezze d’uomini”). Su molti quotidiani campeggiava la foto del “colpevole” e vicino, quasi citazione di un mondo che fu, la parola “presunto”. A non mettere in prima pagina la foto del mostro solo pochi giornali, tra cui il Corriere (che la pubblica all’interno, ma l’aveva pubblicata sull’home-page dell’on line) e l’Unità. Per il resto un lancio di pietre virtuali e l’indicazione della via dove abita la famiglia del fermato, fosse mai che qualcuno voglia provare a farla pagare a loro. Un caso esemplare di gogna mediatica. Certo, non è la prima volta che assistiamo a processi sommari di questo tipo. Sempre più spesso in Italia la presunzione di innocenza è un valore costituzionale di cui vergognarsi. Sono tanti i casi soprattutto di cronaca che diventano processi pubblici, senza né primo, né secondo, né terzo grado di giudizio. La sentenza è immediata, la condanna certa. E poco importa se poi nelle aule di tribunale mancano le prove certe. Questa volta però è accaduto qualcosa di più grave: un ministro dell’Interno che dovrebbe far rispettare le regole è stato il primo a “tradirle” in nome del clamore e della pubblicità personale che avrebbe potuto ricavare dalla vicenda. Del resto, bisogna dire che non è la prima volta che i giornali annunciano la cattura dell’assassino di Yara. Con la stessa certezza di oggi descrissero come mostro un ragazzetto egiziano, arrestato 24 ore dopo l’omicidio, e che – si seppe dopo un paio di settimane – con l’omicidio non c’entrava niente di niente ed era stato fermato per un clamoroso errore degli inquirenti. Proprio un caso come questo, così estremo, ci aiuta a capire ancora meglio come il rispetto delle regole sia fondamentale. Tutto fa pensare che Massimo Giuseppe Borsetti sia colpevole, ma proprio per questo dobbiamo essere cauti, per far sì che il processo si svolga nel migliore dei modi, senza interferenze e senza decidere al posto dei giudici. Solo così si può garantire una giustizia giusta e non processi sommari. Ma soprattutto solo in questo modo possiamo evitare di diventare meno umani, più incivili. Il sangue richiama sangue. La parola assassino solletica gli istinti peggiori. Dopo l’arresto del presunto assassino di Yara e dopo la confessione di Carlo Lissi di aver ucciso lui la moglie e due figli a Motta Visconti, sul web è partita una gara a chi la sparava più grande. Dall’ergastolo alle pene corporali. Fino alla richiesta di ripristinare la pena di morte, avanzata da Stefano Pedica, esponente della direzione del Pd, e dal suo compagno di partito, il senatore Stefano Esposito.

Yara: l'oscenità della giustizia-spettacolo, scrive Marco Ventura su “Panorama”. La cattura del presunto killer doveva avvenire senza clamori, proteggendo innocenti e minori. Invece, nel tritacarne, ci sono finiti tutti. Uno spettacolo immondo, inaccettabile, folle. Senza nulla di umano, di corretto, di giustificato. È la vicenda-spettacolo della cattura del presunto assassino di Yara Gambirasio. Una storia terribile, data in pasto senza le dovute cautele - complici autorità e giornalisti - a una pubblica opinione insieme respinta e attratta, attonita ma anche, forse, perversamente golosa dei particolari raccapriccianti, addirittura piccanti, di uno dei più clamorosi delitti di cronaca degli ultimi anni: Yara, la ragazzina di 13 anni uccisa il 26 novembre 2010 e ritrovata dopo tre mesi. Questa tragedia è diventata un thriller, un giallo, uno show, un noir, una gara a chi annuncia per primo la chiusura del caso (che non c’è). A chi ricama meglio. Sui giornali, in televisione, su Twitter. Senza ritegno, senza alcun rispetto per le famiglie coinvolte. Un intreccio sul quale ha improvvidamente alzato il sipario il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, quando secondo i magistrati non erano ancora concluse le operazioni di convalida del fermo del presunto assassino, Massimo Giuseppe Bossetti. Da dove cominciare per dire quanto dovremmo provare disagio per noi stessi, per questo paese, per chi ha gestito la vicenda? Potrei cominciare da un’ipotesi che oggi pare assurda ma che troppi errori giudiziari inducono a non considerare così improbabile: l’ipotesi che l’arrestato sia innocente. A dispetto delle notizie trapelate sul test del Dna confrontato con la macchia di sangue rinvenuta sugli slip della vittima. A dispetto delle convinzioni degli inquirenti (i primi però a invitare alla cautela, perché la prova del Dna non è certa al mille per mille, parliamo sempre di probabilità). L’altro elemento è la quantità di vite umane gettate nel tritacarne di una troppo affrettata divulgazione delle indagini. Adulti e minori, padri e patrigni, figli e figlie, gemelli, fratelli e fratellastri, madri, amanti, cugini, suoceri, amici... Ormai sappiamo tutto (dell’accusa). Il carpentiere sarebbe figlio illegittimo della relazione tra un autista morto (e riesumato) e una donna sposata. L’autista ha una vedova e tre figli (che non c’entrano nulla ma si ritrovano sulle prime pagine dei giornali: un imprenditore “di successo”, una madre “felice” e un idraulico “stimato”). I cronisti di “Repubblica” scrivono che tacciono, “introvabili dietro i loro citofoni nel centro di Clusone”. Già. L’assedio è cominciato, chissà quanto dovrà durare. C’è la madre del presunto assassino, che nega la relazione clandestina ma nessuno le crede e viene descritta come “la donna dei misteri”, barricata dietro le persiane della sua casa di Terno d’Isola. Addirittura i giornalisti abbozzano sentenze: lei assicura che Massimo “è figlio naturale di mio marito”, e così “tenta di salvarlo dalle accuse che lo hanno travolto”. Ecco i sospetti, nascosti dietro punti interrogativi. Lei cerca “di difendere anche di fronte all’evidenza quel segreto inconfessabile che solo gli esami del Dna hanno potuto svelare? E soprattutto: è stata lei negli ultimi mesi più consapevole del figlio che il cerchio delle indagini si stava stringendo attorno a Massimo?”. Già, perché tutti a chiedersi se Massimo sapesse, a sua volta, di essere figlio illegittimo di un altro padre. E con lui la sorella gemella. Poi c’è il terzo figlio, fratellastro di Massimo, di nome e di fatto del padre che non sa più se credere alla moglie e affronta il rovello di un possibile adulterio di oltre quarant’anni fa. Poi ci sono i figli del presunto omicida. Che sono piccoli, hanno 13, 10 e 8 anni. Da chi hanno saputo che il padre è accusato di un delitto così efferato? Come potranno proteggersi se l’altro giorno, durante il primo interrogatorio di Bossetti, tutti sapevano tutto e qualcuno pensava al linciaggio? C’è la moglie del presunto assassino, e madre dei tre bambini (la madre, suocera dell’arrestato, viene fotografata mentre si affaccia a una finestra col cane). Ovviamente diventa titolo sui giornali che lei non fornisca un alibi al marito. Dice di non ricordare. “È strano, molto strano”, osserva il “Corriere della Sera”. “Perché quel 26 novembre del 2010 quando Yara sparì all’improvviso, la notizia circolò velocemente. E già durante la notte cominciarono le ricerche diventate poi mobilitazione di centinaia di persone per giorni e giorni”. Fino al 26 febbraio 2011, quando fu ritrovata. “Possibile che una persona della zona, per di più mamma, non ricordi che cosa ha fatto quella sera?”. Io dico: è possibile eccome. “Che non abbia tenuto a mente ogni dettaglio e spostamento del marito, dei figli, degli altri familiari. Il dubbio è che lei sappia tutto, ma abbia così deciso di marcare la distanza dall’uomo diventato il mostro”. Ma se sono passati tre anni e mezzo! Ma come si fa a tranciare sospetti così. Non mi è piaciuto neppure l’incontro del Procuratore di Brescia, Pier Luigi Maria Dell’Osso, con i giornalisti, quelle risate sull’adulterio e sulla gemella di Bussetti come “complicazione” per le indagini. Tutto assurdo, tutto fuori luogo. E dire che invece il questore di Bergamo, Fortunato Finolli, ha correttamente e ripetutamente precisato che il caso non è per nulla chiuso, che bisogna ancora fare accertamenti e che poi dovrà tenersi il processo, “con le dovute risultanze e il dovuto contraddittorio”. Era tanto difficile mantenere questa linea? Infine, la parte più tragica, quella dei genitori di Yara, costretti a leggere dopo tanti anni che nelle tre pagine con cui il pubblico ministero dispone il fermo di Bossetti ci sono quelle righe che fanno titolo sui giornali: “con l’aggravante di avere adoperato sevizie e avere agito con crudeltà”. Sì, i genitori di Yara sono i più cauti e taciturni. Gli unici, quasi, all’altezza di questo mare di sofferenze. E sono quelli che hanno sofferto (e soffrono) di più. Non spetta a un ministro condannare un indagato, scrive Riccardo Arena su “Il Post”. l processo penale si celebra solo nelle aule di giustizia (e non sui giornali). La sentenza di condanna viene pronunciata solo da un giudice (e non da un Ministro dell’Interno). Ogni imputato è presunto non colpevole fino a condanna definitiva. Sono questi concetti ovvi per un Paese che si dice civile. Concetti che evidentemente non sembrano così ovvi per il Ministro dell’Interno Angelino Alfano. Ministro che si è affrettato ad emettere la sua condanna definitiva nei confronti di un indagato. “Le forze dell’ordine” ha sentenziato Alfano “hanno individuato l’assassino di Yara”. Una frase categorica capace di superare la necessità di celebrare un processo. Un’affermazione lapidaria che si è sostituita a tre gradi di giudizio: Corte d’Assise, Corte d’Appello e Corte di Cassazione. Eppure nessuna norma attribuisce al Ministro dell’Interno il compito di emettere sentenze né di diffondere notizie che riguardano esclusivamente le attività istituzionali dei magistrati. Attività dei magistrati che, soprattutto quando riguardano casi che sono nella fase delle indagini, necessitano del massimo riserbo. Riserbo che se violato potrebbe nuocere alle indagini stesse. Ma c’è dell’altro. La gogna politica di Alfano ha prodotto anche una gogna mediatica su tanti giornali. Una gogna mediatica fatta di titoli in prima pagina che hanno riportato tra le virgolette la sentenza emessa da Alfano: “Yara, preso l’assassino”. È la contaminazione dell’errore. È l’epidemia del decadimento. Resta infine un ultima perplessità: perché il ministro Alfano si è spinto tanto oltre? Al momento non è dato saperlo, anche se è preferibile non pensare al peggio. Ovvero che lo abbia fatto per ragioni di visibilità. Approfittare dell’omicidio di una tredicenne per andare sui giornali sarebbe una condotta davvero inqualificabile. Forse anche peggiore che fingersi giudice.

Caso Scazzi. La pubblica opinione è la "Cavia" di chi ha il potere di trasmettere formule retoriche elementari e ripetitive..., scrive Gilberto Migliorini. Alla fine il topolino partorisce la montagna. Forse l’opera strapperà il primato À la recherche du temps perdu in sette volumi di Marcel Proust. Non tanto per la lunghezza quanto per il tema della rievocazione come oeuvre cathédrale, con quella memoria spontanea e creativa. Come era del tutto logico prevedere, tutto un sistema di sillogismi (teoremi) può risultare una corposa esercitazione di verità apodittiche e dimostrazioni congetturali. Quando ci si avventura sulla strada delle inferenze induttive, quando si dimenticano i fatti e si introducono interpretazioni senza metterle al vaglio di altri fatti, quando non si tiene conto che i testimoni sono suggestionabili dal sistema mediatico e che più ci si allontana nel tempo da un evento tanto più subentrano fisiologicamente mille cose a inquinare e deformare la memoria… si finisce per dar credito alle fantasie, alle illazioni e alle deduzioni senza base empirica, scambiando per prove quelli che sono solo indizi lacunosi e inconsistenti, ricostruzioni di fantasia. Ne nasce un mastodontico zibaldone da leggere come una prolissa inventio di accadimenti, magari anche avvincente, ma priva di quella che si suole chiamare verosimiglianza. Il caso ricorda il feuilleton, quel romanzo d’appendice pubblicato a episodi e rivolto a un pubblico di massa, di bocca buona. I detrattori direbbero di un sottogenere letterario che anticipa certi moderni rotocalchi o le novelle di riviste prevalentemente femminili. Non a caso una delle opere più famose è i Misteri di Parigi (Les Mystères de Paris), di Eugène Sue, romanzo pubblicato a puntate, fra il 1842 e il 1843 su Le Journal des Débats. Non è da dimenticare che dai Misteri di Parigi trarrà ispirazione Victor Hugo con la prima versione de I miserabili (intitolata Les mystères) e Alexandre Dumas (padre), con il suo Edmond Dantès. Il romanzo d'appendice inaugura quella letteratura di massa che ai giorni nostri è andata annacquandosi nel genere dei rotocalchi e soprattutto nei format televisivi nazional-popolari. L’attuale romanzo d’appendice televisivo ha perso qualsiasi velleità letteraria per diventare soltanto un sistema di gossip salottiero con divagazioni psico-sociologiche da accatto, connotate da una sorta di narcisismo retorico da libro cuore (Les Mystères de Paris conservava invece ispirazione e perfino denuncia dei mali sociali, contro la società del suo tempo, contro un sistema giudiziario ed economico incapace di punire i veri colpevoli, anticipando le più complesse e approfondite analisi del naturalismo dei fratelli Goncourt, di Zola e del verismo italiano). Tutta la storia relativa al caso di Avetrana è ricca di misteri, cominciando dalle strane confessioni di Michele, ma nello stesso tempo risulta un caso senza capo né coda, un insieme di fotogrammi spaiati e senza logica. Nulla che abbia la parvenza di un mosaico dove le tessere si embricano con naturale verosimiglianza, sembra piuttosto un collage dove tutto ha l’apparenza di un quadro surreale, quasi un sogno con un incubo al risveglio. Evidentemente c’è un’altra verità che sfugge alla comprensione. Solo un’indagine che riparta da zero può riuscire a mettere insieme le tessere del puzzle senza pregiudizi e senza teoremi, con esiti che potrebbero risultare del tutto imprevedibili, forse perfino ribaltando ruoli e status dei personaggi. Di certo e assodato, c’è solo il corpo della povera ragazza in fondo al pozzo e quelle strane narrazioni di Michele, con un carattere vagamente onirico, e quei sogni che fanno da contraltare a una vicenda avvolta in una sorta di fantasia spettrale. Tanti operatori del settore criminologico (omicidi irrisolti) che affollano gli studi televisivi dimostrano notevoli capacità dialettiche quando discettano di cold case. Un florilegio di analisi e di affermazioni fondate su fantasticherie, dicerie, astruserie, pressapochezze… i classici ragionamenti per assurdo, sillogismi formulati senza il ben che minimo riscontro, tutto sulle spalle di poveri cristi messi alla berlina e senza che nessun settore del parlamento italiano abbia niente da ridire, rappresentanti politici solitamente così pronti ad attivarsi quando si invocano i diritti inalienabili della difesa per uno di loro fino al completamento di tutto l’iter giudiziario. Due imputate sono tenute in galera con motivazioni a dir poco sorprendenti in attesa dei successivi gradi di giudizio. Ovvio che due donne di estrazione contadina - che tutto un sistema massmediatico ha provveduto a rappresentare come diaboliche e perverse assassine - sono in grado con la loro rete di connivenze e di conoscenze non solo di inquinare le prove servendosi del loro mostruoso sistema di supporto e di protezione, ma, fidando su relazioni internazionali distribuite in vari paesi, possono proditoriamente sottrarsi con la fuga in qualche paradiso fiscale dove hanno accumulato cospicue risorse finanziarie grazie alla loro attività come bracciante agricola e estetista a tempo perso. Un sistema di linciaggio morale nei confronti di altri presunti colpevoli di omicidio (fino a sentenza definitiva), o semplicemente di persone entrate per caso in qualche cold case, va avanti ormai da anni (salvo qualche meritoria eccezione di opinionisti garantisti) in trasmissioni televisive che fanno illazioni e ricavano teoremi non già attraverso inchieste basate su dei fatti - mediante una meticolosa e obiettiva ricerca di riscontri, magari sul modello della controinchiesta tesa a sottolineare i dubbi e le incongruenze a favore del più debole o del meno ‘simpatico e fotogenico’ - ma su delle interpretazioni capziose con l’unico fine di creare audience indipendentemente da criteri di verità, obiettività e trasparenza. A questo si aggiungono sedicenti esperti che forniscono interpretazioni scientifiche senza indicare alcun criterio epistemologico, ma solo sulla base di considerazioni empiriche o semplicemente di impressioni soggettive. Semplificazioni che farebbero inorridire qualunque investigatore serio abituato a esercitare il dubbio e a relativizzare le conclusioni in ragione della complessità della realtà investigativa (con tutte le sue implicazioni giuridiche e metodologiche). Si tratta dei limiti di qualsiasi stereotipo di indagine applicato a situazioni che non sono mai quelle di laboratorio in cui si possono individuare con assoluta certezza le variabili (dipendenti e indipendenti) in una situazione controllata. Programmi con opinionisti che parlano spesso senza cognizione di causa, senza veri strumenti interpretativi, senza esperienza sul campo… ma influenzando e orientando un’opinione pubblica educata alla superficialità. Un processo di retroazione che finisce per determinare una sorta di profezia che si autoadempie attraverso l’individuazione di colpevoli sulla base esclusivamente di una influenza mediatica che nei casi più estremi diventa psicosi collettiva e ricerca di un capro espiatorio. Tutto questo avviene soprattutto in periodi di crisi, quando le difficoltà socio-economiche delle famiglie e la ricerca di compensazioni alle frustrazioni e all’angoscia del futuro determinano situazioni di stress e il bisogno di scaricare tensioni e difficoltà emozionali attraverso identificazioni proiettive e protagonismi per interposta persona. Da anni si effettua una sorta di teatro dell’assurdo con giudizi sommari attraverso format ammantati di approfondimento informativo con un circo di opinionisti dall’aria da Sherlock Holmes, armati vuoi di un armamentario da detective improvvisato e vuoi con teorie vagamente neo-lombrosiane, frenologiche, o vuoi semplicemente con il supporto dell’autorevolezza presenzialista di volti da sempre incorniciati nel rettangolo del televisore. La locuzione in dubbio pro reo assume un valore puramente teorico se non entra a far parte dei processi di inferenza logica già nella fase preliminare delle indagini, come forma mentis, in caso contrario, una volta presa una strada è come viaggiare sui binari della ferrovia andando in capo al mondo (un mondo per lo più inventato attraverso teoremi fantasiosi e prove(tte) abborracciate con molta fantasia e zero riscontri. Il dubbio investigativo dovrebbe costituire l’abito mentale di qualsiasi ricerca in qualsiasi ambito. Quel dubbio metodico che consente di tornare continuamente sui propri passi per verificare che qualche perverso particolare possa aver messo l’indagine su una strada sbagliata. Con l’avvento delle prove scientifiche, armi notoriamente a doppio taglio se usate come verifica, e non come falsificatori potenziali, si possono davvero fare danni notevoli. Alcuni sanno lavorare con metodo e consapevolezza, ma altri scambiano un indizio per un passepartout che in quattro e quattr’otto risolve un caso miracolosamente. Siamo tutti in pericolo di errore giudiziario, e senza voler fare di ogni erba un fascio, perché il lavoro dell’inquirente e del giudice è duro, difficile e oneroso (e in qualche caso molto pericoloso quando si ha a che fare con la delinquenza organizzata come la storia del nostro paese dimostra con veri eroi che hanno pagato con la vita l’abnegazione e il servizio alla collettività). Occorre però dire che spesso si ha l’impressione che la categoria si chiuda a riccio in una autodifesa, a prescindere, quando qualcuno dei suoi rappresentanti non si dimostra all’altezza...Il caso di Michele Misseri è poi emblematico. Si tratta di un contadino che in più di un’occasione ha dimostrato di trovarsi in un grave stato confusionale, che ha accumulato una serie di confessioni (narrazioni) diverse, contraddittorie e inattendibili, un teste che porta indizi senza prove, che dichiara cose senza riscontri (nessun elemento che attesti che nella casa di via Deledda sia avvenuto un delitto, nessun elemento che dimostri che la sua auto abbia trasportato un cadavere, nessun elemento che provi che lui abbia infilato il cadavere nel pozzo, nessuna prova che la povera Sarah abbia raggiunto la casa di via Deledda. L’uomo, in palese stato di sofferenza psichica, non viene sottoposto a perizia psichiatrica per capire qualcosa di più della sua personalità, se per caso non sia stato invece semplice testimone di qualcosa che lo ha sconvolto emotivamente. Tornando ai mass media e alla loro utilizzazione, occorre dire che l’influenza sull’opinione pubblica è tale da determinarne l’orientamento e da influenzarne l’interesse puntando sulla spettacolarizzazione e facendo leva sulla curiosità morbosa e sul giudizio di pancia, abituando il target a dare valutazioni basate sull’emotività e sul disimpegno. Tale atteggiamento è tanto più diseducativo quanto più trasforma l’audience in un modello di elettore sempre meno informato e che offre risposte pavloviane. Non a caso i cold case, in quanto casi irrisolti e problematici, rappresentano un test di influenza e un banco di prova su un target sprovvisto di autonomi e adeguati strumenti interpretativi, sempre più influenzabile attraverso l’uso di format che ne orientano le scelte e le modalità di reazione, con input emozionali programmati secondo il vecchio e inossidabile modello SR. Il caso in parola risulta emblematico, dal punto di vista mediatico, della facilità con la quale l’opinione pubblica può essere influenzata utilizzando una comunicazione basata su formule retoriche elementari e ripetitive e senza mai mettere in dubbio i contenuti espressi dall’autorevolezza del mezzo televisivo…

Quando la giustizia semina morti si chiama ingiustizia: Mimino Cosma è uno dei tanti uccisi dalla malagiustizia? Scrive Massimo Prati sul suo Blog, Volando Controvento. Per tanti di noi è difficile capire cosa significhi vivere nello stress e cosa lo stress porti in dote al fisico umano. Parlo in special modo dei giovani, di quelli fortunati che non hanno mai avuto a che fare con le disgrazie e vivono ancora nella leggerezza della loro età senza mai essere passati fra quelle brutte esperienze che cambiano il modo di vedere la vita. Inoltre, non tutte le persone soffrono in maniera cruenta lo stress: questo perché non siamo tutti uguali, non tutti reagiamo alla stessa maniera e non tutti siamo costretti a vivere quelle tragedie familiari che stroncano il pensiero e marciscono la speranza. Eppure i periodi stressanti esistono e prima o poi toccano a tutti noi. Chi non trova lavoro e non sa come andare avanti soffre di stress. Chi ha una famiglia e non sa come mantenerla soffre di stress. Una donna incinta che non si sente pronta a diventare madre soffre di stress. Suo marito, a cui un figlio cambierà radicalmente la vita, soffrirà di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un padre o di una madre, perdendo un punto di riferimento importante, soffre di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un figlio, perdendo quanto di più caro aveva al mondo, soffre di stress. Lo stress è sempre dietro l'angolo, pronto a colpire chiunque nei momenti meno attesi. Anche le persone a cui pare andare tutto bene. Per capire a cosa portino i periodi stressanti, possiamo far riferimento a diversi studi scientifici. Ad esempio il Brain and Mind Research Institute dell'Università di Sydney, ha pubblicato una ricerca sul Medical Journal of Australia in cui stabilisce che l'infarto è provocato dallo stress che eventi diversi possono scatenare nell'uomo. Ma non è lo stress da lavoro che uccide, non è quello che si prova in ufficio o in una catena di montaggio. No, a uccidere è quello provocato da fatti imprevisti, straordinari, e da tragedie familiari. Un altro studio, questa volta dei ricercatori della Ohio State University, pubblicato sul "Journal of Clinical Investigation" nell'agosto del 2013, ha cercato di stabilire come i tumori possano svilupparsi in caso di stress. Da tempo immemore la scienza ha ipotizzato una correlazione fra stress e cancro, senza però mai individuare un nesso concreto che portasse a una conferma della supposizione. Ma la ricerca non ha smesso di studiare e sperimentare, ed ora gli scienziati statunitensi hanno trovato nel gene ATF3 la possibile chiave per lo sviluppo e la diffusione delle metastasi, con la conseguente morte per cancro. In particolare si può dire che il gene era già conosciuto e già si sapeva che si attivava in condizione di stress. Ciò che gli esperimenti hanno dimostrato è che il gene non solo uccide le cellule sane, ma agendo in modo irregolare aiuta anche la proliferazione delle metastasi. "Se il corpo è in perfetto equilibrio - ha affermato lo scienziato Tsonwin Hai - non è un gran problema. Quando il corpo è sotto stress, però, cambia il sistema immunitario. E il sistema immunitario è una lama a doppio taglio". Detto questo c'è da star certi che l'essere indagati in un caso criminale dal grande profilo pregiudizievole, e dalla grande eco mediatica (essere indagati da una procura, ormai si è capito, significa anche essere additati dai compaesani a causa del pregiudizio iniettato nel popolo da giornalisti e opinionisti sapientoni), porta stress al fisico che più facilmente può subire un infarto o una malattia incurabile. Per averne conferma si potrebbe cadere nella tentazione di ricordare sin da subito il compianto Enzo Tortora, morto di tumore dopo anni di tortura mediatica e pregiudizi. Ma non serve scomodare il caso più eclatante della nostra stampa, perché tanti più gravi (ma meno pubblicizzati) stanno a dimostrare che chi viene indagato, se innocente, soffre in maniera esponenziale di stress, quello stress che può portare alla morte. Prendiamone alcuni e partiamo da Don Giorgio Govoni, che dal '97 al 2000 fu perseguitato dai magistrati che lo additavano a pedofilo-satanista. Nell'ultima udienza a cui assistette, il pubblico ministero lo dipinse come un rifiuto della società, come capo di una setta perversa, e chiese per lui 14 anni di carcere. Il giorno dopo Don Giorgio, agitatissimo, si presentò nello studio del suo legale: aveva bisogno di sfogarsi e di sentire una voce amica. Ma non riuscì a parlargli perché morì di infarto in sala d'attesa. Fu condannato da morto Don Giorgio. Per il giudice, dopo 57 udienze e 300 testimoni (un processo costosissimo), era lui a dire messa nei cimiteri della zona, era lui l'uomo vestito di nero che diceva "diavolo nostro", invece che Padre nostro, mentre i satanisti in maschera lanciavano bambini per aria o li sgozzavano gettandoli nel fiume. Ma c'erano davvero satanisti in quei cimiteri? No, non c'erano satanisti e non c'erano abusi. Tutto venne allestito da un Pm che si basò su quanto stabilito da una psicologa dei servizi sociali di Modena. Ma i procuratori si accanirono e quella brutta storia rovinò la vita anche ad altri. Parlo di una madre che quando le portarono via il figlio si gettò dalla finestra, parlo anche dei coniugi Covezzi che nel '98 se ne videro portar via 4 di figli dai magistrati. L'assoluzione definitiva per loro è giunta nel 2013, ma Delfino Covezzi non se l'è goduta perché subito dopo è morto senza poter rivedere i quattro figli strappatigli dalla giustizia e dati in adozione quindici anni prima del verdetto definitivo (solo in primo grado fu condannato). Storie allucinanti di sofferenza e stress incessante che portano anzitempo alla morte e crescono solo per il propagarsi del pregiudizio, lo stesso che ancora oggi fa dire a tanti italiani che Enzo Tortora qualcosa aveva fatto, altrimenti non sarebbe stato indagato. Storie allucinanti come quella di Giovanni Mandalà che assieme a Giuseppe Gullotta fu condannato per aver ucciso due carabinieri (strage di Alcamo Marina). Giovanni si è sempre proclamato innocente, come Giuseppe a cui la stampa l'anno passato ha dedicato tante parole perché ha chiesto allo Stato 69 milioni di euro per aver trascorso 22 anni in carcere da innocente. Ma il signor Mandalà non è riuscito ad arrivare alla sentenza di assoluzione. Lui è morto nel '98. Morto dopo aver subito il dolore assoluto, vittima di un tumore. Come in carcere è morto Michele Perruzza, un uomo incastrato in una storia che ha attinenze con quella di Avetrana. Forse non la ricorderete, perché contemporanea al delitto di via Poma (Simonetta Cesaroni) e perché in pochi giorni i magistrati dissero di aver scoperto la verità: e come sempre i giornalisti si defilarono senza approfondire né chiedersi se le accuse mosse dalla procura fossero reali. Michele Perruzza nel 1990 abitava in una piccola frazione di Balsorano, provincia de L'Aquila, dove viveva anche sua nipote, la piccola Cristina Capoccitti di soli sette anni. Il 23 agosto, dopo cena, Cristina uscì di casa per giocare all'esterno. Ma quando sua madre la chiamò perché si stava facendo buio, la bimba non rispose. Le ricerche si protrassero per tutta la notte, poi arrivò l'alba e il corpo di Cristina venne visto: la bimba era svestita e aveva la testa spaccata. Due giorni dopo un ragazzo di 13 anni, Mauro Perruzza (figlio di Michele e cugino di Cristina), confessò l'omicidio. Stavano facendo un gioco, disse, quasi erotico. Poi lei cadde sbattendo la testa su una pietra e lui, per paura, la strangolò. Ma gli inquirenti non gli credettero, non ce lo vedevano ad uccidere la cugina e così lo interrogarono per ore fino a fargli dire che era stato suo padre a uccidere e che lui lo aveva visto perché si trovava a 50 metri dal luogo del crimine. Ma questa fu solo la sua seconda versione, nel tempo ne fornì 17 e tutte diverse. Però non appena inserì suo padre, un'auto corse fino alla sua casa per arrestarlo: era l'alba del 26 agosto e nessuno verificò le parole del ragazzo. Quando in caserma gli passò davanti in manette, i giornalisti lo sentirono urlare: "Scusami papà, sono stato costretto!". In effetti il ragazzo, si scoprirà poi, era stato intimidito di brutto. In ogni caso suo padre non fece più ritorno a casa. Ma mai accusò il figlio per quel crimine. Così anche sua moglie che mai ha detto qualcosa contro suo figlio. Come sempre se non ci sono prove si ragiona di pregiudizio usando il solito ragionamento del: "Perché un figlio dovrebbe incolpare il padre se non è colpevole?". Che equivale al moderno: "Perché un padre dovrebbe incolpare la figlia se non è colpevole?". Così, basandosi su un pregiudizio, in un processo in cui l'avvocato del sempliciotto muratore Perruzza era lo stesso che difendeva suo figlio, inconcepibile, il 15 marzo del '91 ci fu una prima condanna all'ergastolo. In paese ormai tutti erano certi della colpevolezza del Perruzza e quella sera si festeggiò la condanna coi fuochi d'artificio. Il pregiudizio della gente era nato da un obbrobrio investigativo e giudiziario in cui non mancava neppure un'audiocassetta scomparsa (era quella di un interrogatorio in cui, si dice, si sentivano distintamente i colpi di un pestaggio). Alcuni giornalisti, solo un paio a dire il vero, muovendosi con sapienza cercarono di entrare nella verità. Ma non era facile e Gennaro De Stefano (uno dei pochi giornalisti veri, purtroppo morto anni fa) venne anche intimidito grazie a un poliziotto che mise della droga nella sua auto prima di una perquisizione (sei mesi dopo il fatto De Gennaro, per nulla intimidito, fu scagionato e risarcito con tante scuse). Tralasciando il resto di questa infame storia che procurò solo dolore, arrivo alla fine. Le Perizie stabilirono che il figlio, da dove aveva detto di trovarsi non poteva vedere il padre uccidere Cristina. Ma sia in appello che in cassazione le accuse della procura tennero e nel settembre del '92 la condanna divenne definitiva. Lo sconcerto subentrò poi, quando in un processo parallelo (celebrato a Sulmona e non a L'Aquila) si scoprì che sulle mutandine di Cristina c'era il dna del cugino Mauro, non dello zio. Per cui la giustizia si trovò agli estremi: la cassazione nel '92 aveva stabilito che Michele era colpevole oltre ogni  ragionevole dubbio, ma nel '98 un giudice, grazie a buone perizie, certificava nelle sue motivazioni l'innocenza di Michele Perruzza. Si poteva a quel punto rifare il processo, ma la procura del capoluogo abruzzese si oppose e alla fine vinsero i procuratori (fra l'altro, il giudice che aveva condannato all'ergastolo il Perruzza in quel periodo era diventato procuratore generale de L'Aquila). Comunque lo strazio e lo stress accesero in maniera esponenziale la sofferenza di Michele Perruzza quando questi capì che nessuno avrebbe fatto nulla per aiutarlo. Morì nel gennaio del 2003 a causa di un infarto e le sue ultime parole furono: "Dite a tutti che non ho ucciso io Cristina". Le disse in punto di morte ai medici dell'ambulanza che inutilmente cercarono di salvargli la vita. Storie di ordinaria follia? Casi rari che non fanno testo e non gettano ombre su una giustizia da decenni malata? Una giustizia spesso falsa e coadiuvata dai media che iniettano il pregiudizio delle procure nelle vene del popolo? In Italia ci sono sacerdoti con le palle. Uno si chiama Don Mario Neva e col suo gruppo (Impsex) da tempo cerca di salvare le ragazze costrette a battere sulle strade. Lui dieci anni fa disse: "Nel ’600 si credeva di combattere la peste uccidendo gli 'untori', innocenti accusati di spargere unguenti mortiferi. Un rito crudele quanto inutile che solo dopo 200 anni ebbe giustizia e cessò. Oggi sta succedendo lo stesso. In buona fede allora, in buona fede oggi: ma è una buona fede che mette radici profonde e diventa madre di ogni inquisizione". Ed è proprio così. Nulla è peggio del pregiudizio e nulla è peggio dello stress che uccide chi sa di essere vittima di una ingiustizia giudiziaria. La vergogna non vive in chi non ha cuore, ma si amplifica in chi il cuore lo ha più grande. Ed arrivo a Cosimo Cosma, morto a causa di un tumore che nessuno può dire lo avrebbe certamente colpito senza lo stress dovuto alle accuse della procura di Taranto. Mimino non era un santo, ma con lui la giustizia si è sbizzarrita e ha dimostrato di avere una doppia personalità (e una doppia morale), perché mentre veniva condannato a Taranto per aver occultato il corpo di una ragazzina di 15 anni (Sarah Scazzi), a Brindisi subiva la medesima sorte per qualcosa che risulta essere l'esatto contrario: per aver messo le mani addosso a chi aveva violentato una ragazza di 16 anni (questa è l'accusa a cui la difesa ha risposto chiedendo al giudice di riconoscere che il violentatore al momento del fatto non era in grado di intendere e volere). Un po' come dire che per la nostra giustizia un missionario può con una mano dare a un bimbo un pezzo di pane e con l'altra mollargli uno schiaffo. Non c'è logica in certe accuse, lo so, ma fin quando non si metteranno paletti e regole vere da rispettare, tutto e il contrario di tutto potrà essere dimostrato dal potere giuridico consolidato. Perché a tutt'oggi c'è chi può iniziare indagando A ed arrivare a condannare C senza alcun problema. Perché se non convince la versione di A si gira la frittata e si manda in galera B. E e se non è possibile incastrare solo B si gira la pentola in verticale e si condanna anche C. Basta volere e con sogni e veggenze alla fine si può anche dire che non era una frittata ma una paella, così da mettere in atto un gioco di prestigio buono per condannare chiunque. Il problema è che, tranne i soliti noti (e sono pochi), nessuno protesta: la maggioranza dei media sparge il pregiudizio e anche grazie a loro, con nulla in mano se non pochi indizi, c'è chi può indagare e condannare chiunque e credere, e far credere, di essere nel giusto. E se qualche avvocato in gamba dimostra che non è zuppa quanto portato dai procuratori in tribunale, per i pubblici ministeri c'è sempre la possibilità giuridica di cambiare la formula e le ricostruzioni e far credere zuppa il pan bagnato. Questo perché quando si entra nella categoria degli indagati, per i magistrati e la pubblica opinione non si è più persone e il dolore che si prova quando nessuno ti crede non figura essere dolore per chi accusa: in fondo, possono soffrire i numeri? L'essere umano per certe istituzioni non esiste e il dolore che una accusa fondata su congetture lascia in dote, come lo stress che si prova nel sentirsi già giudicati prima del processo finale, passa in secondo piano. Ma non solo gli indagati sono numeri. Forse non vi rendete conto che tutti noi siamo solo stupidi numeri scritti in sequenza su una qualche cartella o documento: sia per la sanità che per la giustizia che per i comuni e il governo. Numeri da allevare in provetta per gli scopi altrui, tifosi che vengono plagiati dalle istituzioni e vogliono solo vincere, nei campi di calcio come nella politica e nei tribunali, e a cui non importa di come si giochi la partita, se si fanno entrate oltre il limite, se agli avversari che giocano in inferiorità numerica saltano caviglia e perone, se l'arbitro non si dimostra imparziale, se qualcuno muore. Fin quando non toccherà a noi di subire tutto va bene, anche lo sport che non è più sport, la politica che non è più politica e la giustizia che non è più giustizia. Tanto la pubblica opinione alla fine darà ragione a chi comanda preferendo mettere in campo la volgarità dell'offesa. Tanto i media non daranno risalto alla notizia scomoda e nessuno si indignerà se i carcerati che si proclamano innocenti si suicidano dopo aver perso la speranza, se gli imputati che si proclamano innocenti muoiono di infarto o di tumore a causa di uno stress infinito, se chi ha mandato in carcere gli innocenti, morti e non, invece di venir cacciato dalla magistratura continua a incassare i suoi 100.000 euro all'anno e a far carriera...

Nicola Izzo: "Così i pm mi hanno rovinato". L’intervista di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. In questi giorni in Parlamento si sta discutendo di riforma della giustizia e responsabilità civile dei magistrati. Sono migliaia in Italia le persone rovinate dagli errori giudiziari delle toghe. E sicuramente uno dei casi più celebri è quello del prefetto Nicola Izzo. Da qualche mese è in pensione, ma sino al novembre 2012 era il vicecapo vicario della Polizia, quasi il comandante in pectore vista la battaglia contro la malattia che stava conducendo l’allora numero uno Antonio Manganelli. Un gruppo di agguerriti pm napoletani gli ha stroncato la carriera indagandolo per turbativa d’asta nell’ambito di un’inchiesta sull’appalto per il Centro elaborazione dati della Polizia. Lo scorso maggio il gip di Roma, dove il fascicolo era stato trasferito per competenza, ha prosciolto Izzo da ogni accusa. Lui ora resta alla finestra, in attesa che qualcuno lo risarcisca per un danno tanto grande.

Dottor Izzo, quanti milioni di euro dovrebbero darle per ripagarla di questo clamoroso errore giudiziario?

«Non saprei cosa risponderle. Si parla, ormai da troppi anni, dei malanni della giustizia senza trovare un rimedio. Io comunque ho sempre pensato che chi sbaglia deve rispondere: l’irresponsabilità crea i presupposti per aumentare gli errori e formare il convincimento in chi li commette di esercitare un potere incontrollato».

Il gip che ha archiviato il procedimento contro di lei e altri 14 indagati vi ha prosciolti senza ombre. Non fa male avere questo riconoscimento dopo aver lasciato la Polizia?

«Fa male perché in tutto il procedimento ci sono una serie di “travisamenti” che avrebbero, se valutati correttamente e con accertamenti approfonditi, consentito, anziché immaginifiche ricostruzioni giudiziarie, l’immediata archiviazione del tutto, senza creare danni irreparabili. L’inesistenza di qualsiasi ipotesi collusiva tra noi indagati era di un’evidenza solare».

I pm sembra che non abbiano brillato in precisione. Per esempio siete stati accusati di aver fatto vincere aziende senza Nos (nullaosta di sicurezza), mentre in realtà tutte ne erano in possesso. Come è possibile mettere nero su bianco un’accusa del genere senza averla verificata?

«Questa, al pari di alcune altre accuse, è una delle cose più strabilianti e gravi. Come si fa a riportare tra i capi di imputazione fatti neanche accertati, ma solo frutto della propria immaginazione? C’era da fare un semplice accertamento cartaceo, lo stesso che hanno fatto le difese. Bastava consultare gli archivi degli enti deputati al rilascio del Nos».

L’inchiesta è stata trasferita a Roma per competenza. Ma non era chiaro sin dall’inizio che quella presunta turbativa d’asta, se mai ci fosse stata, era stata consumata nella Capitale (dove si tenne la gara) e non a Napoli?

«Dico solo che dal 20 dicembre del 2012, data in cui la Procura Generale della Cassazione aveva individuato la competenza della Procura di Roma, abbiamo dovuto attendere il luglio 2013 per la trasmissione di tutti gli atti da Napoli, con la conseguenza che la procura di Roma ha dovuto emettere due distinti decreti di chiusura indagini per la “rateizzazione”, forse dovuta, mi passi il termine, a “dimenticanze” nella trasmissione dei documenti».

Certi pm sono innamorati dei loro fascicoli e se ne separano mal volentieri. Non vorrei infierire, ma per il giudice della Capitale «tutte le condizioni necessarie al regolare svolgimento della gara erano state seguite». Ma allora perché tenervi sotto processo per tanti anni?

«Non voglio infierire neanche io, credo solo che in questo clamoroso caso di malagiustizia ci siano, per chi ha la responsabilità di farlo, sufficienti elementi per accertare l’inconsistenza e la fantasia dei capi di imputazione e la leggerezza con cui è stata condotta l’indagine».

Pensa che qualcuno risponderà di questo svarione?

«Spero di scoprirlo presto».

In questa vicenda anche i media hanno contribuito al suo calvario. Per esempio hanno dato ampio risalto alla lettera anonima di un “corvo” che collegava il suicidio di un suo stretto collaboratore alle pressioni gerarchiche che avrebbe subito per alterare le procedure di gara. Ma la vicenda processuale ha raccontato un’altra verità.

«La morte del collega, anche per l’affetto che nutrivo per lui, è la vera tragedia nel contesto di questa vicenda. I verbali delle nostre riunioni di lavoro raccontano una verità molto diversa da quella immaginata dal “corvo”, verbali da cui emergono le richieste del mio collaboratore di maggiori risorse economiche per finanziare imprevisti progettuali e le mie pressanti pretese di giustificazioni per questi nuovi costi. Nell’ultima riunione il collega ammetteva di non conoscere il progetto a suo tempo elaborato, ma di essere convinto che avremmo dovuto ricorrere a inconsueti ampliamenti dei contratti, con l’ utilizzo di ulteriori risorse economiche».

Di fronte a tale affermazione come ha reagito?

«Nonostante fossi convinto della sua buona fede, lo richiamai molto fermamente a essere più attento e a documentarsi prima di reclamare altri fondi, anche perché qualsiasi superficialità poteva causare dei dispiaceri. È questo in sintesi il prologo della tragedia sulla quale ho sempre tenuto il più stretto riserbo per non ledere l’immagine di una persona onesta e perbene».

In questa storia c’è stata anche un’altra morte prematura. Per qualcuno pure in questo caso si sarebbe trattato di suicidio…

«Questa notizia non è un refuso di stampa, viene da un’affermazione del Gip di Napoli che a proposito di un dirigente di polizia ha scritto: «anch’egli recentemente deceduto in circostanze oggetto di accertamento, come emerso nel corso degli interrogatori». Di questi accertamenti e interrogatori non ho trovato traccia, se non nell’affermazione falsa, «si è suicidato», fatta dal pm nel corso dell’interrogatorio di un teste. Il figlio del compianto funzionario ha dovuto smentire la circostanza «assurda» con due comunicati in cui dichiarava che il padre era deceduto naturalmente, «stroncato da un infarto».

Perché secondo lei la lettera del “corvo” spunta sui giornali 3-4 mesi dopo la sua spedizione? Secondo lei c’era un piano dietro a quella strana fuga di notizie?

«Il ministro dell’Interno, all’epoca Anna Maria Cancellieri, non ha ritenuto di disporre alcuna inchiesta per scoprire questi motivi e quindi non posso avere certezze sul punto. Di certo, però, quell’azione va contestualizzata: nell’estate del 2012 ci trovavamo in un grave momento di crisi del vertice della Pubblica Sicurezza e vi erano grandi fermenti per la sua sostituzione. Gli artefici della lettera non erano dei passanti: hanno potuto manipolare i documenti sull’attività del Ministero di cui erano in possesso, falsandone i contenuti, e hanno diffuso la lettera utilizzando tecnologie così sofisticate da rendere non identificabili i mittenti neanche per i tecnici della Polizia delle comunicazioni».

Il “corvo” ha trovato anche spazio sui giornali…

«Quel documento anonimo è stato accolto con favore in importanti redazioni che hanno così dato risalto mediatico a una realtà travisata e falsa. Tanto falsa che oggi vi sono tre direttori di testate nazionali e vari giornalisti rinviati a giudizio per diffamazione, ma questo a differenza delle farneticazioni di un anonimo sembra che non sia una notizia degna di nota».

Potremmo definirla una “congiurina” contro la sua eventuale candidatura forte a Capo della Polizia?

«Certo i malpensanti possono opinare che vi sia dietro un vile, ma astuto manovratore, qualche puffo incapace di altro che possa aver ordito un qualche “disegno” per bruciare il mio nome per la successione di Manganelli, ma io non sono un malpensante e quindi mi ostino a credere che sia stato il “fato”».

Subito dopo le notizie di stampa che facevano riferimento al “corvo”, lei ha deciso di presentare le dimissioni. Qualcuno ha fatto pressioni per ottenere quel suo passo indietro?

«Assolutamente no, tutt’altro. Il ministro Cancellieri le respinse. Ma io non sono un personaggio da operetta, come ce ne sono molti in questo Paese, che presenta le dimissioni per incassarne il rigetto. In quel momento c’era un’ombra su di me ed era giusto fare un passo indietro. Per senso dello Stato».

Che cosa le ha fatto più male in questa vicenda, dal punto di vista umano? Di fronte a quelle ricostruzioni fantasiose, non ha avuto la sensazione di essere prigioniero di un castello kafkiano?

«Ho avuto modo in questo periodo di approfondire Kafka, e posso risponderle prendendo in prestito una frase “del traduttore”, Primo Levi: «Si può essere perseguiti e puniti per una colpa non commessa, ignota, che il “tribunale” non ci rivelerà mai; e tuttavia, di questa colpa si può portar vergogna, fino alla morte e forse anche oltre». Tutto questo lo sto provando sulla mia pelle. E nessuno vi potrà porre mai rimedio».

Lo scandalo del Viminale. Il corvo fa dimettere Izzo, ma la Cancellieri dice no. Il ministro dell'Interno ha respinto le dimissioni del vice di Manganelli dopo l'esposto anonimo su appalti pilotati, scrive “Libero Quotidiano”. Il ministro dell'Interno: "Abbiamo preso molto seriamente la vicenda. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”. Aperta un'inchiesta. Si è dimesso il vice capo della Polizia, prefetto Nicola Izzo, chiamato in causa dal corvo nell’inchiesta sui presunti appalti truccati al Viminale. Izzo ha inviato questa mattina una email al Capo della Polizia, prefetto Antonio Manganelli e al ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri che però ha ha respinto le dimissioni, perché "credo, ha detto il ministro, che una persona non possa essere giudicata sulla base di un esposto anonimo sul quale non abbiamo ancora riscontri". Intanto la Procura di Roma procede nell'inchiesta partita in seguito dell’esposto anonimo inviato nei giorni scorsi al ministro dell’Interno dove si faceva riferimento a presunte violazioni e illeciti nel conferimento di appalti per l’acquisto di apparecchiature tecnologiche. L'inchiesta è stata avviata dal procuratore capo, Giuseppe Pignatone, che ha affidato il fascicolo all’aggiunto Francesco Caporale, che guida da poco il pool dei magistrati per i reati contro la pubblica amministrazione. L’esposto anonimo, composto da una ventina di pagine, indica episodi circostanziati e diversi illeciti che sarebbero stati compiuti dall’ufficio logistico del Viminale, incaricato delle gare d’appalto per l’acquisto degli impianti tecnologici. Da parte sua, nelle scorse ore, Izzo si era difeso da ogni accusa:"Diffamato per fatti che mi sono estranei: da vicecapo vicario non mi occupo della gestione di  appalti". In una nota ha scritto: "Sono citato ignominiosamente in un esposto anonimo, che potrebbe essere redatto a carico di chiunque e con qualsiasi contenuto - scrive Izzo - per acquisti di cui ho conoscenza solo per la funzione strategica dei beni e non delle procedure per la loro materiale acquisizione. Chi ha costruito l’anonimo, si è nascosto abilmente, dimostrando la sua conoscenza delle tecnologie avanzate e del settore degli appalti, usando la mail di persone ignare; e tale modalità forse merita qualche riflessione sui nobili intenti dell’autore". Prosegue Izzo: "Nello scritto, l’anonimo segnala anomalie sulle procedure amministrative adottate, procedure per le quali, in alcuni casi e per quanto mi consta, le stazioni appaltanti, diverse tra loro e non solo interne al dipartimento della Ps, si sono consultate con gli organi istituzionali preposti e in tutti i casi, a conclusione degli appalti, sono state sottoposte al vaglio e registrate, senza alcun rilievo, dalla Corte dei Conti". Izzo conclude che "nonostante la natura anonima dell’esposto non dovrebbe dare luogo a seguiti e in presenza di un quadro di sostanziale regolarità, l’Amministrazione ha trasmesso gli atti alla Procura per gli eventuali approfondimenti. La morte del compianto Saporito per le sue tragiche modalità merita solo dolore e rispetto e non vili e strumentali insinuazioni. Per il Cen sono stato interrogato circa due anni e mezzo fa e attendo fiducioso il giudizio della magistratura". “Il corvo? Ci piacerebbe conoscerlo, vedere se sono uno, due o quanti sono”, sostiene il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri ribadendo che oltre all’inchiesta della magistratura, “di cui attendiamo gli esiti” sono in corso accertamenti all’interno del Viminale: “Abbiamo preso molto seriamente la vicenda -conclude- perchè non sappiamo chi volesse colpire” il corvo, “forse aveva anche un interesse personale. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”.

Lo dice anche il capo della polizia. "I magistrati sono dei cialtroni". Manganelli al telefono col prefetto Izzo: "Vergognoso che le notizie sui processi vengano passate ai giornali per fare clamore", scrive “Libero Quotidiano”. "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Si lamenta, Manganelli, della fuga di notizie a proposito del caso degli appalti per il centro elettronico e per gli altri interventi previsti dal patto per la sicurezza, indagine condotta dalla procura di Napoli e che portò a una serie di provvedimenti tra cui l'arresto del prefetto Nicola Fioriolii e l'interdizione dai pubblici uffici per i prefetti Nicola Izzo e Giovanna Iurato.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

Il pm Antimafia della Procura di Bari Isabella Ginefra ha chiesto 58 condanne, 35 assoluzioni e un non luogo a procedere per prescrizione nei confronti dei 103 imputati (gli altri 9 deceduti) nel processo chiamato «Il canto del cigno» su una presunta associazione mafiosa operante sulla Murgia barese tra Gravina e Altamura negli anni Novanta, finalizzata a traffico e spaccio di droga, detenzione di armi ed esplosivi, estorsioni, 8 tentati omicidi, ferimenti e conflitti a fuoco tra clan rivali, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il procedimento penale fu avviato nel 1997 dall'allora pm antimafia barese Leonardo Rinella quando, nel corso del processo alla mafia murgiana denominato «Gravina» nei confronti di oltre 160 persone, alcuni imputati decisero di collaborare con la giustizia rivelando nuovi particolari sulle attività illecite dei clan Mangione e Matera-Loglisci, all'epoca - secondo la Procura - in stretto contatto con i gruppi criminali baresi di Savino Parisi, Antonio Di Cosola, Giuseppe Mercante, Andrea Montani ed altri. Tra i capi di questa presunta associazione mafiosa c'erano, secondo l'accusa, Vincenzo Anemolo, ritenuto un «figlioccio» del boss Savinuccio, e suo fratello Raffaele, il defunto Francesco Biancoli (il camorrista che avrebbe battezzato Parisi), Bartolo D'Ambrosio (ucciso nel 2010) e il suo ex alleato, poi rivale, Giovanni Loiudice (processato e assolto per l'omicidio del boss), Emilio Mangione e suo nipote Vincenzo, Nunzio Falcicchio, soprannominato «Lo scheletro». L'indagine, ereditata negli anni successivi dai pm Antimafia Michele Emiliano ed Elisabetta Pugliese, portò nel marzo 2002 all'arresto di 131 persone. Per oltre 200 fu poi chiesto il rinvio a giudizio ma soltanto 94 sono ancora imputate per quei fatti. Gli altri sono stati giudicati con riti alternativi o prosciolti. A quasi vent'anni dai fatti contestati sulla base degli accertamenti dei Carabinieri di Bari e Altamura, la Procura chiede ora condanne comprese fra 10 e 4 anni di reclusione per 58 di loro. Tra i reati ritenuti ormai prescritti ci sono due tentati omicidi del 1994 e del 1997 e alcuni episodi di spaccio. Stando all'ipotesi accusatoria quella murgiana era una vera e propria «associazione armata di stampo mafioso-camorristico» promossa e organizzata da «padrini e figliocci». Agli atti del processo, durato oltre sette anni, ci sono prove dei «battesimi», le cerimonie di affiliazione, e l'esatta ricostruzione dei ruoli all'interno del clan sulla base di una precisa ripartizione territoriale per la gestione delle attività illecite. Le discussioni dei difensori sono fissate per le udienze del 16 luglio e del 29 settembre, data in cui è prevista la sentenza.

Niente sentenza per 17 anni. Imputati morti e prescritti. Il pm chiede le condanne per un'inchiesta antimafia del 1997. Ma alla sbarra di 200 ne restano solo 58, scrive Gianpaolo Iacobini su “Il Giornale”. A Bari, il processo alla cosca? Dopo 17 anni arrivano le richieste di condanna in primo grado. L'antimafia dei record è pugliese. Il primato, però, non è di quelli di cui andar fieri: per un procedimento penale nato da indagini avviate nel 1997, e relative a fatti verificatisi agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, soltanto adesso la Procura ha avanzato davanti ai giudici richiesta di pena nei confronti degli imputati. La storia ha un nome simbolico, uno di quelli che tanto solleticano le cronache ed i giornalisti quando scattano i blitz: «Il canto del cigno». È il 2 settembre del 2002: i magistrati della Dda barese Elisabetta Pugliese e Michele Emiliano (proprio lui: l'ex sindaco di Bari) chiudono con un'ordinanza di custodia cautelare a carico di 131 persone il troncone investigativo fiorito 5 anni prima per gemmazione da un altro maxi-processo. Nel mirino della Direzione distrettuale finiscono gli appartenenti ad una presunta organizzazione criminale attiva sull'altopiano delle Murge, nei Comuni di Altamura e Gravina in Puglia, ed i loro collegamenti con i clan del capoluogo di regione. All'attivo estorsioni, detenzione d'armi, traffico di droga e ferimenti. Finalizzati, secondo gli inquirenti, all'affermazione di un'associazione armata di stampo mafioso-camorristico. «Quest'operazione dimostra come la criminalità barese, dalla fine degli anni '80 ad oggi, abbia creato dei cloni in tutta la provincia», commenta in quei giorni coi cronisti Emiliano, esprimendo soddisfazione per il lavoro portato a termine. Ma i processi sono un'altra cosa. Ed in Tribunale il cigno canterà solo a settembre 2014. Quando il collegio giudicante si determinerà in primo grado sulle richieste di pena avanzate l'altro ieri - a quasi vent'anni dall'apertura dell'inchiesta - dal pm antimafia Isabella Ginefra. Che la sua requisitoria l'ha conclusa sollecitando condanne oscillanti tra i 10 e i 4 anni di reclusione nei riguardi di 58 degli oltre 200 imputati: gli altri sono stati prosciolti o processati con riti alternativi. O sono morti. Alcuni per vecchiaia. Qualcuno per piombo, come Bartolo D'Ambrosio, crivellato a colpi di fucile e pistola nel 2010. Ed il passar del tempo, oltre agli uomini, ha spazzato via con la ramazza della prescrizione anche molti dei reati contestati, come un paio di tentati omicidi risalenti al 1994. Farà notizia? No, a giudicare dagli echi di cronaca che arrivano da Palermo, dove il presidente del tribunale del riesame, Giacomo Montalbano, con un'ordinanza ha disposto il rinvio d'ufficio a settembre di tutti i procedimenti che non riguardino detenuti in carcere o ai domiciliari: pochi i magistrati in organico, troppi i ricorsi che si prevede arriveranno dopo l'arresto, il 22 giugno, di 91 persone considerate affiliate ai mandamenti mafiosi di Resuttana e San Lorenzo. La chiamano giustizia. Pare una barzelletta.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

Dopo aver affermato qualche mese fa che se nel nostro Paese si fanno troppe cause la colpa è del numero eccessivo di avvocati, ora l’illustre magistrato Giorgio Santacroce, presidente della Corte di Cassazione, interviene per chiarire (agli avvocati, ovviamente) come vanno redatti i ricorsi da presentare alla Suprema Corte onde non incorrere in possibili declaratorie di inammissibilità. Lo ha fatto con una lettera inviata al Presidente del CNF Guido Alpa dopo il Convegno “Una rinnovata collaborazione tra magistratura e avvocatura nel quadro europeo” organizzato dal Consiglio Consultivo dei Giudici Europei del Consiglio d’Europa, dal CSM e dal CNF. Prendendo spunto dal dibattito scaturito in quella circostanza, il Dott. Santacroce ha preso carta e penna ed ha scritto una lettera al Consiglio Nazionale Forense per confermare alcune direttive, ora finalmente rese “ufficiali” dall’organo deputato a riceverle. Richiamando quanto già espresso in precedenza sia dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (la quale ha previsto tra le indicazioni pratiche relative alla forma e al contenuto del ricorso di cui all'art. 47 del Regolamento che «nel caso eccezionale in cui il ricorso ecceda le 10 pagine il ricorrente dovrà presentare un breve riassunto dello stesso») e dal Consiglio di Stato (che ha suggerito di contenere nel limite di 20-25 pagine la lunghezza di memorie e ricorsi, e, nei casi eccedenti, di far precedere l’esposizione da una distinta sintesi del contenuto dell’atto estesa non più di 50 righe), il primo Presidente della Corte ha affermato che anche gli atti dei giudizi di cassazione dovranno trovare applicazione criteri similari. “Ben potrebbe ritenersi congruoscrive il Presidente Santacroce nella lettera indirizzata al CNF - un tetto di 20 pagine, da raccomandare per la redazione di ricorsi, controricorsi e memorie. Nel caso ciò non fosse possibile, per l'eccezionale complessità della fattispecie, la raccomandazione potrà ritenersi ugualmente rispettata se l'atto fosse corredato da un riassunto in non più di 2-3 pagine del relativo contenuto. Sembra, altresì, raccomandabile che ad ogni atto, quale ne sia l'estensione, sia premesso un breve sommario che guidi la lettura dell'atto stesso. Allo stesso modo è raccomandabile che le memorie non riproducano il contenuto dei precedenti scritti difensivi, ma, limitandosi ad un breve richiamo degli stessi se necessario, sviluppino eventuali aspetti che si ritengano non posti adeguatamente in luce precedentemente, così anche da focalizzare su tali punti la presumibile discussione orale”. Attenendosi a tali criteri di massima si potrebbe superare, secondo il primo Presidente - in molti casi quello scoglio che è l’inammissibilità del ricorso “non già per la mancanza di concretezza dei motivi del ricorso, ma per la modalità con cui questo viene presentato, che non rispondono ai canoni accettati dalla Cassazione”, tra i quali appunto la sinteticità degli atti presentati a sostegno della presa in esame del dibattimento arrivato a sentenza in Appello”. Lo spirito dell’iniziativa del Dott. Santacroce è certamente propositivo e positivo, così come lo è il clima di collaborazione che il Magistrato ha auspicato in tal senso. Di certo però andrà conciliato con un altro principio - quello dell’autosufficienza dell’atto - che non poco ha turbato il sonno degli avvocati in questi ultimi mesi, ossia l’esigenza posta a carico del ricorrente di inserire nel ricorso o nella memoria la specifica indicazione dei fatti e dei mezzi di prova asseritamente trascurati dal giudice di merito, nonché la descrizione del contenuto essenziale dei documenti probatori con eventuale trascrizione dei passi salienti. Un requisito (l’autosufficienza) che i giudici della Corte non hanno ritenuto affatto assolto mediante la allegazione di semplici fotocopie, e questo perché, si è detto, non è compito della Corte individuare tra gli atti e documenti quelli più significativi e in essi le parti più rilevanti, “comportando una siffatta operazione un'individuazione e valutazione dei fatti estranea alla funzione del giudizio di legittimità”. Da qui la redazione di atti complessi ed articolati, e dunque anche lunghi, nel timore di non vedere considerato dal parte del Giudice un qualche aspetto o un qualche documento essenziale ai fini del decidere. Ora, insomma, gli avvocati avranno un compito in più: conciliare il criterio della brevità dell’atto con quello dell’autosufficienza. Mica roba da poco….

La conseguenza è.........La Cassazione boccia un ricorso perché "troppo prolisso".Sotto accusa l'atto degli avvocati dell'Automobile club d'Ivrea contro una sentenza della Corte d'Appello di Torino:"Tante pagine inutili". Ma diventa un modello: massimo venti pagine, scrive Ottavia Giustetti su “la Repubblica”. La dura vita del giudice di Cassazione: presentate pure il ricorso, avvocati, ma fate in modo che sia sintetico. Altrimenti state pur certo che sarà respinto. Poche pagine per spiegare i fatti, niente che comporti uno sforzo inutile per chi legge. Insomma «non costringeteci» a esaminare pagine e pagine se volete avere qualche speranza di vincere. Nero su bianco, tra le righe del testo di una recente sentenza della terza sezione sul ricorso contro una decisione della Corte d’appello di Torino, i giudici supremi hanno vergato il vademecum della sintesi estrema. Altrimenti: bocciatura assicurata. Qualche tempo fa lo avevano fatto a proposito dei ricorsi di legittimità legati al fisco. «La pedissequa riproduzione dell’intero, letterale, contenuto degli atti processuali - scrivono i magistrati al primo capoverso che illustra le motivazioni del rigetto del ricorso - è del tutto superfluo ed equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre che sia informata) la scelta di quanto rileva. La conseguenza è l’inammissibilità del ricorso per Cassazione». E, a quanto pare, è solo un esempio dei pronunciamenti di questo tenore che in questi mesi agitano le acque nell’ambiente degli avvocati. I forum sul diritto sono zeppi di commenti taglienti sulla «preziosa risorsa» del giudice che va «salvaguardata a tutti i costi». Tempi sterminati della giustizia, necessità di smaltire migliaia di procedimenti arretrati, prescrizione sempre in agguato: è nell’ambito della lotta a questi ormai cronici problemi del Paese il vademecum del giudice all’avvocato per evitare sbrodolamenti inutili. E non si può dire che sia nuova la tendenza a inibire il difensore che non si trasformi ogni volta in un Marcel Proust del diritto quando chiede giustizia. Ma respingere un ricorso perché un legale non è stato capace di sintesi da bignami appare come una novità giuridica importante, dicono gli avvocati. Nel caso della terza sezione civile sulla sentenza della Corte d’appello di Torino l’oggetto del contendere erano le spese di gestione dell’Automobile club di Ivrea. Una vicenda relativamente di poco conto. Ma analoghe prescrizioni si fanno strada e rischiano di diventare obbligo previsto per legge se sarà approvato uno specifico emendamento del decreto di riforma della giustizia in discussione in questi mesi in Parlamento. Il punto che è già stato approvato dalla commissione affari costituzionali della Camera finisce col prevedere la necessità per gli avvocati amministrativisti di scrivere i ricorsi e gli altri atti difensivi entro le esatte dimensioni che sono in via di definizione e sono stabilite con un decreto del Presidente del Consiglio di Stato. Saranno venti pagine al massimo i ricorsi d’ora in poi, mentre quel che sconfina è destinato per sempre all’oblio. Brevità della trattazione, che va in direzione opposta all’abitudine di molti legali che, con il timore di rientrare nei canoni dell’inammissibilità, finiscono per presentare ricorsi-fiume.

Ed ancora: “Inammissibile, prolisso e ripetitivo”. Così i giudici del Consiglio di Stato di Lecce hanno giudicato il ricorso d’appello presentato dai tredici proprietari dei terreni interessati dai lavori di allargamento della tanto contestata s.s. 275. Oltre a riconfermare quanto rilevato dal Tribunale amministrativo leccese, il Consiglio di Stato ha deciso di condannare gli appellanti al rimborso delle spese di lite, con la sanzione prevista per la violazione del principio di sinteticità degli atti processuali, introdotta dall’art. 3 del nuovo Codice del processo amministrativo. “Si deve tener conto – si legge in sentenza – dell’estrema prolissità e ripetitività dell’appello in esame (di 109 pagine)”. Il rispetto del dovere di sinteticità, ha sottolineato il Giudice, “costituisce uno dei modi – e forse tra i più importanti – per arrivare ad una giustizia rapida ed efficace”. Gli appellanti dovranno rimborsare, dunque, le spese alla Provincia di Lecce, alla Regione Puglia, al Consorzio Asi, alla Prosal, al CIPE, all’Anas, al Ministero delle Infrastrutture, al Ministero dell’Ambiente e al Ministero dei Rapporti con la Regione.

Eh, sì! Proprio così : lo affermano la Suprema Corte con sentenza n. 11199 del 04.07.2012 e, di recente, il Tribunale di Milano con sentenza del 01.10. 2013, scrive l’Avv. Luisa Camboni. "Viola il giusto processo l'avvocato che trascrive nel proprio atto processuale le precedenti difese, le sentenze dei precedenti gradi, le prove testimoniali, la consulenza tecnica e tutti gli allegati; il giusto processo richiede trattazioni sintetiche e sobrie, anche se le questioni sono particolarmente tecniche o economicamente rilevanti". I Giudici di Piazza Cavour dicono "NO" agli avvocati prolissi. Perché? Perché, a dire dei Giudici con la toga di ermellino, si violerebbe uno dei principi cardine, uno dei pilastri fondamentali su cui poggia il nostro sistema giuridico: il principio del giusto processo, ex art. 111 Cost. "La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. [...]". Uno dei tanti significati insiti nel menzionato principio, difatti, è quello di garantire la celerità del processo, celerità che si realizza anche attraverso atti brevi, ma chiari e precisi nel loro contenuto ( c.d. principio di sinteticità). Il caso, su cui i Giudici si sono pronunciati, riguardava un ricorso di oltre 64 pagine e una memoria illustrativa di ben 36 pagine, il cui contenuto reiterava quello del ricorso. Il principio cui hanno fatto riferimento per dare un freno, uno STOP a Noi Avvocati, molto spesso prolissi, è il principio del giusto processo. Difatti, hanno precisato che un atto processuale eccessivamente lungo, pur non violando alcuna norma, non giova alla chiarezza e specificità dello stesso e, nel contempo, ostacola l'obiettivo di un processo celere. Il cosiddetto giusto processo, tanto osannato dalla nostra Carta Costituzionale, infatti, richiede da Noi Avvocati atti sintetici redatti in modo chiaro e sobrio: "nessuna questione, pur giuridicamente complessa", a dire della Suprema Corte, "richiede atti processuali prolissi". L'atto processuale, dunque, deve essere completo e riportare in modo chiaro la descrizione delle circostanze e degli elementi di fatto, oggetto della controversia. Ancora una volta la Suprema Corte ha richiamato l'attenzione di Noi Avvocati specificando quali sono i principi che ogni operatore di diritto, nella specie l'Avvocato, deve tener presente nel redigere gli atti: specificità, completezza, chiarezza e precisione. Nel caso, dunque, di violazione del principio di sinteticità, ovvero di redazione di atti sovrabbondanti, il giudice può tenerne conto, in sede di liquidazione delle spese processuali, condannando la parte colpevole ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c.. Per Noi Avvocati, sulla base di quanto affermato dai Giudici di Piazza Cavour, non ha valore alcuno il motto latino "Ripetita iuvant", in quanto le cose ripetute non giovano alla nostra attività professionale che si estrinseca, nei giudizi civili, in attività di difesa negli atti, i quali devono essere chiari, sintetici e precisi. Un'attività di difesa non dipende dalla lungaggine dell'atto, ma dall'ingegno professionale, ingegno che consiste nell'individuare la giusta strategia difensiva per ottenere i migliori risultati sia per il cliente, sia per lo stesso professionista.

"Avvocati siete troppo prolissi, se volete ottenere giustizia per i vostri assistiti dovete imparare il dono della sintesi": la Cassazione ormai lo scrive nel testo delle sentenze. Ecco il parere di un principe del foro torinese, l'avvocato Andrea Galasso, protagonista nelle battaglie tra Margherita Agnelli e la sua famiglia e nel processo a Calciopoli.

Avvocato, i suoi colleghi sono contrari e allarmati, lei cosa ne pensa?

«Da un certo punto di vista i giudici mi trovano d'accordo perché so che spesso quando ci si dilunga e si sbrodola volentieri sui fatti è perché si teme di non poter argomentare bene in punto di diritto. Quindi la Cassazione ha ragione a ritenere che sia necessaria una buona dote di sintesi anche per non appesantire una attività che è diventata sempre più pressante».

Quindi, secondo lei, un bravo avvocato è capace di rimanere nei limiti che la Cassazione considera legittimi per presentare un ricorso?

«In linea di massima ritengo di sì. Poi, ovviamente, ci sono casi diversi. La sintesi deve essere una indicazione generale. poi ogni processo ha la sua storia».

Però sentenze recenti scrivono proprio nero su bianco che il ricorso può essere respinto perché è troppo prolisso e costringe la Corte a leggere elementi inutili. Lei crede che sia corretto?

«No, questo no. Siamo in un caso di cattiveria intellettuale. Di malcostume alla rovescia».

Tra l'altro queste indicazioni di brevità estrema condizioneranno sempre di più il lavoro degli avvocati. È in via di approvazione un emendamento che stabilisce un tetto di venti pagine per i ricorsi al Tar.

«Questo è un problema serio che riguarda il rapporto degli avvocati con i consigli dell'Ordine che evidentemente non sono in grado di far sentire la propria voce quanto dovrebbero».

Lei crede che la categoria dovrebbe essere più ascoltata, insomma?

«Beh sì. Quando si trasformano in legge regole che condizionano così profondamente il nostro lavoro sarebbe opportuno avere un Ordine degli avvocati capace di proporsi come interlocutore valido. E invece, evidentemente non è così».

Ma all'inaudito non c'è mai fine....

Il giudice: "Troppi testimoni inutili? Pena più alta". E gli avvocati milanesi scioperano. Gli avvocati si asterranno dalle udienze il 17 luglio 2014 perché ritengono che siano stati stravolti "alcuni principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova", scrive “La Repubblica”. Non sono andate giù agli avvocati penalisti milanesi le parole pronunciate in aula da un giudice che, in sostanza, di fronte ai legali di un imputato ha detto che se si insiste per ascoltare testimoni inutili, i magistrati poi ne tengono conto quando si tratta di calcolare la pena. E così la Camera penale di Milano, prendendo una decisione clamorosa e dura, anche sulla base di quel grave "caso processuale" che lede il diritto di difesa, hanno deciso di proclamare una giornata di astensione nel capoluogo lombardo per il prossimo 17 luglio. Come si legge in una delibera del consiglio direttivo della Camera penale,"lo scorso 20 giugno, nell'ambito di un'udienza dibattimentale celebratasi avanti a una sezione del tribunale di Milano, il presidente del collegio ha affermato" a proposito dell'esame di testimoni: "Non mi stancherò mai di ripetere che secondo me quando in un processo si insiste a sentire testi che si rivelano inutili, ovviamente si può essere assolti, ma se si è condannati il tribunale ne tiene sicuramente conto ai fini del comportamento processuale" (che influisce sulla pena). E ha aggiunto: "E mi dispiace che sugli imputati a volte ricadano le scelte dei difensori". Il giudice che ha usato quelle parole in udienza sarebbe Filippo Grisolia, presidente dell'undicesima sezione penale. Il giudice, secondo la Camera penale, ha così violato "l'autonoma determinazione del difensore nelle scelte processuali, il quale deve essere libero di valutare l'opportunità o meno di svolgere il proprio controesame". In più il magistrato ha violato le norme che "riconducono la commisurazione della pena esclusivamente a fattori ricollegati alla persona dell'imputato", oltre a manifestare "non curanza per alcuni dei principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova". I penalisti milanesi, dunque, preso atto che "le segnalazioni agli uffici giudiziari" fatte in passato "non hanno ottenuto" lo scopo di "neutralizzare" i comportamenti lesivi del diritto di difesa, e ritenuta "la gravità del fenomeno che il caso processuale riportato denuncia", hanno deciso di astenersi dalle udienze e da "ogni attività in ambito penale" per il 17 luglio prossimo. Con tanto di "assemblea generale" convocata per quel giorno per discutere "i temi" della protesta. "Questo fenomeno della violazione del diritto di difesa - ha spiegato il presidente della Camera penale milanese, Salvatore Scuto - è diffuso ed è emerso con virulenza in questo caso specifico, ma non va ridotto al singolo giudice che ha detto quello che ha detto. Questa è una protesta - ha aggiunto - che non va personalizzata, ma che pone l'indice su un problema diffuso e che riguarda le garanzie dell'imputato e il ruolo della difesa". La delibera è stata trasmessa anche al presidente della Repubblica, al presidente del consiglio dei ministri, al ministero della Giustizia e al Csm, il Consiglio superiore della magistratura.

IL SUD TARTASSATO.  

Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.

C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.

Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.

Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro.

Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in  giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;

2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.

L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo. 

Oliviero Toscani, intervenendo alla trasmissione radiofonica "La Zanzara" su Radio 24, ha definito i veneti «un popolo di ubriaconi e alcolizzati. Poveretti, non è colpa loro se nascono in Veneto». «I veneti sono un popolo di ubriaconi - ha proseguito Toscani - Alcolizzati atavici, i nonni, i padri, le madri». «Poveretti i veneti - ha ribadito - non è colpa loro se uno nasce in quel posto, è un destino. Basta sentire l’accento veneto: è da ubriachi, da alcolizzati, da ombretta, da vino».

Oliviero Toscani e le offese ai veneti. Un pasticcio geografico da risolvere con le scuse. A «La zanzara» su Radio24 ha detto: «I veneti sono un popolo di ubriaconi. Alcolizzati atavici, i nonni, i padri, le madri». Il presidente del Veneto: «Chieda scusa», scrive Beppe Severgnini su “Il Corriere della Sera”. Si chiama Toscani, è lombardo e ha fatto incavolare i veneti: bel pasticcio geografico. A «La zanzara» su Radio24 - il programma dovrebbe chiamarsi «Il ragno», visto quanti ne cattura nella sua rete - ha detto: «I veneti sono un popolo di ubriaconi. Alcolizzati atavici, i nonni, i padri, le madri (...) Poveretti i veneti, non è colpa loro se uno nasce in quel posto, è un destino (...) Basta sentire l’accento: è da ubriachi, da alcolizzati, da ombretta, da vino». Perché lo ha fatto? Pensava di essere spiritoso. «Era una battuta divertente. Se gli unici a non divertirsi sono alcuni veneti, mi dispiace». Divertente? Mettiamola così: il fotografo Oliviero Toscani è più bravo con gli occhi che con la lingua. E l’umorismo sballato è un’aggravante, non un’attenuante. Infatti, in Veneto, sono partite proteste, querele, class action, dichiarazioni politiche (quelle non mancano mai). Significa che è vietato scherzare su nazioni, regioni, città? Certo che no. Vuol dire, come sostiene la correttezza politica, che «i caratteri dei popoli sono un’invenzione, ed esistono solo le persone»? Macché. Gli ambienti - la storia, la geografia, l’economia, la cultura - condizionano i comportamenti. Esiste un comun denominatore tedesco, come esiste un comun denominatore americano, russo, italiano. Chi lo nega è in malafede. E tra noi italiani esistono i lombardi, i toscani, i siciliani. I primi tendono all’entusiasmo, i secondi alla tattica, i terzi all’attesa. Come Berlusconi, Renzi, Mattarella. Come riassunto dell’elezione del presidente della Repubblica, vi piace? O è banale? Be’, comunque nessuno s’è offeso: non a Milano, non a Firenze, non a Palermo. Per un motivo semplice: lombardi, toscani e siciliani mi piacciono. Mi piace il fatto che esistano italiani diversi. E s’è capito anche in poche righe. Cosa sto cercando di dire? Una cosa semplice. Mai parlare, mai scrivere, mai giudicare pubblicamente un popolo, se non gli vuoi bene. Mai scegliere l’umorismo se non sei certo di saperlo maneggiare. L’ironia è la sorella laica della misericordia; il sarcasmo, il fratello odioso dell’intelligenza. Una sintesi affettuosa è consentita, gradita e utile. Una generalizzazione acida è inopportuna, sgradita e insidiosa. Oliviero Toscani, che non è né cattivo né sciocco, dovrebbe averlo capito. Chieda scusa e finiamola qui. Ostrega!

«Veneti ubriaconi», denunciato Toscani e sul web impazza la satira, scrive”Il Gazzettino”. Alcuni tribunali hanno ricevuto oggi esposti e ricorsi contro il fotografo Oliviero Toscani per le offese ai veneti definiti "Un popolo di ubriaconi, dei poveretti" , ma anche politici di vario colore si stanno attivando con iniziative: «Non può rimanere impunito, la giunta Zaia deve chiedere il rispetto della legge Mancino che punisce, anche col carcere, chi con azioni o dichiarazioni fa discriminazioni per motivi razziali, etnici o religiosi» attacca il consigliere regionale Giovanni Furlanetto del Gruppo Misto, che ha presentato un'interrogazione urgente «È necessario che la giunta difenda il proprio popolo, l'immagine che Toscani ha voluto dare è distorta e mirata a screditare un Popolo. Forse aveva bevuto prima di esternare tali pensieri verso una delle regioni più laboriose ed ingegnose d'Europa». Tornando agli aspetti legali a Padova mezza dozzina di cittadini si sono sentiti particolarmente offesi dalle dichiarazioni dell'ex pubblicitario del gruppo Benetton e ha chiesto un risarcimento danni. L'avvocato Giorgio Destro assiste Renza Pregnolato, interprete, una 59enne, nativa di Vescovana ma residente a Padova e spiega: «Abbiamo già presentato una citazione a giudizio per Toscani a comparire di fronte al Giudice di Pace, chiedendo 5 mila euro di risarcimento per danni morali per ingiuria e diffamazione - dice l'avvocato Destro - Se alla causa, che potrebbe essere discussa il 16 aprile prossimo, si aggiungeranno altre persone si può valutate una class action». Naturalmente ironie, satira e commenti stanno inondando il web.

Oliviero Toscani insiste: "Nessuna scusa ai veneti ''ubriaconi'', loro chiamano terroni i meridionali". Non molla e non chiede scusa Oliviero Toscani che ai microfoni della Zanzara su Radio 24 rincara la dose dopo aver dato degli "ubriaconi" ai veneti..., scrive “Radio 24”. Toscani: "Non chiedo scusa ai Veneti, le ricerche mi danno ragione". Non molla e non chiede scusa Oliviero Toscani che ai microfoni della Zanzara su Radio 24 rincara la dose dopo aver dato degli "ubriaconi" ai veneti: "Non devo chiedere scusa, non ho detto niente di male. Ci sono anche ricerche e statistiche. Il Veneto era una regione poverissima e l'unica ricchezza era la medicina, il vino e la grappa che si dava anche ai bambini per curarli. Un alcolismo atavico". "Chiedo scusa per loro dice Toscani ironicamente per quelli che non hanno capito la satira". Il governatore Zaia pretende le scuse, insistono i conduttori Giuseppe Cruciani e David Parenzo: "Zaia non ha niente da fare (no ga gnente da far, benedetto, dice Toscani in dialetto, ndr) se si cura di una stupidata così. Ci rida sopra. E poi alzi la mano un veneto che non ha mai dato del terrone a un italiano del sud. Ditemi un veneto che non ha mai insultato un nero o un immigrato. Vi ricordate di Gentilini?". "Non penso di aver offeso nessuno spiega ancora il fotografo a Toscani: "Alzi la mano un veneto che non ha mai insultato il Sud o gli immigrati. Ho detto una cosa banale e scontata, un po' di senso di humor, dai. Una volta era un popolo che rideva, adesso hanno la coda di paglia. Forse si sono offesi perché quello che ho detto è un po' vero. Ho letto anche che dovrei sciacquarmi la bocca, sì ma col prosecco". Ma lei ha lavorato tanto tempo con aziende venete, sputa nel piatto dove ha mangiato?: "Che storia questa. Ho lavorato e se non fossi stato bravo non mi avrebbero pagato. Li ho fatto diventare famosi, anche per prodotti in cui i veneti non sono forti. Ho lavorato seriamente, cosa devo ringraziare?".

La mia amica terrona e la paura della Polentonia. Ho un’amica di origini terrone che vive a Milano, scrive “Marteago”. Per motivi di lavoro si dovrebbe spostare in Veneto. La sapete la sua preoccupazione? Ha paura del razzismo dei veneti nei confronti dei terroni. La cosa mi ha fatto pensare. Ma noi polentoni siamo davvero così cattivi? Peggio dei milanesi? La risposta é sì e anche no. Cioé dipende. C’é sicuramente del risentimento del veneto lavoratore che paga le tasse e se le vede sperperare da Roma che li passa a dei brutti soggetti al Sud. C’é anche una forte differenza culturale. Diciamoci la verità. Siamo popoli diversi. L’Italia é un’arlecchino messo assieme a forza. Un napoletano con un veneto centra tanto quanto un veneto con un austriaco. E’ ovvio: l’Austria é più vicina. Mi permetto di fare questa analisi in virtù della mia visione mondiale dei popoli. Cioé viaggio molto, vedo molti popoli, passo le frontiere e mi rendo conto di come spesso queste frontiere non corrispondano con le vere frontiere dei popoli. In Italia, se volessimo avere delle frontiere reali, ce ne sarebbe una dalle parti di Roma. Staremmo meglio noi, e starebbero meglio anche loro, che sono in gran parte vittime della Cassa del Mezzogiorno. Insomma, motivi per non amarci ce ne sono molti. Però…dobbiamo fare uno sforzo e capire un concetto fondamentale: il singolo non può essere ritenuto responsabile delle colpe collettive. Non possiamo incolpare il mio amico Jack di Shanghai del fatto che in Cina c’é la pena di morte. Non possiamo incolpare una ragazza rumena del fatto che ci sono i Rom che rubano. Non possiamo incolpare il Fullio del fatto che la gran parte dei politici sono dei brutti soggetti. Frasi inutili: é sempre più semplice generalizzare. Almeno all’inizio. Qui sta in effetti la soluzione. Ho detto alla mia amica che se viene in Veneto la gente che conoscerà  la tratterà  bene, perché é una brava ragazza. Ci saranno sicuramente delle situazioni poco simpatiche: la cassiera al supermercato che appena sente il suo accento scende di tre gradi centigradi e le crescono le unghie, il benzinaio ignorante e leghista che sfoga la sua frustrazione facendo cadere una goccia della benzina sulle sue scarpe da terrona pagate con le sue tasse e così via. Ma ci sarà  anche gente che le vorrà  bene, nuove amicizie e situazioni simpatiche. Non sarà  sempre facile. Mi sono permesso di usare il termine “terrona” proprio per svuotarlo dell’accezione negativa. Noi siamo polentoni e loro terroni. Domani vado a Riga con quattro catanesi, quindi non posso essere accusato di niente. Voi cosa ne pensate? Avete esperienze al riguardo? E se chi legge é del Sud..come siamo noi veneti? Che difficoltà  ci sono per chi viene da fuori? Perché siamo brava gente in fondo, o no?

Toscani, lettera di scuse a Zaia, «Ma dentro di me confermo tutto». Il fotografo risponde al governatore: sono lombardo e atavicamente leghista, come voi ho nell’anima il sentore di latte vaccino e quella voglia naturale di non pagare le tasse, scrive “Il Corriere del Veneto”.

«Caro Signor Presidente, Le scrivo con l’ansia e la fretta del Suo ultimatum di 48 ore che pende sulla mia testa. Deve riconoscere, Presidente, che persino le ingiunzioni dell’Isis lasciano 72 ore alla risposta. Premesso ciò, le dico che ho una cosa in comune con la lega: l’amore per le cose colorite. Sono leghista atavicamente, essendo lombardo. Ho anch’io, dentro di me, le due anime tipiche dei padani, che sotto l’illuminismo di Cesare Beccaria e Pietro Verri nascondono questo sentore del latte vaccino (che è l’alito della lega) e di quel localismo rurale che è fatto di terra, di cielo, di laghi, di nuvole, di paesaggio, di cibo, di vino; ma anche di naturale voglia di non pagare le tasse, di tenere tutto per sé, di non essere solidali, di essere intolleranti, di mettere i cani da guardia ai cancelli di ferro battuto della propria villetta a schiera, per azzannare chiunque sia diverso: “Va ben el mat in piaza, ma che non sia dea mia raza”. Purtroppo, da tanti anni, io non sono più completamente della Vostra “Razza”, deve capire che io ormai sono toscano di fatto, oltre che di nome, e sono sicuro che se avessi fatto questa battuta ai miei conterranei, saccenti e saputelli come siamo, mi avrebbero subito citato Baudelaire e il suo “Per non essere gli schiavi martirizzati del Tempo, ubriacatevi, ubriacatevi sempre!”. Perché proprio così, siamo noi Toscani, sempre ubriachi di virtù, di poesia, di bellezza. E di vino. Però, il Vostro linguaggio, mi piace ancora, perché è eccessivo, iperbolico, espressionista, colorato; un linguaggio che morde e non accarezza, in una parola sola: un linguaggio, secondo me, atavicamente ubriaco. Quindi chiedo ancora scusa a Lei, che è il Presidente di tutti i Veneti astemi, degli alcolisti sobri e dei bevitori moderati per il linguaggio un po’ leghista che ho usato per fotografare i miei simpatici amici del Veneto. Nella sostanza, però, dentro di me, confermo tutto. Perché c’è un rapporto forte tra territorio, aria, fuoco, odori, saperi e sapori, sapori veneti come la polenta, il fegato alla veneziana, il baccalà alla vicentina, risi e bisi, il risotto alla trevigiana, e le bolle acide del Prosecco, l’alcolicità dell’Amarone, la tossicità del Clinto, la bella inconsistenza del Valpolicella, il tannino del Recioto di Soave, l’amarezza del Bardolino, l’asciuttezza del Pinot, il verdognolo del Verduzzo. Caro Presidente, ogni volta che La vedo, scorgo nella Sua faccia la gentilezza sotto l’asprezza, e l’asprezza sotto la gentilezza. Quindi, mi scusi e scusatemi. Sono sicuro che, questa volta, la Sua gentilezza e quella di tutti i Veneti prevarrà, sicuramente mi perdonerete, invece di perdere tempo, denaro, energia e simpatia nelle infinite vie legali. La ringrazio e ringrazio tutti i Veneti, sperando di incontrarvi presto per una fantastica bevuta alla salute dell’Italia Unita.

"L’Unità d’Italia? Da 150 anni gronda sangue dei terroni". Da direttore di Gente a paladino del Mezzogiorno col libro sui misfatti dei Savoia, Pino Aprile racconta come i 150 anni dell’Unità d’Italia grondino sangue dei terroni. A lui Al Bano al Festival di Sanremo dedica un inno, ma c’è chi lo minaccia di morte, scrive Stefano Lorenzetto su “Il Giornale”. La rappresentazione plastica di come sia impossibile mettere d’accordo polentoni e terroni l’ho avuta davanti alla vetrina di una libreria di Verona. Siccome per la copertina del suo Terroni, edito da Piemme, Pino Aprile ha scelto una silhouette capovolta dello Stivale, con la Sicilia a nord e la Campania a sud, una zelante commessa ha pensato bene di correggergliela esponendo il volume col titolo a rovescio. In un solo colpo la libraia ha così ristabilito il primato del planisfero, confermato il sottotitolo dell’opera ( Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero «meridionali» ) e ribadito senza volerlo la battuta di Marco Paolini riportata nelle pagine interne: «Quando non si vuole capire la storia, la si trasforma in geografia». Uscito dalla tipografia Mondadori printing di Cles, Trento, Val di Non (a dimostrazione che l’Italia unita almeno per gli editori è cosa fatta), Terroni è diventato nel giro di dieci mesi bestseller, oggetto di scontro, manifesto dell’orgoglio sudista, testo sacro per i revisionisti del Mezzogiorno, strumento di lotta politica e ora persino brano del Festival di Sanremo: Al Bano, 67 anni, pugliese di Cellino San Marco, inserirà nel suo Cd l’inno Gloria, gloria scritto da Mimmo Cavallo e ispirato al saggio di Aprile, 60 anni, pugliese di Gioia del Colle. Non basta. Terroni è l’edizione multimediale per iPad, con foto, interviste e spezzoni dal film E li chiamarono briganti di Pasquale Squitieri, in uscita a febbraio. Terroni è lo spettacolo teatrale che andrà in scena il 21 marzo al Quirino di Roma, «per rispondere a Umberto Bossi e alla sua arroganza, per dire basta a questo massacro che dura da 150 anni », proclama dalle pagine di Facebook l’attore-regista Roberto D’Alessandro, cresciuto alla scuola di Gigi Proietti. Terroni, insomma, è tifo da stadio: non a caso l’autore, pur avendo ormai perso il conto delle ristampe («almeno una ventina»), rivela d’averne venduto 150.000 copie, mentre su Wikipedia un biografo infervorato gliene attribuisce addirittura mezzo milione, il che, anche a voler considerare le brossure veicolate da Mondolibri e gli e­book scaricati da Internet, appare piuttosto esagerato. Pino Aprile è stato vicedirettore di Oggi e poi direttore di Gente. Prima d’avere come target fisso Carolina di Monaco («ho scoperto che era calva: scoop mondiale »), s’era sempre occupato di terrorismo e politica. Da pensionato pensava di dedicarsi alla passione della sua vita: il mare. Ha diretto il mensile Fare vela e ha scritto tre libri dai titoli sanamente monomaniacali: Il mare minore, A mari estremi e Mare, uomini, passioni. Poi gli è scappato Terroni ed è finito nell’oceano in tempesta: «Ho accettato finora quasi 200 presentazioni. Nel frattempo sono giunti all’editore altri 500 inviti. In teoria avrei l’agenda piena di appuntamenti sino alla primavera del 2012, se non ricevessi altre ri­chieste. Invece continuano ad arrivarne. Mi chiamano anche all’estero. La prima trasferta è stata in Svezia, quindi Londra, Zurigo, Manchester, New York... Sono distrutto».

Ma la invitano solo i circoli dei calabresi o anche quelli degli emigrati veneti?

«Università, centri di cultura, associazioni italiane, come la Dante Alighieri».

È il libro di saggistica che resiste da più mesi in classifica o sbaglio?

«Vero. Spero che mi venga perdonato».

Com’è nata l’idea di Terroni?

«Avevo delle domande, cercavo delle rispo­ste. Se davvero a fine Ottocento i meridiona­li erano poveri, arretrati e oppressi, perché mai reagirono contro i “liberatori” venuti dal Nord con una guerra civile durata a lungo e successivamente con la fuga, emigrando? Solo dopo molti anni ho pensato di farne un libro».

Ha ricevuto offese o minacce?

«Offese tante. Qualcuno mi chiede se non ho paura. E di che? Su Facebook un tale mi ha scritto: “Farai la fine di D’Antona”. Ho cercato di rintracciarlo, ma risultava inesistente. Del resto quella è una lavagna collettiva su cui compare di tutto: un estimatore mi ha dedicato lo slogan pubblicitario “Terroni, non ci sono paragoni”. È seccante la supponenza di chi crede di sapere già tutto e non è nemmeno sfiorato dal dubbio».

Alla presentazione di Torino s’è quasi sfiorata la rissa.

«Eravamo nella Sala dei Cinquecento, gli altri sono rimasti in piedi... Una persona ha inveito contro Roberto Calderoli, che non era presente, per gli insulti rivolti dal ministro leghista ai napoletani. Gli interventi di Marcello Sorgi, Massimo Nava e Pietrangelo Buttafuoco sono filati via lisci. Quando ha cominciato a parlare Giordano Bruno Guerri, che ha scritto un libro sul brigantaggio postunitario, la stessa persona lo ha offeso. Lo storico è sceso dal palco per regolare i conti e il contestatore s’è zittito. Meno male: Guerri discende dai pirati etruschi, ha profilo da pugile e mani da cavatore di ciocco».

Si può dire che Terroni abbia fatto venire al Sud la voglia di secessione che fino a ieri serpeggiava solo al Nord?

«No. È stato detto che Terroni incita i meridionali alla sollevazione. Figuriamoci! Il Mezzogiorno non ha voce: tutti i giornali nazionali, eccetto La Repubblica, si pubblicano al Nord e le tre reti televisive private sono di un editore lombardo che, da capo del governo, ha voce in capitolo pure in quelle pubbliche. Per la legge di prossimità, la stampa trova più interessante il miagolio del gatto di casa rispetto al ruggito del leone nella savana. Il Nord scopre che cosa sta accadendo dalle mie parti solo quando s’interroga sul successo di Terroni o del film Benvenuti al Sud . Ma Terroni è il dito che indica la luna, non la luna. Ci sono libri che cambiano il cuore degli uomini. Mi spiace, il mio non è fra questi: sono nato di febbraio e non ho avuto per padre putativo un mite falegname. La voglia di secessione del Sud germoglia come reazione agli insulti dei ministri del Nord. È meno forte e diffusa che in Lombardia o nel Veneto, ma cresce».

Quali sentimenti suscitano in lei i 150 anni dell’Unità d’Italia?

«Di delusione, talvolta di disgusto. In quale Paese può restare in carica un ministro che ha trattato la bandiera nazionale come carta igienica? O un sindaco che ha marchiato con simboli di partito la scuola dei bambini? L’Italia unita era da fare, perché ogni volta che cade una frontiera gli uomini diventano più liberi, più ricchi, più sicuri, più felici. Ma non era da fare con una parte del Paese schierata contro l’altra. La ricorrenza dei 150 anni poteva diventare l’occasione per fare onestamente una volta per tutte i conti con la storia. Così non è».

Che cosa pensa dei Savoia?

«Si sono trovati al posto giusto nel momento giusto. Mentre un’esigua minoranza, non più dell’1-2 per cento della popolazione, era animata dal pio desiderio di unificare l’Italia, loro ne avevano l’impellente necessità: strozzati dai debiti, potevano salvarsi solo con l’invasione e il saccheggio del Sud. Lo scrisse nel 1859 il deputato Pier Carlo Boggio, braccio destro di Cavour: “O la guerra o la bancarotta”. Fino al 1860, per ben 126 anni, i Borbone mai aumentarono le tasse. Nel Regno di Napoli erano le più basse di tutti gli Stati preunitari».

Bruno Vespa mi ha confessato la sua sorpresa nello scoprire solo di recente che nel regno borbonico le imposte erano soltanto cinque, contro le 22 introdotte dai Savoia.

«I soldi del Sud ripianarono il buco del Nord. Al tesoro circolante dell’Italia unita, il Regno delle Due Sicilie contribuì per il 60 per cento, la Lombardia per l’1 virgola qualcosa, il Piemonte per il 4. Negli Stati via via annessi all’Italia nascente, appena arrivavano i piemontesi spariva la cassa».

E di Giuseppe Garibaldi che cosa pensa?

«Romantico avventuriero, di idee forti, semplici, a volte confuse, ma più onesto di altri nel denunciare, solo a cose fatte però, le stragi e le rapine compiute nel Mezzogiorno. Qualche problema di salute, per l’artrosi che gli rendeva doloroso cavalcare: a Napoli arrivò in treno. Qualche disavventura familiare: la giovane sposa incinta di un altro. Qualche pagina oscura nel suo pas­sato sudamericano: la tratta degli schiavi dalla Cina al Perù. Ne hanno fatto un santino. Ma va bene così, ogni nazione ha bisogno dei suoi miti fondanti. Basta sapere chi erano veramente».

E di Camillo Benso conte di Cavour che cosa pensa?

«Grande giocatore, specie nell’imprevisto. Non voleva la conquista del Regno delle Due Sicilie: gli bastavano il Lombardo- Veneto e i Ducati. Già la Toscana gli pareva in più. Ma quando l’avventura meridionale ebbe inizio, in breve la fece propria, persuase il re, neutralizzò Garibaldi, ammansì chi si opponeva. Qualche suo vizietto sarebbe stato da galera. Come molti padri del Risorgimento, non mise mai piede al Sud: lo conosceva per sentito dire».

La peggiore figura del Risorgimento?

«Il generale Enrico Cialdini, poi deputato e senatore del Regno. Un macellaio che menava vanto del numero di meridionali fucilati, delle centinaia di case incendiate, dei paesi rasi al suolo. Prima di diventare eroe pluridecorato del Risorgimento, fu mercenario nella Legione straniera in Portogallo e Spagna. Uccideva i suoi simili a pagamento».

Quali sono gli episodi risorgimentali più rivoltanti, che l’hanno fatta ricredere sulla sua italianità?

«Non si può smettere di essere italiani. Però mi sono dovuto ricredere circa il racconto bello e glorioso sulla nascita del mio Paese che avevo imparato a scuola. Da adolescente fremi d’indignazione per gli indiani sterminati sul Sand Creek e da grande scopri che i fratelli d’Italia nel Meridione fecero di peggio. La mitologia risorgimentale cominciò a vacillare quando lessi La conquista del Sud di Carlo Alianello. Vi si narrava la storia di una donna violentata e lasciata morire da 18 bersaglieri, che già le avevano ammazzato il marito. Il figlioletto che assistette alla scena, divenuto adolescente, si vantava d’aver ucciso per vendetta 18 soldati di re Vittorio Emanuele a Custoza. Poi il massacro di Pontelandolfo e Casalduni, 5.000 abitanti il primo, 3.000 il secondo, due delle decine di paesi distrutti, con libertà di stupro e di saccheggio lasciata dal Cialdini ai suoi soldati, fucilazioni di massa, torture, le abitazioni date alle fiamme con la gente all’interno. E le migliaia di meridionali squagliati nella calce viva a Fenestrelle, una fortezza-lager a una settantina di chilometri da Torino, a 1.200 metri di quota, battuta da venti gelidi, dove la vita media degli internati non superava i tre mesi. Per garantire ulteriore tormento ai prigionieri, erano state divelte le finestre dei dormitori. Viva l’Italia!».

Gianfranco Miglio, ideologo della Lega, mi confidò che era ancora terrorizzato da certe storie atroci udite da bambino, quando il nonno gli raccontava che, giovane bersagliere in Calabria, aveva trovato un suo commilitone crocifisso su un termitaio dai briganti.

«Le ha anche raccontato che cos’aveva fatto quel bersagliere? Era in un Paese invaso senza manco la dichiarazione di guerra. Maria Izzo, la più bella di Pontelandolfo, fu legata nuda a un albero, con le gambe divaricate, stuprata a turno dai bersaglieri e poi finita con una baionettata nella pancia. A Palermo uccisero sotto tortura un muto dalla nascita perché si rifiutava di parlare. Riferirono in Parlamento d’aver fucilato, in un anno, 15.600 meridionali: uno ogni 14 minuti, per dieci ore al giorno, 365 giorni su 365. Ma il conto delle vittime viene prudentemente stimato in almeno 100.000 da Giordano Bruno Guerri. Altri calcoli arrivano a diverse centinaia di migliaia. La Civiltà Cattolica, rivista dei gesuiti, nel 1861 scrisse che furono oltre un milione. La cifra vera non si saprà mai».

Da Terroni :«“Ottentotti”, “irochesi”, “beduini”, “peggio che Affrica”, “degenerati”, “ritardati”, “selvaggi”, “degradati”: così i meridionali vennero definiti, e descritti con tratti animaleschi, dai fratelli del Nord scesi a liberarli». Io sono veneto. Ha idea di quante ce ne hanno dette e ce ne dicono? Razzisti, analfabeti, beoti, ubriaconi, bestemmiatori, evasori fiscali, sfruttatori di clandestini. Non crede che se cominciamo a tenere questo genere di contabilità, non la finiamo più?

«Devono finirla i Bossi, i Calderoli, i Borghezio, i Salvini, i Brunetta. Quella degradazione dei meridionali ad animali preparò e giustificò il genocidio. Ricordo le parole di un intellettuale di Sarajevo: “Non è stato il fracasso dei cannoni a uccidere la Jugoslavia. È stato il silenzio. Il silenzio sul linguaggio della violenza, prima che sulla violenza”. Un ministro della Repubblica ha minacciato il ricorso ai fucili. In Italia, adesso. Non a Sarajevo, allora».

Lei scrive che Luigi Federico Menabrea, presidente del Consiglio dei ministri del Regno, nel 1868 voleva deportare in Patagonia i meridionali sospettati di brigantaggio. Che cosa dovrebbero dire i veneti deportati per davvero da Benito Mussolini nelle malariche paludi pontine per bonificarle?

«Menabrea voleva deportare i meridionali per sterminarli. I veneti nelle paludi pontine non furono deportati: ebbero lavoro, casa, terra risanata con i soldi di tutti e a danno di quelli che vi morivano di malaria da secoli per trarne pane. Ma vediamo il lato positivo: fra poveri s’incontrarono. E dove il sangue si mischia, nasce la bellezza. La provincia oggi chiamata Latina ha dato all’Italia la più alta concentrazione di miss da calendario per chilometro quadrato. E pure Santa Maria Goretti, che si fece uccidere per difendere la propria femminilità».

Scrive anche: «La Calabria non appartiene, geologicamente, al Mezzogiorno, ma al sistema alpino: si staccò con la Corsica dalla regione ligure-provenzale e migrò, sino a incastrarsi fra Sicilia e Pollino». Recrimina persino sull’orografia?

«O è un modo per dire che a Sud vogliono venirci tutti?».

Si dilunga sul caso di Mongiana, che in effetti è impressionante. Però che cosa dimostra? Da Nord a Sud, ogni distretto industriale piange i suoi dinosauri.

«Mongiana, in Calabria, era la capitale siderurgica d’Italia e oggi contende alla confinante Nardodipace lo scomodo primato di Comune più povero d’Italia. I mongianesi, sradicati dal loro paese, si sono trovati a lavorare nelle fonderie del Bresciano: 150 famiglie, circa 500 persone, solo a Lumezzane, che è ormai la vera Mongiana. Dove prima 1.500 operai e tecnici siderurgici specializzati rendevano autosufficiente l’industria pesante del Regno delle Due Sicilie, adesso non è rimasto neppure un fabbro. Il più ricco distretto minerario della penisola fu soppresso dal governo unitario per un grave difetto strutturale: si trovava nel posto sbagliato, nel Meridione. Il Sud non doveva far concorrenza al Nord nella produzione di merci. E questo fu imposto con le armi e una legislazione squilibrata a danno del Mezzogiorno. La vicenda di Mongiana è esemplare, nell’impossibilità di raccontare tutto. Ma accadde la stessa cosa con la cantieristica navale, l’industria ferroviaria, l’agricoltura».

In occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, la città di Gaeta vuol chiedere un risarcimento per l’assedio savoiardo del 1861: 500 milioni di euro. Mi ricorda il Veneto, che pretende i danni di guerra dalla Francia per il saccheggio napoleonico del 1797: 1.033 miliardi di euro.

«C’è una differenza: al risarcimento di Gaeta s’impegnò il luogotenente, principe di Ca­rignano, in nome del quale il generale Cialdini, responsabile di quelle macerie, garantì per iscritto: “Il Governo di Sua Maestà provvederà all’equo e maggiore possibile risarcimento”. Quando gli amministratori comunali andarono per riscuotere, il nuovo luogotenente, Luigi Farini, già distintosi con moglie e figlia nel patriottico furto dell’argenteria dei duchi di Parma, consigliò loro di rivolgersi “alla carità nazionale”».

Lei è arrivato al punto da dichiarare che Giulio Tremonti ruba al Sud per dare al Nord. Forse dimentica che il Veneto ha solo 225 dirigenti regionali mentre la Sicilia ne ha 2.150. L’855 per cento in più. Che si aggiungono ai 100.000 dipendenti ordinari. Allora le chiedo: chi ruba a chi, se non altro lo stipendio?

«I fondi per le aree sottoutilizzate sono, per legge, all’85 per cento del Sud, e invece sono stati abbondantemente spesi al Nord. I 3,5 miliardi di euro con cui è stata abbuonata l’Ici a tutt’Italia erano quelli destinati alle strade dissestate di Calabria e Sicilia. I cittadini della Val d’Aosta spendono il 10.195 per cento in più della Lombardia, pro capite, per i dipendenti regionali. Ma è una ragione a statuto speciale, si obietta. Giusto. Pure la Sicilia lo è. Il che non assolve né l’una né l’altra. Ma il paragone si fa sempre con l’altra».

Il sociologo Luca Ricolfi in "Il sacco del Nord" documenta che ogni anno 50 miliardi di euro lasciano le regioni settentrionali diretti al Sud. E lei me lo chiama furto?

«Intanto i conti andrebbero fatti sui 150 anni. E poi lo stesso Ricolfi spiega che quei dati, valutati diversamente, portano a conclusioni diametralmente opposte. Non tutti sono d’accordo sul metodo scelto da Ricolfi. Vada a farsi due chiacchiere col professor Gianfranco Viesti, bocconiano che insegna politica economica all’Università di Bari».

S’ode a destra uno squillo di tromba: Terroni. A sinistra risponde uno squillo: Viva l’Italia! di Aldo Cazzullo. Che l’ha accusata d’aver paragonato i piemontesi ai nazisti solo per vendere più copie.

«Incapace di tanta eleganza, a Cazzullo confesso che scrivo nella speranza di essere letto. E non capisco perché il suo editore spenda tanti soldi per pubblicizzare Viva l’Italia! se lo scopo è quello di non vendere copie. Il mio libro s’è imposto col passaparola».

Non nominare il nome di Marzabotto invano, le ha ricordato Cazzullo.

«Che differenza c’è fra Pontelandolfo e Marzabotto? Mettiamola così: il mio editore ha nascosto l’esistenza di Terroni, l’editore di Cazzullo ha fatto il contrario. Nessuno dei due ha ottenuto il risultato sperato».

Anche Ernesto Galli della Loggia e Francesco Merlo hanno maltrattato il suo pamphlet.

«Libera critica in libero Stato: non si può piacere a tutti. A me piace non piacere a Galli della Loggia, per esempio. Prima ha parlato di “fantasiose ricostruzioni”. Poi, al pari di Merlo e di qualche altro, ha obiettato che le stragi risorgimentali nel Sud erano note e da considerarsi “normali” in tempo di guerra. A parte che a scuola tuttora non vengono studiate, allora scusiamoci con i criminali nazisti Herbert Kappler e Walter Reder per l’in­giusta detenzione; critichiamo gli Stati Uniti che hanno inflitto l’ergastolo all’ufficiale americano responsabile dell’eccidio di My Lai in Vietnam; chiediamoci perché si condanni il massacro dei curdi a opera di Saddam Hussein. Insomma, solo l’uccisione in massa dei meridionali è “normale”?».

Sergio Romano sul Corriere della Sera s’è dichiarato infastidito dai «lettori meri­dionali che deplorano i soprusi dei piemontesi, l’arroganza del Nord, il sacco del Sud, e rimpiangono una specie di età dell’oro durante la quale i Borbone di Napoli avrebbero fatto del loro regno un modello di equità sociale e sviluppo economico». E vi ha ricordato che, per unanime consenso dell’Europa d’allora, «il Regno delle Due Sicilie era uno degli Stati peggio governati da una aristocrazia retriva, paternalista e bigotta».

«Senta, foss’anche tutto vero, e non lo è, questo giustifica invasione, saccheggio e strage?Mi pare la tipica autoassoluzione del colonizzatore: ti distruggo e ti derubo, però lo faccio per il tuo bene, neh? Infatti, l’Italia riconoscente depone ogni anno una corona d’alloro dinanzi alla lapide che ricorda il colonnello vicentino Pier Eleonoro Negri, il carnefice di Pontelandolfo e Casalduni, e nega ai paesi ridotti in cenere rimasero in piedi solo tre case persino il rispetto per la memoria».

Lei ha fatto il servizio militare?

«Arruolato, C4 rosso, se non ricordo male: mi dissero che, se fosse scoppiata la guerra, sarei finito in ufficio. I miei polmoni non davano affidamento: postumi di Tbc e quattro pacchetti di Gauloises al giorno».

Se scoppiasse una guerra, difenderebbe l’Italia o no?

«Oh, ma che domande sono? Lo chieda a Bossi e a Calderoli! Io sono un italiano che pretende la verità critica su com’è nato il suo Paese e la fine della sperequazione e degli insulti a danno del Sud. La questione meridionale non esisteva 150 anni fa, il Consiglio nazionale delle ricerche ha dimostrato che prodotto lordo e pro capite erano uguali al Nord e al Sud. I meridionali, con un terzo della popolazione, diedero circa la metà dei caduti nelle trincee della prima guerra mondiale».

Silvius Magnago, lo storico leader della Svp, mi disse: «La patria è quella cui si sente di appartenere con il cuore. La mia Heimat è il Tirolo. Heimat, terra natia. Voi italiani non possedete questo concetto. Non potete capire». Che cosa significa patria per lei? E qual è la sua Heimat?

«Lo dico nell’esergo del mio libro, con parole rubate allo scrittore francese Emmanuel Roblès: patria è “là dove vuoi vivere senza subire né infliggere umiliazione” ».

Sarebbe favorevole a un’Italia divisa in cantoni, come la Svizzera?

«No. Una frontiera non migliora gli uomini. Al più, può peggiorarli. Ma se la Lega, dopo vent’anni di strappi, recidesse l’ultimo filo che tiene ancora unito il Paese, un attimo prima il Sud dovrebbe andarsene, contrattando l’uscita, per evitare di essere derubato di nuovo».

Su quali basi andrebberifatta l’Unità d’Italia?

«Eque. La forma garantisce poco la sostanza: vada a spiegare ai giovani che la nostra è una Repubblica fondata sul lavoro. O che la legge è uguale per tutti. O che le Ferrovie dello Stato assicurano il servizio in tutto il Paese: Matera, amena località europea, è ignota alle Fs, lì il treno non è mai arrivato».

Fosse lei il presidente del Consiglio, che farebbe per ripulire Napoli dai rifiuti?

«Nominerei commissario Vincenzo Cenname, il sindaco che ha fatto di Camigliano, provincia di Caserta, un esempio virtuoso nello smaltimento, grazie alla raccolta differenziata che copre il 65 per cento del totale. Cenname s’è rifiutato di affidarne la gestione a un ente provinciale, la cui inefficienza è testimoniata dalle immondizie che vengono lasciate nelle strade per scoraggiare la raccolta differenziata a favore degli inceneritori. Per questo Cenname è stato rimosso dal prefetto, quasi fosse a capo d’una Giunta camorrista».

Siamo alla domanda delle cento pistole: i terroni hanno voglia di lavorare sì o no?

«Capisco che la domanda lei deve porla e immagino che le costi dar voce agli imbecilli. Se fossi maleducato, risponderei: ma mi faccia il piacere! Non lo sono e quindi rispondo: quei 5 milioni di meridionali che stanno nelle fabbriche del Nord, dall’abruzzese Sergio Marchionne in giù, come li vede? Sfaticati? Quei 20 milioni di emigrati nel mondo, che per la prima volta nella loro storia millenaria presero la via dell’esilio volontario dopo i disastri dell’Unità d’Italia, sono andati altrove a far nulla? La mia regione fu l’unica in cui per l’aridità della terra fallì il sistema di produzione dell’impero romano, imperniato sulla villa. Ebbene di quei deserta Apuliae, deserti di Puglia, la mia gente nel corso dei secoli, col sudore della fronte, ha fatto un giardino, rubando l’umidità alla notte con i muretti di pietra e piantando 60 milioni di ulivi. Mica come Bossi, che non ha lavorato un giorno in vita sua. Anzi, sa che le dico, senza offesa, eh? Ma mi faccia il piacere!».

Il 52 per cento della popolazione di Terzigno, provincia di Napoli, campa a carico dell’Inps. Sarà mica colpa dell’Inps?

«Se mi togli tutto, mi attacco a quello che c’è. Assistenza? Assistenza! Non mi piace, ma non ho altra scelta. A Parma, 170.000 abitanti, il ministero ha deciso di erogare lo stesso i soldi per la metropolitana progettata per 24 milioni di utenti, poi ridotti a 8, infine abbandonata, per vergogna, spero, nonostante lo studio costato 30 milioni di euro. È la città della Parmalat, la peggior truffa di tutti i tempi. Però la truffa del falso invalido scandalizza maggiormente. Be’, a me le truffe danno fastidio tutte. Quella del povero la capisco di più».

La metà delle cause contro l’Inps si concentra in sei città del Sud: Foggia, Napoli, Bari, Roma, Lecce e Taranto. A Foggia è pendente circa il 15 per cento dell’intero contenzioso nazionale dell’istituto. Tutti i 46.000 braccianti iscritti alle liste di Foggia hanno fatto causa all’Inps. Dipenderà mica dai Savoia.

«Per quanto possa sborsare l’Inps da Terzigno a Lecce, non si arriverà mai ai miliardi di euro che ci costano le multe pagate per colpa degli allevatori padani disonesti, grandi elettori della Lega. O assolviamo tutti, ed è sbagliato, o condanniamo quelli che lo meritano. Con una differenza: la truffa delle quote latte è già accertata. Aspettiamo di vedere come finiscono i procedimenti contro l’Inps».

C’è poco da aspettare: a Foggia, su 122.000 cause presentate, 25.000 sono state spontaneamente ritirate dagli avvocati. Erano state avviate per lo più a nome di persone morte o inesistenti.

«Ma non è detto che tutte le altre siano immotivate. Ripeto: aspettiamo».

Non sarà che lei mi diventa il Bossi del Sud?

«Già l’accostamento è offensivo. Io non giudico il mio prossimo dalla latitudine e ho sempre lavorato; né ho festeggiato tre volte la laurea, senza mai prenderla. Mi hanno offerto candidature, ma ho ringraziato e rifiutato, perché inadatto: sono incensurato, ho pagato la casa con i miei soldi e voglio morire giornalista».

Eppure Giordano Bruno Guerri ha scritto che Terroni è sostenuto da piccoli ma combattivi gruppi neoborbonici e dal Partito del Sud di Antonio Ciano, assessore a Gaeta, e potrebbe diventare il testo sacro di una futura Lega meridionale, contrapposta a quella di Bossi.

«Il libro, una volta uscito, va per la sua strada, come i figli. Non puoi dirgli tu dove andare. Terroni non è sostenuto: è letto. E chi lo legge ne fa l’uso che vuole, a patto di non attribuirlo a me. Stimo Ciano e seguo con attenzione il Partito del Sud, i Neoborbonici, l’Mpa del governatore siciliano Raffaele Lombardo, l’associazione Io resto in Calabria di Pippo Callipo, il movimento Io Sud di Adriana Poli Bortone. Ma resto un osservatore interessato ed esterno. Ero anche amico di Angelo Vassallo, il sindaco di Pollica ucciso dalla camorra con nove colpi di pistola. Ricordo i suoi funerali, con quei fogli tutti uguali attaccati alle saracinesche dei negozi chiusi e ai portoni delle case: “Angelo, il paese muore con te”. Oggi per fortuna Pollica va avanti nel suo nome. In una ventina d’anni da sindaco, Angelo aveva arricchito tutti, senza distruggere niente del territorio, vero capitale del paese. Ammiravo il suo coraggio, la sua fantasia, la sua capacità di trasformare le idee in fatti. Ho pianto accompagnandolo al cimitero. Se avesse potuto vedermi, si sarebbe messo a ridere».

Per chi vota?

«La prima volta votai Dc per ingenuità, su consiglio d’un amico. Delusione feroce. Poi a sinistra, senza mai avere un partito, cosa che ritengo incompatibile col giornalismo. Infine quasi stabilmente per i repubblicani di La Malfa, padre, ovviamente. Alle prossime elezioni forse non voterò, anche se so di fare un regalo ai peggiori».

Non mi pare che la sinistra, con l’unico presidente del Consiglio originario di Gallipoli, abbia migliorato la condizione del Sud.

«Massimo D’Alema ha il collegio elettorale a Gallipoli e la moglie pugliese. Ma è romano. E poi, ripeto, l’essere di qui o di là non significa nulla. Il meridionalismo è una dottrina solo italiana, nel mondo. È stata praticata da uomini eccelsi per cultura e moralità,ma è un’invenzione di italiani del Nord, specie lombardi. Solo dopo una generazione sono sorti i meridionalisti meridionali. Che mi frega di dove sei? Fammi vedere cosa fai!».

Lei lamenta l’invasione burocratica piemontese del Meridione, però Mario Cervi le ha ricordato che oggi il Sud amministra col proprio personale la macchina burocratica e giudiziaria dello Stato nell’Italia intera. E i risultati non sono brillanti.

«Tutti, ma proprio tutti gli enti, le banche, le aziende pubbliche o parapubbliche d’Italia sono in mano a settentrionali, in particolare lombardi, a parte un napoletano e tre romani. Vuol dire che se cotanti capi non riescono a raggiungere buoni risultati la colpa è dei sottoposti? Se si vince è bravo il generale e se si perde sono cattivi i soldati? Quando dirigevo un giornale, la mia regola era: chiunque abbia sbagliato, la colpa è mia».

Vuoi fare successo? Inventati una Gomorra! Uno scrittore fallito inventa un reportage su Scampia. E, sparando "ca...te senza pietà" arriverà alla gloria. La geniale parodia di Roberto Saviano fatta da Francesco Mari, scrive Nicola Mirenzi su “Il Giornale”. Francesco Mari, La ragazza di Scampia, Fazi, 2014. Altro che il vero. È lo spruzzo di realtà, specie se criminale, che scala le classifiche, diventa bestseller e assalto ai botteghini. Ecco la messinscena che Francesco Mari fa a pezzettini con il suo romanzo d’esordio, La ragazza di Scampia (Fazi Editore, 256 pp, 16 euro), prendendosi gioco dei prodigi dello storytelling camorristico nazionale, dove la scena di Napoli è sempre acchitata per compiacere l’occhio di chi guarda, desideroso di confermarsi nell’idea che “i napoletani abitano dentro un noir a cielo aperto”. Il protagonista, Franco, tardo trentenne funzionario del comune, ha una vita noiosa. Il momento di più alta eccitazione della giornata lo raggiunge quando si ficca le cuffie dell’iPod nelle orecchie andando in ufficio. “Niente Radiohead e niente Anthony and the Johnsons da queste parti. Niente nomi giusti e gusti ricercati, di chi di musica ne capisce. Qui si attinge l’illuminazione a botte di Madonna, Jennifer Lopez e Céline Dion”. Poi c’è la depressione del lavoro: “Otto ore quotidiane di ufficio in cui faccio questo: niente”. Per arrivare alla ciliegina sulla torta delle le donne: ““È quasi un anno che non scopo, Vale!”, Chi cazzo se ne frega della crisi economica, la disoccupazione, i problemi preadolescenziali di tuo figlio”. Un monologo interiore che si conclude sempre con la stessa resa: un bacio sulle guance. Franco però scrive. Rimugina la rivincita. Il piano è convincere un editore cool di Milano, uno di quelli che ti fanno svoltare da un giorno all’altro, di pubblicare un libro. S’inventa così di sana pianta un Reportage dall’inferno di Scampia (e dove, senno?). “Come Michael Douglas in Un giorno di ordinaria follia, ho imbracciato la mia arma e ho cominciato a sparare cazzate senza pietà”. Un cantante neo-melodico che svela i segreti dei clan. Il gruppo rap impegnato nel sociale. Una donna-coraggio che perde il fratello e decide di parlare senza paura di morire ammazzata: “I killer che mi verranno a fare fuori li aspetterò qua, a casa mia”. È una storia afrodisiaca. Combacia alla perfezione con l’ideologia del romanzo criminale. Il mafia-reality-show. L’editore si convince d’aver scovato il nuovo Saviano. Firma il contratto. Pianifica di far uscire il libro insieme a un film. “Faranno il botto”, presagisce. Sale su su sino al settimo cielo. Da dove non scenderà neanche quando scopre che è tutta una sceneggiata. Era la Napoli che voleva farsi raccontare. La racconterà. “Vera, falsa, che importanza ha?”.  A sfottere godiamo: siam settentrionali.

A PALERMO, TRA NUOVI PROCURATORI E VIADOTTI NUOVI CROLLATI: ARIA NUOVA O QUASI!

Lo Voi procuratore a Palermo, critiche sulla scelta del Csm. Presa di posizione di Libera e della corrente Area sulla nomina del magistrato. Fava; "Stupore per l'assenza di incarichi direttivi", scrive “La Repubblica”. Franco Lo Voi. L'onda lunga delle divisioni interne alla magistratura sulla scelta di Franco Lo Voi a capo della procura di Palermo arriva il giorno dopo: "Ancora una volta, con il voto di Magistratura Indipendente, vince il candidato meno titolato, lontano dagli uffici giudiziari ma anche dalle indagini da tanto tempo: ancora una volta una scelta radicalmente incoerente con le tante parole pronunciate in campagna elettorale". Commenta così il coordinamento di Area, il cartello delle toghe di sinistra, la nomina da parte del Csm di Lo Voi al vertice della procura, passata con i voti di Magistratura Indipendente (la corrente più moderata dei giudici), di tutti i componenti laici e del primo presidente e del Pg della Cassazione. Secondo Area gli altri due concorrenti, Sergio Lari e Guido Lo Forte  "avevano profili obiettivamente e nettamente superiori" a Lo Voi: "entrambi con incarichi di procuratore aggiunto a Palermo, attualmente procuratori distrettuali, rispettivamente a Caltanissetta e Messina. Da sempre, entrambi, impegnati nella lotta alla mafia siciliana". Senza voler "togliere alcunchè" al nuovo procuratore, "è innegabile che è stato scelto il candidato più giovane, malgrado mai aggiunto a Palermo, malgrado mai procuratore della Repubblica, malgrado attualmente fuori ruolo da alcuni anni e per un incarico scelto dalla politica". In questa vicenda c'è anche un aspetto "inedito" su cui Area richiama l'attenzione: "la convergenza dei laici di tutte le forze politiche"," quasi che la politica avesse di fatto voluto scegliere il procuratore; e senza che vi fosse quello sforzo sino all'ultimo perorato dai consiglieri di Area per ottenere una nomina condivisa". Sul significato di questo scenario "tutti dovrebbero riflettere". Anche l'associazione Libera ha deciso di prendere pubblicamente posizione sulla scelta di Lo Voi: "Pur nel pieno rispetto del nuovo procuratore di Palermo, a cui vanno gli auguri di buon lavoro, del suo valore e della sua esperienza professionale non si può non rilevare come una magistratura divisa sugli stessi criteri di valutazione abbia finito per penalizzare candidature piu congrue sotto il profilo specifico delle competenze e delle professionalità richieste per guidare la procura di palermo, così fortemente impegnata in delicate e complesse indagini antimafia". "Auspicavamo, tramite una unanimità nel voto, - prosegue Libera - un messaggio forte e chiaro del Csm sulla lotta alla mafia oggi nel Paese e un altrettanto forte sostegno a tutti i magistrati della procura di Palermo. Quanto è accaduto, nonostante i tentativi fatti di individuare soluzioni più condivise, - conclude l'associazione - sottolinea l'urgenza di definire in maniera più rigorosa e puntuale i criteri di valutazione di scelta per ruoli così delicati e importanti". Fa sentire la sua voce anche Claudio Fava, vice presidente della commissione parlamentare Antimafia: "Siamo certi che il lavoro dei sostituti di Palermo proseguirà con il consueto e determinato impegno, e ci aspettiamo che il nuovo procuratore Lo Voi, a cui vanno i nostri auguri di buon lavoro, saprà garantire sostegno concreto a tutti i filoni d'indagine su cui quella Procura è impegnata", dice Fava. "Resta però lo stupore per la scelta del Csm che ha voluto indicare, per l'incarico più esposto e sensibile d'Italia, un magistrato che non ha mai ricoperto alcun incarico direttivo e ha molti anni di anzianità in meno degli altri due titolatissimi concorrenti, Lo Forte e Lari", prosegue Fava. "Ci auguriamo che nessuno voglia adesso interpretare questa nomina come un segno di discontinuità rispetto al lavoro svolto dalla Procura di Palermo: quel lavoro, prezioso per l'amministrazione della giustizia e per la memoria collettiva del paese, va custodito e accompagnato. A cominciare dal processo in corso sulla trattativa tra Stato e mafia", ha concluso Fava.

Palermo. Paolo Flores d’Arcais: nomina Francesco Lo Voi “ciclopicamente scandalosa”, scrive “Blitz Quotidiano”.  La decisione del Consiglio superiore della Magistratura di nominare Francesco Lo Voi capo della Procura della Repubblica di Palermo ha provocato la reazione di Paolo Flores d’Arcais, che, su Micromega, ha scritto: “Di fronte al carattere ciclopicamente scandaloso della scelta fatta dall’organo che dovrebbe assicurare l’autogoverno dei magistrati (sic!) i membri togati che hanno votato in ottemperanza ai criteri che tutti solennemente proclamano, dovrebbero trovare l’elementare coraggio di dimettersi in massa, unico modo per porre di fronte all’opinione pubblica la drammaticità di una situazione che oltretutto mette irresponsabilmente ad ulteriore repentaglio la vita dei magistrati che a Palermo la mafia la combattono davvero. Perché è stato scritto infinite volte, e ripetuto in infinite commemorazioni ufficiali e solennissime, che isolare Falcone e Borsellino che la combattevano è stato per la mafia il segnale che si poteva colpirli”. L’articolo è intitolato “In lutto per la Giustizia”. Sul sito di Micromega l’articolo di Paolo Flores d’Arcais è unito, sotto il titolo “La devastante decisione del Csm a Palermo” a quello di Marco Travaglio sul Fatto intitolato “La giustizia del gattopardo”. Per la giustizia in Italia, sostiene Paolo Flores d’Arcais, “questi sono giorni di lutto. ça Procura di Palermo è stata commissariata dal PUP (Partito Unico della Politica). Tutti i membri “laici” del Csm (tutti! Compreso quello votato, con evidente leggerezza, dal M5S, sugli altri di “sinistra” non stendiamo neppure un velo pietoso, ormai “sinistra” è sinonimo di inciucio e altri patti del Nazareno) al Csm hanno votato compatti per [Francesco] Lo Voi, privo dei requisiti solitamente indicati per un incarico dirigenziale del genere, allo scopo di impedire che due magistrati da anni diversamente impegnati contro la mafia, Lo Forte e Lari, potessero prevalere (quella di Lo Forte era la nomina praticamente ovvia, se il Csm applicasse i criteri sbandierati in ogni documento, cerimonia solenne, monito presidenziale)”. Scrive Paolo Flores d’Arcais che “i due tratti salienti della carriera del neo-procuratore Lo Voi sono il rifiuto di firmare l’appello con cui tutti magistrati antimafia chiesero, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, l’allontanamento del procuratore Giammanco, indimenticabile nemico di Falcone, e la nomina a un importante incarico europeo (Eurojust) da parte del governo Berlusconi. Mentre il curriculum anti-mafia (e non solo) di Lo Forte è impressionante, e assai cospicuo anche quello di Lari: ragioni inoppugnabili per NON nominarli, da parte di un establishment che NON vuole la lotta alla mafia proprio quando di tale lotta si riempie vieppiù la bocca”. La conclusione di Paolo Flores d’Arcais è cupa: “Sarebbe consolante poter scrivere che comunque ci sarà un’ondata di indignazione nell’opinione pubblica, nelle grandi testate “indipendenti” che in altri momenti e per molto meno (or non è guari, non decenni fa) chiamavano a mobilitarsi in piazza, tra i colleghi dei magistrati così ingiuriosamente privati di quanto i criteri stessi proclamati dal Csm doveva loro conferire. Non accadrà nulla, probabilmente, complice anche il clima natalizio, festoso di mega-applausi per gli etici comandamenti in salsa catodica ma vilmente indigente di indignazione quando nella realtà i valori più elementari della nostra Costituzione vengono calpestati. E il sonno dell’indignazione genera mostri”.

Palermo, la nomina di Lo Voi una ventata d’aria fresca, scrive Giovanni Maria Jacobazzi su “Il Garantista”. La nomina di Franco Lo Voi a procuratore di Palermo ha scatenato, come era facilmente prevedibile, accese polemiche. Gli aficionados del processo sulla Trattativa, capeggiati dai miliziani de Il Fatto Quotidiano, hanno parlato di nomina viziata dalla politica che ha voluto “commissariare” la procura di Palermo. Una sorte di “vendetta” a freddo del Palazzo contro quei magistrati che hanno osato portare sul banco degli imputati pezzi importanti dello Stato. Chiamando, addirittura, a testimoniare il presidente della Repubblica. Secondo la vulgata manettara e trattativista per poter ricoprire il ruolo di procuratore capo a Palermo bisognava: – essere stati amici di Giovanni Falcone; – aver giurato obbedienza al dogma della Trattativa; – aver diretto uffici giudiziari; – non essere “giovane”. Requisiti imprescindibili di cui Lo Voi non era in possesso. Ed infatti: Alfredo Morvillo, procuratore di Termini Imerese, aveva smentito che Lo Voi e suo cognato fossero amici. Sulla non obbedienza al dogma della Trattativa le avvisaglie ci sarebbero state quando, dopo la strage di via d’Amelio, Lo Voi non firmò il documento contro Pietro Giammanco, il procuratore che aveva isolato Paolo Borsellino e quando, come sostituto pg, si rifiutò di rappresentare l’accusa al processo Andreotti. Per quanto riguarda la pregressa direzione di uffici, a differenza dei procuratori di Messina, Guido Lo Forte, e di Caltanissetta, Sergio Lari, Lo Voi non aveva mai diretto né organizzato un ufficio giudiziario,  non era mai stato né capo né aggiunto. Lo Voi ha – solo – 57 anni. Tralasciando i primi due “requisiti”, mi soffermerò sui rimanenti. Che, in effetti, possono suscitare perplessità. Andiamo con ordine. Laddove le norme sull’Ordinamento giudiziario prevedono che «le attitudini per il conferimento di incarichi direttivi sono riscontrate nella capacità di organizzare, programmare e gestire le risorse in rapporto alla necessità dell’ufficio» il Csm ha operato, per Lo Voi, una valutazione complessiva ed estensiva. Valutando in senso non recessivo il periodo prestato ad Eurojust. Valutazione legittima rientrando nell’amplissima discrezionalità di cui gode il Consiglio. Come, per altro, recentemente affermato da Napolitano. Che però crea un precedente specifico: i magistrati che hanno avuto una carriera “parallela” fuori ruolo presso organismi internazionali, ministeri, Csm (Lo Voi è stato anche membro togato al Consiglio nel 2006) non sarebbero svantaggiati quando concorrono per incarichi di prestigio rispetto ai lori colleghi che hanno invece scritto sentenze per tutta la vita. Anzi. Sul parametro anagrafico il discorso è più complesso. Per il posto di procuratore di Palermo tutti e tre i candidati erano magistrati alla settima valutazione di professionalità. Il massimo dunque. Il problema è capire quanta importanza dare al fattore anagrafico in senso “stretto”, cioè alla lettura della carta d’identità tout-court. I magistrati italiani, lo ricordo, erano quelli che andavano in pensione più tardi di tutti. Prima della riforma Madia a 75 anni. Gli uffici giudiziari di questo Paese sono retti quasi esclusivamente da ultra sessantenni. Cosa che ne fa un unicum nel mondo civilizzato. Senza fare paragoni esterofili, si pensi agli Stati Uniti dove il presidente della Corte Suprema, John Glover Roberts Jr., quando venne nominato aveva appena 50 anni, l’anomalia italiana è evidente. Il discorso dell’anzianità come criterio di scelta vale, a dire il vero, per tutta la Pubblica amministrazione. Nel comparto sicurezza e difesa, ad esempio, la scelta del comandante di Forza Armata ricade, tra i pari grado, sull’ufficiale più anziano. Il messaggio che passa in questi casi è che la nomina non sia strettamente connessa alle capacita professionali ma sia invece un “riconoscimento” a fine carriera per il servizio prestato. Il governo Renzi ha impedito – finalmente – che chi è in quiescenza nella pubblica amministrazione possa continuare a rimanere tranquillamente in servizio, svolgendo incarichi direttivi o non, con l’escamotage del richiamo o del trattenimento. C’è, però, in Italia una categoria – trasversale – di persone incapaci di staccarsi e di fermarsi, smaniose di tornare a recitare la loro parte nel teatro del mondo. Persone che faticano a comprendere quando giunge il momento di uscire di scena. Una nuova fase della vita da intendere non come una malinconica emarginazione ma come una gioia. A cui bisognerebbe pensare per tempo. E non la mattina dell’ultimo giorno di lavoro. Mi vengono, a questo punto, in mente le polemiche dei mesi scorsi suscitate dalla modifica Madia dell’età pensionabile dei magistrati da 75 a 70 anni. Vissuta come una dramma. La querelle sulla nomina del nuovo procuratore di Palermo, azzardo dunque una chiave di lettura diversa e più “terrena” rispetto a quella complottista dei seguaci della Trattativa, può essere anche il frutto di questo approccio individualistico. Per Lari è Lo Forte, diciamolo chiaramente, era l’ultima possibilità. Il treno è passato. Fra quattro anni, infatti, saranno già in pensione e non potranno più concorrere per il posto di procuratore a Palermo, per un magistrato del Sud il coronamento di una carriera, in caso Lo Voi – ci auguriamo di no per lui – non venisse confermato nell’incarico.

Verità e bugie sulla nomina di Lo Voi a procuratore di Palermo. Parla Massimo Bordin, scrive Edoardo Petti su “Formiche”. Nell’analizzare la nomina di Lo Voi alla guida dell’ufficio giudiziario di Palermo, il giornalista esperto di giustizia parla di sconfitta dei fautori del processo sulla “Trattativa”...Una scelta per molti versi sorprendente, che smentisce le previsioni e rompe tradizionali equilibri. Così può essere letta la nomina, compiuta dal Consiglio superiore della magistratura, di Francesco Lo Voi alla guida della Procura di Palermo. Con 13 voti, il rappresentante italiano in Eurojust è stato preferito al procuratore capo di Caltanissetta Sergio Lari, che ha ricevuto 7 consensi, e al suo omologo di Messina Guido Lo Forte che ne ha ottenuti 5. A creare scalpore è la ripartizione delle adesioni espresse dai componenti di Palazzo dei Marescialli. A favore di Lari e Lo Forte si sono espressi rispettivamente i gruppi togati di Area-Magistratura democratica e Unità per la Costituzione. Le due correnti più rappresentative della magistratura associata hanno mantenuto una posizione intransigente senza riuscire ad allargare il consenso sui propri candidati. Così si è creato il terreno propizio per un esito inedito. Attorno alla figura proposta della corrente togata minoritaria e conservatrice di Magistratura indipendente si sono schierati in modo compatto tutti i consiglieri laici, designati dal Parlamento. Comprese le personalità individuate dal Partito democratico. Per capire i risvolti di una scelta destinata a incidere sull’organo di auto-governo dei giudici e sull’attività di un dei più delicati uffici giudiziari del nostro paese, Formiche.net si è rivolta a Massimo Bordin, giornalista e voce storica di Radio Radicale soprattutto per la rassegna informativa del mattino “Stampa e Regime", oltre che acuto osservatore del pianeta giustizia. Consapevole che nella storia del CSM vi sono state decisioni poco felici a partire dalla bocciatura di Giovanni Falcone al ruolo di capo dell'Ufficio Istruzione di Palermo nel gennaioo 1988, la firma del Foglio e di Panorama evidenzia un paradosso: “La nomina di Lo Voi è stata vista dai settori della stampa vicini alle tesi dei pubblici ministeri protagonisti dell’indagine sulla presunta trattativa Stato-mafia come la cartina di tornasole di un giudizio sul processo in corso nel capoluogo siciliano”. A suo parere si tratta di un’aberrazione. Perché, osserva Bordin, il Consiglio superiore della magistratura non può duplicare una corte giudicante: “E chiunque venga designato procuratore capo può influire ben poco sulle udienze e sulle strategie portate avanti dai pm in aula”. Il giornalista spiega che i fautori dell’impianto accusatorio del processo sul “negoziato tra apparati istituzionali e boss di Cosa nostra” hanno indicato uno dei candidati alla guida della Procura come l’uomo giusto: “Affermando che una scelta contraria avrebbe sconfessato l’iniziativa della magistratura di Palermo”. Ma nessuno dei tre, ricorda l’ex direttore di Radio Radicale, ha esercitato un ruolo nel processo sulla “Trattativa”. “Tanto meno Lo Forte, che nel corso di una lunga esperienza negli uffici giudiziari della città siciliana ha rivestito funzioni di rilievo in più di una stagione. E con procuratori diversi. Fin dai tempi di Gaetano Costa, passando per Pietro Giammanco protagonista di un aspro conflitto con Paolo Borsellino, fino a Gian Carlo Caselli. È difficile dire pertanto che Lo Forte presenti una forte caratterizzazione di ‘politica giudiziaria’”. Riguardo alle capacità dei tre magistrati, Bordin rimarca come neanche Marco Travaglio abbia avanzato obiezioni. E rileva che Lo Voi ha condotto processi per mafia, mentre a Eurojust ha lavorato sulle connessioni internazionali delle organizzazioni criminali. Ai suoi occhi l’elemento chiave per la nomina va individuato nel peso delle correnti interne al Consiglio superiore: “Il criterio dei rapporti di forza tra le varie componenti della magistratura associata resta dominante. Chi è fuori dalle correnti non ha mai ricevuto un buon trattamento a Palazzo dei Marescialli, come rivela la vicenda Falcone”. Il loro ruolo rimane cruciale nella vita delle toghe. E non è stato scalfito dal preannuncio di cambiamento del meccanismo di elezione del CSM, fatto dal governo a fine agosto in occasione della presentazione delle linee-guida di riforma del pianeta giustizia. Mutamento che finora non ha trovato riscontro in un progetto di legge. Nella riunione di Palazzo dei Marescialli, però, i membri scelti dal Parlamento hanno tutti votato a favore di Lo Voi: “È un tema rilevante, che provocherà polemiche sulla presunta volontà della politica nel boicottare Lo Forte. Alcuni arriveranno a parlare di ennesimo frutto del Patto del Nazareno. Ma inviterei a riflettere sul fatto che i consiglieri ‘laici’ sono espressione dei partiti fino a un certo punto. E possono compiere scelte autonome. Anche sul senso del processo relativo alla ‘Trattativa’”. Ciò che è accaduto tra le mura del CSM, precisa il giornalista, costituisce l’ennesimo insuccesso della difesa teorica di quel processo: “È sufficiente leggere le sconfessioni provenienti da personalità progressiste come Giovanni Pellegrino, Marcelle Padovani, Giovanni Fiandaca, Salvatore Lupo. Un’altra battaglia persa, e fatta perdere all’incolpevole Lo Forte”.

Quando i magistrati prendevano ordini dalla P2…scrive Ilario Ammendolia su “Il Garantista”. Non so se in Italia vi sia più corruzione rispetto al passato ma certamente lo scandalo “mafia capitale” non è lontanamente comparabile con quello della Banca di Roma. Carminati non è Giolitti e Buzzi non è Crispi. L’effetto però è stato completamente diverso. In quel caso dinanzi alle accuse del presidente del Banco di Roma Tanlongo che dal carcere aveva fatto i nomi di Giolitti e Crispi, una classe politica, certamente conservatrice, ma dotata di quello che la borghesia ha chiamato per decenni “senso dello Stato non indietreggiò ma si assunse tutte le responsabilità. Il primo ministro di Rudinì si presentò in parlamento arginando chi avrebbe voluto travolgere la classe politica per prenderne il posto e lo fece con fermezza in nome dei «supremi interessi del Paese e della Patria». Non si comportò diversamente Aldo Moro che, durante lo scandalo Lockheed, dinanzi al Parlamento riunito in seduta congiunta, invitò i parlamentari a guardare alla giustizia «non in senso tecnico-giuridico, ma politico, consapevoli che la valutazione dei fatti.. non riguarda una dichiarazione astratta di giustizia ma un’attuazione concreta di essa». Moro concluse il suo intervento con queste parole «…ci avete preannunciato il processo sulle piazze, vi diciamo che noi non ci faremo processare». Flaminio Piccoli da presidente del consiglio dei ministri, dinanzi all’arbitrario debordare di alcuni magistrati, non esitò ad ammonire «…l’Italia non si farà governare dai pretori». Era un corrotto Aldo Moro? Molti dicono sia stato l’unico statista del dopoguerra a parte De Gasperi. Certamente la statura dello statista la ebbe Antonio Giolitti mentre nessuno dubita dell’onestà di Flaminio Piccoli. C’è un antico detto che predice che il giorno in cui il leone si metterà a belare, gli sciacalli prenderanno il suo posto. Quando si pretende di avere un ruolo dirigente senza essere eletti dal popolo, la democrazia reclina il capo, aprendo le porte all’avventura. Basterebbe riflettere sugli scandali falsi costruiti con la complicità di alcuni magistrati per capire cosa diventerebbe l’Italia qualora non si mettesse un argine alla deriva giustizialista. Cito solo due esempi: Felice Ippolito era uno scienziato autorevole quanto onesto ma venne arrestato con grande clamore sui giornali ed in televisione. Era completamente innocente. Lo scandalo è stato ordito dai petrolieri, per impedire l’uso, su vasta scala, dell’energia nucleare in Italia. La procura fu l’arma per fermarlo. Si può discutere nel merito dell’uso dell’energia nucleare, ma certamente quell’arresto è la dimostrazione di cosa sarebbe l’Italia «governata dai pretori». Non meno grave è il falso scandalo della Banca d’Italia che coinvolse il governatore Baffi ed il suo vice Sarcinelli. A Baffi venne risparmiato l’onta della galera per l’età avanzata mentre Mario Sarcinelli, studioso di chiara fama, venne arrestato e tenuto in carcere. Si scoprì in seguito che la magistratura romana aveva concepito gli arresti su stimoli della P2 indispettita dai controlli che la Banca d’Italia aveva operato su alcuni istituti di credito. Potremmo continuare per così tante pagine da fare un enciclopedia ! Ovviamente, non accuso i magistrati in quanto tali proprio perché sono assolutamente consapevole che non sono né peggiori, né migliori degli altri cittadini. Dinanzi alla corruzione, che deve essere combattuta e sconfitta, una Politica degna di questo nome non balbetta, non piagnucola, non impreca e soprattutto non tenta di gabbare i gonzi, elevando le pene. Con queste misure la corruzione non diminuirà di un solo milionesimo. Conoscete meglio di me le inutili “grida” contro i bravi di cui Manzoni parla nei Promessi Sposi. La corruzione è figlia di questo sistema ammalato dove il 5% della popolazione possiede il 50% della ricchezza. Un sistema in cui il privilegio e le caste calpestano quotidianamente il bisogno. Combattere la corruzione significa mettere in campo un grande progetto politico capace di riaccendere passioni e speranze collettive. Non ha senso essere complici di chi trova comodo mettere l’aureola sulla testa di singoli personaggi filtrati dai media e farne dei numi tutelari e per eludere i problemi reali da cui scaturisce la corruzione. Il caso dell’ex pm Antonio Di Pietro è da manuale ma non è il solo. Il dottor Nicola Gratteri è arrivato a due passi dalla nomina a ministro della Giustizia, l’onorevole Nitto Palma ha tagliato il traguardo, mentre il dottor Pietro Grasso, con un solo salto, è stato “eletto” alla seconda carica dello Stato. Un magistrato al pari di tutti i cittadini può essere eletto a qualsiasi incarico politico senza però, saltare a piè pari la fatica, le umiliazioni, le ansie di chi ha fatto politica tra la gente , si è nutrito delle loro speranze, ha respirato le loro frustrazioni ed i loro bisogni. Le scorciatoie stanno portando verso avventure autoritarie e contro queste occorre resistere con coraggio qualsiasi sarà il prezzo da pagare.

Palermo-Agrigento, viadotto crolla in una settimana. Renzi: "Il responsabile pagherà". L'inaugurazione il 23 dicembre, a Capodanno metà carreggiata sprofondata: la statale interrotta per un chilometro. Il premier:: "Ho chiesto conto all'Anas". Il ministro Lupi accusa "chi ha costruito l'opera, chi non ha controllato e chi ha dato via libera alle auto". Inchiesta per crollo colposo. Scrive Mario Pintagora su “la Repubblica”. "Il viadotto Scorciavacche 2, sulla Palermo-Agrigento, inaugurato lo scorso 23 dicembre e costato 13 milioni, è crollato. Solo per una fortunata coincidenza non si è fatto male nessuno, ma questo non cambia di una virgola le colpe dei colpevoli. Ho chiesto ad Anas il nome del responsabile: è finito il tempo degli errori che non hanno mai un padre. Pagheranno tutto". Lo scrive su Facebook il premier Matteo Renzi, in merito al crollo della variante "Scorciavacche", un nuovo tratto di un chilometro della strada statale 121 nell'ambito dei lavori di ammodernamento dell'itinerario Palermo-Lercara Friddi. L'annuncio del giro di vite segue di pochi minuti un analogo messaggio lanciato sempre dal premier su Twitter: "Viadotto Scorciavacche, Palermo. Inaugurato il 23 dicembre, crolla in 10 giorni. Ho chiesto a Anas il nome del responsabile. Pagherà tutto. #finitalafesta". Interviene anche il ministro dei Trasporti Maurizio Lupi. Per lui "il crollo del viadotto sulla Palermo-Agrigento, è un fatto inaudito e inaccettabile. Ho immediatamente chiesto all'Anas - dice Lupi - una relazione dettagliata sull'appalto, sui lavori e anche sulla commissione di collaudo". Prosegue il ministro dei Trasporti: "C'è chi l'ha costruito male, chi non ha controllato che i lavori fossero fatti a dovere e chi ha dato il via libera alla circolazione". Ora "ogni negligenza p irresponsabilità in tutto questo non verrà assolutamente giustificata". È il viadotto "Scorciavacche 2", sulla Palermo-Agrigento, quello venuto giù provocando l'ira del premier e del suo collega di governo. Come scritto stamattina da Repubblica nell'edizione siciliana, metà della carreggiata è sprofondata e la restante parte presenta una profonda spaccatura. Per fortuna nessun mezzo transitava quando è avvenuto il collasso del selciato. E' scattata la chiusura al traffico della statale 121 "Catanese", nel tratto compreso tra il chilometro 226 e il chilometro 227, nei pressi di Mezzojuso. Le auto vengono deviate sulla strada provinciale 55. L'Anas ha subito contestato al contraente generale cui è affidata l'esecuzione dell'opera il difetto di esecuzione, disponendo l'installazione di un sistema di monitoraggio di tutte le strutture su cui si regge la strada e ordinando il ripristino della carreggiata nel più breve tempo possibile. I lavori sono stati realizzati dalla Bolognetta Scpa, un raggruppamento di imprese tra Cmc di Ravenna, Tecnis e Ccc. La Tecnis è l'azienda che dovrebbe costruire, fra l'altro, l'anello ferroviario di Palermo. Alla guida del contraente generale il capo progetto Pierfrancesco Paglini, coadiuvato da Davide Tironi, dal direttore tecnico Giuseppe Buzzanca e da una squadra di professionisti. Dal canto suo l'Anas precisa che il cedimento non ha riguardato il viadotto ma il "tratto di rilevato di accesso all'opera". "Il 30 dicembre - si legge in una nota - il personale tecnico Anas intervenuto sul posto, avendo accertato un avvallamento del piano stradale, decise di procedere in via cautelativa e preventiva alla chiusura della strada tra il km 226,040 e il km 227,040, in località Mezzojuso, in provincia di Palermo, ripristinando la deviazione sulla SP 55 bis". "Nel pomeriggio del 30 dicembre, sulla base di quanto accertato dai tecnici della società  -  ha dichiarato il Presidente dell'Anas, Pietro Ciucci - e tenuto conto del possibile evolversi del movimento del corpo stradale che avrebbe potuto determinare il collasso del rilevato, ho immediatamente disposto la chiusura preventiva e cautelare della variante. Ciò ha evitato ogni eventuale rischio per gli utenti." L'Anas ha aperto un'inchiesta per accertare le eventuali responsabilità della ditta costruttrice e del direttore dei lavori, che aveva autorizzato l'agibilità provvisoria, "riservandosi di avviare nei loro confronti un'azione legale". Nei giorni successivi al cedimento del piano viabile sostiene l'Anas, la ditta si è attivata con i primi interventi di ripristino, visto che la messa in sicurezza era stata già eseguita nei giorni precedenti al manifestarsi del cedimento. Tutti gli interventi di ripristino sono a carico della ditta costruttrice, senza alcun onere per l'Anas. Arriva anche la replica della ditta costruttrice: "Si è verificato un cedimento del corpo stradale in rilevato, per una tratta di circa 40-50 metri, che ha indotto il Contraente Generale a riportare il 29 dicembre scorso il traffico sulla SP 55, anch’essa attualmente strada di cantiere ed oggetto di lavori in corso di esecuzione. Il cedimento della sovrastruttura stradale è riconducibile ad un cedimento del terreno di fondazione del corpo stradale con innesco di uno scivolamento verso valle di parte del rilevato, si tratta quindi di movimento di roto-traslazione. Nessuno dei sopracitati fenomeni, cedimento in fondazione e scivolamento verso valle, interessa le nuove opere costituite dai viadotti “Scorciavacche1” e “Scorciavacche2”. La procura di Termini ha sequestrato l'area e ha aperto un'inchiesta per crollo colposo. Domani sarà affidata una consulenza tecnica per porre alcuni quesiti ai periti. Sulla vicenda interviene anche il leader della Lega Nord Matteo Salvini, anch'egli con un tweet: "Qualcuno dovrebbe pagare".  L'apertura della variante "Scorciavacche", costata all'Anas 13 milioni di euro, era avvenuta il 23 dicembre, in anticipo di tre mesi rispetto ai tempi previsti, con il pubblico plauso del presidente dell'Anas, Pietro Ciucci: "È un passo avanti importante verso la realizzazione dell'intero itinerario, che è strategico per l'intera Isola, perché costituisce l'unico collegamento diretto tra le province di Palermo e Agrigento".

Viadotto crollato, la magistratura sequestra gli atti. Il procuratore di Termini Imerese Alfredo Morvillo dispone la requisizione degli atti relativi all'appalto. In corso le prime verifiche tecniche, continua “la Repubblica”. La procura di Termini Imerese, che coordina l'inchiesta sul crollo del viadotto Scorciavacche, sulla Statale Palermo-Agrigento, avvenuto a pochi giorni dalla sua inaugurazione, disporrà oggi il sequestro "di tutta la documentazione relativa ai lavori". Lo annuncia il procuratore capo Alfredo Morvillo, che si occupa della vicenda in prima persona. "Quanto accaduto è un fatto molto grave - dice Morvillo - Adesso bisogna vedere cosa è successo, ma per ora possiamo fare solo ipotesi". Al premier Matteo Renzi, che ieri in un tweet ha chiesto il nome del responsabile, il procuratore Morvillo (fratello di Francesca Morvillo, morta con Giovanni Falcone nella strage di Capaci), dice: "Noi assicuriamo, come Autorità giudiziaria, che la nostra parte di competenza è già in movimento. Abbiamo già disposto il sequestro dell'area e oggi ci accingiamo a quelle attività di indagine indispensabili, dal punto di vista documentale, con il sequestro dei documenti sulla realizzazione dell'opera pubblica". E spiega: "Ci accingiamo al sequestro di tutta la documentazione e faremo degli accertamenti tecnici sul posto, con un collegio di esperti che nomineremo a breve". Era stato consegnato in anticipo di diversi mesi rispetto alla data prevista per il suo completamento, ma è crollato dopo appena una decina di giorni dall'apertura. Si tratta del viadotto Scorciavacche, lungo lo scorrimento Palermo-Agrigento, venuto giù a Capodanno all'altezza del comune di Mezzojuso ad una quarantina di chilometri dal capoluogo siciliano. Fortunatamente il cedimento non ha causato vittime né feriti, in una strada che ha già lasciato sull'asfalto negli anni molte vite, grazie al fatto che come sottolineato dall'Anas, l'area era già stata interdetta alle auto subito dopo i primi segnali di cedimento. Appena 6 mesi fa un altro crollo aveva riguardato la statale 626, in provincia di Agrigento, con quattro automobilisti che si salvarono miracolosamente dal cedimento della sopraelevata sulla quale stavano passando. Intanto, mentre il presidente del Consiglio Matteo Renzi, via Twitter chiede il nome del responsabile di quanto accaduto a Capodanno sulla Palermo-Agrigento, la procura di Termini Imerese ha aperto un'inchiesta. Fino a questo momento non ci sono iscritti nel registro degli indagati, ma i primi avvisi di garanzia potrebbero scattare già a breve. "Dobbiamo fare delle verifiche preliminari - dice ancora Morvillo - per eseguire degli accertamenti tecnici. Se si tratta di atti irripetibili allora, a garanzia delle persone interessate, dovranno scattare gli avvisi di garanzia. Se invece si tratta di attività tecniche suscettibili di essere ripetute, non abbiamo bisogno di fare scattare i meccanismi previsti per atti irripetibili. Quando si tratta di atti irrepetibili, la legge prevede che l'interessato deve essere garantito. Altrimenti non scattano i meccanismi e non abbiamo bisogno di iscrivere nessuno e notificare avvisi di garanzia". La procura indagherà in particolare sui materiali utilizzati dalle ditte che hanno lavorato al lotto 2A delle opere che riguardano 34 km di asfalto, da Bolognetta fino ai pressi di Palermo. Nel mirino dei magistrati sono le imprese che hanno eseguito i lavori. "Per ora stiamo facendo degli accertamenti preliminari di carattere tecnico, a partire dal sequestro dell'area dei lavori - dice ancora Morvillo all'Adnkronos - Ci siamo mossi subito e adesso dobbiamo individuare un collegio di periti a cui affidare l'incarico di verificare le cause di questo crollo, da un punto di vista geologico, ma anche i criteri costruttivi, al fine di individuare eventuali reati penali. Il primo passo è individuare il collegio di periti a cui affidare l'incarico. Bisogna accertare le cause del crollo, se sono cause naturali, nelle quali non si individua una responsabilità a carico di nessuno, e poi bisognerà vedere da un punto di amministrativo come è la situazione. Se ci sono cause addebitabili a comportamenti di negligenza, imperizia e imprudenza nascerà un procedimenti penale. Per noi è preliminare un accertamento tecnico. I tecnici ci devono dire perché questa strada è crollata, partiamo da lì. Dobbiamo acquisire tutta la documentazione relativa agli appalti e ai collaudi e a tutti gli aspetti che possono essere di rilievo in questa vicenda. Se c'è stato qualcuno che ha attestato che i lavori erano stati seguiti secondo i criteri previsti dal capitolato". Morvillo spiega ancora che "c'è da fare far una verifica documentale sia sul posto che una verifica tecnica. Il che avverrà, e questo lo possiamo assicurare, nel più breve tempo possibile. Il tempo materiale di sequestrare tutta la documentazione e individuare il collegio di periti all'altezza della situazione". Morvillo non sa ancora da chi sarà composto il collegio di tecnici esperti: "Intanto contatteremo l'Università per avere delle risposte rassicuranti. Dobbiamo vedere con l'Università e poi nell'ambito dei professionisti privati. Cercheremo di acquisire preliminarmente la notizia su quali sono le persone in grado di svolgere questo incarico e rispondere in maniera adeguata". Sembra che il viadotto non sia ancora neppure stato collaudato: "Fra le cose che dobbiamo acquisire c'è la documentazione e pure il collaudo, che come patrimonio conoscitivo è un momento importante, ci dice se l'opera è in grado di funzionare - spiega ancora Morvillo - La prima cosa che si va a guardare è il collaudo, per vedere se c'è qualcosa che non va. Dobbiamo muoverci sia dal punto di vista documentale che tecnico con sopralluoghi per fare accertamenti specifici per vedere se è stato lo smottamento del terreno e se la zona è stata studiata. Ci sono tanti aspetti che ci devono illustrare i tecnici. Intanto ci siamo messi subito al lavoro".

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io... 

Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.

(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)

Lasciatemi votare

con un salmone in mano

vi salverò il paese

io sono un norvegese…

MAFIA VECCHIA E NUOVA……

Mafia, il pentito Spatuzza: “Ho ucciso 40 persone, chiedo perdono”, scrive “La Stampa”. Durante un’udienza nel carcere di Milano: «Abbiamo fatto cose orribili». Ha ripercorso in aula la pianificazione di alcuni degli attentati compiuti da Cosa Nostra che insanguinarono l’Italia nei primi anni ’90, come la strage di via Palestro a Milano, le cui vittime furono «incidenti di percorso», chiedendo «perdono» per la «quarantina di omicidi» commessi come killer al servizio dei boss palermitani Filippo e Giuseppe Graviano. Il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza oggi è stato ascoltato in video collegamento dal carcere nel corso dell’udienza del processo a carico di Marcello Tutino, il presunto basista della strage di via Palestro del 27 luglio 1993, in cui morirono cinque persone e altre 12 rimasero ferite per l’esplosione di un’autobomba davanti al Padiglione di arte contemporanea di Milano. «Abbiamo fatto cose orribili - ha spiegato Spatuzza, citato come teste dal pm milanese Paolo Storari - accusare Marcello Tutino è doloroso ma per me è un onore essere qui a testimoniare». Rispondendo a una domanda del giudice Guido Piffer, presidente della prima Corte d’Assise di Milano, sui motivi della sua decisione di diventare un pentito, Spatuzza ha spiegato di aver deciso di collaborare «per fare giustizia». «Ora quando vado a letto mi sento onesto e in pace perché tutto quello che posso fare per la legge lo sto facendo - ha aggiunto - poi mi metto nelle mani di Dio. Ho partecipato a cose mostruose e abbiamo venduto l’anima a Satana, mi sto liberando del male che portavo dentro». Il testimone ha spiegato quindi che continuerà sempre a «chiedere perdono» per le vittime delle stragi di mafia tra cui «due piccoli angeli», le sorelline Nencioni, morte nell’attentato di via dei Georgofili a Firenze. Secondo quanto ha riferito Spatuzza, le vittime della strage di via Palestro furono quindi «incidenti di percorso» perché «l’obiettivo erano i monumenti, non le vite». Il killer, principale accusatore di Tutino, rispondendo alle domande del pm ha ricostruito la progettazione delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, e dell’attentato di via Fauro a Roma contro il presentatore Maurizio Costanzo, che «aveva preso posizione contro Cosa Nostra». Si è soffermato anche sulla pianificazione del fallito attentato dinamitardo allo Stadio Olimpico di Roma del 23 gennaio 1994. «Abbiamo mescolato all’esplosivo tondini di ferro - ha raccontato Spatuzza - perché ci hanno detto che avremmo dovuto fare più male possibile. La direttiva era quella di uccidere oltre 100 carabinieri». Spatuzza ha poi confermato le sue dichiarazioni sul ruolo che i fratelli Vittorio e Marcello Tutino avrebbero svolto nella strage di via Palestro. «Siamo cresciuti insieme - ha raccontato -, cristianamente li considero ancora miei fratelli, con cui ho condiviso delle scelte sbagliate». Stando alla ricostruzione di Spatuzza, Marcello Tutino, imputato per strage, sarebbe stato scelto come basista «perché conosceva Milano». Avrebbe avuto così la possibilità di «riabilitarsi» di fronte a Cosa Nostra dopo che aveva fatto sparire un carico di sigarette a Palermo intascandosi i soldi.  L’uomo, dopo essere andato in Stazione Centrale a prendere Spatuzza (poi rientrato a Roma e non presente alla strage), avrebbe rubato in zona Bovisa la Fiat Uno saltata in aria alle 23 di quel giorno. A guidare l’auto fino a via Palestro e a innescare l’esplosione sarebbe stato il fratello dell’imputato, Vittorio. «Doveva accendere la miccia ma aveva paura di fallire perché era la prima volta che lo faceva - ha concluso -, così abbiamo lasciato una miccia più lunga per dargli il tempo di allontanarsi».

Vi dico chi sono i nuovi boss". Il primo verbale del pentito Zarcone, scrive Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia”. Il primo verbale dell'ex capomafia di Bagheria, Antonino Zarcone, è datato 29 settembre 2014. Parla di pizzo, armi, summit e dell'asse con i boss palermitani. Pizzo, armi, summit e contatti costanti con i boss palermitani. Il primo verbale di Antonino Zarcone è datato 29 settembre. La sua collaborazione con la giustizia è iniziata una manciata di giorni fa. Diciotto pagine, per lo più omissate, dalle quali emerge con chiarezza lo spessore del collaboratore di giustizia di Bagheria. Le sue dichiarazioni confermano che anche la Cosa nostra palermitana ne sarà travolta. Il capomafia vuota il sacco perché, dice, vuole un futuro diverso, per se stesso e per chi gli sta vicino. Vuole liberarsi del peso che porta dentro. Il suo racconto comincia con la conferma di avere avuto “un ruolo direttivo nel mandamento di Bagheria nel 2011”. Nella popolosa cittadina alle porte di Palermo comandava un triumvirato: “La co-reggenza fra me, Messicati Vitale Antonio e Di Salvo Giacinto consisteva in una divisione di ruoli”. Il suo era particolarmente delicato: “Io ero incaricato dei rapporti con i palermitani, Messicati Vitale si occupava dei contatti con i mandamenti fuori Palermo (Misilmeri etc) e Di Salvo delle estorsioni e dei lavori all'interno della famiglia di Bagheria. Il vero capo, però, era Nicola Greco che si relazionava con Di Salvo Giacinto”. Le citazioni, dunque, confermerebbero il ruolo apicale che i carabinieri del Nucleo investigativo di Palermo hanno attribuito a ciascuno dei personaggi tirati in ballo da Zarcone. Sono tutti in carcere, tranne Messicati Vitale, tornato libero per decorrenza dei termini di custodia cautelare dopo essere stato arrestato a Bali. Zarcone fa alcuni cenni sulle estorsioni subite da due imprenditori edili: “Io autorizzai Pietro Liga a portare avanti la richiesta estorsiva ma poi, non avendo notizie, chiesi a Daniele Lauria informazioni e appresi che l'imprenditore era nelle sue mani e che aveva già pagato il pizzo a Pietro Liga”. E qui spunta il primo contatto con la mafia palermitana, visto che Lauria viene considerato affiliato alla famiglia di Palermo Centro, mandamento di Porta Nuova. Pizzo e tragedie. Perché “Liga negò l'attività estorsiva, camuffandola con un prestito personale. Riferì allora a Lauria che l'imprenditore non era a posto e questi chiuse l'estorsione, tramite Paolo Suleman, a 4 mila euro all'anno. Suleman, però, non portò il denaro e successivamente tramite Michele Armanno si ottennero 4000 mila euro per la messa a posto. Ancora dopo la responsabilità della messa posto transitò nelle mani di Franco Lombardo”. Ed ecco altri due nomi pesanti della mafia palermitana: Armanno è considerato il capo mandamento di Pagliarelli, ai cui ordini rispondeva lo stesso Suleman, indicato al vertice della famiglia di corso Calatafimi. La seconda estorsione di cui parla Zarcone “fu chiusa con 30 mila euro per la messa a posto e 8 mila euro di mediazione per Vincenzo Urso. I soldi mi furono recapitati in più tranches, prima 8 mila euro, poi dieci mila, successivamente altri dieci mila. I soldi della messa a posto confluirono nella cassa di Bagheria e furono utilizzati per il mantenimento dei familiari di Pino Scaduto, all'epoca detenuto”. Con Scaduto, un tempo capomafia di Bagheria, si apre l'elenco di personaggi sui quali Zarcone risponde in maniera secca. Una girandola di nomi:“Salvatore Giuseppe Bruno era vicino a Sergio Flamia (anche lui oggi è un collaboratore di giustizia ndr) ed era a sua disposizione anche se con lui non ha avuto rapporti diretti. Bruno si occupava di sale giochi e gli interessi in tale settore erano curati da Flamia”; “Cirrincione Michele è interno a Cosa nostra, famiglia di Villabate, a disposizione di Lauricella Salvatore, nel settore delle estorsioni”; “Gagliano Vincenzo era vicino a Sergio Flamia e il Flamia era solito utilizzare il supermercato del Gagliano per incontri. Il Gagliano si metteva a disposizione anche con me per organizzare appuntamenti sia miei che di Di Salvo”; “Girgenti Silvestro è un mio caro amico. Ho usufruito del suo locale per effettuare degli appuntamenti. Non ho mai incaricato Girgenti di commettere reati”; “Umberto Guagliardo è un ragazzo a disposizione di Franco Lombardo... nel settore dei furti, delle rapine, delle estorsioni”.; “Rosario La Mantia è un personaggio vicino a Cosa nostra già ai tempi di Pino Scaduto. È riuscito a ottenere, attraverso l'imposizione di Pino Scaduto e Pietro Granà, un lavoro in un cantiere. Ha gestito anche una parte in una vicenda estorsiva. Non ha avuto un ruolo formale in Cosa nostra anche sera vicino a molti elementi al vertice dell'organizzazione”; "Pietro Liga non è uomo d'onore anche se fa parte di Cosa nostra con compito di esattore del pizzo”; “Franco Lombardo fu affiliato da me, Gino Di Salvo e Tonino Messicati Vitale. Il suo padrino fu Gino Di Salvo”; “Su Driss Mozdahir riferisco che si occupava di furti e rapine ed era usato dalla famiglia mafiosa per controllare il territorio e comunicare i movimenti delle forze dell'ordine”; “Salvatore Lauricella è un uomo d'onore della famiglia di Villabate, molto legato a Messicati Vitale. Si occupava di estorsioni e fungeva da tramite per contati con uomini d'onore di Palermo”. Infine cita due personaggi, anche questi considerati legati al clan di Bagheria e già in cella. Dichiarazioni che aprono ulteriori spunti di riflessione. I mafiosi hanno continuato ad incontrarsi senza soluzione di continuità: “Vincenzo Graniti è a me molto vicino e l'ho utilizzato per accompagnarmi agli incontri di mafia in quanto non attenzionato dalle forze di polizia. Ho incaricato Graniti di custodire delle armi per mio conto, che questi ha poi riconsegnato a Sergio Flamia. Tali armi erano più che altro pistole (circa 10) che ho reperito per il tramite di Messicati Vitale Antonino e Pietro Lo Coco”. I boss bagheresi non solo si incontravano, ma erano pronti a sparare. E poi conferma che gli equilibri e le gerarchie dei clan mafiosi vengono decise dall'alto: “Di Salvo Giacinto, dopo l'arresto di Pino Scaduto, ha comunicato di essere stato incaricato di gestire la famiglia di Bagheria, coordinandosi con Giovanni Trapani di Ficarazzi. Con lui mi sono coordinato successivamente e Di Salvo ha sempre tenuto la cassa del mandamento”. Qualcuno, dunque, aveva deciso che Di Salvo doveva diventare il nuoco capo della famiglai di Bagheria.

La mafia in Sicilia, la nuova mappa: le famiglie, i clan, i mandamenti per Provincia, scrive Paolo Borrometi su “La Spia”. In attesa di “acciuffare” il super latitante Matteo Messina Denaro, il quadro che viene fuori della mafia in Sicilia è che la stessa sia “viva e vegeta” e vada combattuta, giorno per giorno. Anzi “la strategia silente che ha caratterizzato gli ultimi anni Cosa Nostra sembra finita. Bisogna dunque prepararsi a contrastare possibile derive di scontro”. È la Direzione investigativa antimafia a sottolinearlo nella relazione al Parlamento. La Direzione investigativa antimafia rileva “segnali che, sembrano propendere verso derive di scontro ancora da decifrare”. La mafia trasforma gli assetti e ”appare protesa a recuperare il proprio predominio sul territorio”. Centinaia di clan e famiglie mafiose sparse lungo il territorio nazionale si spartiscono la grande torta dei più pericolosi affari illeciti: lucrano sugli appalti pubblici, organizzano traffici di stupefacenti, incassano tangenti da commercianti e imprenditori intimiditi o minacciati. La grande criminalità organizzata (sia essa Cosa Nostra‘ndrangheta o camorra) continua a macinare enormi profitti a discapito di crescita, sviluppo e libertà individuali. Servendosi talvolta anche delle infiltrazioni nella pubblica amministrazione.

La mappa delle “famiglie” e dei clan per singola provincia

PALERMO – Per quanto riguarda la “Provincia delle Province”, la Dia afferma che «Cosa Nostra è tuttora alla ricerca di nuovi equilibri e appare protesa a recuperare il predominio sul territorio». In questo senso si rivela che «a fronte del basso profilo adottato da tempo per eludere l’attenzione investigativa» si sta verificando ora «un innalzamento del livello di ‘sfida’» anche «attraverso ripetuti atti intimidatori e minacce nei confronti di esponenti della magistratura siciliana e delle istituzioni locali, nonché di rappresentanti di organizzazioni pubbliche e private impegnati, a vario titolo, nella lotta antimafia». Nella provincia di Palermo il territorio continua ad essere suddiviso in 15 mandamenti, 8 dei quali in città, e 80 famiglie, di cui 34 in centro. A Palermo risulta, nell’ultimo periodo, che le famiglie, anche di diversi mandamenti, abbiano abbandonato le proprie rivalità, sull’altare degli interessi comuni. La città di Palermo rappresenta il centro di smistamento e di rifornimento per l’intera regione. Per la Direzione Investigativa Antimafia, la necessità di Cosa Nostra di proiettarsi fuori regione ha indotto l’intera organizzazione a concorrere con altri gruppi criminali, come la ‘ndrangheta, camorra o Sacra corona unita per trovare appoggi fondamentali. Al primo posto, per guadagni “facili”, rimane il traffico di droga ma l’attività estorsiva è sempre molto praticata in provincia.

AGRIGENTO –Cosa Nostra agrigentina conserva un ruolo importantissimo nella gerarchia siciliana anche in virtù dei consolidati rapporti  con le famiglie mafiose presenti all’estero, come il ramo canadese della famiglia Rizzuto. La ripartizione in mandamenti e famiglie di fine 2013 rispecchia quella già emersa nel primo semestre dello stesso anno.

TRAPANI – Il “regno” del boss Matteo Messina Denaro. Secondo la Dia a Trapani Cosa Nostra mantiene un assetto stabile, confermando la struttura verticistica con impostazioni strategiche unitarie e una suddivisione del territorio in 4 mandamenti, di cui fanno parte 17 famiglie. Settori d’interesse di Cosa Nostra trapanese sono in particolare il traffico di stupefacenti e di armi, l’infiltrazione nel sistema degli appalti pubblici, la grande distribuzione agroalimentare, gli insediamenti turistico-alberghieri e le energie alternative.

CALTANISSETTA – Nell’area Nissena si continua a registrare la connivenza tra Cosa Nostra e la Stidda. I gruppi criminali mafiosi si distribuiscono in 4 mandamenti. Le principali fonti di approviggionamento sono le estorsioni e l’usura, ma persistono lo spaccio ed il traffico di sostanze stupefacenti attraverso personaggi e canali attivi in altri territori.

ENNA – Enna, secondo il rapporto della Dia, non ha “personaggi carismatici in libertà”, così “si continua a sentire l’influsso di gruppi mafiosi di altre province, soprattutto catanesi e nisseni, che da sempre, colmano il vuoto di potere nel capoluogo.

CATANIA –Catania città e provincia è, probabilmente, fra le situazioni più complesse. La realtà si registra come poliedrica, per l’elevato grado di instabilità che caratterizza la maggior parte dei gruppi mafiosi, in particolare nel capoluogo. I sodalizi criminali in sostanza si mostrano restii ad accettare un inquadramento gerarchico. La mappa dei clan continua ad essere la medesima. Da una parte ci sono il clan Santapaola-ErcolanoMazzeo e Laudani, dall’altra il clan Cappello-Bonaccorsi, che controlla in linea di massima, i reduci dei clan Sciuto, Pillera e Cursoti.

SIRACUSA – A Siracusa, così come riferito in precedenza per Enna, Cosa Nostra risente dell’influenza dei clan di altre province, in particolare quella esercitata da potenti referenti dell’organizzazione criminale catanese. La recente scoperta di armi nella disponibilità dei clan e recenti fatti di sangue, inoltre, lasciano ritenere che i rapporti tra i gruppi mafiosi possa degenerare verso una manifesta belligeranza.

RAGUSA – “Nello scenario criminale – si legge nella relazione della Direzione Nazionale Antimafia – Vittoria costituisce un territorio sul quale si misurano famiglie di diverso spessore criminale, quali promanazioni dei clan di Catania e Caltanissetta. È stata confermata la piena operatività del clan PISCOPO, protagonista di sistematiche estorsioni in danno degli imprenditori agricoli, costretti a subire una illecita concorrenza e un’abusiva attività di vigilanza”. E poi ancora: “Forti sono gli influssi criminali – si legge – esercitati dai sodalizi nisseni, con particolare riguardo a quelli della vicina Gela. Le organizzazioni delinquenziali della città sarebbero riuscite a conservare un alto grado di autonomia operativa”. Poi si parla delle estorsioni. “Il fenomeno estortivo colpisce le attività commerciali e prevalentemente le aziende agricole, settore economico trainante insieme a quello della pastorizia”.

MESSINA – In ultimo troviamo  il territorio di Messina che, come nel caso di Enna e Siracusa, subisce l’influenza sia dei gruppi mafiosi di Palermo che di Catania. Messina, però, vive una doppia presenza mafiosa, per la vicinanza alla Calabria che genera l’influsso della ‘ndrangheta, che si manifesta, in particolare nell’aggregato urbano del capoluogo, attraverso la gestione di attività illecite e l’infiltrazione in quelle lecite. In questo caso i maggiori proventi dei gruppi criminali provengono da estorsioni e infiltrazione negli appalti, nonché dalla gestione degli stupefacenti.

Il generale Mori dovrà ricominciare ad aspettare giustizia. Il nuovo papello si chiama “protocollo farfalla”, scrive Emanuele Boffi su “Tempi”. Quando partecipò all’incontro di Tempi, l’ex capo dei servizi segreti l’aveva detto: «Il più grave errore della mia vita è stato arrestare Riina. E questo non mi è mai stato perdonato perché è dal ’94 che sono sotto processo, mediatico e giudiziario». Nel settembre 2012 il generale Mario Mori partecipò a un incontro organizzato da Tempi, “Aspettando giustizia”. E la giustizia arrivò nel luglio 2013 quando la IV sezione penale del tribunale di Palermo assolse lui e il colonnello Mauro Obinu dall’accusa di favoreggiamento aggravato alla mafia, per aver impedito la cattura del boss di Cosa nostra Bernardo Provenzano a Mezzojuso nel 1995. Con quell’assoluzione si concluse un processo durato cinque anni e cento udienze, la maggior parte delle quali Mori visse in aula. Da “servitore dello Stato”, quale si è sempre definito, l’ex capo dei nostri servizi segreti ha sempre sentito come proprio dovere essere presente in tribunale. Rare, invece, sono state le sue apparizioni in tv e sui giornali. In quei cinque anni non ha fatto il giro delle sette chiese dei talk show politici, ha centellinato le sue interviste, ha evitato le apparizioni in pubblico. Quando lo fece – come nel caso dell’incontro di Tempi – intervenne sempre in modo pacato, poggiando le sue parole su dati di fatto, non su “ricostruzioni”. Fu in quella occasione che, con amara ironia, Mori disse: «Io ho fatto tanti errori nella mia vita, ma quello più grande l’ho commesso quando un giorno i militari da me diretti hanno arrestato Totò Riina. E questo non mi è mai stato perdonato perché è dal 1994 che io sono sotto processo, mediatico e giudiziario. Scatenando l’ira dei miei avvocati ho rifiutato la prescrizione perché io non mi voglio difendere dal processo, ma nel processo e come uomo delle istituzioni non voglio rifiutare questa giustizia, anche se a volte è malagiustizia». Ora l’ex capo del Sisde dovrà ricominciare ad “aspettare giustizia”. Il procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, ha chiesto di riaprire la fase dibattimentale avendo raccolto nuovi elementi probatori a carico degli ex alti ufficiali. La nuova suggestione riguarda il cosiddetto “protocollo farfalla”, un accordo segreto stipulato nel 2003-04 tra gli uomini dei servizi segreti e il Dap (Dipartimento di amministrazione penitenziaria) per gestire le informazioni rilasciate dai mafiosi detenuti in regime di 41 bis. In cambio di queste, fa intendere la procura, sarebbero stati fatti favori e rilasciate somme di denaro ai padrini. Da parte sua, il generale non ha commentato la nuova mossa della procura, mantenendo lo stile che fino ad ora ha contraddistinto la sua condotta processuale: «Ho grande rispetto per lo Stato e le sue istituzioni – ha detto –. A differenza di altri non voglio dare spettacolo, mi difenderò nelle aule di tribunale». Si vedrà. E si vedrà quanto ancora dovrà aspettare il generale per “avere giustizia”. Intanto, però, ha ricominciato a suonare la banda che conosciamo e così il nuovo papello, il “protocollo farfalla”, è diventato il centro gravitazionale attorno cui far ruotare tutti i misteri italiani. Ovviamente c’entrano i servizi segreti deviati, la massoneria, la P2, la trattativa Stato-Mafia, le stragi del ’92-’93 e scusateci se abbiamo dimenticato qualcosa. Secondo Scarpinato, Mori avrebbe «sistematicamente disatteso» i suoi «doveri istituzionali» e cioè di informare la magistratura delle sue mosse. È proprio il motivo che disse Mori nell’incontro di Tempi e che qui volgarizziamo: poiché ho arrestato io Riina e non loro, ora me la fanno pagare. E aggiungiamo: forse il generale aveva anche le sue buone ragioni per portare avanti certe iniziative all’oscuro di tutti. Non era forse il capo dei servizi “segreti”? Non era stata forse una fuga di notizie a impedirgli la cattura del superlatitante Matteo Messina Denaro? Ma c’è ancora qualcosa da aggiungere. In aula, Scarpinato ha ripercorso la carriera di Mori a partire dagli anni Settanta. Dico: dagli anni Settanta. Come hanno detto i legali di Mori dopo la richiesta del pg: «È un tentativo di rivisitare la storia d’Italia». L’ennesimo tentativo che, in nome della “trasparenza” («fare luce», dicono) vorrebbe che i servizi e il segreto di Stato, semplicemente, non siano più tali, ma sottoposti al «controllo di legalità» da parte di un giudice: l’unico, l’illuminato, a sapere cosa andava fatto in quella determinata situazione. E così, intorno alla “rivisitazione” della storia italiana germogliano copiosi conti in banca, carriere politiche, giudiziarie e persino cinematografiche di chi si proclama aedo e unico cantore di quella “riscrittura”. Ma bisogna sempre ricordare che il metodo più astuto per occultare qualcosa non è nasconderlo. Ma è lasciarlo sotto gli occhi di tutti, inondando la scena di una luce accecante.

Qui l'articolo riportato da "Menti Informatiche: Mori, Farfalla e il segreto di Berlusconi sulle carceri di Valeria Pacelli su “Il Fatto Quotidiano”. Mentre i magistrati non erano stati informati, ho ragione di pensare che sia stato ben informato il presidente del Consiglio dell’epo – ca, Silvio Berlusconi”. Pochi giorni fa, il vicepresidente della commissione Antimafia Claudio Fava aggiungeva un dettaglio su quella che lui stesso ha definito la “Gladio nelle carceri”, ossia l’accordo tra servizi (Sisde) e direzione delle carceri (Dap) per gestire le informazioni fornite da alcuni mafiosi. I nomi dei boss che hanno parlato con gli 007 sono finiti nel Protocollo Farfalla, che in realtà è stato trovato anni fa, nel 2006, durante una perquisizione al Sisde, disposta dai pm romani Maria Monteleone e Erminio Amelio che stavano indagano su Salvatore Leopardi, il magistrato di Palermo finito sotto inchiesta per aver rivelato le informazioni di un pentito al Sisde. Nell’ambito di questo processo vengono sentiti alcuni 007, proprio per capire il circuito delle informazioni, ed è in questa fase che forse si concentrano i sospetti del vice presidente della commissione Antimafia: perché a confermare il segreto di Stato, opposto da uno 007 che avrebbe potuto chiarire questo aspetto, è stato proprio il governo Berlusconi il 7 marzo 2011. PER CAPIRE QUESTA STORIA, bisogna fare un passo indietro, ripercorrere le fasi del processo a Leopardi (ancora in corso in primo grado) e ricostruire il contesto. Quando i pm romani trovano il protocollo Farfalla infatti è il 2006, anno di insediamento del II governo Prodi che resta in carica fino all’8 maggio 2008, quando ritorna Berlusconi. Con Prodi vengono rinnovati i vertici dei servizi segreti: al posto di Nicolò Pollari al Sismi viene chiamato l’ammiraglio Bruno Branciforte; mentre al Sisde lascia Mario Mori, direttore dal 2001, sostituito da Franco Gabrielli. Gli inquirenti di Piazzale Clodio indagavano dopo le rivelazioni di Antonio Cutolo, condannato all’ergastolo e detenuto nel carcere di Sulmona. Cutolo, detto Tonino ‘mulletta , sosteneva di avere dettagli per arrestare Edoardo Contini, considerato il vertice dell’omonimo clan camorristico, e di aver fornito alcune informazioni a due agenti della polizia penitenziaria che a loro volta avrebbero riferito al direttore del carcere abruzzese, all’epoca Giacinto Siciliano. Questi avrebbe informato il capo del servizio ispettivo del Dap di quegli anni, appunto Leopardi, che a sua volta riferì al Sisde. Questa “catena di Sant’Antonio” è costata a Leopardi e ad altri l’accusa di falsità ideologica e omessa denuncia di reato, ma il processo non è ancora conclusa. In fase dibattimentale, tra gli 007 convocati c’era il colonnello dell’Aisi (ex Sisde) Raffaele Del Sole, che non ha mai risposto ai magistrati, anche grazie a Berlusconi. Il 7 marzo 2011, infatti, l’ex premier ha confermato il segreto di Stato sulle informazioni che i magistrati volevano ottenere da Del Sole. Per i pm ciò incideva profondamente sulla possibilità di pervenire a una piena ricostruzione delle condotte contestate agli imputati, oltre violare l’ar – ticolo 39 comma 11 della legge 124 del 3 agosto 2007 (riforma dei servizi) che stabilisce che in “in nessun caso possono essere oggetto di segreto di stato notizie, documenti o cose relativi a fatti di terrorismo o eversivi dell’ordine costituzionale o a fatti costituenti i delitti di strage, associazione per delinquere e devastazione o saccheggio”. Principio già affermato dall’articolo 204 del codice di procedura penale. E nel caso del processo Leopardi si stava lavorando proprio su personaggi gravitanti negli ambienti camorristici. Il 24 novembre 2011, la VI sezione del tribunale di Roma chiude la questione e stabilisce che il giudizio poteva “proseguire a prescindere, almeno per ora, dalla legittimità del confermato segreto di Stato”. La scelta di non far testimoniare lo 007 potrebbe quindi porre un ulteriore ostacolo al chiarimento almeno di un aspetto di quelli che erano i rapporti tra i servizi e i pentiti e che trova conferma nel Protocollo Farfalla. DOPO AVERLO TROVATO, i pm hanno iniziato una serie di interrogatori. Sono stati sentiti sia Tinebra, all’epoca alla guida del Dap, sia Leopardi, che sono anche i due pm che chiesero l’archivia – zione, poi ottenuta, di Berlusconi e Marcello Dell’Utri come mandanti delle stragi. Tinebra, sentito dai pm, smentisce la circostanza e nega di sapere dell’accordo, mentre l’ex capo del Sisde Mario Mori avrebbe minimizzato spiegando che si trattava di un progetto per gestire le informazioni, che però non si era mai concretizzato. Dopo questi interrogatori, i magistrati romani presentano un ordine di esibizione al Dap ma di quel protocollo non c’è traccia. Così mandano a processo Leopardi e altri per una sola vicenda, e la faccenda si chiude senza il deposito delle carte del Sisde, compreso il Protocollo Farfalla. Fino a gennaio scorso quando il carteggio è stato mandato a Palermo, che ha ricevuto non solo l’accordo tra Sisde e Dap, ma anche gli interrogatori resi all’epoca, oggetto di una nuova indagine.

Il protocollo segreto di Mori. Il generale a processo e le accuse sul sistema «Farfalla» del Sisde «Soldi ai parenti di boss al 41 bis per ottenere informazioni», scrive Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera” Dalle carte del processo d’appello contro l’ex generale Mario Mori affiora uno dei segreti inseguiti più a lungo dalle indagini antimafia dell’ultimo decennio. Il cosiddetto Protocollo Farfalla, siglato dal Sisde e dalla Direzione delle carceri tra il 2003 e il 2004, quando Mori guidava il servizio segreto civile. Un patto per raccogliere informazioni a pagamento da detenuti di Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra, all’insaputa di investigatori e inquirenti. Che ora, per la Procura generale di Palermo, diventa una nuova prova a carico dell’imputato. Dopo una vita spesa nei reparti antiterrorismo e anticrimine di servizi segreti e Arma dei carabinieri, a 75 anni Mori sembra un imputato più imputato degli altri. Chiamato a rispondere per la presunta trattativa tra Stato e mafia, dopo l’assoluzione definitiva per la perquisizione mai fatta al covo di Riina nel 1993 e quella di primo grado per la mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995. Ieri, al processo d’appello per quell’episodio, la Procura generale rappresentata in aula dal capo Roberto Scarpinato e dal sostituto Luigi Patronaggio ha chiesto l’acquisizione di nuove prove a carico di Mori. Con l’obiettivo di dimostrare che anche quando era ufficiale di polizia giudiziaria «ha sempre mantenuto il modus operandi tipico di un appartenente a strutture segrete, perseguendo finalità occulte, e per tale motivo ha sistematicamente disatteso i doveri istituzionali di lealtà istituzionale, traendo in inganno i magistrati». Passato dal servizio segreto militare tra il 1972 e il 1975, quando i vertici del Sid furono coinvolti in trame golpiste e despistaggi, nel 2001 Mori assunse la direzione del Sisde, il servizio segreto civile. E in questa veste attivò il Protocollo Farfalla, operazione «per la gestione di soggetti di interesse investigativo» che secondo il pg Scarpinato aveva un «punto critico»: «La mancanza di un controllo di legalità da parte della magistratura, unico organismo preposto alla gestione dei collaboratori di giustizia secondo severe e garantiste disposizioni di legge». Alla fine di luglio il governo ha annunciato di aver tolto il segreto di Stato dal protocollo. Ai magistrati di Palermo è giunto dalla Procura di Roma, alla quale l’aveva consegnato il successore di Mori al Sisde, Franco Gabrielli. Un appunto del Servizio datato luglio 2004 dà conto di una «avviata attività di intelligence convenzionalmente denominata Farfalla, attraverso l’ingaggio di preindividualizzati detenuti». Da mesi gli agenti segreti avevano verificato una «disponibilità di massima» a fornire informazioni da un gruppo di reclusi al «41 bis», il regime di carcere duro, «a fronte di idoneo compenso da definire». L’elenco comprende una decina di nomi tra appartenenti alla mafia, alla ‘ndrangheta e alla camorra da cui attingere notizie. Con alcune particolarità: «esclusività e riservatezza del rapporto», nel senso che gli informatori non potevano parlare con altri, né altri dovevano sapere della loro collaborazione; «canalizzazione istituzionale delle risultanze informative a cura del Servizio», per cui solo il Sisde avrebbe deciso se e quando avvertire inquirenti e investigatori, e di che cosa; «gestione finanziaria a cura del Servizio», con pagamenti «in direzione di soggetti esterni individuati dagli stessi fiduciari». Familiari dei detenuti, presumibilmente. Tra i detenuti contattati ci sono quattro appartenenti a Cosa nostra. Tre dell’area palermitana: Cristoforo «Fifetto» Cannella, condannato all’ergastolo per la strage di via D’Amelio; Salvatore Rinella, della mafia di Caccamo, considerato vicino al boss Nino Giuffrè, braccio destro di Provenzano che in quel periodo stava collaborando con la magistratura; Vincenzo Buccafusca. E poi il catanese Giuseppe Di Giacomo, del clan Laudani. Tra i calabresi viene indicato Angelo Antonio Pelle, mentre per i campani ci sono Antonio Angelino e Massimo Clemente, più qualche altro. I risultati dei contatti non si conoscono, né quanto siano costati. Per gli uomini dei Servizi è tutto legittimo, mentre per i pm palermitani è un ulteriore prova dell’attività «opaca e occulta» di Mori. Il quale, secondo il testimone Angelo Venturi (ex uomo del Sid oggi 84enne, coinvolto e prosciolto nell’indagine sul golpe Borghese), «gli propose di aderire alla loggia P2 di Licio Gelli e fu allontanato dai Servizi perché intercettava abusivamente il telefono d’ufficio del suo superiore Maletti (iscritto alla P2, ndr )». Uno degli informatori di Mori era Gianfranco Ghiron, fratello dell’avvocato Giorgio, difensore dell’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino. Lo stesso Ghiron ha fornito un appunto del 1974, «nel quale si fa riferimento a Mori, indicato col criptonimo “dr. Amici”, per comunicazioni urgenti concernenti la fuga di Licio Gelli, indicato come “Gerli”». Lì si diceva che se l’allontanamento dall’Italia del Gran Maestro «danneggiava Mr. Vito» - probabilmente Miceli, l’ex capo del Sid, piduista, arrestato poco prima - «fate in modo di fermarlo, se è meglio che se ne va, lasciatelo partire». L’elenco delle nuove prove indicate da Scarpinato e Patronaggio è talmente lungo da sembrare già una requisitoria; Mori in aula ascolta e prende appunti, affiancato dagli avvocati Basilio Milio e Enzo Musco. «Quando toccherà a noi parleremo e replicheremo», si limita a commentare l’ex generale. Che ha rinunciato alla prescrizione del presunto reato, decorsa da tempo, con la volontà dichiarata di inseguire un’assoluzione piena.

Protocollo Farfalla, nuove accuse al gen. Mori. Il boss di Brancaccio Fifetto Cannella, Vincenzo Boccafusca, Salvatore Trinella. Sono alcuni dei pezzi grossi della mafia che rientrano negli accordi segreti del Protocollo Farfalla. Dopo il ritrovamento di qualche giorno fa, ecco la conferma: il pg Scarpinato chiede di acquisire agli atti il fantomatico documento nel processo d'appello contro Mori che avrebbe ottenuto informazioni da detenuti al 41 bis in cambio di denaro..., scrive “Affari Italiani”. Informazioni dai detenuti al 41 bis, in rapporto di "esclusività e riservatezza" e "a fronte di idoneo pagamento da definire": è il protocollo Farfalla, che per il pg del processo d'appello al generale Mori, assolto in primo grado, ne proverebbe l'attività "opaca e occulta" quando era capo del Sisde. Una decina i mafiosi "preindividuati" che dovevano riferire esclusivamente ai servizi dietro pagamento di denaro. Tra questi il boss di Brancaccio Fifetto Cannella, il padrino Vincenzo Boccafusca e Salvatore Trinella. E poi i camorristi Antonio Angelino e Massimo Clemente e lo 'ndraghetista Angelo Antonio Pelle. Mori, una lunga carriera nel Sismi prima e poi nei servizi civili, impegnato nel contrasto alla mafia è accusato di slealtà verso lo Stato. Il pg gli contesta di aver agito in modo "autonomo e segreto", tagliando fuori la magistratura "unico organismo preposto alla gestione dei collaboratori di giustizia". "La commissione nazionale Antimafia, da quando si è costituita, ha dedicato molte audizioni al tema del Protocollo Farfalla, ne ha chiesto la desecretazione, l'ha ottenuta e oggi questo è un documento intorno al quale continueremo a fare i nostri approfondimenti". Così al Gr1 Rosy Bindi, presidente della Commissione parlamentare Antimafia. Bindi annuncia l'audizione la prossima settimana del "procuratore generale Scarpinato, sarà un'occasione per fare ulteriore chiarezza. Torneremo anche a sentire i vertici dei servizi". Riemergono vecchie ombre inquietanti sulle indagini della Procura di Palermo. Aperto un fascicolo su Sergio Flamia, l'ex boss di Bagherìa. Sono emersi rapporti sotterranei tra Flamia e i Servizi Segreti. Come riporta Repubblica, Flamia "ha ammesso di avere preso soldi dagli 007, circa 150 mila euro. Ha raccontato di essersi consultato con loro in un momento determinante della sua carriera criminale, la «punciuta» rituale. In quell’occasione, un esponente dell’intelligence lo avrebbe invitato ad intensificare la sua partecipazione in Cosa nostra" e "persino dopo l’inizio della sua collaborazione con i magistrati. Un episodio strano, perché durante i sei mesi previsti dalla legge per le dichiarazioni del neo pentito, solo la magistratura può avere contatti con i mafiosi che decidono di passare dalla parte dello Stato". Il sospetto è Flamia sia stato utilizzato per screditare il testimone cardine sulla vicenda della trattativa, vale a dire Luigi Ilardo. Si tratta di un vecchio gioco, quello del pentito ammaestrato in grado di screditare testimoni e depistare indagini. Ammaestrati da Cosa Nostra e, talvolta, persino dai Servizi. E la grande, grandissima novità, è che il Protocollo farfalla non è più un protocollo fantasma. La Procura di Palermo, che ha aperto un'inchiesta, ha rinvenuto il documento che conterrebbe un accordo tra il Sisde e il Dap (Dipartimento per gli affari penitenziari), che risalirebbe al 2004, attraverso cui i servizi di sicurezza potevano "operare" in segreto all'interno delle carceri senza alcun tipo di autorizzazione formale. Del "protocollo" si è sempre parlato, fino ad ora però si è trattato solo di voci. Ma i magistrati della Procura di Palermo che indagano sulla trattativa tra Stato e mafia sono riusciti a scovare a Roma il documento acquisendolo al fascicolo. L'indagine condotta dai pm Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene ha preso spunto dai contatti tra i servizi segreti e il collaboratore di giustizia Sergio Flamia, contatti "ammessi" dallo stesso pentito. Le dichiarazioni sono state trasmesse alla Procura generale per essere inserite nel dibattimento d'appello contro il generale dei carabinieri Mario Mori, accusato di favoreggiamento per la mancata cattura di Provenzano (ma assolto in primo grado). A sollecitare alla Procura la nuova indagine è stato il procuratore generale Roberto Scarpinato che, assieme al sostituto Luigi Patronaggio, sostiene l'accusa contro Mori. I pm stanno indagando a 360 gradi: dal caso Flamia, al Protocollo farfalla alle dichiarazioni fiume di Totò Riina al suo compagno Alberto Lorusso, detenuto al 41 bis, eppure informato di molti fatti con cui spesso sollecita la memoria dell'anziano boss corleonese. Il documento di cui i magistrati sono entrati in possesso non è stato sottoscritto. Sarebbe datato 2004: all'epoca il Dap era guidato da Giovanni Tinebra (dal 1992 al 2001 capo della procura di Caltanissetta che seguì le indagini sulle stragi del 1992; attuale pg a Catania) mentre Mori era al vertice del Sisde, il servizio segreto civile. Successivamente - dal 2007 - furono introdotte alcune norme per "regolamentare" l'attività degli 007 nelle carceri imponendo, ad esempio per i colloqui con i detenuti, l'autorizzazione da parte della presidenza del consiglio. Ma, a quanto pare, grazie al Protocollo farfalla, almeno per il caso Flamia, le norme sarebbero state aggirate. Nei primi giorni di settembre il pg Scarpinato ha ricevuto una lettera di minacce, poggiata sul tavolo del suo ufficio, al primo piano, del piano di giustizia, uno dei palazzi più blindati d'Italia, ma in cui, "ignoti" e ben informati sarebbero penetrati, approfittando di alcune "falle" della sicurezza. Un "invito a fermarsi", diretto a Scarpinato che arriva proprio mentre i magistrati indagano sui rapporti tra servizi segreti, mafia, massoneria e terrorismo nero.

La procura di Palermo e il nuovo caso Mori. Ovvero quando i magistrati usano la legalità come il pongo, scrive Claudio Cerasa su “Il Foglio”. A proposito del protocollo segreto, che dico, segretissimo di cui parlano oggi i giornali rispetto al caso Mori ("soldi per avere informazioni", e varie liste che elencano nomi di detenuti “preindividuati” dai servizi dopo averne testato la “disponibilità di massima” a “fornire informazioni” in cambio di “un idoneo compenso da definire”). A proposito di tutto questo, una volta superato lo choc per aver scoperto che i servizi segreti usano anche mezzi non convenzionali per raccogliere informazioni (chi l'avrebbe mai detto), c'è un punto però che non convince molto della storia ed è una domanda quasi elementare che andrebbe fatta agli ottimi e sempre integerrimi magistrati della procura di Palermo. Cari magistrati, ma l'articolo 203 del codice di procedura penale lo avete mai letto oppure quando avete fatto l'esame vi avevano strappato la paginetta dal manuale? Vi aiutiamo noi. Leggetelo bene, potrebbe esservi utile:

Art. 203. Informatori della polizia giudiziaria e dei servizi di sicurezza.

1. Il giudice non può obbligare gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria nonché il personale dipendente dai servizi per le informazioni e la sicurezza militare o democratica a rivelare i nomi dei loro informatori. Se questi non sono esaminati come testimoni, le informazioni da essi fornite non possono essere acquisite né utilizzate.

1-bis. L'inutilizzabilità opera anche nelle fasi diverse dal dibattimento, se gli informatori non sono stati interrogati né assunti a sommarie informazioni.

Mafiosi e pure pazzi, così Cosa Nostra si salvava. Corrado De Rosa, psichiatra e scrittore, domani ospite a Grado Giallo con “La mente nera” sulle perizie compiacenti di Semerari, scrive Mary Barbara Tolusso su “Il Piccolo”. Paura. Suspance. Mistero. Sono questi i temi di Grado Giallo, il festival letterario ormai giunto alla sua VII edizione. Ma quest'anno il terrore assume toni più "pratici", fatti di sospetti che attanagliano la realtà, non solo il plot di un romanzo. In una parola si parla anche di mafia. Ne sa qualcosa Corrado De Rosa, tra gli invitati del festival (domani, ore 16.45 al cinema Cristallo) e oggi alla Libreria Lovat di Trieste con Veit Heiniken (ore 18). Psichiatra e scrittore, De Rosa ha alle spalle più libri sulle ambiguità della psicologia criminale. L'ultimo è "La mente nera" (Sperling & Kupfer), la biografia di un cattivo maestro, Aldo Semerari: «Era lo psichiatra dei boss», dice. «Semerari negli anni '70 era coinvolto in tutta una serie di torbide vicende. Eseguiva delle perizie con cui i mafiosi potevano ottenere l'impunità. Garantiva ai criminali una serie di privilegi attraverso escamotage come il vizio di mente, la seminfermità, la sospensione dei processi o l'incompatibilità con il carcere».

Psichiatri che in cambio di perizie falsate ottengono favori dalla mafia. Quali?

«Semerari cercava di sfruttare la banda della Magliana. Grazie alle sue perizie lo spaccio, i sequestri e le rapine potevano continuare a condizione che parte del profitto andasse al suo movimento eversivo che si chiamava "Costruiamo l'azione". Era uno dei teorici dell'eversione nera tra i neofascisti romani. Questo è il motivo per cui fu anche arrestato per la strage di Bologna».

In che modo quindi Cosa nostra usa la follia?

«Viene utilizzata per tre motivi: per ottenere benefici di giustizia attraverso perizie compiacenti. Per delegittimare. E infine per trattare. Per esempio quando Provenzano simulò il suicidio nel 2012, in realtà non stava tentando di ammazzarsi ma di dire allo Stato: venite a parlare con me. O quando negli anni '80, dopo il sequestro di un assessore democristiano, i servizi segreti si rivolsero alla Camorra per negoziarne la liberazione: questo fu il paradigma della trattativa Stato-mafia. In cambio Raffaele Cutolo, boss della Camorra, chiese appalti, finanziamenti e un pacchetto di perizie psichiatriche compiacenti».

Negli anni '80, proprio mentre la psichiatria ufficiale cercava di liberarsi dalle etichette delle follia…

«Esattamente. Il 1978 è un anno emblematico. Mentre il Parlamento approvava la legge Basaglia, la psichiatria criminale faceva di tutto per affibbiare ai suoi clienti l'etichetta di pazzo. Nello stesso anno Cutolo, grazie alle perizie, riesce a farsi trasferire nell'ospedale psichiatrico di Aversa da dove fugge. E sempre nel '78 viene attribuita la sindrome di Stoccolma ad Aldo Moro per delegittimare i contenuti delle sue lettere».

Quali le forme di follia autentica che colpiscono Cosa nostra?

«In genere colpiscono i boss di seconda fascia. Il grande capo difficilmente ha un disturbo importante perché non gli consentirebbe di progettare e programmare. Però la storia è piena di affiliati che erano matti. Per esempio Leonardo Vitale aveva una psicosi grave. Dieci anni prima di Buscetta aveva rivelato tutto quello che sapeva su boss che ancora oggi sono sulla cresta dell'onda. Vitale fu uno dei pentiti delegittimati dalla psichiatria, si disse che non era attendibile perché, appunto, psicotico».

Esistono delle differenze nei meccanismi psicologici di affiliazione?

«È molto diverso da zona a zona. Per esempio in Sicilia è un meccanismo dell'essere: io sto in Cosa nostra perché è un sistema fondamentalista, cioè rigido, quindi non c'è bisogno che io pensi, c'è Cosa nostra che pensa per me, ciò che io devo fare è solo comandare. Quando vediamo Provenzano arrestato sembra un pastore della Cappadocia perché non ha bisogno di nient'altro che di comandare. Invece il processo psicologico di affiliazione della Camorra si basa sul meccanismo dell'avere: io mi affilio alla Camorra per la visibilità che mi offre, tanto è vero che il sistema criminale campano non è come quello di Cosa nostra, non è verticistico. In Campania ci sono tanti boss che contano moltissimo in piccoli territori, ma nei territori vicini non contano niente. Così come Provenzano sembrava un pastore, Cosimo Di Lauro, boss di Secondigliano, vive in una casa in ci sono addirittura le terme, è tutta apparenza. In Sicilia è impensabile una cosa del genere».

E sull'attuale trattativa Stato-mafia che mi dice?

«Dal punto di vista giudiziario sarà difficile dimostrare una trattativa. Ciò che mi preoccupa è la delegittimazione sul piano storico, un lavoro non funzionale a tutto ciò che sta facendo la Procura di Palermo. Mi lascia perplesso il forte movimento di delegittimazione nei confronti di questi giudici. Atteggiamento che ricorda gli attacchi ad altri magistrati che invece si sono dimostrati lungimiranti. Quando si leggono libri che tendono a negare la presenza della trattativa, la questione diventa pericolosa perché di fatto un negoziato per tutelare i rispettivi interessi c'è sempre stato. Storicamente lo Stato ha sempre chiesto alla mafia di collaborare: per esempio ha chiesto alla mafia un servizio di polizia nei momenti più delicati della storia, da Garibaldi alla seconda guerra mondiale».

Carceri: una storia ordinaria di mafia, scrive Giovanni Iacomini su “Il Fatto Quotidiano”. Professore carissimo, io ero un semplice perito agrario. Quando mi sposai, mio suocero mi disse se volevo lavorare con lui nella sua impresa, visto che non aveva altri eredi. Si trattava di costruzioni, una bella realtà produttiva, con molti dipendenti. Cominciai e le cose andavano bene. Ad un matrimonio mi fu presentato un cugino: bel tipo, col rolex d’oro e un macchinone. Mi dissero di entrare in società con lui per incrementare la nostra attività. In realtà, quello che comandava era il padre di questo cugino. Veniva in cantiere accompagnato da una persona silenziosa, sempre vestito di nero. Nei primi anni 80, in quella che poi fu definita la guerra di mafia, quel capo sparì insieme a tanti altri. Non si sapeva niente di ufficiale, ma noiautri a Paliemmo lo sapevamo quello che succedeva: vedevamo quella piangere di qua, i figli di quell’altro affidati agli zii e cose del genere. “Chiddu vestito ‘e niro” mi fece chiamare: gli dissi che potevo tranquillamente uscire dall’affare (un grande palazzo da demolire e ricostruire) ma lui disse che non cambiava niente, potevo proseguire con i lavori; il “capo” era partito, potevo parlare con lui che poi gli avrebbe riferito quando sarebbe tornato. Mi disse di andare avanti tranquillamente, invece a stretto giro di tempo una per volta mi tolsero tutte le decisioni: mi imponevano le ditte subappaltatrici, chi faceva gli scavi, i fornitori, persino chi dovevo assumere in questo o quel posto. In più, mentre io ero in giro per gli uffici in cerca di permessi e autorizzazioni, in cantiere presero ad incontrarsi fior di pregiudicati (seguiti e fotografati dalla polizia, come seppi in seguito). L’”uomo in nero” intanto apriva diverse attività in centro: il caso volle che una volta andassi in uno dei suoi negozi con mio figlio, il quale avendo sempre avuto una passione per tutto ciò che ha a che fare con gli impianti elettrici, gli risolse in poco tempo un annoso problema ad una centralina. Il tipo si impuntò: bravo ragazzo, me lo voglio cresimare io. Mia moglie, quando glielo dissi, si infuriò. Discutemmo molto a casa, ma alla fine non ebbi la forza di oppormi. Erano spariti pezzi grossi, non quaquaraquà e avevo paura. Dopo qualche tempo finii dentro per concorso esterno in associazione mafiosa. Cominciai dai carceri speciali ma piano piano, man mano che le indagini proseguivano, fui declassato in quanto riuscii a far emergere che ero una semplice vittima della mafia: se prima ci limitavamo a pagare u pizzo, un tot ogni metro di cubatura, poi avevo tutte le ditte e i fornitori in odore di mafia. Gli stessi periti del tribunale accertarono che mi costavano un 30% in più dei prezzi di mercato. Se fossi stato uno di loro avrei pagato il 30% in meno. Si scatenò la guerra tra pentiti. Dovete sapere che da noi ogni famigghia tiene un pentito, che viene usato per infangare. Il rapporto che instaurano con gli inquirenti è un ginepraio inestricabile, fatto di dichiarazioni e smentite, promesse e fregature. Nonostante tutto, per fortuna anche quelli che mi accusavano, alla domanda se fossi uno di loro rispondevano: ma quale uomo d’onore, chiddu lo tenevamo come nu cagnolino, faceva quel che volevamo noi. Questo mi ha consentito di essere declassato, venire a scontare la pena tra i “comuni” e, se Dio vuole, cominciare con i permessi e il percorso di reinserimento. Faccio colloqui con la mia famiglia e spero in un prossimo affidamento ai servizi sociali.

Nei miei lunghi anni di insegnamento in carcere, non è certo la prima volta che qualcuno mi venga a raccontare la sua storia. Come in tutte le altre occasioni, mi interessa fino a un certo punto di vagliare quanto di quel che mi viene detto sia vero. La “verità giudiziale” è già stata stabilita, si sta espiando una condanna. È chiaro che ognuno, nella propria ricostruzione, tende a giustificarsi e discolparsi, per quanto possa essere utile convincere della propria innocenza un semplice insegnante che non può e non deve dare altri giudizi se non quelli strettamente didattici. Però nel frattempo un’idea di come vanno le cose in certe regioni me la sono fatta: nella carenza di un’efficace azione statale, che va dai servizi alla prevenzione, è molto difficile in certe realtà esercitare un certo tipo di attività senza rischiare di essere invischiati, in qualche modo, in affari legati alla criminalità organizzata.

Pupazzi, bambole, costruzioni e persino una consolle X-Box. I malviventi hanno portato via tutto dalla ludoteca del reparto oncologico per i bambini dell'ospedale Civico, tentando di impossessarsi anche dei televisori. Si tratta dell'ennesimo raid dei malviventi subito dalla struttura ospedaliera palermitana e, in particolare, dal reparto riservato ai più piccoli che utilizzano i giochi durante i giorni di ricovero o quando sono accompagnati da mamma e papà per le sedute di chemioterapia. Un furto dal sapore particolarmente amaro perché a pagarne le conseguenze sono proprio i bambini che da oggi non avranno nulla con cui svagarsi durante le ore trascorse in ospedale. Eppure la ludoteca era nata proprio per questo: l'intento di quell'area piena di giocattoli e colori è di alleviare i momenti più duri per i bambini, quelli in cui si trovano faccia a faccia con la malattia all'interno dell'ospedale, scrive “Live Sicilia”. Chi è entrato in azione non ha avuto limiti, non ha risparmiato niente e, probabilmente, se avesse avuto il tempo, avrebbe portato via anche le tv, visto che il filo dell'antenna e le placche metalliche al muro sono stati trovati staccati. Chi vuole spegnere i sogni dei bambini malati aveva già agito alcune settimane fa, quando i responsabili dell'associazione che gestisce la ludoteca avevano denunciato una prima incursione. Nello stesso reparto, nel 2012, furono presi di mira i computer della stanza dei medici e due televisori del day hospital, tutte le attrezzature donate dall'Associazione siciliana per la lotta contro le leucemie e i tumori infantili. Episodi che danneggiano materialmente la struttura - visto che sono stati forzati e danneggiati gli armadi - ed intaccano la serenità che, con fatica i medici, gli assistenti e i familiari dei più piccoli cercano di donare ai bambini che lottano contro la malattia. Il furto è stato denunciato alla polizia che ha avviato le indagini.

Amiamo il sonno dei bambini, perché reca i segni di una terra promessa ormai smarrita, continua “Live Sicilia”. Amiamo guardare i bambini mentre dormono. Con la trasparenza del respiro, ci riportano dentro un ritmo umano del mondo. E ancora ci ricordano che siamo stati bambini anche noi. Che abbiamo riposato, stretti a un giocattolo, con un amico accanto, per affrontare la spaventosa notte di streghe, incubi e visioni. Chi ruba un giocattolo a un bambino che dorme è dunque un assassino, più che un ladro. Un'anima dannata capitata nel recinto di un giardino fiorito, per calpestarlo. Per rubare la pace. Per togliere tutto a tutti. Ladri e assassini di sogni hanno depredato i piccoli dell'Ospedale Civico dei loro giochi, col furto al reparto di Oncologia pediatrica. Al peso dell'innocenza violata, si aggiunge il sacrilegio della devastazione di un luogo in cui si incontrano infanzia e sofferenza, un incrocio che già non accettiamo e che ci appare molto più crudele, se ombre sopraggiungono per togliere gli ultimi strumenti di difesa dalla paura a chi non può difendersi. E' la lezione insopportabile per un cuore puro: streghe e vampiri appartengono alla realtà. Le copie che abitano le favole sono pallide imitazioni. Eppure, dal dolore e dalla viltà è rinata una speranza per cui spalancare le braccia fiduciosi. Palermo ha battuto più di un colpo. Ha sommerso di regali le corsie, a risarcimento della sottrazione. Palermo ha dimostrato che può amare, se sceglie di farlo, che può essere meravigliosa e non orrida. Ha fatto del bene, si è fatta del bene. E chissà che da un episodio di cronaca nera e di bianchissima solidarietà non possa scaturire la virtù di una finalmente compiuta e non più intermittente cittadinanza. Abbiamo messo mano al ripostiglio delle vecchie cose, non sapendo cosa scegliere per donare. Ci siamo confrontati tra ex bimbi con domande angosciose: quello che funzionava ai nostri tempi, andrà bene oggi? C'è chi ha comprato, con generosità, attrezzi fiammanti, prodigi nuovi di zecca, contemporanei, pieni di virtualità, di connessioni, prodotti iper-tecnologici, adattissimi alla fantasia di adesso. C'è chi ha ripescato, magari per mancanza di mezzi, magari per un tributo alla nostalgia, con la medesima generosità, i reduci di giorni trascorsi. L'orsacchiotto di peluche, il Sapientino, il trenino. Perché dove c'è un trenino in fondo c'è sempre un bambino piccolo alla stazione, col berretto rosso e il fischietto. La fantasia progredisce con ali velocissime, però da qualche parte sa conservare oggetti indimenticabili. Un peluche serve. Ha occhi di vetro che scrutano il buio. Ha mani di pezza che accarezzano. Si lascia accarezzare. Un orsacchiotto è un compagno che non delude mai, che non abbandona colui che l'ha scelto, quando arriva la sera. LiveSicilia ha promosso una campagna di donazioni che sarà a breve conclusa con la consegna. Tanti hanno partecipato. Altri hanno organizzato benedette iniziative autonome, con un unico fine comune: riparare al torto subìto. Palermo si è sentita offesa, come non accadeva da tanto. Ha percepito – ed è un evento che non capita spesso – che una ferita inflitta ai suoi figli innocenti riguardava chiunque, era una faccenda condivisa. La città si è schierata. Ha dismesso i panni da strega, per indossare i vestiti scintillanti della fatina buona. E' un miracolo questa mobilitazione che abbiamo raccontato. Non smette di regalarci una calda sensazione di felicità. Ora sarebbe un peccato dimenticare. Sarebbe una tragedia scordare che siamo tornati forti e degni, issando come vessillo lo sguardo dolce e malinconico di un peluche. L'oscurità l'abbiamo sconfitta pure noi. Siamo spuntati dall'altra parte. Amiamo il sonno quieto dei bambini, la terra promessa in cui vorremmo tornare. Amiamo il coraggio e la tenerezza. Amiamo coloro che si sono regalati un sogno, regalando un giocattolo. Li abbracciamo tutti, con nome e cognome. Amiamo quella mamma che ha sistemato in un sacchetto e fatto pervenire in redazione i giochi di un figlio che non c'è più. Una scelta che mostra molti modi di amare. Lui sarà già tornato bambino in una trasparenza che ancora non conosciamo. I bambini del Civico cresceranno, attraverseranno la notte, con un po' del suo respiro attaccato al cuore.

Orrida Palermo. Palermo è veramente orrida. Un affezionato lettore di “Live Sicilia” ci racconta la sua esperienza sull'autobus e spiega perché. Alle 13,45 salgo festante su un bus Amat della linea 662, inforcato dopo una veloce discesa dal 101. Non capita spesso che il percorso finale verso viale Strasburgo sia privo di piacevole sosta “ander the paic of the san, rectius “sutta u picu ru suli…”) all’”Hub” (…) di Piazza De Gasperi, e quindi mi compiaccio, da panormosauro--abbonato AMAT, con le mie gambe e con la felice coincidenza ma… Salgono sul 662 anche 3 panormosauri-controllori, che correttamente svolgono il loro servizio sorprendendo 3 panormosauri-giovani-sprovvisti di biglietto. I primi chiedono ai secondi di scendere con loro dalla vettura, ma i panormosauri non paganti, con fare beffardo, si rifiutano. I panormosauri-controllori insistono dicendo che se non scendono l’autobus non può ripartire ma i panormobiettori (obiettano che avevano aspettato troppo il bus e pertanto, secondo la loro lex specialis non sono tenuti a pagare) se ne fregano e si piantano saldamente sul bus. Tre minuti di scambi vocali, per così dire, franchi e non cordiali, ed io, panormosauro con qualche residuale coscienza civica, tento di coinvolgere qualcuno dei panormosauri astanti “in regola” che affollano il bus per solidarizzare con i controllori, ma ricevo silenzio e, vigliaccamente, desisto. Anzi, qualche avventore solidarizza con i panormomafiosetti, dicendo che in fondo è giusto non pagare perché …il bus non è mai puntuale…Passa un altro minuto e provo, con grande sprezzo del pericolo, a chiamare io il 113 ma noto che finalmente si decidono a farlo i panormosauri-controllori, i quali confermano al panormosauro- autista l’ordine di non ripartire, come concordato con la sala operativa della Questura. Il panormosauro-autista prende atto e pensa bene di mangiarsi un panino (invidia, ho fame anch’io). Nessuna reazione degli altri panormosauri paganti. Chi guarda di qua, chi di là, nessuno osa neanche incrociare gli sguardi dei panormomafiosetti. Sono passati 10 minuti, ma ecco, come negli epiloghi dei classici ellenici, piombare sulla scena il “deus ex machina”. No, non è la volante che tarda ad arrivare (e sfido io: ai poveri operatori di polizia, con tutti i casini di questa città e con i loro organici e mezzi ridotti all’osso non gli si può pure chiedere di essere presenti in 2 minuti dietro a ogni bus frequentato da panormomafiosetti). A sciogliere la surreale matassa è invece il provvidenziale arrivo del 615, giudicato dai panormomafiosetti una linea compatibile con le loro esigenze di mobilità. Scendono quindi senza resistenza alcuna dal 662 e la situazione si sblocca: i panormosauri-controllori scendono pure loro (facendo segno al 615 di non raccogliere i perfidi panormomafiosetti) ma nel frattempo giunge l’eco di una volante. Il mio 662, ormai non più ostaggio del criminale stallo, comincia a marciare verso Via Alcide de Gasperi ma…un momento…chi ti vedo salire alla prima fermata di Viale Strasburgo? Ma si! Sono loro! I 3 panormomafiosetti, che nel frattempo avevano velocissimamente percorso a piedi la stessa strada, allontanandosi da quella piazza ormai “calda”. Mannaggia, per una volta che avevo afferrato “a volo” la coincidenza, senza aspettare il solito quarto d’ora a Piazza De Gasperi, mi tocca sacrificare un quarto d’ora della mia vita per le gesta di questi panormomafiosetti. Ma la colpa è anche mia, che non ho reagito. Si, vabbè, capisco che da solo avrei rischiato di buscarle pure, fra l’indifferenza panormosaureggiante, ma mi sento in colpa lo stesso. Mi sono assuefatto. Sono un panormosauro colpevole anch’io. Non reagisco più. Palermo Orrida. E orrido sono diventato io. E orridi siamo diventati tutti noi.

Un giorno, sul bus, a Palermo. Un palermitano su due secondo il Comune non paga il biglietto Amat. Noi siamo andati a verificare, passando due mattine sugli autobus delle linee del centro città e in periferia. E abbiamo scoperto che..., scrive Sabrina Macaluso su “Live sicilia”. Solo il 50 per cento dei palermitani fa il biglietto dell'autobus. Almeno stando ai dati comunicati pochi giorni fa dal Comune di Palermo che ha lanciato l'allarme portoghesi, un fenomeno che secondo l'amministrazione di Palazzo delle Aquile causa un danno alle casse dell'Amat di circa 10 milioni di euro. Così, armati di biglietto, abbiamo passato due mattinate sugli autobus per constatare il comportamento dell'utenza palermitana che sceglie quotidianamente il bus per spostarsi in città. La nostra avventura inizia sul 101, la principale linea che attraversa l'arteria più importante della città, dallo stadio Barbera fino alla stazione centrale. Alla prima fermata, in piazza De Gasperi, il nostro orologio segna le 9.50 del mattino. Secondo l'orario delle corse pubblicato sul sito dell'Amat, il 101 dovrebbe effettuare una corsa ogni sei minuti minuti, ma registriamo le lamentele di un gruppo di utenti in attesa da circa venti minuti. E in effetti noi siamo costretti ad attendere fino alle 10.22 per salire sul primo 101. Dopo aver rigorosamente obliterato il nostro biglietto, ci accomodiamo insieme con una trentina di persone sul bus. Oltre venti si sono recati all'obliteratrice per convalidare il biglietto, un'ottima percentuale considerato il dato del Comune che parla di un 50 per cento di portoghesi. Quello che stupisce di più, comunque, è l'assenza di controllori che nell'arco di un'intera mattinata, dalle ore 9 alle 13, dopo aver percorso il tragitto stadio-stazione centrale per quattro volte, non si visti, se non alla fine della quarta corsa, alla fermata di via Croce Rossa. Con loro, ecco il primo portoghese, beccato per essere salito senza biglietto su un'altra linea (107). e unica multa di 52 euro elevata in nostra presenza nella mattinata. Ma dove sono le orde di portoghesi che affamano le casse dell'Amat, ci chiediamo. La risposta arriva parlando informalmente con utenti e controllori Amat, gente che utilizza quotidianamente i bus che ci parla del 101 come l'eccezione che conferma la regola, una linea "privilegiata" che può contare su un'utenza ligia al dovere. "Quelli che non pagano il biglietto li può trovare su lineee periferiche - dice un signore di mezza età che preferisce rimanere anonimo -". "E' vero - conferma un gruppo di ragazzi con il biglietto obliterato ancora in mano -, in tanti anni che frequentiamo questa linea 101, raramente abbiamo visto persone che non obliterano il biglietto, molti altri sono professionisti o lavoratori in uffici o negozi del centro città abbonati. Il problema di chi non fa il biglietto è nelle periferie della città". “La situazione appare completamente diversa spostandoci nelle zone periferiche della città”– dice Antonio V., controllore, che ci indica quali sono le zone calde in materia di portoghesi -". La nostra caccia a chi non paga il biglietto sui mezzi pubblici si sposta dunque in periferia, sulla linea 702, che effettua il collegamento da Borgo Nuovo a Piazza Croci. E in effetti ci accorgiamo subito che il trend dei portoghesi rispetto al 101 qui è opposto. Anche qui registriamo qualche ritardo rispetto ai 15 minuti che dovrebbero passare tra una corsa e l'altra. Attendiamo circa 40 minuti prima di salire a bordo. Una quarantina di furbetti ad acquistare il biglietto non ci pensa nemmeno. Lungo il percorso per Piazza Croci, infatti, notiamo solo due persone obliterare il tagliando, nonostante l'autobus sia abbastanza affollato. Basta l'arrivo di un autista che sale sul mezzo dalla porta anteriore e scambiato per un controllore, a scatenare il panico a bordo: alla prima fermata utile si scatena il fuggi fuggi generale e l'autobus si svuota. Stessa scena sulla linea 422, (che piazza Principe di Camporeale a Borgo Nuovo), dove il copione si ripete. Anche qui infatti, sono in molti a non obliterare il biglietto e c'è chi, quasi con aria fiera, dice di “non averlo neppure acquistato”. Ad essere più colpite dal fenomeno dei portoghesi sono dunque le periferie, è qui che le percentuali comunicate dal Comune appaiono addirittura arrotondate per difetto rispetto a quello che riscontriamo con i nostri occhi. Il comune denominatore è rappresentato dall'assenza di controllori. “Ad essere maggiormente colpite dal malcostume dei palermitani che usufruiscono di un mezzo pubblico senza pagare – racconta Marcello S., controllore dell'Amat - sono soprattutto le linee che attraversano i quartieri di San Filippo Neri, Borgo Nuovo, Bonagia, la Noce o Pallavicino, alle quali si aggiungono tutte quelle zone limitrofe alla città vecchia, dove molti passeggeri sperano di farla franca”. Dall'azienda di via Roccazzo, a cui abbiamo raccontato la nostra esperienza, il direttore generale, Pasquale Spadola, annuncia che “i controlli verranno rafforzati proprio per scoraggiare chi non rispetta le regole. I controllori si concentrano ciclicamente su zone e linee diverse per non essere prevedibili. Per quanto riguarda i ritardi lamentati dall'utenza in alcune occasioni, l'80 per cento dei ritardi, è da attribuire ai grandi problemi della viabilità che la nostra città ha da sempre avuto”. Ma si sa: il traffico, come ci ha insegnato un celebre film di Benigni, è una delle piaghe di Palermo...

Gli stenografi della Regione Sicilia guadagnano quasi come Napolitano. I finti tagli alla Regione Siciliana, scrive Gianpaolo Iacobini su “Il Giornale”. È dura la vita dello stenografo. In Sicilia praticamente un inferno. Presa dalla frenesia del risparmio, l'assemblea regionale ha messo nel mirino i suoi dipendenti, inaugurando la stagione dei tagli. Lacrime e sangue. E risate. Perché fino al 2017 i poveri (si fa per dire) scrittori tachigrafici che sulla punta delle dita veloci fanno viaggiare nel mondo il racconto delle epiche gesta dei parlamentari siculi per la prima volta guadagneranno un po' meno del presidente Napolitano. Al capo dello Stato è riconosciuto un appannaggio annuo di 240.000 euro. Loro, che sin qui ogni anno di euro ne prendevano 235.000 (ma al lordo, per carità), dal 2015 dovranno accontentarsi di 204.000 euro, carichi di trattenute da scomputare. Ancor peggio andrà a segretari (193.000), coadiutori (148.000), tecnici (132.200) ed assistenti (tradotto dal burocratese, i commessi), ultimi della graduatoria con 122.500 euro. I più sfortunati colleghi del Senato riceveranno paghe più basse rispetto ai parigrado siciliani? Il paragone non regge. «Contrariamente a quel che avviene a Palazzo Madama, qui all'Ars non saranno riconosciute indennità fisse e incentivi di produttive. Le nostre sono cifre chiare e non esistono sotterfugi», spiega orgoglioso il deputato questore Paolo Ruggirello, tra i fautori della sofferta intesa coi sindacati. Portatori, aggiunge grato, «di un grande senso di responsabilità», esplicitato col voto favorevole alla proposta anche se i rappresentanti di coadiutori e parlamentari si sono astenuti. Manca adesso il sì del Consiglio di presidenza, già convocato per mercoledì. Sarà una decisione difficile: tagli così sanguinosi non s'erano mai visti, in Sicilia.

Esami di avvocato. La commissione ha corretto 45 compiti in 235 minuti, (quindi non corretti). Candidato escluso ammesso all’orale dal Tar, scrive “La Sicilia”. La commissione esaminatrice per l’esame di di idoneità per l’esercizio della professione di avvocato sessione 2013 ha corretto 45 elaborati in appena 235 minuti e dunque con la media di cinque minuti ognuno e il Tar ha dato ragione a un candidato agrigentino di 30 anni che era stato escluso. Il praticante, con il patrocinio degli avvocati Girolamo Rubino e Giuseppe Impiduglia, si è rivolto alla magistratura amministrativa chiedendo l’annullamento, previa sospensione, dei giudizi assegnati dalla commissione esaminatrice agli elaborati, nonché per l’ammissione con riserva alla prova orale. In giudizio si è costituito il Ministero della Giustizia che ha chiesto il rigetto del ricorso. Il Tar di Palermo, ha invece accolto il ricorso del candidato escluso con riferimento sia all’esiguo tempo di correzione degli elaborati, sia con riferimento al sindacato sulle valutazioni tecniche della commissione esaminatrice ed ha disposto la sua ammissione con riserva alla prova orale. Pertanto il giovane praticante avvocato dovrà sostenere la prova orale in esecuzione del provvedimento cautelare reso dal Tar nel prossimo mese di novembre e se la supererà avrà titolo all’iscrizione all’albo professionale.

"Basta con la storia del corvo". Di Pisa risarcito con seimila euro. Il procuratore di Marsala commenta la sentenza che ha condannato il fratello di Paolo Borsellino, Salvatore che lo aveva definito inadatto a sostituire il magistrato poi ucciso dalla mafia, come capo dei pm marsalesi, scrive Giacomo di Girolamo su “La Repubblica”. "Basta con questa storia del “corvo”. Io sono una vittima. Perchè non lo si capisce?". Sono le parole del procuratore di Marsala, Alberto Di Pisa, dopo la sentenza del Tribunale di Caltanissetta che ha riconosciuto la diffamazione avvenuta nei suoi confronti da parte di Salvatore Borsellino, condannandolo ad un risarcimento danni di 6000 euro. Borsellino aveva commentato in un incontro pubblico a Marsala (alla presenza, tra l'altro del sindaco di Napoli De Magistris e di Gioacchino Genchi) con parole durissime la nomina di Alberto Di Pisa alla guida della procura dove aveva lavorato Paolo Borsellino: "Non può prendere il posto di mio fratello - aveva detto Borsellino - perchè Di Pisa è stato accusato di essere il corvo al Tribunale di Palermo che mandava lettere anonime contro Falcone, e solo il fatto che non hanno utilizzato in appello la prova delle sue impronte digitali ha permesso la sua assoluzione". Da qui la denuncia di Di Pisa. "Non è così - afferma il magistrato - e lo voglio spiegare una volta per tutte: la mia assoluzione è stata nel merito, perchè non solo è stato riconosciuto che l'impronta digitale mi fu estorta n maniera fraudolenta, ma la Corte dice chiaramente che il corvo non sono stato io e indica che dal tono delle lettere poteva essere soltanto un membro del corpo di polizia che ha voluto sfruttare le divisioni che si erano create nel gruppo investigativo che collaborava con Falcone a seguito della venuta del pentito Contorno in Sicilia. Io, lo ripeto, non c'entro nulla, perchè a quelle indagini non avevo neanche accesso". Delle otto impronte trovate sulle lettere inviate dal "corvo", la Corte d'Appello stabilì che "non una può essere attribuita a Di Pisa", e inoltre era impossibile che ad imbucarle fosse stato Di Pisa perchè erano spedite da Cefalù. "Ho voluto querelare Salvatore Borsellino - continua il magistrato - per porre un freno alle illazioni e alle false ricostruzioni che si fanno ogni volta che succede un fatto che mi riguarda più o meno indirettamente. Tutte le inchieste che avevo in quegli anni, non appena fui accusato ingiustamente mi furono levate e finirono nel dimenticatoio. Sulla vicenda di Contorno non si è fatta mai chiarezza".

Alberto Di Pisa: "Non ero il corvo di Palermo, qualcuno voleva fermarmi". Nel 1989 venne accusato di aver inviato le lettere anonime contro Falcone. Poi fu assolto. Ora il magistrato va in pensione e dice: "Cercate alla Criminalpol", scrive Alessandra Zaniti il 4 gennaio 2016 su “La Repubblica”.

"Sa chi è che non ha mai pensato che io fossi il "corvo"? Paolo Borsellino. "Non ci credo neanche se lo vedo che quell'anonimo l'hai scritto tu", mi disse ".

E Falcone?

"Lui aveva un modo di fare molto diverso e in quei frangenti probabilmente preferì aspettare. Purtroppo non riuscì a vedere la conclusione di questa assurda vicenda".

Nella sua casa di Palermo, appena riposta la toga dopo 45 anni in magistratura, Alberto Di Pisa conserva tutta la rassegna stampa di quella terribile estate dei veleni del 1989 che -  nonostante l'assoluzione definitiva -  lo ha bollato come il "corvo", scrivendo una pagina tra le più nere della storia giudiziaria italiana. Da tre giorni, a 72 anni, ha lasciato l'ufficio di procuratore di Marsala che fu di Paolo Borsellino.

Procuratore, chi ha scritto quell'anonimo inviato alle più alte cariche del paese che accusava Falcone e De Gennaro di aver dato licenza d'uccidere al pentito Totuccio Contorno?

"Nell'89 c'era una profonda faida negli ambienti della Criminalpol. C'era la squadra di De Gennaro e quella di Contrada. Il "corvo" bisognava cercarlo lì, ma nessuno lo fece ed è significativo che, dopo la mia assoluzione, nessuno abbia più cercato di individuarlo né di indagare sui contenuti di quell'anonimo. Che, per altro, diceva la verità, come avevo sottolineato io stesso in una riunione in Procura con tutti i colleghi. C'erano Giammanco, Falcone, Sciacchitano, Signorino. Sarei stato un idiota poi a scrivere quell'anonimo".

Cosa disse in quella riunione?

"Che bisognava indagare per capire cosa stava dietro a quello stranissimo arresto di Contorno a San Nicola l'Arena. Qualcuno doveva sapere cosa era veramente venuto a fare, come fosse possibile che un collaboratore di giustizia fosse impunemente tornato in Sicilia a regolare i suoi conti. Ma qualcuno pensò di approfittare dell'occasione scrivendo l'anonimo che fu subito attribuito a me nonostante fosse scritto su carta intestata della Criminalpol (disponibile solo negli uffici romani dove io non ero mai stato) e con una macchina da scrivere che fu appurato non essere la mia".

Eppure furono in molti a pensare che il Corvo fosse lei.

"Ci fu una convergenza di interessi, politica, servizi, poteri forti, che avevano l'obiettivo di togliermi le inchieste scottanti che avevo in mano, quella su mafia e appalti, sulla morte dell'ex sindaco Insalaco, sulla massoneria, sugli omicidi di Montana e Cassarà. Il procuratore Giammanco me le tolse tutte ancor prima che arrivasse l'avviso di garanzia".

Chi aveva interesse a toglierle quelle inchieste?

"Nonostante quello che andava dicendo Leoluca Orlando, i grandi appalti di Palermo erano ancora in mano a Cosa nostra, a Cassina e Ciancimino. La giunta li aveva assegnati a due aziende romane, la Cosi e la Sico, ma io avevo scoperto che le fidejussioni le aveva pagate il conte Vaselli, cioè Ciancimino. Non era cambiato niente, c'era sempre il solito comitato d'affari di politici e imprenditori. Se avessi potuto continuare sicuramente avrei chiesto i mandati di cattura. Io non guardavo in faccia nessuno. C'era la Primavera di Palermo e c'era il governo De Mita. Questa verità non era gradita a molti".

Poi l'alto commissario Sica riuscì a prenderle le impronte e lei diventò per tutti il Corvo.

"Sica sembrava un amico, lo andavo a trovare spesso. Qualcuno gli fece baluginare questa idea e lui cominciò a fare attività illegali. Mi presero le impronte sul tavolo di vetro sul quale tamburellavo con le dita. Se qualcuno si fosse preso la briga di leggere la sentenza di assoluzione si sarebbe reso conto che non c'è mai stata una mia impronta sull'anonimo, ma solo la foto di un'impronta costruita a tavolino".

Si è mai chiesto perché tanti suoi colleghi le voltarono le spalle?

"Invidie, gelosie d'ufficio, molti volevano entrare nel pool. Il Palazzo di giustizia fu contaminato da veleni che arrivavano da fuori. Ho vissuto quei tre anni terribili in solitudine. Ci sono voluti nervi saldi, altri colleghi come Signorino non hanno resistito. Poi ho trovato un giudice, il presidente della corte d'appello di Caltanissetta Costanzo, che ha resistito alle pressioni assolvendomi e la mia vita è ricominciata".

Quell'anonimo mirava a Falcone. È vero che tra voi i rapporti non erano idilliaci?

"Assolutamente no. Con Falcone e Borsellino abbiamo istruito il maxiprocesso, abbiamo lavorato insieme alle dichiarazioni di Tommaso Buscetta. Ricordo un interrogatorio importante in cui ci doveva parlare dei cugini Salvo. Lui era ospitato in un appartamento sopra la questura di Roma dove si muoveva da padrone. Ci offrì un caffè ma lo portò solo a Falcone e Borsellino. Io non gli ero simpatico perché lo incalzavo in quegli interrogatori che per lui avrebbero dovuto essere dei monologhi. Lo stesso Falcone poi al Csm disse che avevamo sempre lavorato in perfetto accordo. Anche la famosa "pace" tra Sica e Falcone davanti le telecamere fu una messinscena per isolarmi".

L'ANTIMAFIA DELLE BUFALE?

Il procuratore Gozzo indagato per aver passato notizie ad “Il Fatto Quotidiano”, scrive Emiliano Stella su “L’ultima Ribattuta”. Che “Il Fatto Quotidiano” fosse un organo di stampa vicino alla Magistratura lo si era intuito. Scoop, esclusive, rivelazioni non si ottengono per caso. E l’indagine che vede coinvolto il procuratore aggiunto di Caltanissetta Nico Gozzo suona come una conferma di questo sospetto. Il giudice è stato rinviato a giudizio dal gip di Catania Oscar Biondi (la Procura etnea è competente per le indagini sui colleghi nisseni), e su di lui pende la pesante accusa di rivelazione di segreto d’ufficio. Il procedimento è stato avviato dopo la pubblicazione di alcune conversazioni, intercettate in carcere, intercorse tra Totò Riina ed i suoi familiari. I dialoghi erano finiti sulle pagine de “Il Fatto Quotidiano”, in articoli a firma di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, ed erano costituiti da frasi in apparenza innocue tipo: “Quest’anno la Juve è una bomba”. Passaggi attenzionati dagli inquirenti in quanto potenzialmente messaggi in codice, riferiti probabilmente al proposito di togliere rumorosamente di mezzo un magistrato palermitano che indaga sulla trattativa Stato-mafia. A seguito di questa pubblicazione furono perquisiti gli appartamenti dei due giornalisti de “Il Fatto”, in cui venne rinvenuto un pc contenente un file che indicherebbe Gozzo come l’autore della fuga di notizie. “Il Fatto Quotidiano”, nel dare la notizia, ha tracciato un profilo di Gozzo. “Per anni pm a Palermo, ha sostenuto l’accusa al processo all’ex senatore di Fi Marcello Dell’Utri. A Caltanissetta, da procuratore aggiunto, ha riaperto e coordinato le indagini sulle stragi di Capaci e sull’attentato di via D’Amelio consumato all’ombra della cosiddetta trattativa Stato-mafia per cui pende un processo a Palermo”. Un modo per rendere giustizia ad un Magistrato scivolato su una buccia di banana o l’ipotesi, nascosta tra le righe, che lo si voglia incastrare per un peccato veniale e sottrarlo alle sue scomode indagini?

A processo il magistrato che passava le carte al "Fatto". Gozzo, l'accusatore di Dell'Utri, a giudizio per violazione del segreto d'ufficio, scrive Mariateresa Conti su “Il Giornale”. Finisce nei guai il procuratore aggiunto di Caltanissetta Domenico Gozzo, il pm - già accusatore di Marcello Dell'Utri - che coordina le nuove indagini sulle stragi del '92. Il Gip di Catania lo ha rinviato a giudizio per un reato difficilmente contestato alle toghe, violazione del segreto d'ufficio. Secondo l'accusa, sostenuta dal collega procuratore aggiunto degli uffici etnei Carmelo Zuccaro, sarebbe stato lui a «passare» al Fatto quotidiano le notizie relative ad alcune conversazioni intercettate, in carcere, tra il superboss Totò Riina e i suoi familiari. La prima udienza del processo si svolgerà a ottobre. Una bomba. Anche perché Nico Gozzo è uno dei magistrati di punta della Procura di Caltanissetta, il pm che sta riscrivendo la storia delle stragi, smantellando di fatto i primi processi sugli eccidi di Capaci e via D'Amelio viziati dalla falsa collaborazione di Vincenzo Scarantino. Processi istruiti quando a Caltanissetta era procuratore capo Giovanni Tinebra, che a propria volta adesso è procuratore generale a Catania, dove ora Gozzo dovrà presentarsi nell'insolita veste, per lui, di imputato. Che sulla pubblicazione di quelle intercettazioni (in una di esse Riina diceva: «Quest'anno la Juve è una bomba», frase letta come minaccia di attentato a uno dei pm della trattativa Stato-mafia) ci fosse una linea dura si era capito immediatamente. A ottobre del 2013, quando erano stati pubblicati gli articoli sul Fatto e sul quotidiano online LiveSicilia, era scoppiato il putiferio. E nel mirino in prima battuta erano finiti i giornalisti, i cronisti del Fatto Quotidiano Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, e il cronista di LiveSicilia Riccardo Lo Verso, sottoposti a perquisizione a casa e nelle redazioni. Proprio nell'abitazione di uno dei cronisti del Fatto sarebbero stati rinvenuti dei file che attestavano contatti col procuratore aggiunto nisseno. Immediata era stata l'apertura dell'inchiesta, trasferita a Catania per competenza, visto che è la procura etnea ad occuparsi di fatti che riguardano i magistrati nisseni. Ora l'udienza preliminare contro Gozzo. E il rinvio a giudizio del magistrato, che sarà difeso dall'avvocato palermitano Francesco Crescimanno.

Pm Gozzo a processo, gip: “Ha rivelato intercettazioni tra boss Riina e figli”. Sotto la lente di ingrandimento delle indagini una frase del padrino corleonese poi riportata dal Fatto Quotidiano a ottobre e ritenuta ambigua dagli investigatori. "Quest’anno la Juve è una bomba". “Il Fatto Quotidiano” scrive: Il procuratore aggiunto di Caltanissetta Nico Gozzo è stato rinviato a giudizio dal gip di Catania Oscar Biondi con l’accusa di rivelazione di segreto d’ufficio in merito alla pubblicazione del contenuto di alcune intercettazioni in carcere tra il capomafia Totò Riina e i familiari. Una vicenda su cui dovrà pronunciarsi il tribunale etneo, competente in caso di coinvolgimento di magistrati nisseni. Alcuni stralci della conversazione tra il capo di Cosa Nostra e il figlio furono riportati dal Fatto Quotidiano. In particolare, nel pezzo uscito a ottobre scorso (di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza), si virgolettava una frase del padrino corleonese ritenuta ambigua dagli investigatori. “Quest’anno la Juve è una bomba”, diceva Riina. Parole apparentemente innocue che, a dire dei pm, avrebbero nascosto una minaccia a uno dei magistrati palermitani che indaga sulla trattativa Stato-mafia. La conversazione, peraltro, venne messa in collegamento con una lettera anonima giunta ai pm di Palermo in cui si denunciava il raggiunto accordo tra il boss latitante Matteo Messina Denaro e non meglio precisati “amici romani” per una ripresa della strategia stragista. Dopo la pubblicazione dell’articolo venne aperta un’indagine dai pm di Caltanissetta che, ipotizzando il coinvolgimento di un collega del distretto, trasmisero tutto a Catania. Vennero perquisite le abitazioni di due cronisti del Fatto, in una delle quali fu trovato un file dal quale, secondo l’accusa, sarebbe stato possibile dedurre un ruolo di Gozzo nella fuga di notizie. L’accusa in aula, oggi, è stata rappresentata dal procuratore aggiunto di Catania Carmelo Zuccaro che ha chiesto il rinvio a giudizio del collega, difeso dall’avvocato Francesco Crescimanno. L’autorità giudiziaria etnea dovrebbe inviare la decisione del gip al Consiglio Superiore della Magistratura che potrebbe aprire un fascicolo a carico del magistrato. Nico Gozzo, per anni pm a Palermo, ha sostenuto l’accusa al processo all’ex senatore di Fi Marcello Dell’Utri. A Caltanissetta, da procuratore aggiunto, ha riaperto e coordinato le indagini sulle stragi di Capaci e sull’attentato di via D’Amelio consumato all’ombra della cosiddetta trattativa Stato-mafia per cui pende un processo a Palermo.

Grasso lascia a mani vuote la Procura di Palermo. Il Presidente del Senato interrogato oggi ha smontato l'ipotesi della Procura sulla sempre più "presunta" trattativa Stato-Mafia, scrive Anna Germoni su “Panorama”. Oggi, 11 luglio 2014, il presidente del Senato Pietro Grasso ha deposto come testimone dell’accusa nell’aula bunker dell’Ucciardone nel processo sulla presunta trattativa Stato-mafia. I magistrati palermitani si aspettavano elementi particolarmente utili dalle dichiarazioni di Grasso, ex procuratore antimafia: in particolare sulle pressioni che Grasso avrebbe subito da parte di Gianfranco Ciani, procuratore generale della Cassazione, tramite l’intercessione del consigliere giuridico del capo dello Stato, Loris D’Ambrosio, morto d’infarto nel 2012 (al culmine di una denigrante campagna mediatica) che aveva più volte raccolto per telefono gli sfoghi del senatore Nicola Mancino, preoccupato proprio di entrare nel tritacarne giudiziario del processo Stato-mafia. Ma la procura di Palermo è rimasta ancora una volta a mani vuote. Senza prove: solo suggestioni mediatiche. Infatti l’ex procuratore antimafia rispondendo a ogni domanda, ha sostenuto: «Nessuno mi chiese la formale avocazione dell’indagine trattativa tra Stato e mafia. È tutto documentabile». Ricordando l’incontro con Loris D’Ambrosio, Grasso ha dichiarato: «Mi parlò solo delle continue lamentele ricevute dal senatore Mancino, che si sentiva perseguitato per l’inchiesta sulla “trattativa”. Sapevo benissimo qual era il problema di Mancino: l’avevo incontrato a dicembre del 2011 per gli auguri natalizi. Fu un incontro veloce davanti al guardaroba del Quirinale. Mi disse che si sentiva perseguitato, che era ansioso perché vi erano delle differenti valutazioni su suoi comportamenti e omissioni dalle diverse procure». Per quanto riguarda invece l’incontro avvenuto il 19 aprile 2012 con Gianfranco Ciani, procuratore generale della Cassazione, Grasso ha spiegato: «Quando ero procuratore nazionale antimafia ricevetti una telefonata da Ciani, che si era appena insediato. In quell’occasione si parlò di problemi di coordinamento, problemi che potevano derivare dalla necessità di un’unità di indirizzo da parte di diverse procure (Caltanissetta e Palermo, ndr), che intervenendo sugli stessi fatti, sentendo le stesse persone, potevano avere valutazioni diverse». È notorio che in quel momento storico le maggiori frizioni tra gli inquirenti siciliani riguardavano il diverso giudizio espresso nei confronti del teste Massimo Ciancimino, bollato come «totalmente inattendibile, menzognero e dedito solo alla conservazione dei propri beni» dai magistrati nisseni; mentre veniva considerato «attendibile e caratterizzato da buona fede» dagli inquirenti palermitani. Il quadro che emerge dalle frasi dell’ex procuratore antimafia è che la Procura di Caltanissetta, seguendo pedissequamente le direttive, faceva circolare alle altre procure d’Italia tutti gli atti per un maggior coordinamento e scambio di materiale d’indagine; invece Palermo non collaborava. I magistrati di fronte a così forti dichiarazioni, con l’aula bunker piena di giornalisti, inizialmente hanno incassato il colpo con nonchalance. Ma poi sono iniziate le scintille con il presidente Grasso, soprattutto da parte del pm di punta dell’inchiesta Stato-mafia, Antonino Di Matteo. A un certo punto della deposizione, per esempio, Di Matteo ha chiesto a Grasso di fare chiarezza su un punto, precisando polemicamente di “aver trascritto letteralmente la frase pronunciata” dal testimone. Grasso ha risposto a tono: «Dottor Di Matteo, lei non ha annotato perfettamente il senso delle mie parole» e ha aggiunto: «Ribadisco: non ho mai parlato di pressioni, questa è sua deduzione. Nei miei incontri (con Ciani, ndr), tutti documentabili, non ho mai affrontato alcun tema processuale. Ripeto: il dibattimento di un processo non rientrava nelle mie funzioni. Ho detto le cose come sono andate e mi si può dare atto che nessuna interferenza ci fu mai da parte mia nelle indagini sulla trattativa». Al termine della sua deposizione, Grasso si è sfogato con il presidente della Corte d’assise: «Posso esprimere una mia sorpresa? Pensavo di essere ascoltato come testimone e anche come persona offesa, visto che qualcuno, come il pentito Giovanni Brusca, ha sostenuto che ero tra quelli a cui dare un colpetto. Solamente una piccola annotazione, perché non mi sarei mai costituito parte civile».

Stato-mafia: un papello leggendario. Manca il foglio originale con le richieste dei boss. Mancano i riscontri calligrafici. E sulla data esatta del papello i pentiti si contraddicono. Perde un altro pezzo l'ipotesi accusatoria della procura palermitana, scrive Anna Germoni su “Panorama”. Il pentito Giovanni Brusca, interrogato venerdì 1° febbraio a Rebibbia durante l’udienza preliminare palermitana sulla trattativa Stato-mafia, accusa Nicola Mancino di essere stato il destinatario del «papello». Il papello, è un foglio di carta con 12 frasi che per la procura di Palermo, contiene le richieste dei boss allo Stato. È la fotocopia di una copia, consegnata ai magistrati della Procura di Palermo il 14 ottobre 2009 dai legali del figlio di Vito Ciancimino, Massimo. Una copia viene anche consegnata alla procura di Caltanisetta, tramite fax da una ricevitoria di Bologna.  L’originale non c’è. Ma per i magistrati di Palermo questo foglio sarebbe il suggello della trattativa fra Stato-mafia. La polizia scientifica ha repertato questa copia su mandato della Procura di Palermo,  comparando la grafia di 27 boss fra cui Gaspare Lo Nigro, Antonio Cinà, Piero Aglieri Leoluca, Bagarella, Francesco Bonura, Giovanni Brusca, Tommaso Cannella, Leoluca Di Miceli, Carmelo Gariffo, Vincenzo Giammanco, Antonino Giuffrè, Marianna Impastato, Arturco, Cinzia e Giuseppe Lipari, Salvatore e Sandro Lo Piccolo, Totò Riina con i figli Giovanni e Giuseppe e Maria Concetta, Antonino Rotolo, Giacinto Sciacca, Carlo Greco, Giuseppe Madonia, Giovanni Mercadante e Bernardo Provenzano. La risposta arriva il 3 giugno 2010: “Le comparazioni con le restanti scritture hanno dato esito negativo”. Quindi il papello non ha paternità. Il 20 ottobre 2009 Mario Mori, nel processo cui lo vede indagato per la mancata cattura di Bernardo Provenzano, dichiara al tribunale di Palermo che non c’è mai stata alcuna trattativa tra la mafia e lo Stato, e in una intervista successiva smentisce di aver mai ricevuto dalle mani di Ciancimino, né di alcun altro, il presunto papello, preannunciando azioni legali in merito. A parlare per primo del papello è stato proprio Giovanni Brusca: ne rivela l’esistenza nel settembre 1996, nell’aula bunker di Rebibbia davanti ai magistrati di Palermo, di Caltanissetta e di Firenze.  Il pentito secondo il racconto di Francesco Viviano, che su La Repubblica titola il 20 settembre 1996 Delitti eccellenti e trame di Stato, avrebbe rivelato che “nell’agosto del 1992 quando l’allora governo presieduto da Giuliano Amato prese delle dure contromisure nei confronti dei mafiosi contemporaneamente sarebbe partito un tentativo di trattativa tra spezzoni dello Stato e lo stesso Riina”. Brusca sostiene che attraverso alcuni mediatori siciliani, schegge degli apparati istituzionali, avrebbero sondato il capo di Cosa nostra per sapere a quale prezzo sarebbe stato disposto a cessare le stragi. Riina avrebbe elaborato un "papello" e cioè un elenco di richieste: “La sospensione del carcere duro, un ridimensionamento dell' uso dei pentiti, la garanzia di aggiustare i processi". Ma Brusca, a distanza di anni fornisce diverse versioni davanti ai magistrati sul leggendario “papello”,  soprattutto sulla sua datazione storica.   Il 27 marzo 1997, ancora Viviano, con l’articolo Riina trattò con lo Stato, su La Repubblica fornisce altri elementi importanti del verbale d’interrogatorio nell’aula bunker di Brusca.  Ecco il corpo del testo: “Dopo le stragi di Capaci e di via D' Amelio, Totò Riina presentò il papello, una sorta di conto e condizioni e "qualcuno si fece vivo". Secondo Brusca gli attentati di Falcone e Borsellino "si dovevano fare, però l'occasione fu sfruttata a livello politico per dire: se non la smettete ora noi continuiamo a fare altre stragi e secondo me è nato questo contatto, cioè il famoso contatto del papello". E il 30 luglio del 1997, sempre su quell’interrogatorio di Brusca a Roma, su La Repubblica a firma di Marina Garbesi, dal titolo Uccidevamo i suoi rivali ma poi Andreotti ci tradì,  emerge che “Brusca cita un famoso papello , una carta di richieste vergata da Totò Riina da presentare alle "autorità" dopo la strage di Falcone nel maggio del '92. Non entra nel dettaglio Brusca, le indagini sono ancora in corso, ma si apprende che il papello riguardava una revisione del carcere duro per i boss e una riforma della legge sui pentiti. Quindi il papello è collocato non più dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio, ma a maggio 1992. Durante il processo di Firenze sulle stragi del 1993, il 13 gennaio 1998, lo “scannacristiani” di  San Giuseppe Jato viene sentito dai magistrati toscani e sul “mitico” papello aggiusta il tiro  sia sulla datazione storica e  sia sugli interlocutori.  “L’obiettivo era quello di  costringere lo Stato ad accettare le richieste di Cosa nostra: una trattativa sotterranea sarebbe stata avviata dopo l'uccisione di Giovanni Falcone". "Si sono fatti sotto - avrebbe detto Toto' Riina a Brusca nell'estate 1992 -, gli ho presentato un "papello" (un conto da pagare, n.d.r.) di richieste lungo così e ora aspetto una risposta". "Non so chi c'era dall'altro lato del tavolo, Riina non me l'ha detto - ha affermato Brusca -, non so se si tratti di magistrati, poliziotti, carabinieri o massoni. Conoscendo chi gravitava intorno a Riina, posso dire però che la persona che può aver stilato il "papello" potrebbe essere il dottor Antonino Cina' (medico di Riina ndr), forse con Ciancimino o altri”. Quindi, nel 1998 Brusca, dichiara che il papello viene vergato dopo l’uccisione di Falcone e con magistrati, poliziotti, carabinieri o massoni.  Nel 2009 davanti ai magistrati siciliani, al Tribunale di Palermo, rivela che: “Nell' estate del 1992, tra la strage di Capaci che uccise Giovanni Falcone e quella di via D' Amelio dove morì Paolo Borsellino, la mafia trattò con lo Stato. Da una parte Totò Riina, dall' altra «un uomo delle istituzioni». Riina mi disse il nome dell' uomo delle istituzioni con il quale venne avviata la trattativa con Cosa Nostra, attraverso uomini delle forze dell' ordine”. Il pubblico ministero gli chiede di rivelarlo ai giudici, ma il pentito ribatte: “Mi avvalgo della facoltà di non rispondere; vi sono indagini in corso e non posso rivelare nulla”. E a alla domanda del penalista Piero Milio, durante il controesame, su dove avesse visto il papello, Brusca risponde candidamente: “L’ho dedotto... no l’ho dedotto, l’ho letto su La Repubblica”. L’ultima dichiarazione oggi nell’aula bunker del carcere di Rebibbia all’udienza preliminare sulla trattativa Stato-mafia. Il destinatario del papello, sarebbe Nicola Mancino, e ridata il papello, “dopo la strage di Capaci e prima di via D’Amelio”. Le varianti di Brusca, rese a verbale e poi ritrattate sulla collocazione storica del papello, e su i nuovi interlocutori della presunta trattativa fra Stato e mafia, che si affacciano via via sulla scena come un canovaccio teatrale sono pittoresche e suggestive. Se non fosse che vengono dichiarate in un’aula di giustizia da parte di un sedicente “pentito”, il macellaio della strage di Capaci, ritenuto credibile dalla Procura di Palermo, che oggi davanti al gup Morosini, proclama: “Totò Riina è il mio maestro d’arte”.

Due lettere anonime dei boss smentiscono il teorema Stato-mafia. I messaggi di morte spediti al Ministero dell’Interno e all’Ansa. Nel mirino i venti nemici di Riina: Vigna, Maria Falcone, Caselli, Violante, Di Maggio, il legale di Buscetta e funzionari Dia, scrive Anna Gemoni su “Panorama”.Illustre signor Direttore le consiglio di far fare delle fotografie e delle interviste ai signori che le elenco perché nei prossimi mesi saranno tutti ammazzati e quindi le verrà comodo avere le loro foto e delle belle interviste su cui poter parlare”. Questo è il testo anonimo scritto su un foglio bianco: segue la lista dei nemici di Totò Riina. Il foglio stava dentro una busta gialla con il mittente del Comune di Corleone, spedita da Villabate e giunta alla redazione dell’agenzia Ansa di Palermo il 14 giugno 1994. La missiva comprendeva una ventina di «signori» (lo stesso identico termine era stato usato da Totò Riina il 25 maggio dello stesso anno in tribunale a Reggio Calabria quando, durante una pausa del processo a suo carico per l’omicidio del giudice Scopelliti, il boss aveva lanciato un anatema contro Luciano Violante, ex presidente della commissione antimafia, contro Pino Arlacchi, deputato pidiessino, e  contro Gian Carlo Caselli, procuratore capo di Palermo). Nel nuovo elenco dei nemici del boss inviato alla redazione dell’Ansa, oltre ai nomi fatti dal Riina in aula figurano: Maria Falcone; Davide Grassi, figlio dell’imprenditore Libero Grassi; il pm Roberto Scarpinato; l’onorevole democristiano e fratello di Piersanti Mattarella, Sergio Mattarella; alcuni sindaci del palermitano e Luigi Li Gotti, allora legale di Tommaso Buscetta. Chiudono la lista, due preti antimafia: Antonio Turturro e Antonio Garau. Il messaggio viene subito consegnato al questore di Palermo e il 18 giugno la procura apre un’indagine. Ma pochi giorni prima, il 1° giugno 1994, un’altra lettera anonima, zeppa di minacce mafiose, era intanto arrivata al ministero dell’Interno. Nel testo viene fatto il nome di Riina, che avrebbe l’intenzione di compiere alcuni attentati. Nel mirino sono: Oscar Luigi Scalfaro, in quel momento presidente della Repubblica; Pino Arlacchi, autore del saggio Addio Cosa Nostra: la vita di Tommaso Buscetta (Rizzoli); l’allora procuratore capo della Repubblica di Firenze, Pier Luigi Vigna; il leader della Lega Nord, Umberto Bossi; alcuni noti dirigenti della direzione investigativa antimafia e Francesco Di Maggio, al tempo vicedirettore del dipartimento amministrazione carceraria. Con questi due messaggi di morte, a distanza di quasi due settimane l’uno dall’altro e se si aggiungono, verso fine maggio, le maledizioni di Riina in tribunale, Cosa nostra semina di nuovo l’incubo bombe. Le elezioni amministrative si dovevano ancora svolgere, ma le politiche c’erano state il 27 e 28 marzo 1994. Il 15 aprile si era insediato a Palazzo Chigi un esecutivo guidato da Silvio Berlusconi. Ma, soprattutto, questo è il periodo nel quale, per la Procura di Palermo, era in corso la cosiddetta trattativa fra uomini dello Stato e mafia. Secondo l’ipotesi dei magistrati palermitani, titolari dell’indagine, il numero 2 del Dap, Di Maggio, avrebbe allentato il 41 bis già nel 1993 proprio per il presunto patto con  Cosa nostra. Ma allora perché mai Riina in quello stesso momento lo vorrebbe morto, insieme a Vigna, a Maria Falcone, e ad alcuni dirigenti della Dia?  Forse voleva dividere il Parlamento sul 41 bis e sulla legge dei pentiti? Perché irrompere così nella scena italiana, se la trattativa  fra mafia e Stato era iniziata e stava proseguendo? L’effetto di quelle minacce, comunque, non sortisce l’effetto auspicato da Riina. La compagine del governo non si spacca e dopo una bufera prevedibile tra i banchi di Montecitorio, tutti si compattano. I segnali di allarme e incubi attentati vengono subito recepiti dall’esecutivo centrale, dagli 007, dalla magistratura e dalla politica bipartisan. Già quando il boss corleonese  lancia la condanna  a morte contro “i comunisti”, Scalfaro interviene di corsa, mandando un telegramma  al vicepresidente del Csm, Giovanni Galloni, che Panorama pubblica qui sotto, per chiedere un’azione forte dal Palazzo dei Marescialli, nei confronti di quel giudice che aveva permesso quello show. Bruno Siclari, capo della procura nazionale antimafia, su Repubblica dichiara: “La mafia stava alla finestra per vedere se il nuovo governo dava segni di incertezza. Ora hanno capito che da parte nostra non c’è alcun cedimento ed è possibile qualsiasi reazione”. Siclari preannuncia altri attentati e sullo stillicidio  quotidiano sul 41 bis dice: “Per i mafiosi è una questione essenziale. Le bombe di Firenze, Milano e Roma avevano questo obiettivo. Così come la campagna che hanno scatenato ora. Non va toccata la legge sul 41 bis e sui collaboratori di giustizia”. Medaglia d’oro all’esecutivo azzurro anche da parte di Violante. “Non facciamoci dividere da Riina – afferma – Berlusconi non sta avendo cedimenti. E Maroni sta lavorando bene”. Vigna, uno dei 20 condannati a morte dai boss ha aggiunto: “Forse Riina ha confermato la strategia che sta dietro le stragi del ' 93. Cosa nostra voleva fermare l'azione dello Stato che si era fatta incisiva grazie anche ai pentiti". Anche Vittorio Teresi, all’epoca sostituto procuratore di Palermo, ora titolare dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia,  ha le idee chiare su quelle missive e a Repubblica traccia un’analisi, facendo un excursus “dalle lettere del Corvo nella primavera del 1989 o di quell’anonimo di otto pagine a cavallo delle due stragi del 1992” sostenendo che “all’azione armata contro determinati obiettivi precede o segue il proclama che chiarisce che la mafia spera di trovare una sponda ferma nell’area di governo sull’articolo 41 bis. Importante per i mafiosi è che venga sempre e comunque riconosciuta la matrice”. Prima lo show di Riina, poi due lettere di morte rivolte a persone di altissimo profilo. Nel ‘94 Cosa nostra punta a nuove stragi. I riflettori sono ben accesi sul 41 bis, sulla legge dei pentiti e sulla confisca dei beni. Tutti, sanno cosa vogliono i boss.  Ma se  la trattativa Stato-mafia era in atto, che interesse avrebbe avuto Cosa nostra a uscire allo scoperto, attirando su di sé l’attenzione negativa di tutto il mondo istituzionale e investigativo, e risvegliando anche l’opinione pubblica? Perché, porprio in un momento così delicato, si sarebbe cercato lo scontro frontale con lo Stato?  Se si sperava di trovare una riva ferma dal mondo politico sul 41 bis, come dice il pm Teresi, vuol dire che Riina non aveva trovato alcuna sponda o cedimento, né esisteva alcuna trattativa con lo Stato…

Stato-mafia: sentenza Mori, le motivazioni - documento. I giudici in 1300 pagine: le tesi della Procura di Palermo risultano «enfatizzate».Niente patto per Provenzano, scrive  Anna Germoni su “Panorama”. I giudici della quarta sezione del tribunale di Palermo, che il 17 luglio scorso hanno assolto «perché il fatto non costituisce reato» il prefetto Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu, per la mancata cattura di Bernardo Provenzano nell’ottobre del 1995 a Palermo, in 1322 pagine di motivazione della sentenza depositate ieri sera, sbriciolano tutto l’impianto accusatorio sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. Secondo il tribunale non ci sarebbe stato alcun patto o accordo per la mancata cattura del boss corleonese. Le mancate revoche del 41 bis del 1993, che secondo i magistrati erano la «prova» del patto scellerato tra Stato- mafia, essendo esigue e irrilevanti non sono da mettere in relazione con la tesi accusatoria, vista la pronta risposta dello Stato, anzi l’impianto della procura risulta «enfatizzato» troppo dai pm. Il giudice Borsellino non fu ucciso per la trattativa, mancano le prove. Il Collegio boccia le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Brusca, Mutolo e Lo Verso. Inoltre, per la mancata cattura del boss Nitto Santapaola nel 1993, mancano le prove a carico degli imputati. E ancora, Massimo Ciancimino «l’icona antimafia» e il colonnello Michele Riccio, principale testimone da cui prende il via il processo a carico di Mori, considerati come validi prodi dai magistrati siciliani, dal tribunale vengono bollati come «inaffidabili» e che non si esclude la loro «consapevole e deliberata falsità delle stesse dichiarazioni». Ci sarebbero state per Mori ed Obinu, «sia pure alla stregua di un giudizio, ex post, scelte operative discutibili» ma niente trattativa con la mafia. Insomma un macigno che irrompe nella procura di Palermo e che rotola immediatamente davanti alla corte d’assise, dove si sta celebrando il processo sulla trattativa fra uomini dello Stato e capimafia. «Le ipotesi, per quanto plausibili, restano ipotesi e nuoce alla complicata attività di verifica della fondatezza delle stesse la diffusa inclinazione a trasformarle in fatti (sia pure rimasti, per il momento, sforniti di prova). Per un P.M. e, a maggior ragione, per un giudice è questo un punto fermo, dal quale non si può prescindere».  «In sede di requisitoria il P.M. ha insistito sull'addetto movente della condotta contestata, evidenziando che la stessa non era stata determinata da vituperabili motivi personali, da collusione, da corruzione o da viltà. Considerati anche il passato degli imputati ed il loro comportamento processuale(essi, come ricordato, rinunciando alla prescrizione non si sono sottratti al giudizio), non appare in linea con la premessa la estrema severità della sanzione richiesta dal P.M., che sembra tradire lo sforzo di imprimere agli avvenimenti una peculiarissima gravità, sforzo forse disancorato da una lettura contestualizzata degli stessi». «La oggettiva analisi della evoluzione della vicenda di Cosa Nostra dalle stragi del 1992 ad oggi, caratterizzata da una incisiva offensiva promossa contro la organizzazione criminale dallo Stato sul piano normativo, sul piano delle investigazioni e della cattura dei latitanti e sul piano delle (conseguenti) statuizioni giudiziarie (costituite dalle decisioni di condanna e di applicazione di misure di prevenzione, soprattutto patrimoniali), propone un punto fermo, dal quale tracciare una utile e congrua linea valutativa, che il Tribunale non ritiene possa essere messo in discussione: negli ultimi venti anni, dopo la stagione delle manifestazioni più violente di Cosa Nostra, che sembravano all'epoca incontrastabili, la cattura del boss Salvatore RIINA ha costituito una svolta che ha ridato fiducia e slancio alla azione di contrasto alla associazione mafiosa, che da lì in poi ha conosciuto una ragguardevole continuità. E se anche nell'autunno del 1993 si scelse di lanciare a Cosa Nostra un segnale di distensione, non rinnovando, per alcune centinaia di detenuti, il regime differenziato previsto dall'ari. 41-bis O.P., dovrebbe, comunque, ritenersi che tale momentaneo cedimento, che, per quanto rilevante, sembra essere stato eccessivamente enfatizzato dall'Accusa (non vennero concessi particolari benefici ai mafiosi, ma si applicò a parecchi esponenti della criminalità organizzata - di cui solo 80 una limitata parte appartenenti a Cosa Nostra - un regime restrittivo meno rigoroso), sia avvenuto anche per cercare di evitare i colpi di un terrorismo mafioso che sembrava, in quel momento, incontrollabile. dirsi che una interpretazione degli avvenimenti che non tenga conto della peculiarità dei contesti temporali in cui si è operato rischia di essere fuorviante e di fare apparire, attraverso facili dietrologie ed impropri richiami moralistici, senz'altro complicità o connivenze gli sforzi di chi magari cercava in quei difficili momenti di evitare eventi sanguinosi in attesa di tempi migliori». «Il Tribunale, riservandosi di vagliare l’affidabilità delle singole indicazioni del MUTOLO che riterrà rilevanti, non ritiene che possa, in termini generali, riconoscersi al medesimo un elevato grado di attendibilità»; «il Tribunale ritiene che sia ragionevole attribuire al LO VERSO, almeno per quanto riguarda le dichiarazioni che direttamente interessano questo processo, un insufficiente grado di intrinseca attendibilità»; «volendo trascurare la tardività di alcune affermazioni del BRUSCA ed il sospetto che possibili fattori inquinanti abbiano suggerito al collaboratore alcune integrazioni (per esempio: la sopravvenuta conoscenza delle dichiarazioni nel frattempo rese da Massimo CIANCIMINO sull'on. MANCINO; la possibile, sopravvenuta esigenza di assecondare alcune ipotesi accusatone determinata dalla volontà di acquisire qualche benemerenza anche in dipendenza dei nuovi reati che gli venivano contestati), si può dire che il propalante sia portatore, di massima, di conoscenze solo indirette e assai lacunose e che le sue indicazioni temporali siano particolarmente oscillanti ed incerte. In conclusione, alla stregua di quanto esposto, alle specifiche indicazioni del BRUSCA non può attribuirsi un sufficiente grado di affidabilità». «Alla stregua delle rassegnate risultanze si deve affermare che gli atteggiamenti del dr. BORSELLINO riferiti dal MUTOLO sono rimasti senza riscontro, così come senza riscontro è rimasta la eventualità che lo stesso dr. BORSELLINO abbia in qualche modo manifestato la sua opposizione ad una "trattativa" in corso fra esponenti delle Istituzioni statali e associati a Cosa Nostra. Da ultimo, si deve rilevare che alcuni dati sembrano indicare che la strage di via D'Amelio fosse già programmata da tempo e non sia stata frutto di una decisione estemporanea, dettata da contingenze del momento». «Immaginare che l'eliminazione del dr. BORSELLINO avrebbe spianatola strada alla "trattativa" significherebbe ammettere l'assenza nel Paese di forze che si sarebbero strenuamente opposte ad una soluzione che, se si volesse prendere per buono il "papello" consegnato da Massimo CIANCIMINO, avrebbe richiesto radicali riforme normative favorevoli alla mafia. Altre sedi processuali accerteranno, se sarà possibile, se il dr. BORSELLINO sia stato barbaramente assassinato per eliminare un ostacolo ad una soluzione concordata fra lo Stato e Cosa Nostra, ovvero per impedirgli di acquisire l'incarico di Procuratore Nazionale Antimafia, per il quale era stato pubblicamente indicato dal Ministro SCOTTI, o, ancora, per la sua ferma volontà di individuare gli assassini del dr. Giovanni FALCONE o per il suo interessamento, in quest'ambito, alla indagine mafia-appalti, che risulta dalle indicazioni di molteplici fonti. In proposito, si può fare rinvio alle dichiarazioni dei dr.i NATOLI ed INGROIA». «Lo stesso dr.INGROIA ha riferito alla Corte di Assise di Caltanissetta dei timori per la incolumità del dr. BORSELLINO successivi alla strage di Capaci, ricordando che il magistrato sosteneva che il dr. FALCONE, finché in vita, era stato per lui uno scudo, che il medesimo era consapevole di essere predestinato alla uccisione dopo l'assassinio dello stesso dr. FALCONE e sottolineando come la strage di via D’Amelio fosse “prevedibilissima”».

L’ITALIA DEGLI IPOCRITI. GLI INCHINI E LA FEDE CRIMINALE.

L’italiano è stato da sempre un inchinante ossequioso. Ti liscia il pelo per fottersi l’anima.

Fino a poco tempo fa nessuno aveva mai parlato di inchini. Poi i giornali, in riferimento alla Concordia, hanno parlato di "Inchini tollerati". Lo sono stati fino a qualche ora prima della tragedia sulla Costa Concordia che ha provocato morti e feriti incagliandosi sulla scogliera davanti al porto dell'Isola del Giglio. Repubblica.it lo ha documentato: nei registri delle capitanerie di porto che dovrebbero controllare il traffico marittimo, emerge che la "Costa Concordia" - così come tutte le altre navi in zona e in navigazione nel Mediterraneo e nei mari di tutto il mondo - era "seguita" da Ais, un sistema internazionale di controllo della navigazione marittima che è stato attivato da alcuni anni e reso obbligatorio da accordi internazionali dopo gli attentati dell'11 settembre (in funzione anti-terrorismo) e dopo tante tragedie del mare avvenute in tutto il mondo. Si è scoperto così che quel passaggio così vicino all'isola del Giglio era un omaggio all'ex comandante della Costa Concordia Mario Palombo ed al maitre della nave che è dell'isola del Giglio. Si è scoperto anche che per ben 52 volte all'anno quella nave aveva fatto gli "inchini". Inchini che fino al giorno prima, fino a prova contraria, erano stati tollerati: nessuno fino ad allora aveva mai chiesto conto e ragione ai comandanti di quelle navi. Nessuno aveva cercato di capire perché passassero così vicini alla costa dove per legge è anche vietato (se una piccola imbarcazione sosta a meno di 500 metri dalle coste, se beccata dalle forze dell'ordine, viene multata perché vietato). Figuriamoci se a un bestione come la Costa Concordia è consentito "passeggiare" in mezzo al mare a 150-200 metri dalla costa. Il comandante Schettino, come confermano le indagini e le conversazioni radio con la capitaneria di porto di Livorno, ha fatto errori su errori, ma nessuno prima gli ha vietato di avvicinarsi troppo all'isola del Giglio. Quando si è incagliata era troppo tardi.

Da un inchino ad un altro. Dopo il 2 luglio 2014 l’anima italica, ipocrita antimafiosa, emerge dalle testate di tutti i giornali. I moralisti delle virtù altrui, per coprire meglio le magagne governative attinenti riforme gattopardesche. Si sa che parlar dei mondiali non attecchisce più per la male uscita dei pedanti italici. Pedanti come ostentori di piedi pallonari e non di sapienza. Lo dice uno che sul tema ha scritto un libro: “Mafiopoli. L’Italia delle mafie”.

Una protesta plateale. Se la Madonna fa l’inchino ai boss, i carabinieri se ne vanno. Se i fedeli e le autorità, civili e religiose, si fermano in segno di “rispetto”, davanti alla casa del mafioso, le forze dell’ordine si allontanano, in segno di protesta. E ne diventano eroi. Tanto in Italia basta poco per esserlo. È successo il 2 luglio 2014, a Oppido Mamertina, piccolo paese in provincia di Reggio Calabria, sede di una sanguinosa faida tra mafiosi: durante trenta secondi di sosta per simboleggiare, secondo tutti i giornali, l’inchino al boss Giuseppe Mazzagatti, i militari che scortavano la processione religiosa si sono allontanati. Tutti ne parlano. Tutti si indignano. Tutti si scandalizzano. Eppure l’inchino nelle processioni è una tradizione centenaria in tantissime località del sud. Certo è che se partiamo con la convinzione nordista mediatica che il sud è terra mafiosa, allora non ci libereremo mai dei luoghi comuni degli ignoranti, che guardano la pagliuzza negli occhi altrui. Gli inchini delle processioni si fanno a chi merita rispetto: pubbliche istituzioni e privati cittadini. E’ un fatto peculiare locale. E non bisogna additare come mafiosi intere comunità (e dico intere comunità), se osannano i singoli individui e non lo Stato. Specie dove lo Stato non esiste. E se ha parvenza di stanziamento, esso dà un cattivo esempio. A volte i giudizi dei tribunali non combaciano con quelle delle comunità, specie se il reato è per definizione nocumento di un interesse pubblico. Che facciamo? Fuciliamo tutti coloro che partecipano alle processioni, che osannano chi a noi non è gradito? A noi pantofolai sdraiati a centinaia di km da quei posti? Siamo diventati, quindi, giudici e carnefici? Eliminiamo una tradizione centenaria per non palesare il fallimento dello Stato?

Dare credibilità agli amministratori locali? Sia mai da parte dei giornali. Il sindaco di Oppido Mamertina, Domenico Giannetta, ha rilasciato un lungo comunicato per spiegare l'accaduto «Noi siamo una giovane amministrazione che si è insediata da 40 giorni e non abbiamo nessuna riverenza verso un boss. Se i fatti e le motivazioni di quella fermata sono quelli ricostruiti finora noi siamo i primi a condannare e a prendere le distanze», spiega Domenico Giannetta, sindaco di Oppido Mamertina. «A quanto appreso finora - spiega ancora il sindaco - la ritualità di girare la madonna verso quella parte di paese risale a più di 30 anni, ma questa - chiarisce Giannetta - non deve essere una giustificazione. Se la motivazione è, invece, quella emersa condanniamo fermamente. Noi - sottolinea - siamo un’amministrazione che vuole perseguire la legalità. Ci sentiamo  come Amministrazione Comunale indignati e colpiti nel nostro profilo personale  e istituzionale. Era presente al corteo religioso tutta la Giunta Comunale, il Presidente del Consiglio Comunale, il Comandante della Polizia Municipale e il Comandante della Stazione dei Carabinieri di Oppido. Giunti all'incrocio tra via Ugo Foscolo e Corso Aspromonte, nel seguire il Corteo religioso tutti i predetti camminando a piedi svoltavamo a sinistra, circa 30 metri dietro di noi vi erano i presbiteri e ancora dietro la vara di Maria SS. Delle Grazie. Mentre tutti procedevamo a passo d'uomo la vara si fermava all'intersezione predetta e veniva girata in direzione opposta al senso di marcia del Corteo, come da tradizione. Peraltro, nell'attimo in cui i portatori della vara hanno espletato tale rotazione, improvvisamente il Comandante della Stazione locale dei Carabinieri che si trovava alla destra del Sindaco si è distaccato dal Corteo, motivando che quella gestualità era riferibile ad un segno di riverenza verso la casa di Mazzagatti. Sentiamo dunque con sobrietà di condannare il gesto se l'obiettivo era rendere omaggio al boss, perché ogni cittadino deve essere riverente alla Madonna e non si debba verificare al contrario che per volontà di poche persone che trasportano in processione l'effigie, venga dissacrata l'onnipotenza divina, verso cui nessun uomo può osare gesto di sfida. Dal canto nostro nell'immediatezza del fatto, nel dubbio abbiamo agito secondo un principio di buon senso e non abbiamo abbandonato il Corteo per non creare disagi a tutta la popolazione oppidese ed ai migliaia di fedeli che giungono numerosi da diversi paesi ed evitare il disordine pubblico».

Se non vanno bene, possiamo cambiare le regole. Bene ha fatto a centinaia di km in quel di Salerno il clero locale. Meno applausi e più preghiere, affinchè la processione di San Matteo ritorni ad essere «un corteo orante» e non un teatro o un momento «di interessi privatistici», scrive “La città di Salerno”. L’arcivescovo Luigi Moretti annuncia così le nuove “regole” che, in linea con la Cei, caratterizzeranno la tradizionale celebrazione dedicata al Santo Patrono, invitando tutti - fedeli, portatori, istituzioni - a recuperare il senso spirituale della manifestazione. Non sono previste fermate dinanzi alla caserma della Guardia di Finanza,  nè dinanzi al Comune. Aboliti gli “inchini” delle statue che per nessuna ragione dovranno fermarsi sulla soglia di bar e ristoranti, visto che «sono i fedeli che si inchinano ai Santi e non il contrario». Nessuna “ruota” delle statue, fatta eccezione per tre momenti di sosta all’altezza di corso Vittorio Emanuele, corso Garibaldi e largo Campo. I militari che sfileranno dovranno essere rigorosamente non armati e le bande saranno ridotte ad un unica formazione. Le stesse statue saranno compattate «in un blocco unico per evitare dispersioni». Nei giorni che precedono la processione saranno organizzate iniziative nelle parrocchie della zona orientale, «che prima erano tagliate fuori dalla celebrazione». Il corteo sarà aperto da croci e candelabri, poi le associazioni, con l’apertura anche a quelle laiche, altra novità di quest’anno. A seguire la banda, le statue, il clero «su doppia fila», l’arcivescovo che precederà San Matteo e dietro i Finanzieri, il Gonfalone del Comune e le autorità con il popolo. Durante la sfilata «si pregherà e verranno letti dei brani del Vangelo». No ai buffet allestiti per ingraziarsi il politico di turno con brindisi e pizzette. «Quelle, se i fedeli vorranno, potranno recapitarle a casa dei portatori», ha ironizzato Moretti. «Ben venga chi vuole offrire un bicchiere d’acqua a chi è impegnato nel trasporto delle statue, ma il resto no, perchè c’è un momento per fare festa ed uno per pregare».

In conclusione sembra palese una cosa. Gli inchini nelle processioni non sono l’apologia della mafia, ma spesso sono atti senza analisi mediatica dietrologica. Molte volte ci sono per ingraziarsi, da parte dei potenti, fortune immeritate. Sovente sono un segno di protesta contro uno Stato opprimente che ha vergognosamente fallito.

L’italiano è stato da sempre un inchinante ossequioso. Ti liscia il pelo per fottersi l’anima. Si inchina a tutti, per poi, un momento dopo, tradirlo. D'altronde ognuno di noi non si inchina a Dio ed ai Santi esclusivamente per richieste di tornaconto personale? Salute o soldi o carriera?

Ricordatevi che lo sport italico è solo glorificare gli appalti truccati ed i concorsi pubblici falsati.

Eppure la demagogia e l'ipocrisia non si spegne.

La Madonna si inchina al covo del padrino, processione shock tra i vicoli di Ballarò. Il boss Alessandro D’Ambrogio è in carcere a Novara ma domenica, a Palermo, la sfilata del Carmine gli ha reso onore davanti al luogo simbolo di Cosa Nostra. La chiesa: “Ancora una sosta anomala”, scrivono Salvo Palazzolo e Giorgio Ruta su “La Repubblica”. L’ultimo padrino di Cosa Nostra è rinchiuso nella sezione “41 bis” del carcere di Novara, ma è come se fosse ancora tra i vicoli di Ballarò, qui dove due anni fa portava orgoglioso la vara della madonna del Carmine. Domenica scorsa il boss Alessandro D’Ambrogio non c’era. Ma la processione ha voluto comunque rendergli onore: si è fermata proprio davanti all’agenzia di pompe funebri della sua famiglia. Un uomo di mezza età, con la casacca della confraternita di Maria Santissima del Monte Carmelo, urla: «Fermatevi». E così la processione della madonna del Carmine si ferma, mentre la banda continua a suonare. La vara tutta dorata di Maria immacolata si ferma davanti all’agenzia di pompe funebri della famiglia del capomafia Alessandro D’Ambrogio, uno dei nuovi capi carismatici di Cosa nostra palermitana. Lui non c’è, rinchiuso dall’altra parte dell’Italia, nella sezione “41 bis” del carcere di Novara, ma è come se fosse ancora qui, tra i vicoli di Ballarò. Questo accadeva domenica, intorno alle 19: la processione ferma per quasi cinque minuti davanti all’agenzia di via Ponticello, tra la gente in festa per l’arrivo della statua della madonna. Fino a un anno e mezzo fa, in questi uffici arrivavano solo poche persone, scendevano da auto e moto di lusso e si infilavano velocemente dentro. Nell’agenzia di pompe funebri dove la processione si è fermata Alessandro D’Ambrogio organizzava i summit con i suoi fedelissimi, ripresi dalla telecamera che i carabinieri del nucleo investigativo avevano nascosto da qualche parte. Ecco perché questo luogo è un simbolo per i mafiosi di tutta Palermo, il simbolo della riorganizzazione di Cosa nostra, nonostante la raffica di arresti e di processi. Ecco perché il capomafia di Ballarò sembra ancora qui: la processione gli rende omaggio nella sua via Ponticello, a due passi dall’atrio della facoltà di Giurisprudenza dove sono in bella mostra le foto dei giudici Falcone e Borsellino il giorno della loro laurea. È questa l’ultima cartolina di Palermo. Ancora una volta, diventa sottilissimo il confine fra mafia e antimafia. Quasi non esiste più confine fra sacro e profano. Due anni fa, D’Ambrogio portava orgoglioso la vara di questa madonna con la casacca della confraternita. Adesso è accusato di aver riorganizzato la mafia di Palermo, aver diretto estorsioni a tappeto e traffici di droga milionari. Ma la processione continua a rendergli onore. I tre fratelli del padrino sono tutti lì, davanti all’agenzia di pompe funebri, per accogliere la festa più importante dell’anno. Franco, con amici e parenti. Iano e Gaetano un po’ in disparte. I fratelli D’Ambrogio non sono mai stati indagati per mafia, ma non è per loro che si ferma la processione. Sembra una sosta infinita, la più lunga di tutto il corteo. Anzi, soste ce ne sono ben poche lungo il percorso. Per i giochi d’artificio o per le offerte di alcuni fedeli. I D’Ambrogio non fanno né fuochi d’artificio, né offerte. Chiedono ai confrati di portare sin sulla statua due bambini della famiglia. Poi, Franco D’Ambrogio saluta con un sorriso. E la processione riprende. «È stata una fermata anomala», ammette fra’ Vincenzo, rettore della chiesa del Carmine Maggiore. «Anche quest’anno è accaduto», sussurra il giorno dopo la processione. «Io ero avanti, su via Maqueda, stavo recitando il santo rosario. A un certo punto mi sono ritrovato solo. Ho capito, sono tornato indietro di corsa, e ho visto la statua della madonna ferma. Qualcuno stava passando un bambino ai confrati, per fargli baciare la Vergine. Cosa dovevo fare? Era pur sempre un atto di devozione quello. Qualche attimo dopo, la campanella è suonata e la processione è andata avanti». Adesso, frate Vincenzo cerca con dolore le parole: «Avevo cercato di esprimere concetti chiari durante la preparazione del triduo della Madonna, richiamando tutti al senso di questa processione così importante. Ho detto certe cose nel modo più gentile possibile, per evitare reazioni, ma le ho dette. Ed è accaduto ancora. Cosa bisogna fare?». Il frate va verso l’altare. «Cosa bisogna fare?», ripete. Da quando l’anziano sacerdote si è ammalato lui è solo nella frontiera di Ballarò, che continua ad essere il regno dei D’Ambrogio, nonostante i blitz disposti dalla procura antimafia. «Da qualche tempo, la Curia si sta muovendo in modo deciso — il tono della voce di fra’ Vincenzo diventa più sollevato — sono stati chiesti gli elenchi dei componenti delle confraternite, e poi il cardinale ha inviato suoi rappresentanti alle processioni ». Anche domenica pomeriggio, a Ballarò, c’era un ispettore inviato dal cardinale Paolo Romeo. Perché Cosa nostra continua ad essere molto legata ad alcune processioni. Uno degli ultimi boss arrestati, Stefano Comandè, era addirittura l’autorevole superiore della Confraternita delle Anime Sante, che organizza una delle più importanti processioni del Venerdì Santo a Palermo. I carabinieri l’hanno fermato alla vigilia di Pasqua, poche ore dopo aver portato in giro per il quartiere della Zisa le statue di Cristo morto e di Maria Addolorata: le microspie hanno svelato che Comandè era fra i registi di una faida che stava per scoppiare. La Curia l’ha rimosso e ha sciolto la confraternita. Anche perché il boss devoto non si rassegnava e dal carcere faceva sapere tramite i familiari: «A giugno faremo un’altra grande processione. E alla confraternita nomineremo una brava persona». Ma questa volta l’intervento della Chiesa è stato severissimo: «Scioglimento della confraternita a tempo indeterminato per infiltrazioni mafiose». È la prima volta che accade in Sicilia.

Gli “inchini” della Chiesa ai boss? Cosa volete, sono le superstizioni dei poveri meridionali sottosviluppati. Su Repubblica il commento di Augias al video della processione palermitana con presunto omaggio mafioso diventa un affondo devastante sulla fede del Sud Italia, scrive “Tempi”. Nella rubrica delle lettere di Repubblica tale Plinio Garbujo chiede oggi a Corrado Augias un commento sul caso – sollevato un paio di giorni fa dalla stessa Repubblica – del «video shock» in cui si vede una scena che il lettore, sulla base della ricostruzione offerta dal quotidiano, sintetizzata così: «Durante la processione della Madonna del Carmine, la statua con il baldacchino si è fermata davanti all’agenzia funebre del boss D’Ambrogio, luogo simbolo di Cosa Nostra, per rendergli onore, mentre lui è in carcere a Novara». «Sembrerebbero notizie del lontano Medio Evo, anche se il fatto è accaduto domenica scorsa», osserva Garbujo, scandalizzato perfino dal fatto che «i genitori che partecipano a tale processione si affrettano a far salire i loro bambini sul baldacchino (…) per poter baciare la Madonna». Insomma, rimprovera il lettore di Repubblica, «siamo nel 2014 dopo Cristo. Di quanto tempo ha ancora bisogno il Sud per potersi liberare di queste tradizioni e di queste manifestazioni in cui chi comanda non è la parrocchia – e a quanto pare nemmeno il Papa – ma il boss locale?». Bene. A parte l’avventatezza del giudizio di Garbujo (è ancora tutta da verificare la tesi secondo la quale la tappa della processione filmata da Repubblica fosse in effetti un “inchino al boss”), quello che stupisce davvero – si fa per dire – è la risposta di Augias, il quale anziché restituire il giusto spazio al dubbio sulla vicenda, come ci si aspetterebbe da un intellettuale laico quale egli dice di essere, decide di approfittarne per buttare là valutazioni anche più spinte. «Gli abitanti di quelle città riusciranno mai a rendersi conto che siamo cittadini d’Europa dove si rispettano le regole, si pagano le tasse, si protegge il territorio e non ci si nasconde dietro all’omertà e al servilismo interessato per qualche favore clientelare?», domanda indignato il lettore in coda alla missiva. «Non lo so», replica Augias. «Temo che non lo sappia nessuno, del resto». Però c’è una cosa cha Augias ritiene di sapere con sorprendente certezza: «Avergli reso omaggio (al boss mafioso, ndr) facendo sostare la statua della Madonna davanti alla sua agenzia di pompe funebri è un insulto sia religioso sia civile» che «contraddice lo stesso indirizzo che la Chiesa cattolica si è data di recente grazie al papa Francesco». Ma l’intellettuale non si ferma all’aspetto “legale” della vicenda. Come gli capita spesso si sente in dovere di giudicare anche l’aspetto religioso della faccenda. In questo modo: «Le processioni – scrive – sono retaggio di una religiosità tipicamente mediterranea», infatti, all’epoca, quando «i nostri emigranti meridionali» tentarono di riprodurle in America secondo Augias «suscitarono la riprovazione degli irlandesi, cattolici anche loro ma di una fede meno idolatrica». Con la diffusione del cristianesimo, insiste il commentatore di Repubblica, «il culto dei santi e della Madonna sostituì i cortei dedicati alle varie divinità o a momenti dell’anno agricolo o al culto della fecondità con la famose “falloforie”. Si tratta di manifestazioni sconosciute all’ebraismo, alle confessioni protestanti e allo stesso cattolicesimo nordeuropeo. Sopravvivono nel Mezzogiorno dove una blanda fede si mescola ad antiche superstizioni, sfiducia, speranza, complicità, un semiconsapevole bisogno di assistenza celeste». La rubrica è finita, andate in pace. Anzi no: «Gli inchini ai capi criminali sono solo l’appendice di tutto questo. Non sarà facile venirne a capo». Amen.

Inchino” a Palermo, parla il priore: «Escludo che ci siano stati omaggi alla mafia. Sono strumentalizzazioni per chiuderci dentro le chiese», scrive Chiara Rizzo su “Tempi”. Intervista a padre Leta, superiore dei carmelitani organizzatori della processione a Ballarò finita nel “video shock” di Repubblica: «Il diavolo si annida tra i mafiosi. Ma anche tra i giornalisti che inseguono lo scoop ad ogni costo». «Sono certo che il diavolo si annida dentro i mafiosi. Ma a volte anche tra i giornalisti che inseguono lo scoop ad ogni costo». Padre Pietro Leta è il priore dei frati carmelitani del Carmine maggiore di Palermo, gli organizzatori della processione della “vara” della Madonna che domenica 27 luglio ha attraversato il quartiere di Ballarò, intorno alla quale si sono scatenate violente polemiche mediatiche a causa di un video di Repubblica che documenterebbe il presunto omaggio della Vergine al boss Alessandro D’Ambrogio, provato – secondo il quotidiano – dalla fermata del corteo per il cosiddetto “inchino” davanti all’agenzia funebre di proprietà del mafioso.

«Escludiamo categoricamente che a Ballarò ci sia stato alcun omaggio, inchino o gesto di compiacenza alla mafia» scandisce invece padre Leta a tempi.it.

Padre, cos’è successo allora domenica scorsa? Nel mirino dei media è finita la confraternita di Maria Santissima del Monte Carmelo, che nel momento della fermata portava la statua della Madonna. Ma voi avete svolto indagini per vostro conto.

«Occorre inquadrare la festa nel suo insieme innanzitutto. La statua della Madonna è molto grande, la cosiddetta “vara”, su cui è poggiata la statua, ha una base mastodontica, tanto che dev’essere spinta da numerosi confrati, i quali si devono dare addirittura dei turni. Nel percorso la processione incontra sempre alcuni ostacoli, e deve tener conto di alcune tradizioni. Gli ostacoli sono ad esempio i cavi elettrici lungo le strade, che possono essere pericolosi, perciò la statua, e di conseguenza la processione, è costretta spesso a fermarsi per consentire un passaggio non rischioso. Una delle tradizioni di cui tenere conto, invece, è quella che vuole che durante la processione i genitori, come gesto di “dono” e domanda di benedizione alla Madonna, chiedono alla vara di fermarsi e porgono i loro bambini ai confrati perché li avvicinino alla statua. A questi due fatti, se ne aggiunge un terzo: attorno alla vara, oltre ai membri della confraternita che indossano un abito ufficiale, si affiancano diversi uomini che non hanno nulla a che fare con i confrati e che indossano uno scapolare fatto in casa, usato da diverse generazioni e passato di padre in figlio. Domenica, durante il percorso ufficiale della processione, sono state fatte almeno una quarantina di fermate della statua e del corteo, alcune per evitare il pericolo dei cavi elettrici, altre per potere avvicinare alla statua alcuni neonati».

Nell’occhio del ciclone è finita però una particolare fermata. Perché proprio lì?

«La fermata vicino all’agenzia di D’Ambrogio in realtà non ha nulla – ripeto: nulla – a che vedere con l’inchino ai boss. Abbiamo approfondito e posso assicurare che la fermata c’è stata per i pochi minuti necessari a consentire a una giovane coppia di avvicinare il proprio bambino alla statua. Una cosa naturale, tanto è vero che poco dopo la statua è ripartita e si è fermata nuovamente a pochi metri di distanza, perché una signora africana che aveva assistito alla scena precedente ci ha chiesto a sua volta di poter issare la sua neonata vicino alla statua. Dunque tutto quello che si è ipotizzato sui giornali è autentica strumentalizzazione. Il cronista di Repubblica ha “zoomato” la sua attenzione e il suo video esclusivamente sulla fermata davanti all’agenzia, tagliando tutti gli elementi che avrebbero fatto capire cosa aveva portato a farla. La strumentalizzazione è consistita nel collegare quella fermata a un fatto che risale a due anni fa: all’epoca un mafioso aveva preso parte al gruppo dei portatori. Poi il mafioso è stato arrestato. Ma attenzione: noi escludiamo categoricamente che quel boss facesse parte della confraternita del Monte Carmelo. Lo escludo nel modo più assoluto».

Perché secondo lei c’è stata questa strumentalizzazione?

«La strumentalizzazione del giornalista Palazzolo si è giocata nel collegamento tra la fermata e il vocabolo “inchino”, che è rimasto cristallizzato nella mente dell’opinione pubblica a causa della processione di Oppido Mamertina e per le parole di giusta condanna del Papa nei confronti dei mafiosi. Solo che qui a Ballarò invece non c’è stato alcun inchino, né nessun altro gesto di compiacenza verso la mafia. Lei mi insegna che il cronista vuole fare lo scoop, ed è questo quello che persegue. Palazzolo ci è riuscito creando questo collegamento, e in effetti tutti i lettori sono stati portati a pensare che “ancora una volta succede quello che è accaduto in Calabria”. Questo non è giornalismo, bensì spregiudicatezza nell’uso dell’opinione pubblica. Il diavolo certo si annida tra i mafiosi, ma anche tra i giornalisti che vogliono fare scoop. La chiave di quello che è accaduto è che un cronista ha ottenuto quello che voleva. La sua notizia si è guadagnata la prima pagina e poi è stata ripresa dai principali media, cavalcando l’onda dell’indignazione provocata dai fatti calabresi (che tra l’altro personalmente condivido) attraverso tre parole evocative: inchino, processione e Madonna. Ma nel modo più categorico io dico: la Madonna non si inchina ai mafiosi, sono i mafiosi al contrario che si devono piegare e inginocchiare davanti a Lei. Le anticipo inoltre una notizia: la confraternita ha presentato un esposto al procuratore della Repubblica contro il giornalista per diffamazione».

Sempre su Repubblica Corrado Augias ha scritto che le processioni sopravvivono ormai solo nel Mezzogiorno «dove una blanda fede si mescola ad antiche superstizioni». Lei che ne dice?

«Augias fa il suo lavoro, e pure lui come il collega unisce le parole processione e superstizione. In realtà dal Concilio Vaticano II c’è stato nella Chiesa un lungo cammino di purificazione della tradizione popolare nelle celebrazioni religiose. È chiaro che c’è un retaggio antico nelle tradizioni, ma la richiesta di fede si esprime anche attraverso le tradizioni. Bisogna chiedersi quali grandi ruoli hanno esercitato le confraternite religiose, non solo al Sud, ma anche al Nord. Le “Misericordie”, ad esempio, che hanno svolto a partire dalla Toscana un lavoro di assistenza e carità».

Nelle feste religiose a cui partecipano migliaia di persone diventa difficile separare i mafiosi dal resto dei fedeli. Cosa è possibile fare allora secondo lei?

«Non si può separare i “buoni” dai “cattivi”, né possiamo esigere per ogni bambino che viene presentato alla Madonna i nomi del padre e della madre, o la loro fedina penale. È chiaro che una persona conosciuta da tutti come mafiosa la allontaniamo. Ma è anche vero che Gesù ha chiesto la conversione del peccatore e ha inveito contro il peccato: nella parabola della zizzania ha detto di lasciare crescere il grano con la zizzania, perché c’è il rischio che togliendo la zizzania si distrugga anche il grano buono. Questo significa che anche al mafioso, come a ogni peccatore, è data la possibilità di convertirsi: noi possiamo solo continuare a lavorare per isolare la mafia».

Ma papa Francesco ha scomunicato i mafiosi. 

«E chi non è d’accordo con il Papa su questo? Noi lo siamo pienamente. In Sicilia, tanto più a Palermo, viviamo queste cose sulla pelle. Noi vogliamo testimoniare la nostra fede insieme a padre Pino Puglisi che è stato martire della mafia».

Secondo lei andrebbero eliminate queste processioni a rischio “infiltrazione”?

«Va chiarita una cosa. Non si arriva a una processione come quella del 27 luglio da un giorno all’altro, ma dopo un cammino di un anno. La confraternita è seguita nel suo cammino di formazione spirituale con incontri mensili, il programma della festa viene predisposto da confraternita e religiosi molti mesi prima, sin da marzo, e tutta la comunità, religiosi e laici, si prepara alla processione con un itinerario spirituale ben articolato. A chi partecipa alla processione “dall’esterno”, infine, possiamo solo dare una testimonianza della nostra fede, pregando e cantando. Ci sono alcuni gesti poi che non si possono sradicare: non si può fare una processione dentro la chiesa, ma nel territorio. E non vogliamo smettere di farla lì, perché il territorio è uno spazio importante, mentre i falsi benpensanti, con le polemiche di questi giorni, mirano proprio a tagliare il nostro legame con il territorio, chiudendo la fede dentro le chiese. Non a caso con queste polemiche chiedono indirettamente anche di eliminare le confraternite, che sono segno invece di una lunga tradizione di rapporto tra la Chiesa e la comunità locale. Le confraternite vanno continuamente educate alla fede, questo sì. Ma eliminate no».

In tutta questa ipocrisia stona la retorica del sud assistito.

IL SUD TARTASSATO.  

Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.

C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.

Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.

LA VERA STORIA DI CORRADO CARNEVALE ED I MAGISTRATI POLITICIZZATI E PIGRI.

Carnevale: "I magistrati? Politicizzati e pigri". L'ex presidente di Cassazione: "Appartenendo alla giusta corrente si ha carta bianca. Doveroso separare le carriere", scrive Giancarlo Perna su “Il Giornale”. Essendo stato il giudice più bravo d'Italia e il più perseguitato, Corrado Carnevale è contemporaneamente esperto di giustizia e malagiustizia. Ha indossato la toga nel 1953, quando fu primo assoluto al concorso. L'ha deposta nel 2013, sessant'anni dopo. Nel mezzo, la sospensione dal servizio con l'accusa di mafiosità gettata lì da Gian Carlo Caselli, capo della Procura di Palermo. Era il 1993 e a calunniare era il pentito Gaspare Mutolo. L'ostracismo durò sei anni e mezzo. Finché fu assolto con formula piena. Poi, per recuperare il tempo ingiustamente perduto, Carnevale è tornato in Cassazione, circondato dalla massima deferenza, fino a 83 anni compiuti. La penombra in cui il giudice tiene l'appartamento, ci protegge dalla calura. Da quando un decennio fa è morta la moglie, Carnevale non ha mosso una sedia. Questa scomparsa è il suo unico cruccio. Sulle mascalzonate subite, fa il filosofo. «Che sentimenti ha verso Caselli?», gli ho chiesto. «Nessuno», ha detto col tono di chi non dà spazio al superfluo. Il mobbing giudiziario lo ha inseguito anche nello studio dove sediamo. Un giorno scoprì che il telefono era isolato. Avvertì la Sip e vennero due tipi che armeggiarono un po'. «Quanto devo?» chiese alla fine. «È gratis, giudice», fu la risposta. «Come facevano a sapere che ero giudice?», sorride oggi Carnevale. Così, intuì che era stato un trucco per mettergli delle cimici e spiarlo in casa, non avendo potuto scoprire nulla con le normali intercettazioni. Fatica sprecata: anche le cimici confermarono il galantuomo. Carnevale è passato alla storia come l'Ammazzasentenze per avere annullato, da presidente di Cassazione, sentenze infarcite di svarioni. Alcune riguardavano mafiosi, il che scatenò polemiche. Ma la caratteristica di Carnevale è di essere inflessibile sul rispetto integrale della legge. Ho isolato le seguenti frasi della nostra chiacchierata che sono il cuore del suo credo: «Un giudice che ha dubbi su una norma, può chiedere alla Consulta di cancellarla. Ma finché la norma c'è, la deve rispettare. Gli piaccia o non gli piaccia. Non può scegliere, le deve rispettare tutte. Non può inseguire le sue chimere (salvare il mondo, ndr), fossero anche le più nobili. Suo unico compito è applicare tutte le regole che l'ordinamento si è posto». Da scolpire nella pietra.

Il punto molle del processo penale è la troppa vicinanza del giudice al pm, a scapito della difesa.

«Il nodo è chi ha permesso questa vicinanza. Ossia la politica che ha consentito all'Anm di tutto e di più. Non c'è ormai alcun controllo sull'idoneità dei magistrati. Basta che appartengano alla giusta corrente e hanno carta bianca».

Che rapporto ha avuto con l'Anm?

«Mi dimisi nel 1957, quattro anni dopo l'ingresso in magistratura. Capii subito che non si battevano per la giustizia ma per soldi e prebende, nonostante il loro trattamento fosse già il più favorevole».

Separazione delle carriere?

«Per farlo, bisogna cambiare la Costituzione. Ma nulla vieta di impedire da subito a pm e giudici di passare da una funzione all'altra, come oggi sciaguratamente succede».

Una scuola post-laurea per pm, giudici, avvocati?

«Perfettamente inutile. Il problema è di cultura generale, non di cultura giuridica».

Più ingressi di prof e avvocati in magistratura?

«Non serve a nulla, come dimostra il Csm in cui un terzo dei membri è composto di docenti e avvocati, scelti dal Parlamento, che però si adeguano puntualmente all'andazzo».

A che serve il Csm?

«Alla carriera dei magistrati appartenenti alle correnti giuste».

Come va riformato?

«Estraendo a sorte i membri. Che oggi sono invece scelti dalle correnti di Anm tra i più supini ai loro diktat».

Com'è che lei, considerato un cannone, invece di essere il fiore all'occhiello dei colleghi ha rischiato da loro la galera?

«È accaduto appena ho diretto uffici. Terminavo in tre mesi, ciò che gli altri facevano in un anno. Ero la prova che i loro alibi - scarsità di mezzi, troppe liti, mancanza di carta igienica - era il tentativo di addebitare alla politica le proprie lacune».

Per questo volevano rovinarle la vita?

«Temevano che potessi salire tanto in alto da influire sul loro lassismo. È la logica dell'invidia».

Quello di Caselli, dopo le calunnie di Mutolo, fu atto dovuto o smania di annichilirla?

«Atti dovuti non esistono. L'attendibilità dei mafiosi va controllata con rigore, nonostante la teoria di Falcone che i pentiti dichiarano sempre la verità. Si voleva colpire me».

In un grado del processo prese sei anni per concorso esterno. Che pensa di questo reato?

«Che non è configurabile. Il concorso esterno è un'invenzione che ha sostituito il terzo livello con il quale si pensava di colpire i politici».

Il fantomatico terzo livello...

«Il terzo livello non funzionò e si cambiò col concorso perché aveva una parvenza più giuridica. In diritto esisteva già la categoria del concorso e, a orecchio, lo si estese a esterno».

Se in Cassazione si fosse trovato davanti Dell'Utri, condannato a sette anni per concorso esterno, che avrebbe detto?

«Che non era ravvisabile quel reato perché la legge non lo prevede. Ciò non esclude però che i suoi comportamenti potessero avere un rilievo penale diverso».

Ai mafiosi si applica un diritto speciale: 41 bis, ecc. Costituzionale?

«Assolutamente no. I cittadini sono uguali davanti alla legge».

Contro il Cav c'è stato un eccesso di zelo?

«Berlusconi, come tutti i magnati, compreso Agnelli, è stato disinvolto, ma da imprenditore fu ignorato da Mani pulite. Entrò nel mirino da politico. Segno della politicizzazione della magistratura».

Come ricondurre le toghe nell'alveo?

«Oltre all'estrazione a sorte del Csm, va introdotta la responsabilità civile personale dei magistrati. Esattamente ciò contro cui si batte in queste ore l'Anm».

Giudizio finale sullo stato della giustizia?

«Siamo tutti esposti a iniziative giudiziarie capricciose da Paese incivile. Un brutto modo di vivere il tempo che ci è dato su questa terra».

MARCELLO DELL’UTRI. LA VERA STORIA.

Dell'Utri e la balla dei libri rubati. L'ex senatore, in carcere a Parma, viene accusato dai mass media di avere "ricettato decine di migliaia di libri antichi". Ma non è vero, scrive Maurizio Tortorella su "Panorama". Ancor più che nel salto sul carro del vincitore, uno sport nel quale eccellono a livello mondiale, gli italiani sono campioni olimpionici nel tiro allo sconfitto. Prendiamo Marcello Dell’Utri: già senatore di Forza Italia e del Pdl, dal 13 giugno 2014 Dell’Utri è recluso nel carcere di Parma a causa di una controversa condanna definitiva a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. L’uomo è atterrato, vinto. Anche se negli anni Novanta ha già dato prova di una grande tempra, durante una lunga custodia cautelare nel carcere di Torino, dove aveva trascorso il tempo leggendo I pensieri di Sant’Agostino. Per qualche tempo sui giornali si scrive del disagio del condannato per la sua impossibilità di tenere più di un libro per volta in cella: del resto, la passione di bibliofilo dell’ex numero uno di Publitalia è nota. Poi su di lui cala il silenzio. Ma la gogna non può accontentarsi, deve insistere. E allora che cosa accade, improvvisamente, il 31 marzo scorso? Accade che su più giornali, contemporaneamente, escono articoli nei quali si racconta che Dell’Utri è nuovamente nei guai. E che guai. Titoli e articoli sono a dir poco disastrosi, e non solo perché lo colpiscono nella sua grande passione: “Indagine su Dell’Utri per ricettazione: 10 mila libri da chiese e biblioteche” scrive il Corriere della Sera. Aggiunge il Fatto quotidiano: “L’ex senatore è accusato di ricettazione e di esportazione illecita di opere d’arte che per gli inquirenti valgono milioni di euro”. La Repubblica insiste: “Volumi stimati milioni di euro trafugati a enti pubblici e religiosi”. “Sequestrati a Dell’Utri 20 mila libri antichi rubati da biblioteche”, spara il Messaggero. Nessuno si sottrae all’attacco. Si parla di una rete di complici, attiva nella fornitura di libri rubati. Emerge la figura di un Dell'Utri, se possibile, ancor più abominevole di quella che lo vuole "amico dei mafiosi": espone un potente e ricco razziatore di chiese e di biblioteche, alla continua ricerca di libri antichi e ovviamente preziosissimi. Così che anche un'altra tra le caratteristiche positive dell'uomo, la sua cultura e l'amore per la pagina scritta, venga devastata. A nulla serve che Giuseppe Di Peri, l'avvocato che di Dell'Utri è lo storico difensore, controbatta quello stesso giorno con un comunicato stampa nel quale ricorda che “l’indagine è partita dalla Procura di Napoli nei confronti di Massimo De Caro”, già direttore della biblioteca nazionale dei Girolamini, a Napoli, e accusato di avervi sottratto numerosi libri, e aggiunge che Dell’Utri in realtà "ha collaborato con l’autorità giudiziaria mettendo spontaneamente a disposizione e consegnando tutti i volumi ricevuti in dono da De Caro”. Dal comunicato si capisce inoltre che il sequestro non è un fatto nuovo, né pertanto una notizia, perché in realtà risale al 12 aprile 2014. E a nulla probabilmente servirà il comunicato inviato oggi dallo stesso Dell'Utri in cui si dice che "Ancora una volta, partendo da notizie su indagini in corso, è stata posta in essere una campagna denigratoria e diffamatoria a mio danno. Sulla base di mere supposizioni investigative sono stato indicato come un ricettatore e un ladro, al cui confronto impallidisce la mitica figura di Guglielmo Libri. Quest’accusa è per me inaccettabile e mi ferisce più della stessa detenzione. Ho acquisito e raccolto uno per uno i volumi attraverso librerie antiquarie italiane ed internazionali, aste, mostre, bancarelle e privati collezionisti in un arco di tempo di oltre quarant’anni. E se anche, quindi, su decine di migliaia di testi si dovesse rinvenire qualche volume di cui è sospettabile la provenienza, sarebbe assurdo ritenermene responsabile. A testimonianza della mia buona fede, basta considerare che i libri in questione sono stati dettagliatamente descritti, catalogati e messi a disposizione del pubblico nella biblioteca milanese di Via Senato; pubblicati nel bollettino mensile della stessa ed esposti in numerose mostre tematiche. Ciò a riprova del fatto che mai ho dubitato della origine lecita degli stessi. La diffusione delle infamanti notizie mi ha colto nell’impossibilità di rispondere tempestivamente, data la condizione di prigioniero, limitativa della mia possibilità di difesa. Per quanto detto, e viste la superficialità e la scorrettezza con cui i “media” – e chi li ha informati – hanno trattato la vicenda, intendo rivolgermi all’Autorità Giudiziaria per ristabilire la verità dei fatti a tutela della mia dignità". Tutto, è inoltre avvenuto dopo che Dell'Utri ha catalogato ed esposto al pubblico i suoi libri nei locali della biblioteca di via Senato, a Milano. Se mai l'ex senatore avesse avuto la certezza che alcuni di quei volumi erano frutto di un furto, di certo non si sarebbe esposto a quel rischio. Aggiunge Di Peri: "Il sequestro è servito solo a consentire l'esame dei volumi in un luogo diverso rispetto a quello dove erano custoditi,tenuto conto sia del loro numero, sia del tempo necessario per il loro esame". Per di più, il legale spiega che i libri "sospetti" non sono 10 o 20 mila, ma sono pochi, alcune unità. E quindi se anche su decine di migliaia di testi si dovesse sospettare della legittima provenienza di qualche volume, sarebbe assurdo ritenerne in qualche modo responsabile l'ex senatore. Tutt'al più potrebbe trattarsi di un "incauto acquisto". Conclude il penalista: "Ipotizzare, come hanno fatto alcuni media, che vi sia una rete di complici in grado di fornire illegalmente volumi antichi e preziosi a Dell'Utri è una congettura, neppure suffragata dall'esito di indagini". Tutte balle, insomma, Ma intanto la gogna , ancora una volta, ha colpito nel segno.

Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Marcello Dell'Utri, ecco la vera storia raccontata dalle carte. Dell'Utri è tornato ed è in galera: ieri mattina è atterrato a Fiumicino con un volo da Beirut e un'ambulanza l'ha portato subito in carcere a Parma, dove un centro clinico potrà sorvegliare i postumi dell'intervento al cuore a cui si è sottoposto due mesi fa. È lo stesso carcere dove c'è Totò Riina e dove c'era Bernardo Provenzano. Dell'Utri deve scontare 7 anni. Dopodiché, senza girarci attorno, la domanda resta la stessa: esiste una terza via tra innocentisti e colpevolisti? Esiste un terzo dell'Utri tra il raffinato bibliofilo e il grezzo affiliato? Tra Publitalia e una cosca? Forse esiste, sì, ed è desumibile dalle stesse carte che la difesa ha utilizzato per dipingerlo come un giglio e che l'accusa ha utilizzato per inchiodarlo alla sua sicilitudine. Carte accumulate dal 1994 a oggi. Ci si occupa dell'accusa principale, naturalmente: della mafiosità, non del cascame residuale fatto di improbabili estorsioni a Berlusconi, abusi edilizi, false fatture, cazzate tipo P3 e altre sciocchezze da sovraesposizione. Il cuore del problema è la storia di un uomo che si incaricò e fu incaricato di proteggere Berlusconi - consenziente - in anni in cui la criminalità e la mafia prendevano di mira soprattutto imprenditori come il Cavaliere. Mettiamola così: se anche fosse stato un mafioso, Dell'Utri, sarebbe stato un mafioso di serie C. Certo, i giudici palermitani hanno scritto di un "sodalizio mafioso", ma in pratica il reato di Dell'Utri (non di Berlusconi, che figura come vittima) consisterebbe nell'aver riagganciato un vecchio amico in odore di mafia, Gaetano Cinà, affinché le sue conoscenze consentissero di arrivare a grossi calibri mafiosi: questo al fine di apprendere, dai medesimi, le condizioni che potessero consentire una pax imprenditoriale e familiare per Berlusconi. Un mediatore: Dell'Utri è configurato come un canale di collegamento (neppure particolarmente quotato) tra alcuni estorsori professionali e un'emergente realtà industriale che negli anni ’70 non poteva illudersi - come non avevano potuto illudersi la Fiat o la Ferruzzi, per dire - di non pagare dazio alla criminalità. I magistrati hanno scritto di "accordo di natura protettiva e collaborativa raggiunto da Berlusconi con la mafia per il tramite di Dell'Utri... è probatoriamente dimostrato che Dell'Utri ha tenuto un comportamento di rafforzamento dell'associazione mafiosa fino a una certa data, favorendo i pagamenti a Cosa nostra di somme non dovute da parte di Fininvest". Pagare la mafia, o farla pagare, in quest'ottica viene equivalso a rafforzarla. Si potrebbe azzardare una similitudine: è come scoprire che un esercente pagava il pizzo per proteggere la sua attività e la sua famiglia e che un suo dipendente, delegato a "risolvere problemi", fece tutto ciò che ritenne necessario per risolverli. Ma c'è una differenza sostanziale: pagare il pizzo in Italia non è reato (anche se certa giurisprudenza vorrebbe che lo fosse) e però le cose cambiano se vai a parlare con quelli che il pizzo lo pretendono, e che magari ti hanno già fatto saltare la saracinesca del negozio: questo in Italia - e solo in Italia - configura il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, che presuppone una connivenza coi tuoi estorsori. In Italia una "mediazione" del genere viene equivalsa a un appoggio alla mafia: al pari, giurisprudenza alla mano, di medici che abbiano curato mafiosi o di preti che li abbiano confessati. In genere per avvalorare questa giurisprudenza si ricorda che fu Giovanni Falcone, il 17 luglio 1987, a firmare una delle prime sentenze che prefiguravano il concorso esterno in associazione mafiosa: ma, nei fatti, il giudice non si sognò mai di contestare questo reato da solo, senza un corollario di altre e individuate ipotesi di reato. Naturalmente le similitudini valgono quello che valgono, e pm e giudici in realtà hanno avvalorato scenari più foschi: ma neanche tanto, e comunque sono rimasti perlopiù indimostrati. Anche la celebre assunzione di Vittorio Mangano come stalliere di Arcore, in fin dei conti, rientrò in un quadro di tutela dell'incolumità della famiglia Berlusconi. Poi vai a sapere quanto sia davvero credibile il racconto del pentito Francesco Di Carlo, secondo il quale nel 1975 ci fu addirittura una riunione "negli uffici di Berlusconi" alla quale parteciparono Dell'Utri e i boss Girolamo Teresi e Stefano Bontade. La Cassazione ha ritenuto credibile l'incontro, e in quella sede, a suo dire, fu presa la "contestuale decisione di far seguire l'arrivo di Vittorio Mangano presso l'abitazione di Berlusconi in esecuzione dell'accordo" sulla protezione ad Arcore. Quel che è certo è che c'erano da proteggere le emittenti televisive che Fininvest cominciava a gestire in Sicilia. E che, come ha confermato la Cassazione, in fin dei conti i rapporti di Dell'Utri con Cosa nostra sono provati soltanto dal 1974 fino al 1977. Questo è il “mafioso" Dell'Utri, che vanamente si è cercato di dimostrare che sia rimasto mafioso anche negli anni della formazione di Forza Italia. Ma questa tesi, cara a Ingroia, non è passata. Tutto il resto, quasi per stanchezza, sì.

LA SICILIA DEGLI SPRECHI.

E’ ancora un’intesa di massima, non formalizzata, ma presto i burocrati dell’Assemblea regionale siciliana (consiglieri ma anche stenografi, segretari…) avranno lo stipendio tagliato fino al limite massimo di 240mila euro lordi l’anno, con qualche eccezione. D’altra parte il siciliano Gianfranco Miccichè, candidato non eletto con Forza Italia a Strasburgo, fa presente che con la pensione da parlamentare (4000 euro al mese) “non si campa”. Sembrava banale: allineare lo stipendio di queste figure professionali a quello di tutte le altre cariche pubbliche, dal presidente della Repubblica (230mila euro l’anno), ai manager pubblici. Ma semplice non lo è affatto, sia per le difficoltà incontrate, sia per la macroscopica eccezione siciliana: per dirne una, con il nuovo tetto uno stenografo con 20 anni di servizio potrà guadagnare al massimo 200mila euro l’anno, lordi. Matteo Renzi, presidente del Consiglio, guadagna 114mila euro lordi all’anno. Il limite, per i consiglieri parlamentari siciliani, sarà quello di 240 mila euro lordi annui. A seguire gli stenografi (200 mila), i segretari (145 mila), i coadiutori (110 mila) e gli assistenti (92 mila euro). E per far passare la nuova regola ce n’è dovuto di impegno, di compromessi. Sono salve le pensioni d’oro infatti, altrimenti i burocrati più anziani avrebbero affossato la nuova norma. Come scrive Emanuele Lauria su Repubblica: Ma se da un lato il presidente dell’Ars fa calare la scure sugli stipendi dei dipendenti per il futuro, dall’altro salva i grand commis più anziani e benestanti. La proposta che si va a concretizzare, infatti, contiene una clausola di fuoriuscita: chi lascia l’amministrazione entro un anno mantiene il superstipendio e il “maturato contributivo”. Significa che conserva pure il diritto a una pensione d’oro. Pare sia la norma grazie alla quale Ardizzone ha trovato il lasciapassare dei pezzi da novanta dell’amministrazione.

Ma tanto per quel che conta. Il 118 in Sicilia e quei mille addetti regolarmente pagati per non lavorare. Bastavano 2400 autisti ma ne furono assunti 3350, senza concorso per uno spreco di valutato tra i 25 e i 30 milioni di euro all’anno, scrive Michele Schinella su “Il Corriere della Sera”. Per tenere operative 24 ore al giorno le 256 ambulanze del 118 siciliano bastavano 2400 autisti ma ne furono assunti 3350, senza concorso. I mille lavoratori in esubero, pur costretti a rimanere con le braccia conserte per tre anni, sono stati regolarmente pagati. Lo spreco valutato tra i 25 e i 30 milioni di euro all’anno è finito ora all’attenzione della Procura della Corte dei conti. La mega assunzione avvenne nel luglio del 2010 e fu preceduta da una proposta che costò all’allora assessore regionale alla Sanità Massimo Russo una denuncia da parte della Cgil. Era gennaio del 2010 quando l’esponente del Governo guidato da Raffaele Lombardo «per porre fine agli sprechi» come dichiarò, decise di togliere alla Croce Rossa italiana il 118 e di affidarlo a una società interamente pubblica costituita tra le 17 Aziende sanitarie e la regione Sicilia, la Seus Spa. Negli stessi giorni l’ex magistrato della Procura di Palermo scoprì dall’Avvocatura dello Stato cui aveva chiesto un parere che doveva essere la regione Sicilia a pagare i 50 milioni di euro di straordinario che i 3350 dipendenti della Croce rossa reclamavano. Il motivo? Avevano tutti un contratto part time e il loro monte orario complessivo non bastava a tenere sempre attive le ambulanze dislocate in Sicilia: per anni, invece di aumentare l’orario di lavoro ordinario settimanale di ciascuno di loro si era ricorso all’uso massivo dello straordinario, meglio remunerato. All’assessore, alle prese con il Piano di rientro imposto dal Governo nazionale, venne un’idea che formulò in una proposta: «Se gli autisti rinunciano a quanto spetta loro di straordinario li assumiamo nella nuova società pubblica, il loro contratto diventa full time e gli applichiamo il Contratto collettivo dell’Aiop (ospedalità privata) economicamente più vantaggioso. Chi non accetta può tornare a casa». Inutile dire che accettarono tutti, sindacalisti compresi, tranne il segretario regionale della Funzione pubblica della Cgil Michele Palazzotto che presentò un esposto per estorsione nei confronti di Russo: “I lavoratori hanno diritto a tutti i loro soldi e al passaggio nella nuova società”, rivendicò il sindacalista. Il risultato del do ut des? La carenza si trasformò in esubero di personale. “Una parte di questi li riqualificheremo come operatori socio sanitari e li impiegheremo nelle strutture sanitarie pubbliche; gli altri effettueranno i servizi di trasporto interno per conto degli ospedali”, assicurò Russo. L’operazione, però, ha avuto tempi biblici. Dino Alagna, sino a qualche giorno fa direttore sanitario della società pubblica, spiega: “E’ stato molto faticoso, ci sono state tante difficoltà e resistenze, ma solo da febbraio del 2014 non c’è più alcun dipendente della Seus inattivo”. L’affidamento da parte della Regione del 118 e dei servizi di trasporto ospedaliero senza gara alla Seus Spa era stato bocciato dall’Autorità di vigilanza sui pubblici contratti. Secondo l’organismo allora presieduto da Sergio Santoro entrambe le operazioni sono state effettuate “in violazione delle regole di libera concorrenza di derivazione comunitaria” e sono causa “di aggravi di costi per le casse pubbliche”: la delibera è stata così trasmessa alla Procura della Corte dei conti. Tuttavia, alla fine del 2012 il governo regionale guidato da Rosario Crocetta ha rinnovato il contratto si servizio alla Seus Spa. Nei successivi mesi del 2013 per sanare le illegalità rilevate dall’ Avcp lo Statuto della società pubblica è stato profondamente modificato. La gestione del servizio di emergenza siciliano era già finita all’attenzione della Corte dei conti: nel mirino della Procura i provvedimenti grazie ai quali le ambulanze erano lievitate (in due occasioni ma sempre alla vigilia di tornate elettorali) passando dalle 150 del 2004 a quasi doppio nel 2007. L’organo di responsabilità contabile il 27 febbraio del 2013 ha condannato 18 esponenti politici a pagare complessivamente 13 milioni di euro. Gli assessori della Giunta di Totò Cuffaro e i membri della Commissione Sanità dell’Ars sono stati ritenuti colpevoli non di aver aumentato il numero della ambulanze, ritenuto opportuno per adeguarlo agli standard delle altre regioni, ma perché contestualmente incrementarono “da dieci a dodici il personale addetto ad ognuna delle 258 ambulanze”. “L’operazione – rilevarono i giudici - è stata attuata previa repentina ed immotivata riduzione da 36 a 30 ore settimanali dell’orario individuale di lavoro”. Il contratto si trasformò così in part time e divenne la causa originaria della nuova inchiesta della Procura della Corte dei conti. I magistrati contabili conclusero: “La vera ragione di tale abnorme incremento del numero di autisti può essere rinvenuta soltanto in una causale clientelare diretta all’assunzione alle dipendenze della Croce rossa (con oneri finanziari scaricati sulle finanze della Regione siciliana) dapprima di “corsisti” e poi anche di “lavoratori interinali”, già impiegati nel settore”.

«A mmia?!?» Rosario Crocetta, precipitatosi a batter cassa a Palazzo Chigi per strappare un «aiutino» di Letta a tappare l’emergenza finanziaria, dice che non riesce a capire perché, dopo anni di complice lassismo, il commissario di governo ha bocciato proprio il bilancio suo: «Ma se sono i miei predecessori ad aver fatto quel buco!». Fatto sta che, bianca, azzurra o rosé, non c’è verso che la Regione siciliana trovi un suo equilibrio. Così scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Che l’isola sia stata amministrata per decenni in modo indecente («e ancora lo è», accusano i nemici del governatore) è dura da contestare. Basti leggere un’Ansa: «Il procuratore generale della Corte dei conti in Sicilia, Giuseppe Petrocelli, nella requisitoria per il giudizio di parificazione del rendiconto della Regione, ha sostenuto che nell’ isola “c’è un concentrato di malgoverno nel quale emerge l’esplosione delle spese a scopo clientelare o demagogico”». Ce l’aveva con le «regalie di ogni tipo destinate pressoché esclusivamente a essere utilizzate come meccanismo di formazione e perpetuazione del consenso». Era il giugno 1990. Quasi un quarto di secolo fa. Da allora, non c’è presidente scelto prima con una pastetta fra i partiti o più tardi votato direttamente dagli elettori che non abbia giurato d’avere cominciato a risanare i conti. Lo ha fatto da sinistra Angelo Capodicasa: «Pur non essendo condivisibili i toni allarmistici la situazione desta serie preoccupazioni e occorre adottare subito politiche di bilancio, correttivi legislativi e atteggiamenti di governo che siano in grado di riportare sotto controllo la spesa e individuare obiettivi di risanamento per la crescita». L’ha fatto da destra Totò Cuffaro: «Pur proseguendo sulla strada del risanamento e del contenimento della spesa pubblica, questo governo ha dimostrato di saper operare delle scelte importanti per il rilancio dell’economia...» L’ha fatto da posizioni autonomiste Raffaele Lombardo: «Da diverse settimane stiamo operando nel senso di un risanamento dei conti, che dovrà portarci a tagliare sprechi, non solo nel settore della sanità e del personale...» Eppure, non c’è stata finanziaria che non sia stata bacchettata dalla Corte dei conti. Anno dopo anno. Si pensi che nel 1998 il procuratore generale, Luigi Maria Ribaudo, denunciò che la Sicilia in mezzo secolo di autonomia speciale aveva «disperso in modo scriteriato e assurdo le risorse disponibili» senza saper «utilizzare gli eccezionali vantaggi che derivano da ciò che gli assegna la Carta costituzionale». Eppure il suo monito fu preso talmente sul serio che l’anno dopo, come denunciò lui stesso, sul libro paga della Regione, tra dipendenti diretti e precari a vario titolo, il numero era salito a «centomila persone». Un numero che nel 2010, invece che calare, sarebbe stato calcolato in 144.148. Una deriva senza fine. Tanto che nel 2008, quando già era esplosa la polemica sui costi della politica compreso il clientelismo, la stessa Corte denunciò che la finanza regionale fosse «in notevole deterioramento» con l’indebitamento «cresciuto dell’83%». In un contesto come questo lo sapevano tutti che un giorno o l’altro i nodi erano destinati a venire al pettine. Che non era possibile avere 1.874 dirigenti in più, in rapporto ai sottoposti, rispetto alla media del resto d’Italia. Che le frodi comunitarie scavavano in Europa un solco profondo, colmo di diffidenze, nei confronti dell’isola. Che non poteva durare in eterno il giochetto di assumere «clientes» senza concorso perché tanto erano «provvisori» per poi passare alla stabilizzazione di migliaia e migliaia di precari alla volta. Lo sapevano tutti. Eppure ancora nel 2009 saltarono fuori regali di Natale stupefacenti, come fossero anni di vacche grasse: trecento gemelli da polsino e orecchini d’oro da 358 euro al pezzo, «1.500 teste in ceramica dei discendenti dei Borbone» da 115 euro l’uno e una montagna di cravatte di gran firma e altro ancora. E tutti a chiedersi: ma come fanno, a far figurare i conti in ordine? E ogni anno, con un gioco di prestigio, finivano tra le entrate enormi quantità di crediti che parevano lì lì per essere riscossi. Centinaia di palazzi e terreni e beni immobiliari pronti a essere venduti e mai venduti. Previsioni di incassi così incredibili da essere ridicoli, come la riscossione di denari dai cacciatori «derivanti dallo smaltimento delle carcasse degli animali». Macché, per anni è passato sempre tutto. E quando proprio i conti non tornavano (non potevano tornare se la Regione nel rapporto entrate-uscite era secondo la Cgia di Mestre sotto di 1.750 euro pro capite contro un residuo fiscale di 5.775 euro medio dei lombardi e 4.232 degli emiliani) il presidente partiva e andava a battere cassa a Roma. Lo ha fatto Cuffaro e prima di lui Lombardo e prima di loro Rino Nicolosi. Il quale nel 1988, dopo l’uccisione dell’ex sindaco Giuseppe Insalaco, come raccontano Enrico Del Mercato ed Emanuele Lauria nel libro «La zavorra», salì a Roma dall’allora presidente Giovanni Goria. Questi, ricorda un funzionario, «chiese a Nicolosi cosa si potesse fare per arrestare il dilagare della violenza mafiosa in Sicilia. Il presidente lo scrutò, ci pensò un po’ su e poi cominciò il suo ragionamento: per fermare la mafia bisogna migliorare l’efficienza della burocrazia siciliana. E per fare questo bisogna assumere più persone negli uffici della Regione e dei Comuni». Dice oggi Rosario Crocetta che «un andazzo così non si può invertire da un giorno all’altro» e non è colpa sua se «Cuffaro e Lombardo hanno lasciato buchi da brivido» e giura che lui ha fatto «tagli per 1,4 miliardi» e ha denunciato alla magistratura «le schifezze della Formazione» e insomma «ci vuole del tempo perché un malato possa guarire e lo ammazzi se pretendi che sia sano tutto di colpo». Il commissario di governo però, nonostante il desiderio del governo di trovare una soluzione che rassereni i dipendenti senza stipendio, pare essersi impuntato. Basta tolleranze. Fine. Il braccio di ferro proseguirà nei prossimi giorni. E intanto Crocetta continua a ripetere: «Perché a me? Perché solo a me?»

Sicilia, l'assessore al lavoro: "Guadagno solo 5440 euro netti al mese". Ester Bonafede, membro della giunta Crocetta, si lamenta di guadagnare meno di un commesso al Parlamento siciliano: "Noi assessori abbiamo un riconoscimento economico ridotto", scrive Giovanni Masini “Il Giornale”. Ai tempi della crisi tutti devono fare dei sacrifici, e anche Ester Bonafede, assessore al Lavoro della Regione siciliana guidata da Rosario Crocetta, ci ha provato: ma con 5440 euro netti al mese non dev'essere facile arrivare alla quarta settimana. Uno stipendio "ridotto", lo definisce la Bonafede, che si lamenta di come "un assessore regionale guadagni meno del suo capo di gabinetto, meno di un deputato e, in certi casi, perfino di un commesso." "Oltre ai tagli orizzontali" - spiega alla stampa a margine di un dibattito sulla spending review - "Gli assessori subiscono la tassazione dell'unica indennità percepita per intero. Così per quanto mi riguarda, il mio personale stipendio netto, con la tassazione al 44%, è di 5.440 euro mensili. Meno di quanto percepisca il mio capo di gabinetto o un semplice deputato, che non ha lo stesso carico di responsabilità di un componente del governo." La Bonafede ha però voluto chiarire più precisamente il senso delle sue dichiarazioni, spiegando come il lavoro di assessore non preveda pause o vacanze, a fronte di un riconoscimento economico inadeguato; sostiene addirittura come gli assessori della giunta si sentano "discriminati" rispetto agli assessori, perchè non si vedrebbero riconoscere le maggiori responsabilità di cui sono gravati. "Non voglio sminuire il ruolo e l'importanza del lavoro svolto dell'apparato amministrativo e sicuramente non si vuole innescare una polemica su una riforma che nasce dalla volontà dell'Aula, ma semplicemente sottolineare che c'è una dissacrazione del ruolo del politico." I cittadini siciliani però non si preoccupino troppo: l'assessore promette comunque di lavorare "con la stessa dedizione e lo stesso entusiasmo" anche con questo stipendio ridotto e non proporzionato al ruolo che ricopre. E tante grazie, verrebbe da aggiungere.

SPRECHI ESATTORIALI.

Sicilia, esercito di 886 avvocati per (non) riscuotere le tasse. La società dell’isola recupera solo il 2% delle cartelle esattoriali, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Con 508 uomini Hernán Cortés conquistò il Messico, con 886 avvocati a busta paga, tra dipendenti e collaboratori, la Regione Siciliana non riesce a rastrellare più del 2% delle tasse recuperabili, in teoria, dalle cartelle esattoriali. «È l’unico gabelliere al mondo che rischia il fallimento», si è sfogato furente Rosario Crocetta. Dovesse succedere, sarebbe un record planetario: il primo pignoratore pignorato. È piena di debiti, la disastrosa società «sorella» di Equitalia (guai a parlare di fusione: debiti o non debiti l’autonomia non si tocca!) che dovrebbe riscuotere le tasse non pagate dai siciliani e che è in mano per il 99,885% proprio alla Regione. «Secondo le ultime rilevazioni ufficiali, fatte un anno fa, “Riscossione” ha accumulato perdite per 60 milioni e mediamente aumenta di una ventina di milioni all’anno il suo buco», scriveva il 2 gennaio Giacinto Pipitone sul Giornale di Sicilia . Due giorni prima l’intero Cda, a partire dalla presidente Lucia Di Salvo, fedelissima del governatore, si era dimesso: situazione insostenibile. Sono anni che «Riscossione», a lungo associata a Montepaschi di Siena, è in condizioni disastrose. Ma via via è andata, con lo scorrere del tempo, sempre peggio. Al punto che la stessa Corte dei conti palermitana, come ricordava la relazione inaugurale dell’anno giudiziario del 2014 tenuta dalla presidente Luciana Savagnone, particolarmente dura, è più volte intervenuta con sentenze di condanna nei confronti dello sgangherato carrozzone burocratico accusandolo di «non avere per nulla svolto, o di non avere svolto con la richiesta sollecitudine, i compiti che le erano stati affidati, determinando così il mancato incameramento di somme dovute dai cittadini». Insomma, «le responsabilità accertate attengono quasi sempre al comportamento, giudicato gravemente colposo, che ha causato l’omissione o il ritardo con cui si è proceduto alla notifica dell’atto impositivo, provocando la perdita dell’entrata». Non per altro l’anno scorso la prima scelta di Crocetta, dettata dalla disperata necessità di arginare la cancrena di illegalità in corso da anni, era caduta addirittura su Antonio Ingroia, l’ex magistrato promotore delle inchieste su Marcello Dell’Utri e la trattativa Stato-mafia che si era candidato nel 2013 con la lista Rivoluzione Civile. Una scelta poi rientrata. Un esempio di sciatteria sanzionata dalla Corte dei conti? La condanna dell’incapace gabelliere, «incaricato di gestire la riscossione dei tributi e delle altre entrate» dell’isola, a risarcire il Comune di Cefalù: la notifica per una sanzione del ‘94 era stata inviata alla fine di settembre del 2002. Otto anni dopo. Inaccettabile. Tanto più per una società che ha oltre 700 dipendenti. Tanti, in rapporto ai soldi recuperati. E va già meglio di anni fa, quando ne aveva quasi il doppio. «È un quadro sconcertante», ha spiegato a Mario Barresi de La Sicilia Antonio Fiumefreddo, l’avvocato catanese scelto tre settimane fa da Rosario Crocetta (tra perplessità, dubbi e mugugni di molti) come presidente di Riscossione Sicilia: «Ci aspetta un lavoro durissimo». Poco ma sicuro. Basti dire che le buste paga dei dipendenti, stando ai sospiri dei nuovi amministratori, assorbono il 98% del bilancio societario: il novantotto! Da incubo. Come da incubo, a causa di perdite più pesanti di quanto si pensasse, sono le esposizioni con le banche: 162 milioni più 75 milioni di debiti coi fornitori privati. Che minacciano, appunto, di «pignorare i beni ai pignoratori per antonomasia». Tutti tranne, si capisce, Equitalia: tra i fornitori che avanzano soldi, circa 7 milioni, c’è anche lei. Che, al contrario, da tre anni chiude in attivo. Ed è riuscita nel 2014 a recuperare per conto dello Stato 7,4 miliardi di tributi. Ma non basta. Tra le spese sconcertanti denunciate dal nuovo presidente ci sono ad esempio gli affitti delle sedi di «Riscossione» in alcuni capoluoghi di provincia: 42 mila euro al mese per la sede di Catania che dovrebbero salire addirittura a 76 mila dal 2016 nonostante la regione possieda nel capoluogo etneo alcuni edifici vuoti, 27 mila al mese per quella di Siracusa, 30 mila al mese (manco si trattasse di Manhattan!) per quella di Ragusa. Quanto a Palermo, una sede costa 450 mila euro l’anno di affitto e l’altra, di proprietà, addirittura il doppio (novecentomila!) per la manutenzione e i servizi di pulizia. «Quando ho chiesto il perché di questo costo spropositato mi è stato risposto: perché il palazzo è vecchio», ha raccontato Fiumefreddo a Barresi. L’edificio è del 1985. Andasse così con tutti gli immobili pubblici nel resto d’Italia, staremmo freschi... Più ancora che la scoperta di «una maxi-evasione da un miliardo» denunciata da Crocetta (arrabbiatissimo con quel 96,4% dei super ricchi siciliani che evade sistematicamente le tasse) e la scoperta di un elenco di ottocento «nullatenenti» con la Ferrari, la Maserati o addirittura l’elicottero, elenco consegnato alla Procura della Repubblica nonostante «pressioni spaventose», colpisce però l’uso sistematico di una massa di avvocati mai vista. Certo, per incassare certi crediti spesso difficili da recuperare occorre un gran lavoro nei tribunali. Ma i numeri emersi in Sicilia sono pazzeschi: in totale, i difensori della società regionale, alcuni pagati come dipendenti altri come collaboratori, risultano essere complessivamente 886. Cioè otto volte di più, per dare un termine di paragone, degli avvocati cassazionisti dell’intera Francia. «Neppure Obama ne ha tanti», si è sfogato Antonio Fiumefreddo. Può scommetterci.. I dipendenti della Casa Bianca, dal direttore generale all’ultimo assunto dei camerieri, come spiega il sito ufficiale, sono in totale 446. Cioè 440 in meno ...

MAFIA. CUFFARO E LOMBARDO. LA REGIONE DEGLI ONNIPOTENTI. LA SICILIA COME METAFORA.

La regione degli onnipotenti scrive Domenico Tempio su “La Sicilia”. La pace non è di casa in Sicilia. A cominciare dalla Regione, la quale sprofonda sempre più in un girone infernale. Dove i peccatori si annidano tra noi. Addirittura, riescono a conquistare i posti di comando. Infettati come sono da un putrescente odore di mafia. Colpevoli o innocenti (ma le condanne ci sono), conta la macchia quasi indelebile che continua a essere gettata addosso alla Sicilia. Raffaele Lombardo dopo Totò Cuffaro, un unico destino. Concorso esterno nell'associazione mafiosa per il primo, favoreggiamento all'organizzazione mafiosa per il secondo. Lombardo ha ancora due gradi di giudizio. L'augurio è che riesca a togliersi di dosso questa accusa infamante. Non solo per lui, ma per quei siciliani che lo hanno votato. Per cancellare anche quello che un leghista di recente ha scritto: «Come mai tra tanta gente perbene giù in Sicilia, si va ad eleggere proprio chi è colluso con i mafiosi?». Difficile la difesa. Quando sembra spirare un vento di cambiamento, c'è chi fa di tutto per ammorbare l'aria. Persino i grillini, nati dalla rabbia della gente, giocano al tanto peggio. Basta guardare il loro leader, Beppe Grillo, è diventato un fenomeno da baraccone. Ieri nell'incontro con Renzi ha dato il massimo. Chi gli scrive i testi? Casaleggio? Roba da piazza. Utile solo alle Tv per fare ascolto. Quello che oggi sta accadendo alla Regione è emblematico del tempo in cui viviamo. Magari in alcune cose non ci sarà di mezzo la mafia (almeno si spera), ma di sicuro c'è una combriccola di saltimbanchi in preda a orgasmi di potere. Come in un'orgia si stracciano le vesti gli uni con gli altri, cercando di arraffare il più possibile. Vi sembra plausibile che la maggioranza di Crocetta, anche se in verità è variabile come il tempo, dopo avere raggiunto un difficile accordo sulla tanto decantata riforma delle Province, la boccia nel segreto dell'urna? Direte è storia antica. Ecco perché poi la mafia si insinua. Il disegno di legge varato da Crocetta poteva servire almeno a dare una prima potatura al carrozzone degli enti intermedi. Certo, alcune cose vanno specificate meglio, come l'estensione delle aree metropolitane o la creazione dei cosiddetti consorzi di liberi Comuni, però la legge si poteva considerare un primo passo verso un diverso assetto del territorio siciliano. Sia per trovare nuove sinergie nei servizi; sia per sfoltire la burocrazia; sia per i finanziamenti che solo uniti si possono ottenere; sia, consentiteci di dirlo, per selezionare meglio la classe amministrativa. Si perdono poltrone? Pazienza. I politici se ne facciano una ragione. I primi colpevoli sono loro. Hanno ridotto la Regione, pomposamente chiamata autonoma, a una palude dalla quale loro stessi non riescono a tirarsi fuori e dove, scavando, trovi una lunga lista di scandali milionari. Se Crocetta ha un merito è proprio questo: aver scoperchiato il malaffare. Per il resto, ci dispiace dirlo, il governatore ha lasciato immobile la macchina amministrativa. Non solo alla Regione, ma in quasi tutti gli enti. Li ha paralizzati con commissariamenti in serie. La sanità, ad esempio, è quella che soffre di più. Da tempo ormai attende i suoi vertici. Persino i teatri, vedi il Bellini di Catania, sono congelati. Tanto da temere che li si voglia azzerare. Si tratta di incapacità? Non crediamo. Forse è un metodo. Una onnipotenza di potere pericolosa per sé (Crocetta) e per gli altri (i siciliani). Anche i Cuffaro e i Lombardo hanno peccato, oltre ai presunti legami con la mafia, di onnipotenza. Comincia sempre così la caduta degli dei.

La Sicilia come metafora, scrive Mauro Mellini su “Giustizia Giusta. Riandare col pensiero a Leonardo Sciascia è sempre utile, anzi, talvolta, è addirittura indispensabile, per capire le cose di Sicilia e non solo di Sicilia e d’Italia. Ne abbiamo la prova in questi giorni. Poco assai si parla, nel resto d’Italia, di quel che sta accadendo in Sicilia. Il governo regionale di Crocetta e tutta la politica siciliana hanno raggiunto limiti inimmaginabili, grotteschi di degrado. La Regione Sicilia, che dovrebbe essere una delle più forti per le condizioni finanziarie che le assicura lo Statuto Speciale, è praticamente al collasso, al fallimento, con un bilancio allo sbando, specie dopo gli interventi del Commissario dello Stato che hanno “rottamato” per illegittimità e per sostanziale falsità buona parte di quello raffazzonato dalla Giunta. Crocetta è “rientrato” nel P.D., dopo avere per qualche tempo navigato sotto le insegne di un suo personale gruppo, “Il Megafono”, che ora pare sia diventato una corrente del P.D. Che nell’Isola è, di colpo, diventato “renziano”, perché le correnti che si sono scannate in una lotta senza esclusioni di colpi, hanno fatto a gara per correre in soccorso del vincitore. Crocetta si regge alla presidenza grazie alla norma, oggi in vigore per regioni e comuni, per la quale Presidente e Sindaci possono essere abbattuti solo da Consigli kamikaze: chi li sfiducia e li manda a casa, automaticamente, perde il posto e va a casa con lo “sfiduciato”. Un sistema che sembra inventato dalla fantasia di un autore di spettacoli comici. In pratica i Presidenti della Regione Sicilia possono essere mandati a casa (o in prigione) solo dai magistrati. Gli ultimi due predecessori di Crocetta, Cuffaro e Lombardo hanno avuto questa sorte. Crocetta pare che da quel lato sia abbastanza ben protetto. Al suo fianco c’è un vecchio “professionista dell’Antimafia”, Lumia, che fu anche Presidente della Commissione Antimafia Parlamentare. Quando il partito provò ad escluderlo dalle liste per il Parlamento Nazionale, intervenne scopertamente e pesantemente la Magistratura a “censurare” quel tentativo di metterlo da parte. Fu subito “reintegrato”. Finché dura, naturalmente. Quelli che se ne intendono dicono che in Sicilia anche il Partito dei Magistrati è piuttosto ondivago al suo interno e tendenzialmente sospettoso e inaffidabile nei rapporti, per così dire, esterni. Ora Crocetta sembra tornato in grembo al P.D., ma non sembra che la sua Giunta rispecchi una tale posizione. D’altro canto se il P.D. sembra oramai ben allineato con l’ortodossia del “rottamatore”, i veri padroni della Sicilia sono i “monnezzari” (mestiere che, con quello dei rottamatori, cioè degli “sfasciacarrozze” ha una certa attinenza). Padroni di Sicindustria (la Confindustria dell’Isola) tre o quattro gestori di discariche, hanno in pugno la Regione, Crocetta, la Giunta e, per quel che conta, il Parlamento Siciliano. Sono “industriali antimafia” perché hanno rifiutato il pizzo (dopo, magari, essersi pentiti di averlo in un primo tempo pagato). In quanto antimafia sono in condizioni di mettere al bando chi non può vantarsi di essere tale o che essi stessi tale non considerano. Sono forti delle loro concessioni che non sempre (ad esser ottimisti) coincidono con l’optimum delle prospettive del gravissimo problema dei rifiuti (in una delle discariche siciliane pare che sia arrivata, in qualche momento, anche della “monnezza” di Napoli). Certo è che mettersi di traverso al loro “sistema” può essere pericoloso. Lo sostiene e lo proclama, ad esempio, il Sindaco di Racalmuto, il paese di Leonardo Sciascia, che si era messo in testa di far funzionare la raccolta differenziata e si è trovato prima indagato per mafia e poi con l’Amministrazione sciolta per “infiltrazioni mafiose”. E molte altre e gravi sono le storie che si sentono in giro. Intanto Crocetta ha “sistemato” il Procuratore super antimafia Ingroia che non era riuscito a riciclarsi come uomo politico (si era candidato addirittura alla Presidenza de Consiglio). Farà il presidente di un ente per l’esazione. Una volta c’erano i famosi “Cavalieri”. E prima ancora i baroni ed i loro gabellotti e campieri. Intanto la magistratura mette sotto processo ministri (e c’è mancato poco che s la prendesse anche col Presidente della Repubblica) perché “hanno abusato del diritto di fare la politici dello Stato”, “abbassando la guardia” ed entrando in trattative con la mafia. Nel processo di Palermo se ne stanno vedendo di tutte e di più. Trionfa il concetto che è la giurisdizione che “legittima” il diritto. Si applica così il principio che la Cassazione ha inventato per le questioni tributarie: il diritto è il diritto ma la magistratura può stabilire che se ne è abusato. Intanto diverse categorie di dipendenti pubblici lavorano, ma hanno cominciato a non ricevere lo stipendio. Non si sa se c’è un bilancio della Regione, se, dopo la prima bocciatura di buona parte di esso, le “toppe” che l’Ars ci ha messo reggeranno ad un altro esame di legittimità. Incombe il fallimento. E Crocetta, che aveva annunziato che a settembre l’abolizione delle Provincie sarebbe stata cosa fatta con la costituzione dei “liberi consorzi” di Comuni, è ancora alle prese con questa storia grottesca. Qualcuno ha cominciato ad accorgersi che una differenza tra Provincie e ”liberi consorzi” c’è sicuramente: questi ultimi saranno molti di più. Che malgrado ciò costino di meno e funzionano meglio ha il sapore dell’utopia. O della truffa. Un “libero consorzio” si farà sicuramente: quello di Gela, il paese di Crocetta. Gela non era riuscita a “diventare provincia” (benché “regionale”). Concludendo. Questa è la Sicilia di cui la stampa nazionale sembra far di tutto perché poco se ne parli. Questa è la Sicilia: sì, “come metafora” d’Italia, come diceva Sciascia, che scrisse anche un libro con questo titolo.

La Sicilia come metafora dell’Italia del Rottamatore, termine freddo e burocratico (la “rottamazione” delle armi di guerra confiscate era prevista dalla legge). Meglio dire “lo Sfasciacarrozze” termine sonante e chiaro del gergo e del dialetto romano. Sciascia ci ha fatto capire molte cose. A chi, naturalmente ha voglia di capire.

Il paese dove due presidenti di regione sono condannati per mafia: il primo (Cuffaro) con sentenza definitiva per favoreggiamento, il secondo (Lombardo) per concorso esterno. Ancora una condanna che ferisce la Sicilia, scrive Salvo Toscano su “Live Sicilia”. Dopo Cuffaro, un altro presidente condannato. La sentenza non è definitiva, ma l'immagine della Sicilia ne viene comunque colpita. E chi governa oggi la Regione ha un solo modo per risollevarla Un altro presidente della Regione, il secondo in pochi anni, ritenuto responsabile dai magistrati di una condotta che sottende legami con Cosa nostra. Il secondo dopo Totò Cuffaro, e ancora peggio, poiché per il politico di Raffadali il reato era quello di favoreggiamento aggravato, mentre l'ex leader dell'Mpa è stato giudicato responsabile di concorso esterno in mafia. Per Lombardo, è bene precisarlo da subito, si tratta ancora di un pronunciamento di primo grado, che potrà anche mutare negli altri livelli di giudizio, e che quindi ovviamente non cancella la presunzione di innocenza che per lui come per chiunque resta in piedi fino alla eventuale condanna passata in giudicato. Ma pur nella sua provvisorietà, la sentenza di condanna di Catania è una ferita, un'altra, per la Sicilia. L'onta di un pronunciamento nel nome del popolo italiano per fatti di mafia macchia ancora una volta la più alta istituzione siciliana e con essa travolge la Sicilia e la sua immagine martoriata. Lombardo avrà modo di difendersi nel secondo grado di giudizio e di dimostrare in quella sede di essere innocente, come ha protestato fino a questo pomeriggio. Se così è, e continueremo a presumerlo fino alla fine, glielo auguriamo. Il peso di questa sentenza sulla storia recente della politica siciliana, però, non si può ignorare. E impone alla classe dirigente chiamata oggi a governare la Regione, in questi tempi così difficili e oscuri, uno sforzo ulteriore, per aiutare l'Isola a scrollarsi di dosso il fardello di un marchio così sordido e infamante. Per farlo, i proclami e gli slogan servono poco. Le denunce in procura forse un po'. Ma quello che davvero occorre, perché la politica riappropri dell'onore perduto, è il buon governo. È la buona politica. Vogliamo aspettarla con un po' di speranza, malgrado tutto.

Mafia, condannato Lombardo. È la maledizione della Sicilia, scrive  Mariateresa Conti  su “Il Giornale”. Aveva perorato la sua innocenza, disobbedendo anche ai suoi avvocati, con una dichiarazione spontanea ieri mattina, nell'ultima udienza. E si era detto certo che no, non poteva essere condannato. Ma alla fine, per Raffaele Lombardo, ex governatore di Sicilia, è andata nel peggiore dei modi: sei anni e otto mesi, col rito abbreviato, per concorso esterno in associazione mafiosa e voto di scambio. Appena quattro mesi in meno del suo ex amico e predecessore alla presidenza della Regione siciliana, Totò Cuffaro, che per favoreggiamento aggravato alla mafia sta scontando sette anni. Una botta durissima. La decisione del Gup Marina Rizza è arrivata ieri pomeriggio, intorno alle 18 e 10. Lombardo, accompagnato dalla moglie, era presente e trattenendo a stento l'emozione ha commentato: «È l'epilogo naturale di questo processo. Me lo aspettavo, l'avevo detto a mia moglie». E presente, a sostegno dei suoi pm, era anche il capo della Procura di Catania, Giovanni Salvi. Il Gup ha pronunciato un doppio verdetto: da un lato la condanna dell'ex governatore, sei anni e otto mesi (i pm ne avevano chiesti dieci, ma il giudice ha ritenuto il voto di scambio assorbito dal reato più grave, il concorso esterno) più interdizione dai pubblici uffici e un anno di libertà vigilata, anche se è caduto uno dei capi d'accusa, la collusione con il clan Cappello; dall'altro il rinvio a giudizio del fratello di Lombardo, Angelo, ex deputato Mpa, che aveva optato per il rito ordinario e che sarà alla sbarra dal prossimo 4 giugno. Il Gup ha inoltre stabilito di trasmettere alla procura gli atti relativi alla posizione dell'editore del quotidiano La Sicilia ed ex presidente della Fieg Mario Ciancio Sanfilippo. La Procura esulta: «Il nostro castello - dice Salvi- ha retto. Oggi è avvenuto un fatto storico, si ha per la prima volta la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa per un presidente della Regione Siciliana». Un iter travagliato, quello di questo processo. Inizialmente ai fratelli Lombardo viene contestato solo il reato elettorale (per voto di scambio l'ex governatore ha in corso un'altra inchiesta che coinvolge anche il figlio Toti, deputato regionale, ndr). Per le collusioni con la mafia la Procura aveva chiesto l'archiviazione. Poi è arrivata l'imputazione coatta, l'aggravante mafia. Adesso la sentenza. L'ex governatore, comunque, promette battaglia: «Sono di una serenità infinita - ha detto annunciando ricorso in appello - mi aspettavo questa sentenza. Non pensavo, infatti, che il giudice potesse avere il coraggio sovrumano di schierarsi con una sentenza di assoluzione, che pure sarebbe stata aderente ai fatti, contro la Procura che per il 50 per cento dei suoi componenti è venuta anche plasticamente a dimostrare la mia posizione nel processo». Lombardo ha attaccato la «grande stampa» e il sistema di interessi che, a suo dire, ha intaccato. Quindi, citando Sciascia, ha concluso: «Conosco il contesto. Ma affermeremo la verità».

Raffaele Lombardo è stato condannato a sei anni e otto mesi di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa, scrive “Il Corriere della Sera”. L'ex governatore della Sicilia era imputato anche per voto di scambio con il clan Cappello, accusa dalla quale è stato però prosciolto. La Procura aveva chiesto per Lombardo una condanna a 10 anni. L'ex governatore, su sua stessa richiesta, è stato giudicato con il rito abbreviato. Il gup di Catania, Marina Rizza ha anche rinviato a giudizio suo fratello Angelo Lombardo, ex deputato nazionale del Mpa e ha disposto la trasmissione alla Procura degli atti che la stessa Dda aveva prodotto di un'intercettazione nella sede del direttore e editore del quotidiano La Sicilia, Mario Ciancio Sanfilippo. «Me l'aspettavo, è l'epilogo naturale del primo grado di giudizio, ma non finisce qui: seguiremo tutte le strade legali per dimostrare la mia innocenza», ha commentato a caldo Raffaele Lombardo. L'inchiesta sui fratelli Lombardo è nata da uno stralcio dell'indagine Iblis dei carabinieri del Ros di Catania su presunti rapporti tra Cosa nostra, politica e imprenditori. Per l'ex governatore Lombardo, che si è sempre proclamato innocente, la Procura di Catania, in sede di requisitoria, aveva chiesto la condanna a dieci anni di reclusione. «Abbiamo fatto un lavoro importante», con una «procura unita», ha commentato il capo dei pm di Catania, Giovanni Salvi, dopo la condanna di Lombardo. «Oggi è avvenuto un fatto storico», ha aggiunto il magistrato, «si ha per la prima volta la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa per un presidente della Regione Siciliana. Frutto di un lavoro importante che ha avuto anche collaboratori importanti a sostegno dell'accusa».  L'altro ex governatore siciliano, Totò Cuffaro, è stato invece condannato definitivamente a sette anni di reclusione per favoreggiamento aggravato a Cosa nostra e rivelazione di segreto istruttorio. Da gennaio 2011 sta scontando la pena nel carcere romano di Rebibbia. «Sono momenti importanti e delicati», aveva detto stamattina l'ex governatore, attendendo il verdetto, «Sentiremo la sentenza, che accoglieremo con assoluto rispetto», aveva aggiunto, evidentemente commosso, a conclusione dell'ultima udienza del processo. In aula con lui c'era la moglie, Saveria Grosso. Lombardo, prima della conclusione dell'udienza, che si è svolta a porte chiuse, ha reso spontanee dichiarazioni davanti al Gup: «Ho detto alla Corte le mie ragioni - ha spiegato l'ex presidente della Regione - quello che sentivo di dire, non con l'approvazione piena dei miei legali che sono terrorizzati da quello che può dire contro se stesso l'imputato».

Il viaggio del ras autonomista fra ombre di mafia e tradimenti politici. Raffaele Lombardo fu eletto nel 2008 e mollò quasi subito l'ex amico Cuffaro e il centrodestra. Nel 2010 l'abbraccio con il Pd. Spiazzato dall'inchiesta catanese sulle collusioni del governatore con Cosa Nostra, scrive Emanuele Lauria su “La Repubblica”. "Io non ho concorrenti, perché sono l'Autonomia e sto su un pianeta diverso". Era il 12 aprile del 2008, e dal quartier generale di via Pola, a Catania, Raffaele Lombardo lanciava il suo proclama ai siciliani. Sullo schermo del suo studio, in quel preciso momento, compariva il volto di Anna Finocchiaro, chiamata affettuosamente "Annuzza", con l'elegante distacco di chi, a due giorni dal voto, già sapeva che avrebbe surclassato la concorrente del Pd. E così sarebbe andata: trentacinque punti percentuali, un milione di voti di differenza. C'era già tutto, in quella frase. C'era il governatore spavaldo e inafferrabile, insofferente ai diktat dei partiti e ai recinti delle alleanze. C'era il più formidabile distruttore di maggioranze che la storia della Sicilia abbia conosciuto. Ne ha cambiate cinque come i suoi esecutivi, Lombardo, rendendo i quattro anni della sua esperienza a Palazzo d'Orleans un'epopea profondamente controversa. "Raffaele-Raffaele". La convention di Acireale, il 24 febbraio del 2008, ospita 6 mila tifosi, accorsi per il lancio ufficiale della candidatura di Lombardo. Fra le bandiere della Trinacria, e persino dell'Evis (l'esercito di volontari per l'indipendenza della Sicilia), fanno capolino i big impettiti del nascente Pdl: in prima fila ecco Renato Schifani e Angelino Alfano, gli sponsor presso Berlusconi della nomination dell'alieno Lombardo, preferito al compagno di partito Gianfranco Micciché. Il leader dell'Mpa ricambierà il favore, un mese dopo, presentandosi sul palco della Fiera accanto al Cavaliere e cantando con lui e i suoi colonnelli il refrain di "Meno male che Silvio c'è". Quei tempi sembreranno ben presto lontanissimi. A tutti. Incassata l'elezione, Lombardo decide di smarcarsi repentinamente dalla coalizione con la quale ha governato la Sicilia negli anni precedenti. E il primo colpo lo assesta a fine maggio, al momento di formare la giunta. Il presidente non ascolta i consigli del suo amico e predecessore Totò Cuffaro e, al posto dell'udc Nino Dina, manda alla Sanità il magistrato Massimo Russo. Cuffaro stacca il telefono e non si fa più trovare. Si rompe un lungo sodalizio umano, quello politico fra l'Mpa e l'Udc cuffariana resisterà ancora qualche mese. E i primi mesi della sua gestione Lombardo li trascorre segnando il solco con il recente passato: dispone il blocco delle assunzioni e avvia un piano di ridimensionamento delle società partecipate che rimarrà per gran parte incompiuto. Nel frattempo esercita uno spoils-system con il quale manda a casa i "fedelissimi" di Totò. Fra questi la super-burocrate della Programmazione, Gabriella Palocci, congedata solo con una lettera, che sbotterà in lacrime: "Sono stata trattata peggio di una cameriera". Cuffaro, il 6 novembre 2008, ha capito l'antifona: "Raffaele? È in preda a una furia sostitutrice: sta colpendo sistematicamente tutti i miei uomini". È già nato, d'altronde, l'asse con Gianfranco Micciché, il sottosegretario da tempo divenuto nemico numero uno di Cuffaro e già in traiettoria di uscita dal Pdl. Lombardo, nella prima delle sue frasi celebri, comincia a parlare di "geometrie variabili" e in Parlamento, con l'aiuto del Pd, vede la luce la riforma della Sanità osteggiata dai berlusconiani. Le Europee del 2009 si svolgono in un clima caldissimo all'interno della maggioranza. Da battaglia. Anzi, da "guerra termonucleare" per dirla con le parole del presidente dell'Ars, Francesco Cascio, che di suo pugno mette alcune definizioni non proprio lusinghiere, come quella che vuole il governo Lombardo "il peggio degli ultimi quindici anni". Alle Europee trionfa l'astensionismo, ma l'Mpa di Lombardo- in una non memorabile alleanza con la Destra di Storace - tiene mentre il Pdl perde 600 mila voti rispetto alle Politiche dell'anno precedente. Il Popolo della Libertà - alla cui guida in Sicilia sono andati Giuseppe Castiglione e Domenico Nania - conosce in Sicilia l'inizio della sua crisi. E il primo rimpasto di Lombardo, nel luglio del 2009, fotografa lo strappo: al governo vanno - o rimangono - gli uomini vicini a Fini e Micciché, il gruppo che di lì a poco formerà il Pdl Sicilia. Fra loro Gaetano Armao, avvocato di grido che - attaccato dal Pd per una serie di conflitti d'interesse- sarà costretto a lasciare tutti gli incarichi in aula prima di essere rinominato nel Lombardo-ter. Con il Pdl i rapporti di Lombardo sono sempre più tesi. Da Roma, dal governo Berlusconi, non arrivano gli oltre quattro miliardi del Fas e quando, nell'ottobre del 2009, i deputati "lealisti" del Popolo della Libertà, non votano il Dpef, il presidente decide la rottura. Di lì a pochi mesi salteranno i due assessori pidiellini superstiti - Beninati e Milione - mentre con il Pd comincia il "fidanzamento" voluto in particolare dal capogruppo Antonello Cracolici. A novembre la cena fra Lombardo e Massimo D'Alema che darà vita al "patto dell'orata". Le feste di Natale fanno nascere il Lombardo-ter, che vede l'ingresso di due tecnici in quota Pd quali Mario Centorrino e Pier Carmelo Russo. Eccole, le geometrie variabili: Lombardo conosce alcune defaillances a livello amministrativo (come le nomine di nove dirigenti esterni che sarà costretto in gran parte a ritirare), prosegue nella sua opera di occupazione del sottogoverno guadagnandosi da l'appellativo di "Arraffaele", ma in aula riesce miracolosamente a condurre in porto alcune riforme: rifiuti, semplificazione burocratica. Grazie, appunto, alle geometrie variabili. E alla generosità del Pd. La svolta il 27 marzo del 2010, con la notizia - pubblicata da Repubblica - dell'indagine per mafia che riguarda il governatore. Lui, Lombardo, reagisce a muso duro, annuncia urbi et orbi che dirà in aula i nomi dei politici che, davvero, sono collusi con Cosa nostra. I nomi che Lombardo poi pronuncia, nella seduta del 13 aprile, sono quello - atteso - del senatore Pino Firrarello e del deputato Salvo Torrisi, entrambi del Pdl, entrambi additati per interessi nella realizzazione del termovalorizzatore di Paternò. Fioccano minacce di querela, finirà tutto in un polverone dentro il quale Lombardo prosegue la sua marcia a fari spenti, con improvvise accelerazioni, preceduto da una fama che riguarda sempre più i suoi vezzi: l'abitudine di mangiare la carta, la leggenda che vuole che la segretaria assaggi prima i suoi pasti, e poi quell'incredibile collezione di fucili - quaranta, tutti funzionanti - custoditi in una stanza di Palazzo d'Orleans. A settembre ecco il Lombardo-quater. Con Micciché, che fonda Forza del Sud, il legame è consunto anche per i contrasti su un mai nato comune partito meridionale. Entra al governo la nuova Udc di Gianpiero D'Alia. Lombardo diventa uno dei leader del Terzo Polo ma la sua storia è sempre più segnata dalla vicenda giudiziaria che, nel dedalo della Procura catanese, si dipana in un susseguirsi di colpi di scena. Sotto la scure di un processo incombente che dovrà chiarire i rapporti con i boss ma con una giunta in cui sono presenti magistrati, ex prefetti, esponenti degli industriali schierati contro il racket, Lombardo continua a dare una doppia immagine di sé. A confondersi è soprattutto il Pd, che diventa protagonista di un interminabile dibattito interno sull'opportunità di garantire ancora il sostegno al governatore. Il referendum interno al partito non si farà mai. E il dibattito spingerà i democratici all'opzione del ritiro dell'appoggio solo di recente, all'inizio di giugno del 2012, quando il governatore ha già deciso di lasciare anzitempo l'incarico. Il Lombardo-quinquies è in realtà uno stillicidio - via un assessore alla volta, ecco il sostituto - che caratterizza l'ultima scoppiettante fase politica della "volpe di Grammichele" sostenuta ormai da una minoranza composta da Fli, Api e Mps: Lombardo riesce a firmare 130 nomine di sottogoverno in tre mesi, inducendo l'Ars a varare una norma per imbrigliare il suo potere di assegnare incarichi. Mentre Bruxelles sospende trasferimenti per 600 milioni di euro, chiedendo chiarimenti sulle procedure degli appalti, a Roma crescono i timori per un default in stile greco della Regione che spingono persino il premier Monti a intervenire: la lettera di Palazzo Chigi a Lombardo provoca polemiche e ha una cassa di risonanza internazionale. Le società di rating, preoccupate, sospendono il giudizio o declassano l'amministrazione isolana. La saga di Raffaele finisce in una Sicilia messa sotto tutela dallo Stato. Una dura legge del contrappasso, per il presidente autonomista.

La Giustizia pallosa, scrive Massimo Zamarion su “Giornalettismo”. Milano, vicenda Maugeri: la procura: «processate Formigoni». Roma, vicenda polizza vita: la procura: «processate Gasparri». Napoli, vicenda compravendita senatori: nuovo filone di indagini (mentre è già iniziato il processo contro il Berlusca, quello col Senato che si è costituito parte civile). Napoli, vicenda rimborsi facili: arrestato l’ex braccio destro del governatore Caldoro. Verona, l’accusa è corruzione: arrestato Vito Giacino, ex vice-sindaco della giunta Tosi. Palermo, trattativa stato-mafia: il pm Di Matteo querela Sgarbi, Ferrara, Facci e Deaglio. Piemonte, elezioni regionali 2010: il Consiglio di Stato boccia il ricorso di Cota contro la sentenza del Tar che le aveva annullate. Sant’Agata di Militello (Messina), associazione a delinquere: indagato l’ex sindaco e attuale senatore di Ncd Bruno Mancuso. E’ tutta roba degli ultimi giorni. Ma non pensate anche voi che sia venuto il momento di chiedere alla magistratura di bastonare con calda passione, feroce determinazione, per davvero e non per finta, come fa da vent’anni, pure i sinistrorsi? Non per amor di giustizia, che ci è antropologicamente estranea, ma così, per capriccio, per il gusto del nuovo, per puro estetismo, e soprattutto per non farci morire di noia?

TOTO' CUFFARO: "LE MIE PRIGIONI".

I fili che reggono la vita di Totò Cuffaro, in attesa «dell’alba nuova», scrive il 29 Giugno 2014 Emanuele Boffi su “Tempi”. Il nuovo libro dell’ex presidente della Regione Sicilia, letteralmente «scritto a mano» nel carcere di Rebibbia. Dove «si muore e si risorge ogni giorno». «La mafia ha paura di chi ama. L’uomo è veramente libero quando sa cosa fare della sua libertà» (Salvatore Cuffaro, Le carezze della nenia, Guerini e associati). Una sera sono stato a cena a casa di Totò Cuffaro, il criminale. Per la giustizia italiana l’ex presidente della Regione Sicilia è colpevole di aver favorito la mafia e per questo è da quattro anni nel carcere di Rebibbia (e ancora tre ne mancano). Questo per i giudici, per il tribunale, per lo Stato. Ma per tanti siciliani – e per me, che pur ne ho avuto una conoscenza solo epidermica – Cuffaro è un innocente che sconta ingiustamente la sua pena dietro le sbarre. Di quella cena ricordo il doppio tavolo apparecchiato (ché, uno solo, non bastava), il vino corposo e la raccomandazione – più volte espressa – di mangiare tutto, assaggiare tutto, non lasciare nulla nel piatto: tantomeno i semini dei fichi d’India, «che vengono dal mio orto, di cui sono assai orgoglioso. Hai capito, picciotto?». Capito. Quindi anche i semini? Anche i semini. Di quella cena pantagruelica e del successivo dì a scorrazzare per la Sicilia, mantengo l’impressione di una personalità esorbitante, elettrica, tarantolata. Baci, abbracci, pacche sulle spalle, “vasa vasa” e un continuo, perenne, inesausto bisogno di contaminarsi con gli altri, fossero essi commendatori o ortolani, di cui Cuffaro rivendicava orgogliosamente il contatto: «Meglio baciare tutti e dare il bacio a quello sbagliato, che non baciare nessuno», disse. Glielo hanno fatto pagare caro questo suo convincimento, ma sono certo che quei baci e quegli abbracci li rifarebbe tutti. Dopo Il candore delle cornacchie, Cuffaro ha pubblicato un nuovo libro, Le carezze della nenia. È un libro, letteralmente, come lui stesso racconta, «scritto a mano», «mentre il carcere accorcia il mio respiro», durante notti insonni. È un taccuino di pensieri, chiose, note a margine che rispecchiano una realtà dove «si muore e si risorge ogni giorno». L’uomo che ha trascorso la sua vita libero, all’aperto, tra la gente, che preferiva il comizio al salotto tv, che percorreva ogni giorno chilometri e chilometri per visitare ogni paesino della sua regione, ora si trova costretto in un buco, all’ora d’aria, alla mensa del cibo scadente, alla conta dei rapporti umani. Al luogo dove «si porta a spasso il cadavere di se stessi». Eppure. Eppure quello di Cuffaro non è un libro di idee, è un libro pieno di cose. Soprattutto di fili, a volte robusti, a volte sottili, che legano e sorreggono la sua speranza, come una maglia che lo preserva dal cadere nell’orrido della disperazione. Ci sono fili di suoni che Cuffaro avverte dalla cella: bisbigli di merli, fringuelli, cornacchie, passeri, colombi, gabbiani, cardellini e, forse, «di un tacchino impettito». Ci sono i fili dei profumi delle piante e dei fiori (rose, pini, peschi, prugni, platani). Ci sono i fili del suo volto smagrito, che sono quelli che si vedono. Ma ci sono anche i fili che non si manifestano, sono quelli delle «rughe, più numerose sul cuore che sul viso». C’è il filo dell’aquilone, che Cuffaro ha costruito per volare alto oltre le mura, così che potesse, almeno lui, vedere l’orizzonte e restituirne il conforto al suo padrone. C’è il filo di cuoio con cui ha legato la medaglietta della Madonna che «non è un porta fortuna, e non la porto perché mi aspetto il miracolo. È per me il segno della protezione di mia madre e della Madonna, il segno che sono amato». Ci sono, soprattutto, i fili dei raggi di sole, forse la “cosa” che più manca a Cuffaro e di cui parla con maggior nostalgia («stanno rubando il sole alla mia pelle»). C’è il filo che lo lega al padre, l’uomo che «mi ha insegnato il senso del Divino senza mai trascurare il senso dell’umano». Che nell’ultima telefonata gli disse che l’avrebbe fatto uscire dal carcere. È vero, ci riuscì, ma al prezzo della sua vita. Fu a causa del suo decesso, che Cuffaro poté recarsi alla tumulazione. E, infine, ci sono i fili delle radici che non fanno appassire il fiore di una vita. «La parte più bella del fiore è quella che si mostra, di cui si può cogliere il profumo, ma non pensiamo mai che essa non si potrebbe e non sarebbe apprezzata se non ci fosse la parte nascosta, coperta, sporca». Lì, nella parte nascosta, chiusa, incarcerata, sporca come può essere una gattabuia, sta il filo che alimenta una «verità che va cercata e difesa sempre, anche quando è seppellita». Anche se è al buio. Anche se c’è solo «un minuto di sole». «Per vivere l’alba nuova – scrive Cuffaro – bisogna attraversare la notte vecchia».

Totò Cuffaro si racconta in libro autobiografico “Torno verso la vita”, scrive "Grandangolo Agrigento" il 7 dicembre 2015. L'uomo è un mendicante che crede di essere un re. In attesa di uscire, il 16 dicembre, dal carcere di Rebibbia, dove sta scontando una pena di 7 anni per favoreggiamento a Cosa nostra, l’ex presidente della Regione siciliana, Totò Cuffaro, si racconta nel libro autobiografico “L’uomo è un mendicante che crede di essere un re”: la nascita della passione politica, la vita insieme alla famiglia, l’amore per la sua Terra e gli ultimi 5 anni passati in carcere. Ogni capitolo è preceduto da riflessioni su opere di grandi scrittori, da Sant’Agostino a Thomas Eliot. Il testo inaugura la collana di libri dal carcere “Il paese senza cielo”, di Aliberti compagnia editoriale. “L’uomo è un mendicante che crede di essere un re, pensa di esserlo diventato perchè si è fatto da sè – scrive Cuffaro -. La vita si incarica di ricondurlo a quel che è, a diventare se stesso. Arrivare in vetta non è facile, tornare indietro ancora meno facile, saper ripartire è certamente difficile ma si può: è segno di saper e voler vivere la vita”. “Il massimo del dolore – sottolinea nel libro Cuffaro – muta la vita personale dell’uomo, e però il carcere non è stato l’inizio e non è la fine. In questo percorso sono stato sull’orlo del baratro e sopra una nuvola. Sono stato naufrago ed esploratore. Ho vagato in un’arida foresta del vivere col corpo e l’animo ferito e sono stato aggrappato al grande albero dalle cui fronde dondola la speranza. Grazie all’amore e alla speranza non ho perso il senso del futuro neanche nei giorni più neri e scuri, neanche quando m’è mancata l’aria e il respiro della vita e grazie a loro non ho mai rinunciato a voler raggiungere la foce della libertà. D’Annunzio soleva dire: ‘Vado verso la vita’, io più semplicemente torno verso la vita”.

Ma i guai non sono finiti.

Le visite a Rebibbia della corte di Cuffaro. "Ecco la rete di amici che curava i suoi affari". I pm chiudono le indagini su 41 politici: "Spacciavano in carcere i collaboratori dell'ex presidente per loro portaborse. Così i colloqui non erano intercettati, scrivono Francesco Viviano ed Alessandra Ziniti il 28 dicembre 2015 “La Repubblica”. Il 13 luglio 2011 a Rebibbia si gioca una partita di calcio. A bordo campo tra gli spettatori ci sono Felice Crosta (il superburocrate pensionato d'oro della Regione Sicilia), Fausto Desideri (ex consigliere delegato di Riscossione Sicilia) e Marco Morrone (il factotum romano). Totò Cuffaro è in carcere da sei mesi, ma ha subito capito come fare a non perdere il contatto con i suoi fedelissimi. "Caro Marco - preannuncia in una lettera a Morrone - verrai invitato ad una manifestazione che stiamo facendo in carcere, così potrai stare un po' insieme a me e potremo parlare. Assieme a te farò invitare Felice Crosta e Fausto Desideri. Ufficialmente vi inviterà un'associazione che non ha nulla a che fare con me". E due mesi dopo l'associazione di volontariato Gruppo Idee invita a Rebibbia gli amici di Cuffaro. Tra i volontari su cui l'ex governatore fa affidamento c'è Federico Vespa, figlio di Bruno e di Augusta Iannini, magistrato e ora garante per la privacy. C'è tutta la "corte" di Totò nelle mille pagine di allegati dell'inchiesta della Procura di Roma che si appresta a depositare la richiesta di rinvio a giudizio per 41 persone (tra cui Simona Vicari, sottosegretario allo Sviluppo economico del governo Renzi e dieci parlamentari di diverse forze politiche) che devono rispondere di aver falsamente attestato lo status di collaboratori parlamentari che ha consentito loro di accedere all'interno di Rebibbia e ad avere colloqui "privati" (al riparo da intercettazioni) con l'ex governatore della Sicilia. Il quale ha appena finito di scontare una condanna a 7 anni per favoreggiamento a Cosa nostra. Cuffaro, va detto subito, in questa inchiesta non è indagato. Lui, a parlare con i suoi fedelissimi che andavano a trovarlo in carcere, non ha commesso alcun reato. A differenza dei parlamentari nazionali ed europei che, avendo diritto ad entrare nelle carceri, si sono portati dietro "amici" di Cuffaro spacciandoli come loro collaboratori e che ora rischiano fino a 10 anni. Da Simona Vicari a Vladimiro Crisafulli, da Calogero Mannino a Saverio Romano, da Giuseppe Ruvolo a Cinzia Bonfrisco, tutti si sarebbero prodigati - secondo le conclusioni dell'inchiesta condotta dal pm Barbara Zuin - per permettere all'ex governatore di mettere in piedi "un collaudato sistema di comunicazioni attraverso il quale Cuffaro ha impartito direttive o comunque fornito indicazioni per lo svolgimento di una molteplicità di non meglio specificati affari che lo vedono coinvolto". Indagato dalla Procura di Palermo nell'ambito di un'inchiesta sulla realizzazione di alcuni termovalorizzatori in Sicilia (poi finita in archivio), per Totò Cuffaro i pm Nino Di Matteo e Sergio De Montis avevano disposto la videointercettazione dei colloqui in carcere tranne, come prevede la legge, quelli con i suoi legali e con i parlamentari. Ma dalle intercettazioni effettuate sulle utenze dei familiari di Cuffaro, gli investigatori della Guardia di Finanza hanno avuto contezza che con quei colloqui al riparo dalle microspie "è stato consentito a Cuffaro di continuare ad occuparsi di proprie attività, questioni ed interessi nonostante le preclusioni connesse al suo stato detentivo". Il giorno in cui Santina Scolaro (già portavoce di Cuffaro) vede venir fuori, nell'ambito dell'inchiesta sul caso Penati, i nomi dell'avvocato d'affari palermitano Francesco Agnello e del senatore Beppe Lumia, si muove subito. "Bisogna informare immediatamente Totò", dice al telefono. E quando si rivolge al factotum Marco Morrone riceve questa risposta: "Si può entrare senza dire niente a nessuno, con un parlamentare e s'organizzamo, con Crisafulli, glielo dico, o con Lillo Mannino che ce va tutti i lunedì". Tra coloro che vanno a trovare Cuffaro in carcere (ma non è coinvolto nell'inchiesta), anche Angelino Alfano, che varca il portone di Rebibbia quando non è più ministro di Giustizia e non è ancora ministro dell'Interno. È il 21 febbraio 2012, il giorno del 53esimo compleanno di Cuffaro, che affida al suo interlocutore la richiesta di contatto con Mondadori per la pubblicazione di un suo libro e poi scrive al suo coautore Francesco Di Chiara: "Oggi è venuto a farmi visita Angelino Alfano per farmi gli auguri. È stato molto carino. Ho concordato con lui che avrebbe chiamato Marina Berlusconi, alias Mondadori, per fissare appuntamento con Renato Farina". Di Chiara poi entrerà a Rebibbia con Renato Farina, già condannato per aver portato in carcere da Lele Mora un ragazzo spacciandolo per suo collaboratore. Il 12 aprile 2011 Marco Marrone parla al telefono con la figlia di Cuffaro, Ida, e le dice: " Noi c'avevamo con tuo papà una situazione con la senatrice Vicari, con Simona perché sta cosa va in scadenza ad aprile e la deve incontra Nino (Sirchia) perché c'ha il fascicolo che tuo padre gli aveva lasciato di questa pratica". Basta controllare i registri e si scopre che la Vicari è stata in carcere pochi giorni prima, il 7 aprile. Dalle verifiche è venuto fuori che al seguito dei parlamentari era entrata a Rebibbia tutta la corte di Totò: il dirigente del ministero dell'Agricoltura Attilio Tripodi, l'ex direttore generale della Asl di Agrigento Giuseppe Di Carlo, l'ex presidente di Confindustria Trapani Davide Durante, l'avvocato dello Stato Filippo Maria Bucalo, il presidente dell'Università Kore di Enna Cataldo Salerno, oltre a deputati e politici locali a lui fedelissimi.

Cuffaro prima e dopo il carcere. Totò che visse due volte, scrive Sabato 12 Dicembre 2015 Roberto Puglisi su “Live Sicilia”. L'ex presidente della Regione sarà scarcerato oggi e tornerà ad essere un uomo libero. Ma chi è stato fino a ieri Totò Cuffaro? Quale peso ha avuto nella storia della Sicilia da potente e poi da recluso? Qui si prova a dare qualche risposta. C'era due volte Totò Cuffaro. C'era il politico che, con felpata durezza, comandava in lungo e in largo, ghigliottinato dalla condanna per un'accusa imperdonabile. C'era il recluso del carcere romano di Rebibbia che ha abbracciato la sua pena di prigioniero tra le sbarre, spiccando il volo verso la redenzione. Ora, il secondo torna a casa, consegnando la matricola da detenuto al passato. Come accadde per le lucciole di Pasolini, questa storia si racconta con uno spartiacque preciso, al sapore di cannolo. C'era Totò Cuffaro che chiamavano universalmente "Vasa vasa", per via della sua capacità stoica di incollarsi alle guance degli elettori. Non regnava, suggeriva preghiere che era saggio ascoltare. Non alzava la voce, sussurrava consigli. Si muoveva in uno scintillio di seguaci, come ogni reuccio siciliano che si rispetti, ma da primo della classe. Al suo passaggio, secerneva una tela inesorabile per acchiappare voti. Nessuno poteva esimersi dal baciare Totò, quando reggeva il potere; nessuno poteva batterlo, ne sanno qualcosa Leoluca Orlando e Rita Borsellino che videro le loro aspettative ridursi in cenere, nella corsa per Palazzo d'Orleans. “Con Totò Cuffaro - ha scritto Pietrangelo Buttafuoco - la Sicilia era quello che era: l’ultima ridotta democristiana. Con il suo successore poi, quello di Grammichele, eletto nella coalizione berlusconiana (per farsi smacchiare in corso d’opera dall’onnipotente capo della sinistra antimafia, ossia il professionista Beppe Lumia), la Sicilia divenne quel che è ancora oggi: la fogna del potere. Con Rosario Crocetta, infine, eletto nell’alleanza a guida Pd, la Sicilia è solo impostura”. Ecco la descrizione di un legame che non ha mai conosciuto tentennamenti: Totò-Salvatore, moderato, saldo detentore di preferenze, accessibile interlocutore di chicchessia – capace di non scordare mai nulla, né un nome, né un volto –, il governatore della porta accanto: praticamente invincibile. Nemmeno la frequentazione di certi ambienti in cui consenso e clientele si incrociano ne scalfiva il santino. Neppure un celebre incidente di percorso al cospetto di Maurizio Costanzo - quando un allora ignoto siciliano, dall'accento raffadalese, si alzò per dire quello che pensava, dalla platea, come lo pensava - ne offuscò la stella. E sul palco c'era il giudice Giovanni Falcone. Infine, un incauto vassoio di cannoli affondò il fuoriclasse in apparenza intoccabile nel gennaio del 2008. Il notissimo scatto col presidente che 'festeggia' la condanna per favoreggiamento semplice in primo grado, pasteggiando a ricotta, non venne perdonato. E fu l'immagine, più che la giurisprudenza, a sospingere la pietruzza che sarebbe diventata valanga. Da lì, dalla presunta cannolata di ringraziamento – l'interessato ha sempre smentito: "Tutti sanno che non stavo festeggiando. Non ero certo un fesso".  – ebbe inizio il crollo di un potere che aveva fatto del sorriso l'arte smussata di ogni superbia, l'approdo mascherato di ogni arroganza. Non gli perdonarono, insomma, lo sberleffo che non c'era, perché strideva col ritratto conosciuto. Caddero le inevitabili dimissioni. Il macigno della condanna per favoreggiamento alla mafia - l'accusa imperdonabile - fece il resto. Sulle carte piovve il timbro della Cassazione, il 22 gennaio del 2011, con il successivo ingresso a Rebibbia. Fine della prima parte della storia. C'era due volte Totò Cuffaro. C'era una volta il detenuto matricola 87833 Salvatore Cuffaro – nessuno aveva più il coraggio di chiamarlo Totò – autore di libri bellissimi, di lettere d'amore, sempre rispettose di una giustizia, pur considerata ingiusta. “Hanno voluto e pensato di mandarmi all'inferno, io ho accettato di andarci e ci sono entrato senza che nessuno mi venisse a prendere: la Giustizia me lo ha chiesto, ma non mi sento all'inferno. Io sto vivendo il carcere, anche se con difficoltà inumane, nell'inferno non si vive, si brucia (…). Ho scoperto il mio giardino interiore. Ora comprendo che cosa provano gli uccelli quando vengono raggiunti e colpiti dagli spari del cacciatore, comprendo il piangere degli alberi abbattuti dal fulmine o tagliati dal boscaiolo. Scrivo per conservare l'uomo che sono, per difenderlo. Scrivo per segnare ciò che mi accomuna a tutti quelli che sono qui con me, che sono in posti come questo dove sono io. Scrivo mentre intanto il carcere accorcia il mio respiro. Scrivo e riprendo i pensieri che, altrimenti, condannati a rimanere sconosciuti, si perderebbero per sempre”. Anche dietro le sbarre si può rintracciare un orizzonte di salvezza, fabbricando un aquilone, per esempio (“Io fuggo sull'Aquilone, l'Aquilone è la mia fuga. Io sull'Aquilone, nocchiero del cielo”). E diventare segnali luminosi di ombre altrimenti destinate al silenzio, alla catena dei pensieri, dei sentimenti. In carcere, Totò si è ristretto, smagrendosi; ha perso i chili delle vestigia trascorse, ha condiviso l'anima con i compagni di prigionia e l'ha mostrata a coloro che stavano fuori. Molti che non l'avevano mai apprezzato né votato, che delimitavano nel perimetro del disgusto le schiere osannanti dei clientes, si sono trovati, quasi senza volerlo, dalla parte dell'ex reuccio, della sua innocenza proclamata, della sua colpa lavata dal dolore e dalla dignità. Ecco il vero miracolo di Rebibbia. C'era due volte Totò Cuffaro. Uno era il simbolo di un potere vorace, di baci schioccati da troppi Giuda, di sicilianissime paludi. L'altro era un recluso che in cella ha scoperto la sua redenzione. Ora si racconta un'altra storia: quella di un uomo libero che si è guadagnato il diritto di ricominciare.

Cuffaro in libertà dopo sconto pena: “Ho sbattuto contro la mafia. Ma ho pagato, altri no. Basta politica”. L'ex leader Udc ed ex presidente della Regione Sicilia ha lasciato il carcere di Rebibbia: "Ora credo di avere il diritto di ricominciare". Si era consegnato il 22 gennaio del 2011, poche ore dopo che il bollo della Cassazione aveva reso definitiva la sua condanna a sette anni per favoreggiamento a Cosa nostra e violazione di segreto, scrive Giuseppe Pipitone il 13 dicembre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". Una laurea in giurisprudenza quasi in tasca, due libri dati alle stampe e diversi chili in meno: si è presentato così Salvatore Cuffaro ai cancelli del carcere romano di Rebibbia, che ha attraversato stamattina dopo aver finito di scontare la sua pena. “È bello respirare la libertà. Oggi posso dire di aver superato il carcere”, sono state le prime parole dell’ex presidente siciliano, che in una cella del piano terra del penitenziario ha trascorso gli ultimi 1.785 giorni: si era consegnato, infatti, il 22 gennaio del 2011, poche ore dopo che il bollo della Cassazione aveva reso definitiva la sua condanna a sette anni per favoreggiamento a Cosa nostra e violazione di segreto. Grazie agli sconti di pena e alla buona condotta, però, il “detenuto modello” Cuffaro ha scontato alla fine meno di cinque anni di carcere: e adesso è tornato libero con due anni d’anticipo. In questo arco di tempo, l’ex leader dell’Udc ha studiato giurisprudenza (nei prossimi mesi dovrebbe sostenere l’esame di laurea), trovando il tempo anche di firmare due libri (Il candore delle cornacchie e Le carezze della nenia). “La politica attiva, elettorale e dei partiti è un ricordo bellissimo che non farà parte della mia nuova vita. Ora ho altre priorità. Ho amato la politica e non rinnego nulla di ciò che ho fatto, non mi sento tradito”, ha spiegato l’ex senatore Udc. E ha poi aggiunto: “Nella mia coscienza sono innocente. Sono andato a sbattere contro la mafia. Tornassi indietro metterei un airbag. Ho fatto degli errori, non mi voglio nascondere: io li ho pagati, altri no. Ora credo di avere il diritto di ricominciare”. Già nella giornata di oggi tornerà aRaffadali, la sua città d’origine in provincia di Agrigento, insieme alla famiglia, per rivedere l’anziana madre, che quasi due anni fa aveva preso carta e penna per chiedere al presidente Giorgio Napolitano di graziare il figlio detenuto. “Mi dispiace, ma non posso accettare la carità”, era stato il commento di Cuffaro, che aveva chiesto – senza successo – di essere assegnato ai servizi sociali. Adesso, invece, ha annunciato di volere andare in Africa, in Burundi, a fare volontariato. Un desiderio che, semmai dovesse realizzarsi, sarebbe agli antipodi dalla prima vita di Cuffaro, titolare di un lungo curriculum di chiacchierato politico acchiappavoti, capace di mettere d’accordo elettori di ogni risma e colore. Deputato ragionale della Dc dal 1991, noto al grande pubblico fin da quando interviene al Costanzo Show per difendere il “maestro” Calogero Mannino (in studio c’era anche un attonito Giovanni Falcone), Cuffaro si guadagna presto un bonario soprannome: Totò Vasa Vasa, dato che è in grado di schioccare un doppio bacio sulle guance di chiunque si trovi a portata di smack. Assessore regionale all’Agricoltura in governi di centrodestra e centrosinistra, si fa subito segnalare perché è uomo di facilissima socialità: non dimentica mai un nome, un volto, una richiesta, a tutti elargisce consigli, favori, aiuti, doni. E alla fine viene premiato: nel 2001 viene eletto per la prima volta presidente della Sicilia, battendo a sorpresa Leoluca Orlando. Poi nel 2006 la riconferma, quando a sfidarlo c’è Rita Borsellino. Nel frattempo era già deflagrato il caso giudiziario: la procura di Palermo lo accusa di aver rivelato all’imprenditore Michele Aiello, prestanome diBernardo Provenzano, importanti dettagli su indagini in corso. Informazioni che, tramite il medico e politico Domenico Miceli, finiscono direttamente al boss di Brancaccio Giuseppe Guttadauro, ex aiuto primario dell’ospedale Cervello. È una storia di colletti bianchi e favori, politici e voti, medici e boss latitanti quella in cui viene coinvolto l’allora potentissimo governatore, numero due dell’Udc di Pierferdinando Casini. L’inchiesta spacca il mondo politico, ma anche la stessa procura di Palermo: alcuni pm vorrebbero processare Cuffaro per concorso esterno, l’allora procuratore capo Pietro Grasso però si oppone. Alla fine l’ex governatore verrà rinviato a giudizio per favoreggiamento aggravato a Cosa nostra: l’aggravante, però, cadrà quando in primo grado arriva la condanna a cinque anni. È il 24 gennaio del 2008 e Cuffaro spiega di non avere intenzione di dimettersi: uno scatto rubato mentre a Palazzo d’Orleans è intento a spostare un vassoio pieno di cannoli fa scoppiare la polemica. La foto dei presunti festeggiamenti a colpi di dolce alla ricotta fa il giro d’Italia, diventa più imbarazzante della stessa condanna: e alla fine Vasa Vasa dovrà arrendersi, dimettendosi dall’incarico e accettando di trasferirsi al Senato. Il 23 gennaio del 2010 è la volta della corte d’Appello: Cuffaro viene condannato a sette anni e stavolta torna il favoreggiamento aggravato. Sentenza che diventerà definitiva appena un anno dopo. Nonostante la galera, però, gli amici di un tempo non si dimenticano di Totò: e fanno la fila per andarlo a trovare in carcere. Solo che per laprocura di Roma almeno 41 dei visitatori di Cuffaro sono colpevoli di falso: non avrebbero rispettato le regole che concedono ai deputati di entrare in carcere accompagnati da un collaboratore. Al cospetto dell’ex governatore sono andati praticamente tutti: da Mannino a Saverio Romano, dagli ex europarlamentariAntonello Antinoro e Salvatore Iacolino al senatore Pino Ferrarello, fino a Mirello Crisafulli, l’ex impresentabile del Pd, ribattezzato il Cuffaro Rosso per la sua capacità di acchiappare voti a Enna, nonostante militasse nello schieramento opposto a quello di Totò. Un elenco sterminato che la dice lunga sulla quantità di relazioni mantenute negli anni da Totò Vasa Vasa, l’ex governatore che più di qualcuno ricandiderebbe anche domani. Il galeotto Cuffaro, però, non sembra intenzionato a tornare in politica, e in ogni caso non potrebbe ricoprire alcun incarico, dato che è interdetto in perpetuo dai pubblici uffici. Una discriminante fondamentale, visto l’ampio parterre di cuffariani che ha ormai preso pieno possesso del nuovo Pd renziano.

Presentato “Cuffaro tutta un’altra storia – La verità sul processo al presidente dei siciliani”, scrive News Sicilia” il 9 dicembre 2015. «A un certo punto sembra che qualcuno farfugli qualcosa. È difficile capire che cosa, ma, per la Procura di Palermo e il perito Roberto Genovese, quel qualcuno che parla sarà la moglie di Guttadauro, la signora Gisella Greco. È la signora, allora, che nel momento in cui il marito fa capire di aver scoperto la microspia, secondo quello che il perito Genovese dirà di aver sentito, avrebbe pronunciato la frase: “ragiuni…veru ragiuni avia Totò Cuffaro”. In quel momento, a qualche chilometro di distanza, al comando dei Ros a Monreale, il maresciallo Salvatore Ciffo è addetto all’ascolto delle registrazioni di casa Guttadauro. È da ore incollato al tavolo, con la cuffia in testa, quando sente che dentro casa di Guttadauro “sta avvenendo qualcosa”. Appena sente qualcosa di strano, come i “rumori metallici” in sottofondo, prende il telefono e chiama il suo collega, il maresciallo Giorgio Riolo, che in quel momento si trova in vacanza. Riolo è la persona giusta, perché è colui che le microspie, dentro casa di Guttadauro, è andato a metterle il 15 agosto del 2000. Sa dove sono e può capire se Guttadauro veramente sia riuscito a scoprirle o meno. “Giorgio vieni che forse hanno trovato qualcosa” gli dirà il collega Ciffo. Riolo, a quel punto, si precipiterà al comando di Monreale per capire veramente che cosa stia succedendo. Quando sarà ascoltato dai P.M., Riolo dirà di aver sentito una frase del tipo “aveva ragione Totò” […] Come vedremo più avanti, a distanza di anni, Riolo darà tutta un’altra versione … ». Questa un’anteprima - tratta dal paragrafo “15 giugno 2001: Guttadauro trova la microspia. Come gli aveva detto il cognato?”, del secondo capitolo “Processo al presidente” - del libro “Cuffaro tutta un’altra storia – La verità sul processo al presidente dei siciliani”, presentato proprio oggi alla Sala Stampa della Camera dei Deputati. Il testo illustra la vicenda giudiziaria dell’ex governatore, a firma del giornalista romano Simone Nastasi e sarà disponibile a partire da domani in tutte le librerie e nelle librerie Mondadori d’Italia per Bonfirraro editore. L’autore pone interrogativi e analizza la questione cercando di chiarire i passaggi meno chiari e meno raccontati dell’intero processo contro Cuffaro, concluso con sentenza della Cassazione. Nel testo viene anche riportata alla memoria del lettore la condanna a sette anni di reclusione, per rivelazione di segreto istruttorio con l’aggravante di favoreggiamento mafioso, “accusa che Cuffaro ancora oggi continua a non voler accettare, perché ripete ‘la mafia fa schifo e la mafia, l’ho sempre combattuta” come precisa lo stesso autore. Un mix di interrogativi, testimonianze, interviste che contribuisce a rendere il volume una riflessione attenta su temi di primissima attualità e che interessano il lettore in quanto libero cittadino. “Mi auguro che questo libro - dice l’autore - aiuti il lettore a farsi la propria opinione su una vicenda complessa quale è stata il processo all’ex governatore Cuffaro. Ho scelto come fonti principali gli atti processuali proprio per mantenere una certa obiettività nella narrazione dei fatti. La parola adesso spetti pure al lettore”. “È un libro che avrei voluto pubblicare sin dal giorno della carcerazione di Totò Cuffaro – dichiara l’editore Salvo Bonfirraro  e quindi cinque anni fa, ma capisco che i tempi allora non fossero maturi. Il saggio ha percorso una lunga gestazione, della durata di almeno due anni, subendo molti cambiamenti di rotta, e ha visto la luce soltanto grazie alla sete di conoscenza e d’informazione che ha sempre caratterizzato le nostre pubblicazioni. Adesso tutti i lettori, scevri da pregiudizi, potranno accedere alla verità che nessuno ci ha mai racconta.

Cuffaro scarcerato, ma un libro rilancia i dubbi sul processo, scrive il 14/12/2015 Grazia Bontà su “L’Ultima Ribattuta”. È uscito ieri mattina dal carcere romano di Rebibbia, l’ex governatore della Sicilia e senatore Udc Salvatore Cuffaro. Dopo 4 anni e undici mesi trascorsi nell’istituto penitenziario romano per scontare la condanna definitiva a sette anni di reclusione, ricevuta per rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento aggravato alla mafia. L’ex governatore, in definitiva, ha scontato “soltanto” 4 anni e undici mesi grazie all’indulto di anno per i reati “non ostativi”, e ai 45 giorni di sconto previsti dalla legge per la buona condotta. Inizialmente, sembrava che l’uscita dal carcere di Cuffaro fosse prevista per il giorno 15 dicembre, ma invece la libertà è arrivata con due giorni di anticipo. Ad accoglierlo oltre ad un fiume di giornalisti, che già dalla serata di sabato erano stati informati della scarcerazione anticipata, i suoi avvocati Marcello Montalbano e Maria Brucale, i fratelli Silvio e Giuseppe e il figlio. Sono venuti a prenderlo a Roma, con un pulmino, per portarlo direttamente in Sicilia a trovare la madre. Ma prima di Cuffaro, la settimana scorsa e precisamente giovedi 10 dicembre, è uscito anche un libro che racconta la sua vicenda giudiziaria. Dal titolo eloquente: “Cuffaro: tutta un’altra storia. La verità sul processo al presidente dei siciliani”, scritto dal giornalista Simone Nastasi e edito dalla casa editrice Bonfirraro. Il volume è stato presentato nella mattinata di mercoledì 9 dicembre alla sala stampa della Camera dei Deputati. Nel libro vengono ripercorse tutte le tappe della vicenda processuale durata sei anni che iniziata nel settembre del 2004 con la richiesta di rinvio a giudizio, si sarebbe conclusa nel gennaio 2011 con la condanna definitiva dell’ex governatore. L’ex governatore era stato accusato di essere una delle “talpe” che tra il 2001 e il 2003 avrebbero rivelato notizie riservate agli allora indagati per associazione mafiosa, Giuseppe Guttadauro (medico aiuto primario, già condannato per mafia e accusato di essere il nuovo capo mandamento del quartiere Brancaccio) e Michele Aiello (imprenditore nel settore sanitario, accusato di essere uno dei prestanome di Bernardo Provenzano). Per questo che infatti le accuse contro Cuffaro saranno di rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra. Nel raccontare i passaggi che hanno scandito l’intera vicenda processuale di Cuffaro, l’autore del libro, utilizzando come principale fonte di informazione gli atti processuali, ha posto in evidenza tutte quelle stranezze e quelle ambiguità che hanno caratterizzato il processo di Cuffaro. Dalle dichiarazioni contraddittorie di Salvatore Aragona, principale teste di accusa, al ritrovamento della “prova regina”, un’intercettazione ambientale (saltata fuori non dal processo contro Cuffaro ma da uno parallelo), che è servita ai pm per chiedere e ottenere in sede dibattimentale, il riconoscimento dell’aggravante di mafia nei confronti dell’ex Governatore. Dall’intercettazione infatti, secondo uno dei periti incaricati di analizzarne il contenuto, sarebbe spuntato fuori anche il nome di Totò Cuffaro (nel caso dell’ormai famosa frase “ragiuni avia Totò Cuffaro”). Intercettazione della quale, tuttavia, gli esami di 3 periti su 4 avrebbero smentito l’esistenza. A curare la prefazione del volume, Guido Paglia, che pur non avendo direttamente seguito il processo di Cuffaro, ha accettato di approfondire la vicenda, dopo essere stato “convinto per anni che elementi per condannarlo ce ne fossero”. Anche Paglia tuttavia, dopo aver letto il libro di Simone Nastasi, si è detto del parere che alla fine “Cuffaro abbia pagato qualche errore nella linea difensiva”, nonostante e comunque, una “certa stima” nei confronti dei magistrati Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino (rispettivamente, oggi, procuratore capo e procuratore aggiunto di Roma, ma ieri rappresentanti dell’accusa nel processo contro Cuffaro) lo portino a dubitare che il processo sia solo una colossale “montatura”. Della post fazione invece, si è occupato l’avvocato e ex parlamentare radicale Mauro Mellini (autore tra l’altro di un volume dal titolo Il Partito dei Magistrati) che invece, pur non avendo anch’egli seguito direttamente il caso, ha parlato esplicitamente di “giustizia di lotta”, dicendosi convinto che nei confronti di Cuffaro ci sia stata una vera e propria “persecuzione”. Dettata evidentemente, da ragioni che vanno anche al di la dei fatti processuali. Adesso allora, l’ultima parola, quella più importante, spetti pure ai lettori, nei confronti dei quali l’autore Nastasi ha espresso l’auspicio che “questo libro possa aiutarli a farsi un’opinione corretta e esauriente sull’intera vicenda giudiziaria”.

Processo Cuffaro, quante stranezzeUn libro solleva dubbi e interrogativi, scrive il 9 dicembre 2015 Manlio Viola su “Palermo. Blog Sicilia”. Totò Cuffaro ha veramente favorito la mafia? Se lo chiede Simone Nastasi, giornalista romano, avvicinatosi per pura curiosità alla vicenda del presidente della Regione condannato e che ha scontato per intero la sua pena in carcere. “Un caso più unico che raro – dice Nastasi – quello di un senatore della Repubblica che non si nasconde dietro la politica o qualsiasi forma di impunità, che accetta la pena e la sconta senza chiedere privilegi, e con un rispetto delle istituzioni senza eguali”. E’ stata proprio l’osservazione di questo fatto, riconosciuto a Cuffaro anche dai suoi più acerrimi nemici politici, a mettere Nastasi sulla tracce degli atti del processo alla ricerca di una spiegazione. Guardando alla reazione dell’uomo Cuffaro Nastasi si è posto alcuni interrogativi ed ha ricostruito, passo passo, il processo mettendo insieme un libro da 224 pagine più una appendice con gli atti giudiziari disponibile da domani in libreria.

Nastasi, dopo questo lungo lavoro di ricerca lei si sarà fatta una sua idea sulla vicenda.

“Innanzitutto ci tengo a precisare che si tratta di un libro scritto in larghissima parte sulla base degli atti giudiziari e solo in minima parte intervistando alcune persone. Un politico Pd come Vladimiro Criusafulli e, alla fine, due imputati, uno dei quali assolto e risarcito, i marescialli Riolo e Borzacchelli. Ma una idea me la sono fatta proprio guardando agli atti del processo”.

E qual è questa idea?

“Beh negli atti del processo c’è palesemente qualcosa che non va. Basti pensare che la prova sulla base della quale si giunge ad una condanna in Cassazione non compare prima della seconda metà del procedimento. Si tratta, peraltro, di una intercettazione ambientale proveniente da altro procedimento, quello che riguarda il medico ed ex assessore comunale di Palermo Mimmo Miceli. Una ambientale trascritta da un perito le cui dichiarazioni a verbale durante il processo non convincono la corte tanto da richiedere una seconda perizia. Proprio questa nuova perizia smentisce la prima sull’esistenza della frase fondamentale ma questo non basta per evitare a Cuffaro l’accusa più pesante, quella di favoreggiamento nei confronti di un mafioso”.

Secondo lei c’è stato un errore giudiziario?

“Non dico questo, sostengo solo che negli atti si rilevano stranezze. Cuffaro ha sbagliato, e questo sembra accertato dagli atti del processo. La mia convinzione, dopo aver studiato tutto, è che la sentenza più giusta fosse quella di primo grado che lo condannava solo per la rivelazione del segreto d’ufficio. Il resto mi sembra abbastanza controverso”.

Ma la rivelazione del segreto d’ufficio non attiene il pubblico ufficiale deputato a mantenere quel segreto?

“Lo pensavo anche io ma studiando atti processuali e giurisprudenza ho accertato che chiunque, anche se non deputato a mantenere quel segreto, se ne entra a conoscenza è tenuto a non rivelarlo. Dunque il reato di rivelazione c’è probabilmente stato, in base alle prove processuali. Non ho visto, invece, la dimostrazione degli altri reati. Negli atti c’è una perizia di Gioacchino Genchi, noto funzionario tecnico della polizia e in seguito consulente di grandi processi, che dice chiaramente come in 5 anni e decine di migliaia di ore di telefonate di Cuffaro e delle persone a lui più vicine non c’è un solo contatto con uomini mafiosi o pseudo tali. Con una sola eccezione: Salvatore Aragona. Vogliamo dimenticarci che stiamo parlando, però, di un medico?”.

Dunque cosa si è risposto alla domanda iniziale che si era posto? Cuffaro ha veramente favorito la mafia?

“A mio parere, ripeto, la sentenza più giusta era quella di primo grado: solo rivelazione di segreto d’ufficio. e c’è da ricordare che se quello fosse rimasto il reato e fosse caduta l’aggravante dell’articolo 7 ovvero proprio il favoreggiamento indiretto alla mafia, il reato sarebbe stato prescritto e Cuffaro non avrebbe fatto un giorno di galera”.

Ma inizialmente la procura di Palermo voleva imputare l’allora presidente della Regione addirittura per concorso esterno. Questo non pone altri dubbi?

“Anche su questo mi sono fatto una mia idea. In Procura a Palermo c’era la convinzione forte della colpevolezza di Cuffaro ma anche la consapevolezza dell’inconsistenza delle prove d’accusa. Da qui nacque il confronto forte dentro la Procura, quasi uno scontro, che portò ad evitare l’imputazione di concorso esterno proprio perché non avrebbe retto in tribunale”.

Il libro esce domani, appena 4 giorni prima della scarcerazione di Cuffaro. E’ una scelta precisa? Cosa pensi accadrà quando Cuffaro lascerà il carcere?

“Durante questo mio lavoro sugli atti processuali – conclude Nastasi nella sua intervista a BlogSicilia – ho incontrato molte persone ed ho avuto modo di percepire come tanti in Sicilia non siano affatto convinti che Cuffaro sia stato vicino alla mafia. Mi aspetto una grande manifestazione di affetto da parte di questa gente nei confronti di un uomo al quale bisogna, comunque, riconoscere una cosa su tutte: il grande senso delle istituzioni dimostrato e la grande dignità nell’affrontare la pena comminatagli senza mai sottrarsi”.

Totò Cuffaro ha veramente favorito la mafia? Il nuovo libro di Simone Nastasi sul processo all’ex presidente dei siciliani, scrive My Belice” il 16 dicembre 2015. Totò Cuffaro adesso è un uomo libero. A ventiquattro ore dalla scarcerazione è ritornato nella sua Raffadali, accolto da un codazzo di persone, le stesse che lo hanno tanto atteso per quasi cinque lunghi anni. Ha pagato così il suo conto con la giustizia che lo aveva condannato definitivamente in Cassazione il 22 gennaio del 2011 per rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento aggravato alla mafia. E lo ha accolto anche un nuovo libro “Cuffaro tutta un’altra storia – La verità sul processo al presidente dei siciliani” edito da Bonfirraro e scritto dal giornalista romano Simone Nastasi, in tutta Italia nelle librerie indipendenti e in tutte le librerie Mondadori, che rilancia molti dubbi sulle tesi dell’accusa, raccontando i passaggi più importanti che hanno scandito, come recita il lungo titolo, l’intera vicenda dibattimentale del «primo condannato della storia politica italiana a scontare in carcere una pena così lunga». Al di là del nome del personaggio, che in questo caso è senza dubbio risonante, il libro si muove su un campo minato che è quello della ricerca di una “giustizia giusta” in uno stato di diritto come l’Italia e mette in luce come, probabilmente, in tutta questa vicenda sia stata calcata un po’ la mano sulla gravità dei reati imputatigli. Un saggio acuto e agile, dall’andamento a spirale, con i concetti accennati prima e approfonditi poi, che, alla luce anche delle ultime dichiarazioni di Totò Cuffaro all’uscita da Rebibbia, abbandona subito la presunzione di essere detentore di assolute verità – a dispetto del titolo provocatorio – ma che induce il lettore a porsi, sempre e comunque, delle domande da cittadino libero. L’autore, dunque, utilizzando come principale fonte di informazione gli atti processuali, ha posto in evidenza tutte quelle stranezze e quelle ambiguità che hanno caratterizzato il processo all’ex governatore, accusato di essere una delle “talpe” che tra il 2001 e il 2003 avrebbero rivelato notizie riservate agli allora indagati per associazione mafiosa, Giuseppe Guttadauro e Michele Aiello. Nel libro si dipanano per intero i passaggi storici, dall’inchiesta “Talpe alla Dda” fino ad arrivare alla controversa questione della “prova regina”, ovvero la trascrizione di quell’intercettazione ambientale “Ragiuni avia Totò Cuffaro” che è per Nastasi uno degli elementi sul quale si concentrano i “dubbi maggiori”. «Perché così tanti consulenti? E perché per due periti la ricezione della microspia risulta poco udibile? Ma, soprattutto, Cuffaro avrebbe realmente fatto parte di quell’area grigia nella quale, come si legge nella sentenza di primo grado, “opera indisturbato un intreccio perverso tra interessi politici, economici, affaristici e mafiosi”»? Dubbi, interrogativi, testimonianze, interviste esclusive e quant’altro, arricchito dalla prefazione del giornalista d’inchiesta Guido Paglia, direttore de L’ultima ribattuta, e dalla postfazione dell’avvocato ed ex parlamentare Mauro Mellini, autore de Il partito dei magistrati (Bonfirraro ed.).

Totò Cuffaro: "Vi racconto le mie prigioni". Intervista di Luca Telese su "Libero Quotidiano" del 29 dicembre 2015.

«All'inizio ho cominciato a scrivere incidenti di esecuzione per tutti quelli che non erano in grado di farlo da soli. Ne avrò fatti almeno 200…».

Cosa sono? 

«È l'istanza per avere ridotta la pena se cambiano le leggi o le condizioni. È cominciato così…». In che senso? (Ride, autoironico) «Mi sono fatto una fama: l'avvocato del braccio. Sono soddisfazioni».

Poi?

«Poi sono passato ai "permessini", la richiesta burocraticamente incartata che serve per avere qualsiasi cosa. Il permessino per la torta, per lo spazzolino… (Altra risata, più amara) «Per le scarpe, il libro, la penna…. Senti ma la sai la più bella? Serve il permessino anche per potersi far scrivere il permessino».

E gli analfabeti come fanno?

«Ecco, bravo: nell'ora d' aria gli allungavo un permessino scritto da me, per chiedere, a nome loro, di potersi far fare un permessino, sempre da me».

A quel punto sei diventato sia avvocato che scrivano.

«Metà dei detenuti non ha avvocato. Ma ti stavo dicendo dell'ultimo gravosissimo incarico: la stesura delle lettere private».

Difficile?

«Una sofferenza fisica. Il carcere è una vita di messaggi in bottiglia».

Ma perché gravoso?

«È come rivivere tutte queste sofferenze. Te lo confesso: ho avuto problemi con molte lettere. Scrivi questo… scrivi quello…».

Mi fai un esempio?

«Una mia amica trans, molto innamorata del suo uomo mi diceva: "Adesso scrivi che lo desidero. Scrivi che lo voglio prendere da dietro e scrivi che voglio tanto metterglielo in culo».

E tu?

«Ho esclamato: Non posso!».

E la trans?

«E perché non potresti, scusa?». «Le faccio: Sono cattolico».

Ah ah ah… e lei? 

«Impassibile, ma con una logica inattaccabile dice: "Capisco, tu sei cattolico ma la lettera è la mia"!».

Posso dire solo qui che il giorno in cui Totò Cuffaro è stato condannato ero tra quelli convinti che se lo meritasse. Ero fra quelli indignati per i festeggiamenti per la sentenza di primo grado a base di cannoli. Lo avevo rincorso da inviato nella notte delle comunali di Catania. A cena con Raffaele Lombardo i due avevano decantato il loro pieno di preferenze come un sistema del Totocalcio. Ero rimasto a bocca aperta: avevo scritto tutto. Pensavo che Cuffaro si arrabbiasse, invece mi aveva detto: «Facciamo un'intervista!?». Ebbene sì, baciò pure me. Un vicerè. Era una vita fa. Lo rivedo dieci anni dopo, in una stanza di Rebibbia: un altro uomo. Maturo, serio, diverso. Trenta chili di meno, rada barba sale e pepe. Ci rivediamo più volte, nel corso di un anno, quando partecipo al corso di giornalismo istituito da Giorgio Poidomani. Manca un anno alla scarcerazione. Mentre usciamo da una cella Totò mi annuncia: «Ho scritto un libro dove il protagonista è un maiale in carcere che si chiama come Peppa Pip. È un libro orwelliano, la storia di Tota Pig. E Tota Pig sono io». Adesso Cuffaro è uscito, il libro ce l'ho in mano ("L'uomo è un mendicante che crede di essere un re", Aliberti), è bellissimo, la copertina è un maialino disegnato da Vauro. E Tota Pig è tornato Totò.

Ti hanno radiato dall'ordine, come fai a vivere?

«Già, un'altra follia. Ti riabilitano, ma ti tolgono la possibilità di lavorare. È come dire: Vai e ruba. Io mi limiterò alla prima cosa…

Dovevi dare 700 mila euro di danni all' erario.

«Ho venduto una casa. In qualche modo abbiamo fatto. Mio figlio, il mio orgoglio, adesso lavora».

Cosa farai con i diritti della Aliberti?

(Ride) «Coltivo un sogno eversivo. Voglio mettere insieme almeno 16mila euro per regalare ai detenuti un nuovo campo da calcetto. Con l'erbetta sintetica, capisci?

Quando eri dentro giocavi? 

«Ah ah ah… chi non gioca a pallone in carcere è morto. Anche chi gioca, a dire il vero, per i tanti calcioni che si danno e prendono. Alla fine con la scusa dell'età, avevo ottenuto il permesso di fare l' arbitro».

Cornuto?

«Questo ti stupirà: fra tutte le ingiurie che volano dietro le sbarre quella parola è un tabù».

Come te lo spieghi?

«Qui c' è gente che preferirebbe morire che scoprire un tradimento. La contumacia e l'assenza producono dolore da cui non c' è protezione».

La cosa per cui hai sofferto di più?

«L'impossibilità di dormire con cui combattono tutti. Io da medico mi sono imposto di non assumere i sedativi di cui l'amministrazione carceraria fa abbondante uso».

Perché?

«Perché volevo rimanere lucido. Alle 23.00 si dovrebbe spegnere tutto. Alle 24.00 il tuo compagno del letto di cella ulula: "Totò, basta co sti tolksciò!!!"».

Cioè i talk show?

«Sì, la politica, una delle malattie che non ti abbandona. All'una di notte sei chiuso nell'unico fortino dove in carcere esiste la privacy».

Quale?

«I sei metri cubi della tua branda. L'unico spazio, cesso e lavandino compresi, che non condividi con nessuno. E lì, sei finalmente solo con te stesso e inseguito dai tuoi demoni. Ti assale l'angoscia».

Il tuo libro sembra scritto da un saggista novecentesco: rifletti sulla condizione umana, citi Foucault e Sant'Agostino, Sciascia e Mann... Hai un ghost writer laureato in lettere?

«Non sfottere! Mi sono cibato di libri, come un affamato. Ne ho letti cinque sei a settimana, ero inseguito da loro. Mi hanno regalato, non so perché, venti copie delle Confessioni».

E che ne hai fatto?

«Distribuite fra le celle: il carcere è pieno di analfabeti che studiano. Anche se non era una lettura esattamente popolare: "Ancora co 'sto Sant' Agostino Totò! Ma Grisham non te lo regalano?"».

Sei stato presidente di regione, deputato: allora cosa pensavi del carcere?

«La verità? Me ne fottevo allegramente, come ancora oggi fa la maggior parte della classe dirigente italiana».

Cosa chiederesti al ministro Orlando?

«Di far finire una vergogna: perché un detenuto ha diritto a una sola telefonata a settimana? ».

Dal carcere sei uscito nudo.

«Ho regalato tutto. Tranne le scarpe e i vestiti con cui sono uscito e le quattordicimila lettere che mi hanno mandato».

Le hai tenute tutte?

«Anche le tre - relativamente poche - di insulti».

Tipo?

«Pezzo di merda, muori».

Carina perché la tieni?

«Perché è giusto che qualcuno mi volesse vedere marcire su 13mila che mi hanno incoraggiato. Rende vere le altre».

Il carcere redime?

«Ovviamente no. Il carcere non educa, diseduca. Una enorme struttura organizzata per creare inutile sofferenza».

Un altro esempio.

«Penso agli extracomunitari che non hanno la possibilità di vedere i loro bambini che crescono. Basterebbe Skype».

Dicevi che l'assenza è la pena più grande.

«Già: sentirsi abbandonato, dimenticato. In questo clima due parole di una lettera del Papa diventano discussioni di intere settimane di cella in cella».

Un leghista duro ti direbbe: sono criminali ben gli sta.

«Oh, sì. C' è un pezzo di società che ha sbagliato. Ma che merita di essere considerata: altrimenti che differenza c'è con la tortura?».

Altro promemoria per il ministro Orlando?

«Che vergogna l'aumento della tassa di soggiorno per chi è dentro. Ti facevano pagare 80 euro al mese, oggi 115. E 50 se li prendono in cauzione».

Hai aiutato il tuo compagno di cella, spacciatore, a ridursi la pena.

«Oh sì! Era stato condannato con la Giovanardi-Fini, demolita dalla Corte Costituzionale: ho fatto incidente di esecuzione anche a lui, e gli hanno levato due anni».

Hai trovato tua moglie in stato di depressione.

«Terribile: avevo intuito che dopo essere venuta tutte le settimane per quattro anni, se non passava doveva esserci qualche problema. Ma mio figlio non ha voluto dire nulla».

E una crisi legata a te proprio ora che esci?

«È convinta che mi riporteranno in galera».

Ma è vero che vai a fare il medico in Africa?

«A marzo, ho già il biglietto fatto per il Burundi. Se posso ci vado anche con lei. È medico, sarebbe utilissima».

Parliamo del tuo amico islamico Jalal.

«Compagno di cella. Dopo la strage del Bataclan abbiamo pregato insieme».

E non gli dava fastidio?

«Macchè. Pensa che spettacolo. Grida dal fondo del braccio: "Ahò che fannòoo?". Telecronaca dalla cella di fronte "E che devono fa? Preganoooo!"».

La cosa per cui hai sofferto di più?

«Le perquisizioni quando ti buttano tutto all' aria. Compresa la foto con i miei figli e mia moglie, infilata alla rete, che guardavo quando la notte mi stringevo al cuscino a piangere».

Cuffaro riceve favori, dicevano.

«Non mi perdonerò mai di non aver potuto dare la mano a mio padre mentre moriva. Mi hanno negato il permesso».

Ti hanno impedito anche di vedere tua madre.

«Le parole della dottoressa Tomasini, magistrato di sorveglianza: "Il colloquio viene negato perché sarebbe svuotato di ogni significato perché le condizioni sono tali che non si potrebbe avere una comune relazione di intenti"».

Sei d'accordo con il tuo compagno di partito Giovanardi su gay e trans?

«No, gli direi che non ha capito nulla: ma lo pensavo anche prima».

Il compagno di cella che hai amato di più?

«Giuseppe, un siciliano amante della poesia. Quando è uscito mi pareva di aver perso un parente».

C' è una lezione che vorresti trasmettere a chi leggerà il libro?

«È che lo capisci solo dentro una cella. Il desiderio è tutto, ed è solo nella tua immaginazione. Ma è quello che ti tiene vivo. Quando ti tolgono tutto».

Hai detto: senza la fede non avrei resistito.

«Vero. Ma adesso penso che sia diverso. Ho scoperto la vera essenza del mio cattolicesimo. Solo in cella ho capito cosa vuol dire essere cattolico: ho capito che di tutte le religioni monoteiste, il mio è l'unico Dio che è andato in carcere, che ha camminato con il cireneo».

Il Dio dei carcerati perché Dio carcerato.

«Proprio così: un Cristo che è sceso dalla croce per stare anche al fianco dei più disperati, è vicino prima di tutto a quelli che stanno a marcire nelle galere. Cristo è il Dio che viene in cella con te». Di Luca Telese

LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA. LA "ROBBA" DEI BOSS? COSA NOSTRA...

Già perché la mafia è “cosa nostra” ed i suoi beni sono “roba nostra” dice Don Ciotti.

In un doc la storia di Don Ciotti e Libera: "La battaglia di chi combatte ogni giorno", scrive Silvia Fumarola l'08 dicembre 2015 su “La Repubblica”, tessendo le lodi del loro protetto per ideologia. Da sempre "La Repubblica" è stata sponsor e promulgatrice mediatica di Libera e del suo Guru. Si intitola "Sono Cosa nostra" il film dedicato alla vita e all'operato di Don Luigi Ciotti girato da Simone Aleandri. Lanciato in anteprima al cinema Nitehawk di Brooklyn, New York, il doc è anche un modo per celebrare i vent’anni della legge sulla confisca dei beni alle mafie: "Rappresento un 'noi' perché Libera raccoglie 1600 associazioni". Don Luigi Ciotti non smette di ripeterlo: «La legge c’è ma non basta, bisogna fare di più». È un’Italia che fa sperare quella raccontata nel documentario Sono Cosa nostra di Simone Aleandri: l’anteprima mondiale è ospitata nello storico cinema Nitehawk di Brooklyn, per iniziativa di Rai cinema. «Lo faremo girare nelle scuole e verrà trasmesso in tv, è un film da servizio pubblico, racconta l’impegno per la legalità, la battaglia quotidiana di chi combatte tutti i giorni» dice l’amministratore delegato Paolo Del Brocco. Il film celebra i vent’anni della legge sulla confisca dei beni alle mafie, nata a fuor di popolo, con la raccolta di un milioni di firme, promossa dall’associazione Libera. Visita lampo a New York per don Luigi Ciotti, l’incontro col vescovo, la sera la proiezione. Speranza e resistenza sono le parole chiave di chi in Campania, Calabria, Sicilia, ma anche in Lombardia e in Piemonte, ha trasformato beni appartenuti ai boss in cooperative (500), mettendo a frutto casali e terreni, creando un circolo virtuoso e offrendo lavoro. La casa del jazz a Roma, i prodotti di Libera venduti nei negozi, la volontà di educare alla bellezza – anche quando sembra un’impresa disperata - perché nessuno possa dire un giorno: «Tu non hai fatto niente?». Antimafia sul campo. Passione e rigore, una vita sotto scorta, Don Ciotti, è accolto dagli applausi: «Rappresento un “noi” perché Libera è un’organizzazione che raccoglie 1600 associazioni. Nel 1996 in Italia grazie a una legge voluta dai cittadini, i beni nella mani della mafia sono diventati beni condivisi». Con il sacerdote c’è Daniela Marcone: il padre Francesco fu ucciso a Foggia il 31 marzo 1995 era direttore dell’ufficio del Registro, aveva combattuto la corruzione. Il suo volto è finito su un murale, il nome sui vasetti di olive della cooperativa Pietra di Scarto di Cerignola. «Oggi la memoria di mio padre» racconta Daniela con orgoglio «non sono più sola a portarla avanti». Il riscatto e la dignità passano per il lavoro: immigrati, persone che hanno avuto qualche difficoltà nella vita, lavorano la terra e curano gli ulivi. Pietro Fragasso che coordina la cooperativa sociale non ha dubbi: «Per noi l’antimafia deve diventare economia». Dopo la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio che lo riporta in Sicilia, Don Ciotti segue la strada di Pio La Torre, il sogno di togliere alla mafia i capitali rappresentati dalle proprietà immobiliari, terreni, aziende agricole. Il magistrato Francesco Menditto spiega come sia importante questa battaglia di civiltà e come sia lunga la strada per la confisca dei beni. «La cosa che dà più fastidio alle mafie» spiega don Ciotti «è che i beni privati diventino condivisi. I ragazzi devono mettersi in gioco, quando trovano parole sono di carne gli brillano di occhi, s’infiammano: non devono scoraggiarsi». A Quindici (Avellino) primo comune sciolto per associazione mafiosa, la villa confiscata al boss della camorra Graziano, oggi ospita il maglificio 100quindici passi. Ci sono state minacce e intimidazioni, contro la struttura furono sparati cinque colpi di pistola, ma il lavoro continua. A Castel Volturno (Caserta) Massimo Rocco ha creato il caseificio “Le terre di Don Peppe Diana” in un terreno confiscato al camorrista Michele Zaza; la cooperativa produce le mozzarelle di bufala, ma quando fu inaugurata i lavoratori venivano definiti “folli”. I vigneti della cooperativa curata da Valentina Fiore a San Giuseppe Jato nascono nel ricordo di Placido Rizzotto, rapito e ucciso da Cosa Nostra nel 1948; la gente in un primo momento aveva paura di andare a lavorare su quelle colline, perché occuparsi delle terre confiscate ai boss significa fare antimafia. La cascina di San Sebastiano da Po in Piemonte, intitolata al procuratore capo di Torino Bruno Caccia, (ucciso nell’83) e alla moglie Carla, è meta di pellegrinaggi, unisce un’intera comunità. Qui si fa il miele, si raccolgono le nocciole. Il bene apparteneva alla famiglia ‘ndranghetista dei Belfiore, responsabile dell’omicidio del magistrato. La figlia di Caccia ha scelta una foto dei genitori che ballano, un frammento di felicità e speranza per il futuro, come immagine simbolo per il casale. «Papà è stato il primo magistrato del nord ucciso per mano mafiosa» racconta, parlando del «dolore puro, fortissimo» provato il giorno dell’attentato. Dal sorriso degli operatori della cooperativa Il Balzo che hanno trasformato un’edicola di Baggio (Milano) che faceva da quartier generale per la ‘ndrangheta in un centro per ragazzi diversamente abili all’orgoglio di gestire un bar, quest’Italia liberata grazie a Don Ciotti fa bene al cuore, ma niente è facile. È lui stesso a lanciare l’allarme: «C’è ancora tanta illegalità. Nei momenti di crisi i mafiosi hanno un’immensità di denaro da riciclare, dobbiamo essere più scaltri, più attenti e ricordarci che gli affari li hanno sempre fatti anche al nord. La confisca dei beni deve essere trasparente: ci sono sempre paroline, virgole, punti. La prima riforma da farsi in Italia è quella delle nostre coscienze». E spiega come il potere dei segni (caro al codice della mafia) sia importante, così diventa un gesto forte quello della Nazionale che va a giocare a Rizziconi, in Calabria, nel campetto di calcio che la ‘ndrangheta per anni non voleva venisse utilizzato. «Questo è un documentario che riassume piccoli esempi» dice don Ciotti «è ancora troppo poco, sono stati confiscati solo 17mila beni. Se si uniscono le forze – magistrati e società civile – è possibile guardare al futuro. La lotta alla mafia ha bisogno di lavoro e scuole, è la cultura che dà la sveglia alle coscienze, è importante conoscere. A marzo del prossimo anno saranno vent’anni della legge 109. Il sistema legislativo in atto è inadeguato, si potrebbe fare di più. Questo governo e quello precedente hanno creato una commissione per vedere come la legge della confisca dei beni può essere migliorata, attualmente i progetti sono arrivati alla Camera e in Senato. Il primo elemento inserito è il sequestro dei beni dei corrotti, non solo dei mafiosi. L’agenzia che opera deve essere potenziata, bisogna agire anche sui beni aziendali: quello finora è stato un fallimento».

Strapaese delle meraviglie. Fuoco amico, scrive Gabriele della Rovere il 4 dicembre 2015 su "L'Indro". Bufera di Libera, leadership di Don Ciotti e Democrazia carismatica. Allora la questione è se ci siano zone di riserva, amici ed amici degli amici, magari benemeriti operatori nel sociale come nella fattispecie, nei cui confronti conviene (di più: è giusto) applicare peculiari criteri di riguardo e tutela. La nostra risposta è no. Fondamento della nonviolenza è che il fine non giustifica i mezzi, ma i mezzi prefigurano il fine: così, dunque, non si può rivendicare buona finalità per coprire comportamenti che rappresentino comunque un vulnus alle regole di comportamento. Alla democrazia ‘interna’ di un soggetto, gruppo, o quel che sia. Ce ne eravamo già occupati a proposito del Movimento Cinque Stelle, che in questo nostro disgraziato strapaese delle meraviglie (disgraziato perché senza la grazia di valori comuni, di rispetto delle regole del gioco e delle regole tout court) rappresenta un utile, prezioso strumento per la Democrazia: a prezzo però, a volte, della Democrazia decisionale. Come fatto ne il Contrappunto, 2015 Novembre 25, delineando la Fenomenologia di Gianroberto Casaleggio. Chi è l’uomo che ha trasformato Beppe Grillo in Beppe Grillo. Ed a cui l’Italia deve qualcosa. «E’ grazie a lui, non solo ma molto, se l’Italia ha un po’ più, forse molto più, di Democrazia. Anche se purtroppo pagata a volte, e ripetutamente, con un meno di Democrazia interna al Movimento ed alle sue espressioni elettorali. Che è cosa di non poco conto, anzi di moltissimo conto, visto che da nonviolenti riteniamo che il fine non giustifichi i mezzi, ma i mezzi prefigurino il fine». Ecco, diversamente ed analogamente, si può forse si deve ragionare su Luigi CiottiDon Luigi Ciotti. Creatore del Gruppo Abele, del mensile Narcomafie e di Libera, poderosa galassia-strumento per il contrasto alla criminalità organizzata e l’affermazione della legalità. Da tempo anche tra quelli a lui più vicini, o comunque consentanei alla sua azione, si sostiene: «Occorre guardare l’opera, non la persona». Adesso emerge lo ‘scontro interno’ il ‘fuoco amico’ aperto dalle parole di Franco La Torre. Dirigente di Libera che porta sulle spalle la dolorosa esperienza della morte di Pio La Torre, suo padre, esponente del Partito Comunista ucciso da Cosa Nostra nel 1982, a Palermo. Aveva criticato, in occasione dell’Assemblea Nazionale del 7 Novembre 2015, ad Assisi, con un ampio intervento, il comportamento di Enrico Fontana, Direttore dell’associazione, e quindi il suo più importante dirigente operativo. Costretto alle dimissioni per aver ricevuto in sede esponenti del mondo ambientalista finiti nell’inchiesta su Mafia Capitale. Non è tanto rilevante la questione in sé (lo è eccome, ma non di questo ci stiamo occupando ora), quanto le modalità con cui il confronto e lo scontro si è articolato. Con la defenestrazione del reo di lesa maestà. Sino ad arrivare a sostenere, come fa Nando Dalla Chiesa che di Libera è Presidente onorario, una ardita tesi. «Certo che quello di Don Luigi è un potere carismatico, ma nel nostro caso è un vantaggio: perché quando la leadership è a portata di tutti, come nei Partiti, non si pensa ad altro che alle lotte di successione». A parte che una cosa non esclude l’altra, anzi vi è più la immeschinisce, grati dovremmo conseguentemente rivolgere il pensiero a due giganti come Benito Mussolini e Silvio Berlusconi che la questione della Guida Suprema l’hanno radicalmente proprio così risolta. La tesi odierna è peraltro analoga a quella esposta a suo tempo dall’allora berlusconiano Italo Bocchino per avallare il porcellum calderoliano, che avrebbe permesso una migliore selezione, dall’alto e senza quasi intervento degli elettori, della classe dirigente e parlamentare. Utilmente il Fatto Quotidiano, pur tra qualche imbarazzo, ha preso spunto dal'Huffington per dare ripetuto spazio alla vicenda di Libera. Può essere doloroso toccare determinati argomenti, certi territori riservati, certi operati dei buoni. Ma non toccarli è ancor più effettivamente doloroso e causa, in primo luogo ai protagonisti, le ferite più gravi. Quelle per protezione ed omissione.

E, dunque, ricapitolando questo incrocio di Novembre-dicembre 2015. Da Lunedì 30 Novembre a Venerdì 4 Dicembre.

Lunedì 30 Novembre. Finisce Novembre. Non è una gran notizia, ma già che la vedete è una buona notizia.

Martedì 1 Dicembre. Inizia Dicembre. Anche questa non è una gran notizia, ma intanto… Franco La Torre dice all’Huffington Post che è stato emarginato, e di fatto cacciato, da Libera per aver criticato alcuni dirigenti e comportamenti. Anche del fondatore e leader, Don Luigi Ciotti.

Mercoledì 2. Il Fatto Quotidiano“Mandato via con un sms”. Don Ciotti e la guerra di Libera.

Giovedì 3. Il Fatto QuotidianoLibera, il mito della purezza affronta il “fuoco amico”. Ivi ripresa, senza commento, anche una bizzarra teoria socialpolitologica di Nando Dalla Chiesa.

Venerdì 4. ‘Il Fatto Quotidiano’: “Libera”, attenzione al fuoco amico. Intervento di Gian Carlo Caselli.

E poi Sabato 5 e Domenica 6. Vediamo…

E la prossima settimana da Lunedì 7 Domenica 13. Continuiamo a vedere. Che già è una buona cosa.

E così ecco iniziato questo Dicembre. E quasi finito questo 2015. Non torneranno mai più, ma li abbiamo vissuti, ed è una gran fortuna che purtroppo prima o poi finirà. Ma mica è detto…

Consulenze, soldi e veleni. In fondo a Libera, scrive “Live Sicilia” Mercoledì 09 Dicembre 2015. L'inchiesta di Giuseppe Pipitone e Sandra Rizza fa le pulci a Libera che, dopo anni di splendore, conosce qualche momento di opacità. Dopo le ultime polemiche e l'addio di Franco La Torre, anche la stampa nazionale si occupa di Libera con paginate e inchieste. Oggi, per esempio, Il Fatto Quotidiano pubblica un servizio - a firma di Giuseppe Pipitone e Sandra Rizza - che fa le pulci all'associazione di don Luigi Ciotti. Titolo: "Consulenze, soldi pubblici e veleni: in fondo a Libera". "L'ultimo direttore, Luigi Lochi - si legge - è stato eletto da appena un mese e già si ritrova al centro di un conflitto di interessi che nessuno finora ha ritenuto di dovere affrontare. Il penultimo, Enrico Fontana, si è dovuto dimettere all'inizio dell'estate per un incontro con due politici finiti nel calderone di Mafia Capitale. Il terzultimo era una donna: Francesca Rispoli, amica del Pd Davide Mattiello, relatore del ddl sulla modifica del 416 ter. Anche lei nel settembre del 2013 ha dovuto lasciare l'incarico; non aveva segnalato in tempo a don Ciotti che quella riforma, targata Nazareno, era persino peggiore della norma precedente". "La leadership è quella di don Ciotti e le dimissioni a catena costellano l'ultimo capitolo della storia di Libera, una galassia che raccoglie oltre 1500 associazioni, gestisce 1400 ettari di terreni confiscati ai boss, ed è considerata il totem indiscusso dell'antimafia sociale. Non solo. 'Libera' è l'invenzione stessa dell'antimafia che, per la prima volta, dopo Capaci e via D'Amelio, esce dalle aule dei tribunali e si ramifica sul territorio (...). Vent'anni sono passati da quel lontano 1995 quando don Ciotti a Palermo fonda la sua associazione, povera tra i poveri. (...). Che ne è oggi di quella teologia della liberazione antimafiosa, di quella visione rivoluzionaria del Vangelo?". L'inchiesta del Fatto approfondisce personaggi e situazioni. Ricostruisce una storia che sta conoscendo momenti di opacità. Riprende il discorso dei soldi: "L'organizzazione ha chiuso il bilancio 2014 in attivo di 207.317 euro, con disponibilità liquide pari a 883.431 euro e crediti per un milione e 81 mila euro, quasi tutti nei confronti di enti pubblici. La gestione dei beni confiscati, in convenzione con enti come Unioncamere, Telecom, Unicredit, frutta 60 mila euro. Le entrate dei diritti d'autore, 5 per mille, Fondazione Unipolis e raccolta fondi ammontano a un milione e 268 mila euro (...). Soldi, progetti, Pon, questo è il nuovo alfabeto di Libera. Che fa storcere il naso a tanti veterani del volontariato sociale, innamorati del don Ciotti predicatore di strada e paladino degli ultimi, un po' meno attratti dal don Ciotti manager". Né può mancare il riferimento alle recenti polemiche in cronaca. "E' per questo che Franco La Torre ad Assisi ha lanciato l'allarme sulla scarsa capacità di vigilanza sia a Palermo che a Roma? Liquidato con un sms di poche righe, il figlio di Pio La Torre ha comunicato il suo divorzio da Libera, definendo don Ciotti un despota e sottolineando i limiti di un gruppo dirigente più attento a collezionare prebende che che a denunciare le emergenze criminali".

LIBERA: CONSULENZE, SOLDI PUBBLICI E VELENI. L'avevano denuciato il M5S, l'avevamo denunciato anche noi in più occasioni. Per chi vuole capire, approfondire e Libera-rsi dai dogmi. L’ultimo direttore, Luigi Lochi, è stato eletto da appena un mese e già si ritrova al centro di un conflitto di interessi che nessuno finora a ritenuto di dover affrontare. Il penultimo, Enrico Fontana (sotto la cui egida è nata l'associazione da Sud n.d.r.) si è dovuto dimettere all’inizio dell’estate per un incontro con due politici finiti nel calderone di Mafia Capitale. Il terzultimo era una donna, Francesca Rispoli, amica del PD Davide Mattiello, relatore del ddl sulla modifica del 416ter. Anche lei nel settembre 2013 ha dovuto lasciare l’incarico: non aveva segnalato in tempo a Don Ciotti che quella riforma, targata Nazareno, era persino peggiore della norma precedente, esponendolo ad una pubblica retromarcia. Ma non è tutto. A giugno dell’anno scorso si è dimesso pure il Vice Presidente Carlo Andorlini: coinvolto in un’indagine della Corte dei Conti su alcune spese ordinate quando era a capo-gabinetto del Sindaco a Campi Bisenzio, in provincia di Firenze. Uno, due, tre dimissioni ‘imbarazzanti’ nel giro di un anno, strappi consumati in silenzio, senza clamore, all’interno di un’associazione che funziona come una holding da quasi 5 milioni di euro all’anno, e nello stesso tempo viene descritta come una struttura arcaica, chiusa come una setta e riservata fino alla paranoia: quella che lo stesso Presidente Onorario, Nando Dalla Chiesa, definisce “una creatura fondata sul potere carismatico, dove la leadership non si discute”. La leadership è quella di Don Ciotti e le dimissioni a catena costellano l’ultimo capitolo della storia di Libera, una galassia che raccogli 1.500 associazioni, gestisce 1.400 ettari di terreni confiscati ai boss, ed è considerata il totem indiscusso dell’antimafia sociale. Non solo. Libera è l’invenzione stessa dell’antimafia, che per la prima volta, dopo Capaci e Via D’Amelio, esce dalle aule dei tribunali e si ramifica sul territorio dove ancora fumanti le macerie del tritolo di Cosa Nostra. Vent’anni sono passati dal quel 1995 quando Don Ciotti a Palermo fonda la sua associazione, povera tra i poveri, infiltrandosi nel cuore delle borgate mafiose, nelle case, nelle scuole, per insegnare il rifiuto di Cosa Nostra e del suo strapotere. Ma oggi? Che ne è oggi di teologia della liberazione antimafiosa, di quella visione rivoluzionaria del Vangelo? La sensazione è che tutto sia cambiato, a partire dall’idea stessa di antimafia, oggi fagocitata dal sistema, perché sempre più succube della necessità di assicurarsi risorse finanziarie. Al punto che il Presidente del Senato, Pietro Grasso, recentemente ha voluto ricordare che “serve un’antimafia umile, per un fine comune, che non è certo quello di essere l’associazione più visibile o finanziata”. Lo stesso Don Ciotti ha più volte messo in guardia dai rischi di una banalizzazione dell’impegno contro le cosche: “l’antimafia – ha detto – è ormai una carta di identità, non un fatto di coscienza. Se la eliminassimo, forse sbugiarderemmo quelli che ci hanno costruito sopra una falsa reputazione”. Ma qualcuno osserva che pure Libera, come le altre associazioni che hanno nello Statuto il contrasto alla cultura mafiosa, è diventata una campionessa nel fare incetta di finanziamenti pubblici. L’organizzazione ha chiuso il bilancio 2014 in attivo di 207.317 euro, con disponibilità liquide pari a 883.431 euro e crediti per 1 milione e 81 mila euro, quasi tutti nei confronti di enti pubblici. La gestione dei beni confiscati, in convenzione con enti come Unioncamere, Telecom, Unicredit, frutta 60 mila euro. Le entrate dei diritti d’autore, 5 per mille, Fondazione Unipolis e raccolta fondi ammontano a 1 milione 268 mila euro.  Solo Unipolis, la Fondazione di Unipol, che fa riferimento alla Lega Coop, sgancia ogni anno 70 mila euro. Poi c’è il capitolo dei finanziamenti europei, come quello del Pon Sicurezza da 1 milione e 416 mila euro, per migliorare la gestione dei beni confiscati, assegnati al Consorzio Sviluppo e Legalità, che raccoglie alcune cooperative della galassia antimafia in provincia di Palermo. Soldi, progetti, Pon, questo è il nuovo alfabeto di Libera, che fa storcere il naso a tanti veterani del volontariato sociale, innamorati del Don Ciotti predicatore di strada e paladino degli ultimi, e un po’ meno attratti dal Don Ciotti manager che oggi ha un’agenda fitta di presentazioni, tavole rotonde e comparsate tv. Nessuno parla apertamente. Ma sono tanti i delusi e gli scontenti che pongono una domanda cruciale: qual è la reale capacità di denuncia di un’antimafia che è appesa ai finanziamenti pubblici e appare sempre più consociativa al potere che tiene i cordoni della borsa? Qualcuno ha persino scritto che i commenti del prete duro e puro sono apparsi piuttosto tiepidi nei confronti delle coop rosse coinvolte negli affari di Mafia Capitale. L’associazione di Don Ciotti rischia di addomesticarsi? E’ per questo che Franco La Torre (ex candidato di Rivoluzione Civile insieme a Gabriella Stramaccioni, Direttrice Nazionale di Libera, che il gossip vuole compagna di Attilio Bolzoni di La Repubblica n.d.r.), ad Assisi, ha lanciato l’allarme sulla scarsa capacità di vigilanza sia a Palermo che a Roma. Liquidato con un sms di poche righe, il figlio di Pio La Torre (il segretario del PCI siciliano ucciso dalla mafia nel 1982) ha comunicato il suo divorzio da Libera, definendo Don Ciotti un “despota” e sottolineando i limiti di un gruppo dirigente più attento a collezionare prebende che a denunciare le emergenze criminali. Don Luigi nega che l’associazione sia una holding: “Nessuno – dice – sporchi la nostra trasparenza”. Ma i suoi fedelissimi si sono chiusi a riccio. Non parla l’avvocato Enza Rando, dell’Ufficio di Presidenza, che difende i familiari delle vittime di mafia e nel frattempo ha ottenuto una consulenza da 25 mila euro presso al Regione Emilia-Romagna (governata dal PD Stefano Bonaccini) oltre a far parte del cda della Cassa di Risparmio di Modena. Non parla neppure Fontana, lo stesso che La Torre ha additato come uomo simbolo del nuovo corso di Libera: è l’ex consigliere regionale di SeL Lazio che dal 2011 incassa un vitalizio, pur essendo promotore della campagna “Miseria Ladra” contro i vitalizi, e due anni dopo, in piena giunta Polverini, diventa consulente del Presidente del Consiglio regionale PDL, Mario Abbruzzese: 20 mila euro per un progetto antimafia. E tace soprattutto il neo direttore Lochi, dal 1991 al 1999 dirigente di Sviluppo Italia e poi collaboratore di Invitalia (il suo contratto è scaduto il 31 maggio): l’esperto della gestione dei beni confiscati. Appena 4 giorni dopo la sua nomina, avvenuta l’8 novembre, la Camera ha approvato la c.d. “norma Saguto” che ha scatenato la furia del M5S. Perché? “La nuova legge – hanno spiegato i grillini – stabilisce che le aziende sequestrate, anche di grande rilievo, verranno gestite da Invitalia, erede di Sviluppo Italia, il carrozzone mangiasoldi dello Stato”. La stessa azienda dove ha lavorato per anni il nuovo direttore di Libera. Che dice Lochi? Nulla. E’ la nuova antimafia bellezza! Quella dei pennacchi, dei premi, delle liturgie e delle litanie sommerse da un fiume di denaro. (Giuseppe Pipitone e Sandra Rizza de Il Fatto Quotidiano, 9 dicembre 2015) 

La Torre contro Don Ciotti. "Dovevamo vigilare", scrive su “Live Sicilia” Martedì 01 Dicembre 2015 Riccardo Lo Verso. C'è anche il caso Saguto all'origine della scelta del figlio di Pio La Torre di divorziare dall'associazione antimafia. "Hanno il prosciutto nelle orecchie, se lo tolgano, nulla di grave”. “Mi dicono che a Palermo lo sapevano tutti. Mi sarei aspettato che Libera ponesse il problema visto che sui beni confiscati ha fondato la sua forza. Hanno il prosciutto nelle orecchie, se lo tolgano, nulla di grave”. Eccolo uno dei motivi per cui Franco La Torre, ormai ex componente del consiglio di presidenza di Libera, ha deciso di andare via dall'organizzazione di don Luigi Ciotti. Libera, a suo dire, non avrebbe tenuto le antenne dritte sulla gestione “scandalo” dei beni sottratti ai boss che ha portato all'azzeramento della sezione misure di Prevenzione del Tribunale palermitano. A cominciare dal suo ex presidente Silvana Saguto, finita sotto inchiesta e sospesa dal Csm. “Si sturino le orecchie”, aggiunge La Torre pronunciando la frase in dialetto siciliano e sgombrando da possibili dubbi: non è polemico, di più. Il figlio di Pio La Torre, l'ex segretario del Pci siciliano che assieme a Rognoni firmò nel 1982 la legge per colpire i patrimoni mafiosi, individua nel caso Saguto e in Mafia Capitale le spie dell'inefficienza della classe dirigente di Libera che avrebbe bisogno di una radicale ristrutturazione. “Siamo arrivarti dopo la magistratura. Non abbiamo capito che stava accadendo tutto questo - aggiunge - non va bene che una mattina ci si alzi, si legga il giornale e si scopra il caso. Non ce lo possiamo permettere”. Cosa si poteva fare a Palermo? “Non lo so, non ho ricette. Certamente si doveva analizzare il problema”. E se gli fai notare che in molti, per ultima la Commissione nazionale antimafia, il sistema Palermo lo avevano passato al setaccio finendo per elogiarlo, La Torre taglia corto: “Magari anche noi avremmo concluso che le cose andavano bene. Si può sbagliare nelle conclusioni, ma non accorgersene no. Non si può”. È innegabile che l'esigenza di combattere la mafia colpendo i patrimoni dei boss sia diventata una enorme macchina economica. Nel panorama del movimento antimafia Libera è una holding (termine che non piace affatto al suo fondatore). L'organizzazione, nata per la promozione della legalità e l'uso sociale dei beni confiscati alle mafie, oggi è alla guida un coordinamento di oltre 1500 tra associazioni e gruppi, che gestisce 1.400 ettari di terreni, dà lavoro a 126 persone e muove un fatturato che sfiora i sei milioni di euro. Ad inizio di novembre, durante l'assemblea nazionale di Libera, ad Assisi, La Torre aveva chiesto a gran voce un confronto perché, alla luce dei numeri sopra citati, “Libera è molto cresciuta in questi anni, serve un nuovo modello di organizzazione. Si deve avviare un progetto di formazione della classe dirigente, non si può dirigere tutto da Roma. Il mio discorso non è stato gradito (pochi giorni dopo Ciotti gli comunicò la 'rottura del rapporto di fiducia' ndr'), nonostante l'abbia fatto in un contesto dove è fondamentale la libera espressione del pensiero”. Da qui la scelta di fare un passo indietro che rende esplicito il malessere che da tempo covava nel movimento antimafia. “Io voglio bene a Libera e a Luigi, abbiamo lavorato bene in questi anni e speravo - spiega La Torre -, anzi spero, perché sono un ottimista, che le mie parole siano un'occasione di crescita”. Per il momento non è andata così. Oggi l'ormai ex rappresentante di Libera mette in guardia dai “rischi dell'antimafia di convenienza” e di quella che si fa “schermo di interessi indicibili”. Ed è in questo contesto che l'organizzazione di don Ciotti non avrebbe fatto sentire la sua voce: “Ci siamo fatti sentire a L'Aquila nel post terremoto e in Lombardia, ma non a Palermo per le Misure di prevenzione e a Roma per Mafia Capitale. Il nostro compito si è affievolito”. Ciotti non ci sta, dalle colonne di Repubblica difende l'organizzazione (“Non c'è nessun problema, Libera sta lavorando bene”) e spiega che “prima si conosceva il nemico, era la mafia, ora gli attacchi arrivano da più parti”. Chissà se alla voce “attacchi” vadano inserite le parole di Silvana Saguto. A chi le ha contestato, intercettazioni alla mano, di avere fatto favorito amici e parenti nella scelta degli amministratori il magistrato rispondeva che i “nomi di persone valide li abbiamo chiesti anche ad associazioni antimafia come Libera”. Circostanza che un paio di mesi fa Libera smentì categoricamente.

Antimafia, Pino Maniaci: «Libera? Ormai è una holding». Associazioni poco trasparenti e non al passo coi tempi. Il direttore di Telejato fotografa la lotta a Cosa Nostra. E fa un paio di domande a don Ciotti, scrive Francesca Buonfiglioli il 02 Dicembre 2015 su “Lettera 43”. Sono passati 30 anni e un'infinità di polemiche da quando Leonardo Sciascia sfidò i «professionisti dell'antimafia», quegli «eroi della sesta» che agiscono solo per fini personali e per accaparrarsi consenso. E cos'è cambiato? Praticamente nulla. «C'è che Sciascia aveva ragione», ammette a Lettera43.it Pino Maniaci direttore di Telejato, l'emittente del Palermitano da sempre in prima linea contro la mafia. Lo dimostrano le parole dure di Franco La Torre figlio di Pio segretario siciliano del Pci ucciso dalla mafia nel 1982 nei confronti di don Luigi Ciotti, numero uno di Libera. «Sono stato cacciato dall'associazione con un sms», ha spiegato La Torre all'Huffpost dopo aver criticato apertamente la gestione dell'associazione che non è riuscita a intercettare il fenomeno di Mafia Capitale, per esempio, o il caso Saguto a Palermo, la giudice, militante dell'antimafia, indagata per corruzione, induzione e abuso d’ufficio dalla procura di Caltanissetta nell’ambito dell’inchiesta sulla gestione dei beni confiscati a Cosa nostra. Uno scandalo, quello legato ai beni confiscati, accompagnato dal silenzio assordante delle istituzioni. Che quando si sono decise a parlare, dice arrabbiato Maniaci, «l'hanno fatto troppo tardi». «Solo ora qualcuno comincia a rilasciare dichiarazioni», aggiunge. «Ma sono in ritardo. Da Raffaele Cantone a Piero Grasso». Proprio il presidente del Senato il 27 novembre aveva lanciato un appello per «un'antimafia che sappia guardare al proprio interno e abbandoni sensazionalismo, protagonismo, pretesa primazia di ogni attore, e corsa al finanziamento pubblico e privato». Ma, insiste Maniaci, «finora se ne è stato muto come un pesce. E dire che nel 2010 Saguto era alle sue dipendenze...». Con Telejato da tempo il giornalista aveva denunciato delle irregolarità, anche al presidente del Tribunale di Palermo Leonardo Guarnotta. «Non volevo buttare merda, ci mancherebbe altro. Gli dissi solo che all'interno del tribunale c'era un verminaio», ricorda.

DOMANDA. E quale è stata la risposta?

RISPOSTA. Mi sentii rispondere che così prestavo il fianco agli altri, cioè ai mafiosi.

D. Quale è la situazione dell'antimafia oggi?

R. Ha perso credibilità. Ed è doloroso non credere nelle istituzioni. Tutta l'antimafia dovrebbe fare pulizia al suo interno, ormai è diventata una holding perfetta per fare affari. Se decontestualizziamo siamo di fronte a due mafie.

D. Tutto da buttare?

R. No, assolutamente. C'è una vera antimafia che non è quella delle holding, ma quella delle onlus che si autofinanziano, della gente comune, dei ragazzi. E che è nel cuore delle persone.

D. Una critica a Libera?

R. Il messaggio di Libera è meraviglioso. Ci sono migliaia di giovani in tutta Italia che lavorano e ci credono.

D. Ma...

R. Ma deve rivedere la sua gestione. Ormai non è più un club come all'inizio ma una holding.

D. Però sostiene di essere in prima fila nella trasparenza dei bilanci.

R. Lo dicono loro. La trasparenza è fondamentale.

D. I soldi rovinano tutto?

R. A mio parere così si mortifica l'antimafia vera. Ripeto ormai non parliamo di un club ristretto ma di un'associazione nazionale. E anche a livello territoriale dovrebbero essere scelte persone capaci e competenti.

D. Quindi è d'accordo con La Torre?

R. Se uno come La Torre, e stiamo parlando del figlio di Pio, sostiene che non c'è democrazia e altri membri del consiglio nazionale lasciano l'associazione...

D. Un'altra accusa è di non essere a passo con i tempi. Cosa ne pensa?

R. Le mafie sono cambiate, sono quelle dei colletti bianchi. Anche l'antimafia deve aggiornarsi, cambiare pelle e guardare il fenomeno per quello che è. Però don Ciotti si incazza. Vabbè che lui è uno che si incazza facilmente... io però avrei un paio di domande da fargli.

D. Prego.

R. Perché i ragazzi che da tutta Italia arrivano in Sicilia per partecipare a progetti come 'Liberarci dalle Spine' non solo lavorano gratis nei terreni confiscati ma devono pure pagare 150 euro per vitto e alloggio? Manodopera gratuita?

D. La seconda domanda?

R. Perché la pasta di Libera fatta col grano di Corleone viene venduta a 6 euro al chilo? Non sarebbe un messaggio bellissimo fare sì che questa pasta sia accessibile anche a chi è meno abbiente?

D. In attesa delle risposte, non crede che questa gara ad accaparrarsi un patentino antimafia stia diventando una farsa?

R. Ci sono politici antimafia, commissioni antimafia, la Dda, la Dna. Manca solo il Ddt. Farsi fotografare accanto al Don è diventato trendy. Il fatto è che ormai la normalità non esiste, è paradossale. Suggerisco a Camilleri di rivedere anche il suo Montalbano...

OLTRE LIBERA. CHE COSA C’È DIETRO LA GRANDE DISFATTA DELL’ICONOGRAFIA ANTIMAFIA. Lo scontro tra don Ciotti e La Torre e tutte le macerie in cui oggi si muovono i professionisti del moralismo chiodato, scrive Salvatore Merlo il 03 Dicembre 2015 su "Il Foglio". Don Luigi Ciotti è un ottimista, e l’ottimismo è di per se stesso un segno d’innocenza: chi non fa né pensa il male è portato a rifiutare di credere alla fatalità del male. Ed è forse per questo che il prete piemontese, il fondatore di Libera, la più estesa rete di associazioni che in Italia si occupa di gestire i beni confiscati alla mafia, dice “che non c’è nessun problema” nella sua creatura nata vent’anni fa dopo gli anni terribili delle stragi e coltivata in quel clima di rinascita, di primavera palermitana, in quella stagione d’impeti morali e di buone intenzioni che don Ciotti ha incarnato non meno di Gian Carlo Caselli, suo amico, il magistrato ed ex procuratore della Repubblica che questo prete impegnato e di sinistra andava a trovare nelle torri blindate del quartiere la Favorita, quando si cominciava a scrivere un capitolo tra i più confusi e inafferrabili della storia politica e giudiziaria d’Italia. Quando cioè da quelle stanze bunker di Palermo cominciarono a essere istruiti il processo a Giulio Andreotti, il processo “del secolo” o il processo alla “storia”, e poi la grande inchiesta su Corrado Carnevale, il giudice “ammazza sentenze” assolto e reintegrato in magistratura, fino alla ricerca del terzo livello e dei mandanti occulti delle stragi. Così, di fronte ai contrasti che hanno portato all’allontanamento di Franco La Torre, suo collaboratore a Libera e figlio di Pio La Torre, il dirigente del Pci assassinato dalla mafia nel 1982, di fronte alle allusive ma ferme accuse del suo braccio destro di non essersi accorto e forse persino di essersi fidato (e dunque inevitabilmente affidato) al sistema dell’antimafia deviata scoperchiato dalla procura di Caltanissetta, don Ciotti dice che “è da molto tempo ormai che ci attaccano da diverse direzioni. Prima si conosceva il nemico, era la mafia”, ha detto a Repubblica. “Ora gli attacchi arrivano da più parti. Non accettiamo tuttologi. Se si vogliono fare delle critiche si indichino fatti precisi”. E insomma, con gli occhi fissi davanti a se, don Ciotti, guidato dalla sua purezza di visione come da un invisibile arcangelo, sembra quasi non vedere, non udire il trambusto indiavolato che lo circonda, quel pandemonio attraverso cui passa l’antimafia tutta, lui che pure, qualche mese fa, aveva usato parole dense: “L’antimafia non è più un fatto di coscienza”, aveva detto, “ma una carta d’identità: se la eliminassimo, forse sbugiarderemmo chi ci ha costruito sopra una falsa reputazione”. E d’altra parte, per la verità, La Torre ha indicato due circostanze precise in cui la dirigenza di Libera non sarebbe riuscita “ad intercettare” i guasti e il malaffare, cioè a evitare di venire a contatto con interessi poco limpidi che si muovevano attorno al sistema istituzionale con cui in Italia vengono gestiti i beni sequestrati alla mafia: a Palermo, nell’affaire del giudice Silvana Saguto (l’ex presidente delle Misure di prevenzione del tribunale di Palermo indagata per corruzione e abuso d’ufficio), e a Roma, nei rivoli torbidi della cosiddetta Mafia Capitale. La Torre ha poi avuto un aspro confronto con don Ciotti – o almeno così dice lui: “Mi ha scaricato con un sms” – e si è dunque dimesso, in violentissima polemica. Ma al di là delle ragioni e dei torti di ciascuno, questo conflitto deflagrato in pubblico, sui giornali e sui siti internet, in un contesto in cui gli ultimi fatti di cronaca giudiziaria descrivono un’antimafia deformata, mostrificata, “infangata dagli scandali”, come ha detto il presidente del Senato ed ex procuratore antimafia Pietro Grasso, con arresti in flagranza di reato (l’ex presidente antimafia della Camera di commercio di Palermo Roberto Helg), con indagini su impegnatissimi esponenti della Confindustria siciliana (Antonello Montante), indagini che sfiorano imprenditori come Mimmo Costanzo, e poi ancora magistrati, avvocati, fino alle vicende non penalmente rilevanti ma politicamente disastrose di Rosario Crocetta (già “icona” dell’antimafia), insomma in questo contesto crepuscolare della stagione antimafiosa la vicenda di don Ciotti e Franco La Torre assume un suo speciale rilievo nell’atroce degrado che viene imputridendo come un tumore dentro la guerra alla mafia. Quando si parla di mafia, quando ci si accosta alle stragi, agli orrori, al sangue versato dall’eroismo di carabinieri, poliziotti, magistrati, sacerdoti, amministratori pubblici, s’accelera il metabolismo di ciascuno. Ma questo groviglio di eroismo e barbarie, di impegno civile e di sacrificio estremo, richiede una delicatezza che tuttavia non può trasformarsi in reticenza. “Il mondo dell’antimafia è ricoperto di macerie”, ha detto Salvatore Lupo, lo storico, il professore, il più grande studioso di Cosa nostra: “Più si allontana il tempo drammatico dell’emergenza più si svuota l’idea di pulizia e s’imbarcano in questo fronte carrieristi, lestofanti, impostori. Guardiamo quante imprese hanno aderito al fronte antiracket, quanti politici hanno iniziato a gridare ‘la mafia fa schifo’. E’ la grande impostura dell’antimafia”. Un fenomeno che è stato motore della lotta – efficace – contro la criminalità organizzata, fatto di leggi che si sono affinate col tempo, composto di consenso sociale, di figure dignitose, un meccanismo che ha contribuito in maniera tangibile a intaccare il potere della mafia, ma che pure ha subito una degenerazione, non sempre, non dovunque, ma strisciante, pervasiva, inquinante – “c’è una mafia dell’antimafia”, ha detto Claudio Martelli. Eppure un meccanismo insospettabile a prescindere, perché chiunque in questi anni si sia mai definito antimafioso – attenzione: antimafia erano anche Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo – è rimasto come protetto da un incontestabile alone di santità, nell’incarnazione più completa e sorprendente, forse preoccupante, del professionismo descritto da Sciascia. Ogni professione ha un costo, ha un albo d’onore, una storia, una geografia, una pianta organica, un sapere specialistico, una retorica e un’aneddotica. E allora quello che allarma, e tormenta, è l’idea che anche Libera, come altre associazioni, istituzioni private e pubbliche che si occupano della gestione dei patrimoni mafiosi, possa essersi in qualche modo mineralizzata sotto gli occhi dolci e velati di don Ciotti, trasformata cioè, con la sua rete di milleseicento associazioni, con i millequattrocento ettari di terreni confiscati alla mafia, le centoventisei persone impiegate, il fatturato di sei milioni di euro nella sola gestione dei beni del 2013, in un organizzazione di tipo politico, quasi una lobby, come suggeriscono i più accesi tra i detrattori, o comunque in un’organizzazione complessa, con i suoi interessi, i suoi eletti in Parlamento (Davide Mattiello, deputato del Pd, ex dirigente di Libera, relatore della riforma del Codice antimafia), con i suoi candidati nei diversi movimenti politici (due per il partito di Antonio Ingroia, uno per il partito di Nichi Vendola), e dunque le sue divergenze di linea interna, di orizzonte non soltanto manageriale – come sembra testimoniare il caso di Franco La Torre: “L’associazione ha dei meriti enormi”, ha detto l’ex dirigente di Libera all’Huffington post. “Ma qualcosa non va nella catena di montaggio. La mia non è una critica alla persona di don Ciotti bensì al metodo democratico. Non è più un club, è una associazione nazionale dove tutti devono prendersi le proprie responsabilità”. Due mesi fa l’Italia ha scoperto che il manager più pagato d’Europa non era Marchionne, né l’amministratore delegato di Deutsche Banke John Cryan, ma un tale Gaetano Cappello Seminara, sovrano degli amministratori giudiziari d’Italia, pupillo delle sezioni di misure di prevenzione dei tribunali, indagato a Caltanissetta assieme al giudice Saguto, in una storia di favoritismi sfacciati e di gestione familistica delle attività imprenditoriali sottoposte a sequestro: per duecento giorni di lavoro l’avvocato Seminara aveva chiesto diciotto milioni di euro alla Italcementi, azienda i cui vertici erano sospettati di aver favorito Cosa nostra. Sono i fatti a descrivere la deformazione dell’antimafia, trascinata in una palude, stretta in legami stabili con i misteri dell’Interno e dell’Istruzione che elargiscono considerevoli somme di denaro pubblico con una discrezionalità assai discutibile, tra bandiere al vento, agende colorate, frasi sgorgate da una grandezza e una commozione con il tempo divenute retoriche, vale a dire una via d’uscita illusoria da quel labirinto della verità che, ormai lo sappiamo, è fatto di mafia e di antimafia. “L’Antimafia dovrebbe guardare al proprio interno”, ha detto Pietro Grasso qualche giorno fa, “e dovrebbe abbandonare il sensazionalismo, il protagonismo, la pretesa primazia di ogni attore, la corsa al finanziamento pubblico e privato”, non dovrebbe cioè muoversi come un “potere”, che per sua definizione scatena anche lotte per il potere. L’antimafia politica si è squassata in un macello di conflitti tra Leoluca Orlando, Beppe Lumia e Rosario Crocetta. L’antimafia Confindustriale è esplosa in Sicilia nel conflitto tra Marco Venturi e Antonello Montante (poi inquisito). Dopo ogni guerra, dopo ogni rivoluzione, così come dopo una pestilenza, si sa che i costumi decadono. Ed ecco il punto. Quel che don Ciotti non può permettersi è di diventare un’altra figura di quel genere letterario dominato dai professionisti dell’antimafia, ai quali probabilmente molto più della lotta alla mafia interessa la rendita di posizione che da questa vicenda politico-burocratica possono ricavare.

Per capire il particolare bisogna conoscere il generale.

«Fino al 1993 fuori dalla Sicilia non c'era la percezione che la mafia fosse un'emergenza sociale», ricorda Marcello Cozzi, memoria storica del movimento Libera fondato da don Luigi Ciotti. «Ricordo la stanzetta messa a disposizione dalle Acli per le prime riunioni, gli incontri con Giancarlo Caselli. Poi i banchetti nel marzo del 1995 per raccogliere le firme in favore della confisca dei beni ai mafiosi. Mai avremmo pensato di arrivare a un milione di sottoscrizioni e una legge già nel marzo del 1996». Da tutta Italia centinaia di ragazzi arrivano per lavorare sui terreni confiscati ai boss; nonostante intimidazioni e difficoltà nasce il consorzio “Libera Terra”, che coordina le attività delle coop di Libera. Ma già dodici anni dopo le stragi la rabbia sembra sbollire, fino a quando, la mattina del 29 giugno 2004, le strade del centro di Palermo sono tappezzate da adesivi listati a lutto con una frase lapidaria: "Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità". Nessuna rivendicazione, fino a quando diversi giorni dopo, un gruppo di "uomini e donne abbastanza normali, cioé ribelli, differenti, scomodi, sognatori" rompe l'anonimato. Sono gli attacchini del comitato Addiopizzo, i nipoti di Liber', li battezza Pina Maisano Grassi, arrivano qualche anno dopo il primo comitato antiracket fondato da Tano Grasso, nel Messinese, a Capo D'Orlando.

Ma una domanda sorge spontanea: ma chi paga tutto l'ambaradan della Carovana cosiddetta antimafia?

Ostia, continua lo scontro Sabella-MoVimento 5 Stelle su Libera. Il MoVimento attacca: "Ha appeso la toga al chiodo e si diverte a fare il politicante". La replica: "Ferrara mi ha querelato o si è limitato a minacciare". Ormai è scontro aperto tra il MoVimento 5 Stelle e l'assessore alla Legalità del comune di Roma, Alfonso Sabella, scrive "Il Tempo" il 27 settembre 2015. Al centro di tutto il dossier che Il Tempo ha svelato in anteprima in cui i grillini, parlando di mafia ad Ostia, avanzavano dubbi sulla gestione di alcuni beni da parte dell'associazione Libera di don Luigi Ciotti. L'esistenza del dossier è stata prima smentita dai diretti interessati, poi ammessa ma con un distinguo: si tratta di una bozza. Fatto sta che il testo esiste e non è piaciuto né a Libera, né a Sabella che ha accusato il rappresentante del M5S a Ostia, Paolo Ferrara, di attaccare don Ciotti e i suoi per "interessi personali". Ferrara ha in parte risposto alle accuse dell'assessore con questa intervista. Ma oggi arriva anche la replica dei consiglieri comunali romani del MoVimento. Replica che Beppe Grillo pubblica in apertura del proprio blog. "È ormai evidente - scrivono Daniele Frongia, Marcello De Vito, Virginia Raggi e Enrico Stefano - che dalla nomina politica ricevuta dal Pd, Sabella ha praticamente appeso la toga al chiodo e da diverso tempo si diverte a fare il politicante da bar. Proprio come i suoi colleghi Orfini ed Esposito (l'ultimo, secondo quanto emerso in questi giorni ed, potrebbe risultare coinvolto per gli appalti della Tav), ne spara quante può, di qua e di là, una dietro l'altra, convinto che il suo trascorso a Palermo gli abbia dipinto sulla testa l'aureola del santo. Sbagliato". A questo punto il M5S, che "non prende lezioni di legalità da nessuno" risponde punto su punto alle accuse di Sabella: "il 3 marzo 2015 il M5S Ostia ha presentato un ordine del giorno in cui elencava le irregolarità su tutte le spiagge del litorale romano"; "recentemente abbiamo presentato un'interrogazione dove chiediamo di fare chiarezza in merito ad alcuni articoli di giornale che parlano di irregolarità rilevate all'interno della Spiaggia Libera-SPQR, data in concessione all'Ati (Associazione territoriale d'impresa), composta da Uisp Roma e Libera. È quello che facciamo da sempre: non fermarci alle parole, ma andare subito ai fatti. Abbiamo chiesto di accertare le eventuali irregolarità e la loro rilevanza. Libera, come tutti, non è al di sopra della legge. Da questa legittima richiesta di trasparenza e legalità, Sabella vorrebbe affermare che il M5S è contro Libera. Il M5S non è contro Libera, ma contro l'illegalità"; "a sostegno delle sue colorite tesi, l'assessore Sabella - proprio come Esposito e Orfini - parla spesso di un incontro segreto fatto da alcuni esponenti locali e nazionali del M5S con le sigle sindacali delle associazioni balneari che si occupano del litorale romano. Anche questo è falso. Quell'incontro si svolse il 25 giugno alla luce del sole e fu diffuso dai canali istituzionali del MoVimento"; "La scorsa settimana Sabella ha detto chiaramente che Roma non è mafiosa, ma è corrotta, come se le due cose fossero completamente sconnesse. Da magistrato dovrebbe andare a rileggersi il parere dei Ros. Forse, abituato a Palermo, crede servano ancora i santini per parlare di mafia. Noi ci limitiamo ricordargli che il tribunale di Roma su alcuni soggetti sta procedendo per associazione mafiosa. I grillini ricordano quindi all'assessore che per aderire al M5S ogni cittadino deve presentare la sua fedina penale: se è pulita può iscriversi, se è sporca rimane fuori la porta e concludono: "Il PD è roba vecchia. Roba marcia. il futuro è a 5 Stelle".

La replica. La querelle, ovviamente, non finisce qui. Anzi, a stretto giro di posta arriva la replica di Sabella. "Cari Daniele, Marcello, Virginia e Enrico - esordisce -, con riferimento al vostro post sul blog del vostro capo supremo, tralasciando di infierire sulla enorme quantità di inesattezze di cui è infarcito - e in attesa di leggere le vostre pubbliche scuse a Don Luigi Ciotti, assolutamente doverose per quanto di straordinario lui e Libera hanno fatto e continuano a fare per questo Paese - tengo a precisarvi alcune cose". La nota è piuttosto lunga e ruota soprattutto attorno al ruolo di Ferrara. "Prendo atto - sottolinea - che M5S non è contro Libera ma mi spiegate perché presentate un'interpellanza solo ed esclusivamente sulle sanzioni applicate a Libera e chiedete, addirittura, la revoca solo ed esclusivamente dell'assegnazione della spiaggia a Libera e ve ne state zitti zitti su tutti gli altri concessionari di spiagge, chioschi e stabilimenti plurimultati e che per decenni hanno sottratto il mare di Roma ai cittadini? Guarda un po' che combinazione?". "A proposito - prosegue - a Palermo non guardavo i santini (quanto piace pure a voi folklorizzare la mafia! Ma da che parte state veramente?) ma qualche centinaio di morti ammazzati all'anno, qualche bambino sciolto nell'acido e qualche tratto di autostrada o pezzo di quartiere che saltava in aria portandosi via altre vite umane e, mentre voi vivevate sereni nella bambagia, stanavo e arrestavo i responsabili, li facevo condannare a centinaia di ergastoli e migliaia di anni di galera, sequestravo i loro beni e i loro missili terra aria e vivevo, necessariamente solo come un cane, sotto sacchi di sabbia e lastre d'acciaio blindate. E attenzione: sto parlando di Brusca, Bagarella, Aglieri, Vitale, Cuntrera, Mangano, Cannella, Farinella, Di Trapani, Riina (figlio), Guastella, Greco, Madonia e un altro mezzo migliaio di nomi analoghi. Prendo comunque atto della vostra più elevata competenza in materia e mi inchino di fronte a cotanta scienza (!)". Quindi l'affondo su Ferrara: "Quanto all'interesse personale del Sig. Ferrara (a proposito mi ha querelato veramente, oppure si è limitato a minacciare le solite denunce e interpellanze come ama fare? Mi interesserebbe saperlo perché ho bisogno di soldi visto che io, solo per servire il mio Paese in questo attuale ruolo e non certo per cercare inutile visibilità, mi sono dimezzato lo stipendio) ho preso solo atto di queste evenienze:

a) Ferrara è amico del Sig. Bocchini tanto che ne ha celebrato le nozze come consigliere di Municipio. E non lo dico io ma lo sa tutta Ostia e lo dice, anzi lo diceva, lui stesso sulla sua pagina FB l'altro ieri, 25 settembre, "Sposare un conoscente, amico e compagno di scuola che abbia avuto piccoli precedenti...." Anche se oggi, 27 settembre, sul Tempo afferma "Lo conosco ma non è un mio amico". Ma hanno litigato giusto ieri mattina?

b) Bocchini era giusto giusto il precedente gestore della spiaggia Ammanusa che è stata poi assegnata a UISP e Libera perché si è accertato che Bocchini aveva precedenti penali, anche specifici (occupazione abusiva di beni demaniali), e nemmeno dichiarati.

c) Quando io, che non guardo in faccia a nessuno (PD compreso: ricordate, per esempio, la vicenda del Roma Capital Summer del VI Municipio oltre a quella di Ostia?), ho fatto controllare tutti i titolari di concessioni e spiagge sul litorale, tra cui anche Uisp e Libera (peraltro sanzionate solo per un paio di lievi irregolarità sanitarie) l'attento Ferrara, l'1 agosto scorso, in un pubblico comunicato dal titolo 'M5S: Ritirare concessioni spiagge a Uisp e Libera' ha dichiarato che avrebbe scritto a Don Luigi Ciotti e che avrebbe presentato 'un'interrogazione su questi gravi fatti che se confermati devono portare immediatamente al ritiro delle convenzioni ma non già di tutte quelle (la quasi totalità) in cui erano state rilevate violazioni amministrative (e men che meno in quelle laddove, illegalmente, si continua a negare il mare ai cittadini) ma solo ed esclusivamente di quelle inerenti la spiaggia gestita da Uisp e Libera. Mi spiegate perché? Perché solo Libera o, meglio, perché solo la ex spiaggia di Bocchini? Eppure dovreste saperlo bene visto che anche voi - e guarda sempre il caso, poco prima che cominciasse a circolare nelle redazioni dei giornali il vostro, in parte ora rinnegato, dossier - avete fatto esattamente la stessa cosa presentando, il 3 settembre scorso, un'interpellanza in cui mi chiedete di revocare la convezione solo ed esclusivamente a Libera.

d) Nell'articolo del Tempo che illustra il vostro dossier (a proposito ne sono in possesso e ho il 'leggerissimo' sospetto che, com'è avvenuto in altre occasioni, vi siete avvalsi delle solite, e oggettivamente singolari, consulenze esterne degli amici-nemici del Sig. Ferrara; e, come sapete benissimo, non parlo di Bocchini in questa occasione) guarda caso si tratta, in maniera oggettivamente estemporanea, anche del ruolo oscuro che, secondo le vostre originali ricostruzioni, avrebbe avuto a Ostia perfino l'ottimo avvocato Rodolfo Murra che, guarda sempre il caso, è proprio colui che, nei due soli mesi in cui ha diretto il Municipio di Ostia, ha scoperto i precedenti penali di Bocchini e gli ha tolto la gestione della spiaggia e, guarda sempre il caso, è pure l'avvocato che, vincendo prima al TAR e poi al Consiglio di Stato, ha tutelato gli interessi del Comune nella causa intentata da Bocchini per riottenere la spiaggia. Ma guarda un pò che sommatoria di coincidenze!

e) Come sapete benissimo la spiaggia SPQR a Ostia dà fastidio ai balneari perché introduce un nuovo e libero modo di accesso al mare e sempre Ferrara, guarda un pò ancora che coincidenza, è colui che ha organizzato un incontro occulto (nessuno sa, invero, di cosa si sia parlato e sarebbe il caso che finalmente lo spiegaste ai vostri stessi sostenitori che lo hanno ripetutamente chiesto a Ruocco su FB senza ancora oggi ottenere una risposta: grande trasparenza!) tra almeno una deputata del vostro Movimento e i predetti imprenditori 'onesti che non si sono mai piegati alla logica delle mazzette ... senza mangiarsi la città' e che, come si diceva, guarda caso, sono proprio i maggiori interessati a far fallire il modello di balneazione proposto da UISP e Libera. Per molto, ma molto, meno Voi crocifiggete chiunque. Io mi sono solo limitato ad avanzare un più che legittimo sospetto e che, sono certo, anche i vostri sostenitori non potranno che condividere e fare proprio. Mio nonno mi diceva sempre di 'non confondere 'a minchia cu 'u bummulù. Voi evidentemente non state molto ad ascoltare i vostri nonni forse perché, come Narciso, siete troppo impegnati ad autocompiacervi della vostra onestà e presunta superiorità etica senza guardare oltre il riflesso esteriore della vostra immagine. In questo caso, però, attenti: il riflesso non è quello cristallino della pozza di Nemesi ma dell'acqua limacciosa della palude di Ostia!".

«False le accuse di Sabella Anche lui ormai fa politica». Paolo Ferrara, consigliere comunale del M5S a Ostia, si difende dagli attacchi, scrive Alberto Di Majo su "Il Tempo". Ci tiene a rispondere alle accuse che ha ricevuto. Paolo Ferrara, consigliere comunale del M5S a Ostia, il Municipio romano sciolto per mafia, attacca l’assessore comunale alla Legalità, l’ex magistrato Alfonso Sabella, e ribadisce l’impegno a verificare il business sulle spiagge, «tutte, compresa quella gestita da Uisp e Libera».

Consigliere Ferrara, l’assessore Sabella dice che lei avrebbe «interessi personali» sulla spiaggia assegnata all’associazione Libera. È vero?

«Falso. Querelo Sabella, non può dire che ho un interesse personale solo perché ho celebrato il matrimonio di una persona».

Si riferisce a Roberto Bocchini, l’ex gestore della spiaggia assegnata proprio all’associazione Libera.

«Sì. Vivo a Ostia da sempre e lo conosco ma non è un mio amico. Ho celebrato il suo matrimonio come tanti altri. Con questo principio, Sabella dovrebbe contestare anche il prete che ha sposato Totò Riina».

Ma allora perché Sabella ha detto quelle cose?

«Sta strumentalizzando la situazione. Noi abbiamo depositato molti atti che denunciavano il malaffare sulle spiagge di Ostia, chiedemmo proprio a lui di intervenire».

È una manovra politica?

«Il Pd sta cercando di recuperare. A Ostia è scomparso, il loro presidente di Municipio è stato arrestato, il Consiglio è stato sacrificato per salvare Roma».

D’accordo Ferrara, però nella relazione che il M5S doveva consegnare alla Commissione Antimafia ci sono delle accuse a Libera.

«Quella relazione è una bozza a cui hanno lavorato tanti 5 Stelle ma che va ancora condivisa da tutti. È un lavoro preliminare, che verrà comunque modificato».

E il paragrafo su Libera?

«Noi non accusiamo Libera, chiediamo di verificare tutte le irregolarità che la Finanza ha trovato sulle spiagge di Ostia, compresa quella gestita dall’associazione».

Che tipo di irregolarità erano quelle sulla spiaggia di Libera?

«Non ricordo nello specifico, ma ci sono i verbali della Finanza e ne hanno scritto i giornali. Dopo queste notizie i consiglieri comunali del M5S hanno presentato un’interpellanza all’assessore Sabella ma non solo su Libera, su tutti».

Cosa chiedete nell’interpellanza?

«Se ci sono le condizioni per togliere le concessioni a quelli che hanno commesso irregolarità».

Che ne pensa della conferenza stampa di Libera in Campidoglio e delle dichiarazioni degli esponenti del Pd?

«Il Pd ha strumentalizzato Libera, cercando di approfittare della situazione».

Che le hanno detto i cittadini di Ostia in questi giorni?

«Ho avuto grande sostegno da tutti e dal MoVimento, che qui è molto radicato. A Ostia abbiamo preso il 36% alle ultime Politiche, il 34% alle Europee. Ora stiamo al 50%. Se ne è accorto anche il Pd».

I silenzi scomodi di «Libera» su Tassone. Ostia, l’associazione finisce nel dossier dei 5 Stelle depositato all’Antimafia «Coinvolta nella gestione di stabilimenti balneari affidata senza bando», scrive Ivan Cimmarusti su "Il Tempo" C’è il caso di Libera, la quale più che un’associazione antimafia è dipinta come una specie di «spa» che gestisce stabilimenti balneari a Ostia. Poi c’è l’ex presidente del Municipio, il plurindagato Andrea Tassone, che attraverso una giornalista che glorifica le sue attività, attacca le altre associazioni territoriali contro la criminalità organizzata. Infine una rete di politici, come il senatore Stefano Esposito, che invece di «preoccuparsi delle infiltrazioni e collusioni del Pd, riscontrate nelle ordinanze di Mafia Capitale», distrarrebbe «l’attenzione dei cittadini e della stessa Commissione Antimafia». Questo, a grandi linee, il contenuto della relazione «Mafia e litorale romano: il caso Ostia» messa a punto dal Movimento5Stelle e depositata all’Antimafia, presieduta da Bindi. Un capitolo importante riguarda le associazione antimafia. Libera, per esempio, ha in «gestione stabilimenti balnerari (Spqr), con assegnazione per affidamento diretto senza bando pubblico». In particolare, è annotato nell'atto, «non potendo per statuto gestire stabilimenti balneari, figura nell'affidamento dei servizi della spiaggia libera ex-Amanusa assieme a Uisp solo come portatrice di eventi per divulgare mezzi e strumenti nella lotto contro le mafie». Tuttavia, ritengono i 5Stelle, «da quando ha avuto l'affidamento nulla di ciò è mai stato organizzato». Infatti, risulta che «l'ultima iniziativa di Libera risale al 2011, una fiaccolata denominata "Liberiamo Ostia dalla Mafia". Poi più nulla». A Libera, inoltre, «viene contestato il silenzio non solo sui maxi appalti e sulla gestione degli appalti pubblici, ma anche sulla non ratifica del protocollo dell'associazione antimafia DaSud da parte della giunta e soprattutto sulla poca trasparenza dell’amministrazione del X Municipio, che ha portato poi all'arresto di Tassone». In relazione a questo presunto «silenzio», i 5Stelle affermano che «tramite Uisp», Libera «è entrata nella gestione controllata della spiaggia ex-Faber Beach con l’associazione Stand-Up e nell’affidamento diretto del Terzo Cancello (associazione Yut) presso la spiaggia libera di Castelporziano. Entrambi gli affidamenti sono dell’estate 2014 ed entrambi resi possibili grazie all’intercessione di Andrea Tassone e della coppia Francesco D’Ausilio ed Emanuela Droghei, rispettivamente ex capogruppo Pd capitolino ed assessore alle politiche sociali della giunta Tassone». Infine, «nella stessa estate (2014, ndr), Libera ha preso i contributi (anche questi vietati per statuto) per l’iniziativa "Ostia Cinema Station" tenuta dentro il Teatro del Lido». La relazione approfondisce anche i presunti attacchi subiti dall'associazione nazionale «Cittadini contro le mafie e la corruzione». Ne fanno parte anche «due ex poliziotti» che hanno curato Nuova Alba, inchiesta della Procura di Roma, che ha dimostrato il radicamento mafioso su Ostia. Gli ex agenti sono Fierro e Pascale, i quali avevano già redatto le informative investigative poi insabbiate circa la presenza della mafia su Ostia 10 anni prima dell'operazione Nuova Alba. Contro Pascale, si legge, «si sono scagliati sia Esposito (Pd) che una giornalista, affermando pubblicamente e falsamente che egli sia "fortemente legato al M5S" e che il M5S abbia presentato un'interrogazione parlamentare "in suo favore"». Un capitolo a parte riguarda i «nomi legati a Tassone». I fari sono puntati su Rodolfo Murra, capo dell'Avvocatura Capitolina, il quale - stando ai 5Stelle - pur avendo potuto vedere i presunti affari illeciti attorno al Municipio di Ostia non avrebbe presentato denunce. Nella relazione si legge che «all'inizio del mandato di Tassone, Murra è stato direttore del Municipio X. Furono proprio Tassone e Ignazio Marino dopo i 51 arresti per mafia del luglio 2013, a volere Murra ad Ostia nel Palazzo del Governatorato, dove è rimasto dal 15 luglio fino al 15 settembre 2013. Murra ha continuato anche dopo la sua promozione (a capo dell'Avvocatura, ndr) voluta da Marino, tramite Paolo Sassi (dirigente del Comune di Roma, ndr), ad interessarsi del X Municipio, ma non si è mai accorto di nulla nonostante ci siano decine e decine di interpretazioni dell'Avvocatura per dare parere favorevole ad "iniziative" di Tassone poi finite dentro le indagini della Procura».

Roma Ostia, Sabella: "MoVimento 5 Stelle contro Libera? Ferrara ha un interesse personale". L'assessore alla Legalità: "Il rappresentante M5S ha chiesto la revoca della concessione che l'associazione ha avuto attraverso bando pubblico", scrive "Il Tempo". Dopo l'articolo de Il Tempo sul dossier redatto dal MoVimento 5 Stelle su "Mafia e litorale romano: il caso Ostia" è guerra aperta tra i grillini e l'associazione Libera presieduta da don Luigi Ciotti. Per il M5S quello pubblicato da Il Tempo è un falso: "Quanto scritto dal giornalista non corrisponde in alcun modo alla relazione ufficiale redatta dai rappresentanti capitolini e regionali, che, al contrario di quanto riportato dal Tempo, non è infatti stata ancora depositata in Commissione Antimafia". La smentita, però, arriva dopo 48 ore dalla pubblicazione dell'articolo e, soprattutto, arriva solo dopo la decisione dell'associazione Libera di indire una conferenza stampa per rispondere alle "menzogne" dei Cinquestelle. La relazione, che a questo punto risulta avere due versioni (una pre e una post conferenza stampa di Libera), è comunque stata consegnata a Il Tempo da fonte autorevole ed è a disposizione delle parti. Di certo c'è che a confermare una certa "ostilità" dei grillini nei confronti di Libera a Ostia, arrivano le parole dell'assessore alla Legalità del Campidoglio, Alfonso Sabella. "Ostia è una palude perché è il posto dove tutto si confonde - dice intervenendo alla conferenza stampa di Libera -. Non era mia intenzione intervenire in questa conferenza ma è pervenuto ai miei uffici un elenco di interpellanze a cui devo rispondere in Assemblea capitolina e sono saltato dalla sedia dal disgusto quando ho letto quelle di quattro ragazzi che personalmente stimo, i consiglieri comunali M5S, che mi hanno fatto una interpellanza per chiedermi delle sanzioni applicate a Libera nel corso di un'attività di verifica della legalità sul lungomare di Ostia che io stesso ho disposto. Abbiamo controllato 71 stabilimenti e spiagge libere e dove c'erano irregolarità adottando dei provvedimenti amministrativi e il Movimento 5 Stelle mi chiede solo quelle applicate a Libera? Perché? Andreotti diceva che a pensare male si fa peccato ma a volte ci si azzecca. Fatemi pensare male. I consiglieri che sono qui in Aula li stimo e hanno fatto delle grandi battaglie e mi stupisce che siano caduti nella trappola del rappresentante M5S di Ostia, Ferrara, che ha un interesse diretto e personale sulla spiaggia gestita da Libera". "Ai consiglieri del Campidoglio voglio dire: state attenti perché avete preso una strada folle su Ostia - aggiunge -. Attaccare il bello, il buono, il giusto è folle. Difendo il lavoro dei ragazzi di Libera a Ostia perché hanno portato un modello mentre Ferrara ha chiesto la revoca della concessione che hanno avuto tramite un bando pubblico. Il Movimento 5 Stelle non ha mai supportato la battaglia che continuiamo a portare avanti a Ostia per il ripristino della legalità, non ha detto nulla quando i muri e le barriere si alzavano. Allora ridatemi la vecchia politica perché il Movimento 5 Stelle a Ostia è uguale. Sono veramente indignato e disgustato da questo atteggiamento e quindi mi auguro che i primi a prendere le distanze a livello nazionale da questo grave e ingiusto attacco a Libera siano i consiglieri capitolini» Intanto Gabriella Stramaccioni, membro della presidenza, fa sapere che l'associazione "si costituirà parte civile il 5 novembre al processo contro Mafia Capitale". Ma a far "tremare" i 5 Stelle sono le parole di don Luigi Ciotti che ha inviato un messaggio letto durante la conferenza stampa in Campidoglio: "La ricerca della verità è la base della giustizia. Ben vengano allora tutte le documentazioni, analisi, testimonianze volte a dissipare le ambiguità e rischiarare le zone d'ombra. Ma a patto che siano oneste, serie, disinteressate, nè mosse dalla presunzione di avere in tasca quella verità che si dice di cercare. Se mancano queste prerogative etiche, la denuncia diventa diffamazione, calunnia. È nostra intenzione dimostrare che proprio questo è il caso del dossier in questione, riservandoci di adire a vie legali se chi l'ha redatto non fa pubblica ammenda delle falsità dette e scritte".

Il fattaccio del dossier antimafia grillino. Scoppia il caos sulla relazione 5 Stelle a Ostia. Protesta l’associazione Libera L’assessore Sabella rivela: il MoVimento vuole levare la spiaggia a don Ciotti, scrive Ivan Cimmarusti su "Il Tempo". È scontro sul contenuto della relazione "confidenziale" del MoVimento 5 Stelle su «Mafia e litorale romano: il caso Ostia». Don Luigi Ciotti non ci sta a far passare Libera come una sorta di società che gestisce spiagge. Chiede «pubblica ammenda» ai grillini che, dalla loro, si limitano a dire che il testo pubblicato giovedì scorso da Il Tempo «non corrisponde in alcun modo alla versione ufficiale» ma si tratta di una «bozza». Sullo sfondo della lotta alla criminalità organizzata prende sempre più forma una battaglia interna all’antimafia. A colpi di slogan contro i clan, Ostia appare la piazza sulla quale si gioca anche una partita politica. E la relazione dei 5 Stelle non ha fatto altro che fomentare lo scontro con il Partito democratico, attraverso le accuse mosse sul senatore e assessore al Comune di Roma, Stefano Esposito. Anche l’assessore alla Legalità capitolino Alfonso Sabella è intervenuto, affermando che «ho il sospetto che non ci sia da fidarsi del M5S a Ostia. Il gruppo capitolino mi ha chiesto in un’interpellanza di revocare la concessione di una spiaggia a Libera a causa di una lieve sanzione amministrativa. E io sottolineo che il rappresentante del M5S a Ostia potrebbe avere un interesse personale su quella spiaggia che, guarda caso, prima era di un suo amico, a cui fu revocata perché aveva precedenti penali non dichiarati». La polemica è montata ieri mattina. Con una nota diffusa 24 ore dopo la pubblicazione dell’articolo e successivamente all’indizione della conferenza stampa di Libera in Campidoglio, i grillini hanno «smentito in toto il contenuto dell’articolo apparso su Il Tempo ». Roberta Lombardi, deputata pentastellata, parla su Facebbok di una «fantasiosa interpretazione giornalistica». In serata, però, arriva il mea culpa e l’ammissione che si tratta di una bozza della relazione non ancora depositata alla Commissione Antimafia. Il direttore Gian Marco Chiocci prende carta e penna: «Dalla smentita "in toto" del contenuto dell’articolo prendiamo atto che esistono due versioni della stessa relazione: una pre-conferenza stampa di Libera, e una post». Il testo dei grillini finito sotto i riflettori (che sul frontespizio porta la dicitura «revisione n. 3.5_*finale* - ultimo aggiornamento 4/9/2015» ndr ) è diviso in otto capitoli, per 50 pagine. In particolare, sono tre i punti che hanno creato la bufera: le «associazioni antimafia», il «sistema mediatico» e i «rapporti con le forze politiche». In sostanza, sono riportate accuse contro Libera , una giornalista di Ostia, redattrice di un quotidiano nazionale, e il senatore Esposito. Già nell’edizione de Il Tempo di ieri, il politico ha avuto modo di rimandare le accuse al mittente, stigmatizzando quando scritto – su di lui e sulla giornalista - nella relazione del M5S come «balle». Ieri mattina, invece, è stata la volta di Libera. L’associazione, fondata da don Ciotti, è stata duramente attaccata, assieme a Uisp (Unione italiana sport per tutti) sulla gestione delle spiagge a Ostia. Gabriella Stramaccioni, di Libera, ha risposto a quelle che definisce «bugie» con cinque diversi punti: «Non vi è nessun affidamento diretto della spiaggia Libera Spqr. Uisp e Libera hanno partecipato al bando pubblico con esito pubblicato in data 10 aprile 2014 e l’Ati con a capofila la Uisp è entrata in possesso della spiaggia solo ad aprile 2015»; «da aprile a oggi sulla spiaggia sono state organizzate diverse iniziative per la promozione della cultura della legalità»; «né Libera né la Uisp sono entrate mai nella gestione della spiaggia denominata Faber Beach che è una spiaggia libera attrezzata, posta sotto sequestro dall’amministrazione giudiziaria lo scorso anno. Libera, insieme alle associazioni Stand Up, si è impegnata gratuitamente a favorire percorsi di socializzazione e di cultura della legalità con decine di iniziative»; «Libera non ha mai preso contributi per l'iniziativa “Ostia Cinema Station”»; «Libera si è costituita parte civile nei processi contro il clan Fasciani e i suoi prestanome, contro il clan Spada, con la presenza in Aula di decine di ragazzi e di associazioni del territorio di Ostia e di Roma». Per don Ciotti «la ricerca della verità è la base della giustizia». Il parroco antimafia ne è convinto: «Ben vengano tutte le documentazioni, analisi, testimonianze volte a dissipare le ambiguità e rischiarare le zone d’ombra. Ma a patto che siano oneste, serie, disinteressate, né mosse dalla presunzione di avere in tasca quella verità che si dice di cercare. Se mancano queste prerogative etiche, la denuncia diventa diffamazione, calunnia». Conclude che «è nostra intenzione dimostrare che proprio questo è il caso del dossier in questione, riservandoci di adire a vie legali se chi ha redatto non fa pubblica ammenda delle falsità dette e scritte».

Altri documenti a 5 Stelle accusano "Libera". Due interrogazioni alla Regione Lazio chiedevano di fare i controlli, scrive Alberto Di Majo su "Il Tempo". Ha suscitato accuse e polemiche il dossier del MoVimento 5 Stelle sulla mafia ad Ostia, che Il Tempo ha anticipato alcuni giorni fa. Nel documento i grillini accendono i riflettori sulle concessioni della spiaggia romana, anche su quella gestita dalle associazioni Libera e Uisp. L’assessore alla Legalità del Campidoglio Sabella ha attaccato i 5 Stelle, soprattutto un consigliere municipale, Paolo Ferrara, che avrebbe, così ha detto l’ex magistrato, «un interesse personale» su quella spiaggia. Ovviamente Ferrara ha rimandato le accuse al mittente, ha querelato Sabella e spiegato che i 5 Stelle, venuti a sapere delle irregolarità segnalate dalla Finanza negli stabilimenti di Ostia, hanno chiesto proprio all’assessore di verificare la situazione. Ora spunta un’interrogazione presentata il 3 agosto in Consiglio regionale. L’oggetto è chiaro: «Illegalità nella gestione della spiaggia libera della legalità Spqr di Ostia». Il documento parte dalla notizia dell’apertura della spiaggia libera della legalità, data in concessione all’associazione territoriale d’impresa formata da Uisp Roma e Libera di don Ciotti. Era il 29 aprile scorso. L’interrogazione aggiungeva il profilo delle due associazioni, poi richiamava un articolo del Messaggero del 31 luglio in cui «si fa riferimento alla circostanza che Libera, insieme alla Uisp, riesce a prendere in affidamento la spiaggia ex Amanusa, che non era in odore di mafia, contrariamente a quanto da loro affermato. Addirittura - spiega ancora il documento - la cooperativa Roy’s, che aveva vinto il bando e gestito la spiaggia fino ad allora, è stata oggetto di basse insinuazioni e accuse da parte del responsabile di Libera, Marco Genovese, secondo il quale addirittura veniva negata "l’acqua pubblica alla clientela" e si operava "ristorazione abusiva"». Poi si arriva al punto: «La cooperativa Roy’s, pur essendo arrivata prima nel bando, ha perduto la gestione dell’Amanusa per una multa di 400 euro che era stata indultata» e dunque «l’affidamento della spiaggia libera più bella di Ostia è andata proprio a Libera-Uisp». Insomma, qualcosa non quadra nell’assegnazione, secondo i 5 Stelle. Sembra quasi che Libera sia riuscita a conquistare quella spiaggia a scapito della cooperativa che l’aveva prima. Ma non è tutto. «Inaugurata la stagione in pompa magna con tutte le istituzioni, compreso l’assessore alla Legalità, Alfonso Sabella, Libera incappa - continua l’interrogazione dei grillini alla Regione - "nei controlli condotti ad Ostia dalle forze dell’ordine nei chioschi delle spiagge pubbliche"». I controlli effettuati, precisa ancora il documento, hanno portato all’identificazione di 17 lavoratori. Sono state riscontrate 9 violazioni «ed elevate sanzioni amministrative per un totale di euro 27.662 in ordine a svariate infrazioni/inadempienze». Tra queste: mancate emissioni di scontrini fiscali, irregolarità delle superfici di somministrazioni, mancanza dei requisiti strutturali, inidonietà dei luoghi di lavoro. I due consiglieri del MoVimento 5 Stelle che hanno firmato l’interrogazione, Davide Barillari e Silvana Denicolò, chiedevano al presidente della Regione Lazio Zingaretti «quali concrete azioni intenda intraprendere l’amministrazione regionale in concerto con l’amministrazione capitolina, nei confronti dei concessionari, sollecitando l’eventuale revoca della concessione e/o risoluzione di qualsiasi altro rapporto giuridico» e anche se la Regione ravvisasse la possibilità «di agire nei confronti dei concessionari o altri soggetti ad essi collegati per avanzare richieste di danni, anche d’immagine». Ma c’è anche un’altra interrogazione interessante, presentata sempre dai 5 Stelle alla Regione Lazio. Era il 23 settembre 2014. Nel documento si chiedeva di «mappare, analizzare e contrastare il fenomeno delle infiltrazioni mafiose» e, soprattutto, di «valutare il livello di attendibilità delle associazioni antimafia, o presunte tali con le quali la Regione Lazio potrà in futuro collaborare». Insomma, le perplessità dei pentastellati verso Libera e le altre organizzazioni arriva da lontano e il dossier (che i 5 Stelle hanno declassato a bozza ancora da condividere e valutare) non era che il punto di arrivo di un percorso che, inevitabilmente, divide i grillini.

Tutto questo nella capitale d'Italia. Mentre nella capitale della mafia per antonomasia.

Parla l’ex presidente delle misure di prevenzione presso il tribunale di Palermo Silvana Saguto. “Le associazioni antimafia mi suggerivano i nomi”. «Mi accusano di aver creato un sistema. Sì, è vero c’era un sistema attorno alla sezione Misure di Sicurezza. Un normalissimo sistema che ha consentito di gestire i beni sequestrati».

A quale sistema fa riferimento?

«Gli amministratori giudiziari non li ho scelti fra i miei amici. E i miei amici non erano le persone chiamate a sostituire i fedelissimi dei boss cacciati dopo i sequestri: i nomi di persone valide li abbiamo chiesti ad associazioni come Libera, Addio Pizzo, li abbiamo chiesti ai parroci. Per essere più tranquilli. Segnalazioni sono arrivate da tutte le parti, anche da colleghi magistrati».

Pronta la risposta scontata di “Libera”. LIBERA RISPONDE IN MERITO ALLE DICHIARAZIONI DELLA D.SSA SILVANA SAGUTO A "LA REPUBBLICA" DEL 16 OTTOBRE 2015. «In merito alle dichiarazioni rilasciate oggi dalla d.ssa Silvana Saguto a "La Repubblica", Libera precisa che mai ha segnalato nominativi di Amministratori giudiziari alla Sezione di misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, né ad altri Tribunali. Libera chiede peraltro da tempo l'istituzione di un Albo degli Amministratori, la rotazione degli stessi e un tetto ai loro compensi, ritenendole misure necessarie a garantire trasparenza, competenza e integrità nello svolgimento di un incarico così delicato. Tutto questo nello spirito di collaborazione che ha sempre caratterizzato il rapporto dell'associazione con le istituzioni nell'affrontare e risolvere i problemi che ostacolano l'attuazione di una norma cruciale nella lotta alle mafie come quella sul sequestro, la destinazione e l'uso sociale dei beni confiscati. Ma mai, mai segnalato nominativi».

DAL 1986 SALVATORE SANFILIPPO È PRESIDENTE DELL’UFFICIO MISURE DI PREVENZIONE, DOVE, DAL 1987, COME GIUDICE A LATERE C’È LA DOTT.SSA SAGUTO. I suoi guai cominciano quando viene arrestato Antonino Lo Giudice, di Partinico, per sofisticazione vinicola: costui si rivolge ad Antonino Blogna, addetto alla scorta del giudice, e a Francesco Paolo Sammarco, un poliziotto, per avere un contatto con lui ed avere segnalato il nome di un avvocato difensore, scrive “TeleJato”. Il poliziotto chiede un compenso di 40 litri d’olio, che, dalle ricostruzioni giornalistiche pare abbia chiesto per sé, mentre altri sostengono sia stato ricevuto dal giudice. Il giudice non sa di avere il telefono sotto controllo: scoppia un caso di abuso d’ufficio: Sanfilippo  si difende dicendo che Lo Giudice era già stato da lui condannato a due anni di sorveglianza speciale e cinque milioni di contravvenzione, con revoca della patente, ma il CSM non vuole saperne e dispone prima il trasferimento d’ufficio di Sanfilippo per incompatibilità ambientale  (aprile ’92) ad altra sede con motivazioni del tipo “ha perso di credibilità e prestigio, decoro e fiducia nell’attuale sede”, e poi malgrado la conclusione della vicenda con l’amnistia, si arriva addirittura destituzione  dall’ordine giudiziario. La persecuzione continua pochi anni dopo prima con una condanna  per concorso esterno in associazione mafiosa per fatti avvenuti durante la sua presidenza alle misure di prevenzione ancorchè nella sentenza si legga  che “il contributo realmente dato…dal Sanfilippo sia stato di poco conto” ma l’accusa “è confermata da testi di sicura attendibilità in primo luogo la dott.ssa SAGUTO”, conclusasi con una pena concordata; ancora con una richiesta da parte della procura di Palermo per sottoporre il Sanfilippo a misura di prevenzione patrimoniale ed infine con la richiesta di confisca del patrimonio ritenuta infondata per ben due volte dalla Corte d’Appello di Caltanissetta perché la Procura NON HA FORNITO “la prova della riconducibilità del patrimonio esaminato alle attività illecite dell’imputato” ed infine rigettato anche  dalla Corte di Cassazione (in quest’ultima fase difeso dalla figlia Valeria, avvocato). Infine l’accusa di riciclaggio, mossa dal pool di Palermo, a firma Dario Scaletta, Calogero Ferrara e Ambrogio Cartosio, nei riguardi della moglie e della figlia che si risolve in un’assoluzione per non aver commesso il fatto nel marzo 2010: accusa sostenuta attraverso una consulenza tecnica a firma del dott. Salvatore Cincimino smentita punto per punto attraverso la consulenza tecnica di parte. La figlia, già titolare di uno studio legale, ha dedicato la sua vita a restituire onorabilità al nome del padre, da poco scomparso, anche se tutte le disavventure giudiziarie, legate a un bidone d’olio mai ricevuto, le hanno causato un danno di oltre 100 mila euro. La vicenda è da leggere nel clima di caccia alle streghe determinatosi nella Procura di Palermo dopo la morte di Falcone e Borsellino e nelle lotte all’interno della Procura, tra i vari magistrati. Particolare non indifferente: la Saguto, dopo il trasferimento di Sanfilippo, rimane nel collegio dell’Ufficio Misure di prevenzione, ma la sua testimonianza è determinante nel processo contro Sanfilippo sostenendo che non si interessava del suo ruolo e che riceveva nel suo ufficio strani individui… (Il pentito Vincenzo Scarantino, smentito in vari processi per la sua inattendibilità).

"Ufficio di collocamento beni sequestrati". La Saguto e le intercettazioni dello scandalo, scrive Martedì 20 Ottobre 2015 Riccardo Lo Verso su "Live Sicilia". Secondo i finanzieri, l'ex presidente della Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo avrebbe segnalato amici e conoscenti per farli lavorare nelle aziende sequestrate alla mafia. "Io ti devo chiedere il favore per il prefetto". Ultimo giorno dello scorso mese di agosto. Poco dopo la undici e trenta Silvana Saguto contatta al telefono una dipendente che al Palazzo di Giustizia di Palermo fa il funzionario giudiziario. “... era per vedere cose nuove... volevo parlarti un minuto... - dice il magistrato - intanto cominciamo con tuo figlio sicuramente”. L'ufficio dell'ex presidente della Sezione misure di prevenzione del Tribunale è imbottito di microspie. Le hanno piazzate gli investigatori della Polizia tributaria su delega della Procura di Caltanissetta. I finanzieri scrivono nelle informative: “Gli approfondimenti investigativi hanno fatto emergere che Silvana Saguto segnala persone da contrattualizzare (amici, conoscenti, personali o di suoi familiari) ad alcuni amministratori giudiziari”. Insomma, saremmo di fronte ad una sorta di ufficio di collocamento con i nominativi delle persone da assumere suggeriti dal magistrato a capo, fino ad un mese e mezzo fa, del collegio che sequestra i beni alla mafia e nomina gli amministratori giudiziari. Suggerimenti che non sappiamo se abbiano fatto in tempo ad accogliere, visto che le conversazioni sono state intercettate in prossimità delle perquisizioni e dei sequestri che hanno fatto esplodere lo scandalo. Il lavoro degli investigatori, però, guarda indietro nel tempo per scovare assunzioni sospette avvenute in precedenza. L'ufficio del magistrato era tappa obbligata per gli amministratori giudiziari, le cui voci sono rimaste impresse nei nastri magnetici che raccontano il "pressing" del magistrato. Quarantasette minuti dopo le undici dello stesso giorno di fine agosto nella stanza dell'allora presidente entra l'avvocato Aulo Gigante. La richiesta della Saguto è diretta e svelerebbe un intreccio di posizioni di lavoro: “... senti qua per Vincenzo avremmo trovato probabilmente un posto adesso, nell'amministrazione Virga dove lui può essere preso intero, però c'è una persona che io voglio presa in cambio... il figlio di... la conosci... il cancelliere... questo ha esperienza... ha fatto fallimenti”. Ecco la richiesta di piazzare il figlio del funzionario giudiziario. Gigante prende tempo: “... il problema è che siamo in grosse difficoltà... mi devi dare tempo sino a dicembre, a dicembre io so se siamo vivi o morti”. Saguto: “... ma temporaneo non lo potresti prendere?... Se io non trovo di meglio subito lo prendiamo temporaneo al posto di Vincenzo appena Vincenzo lo mettiamo... incomprensibile... è bravo, ha fatto fallimenti come curatore”. Gigante torna a parlare delle sorti della catena di negozi di abbigliamento, tirando in ballo i vecchi proprietari alla cui gestione, almeno così sembrerebbe dalle sue parole, farebbe risalire lo stato di crisi aziendale: “... ci salviamo riducendo i costi, malgrado Massimo Niceta... vabbè comunque organizziamoci... lo facciamo”. Il 2 settembre successivo la Saguto contatta la funzionaria giudiziaria: “... dovremmo fare con tuo figlio, lo mettiamo da Niceta... in un posto che si libera... contabilità... quello che la faceva era un ragazzo che conoscevo pure io che non è diplomato ragioniere, quindi deve essere una contabilità all'ingrosso, diciamo... se dovesse andare male Niceta, proviamo altri posti... per tuo fratello ho parlato con Provenzano, il professore... ”. Tre giorni prima, il 28 agosto 2015, la Saguto chiede ad un altro amministratore, Alessandro Scimeca: “… allora io ti devo chiedere il favore per il prefetto... quello là (incomprensibile) assumere, devi trovare...”. “Silvana è improponibile... - Scimeca prova a resistere alle richieste - io faccio tutto quello che vuoi... ma come ti aiuto?... Io al prefetto l'aiuto pure, ma non con quella mansione, ma non con quella qualifica”. Saguto: “Io posso vedere anche in altri posti ma lui cosa sa fare, niente”.  Nella stessa giornata la cimici captano la conversazione fra la Saguto e il titolare di un noto ristorante-sala ricevimenti in provincia di Palermo dove andrà a lavorare il figlio del magistrato, Elio, di professione chef. Quest'ultimo, a giudicare dalle parole della madre, non è rimasto molto contento della proposta economica. L'imprenditore tranquillizza la madre: “Credo che si può superare tutto”. All'indomani le cose si mettono a posto: “Sono contentissima io ed è contentissimo pure Elio”. “Hanno trovato l'intesa completa”, dice l'imprenditore. Ed è sempre il futuro di un altro figlio, Emanuele, che sta a cuore al magistrato. Al padre Vittorio dice “che per ora è tranquillo, dal primo ottobre il professore (Carmelo Provenzano, ndr) dice che qualche cosa gliela troverà da fare... intanto vuole fare sto concorso per commissario... poi vuole fare un corso in criminologia... io intanto lo scrivo per l'abilitazione di avvocato”. Provenzano, docente universitario ad Enna, secondo l'ipotesi della Procura di Caltanissetta, sarebbe stato inserito dalla Saguto fra gli amministratori giudiziari in cambio dell'aiuto al figlio, sia negli studi che nel mondo del lavoro.

L’inchiesta sui beni confiscati e le difficoltà economiche di casa Saguto, scrive “Palermo Blog Sicilia” il 19 ottobre 2015. Emergono poco alla volta le intercettazioni telefoniche ed ambientali in possesso alla procura di Caltanissetta che hanno convinto i magistrati nisseni a notificare l’avviso di garanzia correlato di perquisizione al collega Silvana Saguto ex Presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Intercettazioni che lasciano sorpresi nelle quali il magistrato parla al telefono con l’avvocato Cappellano Seminara delle difficoltà economiche della sua famiglia. Ci sono riferimento a carte di credito in scadenza da 10 mila euro, al rischio di aver tagliata la luce per insolvenza a trance di pagamenti da 8800 euro. Insomma richiesta di aiuto economico rivolte dal magistrato all’avvocato che di per se non dimostrano la corruzione ma che vengono considerate interessanti dagli investigatori che ricostruiscono l’apparato accusatorio piuttosto pesante sulla base delle trascrizioni delle intercettazioni della Guardia di Finanza. Per parte suo il magistrato ha sempre ammesso le difficoltà economiche ma derubricandole a normali difficoltà comuni a ogni famiglia. Le telefonate non sono sempre comprensibili, come riporta oggi il Giornale di Sicilia in edicola, e sono riportate più volte omissioni per incomprensibilità di alcuni passaggi quando i due abbassano la voce durante la conversazione. C’è di tutto in queste intercettazioni, ivi compresi i riferimenti a Walter Virga figlio di Tommaso Virga all’epoca dei fatto membro del Csm. Walter è un giovane avvocato amministratore giudiziario di Bagagli e del gruppo Rappa ma di lui. Nello studio di Virga lavora anche la fidanzata del figlio della Saguto poi messa alla porta forze a causa dell’inchiesta. Di questa vicenda la Saguto e cappellano Seminara parlerebbero in una intercettazione, sempre secondo quanto riportato dal giornale. ‘Walter Virga è un ragazzino, ha avuto quello che ha avuto e questo è il ringraziamento’ sarebbe la frase intercettata che la Saguto rivolgerebbe a Cappellano Seminara l’8 giugno scorso. Uno spaccato tutto da interpretare ma che supporterebbe le accuse secondo la procura di Caltanissetta e che gli indagati dovranno spiegare in maniera compiuta.

Gite al mare, profumi e servizio taxi. La blindata tuttofare di Silvana Saguto, scrive Lunedì 19 Ottobre 2015 Riccardo Lo Verso su "Live Sicilia". I finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo dedicano un capitolo delle indagini al tema: "Impiego della scorta per fini non istituzionali". Le intercettazione dell'ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale. Più che una scorta era un servizio taxi. Gli uomini a bordo della blindata andavano in giro per la città a soddisfare le richieste di Silvana Saguto, ex presidente della Sezione misure di prevenzione finita sotto inchiesta della Procura di Caltanissetta. I finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo dedicano un capitolo delle indagini al tema: “Impiego della scorta per fini non istituzionali”. La mattina del 28 agosto scorso il magistrato spiega al figlio Emanuele che “ho mandato i miei (personale della scorta, ndr) a prendere tutte cose (materiale sanitario per suturare una ferita, ndr) alla clinica Zancla”. Sempre lo stesso giorno la Saguto contatta un agente della scorta invitandolo a comprare “il dopo sole” per portarglielo a casa. Tre giorni dopo l'ex presidente chiama Mariangela Pantò, fidanzata del figlio, per chiederle se all'indomani le va di trascorrere una giornata al mare: “Ti faccio prendere dalla scorta quando viene a prendere a me”. All'indomani, davanti all'abitazione della Pantò si appostano i finanzieri. La donna viene prelevata nella zona di corso Calatafimi e accompagnata a casa Saguto. Pochi minuti dopo escono assieme dall'abitazione del giudice, salgono a bordo della Bmw serie 5 blindata per dirigersi verso via Marchese di Villabianca. Il 2 settembre la storia si ripete. “Stanno venendo a prenderti, ti portano a casa - dice la Saguto alla Pantò - perché a me mi arrivò una direttissima... tu comincia ad andare a casa, se del caso mangiate e poi io arrivo”. L'ultimo episodio contestato dai finanzieri risale al 3 settembre scorso. La Saguto chiama un uomo della scorta: “Potete venire, però dovete passare dalla profumeria e prendermi i dischetti levatrucco, quelli grandi”. In profumeria la scorta ci passa davvero. C'è un problema, però: "Sta controllando meglio ma molto probabilmente non ci sono quelli grandi, ci sono quelli piccoli”.

Pino Maniaci: “La dottoressa Saguto? E' potente perché tiene in pugno personaggi importanti”, scrive Giulio Ambrosetti su "La Voce di New York" del 19 ottobre 2015. Dopo le nuove rivelazioni sulla gestione della Sezione per le misure di prevenzione del Tribunale di Palermo - una specie di stillicidio che coinvolge istituzioni e personaggi che rappresentano le stesse istituzioni giudiziarie - siamo tornati a chiedere ‘lumi’ a Pino Maniaci, il direttore di TeleJato che ha fatto esplodere questo caso. Con lui affrontiamo tanti temi: a cominciare dal ruolo delle ‘holding’ dell’antimafia, Libera e Addiopizzo. Piano piano, al ritmo di uno stillicidio, vengono fuori le rivelazioni sul ‘caso’ della Sezione delle misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Il riferimento è, per lo più, all’ex presidente, Silvana Saguto, e all’avvocato Gaetano Cappellano Seminara. E’ già venuta fuori la storia di un debito della famiglia della dottoressa con un supermercato sequestrato alla mafia (debito che è stato in parte pagato). Quindi la storia del tonno sequestrato poi utilizzato per una cena. E oggi il Giornale di Sicilia pubblica un articolo con ampi stralci delle intercettazioni tra la dottoressa Saguto e l’avvocato cappellano Seminara. Articolo che lascia basiti per il tono e per gli argomenti. Tra questi, l’ex presidente della Sezione di misure di prevenzione che dice di non avere soldi per pagare l’energia elettrica. E i rapporti con la “Calcestruzzi”. Confessiamo di essere rimasti di stucco nel leggere l’articolo del Giornale di Sicilia. Così, ancora una volta, siamo andati a chiedere lumi a Pino Maniaci, il direttore di TeleJato, il giornalista che ha fatto scoppiare questo putiferio.

“Certo - ci dice - ho letto l’articolo. E mi pongo e pongo subito una domanda: quando si parla della Calcestruzzi a chi si fa riferimento? Ricordo che Grimaldi, il figlio di un cancelliere del Tribunale di Palermo, amministrata almeno dodici aziende di calcestruzzo. Detto questo, oltre che da quanto comincia a emergere dalla intercettazioni, io sono sbalordito dalle dichiarazioni rilasciate nei giorni scorsi dalla stessa dottoressa Saguto”.

Ovvero?

“Guardi, la dottoressa Saguto ha tirato in ballo Libera, Addiopizzo e il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta. A suo dire, le associazioni antimafia e antiracket segnalavano i nomi degli amministratori giudiziari. Tutto questo a me sembra incredibile”.

Parliamo un po’ di Libera e di Addiopizzo?

“Qui entriamo in un campo molto particolare. Cominciamo col dire che sia Libera, sia Addiopizzo sono partite da zero. Oggi sono delle holding. Ciò posto, il ruolo che hanno svolto è positivo. Anche se ci sono aspetti che a me sembrano poco chiari. Su Libera mi sono posto e continuo a pormi qualche domanda. Per esempio: perché i prodotti di Libera debbono costare tanto? Un pacco di pasta cinque-sei Euro; un vasetto di caponata cinque Euro. Sono prezzi proibitivi. Sarebbe auspicabile che tali prodotti diventino accessibili a tutte le tasche. Soprattutto alle famiglie indigenti. Invece avviene il contrario. Sull’argomento ho chiesto un parere a Don Ciotti. Ma non ho mai ricevuto risposta. Poi c’è, in prospettiva, la questione legata ai sequestri”.

Cioè?

“Mi riferisco alla proposta di legge, che il Parlamento nazionale deve ancora iniziare a discutere, sulla gestione dei beni sequestrati. Questa proposta di legge - relatore il parlamentare Davide Mattello, del PD, da sempre vicino a Libera - prevede di assegnare alle associazioni antimafia, in via provvisoria, i beni e le aziende sequestrate alla mafia. A me questa proposta sembra sbagliata. Ricordiamoci che un bene sequestrato può tornare al suo legittimo proprietario, là dove non dovessero emergere problemi”.

Questo è un tema che voi di TeleJato avete sollevato con forza, non senza buone ragioni: tante imprese sequestrate vengono svuotate e poi riconsegnate semi fallite ai legittimi proprietari.

“Appunto. Anche grazie a questo metodo è stata distrutta buona parte dell’economia di Palermo e della sua provincia. Sarebbe interessante ascoltare le testimonianze degli imprenditori che hanno subito queste ingiustizie”.

A questo punto cogliamo l’occasione per invitare questi imprenditori a raccontarci le loro storie. Detto questo, passiamo all’avvocato Cappellano Seminara, che a quanto pare è e rimane un intoccabile.

“Proprio così, un intoccabile. Infatti fino ad oggi ha mantenuto tutti gli incarichi. E passa addirittura all’attacco. Un qualunque altro cittadino, al suo posto, sarebbe già in galera con i beni sequestrati”.

Sarebbe una nemesi: il gestore dei beni sequestrati che subisce un sequestro.

“Sarebbe un fatto di giustizia”.

Tornando all’avvocato Cappellano Seminara, la dottoressa Saguto ha detto che la Sezione gli ha assegnato solo otto incarichi.

“Non è affatto così. Nello studio dell’avvocato Cappellano Seminare operano trentacinque avvocati. Sono gli avvocati che noi di TeleJato abbiamo definito i quotini. Questi legali gestiscono tantissimi beni a Palermo e in provincia. Altro che solo otto incarichi!”.

A suo giudizio come si sta comportando in questa storia il Consiglio Superiore della Magistratura (CSM)?

“Da quello che leggo e sento il comportamento del CSM risulterebbe un po’ ambiguo. Sembra che proponga ai magistrati coinvolti in questa storia di chiedere il trasferimento. Così ha detto la stessa dottoressa Saguto. Anche tale aspetto a me sembra devastante”.

Qualche magistrato ha parlato del pericolo di delegittimare la magistratura.

“Ho letto, in questo senso, dichiarazioni in generale. Non mi sembra che sia questo il problema. Anzi i magistrati hanno tutto l’interesse a chiarire i fatti. E poi, diciamolo con chiarezza: chi è che verrebbe delegittimato dalla richiesta di chiarezza in materia di gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia? La dottoressa Saguto? Io invece penso sempre al sacrificio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Che avrebbero pensato di tutta questa incredibile storia?”.

In questi giorni avete sollevato anche il caso dell’impresa Niceta. E’ vero che chiuderà i battenti?

“Della vicenda Niceta abbiamo le carte. Gli amministratori giudiziari hanno licenziato circa cinquanta dipendenti. E ne hanno assunto ventiquattro. Alcuni di questi nuovi assunti sono amici dei solito giro. L’ho detto e lo ribadisco: in questa vicenda tagliare la testa lasciando il corpo non serve a nulla, perché tutto rimane come prima. Faccio un esempio concreto: a che serve mandare via Virga se poi i coadiutori nominati dallo stesso Virga restano?”.

Ma secondo lei chi c’è dietro questa storia? A parte gli avvocati, non ha parlato e non parla nessuno. A cominciare dall’Ordine dei commercialisti. E tutti restano sostanzialmente al proprio posto.

“Quello che posso dire è che dietro la gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia ci sono interessi enormi. Vi siete chiesti perché la dottoressa Saguto non è stata toccata? Ve lo dico io: perché tiene in pugno personaggi importanti. E questo a me sembra un fatto gravissimo”. 

Negozi Niceta: si chiude, scrive Salvo Vitale su "Telejato" il 15 ottobre 2015. LO AVEVAMO ANTICIPATO GIÀ DA ALCUNI MESI E ADESSO È DEFINITIVO: TUTTI I NEGOZI NICETA, DA PARTINICO, A CARINI, A PALERMO, AD AGRIGENTO, HANNO CHIUSO O STANNO PER FARLO, A CAUSA DELL’INCAPACITÀ GESTIONALE DIMOSTRATA DELL’AMMINISTRATORE GIUDIZIARIO AULO GIGANTI, UNO DEI “QUOTINI” DI CAPPELLANO SEMINARA AL QUALE È STATA AFFIDATA L’AZIENDA MESSA SOTTO SEQUESTRO PERCHÉ NEL PUNTO VENDITA DI CASTELVETRANO LAVORAVANO DUE NIPOTI DI MATTEO MESSINA DENARO. In poco più di un anno questo signore è stato capace di mandare a casa 45 lavoratori, di cui siamo in grado di fare nomi e cognomi: aveva anche fatto una lettera di licenziamento ad altri otto, avendo già deciso la chiusura dei residui punti vendita dei centri commerciali La Torre e Forum, ma improvvisamente, non si sa per quale folgorazione, ha deciso di ritirare i licenziamenti, di tenere ancora aperti i due punti, forse in attesa della prossima udienza fissata il 20.10, durante la quale di dovrebbe decidere definitivamente se continuare l’amministrazione giudiziaria del nulla o se restituire ai proprietari le briciole di un impero. Quello che più incuriosisce è che sono stati licenziati 54 lavoratori, ma ne sono stati assunti 27: anche di essi potremmo fare nomi e cognomi e sappiamo per certo che tra di essi ci sono due amici di un figlio della Saguto, uno è stato raccomandato da un giudice, uno dice che gli hanno rubato il furgone della ditta, mentre era in trasferta, due sono stati individuati come persone che attingevano a piene mani dalla cassa del punto vendita di Castelvetrano, una non si è mai vista. Insomma una bella lista di persone che hanno sostituito lavoratori ai quali, oggi, come da essi ultimamente denunciato, è stato anche negato il pagamento del TFR. E andiamo ad altro: Non è stato fatto ancora l’inventario dei beni, dei quali avrebbe dovuto occuparsi un perito, un certo Ferrara: adesso non si sa cosa dovrebbe inventariare, dal momento che è tutto scomparso, pure le attrezzature comprate in leasing. Non è stata pagata la retribuzione di sei mesi di lavoro al sig. Niceta che nei primi mesi ha mandato regolarmente avanti il negozio, fino a quando non gli è stato proibito di mettervi piede. L’amministratore giudiziario si è visto più o meno un’ora a settimana, ma ha incamerato profitti impressionanti, per sè e per i suoi collaboratori inutili, negando però che le cifre comparse su un noto quotidiano siano reali. E adesso siamo alla fine. Dopo aver cambiato tutti gli avvocati, dimostratisi incapaci di difendere i loro interessi, i Niceta hanno presentato una memoria al giudice delle misure di prevenzione e aspettano una risposta per il prossimo 29 ottobre.

Gli ex dipendenti Niceta scrivono a Pino Maniaci, scrive "Telejato" il 10 ottobre 2015.

GENTILISSIMO DIRETTORE, Chi parla è un gruppo di ex dipendenti Niceta, come ben sapete la situazione che avevamo predetto lo scorso inverno non solo si è avverata ma è anche peggiorata. Tanti di noi hanno perso il  lavoro per dare posto a nuove assunzioni “Parentopoli” ed altri semplicemente sono stati mandati a casa. Nessuno di noi ha percepito né le ultime mensilità lavorative né tantomeno il TFR e per di più siamo venuti a conoscenza che sono stati saldati affitti arretrati di esercizi commerciali chiusi. Molti di noi hanno sottoscritto una scrittura privata dove l’amministratore avv. Gabriele Aulo Gigante si impegnava a rateizzare i TFR per non gravare copiosamente sulle spese aziendali, ma ovviamente questo impegno non è stato portato a termine. Ci chiediamo inoltre: è legittimo per un amministratore giudiziario vendere dei beni di un’azienda sotto sequestro preventivo? E se così fosse, a che scopo? Non dovrebbero essere i dipendenti i primi ad essere liquidati? I pochi ex dipendenti che hanno provato a sollecitare gli importi spettanti, come risposta dall’illustre amministratore Gigante, hanno avuto: “Neanche so se domani continueremo ad amministrare questa azienda visto il casino che sta succedendo!!!!! Perché dovremmo uscire questi soldi in un momento così difficile?”  Di chi dovremmo fidarci? Dopo anni di sacrifici ci vediamo togliere sia il nostro diritto al lavoro sia tutto ciò che ci spetta. Abbiamo appena appreso dal vostro TG che la “Povera, Ladra, Dottoressa Silvana Saguto” è a casa in malattia per una depressione… Ci viene spontaneo chiederci, unni su i nostri piccioli (dove sono i nostri soldi)? Non dovremmo essere noi ad avere la depressione? Essendo molto dispiaciuti per la Dottoressa, Le auguriamo una pronta guarigione e di poter ritornare al lavoro presto, però con una nuova mansione, lavare fino all’età pensionabile le scale del tribunale di Palermo e non sarebbe neanche degna di fare questo essendo un lavoro onesto. Per lei, carissimo Seminara, non ci sono parole… ma la cosa che ci fa più ribrezzo è di dover pensare: possibile che non ci siano giudici non corrotti in grado di prendere in mano, in modo dignitoso e leale, questa grave situazione per ripristinare la giustizia? Quella giustizia che qualsiasi comune mortale avrebbe già pagato. Ma Seminara no… lui non si tocca. Quali valori ha e continua a insegnare ai suoi figli? Noi siamo persone oneste, non auguriamo nulla di brutto, ma dato che alla Saguto abbiamo augurato di lavare le scale del tribunale di Palermo, a lei Seminara, le auguriamo di essere il mocio di tutti i secchi dei tribunali d’Italia. Con tanta rabbia, tristezza, amarezza, chiediamo soltanto ciò che ci spetta. P.S.: un consiglio, togliete la frase “La legge è uguale per tutti” dai tribunali, perché è falsa. La legge è uguale solo per chi ha il Monopolio del potere.

Morto a pochi giorni dal sequestro. Si è spento Mario Niceta, scrive Mercoledì 18 Dicembre 2013 Riccardo Lo Verso su "Live Sicilia". Pochi giorni fa, l'impero dell'imprenditore palermitano era finito nel mirino della Procura, che l'aveva accusato di aver costruito la sua fortuna all'ombra di Cosa nostra. Resterà per sempre uno dei nomi più noti tra gli imprenditori palermitani. Nella tomba si porta i ricordi di una scalata commerciale e, forse, anche il lato oscuro dei suoi successi. Mario Niceta è morto a 71 anni. Pochi giorni fa sul suo capo, e su quello dei suoi figli, si è abbattuta una disavventura giudiziaria. Di quelle che, se confermate, rischiano di lasciare una macchia indelebile in una vita intera. La Procura della Repubblica ritiene, infatti, che Mario Vittorio Niceta abbia costruito le sue fortune grazie all'appoggio dei pezzi da novanta della mafia. È scattato il sequestro preventivo di un patrimonio da 50 milioni di euro. Toccherà ai figli - Piero, Massimo e Olimpia - che ne hanno raccolto l'eredità imprenditoriale sobbarcarsi il peso della sua difesa, oltre che della loro. Di certo se ne va un cognome conosciuto da giovani e meno giovani. Da chi già negli anni Cinquanta comprava i tessuti nello storico negozio di via Roma e da chi, in epoca recente, ha seguito la moda nei tanti negozi con il marchio Niceta sparsi per Palermo e per altre città siciliane. Le fortune del gruppo sono nate nel punto vendita di via Roma, a pochi passi dalla stazione centrale, dove coppie di genitori arrivavano in treno dai paesi della provincia palermitana per comprare il corredo alle figlie prossime alle nozze. Nasceva la Niceta Srl, prima gestita dai fratelli Onofrio e Piero e poi, appunto da Mario. Negli ultimi anni, una grave malattia lo aveva costretto alla sedia a rotelle. Inevitabile che le sorti del marchio passassero ai tre figli che hanno differenziato l'attività. Non solo abbigliamento. E di recente il gruppo Niceta si è dovuto misurare con la crisi che lo ha obbligato ad una serie di operazioni di ristrutturazione dei debiti e di concordato preventivo per sanare le perdite. Poca cosa rispetto al ciclone giudiziario che si è di recente abbattuto anche su Mario Niceta. Su richiesta del Procura antimafia di Palermo e della Questura di Trapani a Mario e ai figli sono stati sequestrati tutti i beni. Carabinieri del Ros, poliziotti, finanzieri e agenti della Direzione investigativa antimafia sono giunti alla stessa conclusione: ci sarebbe la mafia dietro la scalata imprenditoriale. E la storia delle presunte contiguità illecite partono da lontano. Da quando Mario Niceta lavorava ancora con il calcestruzzo e sarebbe diventato il fornitore dei cantieri edili nella zona di Brancaccio per decisione dei capomafia della zona. Accuse pesanti ma anche ora tutte da verificare. Mario Niceta lascia la sua difesa in eredità ai figli.

Beni giudiziari confiscati: I negozi di Niceta, scrive Salvo Vitale su "Telejato" il 25 febbraio 2015. PROSSIMI ALLA CHIUSURA I NEGOZI NICETA. L’AMMINISTRAZIONE GIUDIZIARIA LI HA PORTATI AL FALLIMENTO. Stanno per chiudere i negozi Niceta, lo storico esercente palermitano che si occupa della vendita di capi di abbigliamento, accessori e preziosi. Anzi uno di essi, il punto vendita presso il centro commerciale Forum di Palermo, è già chiuso. Il peccato originale di Niceta Mario Vittorio Massimo, ovvero Niceta padre, è legato al possesso di una ditta di calcestruzzo in contrada Ciacculli-Brancaccio, che, secondo una dichiarazione del pentito Cannella, fatta nel 1995 davanti ai giudici Lo Forte e Di Lucia, sino al 1993 aveva come Amministratore unico Niceta Mario, e successivamente, sino al fallimento nel 1996,   un tal Conigliaro Giuseppe, ma i cui reali padroni erano Pino Greco, detto Scarpuzzedda, i fratelli Graviano e Nino Mangano per conto di Bagarella. Cannella è quello che riferisce anche di “ingenti somme di denaro versate tra il 1976 e il 1978 dalle famiglie di Totuccio Inzerillo e Stefano Bontade nelle attività imprenditoriali di Silvio Berlusconi” (4.3.1998): non risulta tuttavia che, nei confronti di Berlusconi, malgrado le dichiarazioni di Cannella siano state confermate da molti altri pentiti, da Spatuzza a Galatolo, sia mai stato emesso un decreto di confisca dei suoi beni. Solo per curiosità aggiungiamo che Cannella parla anche dell’arruolamento nei servizi segreti, per intercessione dell’on. Gava, allora ministro, di Emanuele Piazza, fratello di un tossicodipendente cui Pino Greco forniva droga, poi implicato nell’attentato dell’Addaura contro Falcone. Tornando a Niceta, la proprietà, solo nominale, dell’impianto, da parte del Niceta è anche confermata dal pentito Angelo Siino in una deposizione del 1998. A partire dal 1993 Niceta, tetraparaplegico, e quindi in una difficilissima condizione esistenziale, abbandona tutto e dichiara il fallimento delle aziende nelle quali c’era il suo nome. L’altro ostacolo su cui vanno a inciampare i fratelli Massimo e Piero Niceta, si trova a Castelvetrano, al momento, nel 2007, dell’assegnazione degli spazi del grande centro commerciale Belicittà, gestito dalla 6 G.D.O. di cui è patron assoluto Grigoli, che è compare di Filippo Guttadauro in quanto suo testimone di nozze, mentre Filippo Guttadauro è padrino di Federica Grigoli. Con questo i fratelli Niceta stipulano nel 2007 un contratto d’affitto di ramo d’azienda per l’installazione di due punti vendita, il Blue Spirit e il Niceta Oggi, ma commettono l’imprudenza (?) di inserire nel personale di lavoro Francesco e Maria Guttadauro, figli di Filippo Guttadauro, che ha sposato la sorella di Matteo Messina Denaro Rosalia, detta Rosetta e che, secondo i Niceta non riescono a trovare lavoro a causa delle loro parentele: va detto che Filippo Guttadauro è fratello di Giuseppe, un medico che risulta essere capo-mandamento di Brancaccio-Ciaculli, cioè uno di quelli che controllava la cava di Niceta padre e che è padrino di Massimo Niceta. Secondo le conclusioni dei giudici, i fratelli Guttadauro sarebbero i soci occulti dei due punti vendita di Belicittà i cui intestatori fittizi sarebbero invece i fratelli Niceta, titolari dell’azienda NI.CA. La guardia di Finanza parla addirittura di un rapporto “sinallagmatico” (sic!), ovvero di un inesistente contratto, secondo cui tra le parti sarebbero state concordate obbligazioni reciproche, cioè niente. Aggiungasi che nei pizzini sequestrati nel 2007 ai Lo Piccolo c’è uno strano biglietto, attribuito a Matteo Messina Denaro in cui è scritto “amico Massimo N.” e che esiste una intercettazione telefonica del 2000 in cui Massimo Niceta, dovendo aprire un punto vendita Moda Italia in corso Finocchiaro Aprile a Palermo, telefona a Filippo Guttadauro, lamentandosi di uno sconosciuto, andato a chiedergli informazioni e chiedendo, secondo la chiave di lettura degli inquirenti, un intervento del padre Giuseppe, suo padrino, ove si trattasse di richiesta di pizzo. Altro elemento addotto è la nomina del ventunenne Niceta Pietro, nel lontano 1991 come Amministratore della Tecnotra, società operante nel settore dei trasporti terrestri, marittimi e aerei, cui, nel 1992 subentrava il solito Conigliaro, che la metteva in liquidazione. Troviamo i nomi di Niceta Gioacchino e di Niceta Mario anche nel consiglio di Amministrazione della Parabancaria Consulting, una ditta che si è occupata di servizi bancari e parabancari, assicurativi e finanziari, sino al 1992, anno in cui si dimisero. C’è poi una serie di eventi nei quali entra in ballo l’on. Acierno, un deputato condannato nel 2012 a 6 anni per peculato e altre cose di questo genere, in stretto rapporto con i Guttadauro e con un tal Cappadonna, compare e “vivandiere” di Matteo Messina Denaro. Anche qua niente di penalmente rilevante, ma ce n’è abbastanza per disporre, prima da parte della procura di Trapani il sequestro dei due punti vendita di Castelvetrano, , poi, da parte della procura di Palermo, (2.12.2013) il sequestro di tutti e 16 punti vendita, case, azioni, depositi bancari, il tutto, persino un motociclo Piaggio, si dice, per un ammontare di 50 milioni di euro, sulla base di “evidenze indiziarie che fanno ritenere….”. L’amministrazione viene affidata, dalla dott.ssa Saguto, che dirige l’ufficio delle misure di prevenzione, a uno dei suoi pupilli, l’avvocato Aulo Gigante, già legale rappresentante del gruppo Aiello (Villa Teresa), il quale, in un primo tempo, si serve degli stessi fratelli Niceta per portare avanti la gestione dei negozi e disporre le ordinazioni e i pagamenti delle commesse, poi, rimproverato dalla Saguto, o essendosi accorto che la presenza del Niceta poteva costituire un forte ostacolo ai suoi progetti di speculazione, notifica ad Olimpia Niceta ( e quindi ai suoi fratelli) “l’interdizione della facoltà di accedere ai luoghi ove le attività in sequestro esplicano le loro attività aziendali nonché di sostare nei pressi delle medesime, con l’espresso divieto ad intrattenere rapporti di qualsiasi genere con i dipendenti” (16.10.2014). Neanche si trattasse di pericolosi terroristi! Da allora tutti i punti vendita cominciano a svuotarsi di merce e di persone con la prospettiva, entro nell’immediato breve tempo, forse qualche settimana, del fallimento, e con la seria preoccupazione dei 50 dipendenti di essere licenziati davanti alla chiusura di tutte le attività commerciali di quello che una volta fu l’impero dei Niceta. Il tutto con tanto di chiusura delle indagini e di proscioglimento da ogni accusa della famiglia Niceta, la cui richiesta viene fatta dai giudici Micucci e Guido, della Procura di Palermo già nel 2010. Nel frattempo il commissario giudiziario, tal Martina La Grassa, pagata con i soldi dell’azienda, dopo i 90 giorni di rito, presi per i dovuti accertamenti sul valore e sulla eventuale dolosa provenienza dei beni confiscati, si è preso altri 90 giorni e altri 90 se ne prenderà, in attesa che l’azienda chiuda. Tramite i propri legali i Niceta avevano presentato un piano di concordato preventivo ad un’assemblea dei creditori, ma pare che la cosa sia sfumata perché giudicata un’indebita intromissione nella gestione giudiziaria. Finisce nei guai, e i beni di sua proprietà, nonché quelli dei suoi parenti, sono messi sotto confisca e sommati a quelli dei Niceta, anche Vittorio Emanuele Orlando, un imprenditore di Terrasini, colpevole di avere sposato Olimpia Niceta, dalla quale si era separato nel 2012. Orlando, avendo dimostrato la sua estraneità, rientra in possesso dei suoi beni dopo qualche mese. In poco più di un anno di amministrazione giudiziaria il fatturato iniziale, inizialmente stimato in 20 milioni successivamente dimezzato, a causa della crisi, si è ulteriormente ridotto, soprattutto per il peso dei pagamenti dell’amministrazione, stimato in 500.000 euro finiti nelle tasche di Aulo Gigante e dei suoi sette collaboratori, che presentano fatture con esorbitanti spese di trasferta e sono pagati per un lavoro di controllo del tutto inutile. Queste passività sono andate a scapito dell’azienda, al punto che i dipendenti hanno dovuto piegarsi a un contratto di solidarietà, cioè rinunciare al 20% dello stipendio. Al momento. Per evitare licenziamenti e conseguente clamore mediatico, i dipendenti dei punti vendita chiusi sono spostati in quelli ancora aperti, facendo aumentare la passività nella gestione. Fornitori che aspettano di essere pagati e, senza garanzie non vogliono più fornire merce, scaffali vuoti, merce in liquidazione sono evidenti segnali di un’imminente chiusura.

L’ultima poco convinta proposta è di lasciare tutto nelle mani dei dipendenti, in una sorta di cooperativa che provi autonomamente a risollevare le sorti dell’azienda, oltre che continuare ad assicurare il pagamento dell’amministratore che ha procurato il dissesto. A costui si chiederebbe almeno un anno di attività libera da spese, prima di stipulare (guarda un po’!), un accordo per il pagamento di una quota di gestione. Cioè la cooperativa dovrebbe pagare una sorta di affitto o concessione, non chiamiamolo pizzo, all’amministratore giudiziario Gigante, che rappresenta lo stato, per poter far lavorare i soci-dipendenti. E’ tutto.

Negozi Niceta: L’amministratore giudiziario minaccia i dipendenti, scrive "Telejato" il 2 marzo 2015. MINACCIATI DI LICENZIAMENTO SE CI SARANNO ANCORA FUGHE DI NOTIZIE CON LA STAMPA. L’amministratore giudiziario dei negozi Niceta, Aulo Gigante, nominato dall’Ufficio misure di prevenzione di Palermo, dopo che il 2.12.2013 era stato disposto il sequestro dei beni dell’azienda, per sospetto di inquinamenti mafiosi, non ha gradito il nostro servizio, fra l’altro ripreso anche dal prestigioso sito “Antimafia Duemila” ed ha convocato i 90 dipendenti che ancora lavorano presso i punti vendita a lui affidati, minacciandoli di non riferire più alcun tipo di notizie alla stampa, pena il licenziamento o, cosa molto più probabile e imminente, la messa in part-time. Per quanto riguarda la famiglia Niceta ha lasciato capire che, dietro tutte le manovre che mirano a gettare discredito su di lui e, indirettamente sull’azienda a lui affidata, ci sono loro stessi e che ha intenzione, continuando così le cose, di sfrattarli dalla loro stessa casa di Mondello, bambini compresi, o, quantomeno di obbligarli a pagare l’affitto, essendo il bene attualmente sotto sequestro. Insomma, siamo davanti ad atteggiamenti padronali d’altri tempi e a misure, purtroppo consentite da una legislazione lesiva dei diritti umani che, si badi, può essere condivisa se si tratta di procedere nei confronti di mafiosi penalmente riconosciuti, ma che diventa arbitraria   quando le misure di prevenzione sono effettuate nei confronti di persone delle quali deve essere verificata la continuità con la mafia o la realizzazione del patrimonio con il concorso di capitali mafiosi. In tal senso il commissario giudiziario Martina La Grassa continua a chiedere rinvii di 90 giorni, che gli sono accordati, per verificare documenti semplicissimi, quali atti di proprietà di case portate spesso in eredità dai coniugi delle persone inquisite. La poverina lavora in modo indefesso, ma non ce la fa, anche perché i rinvii gli assicurano ogni volta tre mesi di parcella a spese dell’azienda. Ma andiamo ai negozi: ormai siamo alla stretta finale. L’avvocato Gigante ha ammesso diverse volte di essere un neofita, di non possedere l’esperienza e le conoscenze necessarie per mandare avanti la baracca, e si è servito di collaboratori e dipendenti da lui nominati, che si sono rivelati per alcuni aspetti figure parassitarie e inutili nella conduzione aziendale: Tra di questi , va citato, per aver ricevuto l’incarico di buyer, cioè di compratore, di addetto agli acquisti con i vari fornitori, un tal Caponnetto, titolare di un negozio di giocattoli, che di abbigliamento non capiva niente e che ha già procurato un calo delle vendite di circa il 40%. Per metterci una pezza Gigante ha creduto opportuno di affiancargli “la persona ideale”: si tratta di Patrizia Di Dio, vicepresidente della Camera di Commercio, titolare di 5 negozi di abbigliamento a Palermo “La vie en rose”, che, ha recentemente messo in vendita, magazzino compreso, visto che gli affari non gli vanno bene: a parte l’evidente conflitto d’interesse, non ci vuole molto a concludere che il tempo della fine è più vicino. Anche perché la signora Di Dio ha detto che lavorerà gratis, ma se si valuta che la sua prima commessa è stata fatta con il 40% di aumento rispetto alla precedente, non ci vuole molto a concludere che costose trasferte e differenze di valore finiranno tutte col pesare sul bilancio del gruppo Niceta. I dipendenti sono pronti a formare una cooperativa e a gestire autonomamente i punti vendita, ma è chiaro che in tutto questo ci vuole l’intervento dello stato e la decisione di sganciare dalle mani voraci che la governano, tutta la gestione dell’azienda. Cioè niente. Riassumiamo le cause di un fallimento annunciato: mancata programmazione degli ordini, presenza inutile del personale assunto dall’amministrazione giudiziaria, per sorvegliare i punti vendita, , per non parlare di un elemento rilevato dai dipendenti stessi, ovvero la “mancanza di disponibilità al sacrificio lavorativo”, che tradotto in termini in termini volgari significa non avere alcuna voglia di lavorare, pagamento di indennità di trasferta sovradimensionate, concessione di ferie in modo arbitrario, mancata presenza sui posti da amministrare, poiché Gigante è anche amministratore della Italgas, un’azienda che si trova in puglia, dove egli si reca per tre giorni la settimana, mancato pagamento di alcuni fornitori, incapacità di gestire commercialmente una realtà di dimesioni più vaste di un semplice negozio, ma soprattutto atteggiamenti autoritari e scarsa disponibilità al rapporto con i lavoratori. E se questo significa rappresentare lo stato, siamo proprio messi male.

A proposito di Amministratori giudiziari e Niceta, scrive "Telejato" il 17 marzo 2015. ABBIAMO RICEVUTO UNA LETTERA INVIATA DALL’AVV. PIETRO MILONE, CON RICHIESTA DI RETTIFICA DI ALCUNE AFFERMAZIONI FATTE NEI CONFRONTI DELL’AVV. MARTINA LA GRASSA DA NOI FATTE IN DUE ARTICOLI DI SALVO VITALE RIGUARDANTI I FRATELLI NICETA. QUESTA LA NOSTRA RISPOSTA. Gentile avvocato, in risposta alla sua del 12 c.m. , con qualche giorno di ritardo, rispetto all’intimazione perentoria di due giorni da lei stabilita, dovuto a problemi personali, rispondo, anche a nome del direttore del telegiornale Riccardo Orioles e del titolare di Telejato Pino Maniaci, con una prima considerazione, più che altro una curiosità: come mai la dott.ssa Martina La Grassa, sua assistita, che è già un avvocato e, se non siamo in errore, ha un padre avvocato civilista con uno studio in via Libertà e un altro in via Rapisardi, dove abita lei stessa, invece di chiedere personalmente la richiesta di rettifica si è rivolta a un altro avvocato? Si tratta di una richiesta di rettifica di un privato che si ritiene parte lesa a un altro privato che è o dovrebbe essere responsabile dell’errore.  Sul cerchio degli avvocati che ruota attorno alla Procura e, in particolare all’ufficio misure di prevenzione, ci siamo già occupati in altri articoli e vogliamo sperare che lei e la sua assistita non siano in quella “quota”. Ma andiamo ai fatti: non siamo riusciti a capire in che cosa consista l’offesa all’onore e alla reputazione della dott.ssa La Grassa: forse nel fatto che si ipotizzano rinvii e proroghe nella consegna del lavoro commissionato dalla procura? Se l’incarico di commissario giudiziale è cessato il 4 aprile 2014, quand’è iniziato?  Si presume che la data sia stata quella del 2.12.2013, cioè quella del sequestro dei beni dei Niceta e, in tal senso sarà stato possibile qualche rinvio, ma c’è da fare un apprezzamento alla dott.ssa La Grassa per avere svolto il suo lavoro in circa quattro mesi, cioè nei tempi richiesti, o quasi, cosa che non si può dire di altri suoi colleghi. Giusta invece la richiesta di rettifica, relativa all’incarico, ricevuto dall’avv. Martina La Grassa di commissario nominato dal tribunale fallimentare per il concordato, mentre è il dott. Fabio Ferrara il perito nominato dal tribunale di Palermo per la perizia: evidentemente abbiamo erroneamente scambiato le competenze. Per il resto è giusta la precisazione, a noi nota che la parcella viene calcolata facendo riferimento all’ ammontare dell’attivo e del passivo risultanti dall’inventario redatto ai sensi dell’art.172 della legge fallimentare, ma la presunzione di dilatazione dei tempi, come abbiamo già ammesso, è stata dovuta a un errore nello scambio delle competenze e degli incarichi affidati dal tribunale.  Si noti altresì che tra l’incarico di “redigere l’inventario” o quello di “verificare documenti e atti di proprietà”, ci pare non possa esserci qualche errore nell’attribuzione delle competenze, ma non ci sono elementi che possano causare offesa e danno all’immagine della dott.ssa La Grassa, alla quale, comunque va dato atto di avere svolto il lavoro in tempi rapidi. La presente sarà letta nel corso dell’odierno telegiornale. Ove ci siano altre cose da rettificare prego la S.V. di preparare lei stesso un comunicato di rettifica, scritto in termini giornalistici, cioè accessibili al telespettatore, che siamo pronti a sottoscrivere.

Partinico 17.3.2015

Salvo Vitale, Pino Maniaci, Riccardo Orioles

Cena a casa Saguto. Con il tonno "sequestrato" alla mafia, scrive Venerdì 16 Ottobre 2015 Riccaro Lo Verso su “Live Sicilia”. C'è anche questo nelle intercettazioni dell'inchiesta della Procura di Caltanissetta che coinvolge l'ex presidente della Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Ed ancora: le conversazioni con altri magistrati, siciliani e non, quelle con il padre e con l'avvocato Cappellano Seminara.  - Silvana Saguto aspettava un ospite illustre a cena, il prefetto. E così a casa sua sarebbero stati recapitati sei chili di tonno. Provenivano da un'amministrazione giudiziaria importante. "Un regalo" per l'ex presidente della sezione Misure di prevenzione. C'è anche questo nelle intercettazioni dell'inchiesta della Procura di Caltanissetta sulla gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. In una delle conversazioni registrate è rimasta impressa la voce del magistrato che chiedeva al suo interlocutore il pesce per la cena. All'indomani ecco i complimenti: era tutto buonissimo e gli ospiti erano rimasti molto soddisfatti. La conversazione si sarebbe poi spostata sull'incarico che stava per scadere visto che il procedimento era ormai giunto in Cassazione. Stava per arrivare il bollo definitivo o l'annullamento del provvedimento adottato dal Tribunale presieduto dalla Saguto. In ogni caso, sia che il bene fosse passato sotto il controllo dell'Agenzia nazionale per i beni confiscati sia che fosse stato restituito al proprietario, l'incarico dell'amministrazione giudiziaria sarebbe venuto meno. E i due affrontavano la questione, discutendo anche di eventuali nuove nomine per il futuro. Di telefonate ce ne sono parecchie. Tutte intercettate nei quattro mesi, da maggio ad agosto, in cui i finanzieri del Nucleo di polizia tributaria hanno ascoltato le conversazioni della Saguto e degli altri protagonisti dell'inchiesta. Tra questi il padre del magistrato, Vittorio Saguto, pure lui indagato per concorso in autoriciclaggio. Padre e figlia parlavano di qualcosa che non si trovava, ma che andava cercato e preso. Non è escluso che anche sulla base di questi passaggi sia stato necessario l'intervento urgente dei finanzieri nei giorni in cui facevano irruzione in Tribunale e a casa degli indagati per le perquisizioni e i sequestri. C'era qualcosa che andava trasportato o trasferito in fretta dall'abitazione del genitore del magistrato a Piana degli Albanesi? Soldi o tracce di passaggi di denaro tali da fare scattare l'ipotesi del riciclaggio? Così come si indaga su alcuni spostamenti dell'avvocato Cappellano Seminara, il più noto fra gli amministratori giudiziari. In altre conversazioni emergerebbe il presunto utilizzo disinvolto della macchina blindata per recuperare oggetti dimenticati a casa o accompagnare alla fermata dell'autobus persone che non avrebbero avuto alcun diritto di salire a bordo. Dal più assoluto riserbo investigativo trapelano pochissimi particolari che qualcuno bene informato definisce "poca roba" rispetto a quanto resta confinato nel recinto del segreto investigativo. Lo testimoniano i tanti, tantissimi omissis che coprono gli atti dell'indagine. Compresi quelli che riempiono le trascrizioni delle conversazioni fra il magistrato e altri colleghi, della stessa sezione per le Misure di prevenzione e non, siciliani ma anche romani.

Caso Saguto ai raggi X al Csm: "Mi serve il pesce fresco per la cena col prefetto". Il tema dei regali a Silvana Saguto da parte degli amministratori giudiziari è l'asse portante dell'atto d'accusa del Consiglio superiore della magistratura, scrive il 16 ottobre 2015 Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. E' il ritratto di una corte quello che emerge dall'inchiesta del nucleo di polizia tributaria della finanza e dei pm di Caltanissetta. Una corte di amministratori giudiziari, e non solo loro, che facevano a gara per ingraziarsi il presidente delle Misure di prevenzione attraverso regali e favori. L'amministratore giudiziario Mario Caniglia, che gestisce Torre Artale, regalò sei chili di ventresca a Silvana Saguto per una cena col prefetto. Era stato il giudice a rivolgersi a lui. E fu accontentata. "È un regalo", ribadì al telefono Caniglia. Sollecitando poi -  neanche tanto velatamente -  altri incarichi. Il 28 agosto, la Saguto era soddisfatta per l'ottima cena: "Il prefetto era impazzita letteralmente -  diceva all'amministratore -  una cosa così non l'ha mai mangiata". Il tema dei regali a Silvana Saguto da parte degli amministratori giudiziari è l'asse portante dell'atto d'accusa del Consiglio superiore della magistratura. Il cuore delle sette pagine anticipate ieri da Repubblica è "il quadro di natura corruttiva che sarebbe emerso tra la Saguto e l'avvocato Cappellano Seminara, nonché tra la Saguto e il ricercatore Carmelo Provenzano". Gli investigatori ritengono che Cappellano abbia dato non solo i 750 mila euro di incarichi al marito del giudice e un contratto da 1.200 euro al figlio chef: si indaga pure su 20 mila euro in contanti che un architetto avrebbe consegnato a Cappellano, il sospetto è che questi soldi possano essere finiti al giudice. Il ricercatore della Kore Provenzano "aveva invece sostituito Cappellano come amministratore di fiducia della Saguto", scrive il Csm. E anche lui non avrebbe mancato di ringraziare il giudice: è accusato di aver fatto la tesi a suo figlio, poi avrebbe "consegnato ripetutamente alla Saguto cassette di frutta e verdura ". Per i pm coordinati da Lia Sava e per il Csm, "atti diretti a compiacere la Saguto ". Cappellano e Provenzano sono già indagati, la posizione di altri amministratori è al vaglio del pool composto da Cristina Lucchini e Gabriele Paci, che lavorano a stretto contatto con i finanzieri del Gruppo tutela spesa pubblica della tributaria, i protagonisti di questa indagine. "La dottoressa Saguto risulta iscritta anche per abuso d'ufficio  -  avverte il Csm  -  in relazione ad una non meglio precisata vicenda di assunzione clientelare nell'ambito di un'amministrazione giudiziaria ". Ci sono poi delle "condotte" della Saguto che pur non "penalmente rilevanti", dice il Csm, sono "comunque suscettibili di valutazione critica". Il primo capitolo: "Indebito utilizzo del personale di scorta in sua assenza per la soddisfazione di esigenze private". Gli agenti, interrogati, hanno raccontato che erano mandati a fare la spesa, a ritirare abiti in lavanderia, oppure ad accompagnare amici e parenti del giudice. "Servizio taxi", lo chiamavano.

Tiengo famiglia: la Saguto ha un debito da 18 mila euro, scrive il 15 ottobre 2015 Salvo Vitale su "Telejato". OGNI  GIORNO SE NE SCOPRONO DI NUOVE: IERI È STATA LA VOLTA DELLA COLLANA REGALATA DA CAPPELLANO, MA PER AMMISSIONE DELLO STESSO GIUDICE, QUESTO È STATO UNO DEI TANTI REGALI, ANCHE PIÙ COSTOSI, RICEVUTI DALLA SAGUTO. Di ieri pure la notizia della tesi scritta dall’esimio prof. Provenzano al figlio svogliato, ma oggi si scopre che l’altro figlio Crazy, cioè pazzo, ha ricevuto da Cappellano un incarico di oltre mille euro per un lavoro nella sua agenzia, oggi si scopre addirittura che nel supermercato Sgroi, dato in amministrazione giudiziaria dal giudice Vincenzi ad uno dei quotini, cioè l’avvocato Scimeca, un nome che ritorna spesso, la Saguto aveva accumulato una spesa di circa 18 mila euro (si vede che mangiava spesso e bene) già da molto tempo e che il marito Caramma che sorpresa, ha cercato di coprire in parte con un assegno di 10 mila euro. E, dulcis in fundo, gli avvocati della Saguto, Crescimanno e Pezzano rinunciano all’incarico per divergenze su come impostare la linea di difesa. Quindi la depressione ci sta tutta e minaccia di tornare per la povera Silvana, con un debito grosso da pagare, con la guardia di finanza dentro casa, con gli avvocati che non vogliono più difenderla e persino con un figlio che non vuole studiare, con un altro che è pazzo per sua definizione e che sa fare solo il cuoco. Degli altri familiari non diciamo niente. Però la famiglia è importante.

Beni sequestrati a mafia, “Saguto aveva un debito da 18mila euro in un supermarket confiscato”. La Guardia di Finanza, come spiega il Giornale di Sicilia, ha prelevato alcuni documenti nel supermarket Sgroi di via Autonomia Siciliana, confiscato a un imprenditore considerato vicino ai boss Lo Piccolo nel 2011. Tra le carte anche il conto non pagato dall'ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale - indagata per corruzione, induzione e abuso d'ufficio - da 18.451 euro, saldato solo in parte (un bonifico da diecimila euro) e negli ultimi giorni dal marito, Lorenzo Caramma, anche lui indagato nell'inchiesta, scrive Giuseppe Pipitone su "Il Fatto Quotidiano" il 15 ottobre 2015. Per tre anni si è rifornita nel supermercato confiscato a Cosa nostra, pagando raramente il conto, e lasciando un debito sospeso pari a 18.451 euro. A Palermo il confine tra mafia e antimafia subisce un ulteriore colpo dagli ultimi atti acquisiti nell’inchiesta su Silvana Saguto, l’ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale, indagata per corruzione, induzione e abuso d’ufficio. La Guardia di Finanza, come spiega il Giornale di Sicilia, ha sequestrato alcuni documenti nel supermercato Sgroi di via Autonomia Siciliana, confiscato ad un imprenditore considerato vicino ai boss Lo Piccolo nel 2011. Tra quella documentazione anche il conto non pagato della Saguto, che ammonta, appunto, a 18.451 euro, saldato solo in parte (un bonifico da diecimila euro) e negli ultimi giorni dal marito del giudice, Lorenzo Caramma, anche lui indagato nell’inchiesta. “Mi sono sempre rifornita in quel supermercato e pagavo le spese mensilmente: in ogni caso non mi sono mai occupata di quella misura di prevenzione”, si è difesa Saguto. L’amministratore giudiziario dei supermercati, Alessandro Scimeca, nelle scorse settimane aveva chiesto il pagamento del debito, trovandosi in una situazione imbarazzante perché Saguto era comunque la presidente della sezione di tribunale che gli aveva conferito l’incarico. Il magistrato, in ogni caso, ha annunciato di avere chiesto trasferimento a Milano: una decisione presa per anticipare il provvedimento di trasferimento d’ufficio aperto nei suoi confronti da parte del Csm. Oltre alla Saguto, la procedura di trasferimento è stata aperta anche per gli altri quattro magistrati coinvolti nell’inchiesta e cioè per Lorenzo Chiaramonte e Fabio Licata, entrambi in servizio alla sezione misure di prevenzione, per il pm Dario Scaletta, accusato di rivelazione di segreto, e per Tommaso Virga, ex membro togato del Csm e ora presidente di sezione a Palermo, padre di Walter Virga, da pochi giorni ex amministratore giudiziario dei beni della famiglia Rappa. Palazzo dei Marescialli nel frattempo ha aperto anche un’altra pratica, pendente alla settima commissione, per fare luce sulla gestione dei beni confiscati alla mafia. A chiedere un nuova indagine sulla gestione Saguto è stato il consigliere laico di Forza Italia Pierantonio Zanettin, che in prima commissione è il relatore del fascicolo sul “caso Palermo”. La nuova pratica è stata aperta per verificare la “congruità delle scelte organizzative e il rispetto delle disposizioni tabellari”, e cioè se la gestione del magistrato sotto inchiesta abbia violato le regole anche sul versante degli emolumenti liquidati agli amministratori giudiziari. Proprio oggi a Palazzo dei Marescialli è stato ascoltato il presidente dell’ordine degli avvocati di Palermo, Francesco Greco, che ai membri del Csm ha parlato di vero e proprio “caos organizzativo” della sezione misure di prevenzione, confermando il “clima di sfiducia e di grande disagio” che ha colpito l’ufficio giudiziario dopo l’inchiesta aperta dalla procura di Caltanissetta. Lunedì 19 ottobre, invece, sono previste le audizioni del presidente della corte d’appello di Palermo Gioacchino Natoli, del procuratore generale Roberto Scarpinato e del presidente dell’Anm di Palermo Matteo Frasca. Il giorno successivo è il turno del presidente della Camera penale palermitana Antonino Rubino, che nelle scorse settimane, ha chiesto di “azzerare” la sezione misure di prevenzione e di trasferirne le competenze alle sezioni ordinarie. A quel punto il Csm dovrà decidere quando convocare i cinque magistrati coinvolti dall’inchiesta che imbarazza il mondo dell’antimafia.

Silvana e le continue sorprese: spunta anche un giornalista nell’inchiesta della Procura, scrive il 16 ottobre 2015 Danilo Daquino su "Telejato". SILVANA NON FINISCE MAI DI STUPIRCI. Dopo la collana ricevuta in regalo da Cappellano e il debito da 18 mila euro presso il supermercato Sgroi, concesso in amministrazione giudiziaria, dal giudice Vincenzi, ad uno dei quotini, cioè l’avvocato Scimeca (un nome che ritorna spesso), adesso viene fuori che la signora aveva rapporti privilegiati con giornalisti che celebravano e vantavano le sue attività svolte all’interno della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. A renderlo noto è il Csm: “Propalazione delle notizie relative ad un immobile confiscato ad un giornalista che lo aveva chiesto in assegnazione con l’intento di destinarlo a sede dell’Assostampa, in cambio, da parte sua, della redazione di interviste e articoli celebrativi pubblicati su Il Giornale di Sicilia”. Un piano perfetto che avrebbe garantito alla signora Silvana massima copertura da più punti di vista, in cambio del bene che avrebbe fatto comodo a numerosi giornalisti siciliani e non solo al Giornale di Sicilia. Basti pensare alla notizia di qualche mese fa che annunciava “La mafia vuole uccidere la Saguto”, fatta sfuggire ad arte da un funzionario della Dia (bingo!) finito nel registro degli indagati. Articoli inventati con lo scopo di rafforzare e tutelare l’immagine dell’illustre magistrato e pubblicati su giornali buoni solo per incartarci le sardine! Non tarda a rispondere alle accuse l’Assostampa, sindacato dei giornalisti: “Il Consiglio regionale dell’Associazione siciliana della Stampa, nella riunione del 27 aprile 2015 tenuta ad Agrigento, aveva dato mandato a un suo componente di informarsi, presso le sedi competenti, sui passaggi che bisognava compiere per arrivare all’affitto di un bene confiscato alla mafia. Di tutto questo c’è traccia nel verbale di quella seduta. A oggi, comunque – prosegue la nota – non è stato ancora presentato alcun atto formale di richiesta. Quanto al riferimento del Csm a ‘interviste e articoli celebrativi’ come presunta merce di scambio, è una ipotesi del tutto impensabile e fuori dalla realtà: per il semplice fatto – conclude – che nessun giornalista, a maggior ragione se è anche un dirigente sindacale, sarebbe in grado di garantire una cosa del genere visto il sistema di competenze e controlli interni che regola un giornale”. Insomma, nel caso ci sono ancora troppi lati oscuri da chiarire. Intanto all’interno del tribunale di Palermo, ormai al centro della cronaca italiana, si respira un clima pesante. Una pesantezza che si sarebbe potuta evitare se gli indagati avessero portato avanti la giustizia nell’ottica della legalità. La ciliegina sulla torta, oggi, la mettiamo sulle testimonianze degli agenti di scorta che, interrogati, hanno raccontato di essere stati utilizzati come “servizio taxi” per fare la spesa, ritirare vestiti in tintoria o accompagnare addirittura amici e parenti del giudice. Caramma che sorpresa!

Non ci lasciare, Silvana…scrive Salvo Vitale su "Telejato". APPRENDIAMO DAL GIORNALE DI SICILIA, CON IL SOLITO ARTICOLO SCRITTO “SU MISURA” E AL MOMENTO GIUSTO, DA RICCARDO ARENA, CHE SILVANA SAGUTO, DOPO LA BUFERA CHE LE È CADUTA ADDOSSO, HA DECISO DI ANDARSENE, NATURALMENTE PRIMA CHE IL CSM POSSA DISPORRE IL SUO TRASFERIMENTO PER INCOMPATIBILITÀ AMBIENTALE. In questo caso si tratterebbe di una punizione, il trasferimento volontario invece sarebbe una sua scelta. L’articolo parte dalla solita scusa che in questi giorni abbiamo sentito spesso: “Vogliono fermarci”. E sì, signor giudice, può darsi che anche i mafiosi vogliano fermarla, ma noi ci proviamo per tutt’altre ragioni, legate al ripristino della legalità, della funzionalità e della “giustizia giusta” nell’ufficio sinora da lei presieduto. Apprendiamo dalle sue dichiarazioni che ha un figlio svogliato, che lo ha affidato alle cure di un suo pupillo, il chiarissimo professore di tre università Carmelo Provenzano, pare di capire, sulla base di quanto dice lei stessa, che gli ha scritto la tesi, o forse che gli ha fatto da consulente. Apprendiamo che il solito Cappellano, per il suo compleanno, le ha regalato una bella collana. Ma guarda un po’! Ai comuni mortali si regala un profumino o una borsa, a lei una collana, un regalo che si fa solitamente alle mogli. Mah!!!! Apprendiamo anche che lei versa in qualche difficoltà economica, malgrado tutti i soldi delle consulenze incassati da suo marito. Insomma, una buona madre di famiglia che pensa anche a farsi aiutare da suo padre. E infine che vuole andarsene a Milano o a Catania. Le consigliamo Milano, lì la giustizia funziona un po’ meglio e lei stessa avrà possibilità di dare e ricevere un contributo. Intanto da qualche giorno le udienze alle misure di prevenzione cominciano alle 10 e non a mezzogiorno, come quando c’era lei, il Cappellaccio è sempre là con una decina di suoi quotini che lo guardano in attesa di ordini, i tempi delle udienze sembrano essersi notevolmente accorciati, pare che il suo sostituto, il dott. Fontana non starà ancora a lungo al suo posto e sarà sostituito dal dott. Montalbano. Che non è il commissario di Camilleri. Insomma, se le premesse sono giuste, sembra ci stiamo avviando alla normalità. Le sembra niente?

"Saguto cercò notizie riservate". Le accuse del Csm, scrive "Telejato". L'inchiesta della procura di Caltanissetta riguarda la gestione delle nomine degli amministratori giudiziari dei beni sequestrati alla mafia.RMO - Avrebbe "mobilitato persone di sua conoscenza per acquisire notizie riservate presso gli uffici giudiziari di Caltanissetta e Palermo sull'esistenza di un procedimento penale che dal capoluogo siciliano avrebbero mandato ai colleghi nisseni". C'è anche questo nel lungo elenco di accuse che il Consiglio Superiore della Magistratura contesta al giudice Silvana Saguto, ex presidente della sezione misure di prevenzione di Palermo, sotto inchiesta a Caltanissetta per corruzione e abuso d'ufficio. La prima commissione del Csm ha aperto nei suoi confronti e di altri quattro magistrati, anche loro indagati, un procedimento per il trasferimento d'ufficio. Saguto, nel frattempo, ha fatto domanda di trasferimento. Sulle toghe coinvolte grava anche un possibile procedimento disciplinare: il pg della Cassazione ha avviato, infatti, accertamenti sul caso. L'inchiesta nissena - parte degli atti sono stati inviati al Csm che, anche sulla base delle carte ricevute ha potuto avviare il procedimento per il trasferimento - riguarda l'illecita gestione delle nomine degli amministratori giudiziari dei beni sequestrati alla mafia. Quel che viene fuori è però un sistema più ampio basato su scambi di favori e condotte, quando non illecite, "suscettibili di valutazioni critiche", scrive la prima commissione di Palazzo dei Marescialli. Tra gli episodi elencati dal Csm la nomina del figlio del giudice Tommaso Virga, Walter, amministratore giudiziario di un patrimonio milionario, in cambio di un presunto intervento del padre, ex consigliere di Palazzo dei Marescialli, in un procedimento disciplinare riguardante la Saguto. E ancora pressioni del giudice su Walter Virga perché facesse entrare nel proprio studio la compagna del figlio, e l'esistenza di "un rapporto corruttivo" tra il magistrato e uno dei principali amministratori giudiziari della città, l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara. Quest'ultimo avrebbe assegnato consulenze al marito della Saguto, anche lui indagato, e fatto lavorare il figlio nella sua società, la Tourism Project srl. Nell'inchiesta spunta anche il nome di un altro amministratore giudiziario, Carmelo Provenzano, ricercatore all'università di Enna: avrebbe fatto la tesi all'altro figlio del magistrato e regalato al giudice diversi generi alimentari di una attività da lui amministrata. Il trasferimento potrebbe riguardare anche il pm Dario Scaletta, indagato per rivelazione di segreto istruttorio, e i giudici Lorenzo Chiaramonte, accusato di abuso d'ufficio e Fabio Licata, accusato di concorso in corruzione aggravata. Infine a Saguto si contesta l'avere instaurato rapporti "privilegiati" con alcuni giornalisti in cambio di campagne di stampa a lei favorevoli. (ANSA).

Caso Saguto, gli avvocati rinunciano alla difesa del giudice, scrive “Il Giornale di Sicilia” il 14 Ottobre 2015. Gli avvocati Francesco Crescimanno e Roberta Pezzano hanno annunciato che rinunceranno al mandato difensivo del giudice Silvana Saguto, ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo indagata per corruzione dalla procura di Caltanissetta nell'ambito di una inchiesta su illeciti nelle nomine degli amministratori giudiziari dei beni sequestrati a Cosa nostra. Dietro la rinuncia al mandato ci sono differenti visioni della strategia difensiva. I legali hanno reso noto che rinunceranno anche al mandato difensivo del figlio, del marito e del padre del giudice, anche loro coinvolti nell'indagine. Dietro la scelta degli avvocati ci sarebbero le dichiarazioni rilasciate oggi dal magistrato al Giornale di Sicilia.

Bufera sulla Bindi per lo scandalo dei beni della mafia, scrive di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. L'inchiesta della procura di Caltanissetta sul giudice Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo, rischia di avere un effetto domino e di coinvolgere i cosiddetti professionisti dell'Antimafia. Si indaga per «fatti di corruzione, induzione, abuso d' ufficio» legati agli incarichi conferiti al re degli amministratori giudiziari siciliani, l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, il quale a sua volta avrebbe pagato consulenze per oltre 750 mila euro all'ingegnere Lorenzo Caramma, marito della stessa Saguto. Nei mesi scorsi l'ex direttore dell'Agenzia nazionale per i beni confiscati, il prefetto Giuseppe Caruso, aveva denunciato i presunti conflitti d' interesse di Cappellano Seminara. Per questo l'alto funzionario nel 2014 venne convocato dal presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi e i due diedero vita a un aspro confronto. Bindi parlò di «effetto delegittimazione» e di «un'accusa generalizzata al sistema» e «a magistrati che rischiano la vita». Caruso, contattato da Libero, replica: «Ora qualcuno dovrebbe confessare come stanno effettivamente le cose e più di qualcuno dovrebbe dimettersi, dovrebbe essere consequenziale alle cose che ha detto, se non corrispondono a verità…». Caruso non fa il nome della Bindi, ma ammette che in quell'audizione la parlamentare piddina dimostrò «di non aver approfondito bene il problema o di aver percepito in maniera distorta» le sue dichiarazioni. Caruso denuncia da molti anni le criticità della legge sulla confisca dei beni mafiosi: «Ma durante l'audizione, mentre proponevo le mie soluzioni, mi interruppe spesso e io non sono riuscito a comprendere quel suo atteggiamento». Forse era frutto di un approccio ideologico al tema dell'antimafia? «Per esempio... Io, da tecnico non posso affermarlo, ma per qualcuno, visto che non è un'esperta della materia, potrebbe essere stata strumentalizzata da Giuseppe Lumia (senatore del Pd ndr) che in Sicilia è il campione dell'antimafia. Da prefetto (di Palermo ndr) a Lumia qualche bacchettata l'ho data». Nel frattempo, ieri, il presidente del Tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale, sembra aver scaricato la Saguto, denunciando la difficoltà di ricevere informazioni certe sui beni assegnati: «Nonostante la complessa interlocuzione con il presidente della sezione non sono ancora pervenuti i dati richiesti». Cappellano Seminara, da parte sua, ha rilasciato dichiarazioni che potrebbero scoperchiare un nuovo verminaio nel sistema giudiziario isolano: «Osservo che in tutti i tribunali siciliani congiunti dei magistrati che ivi prestano servizio, ricevono quotidianamente, da altri magistrati dello stesso tribunale, incarichi sia quali avvocati, curatori, consulenti, amministratori giudiziari, senza che ciò dia luogo ad ipotesi corruttive. Diversamente, chi è in qualche modo legato da parentela con un magistrato non potrebbe svolgere alcuna attività libero-professionale nei distretti delle corti d' appello ove il congiunto esercita le sue funzioni, cosa che, invece, avviene costantemente».

Caro Claudio Fava, Telejato Notizie sapeva e ha denunciato, scrive Salvo Vitale su “Telejato” il 10 ottobre 2015.  CLAUDIO FAVA HA DICHIARATO: “C’È UN PUNTO DI CUI NESSUNO CI HA MAI PARLATO, OVVERO CHE IL MARITO DELLA PRESIDENTE DELLA SEZIONE MISURE DI PREVENZIONE DEL TRIBUNALE DI PALERMO, SILVANA SAGUTO, AVESSE UNA PREZIOSA CONSULENZA CON LO STUDIO DEL COMMERCIALISTA CHE SI OCCUPAVA DELLA MAGGIOR PARTE DEI BENI SEQUESTRATI”. Caro Claudio, a parte il fatto che Cappellano Seminara non è un commercialista, ma un avvocato, non è giusto né corretto che tu faccia questa affermazione. Già un anno fa, quando è esploso il problema, ti sei schierato a fianco della Bindi, per “tutelare” l’immagine di un settore della procura di Palermo di cui da tempo avevamo denunciato le malefatte e lo strano modo di procedere. Le denunce del prefetto Caruso sono state pressoché ignorate e tutto è stato lasciato al suo posto. Anche quando sei venuto a farci visita ti abbiamo informato su quello che c’era sotto: hai abbassato il capo, dicendoci che bisognava intervenire, ma forse eri distratto. Invece di lasciarsi prendere dalla paura di una destabilizzazione della magistratura, cosa peraltro ripetuta in questi giorni dal giudice Morosini, sarebbe stato più utile, anche per la storia che ti porti appresso, chiedere di far pulizia all’interno di essa, anche perché la fiducia del cittadino non si conquista facendo credere che tutto è a posto, anche se tutto va male, ma intervenendo per far pulizia e mettere davvero tutto a posto quando bisogna eliminare lo sporco in casa. Bastava andare a Villa Teresa, dove la scandalosa amministrazione del pupillo di Cappellano Seminara, Dara, che gli ha regalato un milione di euro per una consulenza, ha prodotto danni economici e gestionali incalcolabili, per renderti conto che la sig.ra Saguto Silvana, il sig Caramma Elio, suo figlio, e il sig Caramma Lorenzo, suo marito, hanno effettuato radiografie, risonanze magnetiche, cervicale, dorsale, spalla, ginocchio senza che il loro nome risulti nella lista dei pagamenti. Bastava chiedere alla sig.ra Saguto una motivazione sul perché tanti incarichi nelle mani di poche persone e sul perché si sono emessi decreti di confisca quando la magistratura penale aveva escluso la provenienza mafiosa del bene. Bastava. E invece non sì è fatto niente. È facile dire che non sapevamo… è difficile crederci!

Ancora veleni menzogne e ombre, scrive Pino Maniaci su “TeleJato”. “IN TEMPI NON SOSPETTI, E IN TUTTE LE SEDI ISTITUZIONALI E NON, HO RAPPRESENTATO TUTTE LE CRITICITÀ RISCONTRATE” NELLA GESTIONE DEI BENI SEQUESTRATI E CONFISCATI “E PROPOSTO LE RELATIVE SOLUZIONI. ORA QUALCUNO DOVRÀ GIUSTIFICARSI E QUALCUN ALTRO FORSE DIMETTERSI…”. E’ il lapidario commento all’Adnkronos del Prefetto Giuseppe Caruso, ex Direttore dell’Agenzia dei Beni confiscati, sull’avviso di garanzia alla Presidente della sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, accusata di corruzione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio, insieme con il marito Lorenzo Caramma e all’avvocato Gaetano Cappellano Seminara. L’inchiesta è coordinata dalla Procura di Caltanissetta e riguarda la gestione dei beni confiscati. In passato, Caruso aveva più volte denunciato alla Commissione nazionale antimafia, presieduta da Rosi Bindi, l’uso “a fini personali” che avrebbero fatto alcuni amministratori giudiziari dei beni a loro affidati. In questo modo, secondo Caruso, avrebbero “bloccato il conferimento dei beni agli enti destinatari”. Gli stessi amministratori avrebbero percepito “parcelle stratosferiche” e mantenendo poltrone dei consigli di amministrazione delle aziende confiscate, così da fare “il controllato e il controllore”. Il nome che Caruso ha fatto più spesso in proposito è quello dell’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, che ha gestito una grande fetta dei patrimoni confiscati in Sicilia, in particolare quella del sequestro al costruttore Vincenzo Piazza. All’epoca Bindi aveva parlato di un “effetto delegittimazione” e di “un’accusa generalizzata al sistema” e “a magistrati che rischiano la vita”. E Caruso aveva ribattuto: “Dire che ho inteso delegittimare l’autorità giudiziaria non corrisponde a verità”. Oggi Caruso, che invita qualcuno a giustificarsi e qualche altro a dimettersi, non fa nomi, ma il riferimento sembra evidente, la Presidente dell’Antimafia Rosi Bindi, oltre alla Presidente Misure prevenzione Silvana Saguto. È un mondo a parte, inesplorato nonostante sia sotto gli occhi di tutti, quello dei beni confiscati alla mafia. E ogni tanto, ormai con sempre maggiore inquietante frequenza, si scopre che le cose non vanno come andrebbero e che ci sarebbe chi ne approfitta. La montagna di risorse requisite alle mafie potrebbe risanare le casse dello Stato – e non può certo sorprendere che ci sia competizione all’interno e che si sgomiti per gestire le risorse ed i beni immobili sequestrati. Ma il sistema è saturo, il giro di interessi sempre più fitto, e la competizione sempre più aspra. Il prefetto Caruso ha lanciato l’allarme, indicato le criticità e messo in moto un meccanismo di verifica, che ha provocato indagini. La Procura di Caltanissetta, guidata da Sergio Lari, a conclusione di una prima fase di indagini, ha indagato Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione, l’avvocato Cappellano Seminara, considerato il plenipotenziario delle gestione dei beni per via del numero di consulenze ricevute, e l’ingegnere Lorenzo Caramma, marito di Silvana Saguto, che secondo l’ipotesi accusatoria avrebbe beneficiato delle consulenze ricevute da Cappellano Seminara. Insomma, il presidente della sezione Misure di prevenzione avrebbe tenuto in speciale conto l’avvocato e questi si sarebbe sdebitato attribuendo consulenze al marito. Il presidente del Tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale “fin dal proprio insediamento avvenuto lo scorso 15 maggio” ha “iniziato a svolgere accurati accertamenti sull’attività della Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, richiedendo al Presidente della Sezione i necessari dati conoscitivi”. È quanto si legge in una nota diramata dalla stessa Presidenza del Tribunale di Palermo. “Preso, peraltro, atto dei provvedimenti adottati dalla Procura della  Repubblica di Caltanissetta e ritenuto che, nonostante la complessa  interlocuzione con il Presidente della Sezione, non sono ancora  pervenuti i dati richiesti nella loro completezza, ha emesso, un provvedimento con il quale ha disposto una diretta e  definitiva verifica – si legge ancora nella nota del Presidente del  Tribunale, Salvatore Di Vitale – Tutti i dati emersi fino a questo  momento sono stati comunicati al Csm e al Ministero”. Il palazzo di Giustizia di Palermo torna in prima pagina, dunque. E stavolta non ci torna per le minacce, intimidazioni, iniziative “d’avanguardia”, ma per una gestione opaca di bene pubblico, ciò che generalmente l’autorità giudiziaria addebita alla “casta” della politica. Un ribaltamento dei ruoli, in considerazione anche del fatto che a smuovere le acque, molto rumorosamente, è stato il prefetto Caruso, un funzionario di lungo corso, cui non fa difetto la tenacia. In effetti sembra strano che quando le indagini riguardano qualche magistrato o qualche “protetto” non esiste più la questione morale e le tanto sbandierate dimissioni richieste a tutti gli indagati “comuni mortali” non valgono quando ad essere indagati sono loro. Sorge spontanea, per la natura dei gravissimi reati contestati, corruzione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio, la considerazione che anche a loro andrebbe applicata la misura di prevenzione patrimoniale e così sottoporre a sequestro preventivo tutto il loro patrimonio e farlo gestire ad un amministratore giudiziario con i tempi biblici che la dott.ssa Saguto concede ai “suoi” amministratori giudiziari nei procedimenti da lei presieduti. E’ noto, tra l’altro, che la stessa Saguto nelle motivazioni di sequestro perpetrate ai danni di altri, e non certo tutti mafiosi, sostiene che per disporre un sequestro non sono necessarie le prove ma basta soltanto il minimo sospetto che il patrimonio dell’indagato possa essere stato costituito con proventi da attività illecita e che, a suo dire, tale motivazione risulta più che sufficiente in questo tipo di procedimenti. Non si comprende perché la stessa misura non possa essere applicata a chi come Lei, il marito e il Cappellano Seminara risultano indagati di gravissimi reati che gettano fango al nostro Paese e inducono la gente a non avere fiducia nell’amministrazione della Giustizia. (Ricordiamo che stando alle cifre della Corte dei Conti la corruzione sottrae al nostro Paese risorse per 60 miliardi di euro pari al 4,4 per cento del PIL). Così come non si comprende come una persona indagata possa ancora ricoprire lo stesso ruolo. Perché la dottoressa, il marito e il Cappellano Seminara non sono stati sospesi dai loro incarichi? Le tanto pubblicizzate frasi “potrebbe inquinare le prove” o “potrebbe reiterare il reato”, valide per tutti i cittadini italiani e in tutti i procedimenti, evidentemente non si applicano per la dott.ssa Saguto & company. Questo dimostra i due pesi e le due misure nella gestione della giustizia, con comportamenti diversi in base a chi ha la sventura di essere sotto giudizio. Comunque la gestione dei beni sequestrati ha bisogno di trasparenza, su questo non ci piove, nuove regole e di un “allargamento” significativo dei soggetti abilitati alla gestione del patrimonio. Su questo terreno lo Stato si gioca la credibilità oltre che i soldi: il numero di aziende che chiudono battenti o falliscono dopo la confisca è molto alto, e migliaia di lavoratori perdono il posto e si trovano sul lastrico. Il mondo delle confische è assai articolato e, a nostro avviso, non bisogna dare niente per scontato, perché all’ombra dei buoni propositi potrebbero trovare ospitalità furbizie e prepotenze. Indispensabile e urgente, dunque, una svolta. Regole e nomi nuovi. Ci auguriamo che le tante persone per bene che ancora difendono con la propria onestà il valore e il prestigio della Magistratura abbiano il coraggio di attuare scelte che siano da esempio per tutti i cittadini onesti e anche per i malcapitati nelle grinfie della dott.ssa Saguto  e della sua banda. Pino Maniaci.

S'allarga ad altri familiari del giudice Silvana Saguto l'inchiesta sull'assegnazione di incarichi di gestione dei beni confiscati alla mafia. L'indagine toccherebbe il padre e uno dei figli del presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, indagata per corruzione, induzione e abuso d'ufficio. Con lei sono sotto inchiesta l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, il più noto amministratore giudiziario di Palermo, e l'ingegnere Lorenzo Caramma, marito del magistrato, scrive “L’Ansa”.

Beni sequestrati alla mafia, si allarga indagine su giudice Saguto. Che si dimette. Il presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo si dimette dall'incarico dopo essere stata coinvolta nell'inchiesta della procura di Caltanissetta per corruzione, induzione e abuso d’ufficio, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 12 settembre 2015. Aveva detto di poter chiarire la sua posizione in breve tempo. Intanto però Silvana Saguto, presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, il magistrato che dal 2010 gestisce un patrimonio miliardario composto dai beni sottratti ai boss mafiosi, si è dimessa dall’incarico. La donna che Gian Carlo Caselli definì “la più importante, dal punto di vista economico, della città”, perché dal Palazzo di giustizia “gestisce capitali enormi”, ha scelto di fare un passo indietro dopo essere stata travolta dall’inchiesta della procura di Caltanissetta. Un’indagine per corruzione, induzione e abuso d’ufficio che a Palermo ha scatenato un vero e proprio terremoto. A dare notizia delle dimissioni del magistrato indagato è il presidente del tribunale di Palermo Salvatore Di Vitale, che ha “preso atto della disponibilità della dottoressa Saguto a essere destinata ad altra sezione del Tribunale”. Dimissioni, quelle della Saguto, che servono a garantire “la continuità e la piena funzionalità di un organo giudicante, da anni centrale nella strategia di contrasto dello Stato alla criminalità mafiosa”. Il presidente del Tribunale di Palermo ha sottolineato che “il provvedimento mira anche ad agevolare i doverosi accertamenti in corso che potranno svolgersi in un clima di serenità idoneo a favorire più dettagliati approfondimenti”. Due giorni fa, dopo la diffusione della notizia sull’indagine, lo stesso Di Vitale aveva annunciato di avere “emesso, in data odierna, un provvedimento con il quale ha disposto una diretta e definitiva verifica. Tutti i dati emersi fino a questo momento sono stati comunicati al Csm e al Ministero”. E mentre l’incarico della Saguto è stato preso da Mario Fontana, presidente della quarta sezione penale, quella che ha processato e assolto gli ex alti ufficiali del Ros Mario Mori e Mauro Obinu, l’indagine dei pm nisseni si è allargata. Insieme alla Saguto sono indagati l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, uno dei principali amministratori giudiziari della città, e l’ingegnere Lorenzo Caramma, marito del magistrato e collaboratore dello studio di Cappellano Seminara. Secondo gli inquirenti ammonterebbero a 750 mila euro in dieci anni l’ammontare delle consulenze concesse da Cappellano Seminara al marito della Saguto. I pm nisseni guidati da Sergio Lari (che tra qualche giorno passerà a fare il procuratore aggiunto mentre l’interim spetterà a Lia Sava) stanno passando al setaccio documenti e fotografie acquisite nel sequestro di due giorni fa. Nell’inchiesta è finita anche la festa di laurea del figlio del magistrato, organizzata da Cappellano Seminara tramite un amico docente universitario, che ha ricevuto a sua volte alcuni incarichi, ed è a sua volta ndagato. La Saguto ha anche un altro figlio, che di mestiere fa lo chef e lavora all’Hotel Brunaccini, albergo in pieno centro della famiglia Cappellano Seminara.  E questo quello che sospettano gli investigatori: che la gestione dei beni confiscati sia stata un vero e proprio affare di famiglia per la Saguto.

Gestione dei beni confiscati: altri tre magistrati indagati. Si allarga l'inchiesta che vede coinvolta Silvana Saguto, sotto indagine anche l'ex consigliere del Csm Tommaso Virga e altri due giudici, scrive “La Repubblica” il 12 settembre 2015. Sono quattro i giudici del tribunale di Palermo indagati nell'ambito dell'inchiesta sulla gestione dei beni confiscati. Oltre a Silvana Saguto che ha lasciato il suo incarico sostituita da Mario Fontana, l'inchiesta coinvolge il presidente di Sezione ed ex consigliere togato del Csm, Tommaso Virga, indagato per induzione alla concussione, il sostituto procuratore Dario Scaletta (presunta rivelazione di segreto d'ufficio) e Lorenzo Chairomonte, giudice della Sezione diretta dalla Saguto (abuso d'ufficio). Come riporta il quotidiano "Il Messaggero", Virga è sospettato di avere favorito un procedimento disciplinare a carico della Saguto la quale avrebbe garantito la nomina del figlio di Virga, Walter ad amministratore giudiziario dei beni sequestrati agli eredi di Vincenzo Rappa. Scaletta avrebbe invece rivelato a due giudici della sezione della Saguto notizie sull'inchiesta. Uno dei due giudici, Chiaromonte avrebbe deciso sulla gestione di beni da 10 milioni di euro sequestrati al mafioso Luigi Salerno "malgrado l'amministratore giudiziario fosse una persona a lui molto vicina". Una nuova bufera, insomma, si abbatte su Palazzo di Giustizia. Oltre a Silvana Saguto, altri tre magistrati del tribunale di Palermo sarebbero indagati nell'inchiesta sulla gestione dei beni confiscati alla mafia. Lo rivela il quotidiano il Messaggero, notizia che trova conferme negli ambienti giudiziari siciliani.

Un terremoto quello che sta investendo il Palazzo di giustizia di Palermo, scrive “Sicilia Live”. L'inchiesta infatti, oltre alla Saguto che si è già dimessa dall'incarico, coinvolgerebbe il presidente di Sezione ed ex consigliere togato del Csm, Tommaso Virga, indagato per induzione alla concussione, il sostituto procuratore Dario Scaletta (presunta rivelazione di segreto d'ufficio) e Lorenzo Chiaramonte, giudice della Sezione diretta dalla Saguto (abuso d'ufficio). Virga, in particolare, sarebbe finito sul registro degli indagati per induzione alla concussione perché sospettato di aver favorito un procedimento disciplinare a carico della Saguto. Il magistrato dimissionario, in cambio, la quale a sua volta avrebbe nominato ilfiglio di Virga, Walter, amministratore giudiziario dei beni sequestrati agli eredi di Vicenzo Rappa, imprenditore condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Nei giorni scorsi la Procura di Caltanissetta, come vuole la procedura, ha comunicato l'avvio dell'inchiesta nei confronti dei magistrati alla Procura generale che ha inviato una nota al Csm. Si allunga, dunque, l'elenco degli indagati per lo scandalo della gestione dei beni confiscati. Oltre alla Saguto, infatti, sotto inchiesta per corruzione, induzione alla corruzione e abuso d'ufficio, ci sono pure il padre, il figlio e il marito (l'ingegnere Lorenzo Caramma) del magistrato che fino a ieri guidava le misure di prevenzione palermitane. Indagato pure Gaetano Cappellano Seminara, il più noto tra gli amministratori giudiziari che in cambio di alcuni incarichi, avrebbe affidato delle consulenze al marito della Saguto.

Palermo, inchiesta su gestione beni confiscati: indagata Saguto. Lei: nessun dubbio su mio operato. Le ipotesi di reato sono corruzione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio. Tra gli indagati anche il marito del giudice e l’avvocato Cappellano Seminara, scrive la Redazione online de "Il Corriere della Sera”. A Palermo quasi la metà dei beni sequestrati d’Italia. La Procura di Caltanissetta ha aperto un’inchiesta per corruzione, induzione e abuso d’ufficio nei confronti della Presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, che si occupa della gestione dei patrimoni mafiosi sottoposti a sequestro. «Non ho dubbi sul mio operato e chiederò subito di essere interrogata»: ha detto il magistrato al sito Live Sicilia. «Incarichi a mio marito? - ha aggiunto - Ne ha avuto uno solo a Palermo, e oggi chiuso, che risale agli anni in cui non ero alla sezione misure di prevenzione». «La notizia dell'inchiesta è contenuta in una nota ufficiale della stessa Procura di Caltanissetta «allo scopo - è scritto - di evitare il diffondersi di notizie inesatte». «Su disposizione della Procura della Repubblica di Caltanissetta - si legge nella nota - militari del nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza di Palermo, in alcuni casi con la diretta partecipazione dei magistrati titolari del relativo procedimento penale, hanno eseguito ordini di esibizione nonché decreti di perquisizione e sequestro in data 9 settembre 2015». «Questi atti istruttori - prosegue la nota - sono stati compiuti per acquisire elementi di riscontro in ordine a fatti di corruzione, induzione, abuso d'ufficio, nonché delitti a questi strumentalmente o finalisticamente connessi, compiuti dalla Presidente della Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo nell'applicazione delle norme relative alla gestione dei patrimoni sottoposti a sequestro di prevenzione, con il concorso di amministratori giudiziari e di propri familiari». Risulterebbe indagato anche l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, che per conto del tribunale gestisce numerosi beni sequestrati ai boss. I finanzieri del nucleo di polizia tributaria di Palermo avrebbero notificato un terzo provvedimento anche al marito della Saguto, l'ingegnere Lorenzo Caramma, che è stato consulente di Cappellano Seminara. L'affidamento di numerosi beni sequestrati alla gestione dell'avvocato Cappellano Seminara, con relative «parcelle d'oro», era stato denunciato dall'allora direttore dell'Agenzia per i beni confiscati, il prefetto Giuseppe Caruso, anche di fronte alla commissione parlamentare antimafia. I rilievi di Caruso, poi sostituito con il prefetto Umberto Postiglione dopo essere andato in pensione, erano stati giudicati «non esaurienti» dalla presidente Bindi secondo la quale c'era il rischio di «delegittimare l'intero sistema». Si tratta dunque, di un’inchiesta che scotta, visto che come la stessa Saguto comunicò lo scorso aprile «Palermo è una sezione speciale per la quantità di beni sequestrati: ne ha quasi la metà del resto di tutta l’Italia». Quattro mesi fa era trapelata l'indiscrezione su un progetto mafioso per uccidere Silvana Saguto. Ci sarebbe stato, secondo una segnalazione dei servizi di sicurezza, uno scambio di favori tra boss. Un sicario legato al clan Emmanuello di Gela avrebbe dovuto uccidere il giudice a Palermo e in cambio killer palermitani avrebbero dovuto eliminare Renato Di Natale, attualmente procuratore di Agrigento. Quando Di Natale ricopriva lo stesso incarico a Caltanissetta aveva coordinato le inchieste sulla cosca di Daniele Emmanuello, ucciso durante la latitanza nel 2007 in un conflitto a fuoco con la polizia nelle campagne di Enna. Il piano per eliminare i due magistrati sarebbe stato scoperto attraverso intercettazioni ambientali. Al giudice Saguto era stata subito rafforzata la scorta e assegnata un'auto con il livello massimo di blindatura.

Beni sequestrati alla mafia, Caltanissetta indaga su gestione del giudice Saguto. La procura nissena ha aperto un'inchiesta per corruzione, induzione e abuso d'ufficio. Nel registro degli indagati oltre alla presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, anche l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, uno dei principali amministratori giudiziari della città, e l'ingegnere Lorenzo Caramma, marito del magistrato, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 9 settembre 2015. Ennesimo terremoto nel mondo dell’Antimafia: questa volta a finire sotto inchiesta è la gestione dei beni confiscati a Cosa nostra. Un’indagine per corruzione, induzione e abuso d’ufficio è stata aperta dalla procura di Caltanissetta e coinvolge direttamente Silvana Saguto, presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, la donna che si occupa della gestione dei patrimoni sottratti ai boss mafiosi.  Sono indagati anche l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, uno dei principali amministratori giudiziari della città, e l’ingegnere Lorenzo Caramma, marito della Saguto e collaboratore dello studio di Cappellano Seminara. A dare notizia dell’inchiesta è la stessa procura nissena, con una nota diffusa “allo scopo di evitare il diffondersi di notizie inesatte“. “Su disposizione della procura della Repubblica di Caltanissetta – si legge nella nota – i militari del nucleo di polizia tributaria della guardia di Finanza di Palermo, in alcuni casi con la diretta partecipazione dei magistrati titolari del relativo procedimento penale, hanno eseguito ordini di esibizione nonché decreti di perquisizione e sequestro in data 9 settembre 2015″.  “Questi atti istruttori – prosegue la nota – sono stati compiuti per acquisire elementi di riscontro in ordine a fatti di corruzione, induzione, abuso d’ufficio, nonché delitti a questi strumentalmente o finalisticamente connessi, compiuti dalla Presidente della sezione misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo nell’applicazione delle norme relative alla gestione dei patrimoni sottoposti a sequestro di prevenzione, con il concorso di amministratori giudiziari e di propri familiari”. “Non ho dubbi sul mio operato e chiederò subito di essere interrogata”, ha commentato Saguto con il sito online livesicilia. Appena quattro mesi fa una nota dei servizi di sicurezza aveva fatto filtrare un allarme che indicava il magistrato come obbiettivo do un piano di morte di Cosa Nostra, citato anche in alcune intercettazioni ambientali. Secondo l’informativa, i boss palermitani avrebbero chiesto ai mafiosi di Gela di eliminare la donna che l’ex procuratore di Palermo Gian Carlo Caselli definì in un’intervista “la più importante, dal punto di vista economico, della città”, perché dal Palazzo di giustizia “gestisce capitali enormi”. Era il maggio del 2015 e la polemica sull’Olimpo degli amministratori giudiziari era tornata d’attualità grazie ad un servizio delle Iene, la trasmissione televisiva di Mediaset che aveva rilanciato le denunce di Pino Maniaci. Il direttore della piccola emittente Telejato aveva condotto una battaglia quasi solitaria contro quelli che lui chiama “gli uomini d’oro” e cioè i pochi amministratori giudiziari che si spartiscono la gestione dei beni sequestrati a Cosa nostra. Maniaci è anche l’autore di un esposto depositato alla procura di Caltanissetta e di parecchie interviste in cui attacca frontalmente lo stesso avvocato Cappellano Seminara, che per tutta risposta nei mesi scorsi lo ha denunciato per stalking. “I beni confiscati dovrebbero essere riutilizzati a fini sociali e invece, in troppi casi, sono stati considerati beni privati da alcuni amministratori giudiziari che li hanno gestiti come fortune sulle quali garantirsi un vitalizio”, aveva detto invece un anno prima l’ex direttore dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati, il prefetto Giuseppe Caruso, davanti la commissione parlamentare Antimafia. Il prefetto (che nel frattempo è stato sostituito da Umberto Postiglione) aveva citato il caso dell’Immobiliare Strasburgo confiscata al costruttore Vincenzo Piazza e da diversi anni gestita proprio dall’avvocato Cappellano Seminara che, secondo l’ex direttore dell’Agenzia, aveva percepito una “parcella di 7 milioni di euro” come amministratore giudiziario mentre aveva incassato 150 mila euro come presidente del consiglio di amministrazione. “Vi pare normale che il controllore e il controllato siano la stessa persona?” aveva sottolineato Caruso. “Faccio questo lavoro da 28 anni – aveva replicato Cappellano Seminara – con uno studio di 35 professionisti specializzati e non mi sembra che i nuovi amministratori siano stati nominati dall’Agenzia con criteri obiettivamente diversi da quelli utilizzati dal tribunale. Quanto ai compensi una cosa è gestire l’amministrazione dinamica di un’impresa che richiede progettualità e rischio, come abbiamo fatto noi fino al 2010, altra cosa è liquidare un’azienda secondo le nuove direttive dell’Agenzia”. Le parole del prefetto Caruso in ogni caso furono liquidate da Rosy Bindi, presidente di palazzo San Macuto, perché rischiavano di delegittimare “magistrati che rischiano la vita”. Dodici mesi dopo ecco che la gestione dei beni sequestrati ai boss di Cosa nostra è diventata argomento d’indagine per i pm nisseni.

Inchiesta sulla gestione dei beni confiscati alla mafia, ecco tutte le accuse alla Saguto, scrive Riccardo Arena su "Il Giornale di Sicilia”. L'inchiesta della Procura di Caltanissetta e del Nucleo regionale di polizia tributaria della Guardia di Finanza, sui presunti scambi di favori tra il giudice e l'amministratore giudiziario, poggia su tredici incarichi che Caramma ha avuto tra il 2004 e il 2014. A casa del presidente Saguto hanno sequestrato anche una collezione di coltellini e una tesi di laurea, entrambe appartenenti a uno dei figli del magistrato e dell'ingegnere Lorenzo Caramma, mentre Gaetano Cappellano Seminara è stato raggiunto e perquisito pure nella stanza dell'albergo romano in cui si trovava. L'inchiesta della Procura di Caltanissetta e del Nucleo regionale di polizia tributaria della Guardia di Finanza, sui presunti scambi di favori tra il giudice e l'amministratore giudiziario, poggia su tredici incarichi che Caramma ha avuto, tra il 2004 e il 2014, non solo a Palermo, ma anche a Caltanissetta e Trapani, ricevendo una retribuzione complessiva di 750 mila euro lordi: e 306.788 euro gli sarebbero stati «corrisposti direttamente dall'avvocato Cappellano Seminara». Non si trattava di prestazioni professionali ma ci sarebbe stato dietro uno scambio di favori, sostiene l'accusa, perché Silvana Saguto, presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, a Cappellano Seminara affidò poi una serie di incarichi. L'avvocato è ritenuto una sorta di recordman delle amministrazioni giudiziarie: ma non lavora certo solo per conto dei magistrati palermitani. Nel mirino dei pm nisseni e del Gip Maria Carmela Giannazzo, che ha emesso il decreto con cui è stata autorizzata la perquisizione nello studio legale di Cappellano Seminara, c'è lo «stabile rapporto di collaborazione professionale» tra l'avvocato e Caramma, marito della dottoressa Saguto.

Gestione dei beni confiscati: "Bomba giudiziaria" a Palermo, scrive Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia”. La procura di Caltanissetta indaga sull'accusa di corruzione e abuso d'ufficio. Avviso di garanzia alla presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo e al più noto fra gli amministratori giudiziari del capoluogo. Perquisiti la cancelleria e l'ufficio del magistrato che replica: "Non ho dubbi sul mio operato, voglio essere interrogata". La bomba giudiziaria è esplosa stamani. Sotto inchiesta finiscono Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, il marito e ingegnere Lorenzo Caramma, e Gaetano appellano Seminara, il più noto fra gli amministratori giudiziari dei beni sequestrati alla mafia. È, infatti, la gestione del patrimonio sottratto ai boss a finire sotto accusa. Ipotesi pesanti quelle contestate dalla Procura di Caltanissetta: corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio. Stamani alla Saguto è stato notificato un avviso di garanzia - o meglio l'avviso dell'avviso, visto che era fuori città - e sono stati perquisiti il suo ufficio e la cancelleria al piano terra del nuovo palazzo di giustizia di Palermo. L'inchiesta affidata ai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria ruota attorno agli incarichi che il marito della Saguto avrebbe ottenuto divenendo consulente di Cappellano Seminara. Il magistrato da noi raggiunto al telefono taglia corto: “Non ho dubbi suol mio operato e chiederò subito di essere interrogata. Incarichi a mio marito? Ne ha avuto uno solo a Palermo, e oggi chiuso, che risale agli anni in cui non ero alla sezione misure di prevenzione”. A dare notizia dell'inchiesta è stata la stessa Procura nissena "allo scopo - si legge in una nota - di evitare il diffondersi di notizie inesatte". "Su disposizione della Procura della Repubblica di Caltanissetta - si legge ancora - militari del Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Palermo, in alcuni casi con la diretta partecipazione dei magistrati titolari del relativo procedimento penale, hanno eseguito ordini di esibizione nonché decreti di perquisizione e sequestro. Questi atti istruttori - prosegue la nota - sono stati compiuti per acquisire elementi di riscontro in ordine a fatti di corruzione, induzione, abuso d'ufficio, nonché delitti a questi strumentalmente o finalisticamente connessi, compiuti dalla presidente della sezione Misure di Prevenzione del tribunale di Palermo nell'applicazione delle norme relative alla gestione dei patrimoni sottoposti a sequestro di prevenzione, con il concorso di amministratori giudiziari e di propri familiari". I pm non fanno i nomi, ma oltre alla Saguto l'indagine coinvolge il marito e Cappellano Seminara, l'uomo che più di tutti - facendo montare la polemica sulle parcelle - ha gestito il patrimonio sequestrato dai magistrati ai boss. L'avvocato è stato uno dei primi ad occuparsi del settore e negli anni ha costruito una macchina che ha gestito patrimoni sterminati: da quello del costruttore Piazza ai beni della famiglia di don Vito Ciancimino. Cappellano Seminara era stato uno dei principali obiettivi delle critiche mosse da Giuseppe Caruso, ex responsabile dell'agenzia per i beni confiscati. Il prefetto era stato piuttosto duro, sostenendo che alcuni amministratori avevano "usato a fini personali" i beni confiscati, incassando "parcelle stratosferiche" e mantenendo incarichi nei consigli di amministrazione delle stesse aziende confiscate. Convocato dalla Commissione parlamentare antimafia, arrivata appositamente in città nel marzo 2014, l'avvocato Seminara aveva risposto per le rime bollando come “sorprendenti e gravi” le parole di Caruso. Le definì “un ingiustificato attacco alla sua persona e a tutto il sistema dell'amministrazione giudiziaria”. Nel braccio di ferro alla fine Caruso ebbe la peggio. La presidente della Commissione, Rosi Bindi, e il suo vice, Claudio Fava, confermarono il rischio delegittimazione provocato dalle parole di Caruso, considerate tardive perché giunte alla vigilia della scadenza del suo mandato.

Indagati Saguto e Cappellano Seminara. Il grande intrigo dei beni confiscati, continua Riccardo Lo Verso. In ballo ci sono le ipotesi di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio. L'inchiesta dei pm di Caltanissetta, che coinvolge la presidente delle Misure di Prevenzione e il più noto fra gli amministratori giudiziari, fa tremare il Palazzo di giustizia di Palermo e l'intero sistema su cui si basa il contrasto allo strapotere economico dei boss. “La faccenda è seria, molto seria” dice qualcuno bene informato. Ieri, fino a tarda serata, i finanzieri della Polizia tributaria di Palermo cercavano carte nello studio dell'avvocato Gaetano Cappellano Seminara. Prima erano stati nell'ufficio di Silvana Saguto, la presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo e pure in cancelleria nel nuovo Palazzo di giustizia. Magistrati - in questo caso i pubblici ministeri di Caltanissetta - che frugano nella stanza di una collega. Basta questo per capire la portata dell'inchiesta che rischia di picconare l'intero sistema su cui si regge la gestione dei beni sequestrati alla mafia. Roba da fare tremare i polsi. Non si tratta delle voci degli addetti ai lavori che di scandalo hanno spesso parlato. O delle inchieste giornalistiche che hanno puntato il dito contro gestioni poco chiare e parcelle milionarie. Stavolta si è mossa la Procura di Caltanissetta che ieri si è presentata a Paleremo con avvisi di garanzia e decreti di perquisizione. Un'indagine che va avanti da mesi, forse anni se ad essa vanno collegate alcune tracce emerse nel tempo. Come la convocazione, nel marzo 2014, nelle vesti di persona informata sui fatti, del battagliero giornalista Pino Maniaci che alla gestione dei beni e agli scandali che ad essa sarebbero connessi ha dedicato una fetta importante del proprio lavoro. Erano i giorni in cui Cappello Seminara veniva nominato amministratore giudiziario di alcuni alberghi e qualcuno fece notare il suo presunto conflitto di interessi visto che l'avvocato era diventato, nel frattempo, titolare assieme ai familiari di un hotel nel centro storico di Palermo. Non sappiamo cosa ci sia nel fascicolo dei pm nisseni guidati, ancora per pochi giorni, da Sergio Lari, che dal 15 settembre diventerà procuratore generale sempre a Caltanissetta. Analizzando gli unici dati certi finora trapelati saremmo di fronte ad una partita di giro. Un magistrato, la Saguto, che stando ad una nota dei servizi segreti di alcuni in mesi fa la mafia voleva ammazzare, sarebbe in combutta illecita con un professionista, Cappellano Seminara, al quale avrebbe assegnato le amministrazioni giudiziarie facendogli guadagnare cifre consistenti. In cambio Cappellano avrebbe affidato, secondo la Procura, incarichi di consulenza a Lorenzo Caramma, ingegnere e soprattutto marito della Saguto. Il tutto in contesti diversi dal tribunale di Palermo. Da qui le ipotesi di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio. C'è dell'altro? È solo l'inizio di un'inchiesta più ampia oppure l'approdo di una lunga scrematura investigativa? La nota della Procura, stilata quando ieri a Caltanissetta hanno capito che era impossibile tenere nascosta la notizia, dice tutto e niente: “Questi atti istruttori sono stati compiuti per acquisire elementi di riscontro in ordine a fatti di corruzione, induzione, abuso d'ufficio, nonché delitti a questi strumentalmente o finalisticamente connessi, compiuti dalla presidente della sezione Misure di Prevenzione del tribunale di Palermo nell'applicazione delle norme relative alla gestione dei patrimoni sottoposti a sequestro di prevenzione, con il concorso di amministratori giudiziari e di propri familiari". Di certo l'inchiesta che i bene informati definiscono "molto seria" perchè ci sono "molte posizioni al vaglio" fra tremare il Palazzo di giustizia di Palermo e l'intero sistema su cui si è basato il contrasto economico allo strapotere dei boss. La Procura chiede, le forze investigative propongono e la sezione misure di prevenzione dispone il sequestro e le confische dei patrimoni affidati quindi alla gestione degli amministratori scelti in via fiduciaria. Sui provvedimenti, decine negli ultimi anni per centinaia di milioni di euro, c'è la firma della Saguto e di altri due magistrati che compongono il collegio. Lo stesso collegio che vista i passaggi seguiti dagli amministratori. Eppure il meccanismo che in questi anni ha colpito padrini, boss e picciotti della vecchia e nuova Cosa nostra sarebbe divenuto groviglio di interessi. Roba da comitato di affari. Fra i primi a specializzarsi nel settore delle amministrazioni giudiziarie c'è Cappellano Seminara che, solo per citare la pratica più conosciuta, ha gestito i beni di Massimo Ciancimino. E attorno al suo nome si è consumato un aspro conflitto. Perché la gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia è stato spesso terreno di scontri e veleni. Una saga con tanti protagonisti. A cominciare dai parlamentari della Commissione nazionale antimafia. Nel 2014 il prefetto Giuseppe Caruso, poco prima di lasciare la direzione dell'Agenzia, sollevò un polverone denunciando la “gestione ad uso privato” dei beni da parte di alcuni amministratori giudiziari scelti dai Tribunali. Il riferimento, neppure nascosto, era a Cappellano Seminara che reagì con durezza. Ne venne fuori un braccio di ferro vinto dalla magistratura con l'appoggio “incondizionato” della politica. Un appoggio che si concretizzò nella due giorni di visita siciliana della Commissione guidata da Rosi Bindi. Allora il vice presidente, Claudio Fava, definì “bizzarro” il comportamento di Caruso, soprattutto per la tempistica delle dichiarazioni dell'allora direttore dell'Agenzia. La Bindi rincarò la dose: “Sono affermazioni (quelle di Caruso ndr) che possono delegittimare un intero sistema”. In realtà Caruso sul punto aveva sostenuto di non volere certo delegittimare il lavoro della magistratura, ma segnalare l'inopportunità che gli amministratori giudiziari fossero anche presidenti dei consigli di amministrazione delle società, molte delle quali non passavano e non passano dal sequestro alla confisca. Un anno dopo - febbraio 2015 - fu la commissione regionale antimafia, presieduta da Nello Musumeci, ad annunciare l'invio alle autorità competenti di un dossier su presunte anomalie: "In alcuni casi abbiamo ricevuto denunce di incompatibilità, eccessiva concentrazione di incarichi, in altri tentativi di favorire società o studi professionali vicini all’amministratore”. Un mese dopo di beni confiscati si tornò a parlare quando Antonello Montante, nominato dal governo all'Agenzia nazionale oggi guidata da Umberto Postiglione, fu “costretto” a fare un passo indietro dopo la notizia dell'indagine per mafia a suo carico. Montante avrebbe dovuto offrire la sua competenza di leader confindustriale per sdoganare da prefettizia a manageriale la gestione dei beni strappati alla criminalità organizzata. Un patrimonio sconfinato: quasi 10.500 immobili, circa 4.000 beni mobili e oltre 1.500 aziende che spesso restano impantanati. Colpa della burocrazia, della cattiva gestione ma anche della difficoltà di misurarsi nel mercato con un socio “scomodo” come lo Stato. Stare nell'alveo della legalità è anti economico. Ieri l'ultima tappa dell'intrigo con le perquisizioni subite dalla Saguto e da Cappellano Seminara. L'avvocato che rispose così all'accusa di essere un professionista dalle parcelle d'oro: “Ho presentato una parcella lorda di 7 milioni di euro per 15 anni di lavoro durante il quale ho amministrato, insieme ad un team di 30 collaboratori, 32 società e ho accresciuto il valore commerciale degli asset a me conferiti a 1,5 miliardi di euro. Nel periodo di gestione giudiziaria i soli beni aziendali giunti a confisca hanno prodotto ricavi per oltre 280 milioni di euro, attestando così il costo della gestione giudiziaria a circa il 2,50% dei ricavi. Giova inoltre ricordare che dalla liquidazione disposta dal Tribunale, interamente corrisposta con fondi del patrimonio confiscato, ne è derivata a mio carico, in favore dell'Erario una imposizione fiscale di complessivi euro 4.248.281 pari al 60% del lordo percepito”. E la Saguto come replica? "Non ho dubbi sul mio operato e chiederò ai magistrati di essere subito interrogata", ha detto ieri a Livesicilia mentre si trovava fuori città.

Beni confiscati, consulenze, intercettazioni. I pm: "Ecco il prezzo della corruzione", continua ancora Riccardo Lo Verso. Nel cuore dell'inchiesta sul presunto patto illecito fra il magistrato Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, e l'avvocato Cappellano Seminara. La prima si dice certa di poter dimostrare la propria correttezza, il legale: "Incarichi sempre decisi da giudici". Una ventina di consulenze in dieci anni per un totale di 750mila euro lordi. Ecco quale sarebbe il prezzo della corruzione, secondo i pubblici ministeri di Caltanissetta, nel presunto patto illecito fra il magistrato Silvana Saguto e l'avvocato Cappellano Seminara. La prima è la presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo; il secondo è il più conosciuto fra gli amministratori giudiziari nell'intero territorio nazionale. La Saguto avrebbe assegnato a Cappellano Seminara la gestione di grossi patrimoni tolti alla mafia ottenendo in cambio incarichi per il marito Lorenzo Caramma, ingegnere e consulente dell'avvocato. Tutti e tre sono finiti nel registro degli indagati in un'inchiesta che ipotizza reati di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio. Reati tanto gravi da spingere i pm nisseni a perquisire persino l'ufficio della Saguto e la cancelleria del Tribunale. Settecentocinquantamila euro: a tanto ammontano i compensi liquidati all'ingegnere Caramma dal 2004 al 2014, in un arco temporale che inizia quando la Saguto è membro del collegio delle Misure di prevenzione e arriva fino a quando dello stesso collegio il magistrato è ormai divenuto presidente. E cioè dal 2010. Nel decreto di perquisizione notificato ieri agli indagati nel corso delle “viste” a casa, in studio e in Tribunale vengono snocciolati numeri, cifre e fatture delle consulenze. Incarichi che non riguardano fascicoli istruiti dal Tribunale di Palermo, ma da quelli di Agrigento, Trapani e Caltanissetta. Nel decreto si fa cenno ad un capitolo dell'indagine che, in realtà, costituirebbe il fronte più caldo dell'inchiesta. E cioè all'esistenza di intercettazioni telefoniche. Le cose sarebbero andate più o meno così: i pm ricevono nel 2014 alcuni esposti, fra cui quello del giornalista di Tele Jato Pino Maniaci, che gettano pesantissime ombre sulla gestione dei beni da parte del Tribunale presieduto dalla Saguto e denunciano presunti intrecci illeciti e pagamenti di parcelle d'oro; quindi i magistrati - l'inchiesta è coordinata dal procuratore aggiunto Lia Sava e dal sostituto Gabriele Paci - decidono di mettere i telefoni sotto controllo. Ed è anche, e forse soprattutto, per trovare riscontri a quanto captato dai nastri magnetici che fino a stamattina i finanzieri del Nucleo di polizia Tributaria di Palermo hanno acquisito atti del tribunale, dichiarazioni dei redditi e documenti contabili. Ieri la Saguto si è difesa sostenendo di essere certa di potere dimostrare la propria correttezza ai magistrati dai quali spera di essere presto convocata. Oggi tocca a Cappellano Seminara, ultimate le operazioni dei finanzieri alla presenza del suo legale, l'avvocato Sergio Monaco, respingere le accuse. "Gli incarichi a Caramma, in qualità di Coadiutore o Consulente in alcune procedure di Amministrazione Giudiziaria, sono stati decisi dai Giudici Delegati dei rispettivi Tribunali, gli unici preposti a dette nomine ed alla liquidazione dei relativi compensi - precisa Cappellano Seminara in una nota -. Il mio ruolo è stato quello di proporre la figura di un affermato e stimato professionista che, da oltre trent’anni, collabora quale Consulente fiduciario con le Procure della Repubblica ed i Tribunali siciliani, sia in sede penale che civile, incluso il Tribunale di Caltanissetta. Caramma non è mai stato da me proposto nell’ambito di misure di prevenzione del Tribunale di Palermo presieduto dalla dottoressa Saguto e le nomine del predetto, in talune procedure, sono avvenute diversi anni prima dell’incarico del Giudice Silvana Saguto alla Presidenza della Sezione. Osservo che in tutti i Tribunali siciliani congiunti dei Magistrati che ivi prestano servizio - ancora Cappellano Seminara -, ricevono quotidianamente, da altri Magistrati dello stesso Tribunale, incarichi sia quali Avvocati, Curatori, Consulenti, Amministratori Giudiziari, senza che ciò dia luogo ad ipotesi corruttive. Diversamente, chi è in qualche modo legato da parentela con un Magistrato non potrebbe svolgere alcuna attività libero-professionale nei Distretti delle Corti d’Appello ove il congiunto esercita le sue funzioni, cosa che, invece, avviene costantemente e senza rilievo alcuno".

La nota diramata dalla procura dalla Procura della Repubblica di Caltanissetta non ammette repliche, dopo anni di denunce e inchieste la giustizia sta facendo il suo corso, scrive Telejato. L’abbiamo chiamata Mafia dell’Antimafia, cercando in questi lunghi mesi di denunciare il malaffare e la corruzione che hanno imperversato nella gestione di molti beni sequestrati alla mafia. Su disposizione della Procura della Repubblica di Caltanissetta militari del Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Palermo, in alcuni casi con la diretta partecipazione dei magistrati titolari del relativo procedimento penale, hanno eseguito ordini di esibizione nonché decreti di perquisizione e sequestro in data 9 settembre 2015. Questi atti istruttori sono stati compiuti per acquisire elementi di riscontro in ordine a fatti di corruzione, induzione, abuso d’ufficio, nonché delitti a questi strumentalmente o finalisticamente connessi, compiuti dalla Presidente della Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo nell’applicazione delle norme relative alla gestione dei patrimoni sottoposti a sequestro di prevenzione, con il concorso di amministratori giudiziari e di propri familiari. La sezione del tribunale presieduta da Silvana Saguto gestisce un patrimonio immenso di misure di prevenzione, beni sottratti ai presunti mafiosi, circa il 43% di tutti quelle emesse in Italia. I beni negli anni sono stati gestiti in maniera molto discutibile secondo un sistema che Telejato ha definito in tempi non sospetti dei Quotini, amministratori giudiziari in quota che hanno gestito la maggior parte dei sequestri Palermo e provincia.

Nonostante le denunce cadute nel vuoto da parte dell’ex prefetto Caruso che aveva presieduto l’agenzia nazionale dei beni confiscati e vari casi eclatanti denunciati dalle Iene in collaborazione con Telejato, anche la commissione nazionale antimafia, ad eccezion fatta di un suo solo membro, ha sempre creduto alla versione dei fatti della Saguto, mostrandole anche solidarietà, come nel caso eclatante della famiglia Cavallotti. Fiduciosi che la giustizia farà il suo corso, aspettiamo con ansia il coro di sdegno dell’antimafia da passeggio e parolaia che in questi anni ha ignorato deliberatamente certe denunce, acclamando talvolta l’operato di queste persone.

Indagata la Saguto, il marito e Cappellano Seminara. Il triangolo no…non l’avevo considerato, continua "Telejato".

VENGONO AL PETTINE I NODI CHE DA TEMPO ABBIAMO DENUNCIATO E CHE PINO MANIACI AVEVA RIVELATO GIÀ CIRCA DUE ANNI FA ALLA PROCURA DI CALTANISSETTA, LA QUALE AVEVA PRESO L’IMPEGNO, MAI RISPETTATO DI RISENTIRLO.

Qualcuno potrebbe pensare che abbiamo fatto salti in aria di gioia quando abbiamo saputo che la signora Saguto, presidente dell’ufficio misure di prevenzione del tribunale di Palermo, è sotto indagine, da parte della procura di Caltanissetta, per concussione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio. E invece no. Ogni volta che un rappresentante della giustizia, e pertanto che amministra la giustizia in nome dello stato, finisce sotto indagine, da parte dei suoi stessi colleghi, non possiamo che preoccuparci ed esprimere il nostro disagio su come si amministra la giustizia in Italia. E’ qualcosa che colpisce tutti e di cui non si può gioire, ma rattristarsi. E questa indagine dimostra proprio le due facce della giustizia italiana: quella di una procura, quella di Caltanissetta, competente per le indagini che riguardano l’operato dei magistrati di Palermo, che, in questo caso, scavalcando tutti i nostri dubbi e sospetti di reciproche protezioni tra magistrati che hanno lavorato fianco a fianco, ha “osato” posare l’occhio sull’operato di un settore della Procura di Palermo, e quella di un magistrato di questa procura che invece ha operato in assoluta libertà nell’uso di uno smisurato potere datole dalla normativa che regola le misure di prevenzione. Già Caselli aveva definito la Saguto una delle donne più potenti di Palermo e la sua potenza le deriva nell’avere costruito un patrimonio che supera i 40 miliardi di euro (parliamo solo della provincia di Palermo e di quella di Trapani, spesso ad essa connessa). In pratica buona parte del capitalismo siciliano è finita sotto sequestro, sotto il controllo dell’ufficio di prevenzione, con accuse spesso fondate su deduzioni, sospetti, dichiarazioni spesso pilotate di pentiti, scavalcando in parecchi casi anche la collaborazione offerta dagli stessi imprenditori che hanno fatto una scelta di legalità e si sono invece visti sequestrare tutto, senza alcuna possibilità di potere ricominciare un qualsiasi lavoro.  Si potrebbe pensare che alla fine la giustizia arriva, come ogni tanto succede, ma moltissimi casi di sequestro sono stati ritenuti infondati da sentenze e dalla normale procedura penale e, nonostante ciò l’ufficio misure di prevenzione ha invece continuato ad emettere decreti di confisca nei confronti degli imprenditori assolti. Abbiamo denunciato la gestione e i metodi disinvolti, per usare un eufemismo, della “signora” di Palermo da quasi due anni. Abbiamo ricostruito pezzi del suo “cerchio magico” fatto da magistrati e avvocati che abbiamo chiamato “quotini”, cioè in quota al re degli amministratori giudiziari palermitani, Cappellano Seminara, il quale oggi si ritrova anche lui indagato assieme al marito della Saguto, l’ing. Caramma, suo collaboratore. Si tratta di nomi ormai noti, Dara, Turchio, Benanti, Santangelo, Miserendino, Virga, Ribolla, Modica de Moach, di avvocati che dovrebbero tutelare gli interessi dei clienti e che invece cercano accordi e intese con i magistrati per dare il contentino al cliente ma anche per non mettersi contro le decisioni dell’apparato giudiziario nel quale essi convivono. E così l’imprenditoria siciliana non ha scelta: o schierarsi con l’apparente scelta di legalità della Confindustria ed entrare “in quota”, o correre giornalmente il rischio di finire sotto sequestro per una parentela, una presenza, una commissione fatta nel corso degli anni con qualche mafioso, cosa che in Sicilia capita spesso. Nel caso del triangolo Saguto-Caramma-Seminara abbiamo da tempo denunciato gli intrecci tra il figlio della Saguto, Elio Crazy, chef valente che lavora presso l’hotel Brunaccini, nell’albergo di Cappellano Seminara, di cui è consulente suo padre l’ing. Caramma. Con abile mossa l’avvocato Cappellano è riuscito a mettere le mani su una parte del settore alberghiero palermitano, quello del Gruppo Ponte, con la scusa della presenza del mafioso Sbeglia, tra i presunti lavoratori dell’albergo. Adesso la situazione dell’albergo è pietosa, ci sono state denunce di clienti che si sono trovati in stanze con le vasche da bagno sporche e con fuoriuscita di acqua verdastra dai rubinetti, ma il solito Cappellano ha invitato il cliente a soprassedere. La longa manus di Cappellano, sempre con la firma della Saguto, si è estesa a novanta incarichi ad esso assegnati, di cui siamo in grado di fornire l’elenco, e dove si incontrano enormi patrimoni interamente assorbiti dal nulla o rivenduti ad amici o finiti in partite di giro dove ci sono strani passaggi di mezzi, beni, merci e quant’altro da un’azienda a un’altra, il tutto svenduto per quattro soldi. E’ il caso dell’Aedilia Venustas, per non parlare di quello della Immobiliare Strasburgo del mafioso Piazza, per la cui amministrazione, secondo l’ex prefetto Caruso, Cappellano avrebbe incassato 7 milioni di euro e altri 100 mila euro come compenso del suo ruolo di componente del consiglio di amministrazione. Altra pagina che lascia sgomenti e per la quale Cappellano è indagato è quella della discarica di Glina, che il nostro insaziabile rappresentante dello stato avrebbe cercato di controllare interamente, mandando un lustrascarpe a comprarne una quota per 300 mila euro.  Si potrebbe andare avanti, ma parliamo di cose che abbiamo denunciato da tempo e che speriamo possano emergere adesso se il giudice Paci di Caltanissetta avrà la possibilità di procedere serenamente, senza interferenze, pressioni, o peggio che mai, minacce. Non è certo un’indagine su un magistrato potente che risolverà il problema dei beni confiscati e soprattutto sulla anomalia tutta italiana dei poteri dati a un ufficio di prevenzione che, nel 90 per cento dei casi invece di prevenire affossa e chiede all’imputato l’onere della prova, compito che invece spetterebbe al magistrato. E questo onere è costantemente rinviato in attesa di una giustizia che non arriva, che distrugge le aziende e le lascia nelle mani di parassiti, sono pagati con i proventi dell’azienda stessa. Tra i tanti commenti che abbiamo letto su “Il fatto quotidiano” ne riportiamo uno che scrive: “spero che Caltanissetta stia indagando anche sugli altri amministratori, come il giovane avvocato trentenne che l’anno scorso si è visto assegnare, sempre dalla Saguto, la gestione di un patrimonio da 600 milioni (aggiungiamo, quello dei fratelli Rappa), non si sa grazie a quali incredibili capacità. Si può soltanto dire che prima di questa assegnazione lo stesso avvocato gestiva 4 negozi di scarpe, sempre per il tribunale di Palermo (presumiamo che si riferisca a Bagagli). Si sa che il padre, giudice presso il tribunale di Palermo, al momento della nomina era membro togato del CSM. In quel periodo imperversava la polemica con il prefetto Caruso per le parcelle d’oro accordate agli amministratori dalla Saguto. Negli stessi giorni il CSM archiviava il procedimento disciplinare, sempre nei confronti della Saguto. Lo stesso giudice, padre del trentenne amministratore, non è stato rieletto al CSM e ora fa il giudice di corte d’appello a Palermo. In ultimo l’amministratore trentenne ha acquistato da poco una villa a Mondello”. La nota è firmata “Bastian Contrario”. Nulla di nuovo rispetto a quanto abbiamo già detto, ma che giova ripetere.  E, a proposito di ville, pare che, secondo il nostro commentatore, “un’altra villa a Mondello sia stata acquistata da Cappellano Seminara per un milione e duecentomila euro gentilmente anticipati da una banca. Le garanzie per tale anticipazione sono le parcelle già emesse per l’attività di amministratore giudiziario del patrimonio a lui assegnato dalla Saguto, che, ricordo, essere superiore ai 600 milioni (si riferisce, pare, all’Immobiliare Strasburgo) e, visto che non erano sufficienti, ha messo a garanzia anche quelle che emetterà sempre per la sua attività di amministratore giudiziario”. Ci fermiamo, perché sull’argomento abbiamo già scritto un dossier di oltre cento pagine, che nessuno si è detto disponibile a pubblicare. Ora che è scoppiata la bomba, forse qualcuno si accorgerà che non abbiamo fatto, come ci hanno accusato di fare, il gioco dei mafiosi, ma quello di una giustizia che protegga gli interessi di tutti i cittadini, che sia uguale per tutti, che metta a posto le disfunzioni senza distruggere l’economia e i posti di lavoro, in una drammatica situazione di povertà in cui stiamo vivendo. Un’ultima cosa: la signora Saguto ha detto che vuole essere ascoltata, e ci mancherebbe altro, che chiarirà tutto, e ci auguriamo che lo faccia bene e senza truccare le carte. Già ha detto che l’incarico a suo marito è stato dato quando non era all’ufficio di prevenzione. E dov’era? Adesso il procedimento andrà nelle mani del Presidente del tribunale dott. Vitale, il quale deciderà sulle misure da adottare e, con ogni probabilità invierà tutto al CSM, quello che ha già archiviato il primo procedimento sulla Saguto. Perché, in un paese normale, come abbiamo letto in un altro messaggio, questa gente sarebbe già agli arresti per il rischio di inquinamento delle prove e la possibilità di reiterare il reato. In Italia siamo più buoni, diamo una possibilità a tutti e, considerato che abbiamo 7 mila km di costa con infiniti granelli di sabbia, la possibilità che tutto sia ricoperto, mare o sabbia non importa, appartiene al nostro modo di essere italiani.

Che fine ha fatto la “robba” dei boss? L’ Antimafia al lavoro sui dossier. “Da più parti riceviamo denunce che rivelano la persistenza di molte ombre nella gestione dei beni confiscati alla mafia” ha spiegato ieri Nello Musumeci, presidente della commissione regionale, che sta analizzando l’utilizzo delle ricchezze sottratte a Cosa nostra, scrive Giuseppe Pipitone su “L’Ora Quotidiano”. Palermo è la capitale della ”robba” dei boss. Il quaranta per cento di tutti i beni confiscati a Cosa Nostra, infatti, si trova nel capoluogo siciliano. Ed è proprio da Palermo che arriverà il primo dossier con le anomalie sulla gestione degli immobili confiscati alla mafia. Un patrimonio imponente: più di diecimila immobili, mille e cinquecento aziende, più di tremila beni mobili. Numeri che fanno dell’Agenzia per i beni confiscati, creata nel 2009 per gestire “la robba dei boss”, la prima holding del mattone d’Italia. E probabilmente anche la più ricca: il valore dei beni confiscati alle mafie, infatti, si aggira intorno ai 25 miliardi di euro. Un vero tesoro, che però spesso non riesce ad essere restituito alla collettività. A Palermo, per esempio, sono solo 1.300 i beni assegnati su un totale di 3.478. “Da più parti riceviamo, in audizione, denunce che rivelano la persistenza di molte ombre nella gestione dei beni confiscati alla mafia. Denunce che, dopo le trascrizioni, trasmetteremo alla magistratura e al ministero dell’Interno per le necessarie verifiche”, ha spiegato ieri Nello Musumeci, presidente della commissione regionale Antimafia, che sta lavorando ad un dossier sulla gestione dei beni confiscati. Proprio ieri la commissione Antimafia ha ascoltato la deposizione del prefetto Umberto Postiglione, che ha sostituito Giuseppe Caruso alla guida dell’Agenzia. “Insieme alla commissione Lavoro dell’Assemblea regionale siciliana – ha continuato Musumeci – stiamo elaborando una proposta di modifica della legge nazionale vigente  ponendo particolare attenzione due problemi: la tutela dei dipendenti di quelle aziende che spesso chiudono dopo la confisca; il patrimonio di edilizia abitativa da destinare, a nostro avviso, alle famiglie indigenti e alle Forze dell’ordine piuttosto che restare inutilizzato e in completo abbandono”. L’emergenza principale è forse rappresentata dai dipendenti delle aziende sottratte a Cosa Nostra. La maggior parte delle società confiscate, infatti, finisce per fallire, e i dipendenti rimangono senza lavoro. Questo perché il codice antimafia recentemente approvato, che ha preso il nome del ministro Angelino Alfano, prevede la liquidazione di tutti i crediti non appena l’amministratore giudiziario prende possesso della società. “Significa che se questa norma venisse intesa in senso rigido, il tribunale deve procedere a liquidare il 70 per cento dell’impresa per pagare tutti i crediti: e quindi non resterebbe alcuna risorsa per continuare a far vivere l’azienda”, spiega il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Gaetano Paci. Con il risultato che dopo la confisca gli ex dipendenti delle aziende di Cosa Nostra rimangono senza lavoro. “Con la mafia si lavora, con lo Stato no” gridavano negli anni ’80 gli operai delle prime aziende confiscate a Cosa Nostra. Oggi la situazione non sembra particolarmente migliorata. Un segnale poco incoraggiante,  pericolosissimo in una terra come la Sicilia che di segnali vive e si alimenta.

Mafia e “antimafia” qualcosa si muove, scrive Marco Salfi su “Telejato”. La notizia è molto recente, sembrerebbe che dopo anni di denunce, editoriali e servizi da parte di questa testata qualcosa si stia muovendo. Ad essere sotto indagine per l’accusa d’abuso d’ufficio teoricamente dovrebbe esserci Andrea Modica de Moach ex amministratore giudiziario delle aziende del gruppo Cavallotti, tuttavia al momento non si sa nulla in merito. Quello che è certo è che nei giorni scorsi un servizio delle Iene realizzato con la collaborazione della nostra redazione ha messo in luce la storia dei fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno, imprenditori assolti dall’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso e nonostante tutto oggetto ancora di misure di prevenzione patrimoniali. Il processo penale che ha visto l’assoluzione con formula perché il fatto non sussiste che ha visto protagonisti i 6 fratelli del piccolo paesino in provincia di Palermo era incentrato sulle presunte raccomandazioni che questi avrebbero avuto nell’aggiudicazione di alcuni appalti per la metanizzazione nei comuni di Agira e Centuripe. In realtà i pizzini che secondo l’accusa, e a tutt’oggi secondo le misure di prevenzione di Palermo incriminerebbero i Cavallotti indicavano chiaramente il pagamento del pizzo, la così detta in gergo mafioso “messa a posto” e non una raccomandazione che lascerebbe così spazio all’ipotesi di turbativa d’asta. Modica de Moach è stato nominato amministratore giudiziario delle aziende del gruppo Cavallotti nel 1999 dal tribunale di Palermo. Il suo compito era quello di amministrare le aziende in attesa che venisse concluso il processo legato alle misure cautelari che procede parallelamente a quello penale. Stando alla legge Modica avrebbe dovuto mantenere in attivo le aziende preservando i livelli occupazionali e mantenendo inalterato il volume d’affari. Tuttavia nulla di tutto questo è avvenuto. Per quella che in una relazione dello stesso modica è stata definita insolvenza tecnica è stato dato il via ad una serie di operazioni finanziarie, avallate per altro dal tribunale di Palermo, nelle quali attraverso alcune compravendite di rami d’azienda e alla cessione di debiti già prescritti Modica avrebbe percepito indebitamente del denaro dalle casse della Comest azienda del gruppo Cavallotti specializzata nella metanizzazione. Il dottor Vincenzo Paturzo curatore fallimentare presso il tribunale di Milano, analizzando dodici anni di bilanci aziendali ha riscontrato una situazione davvero singolare. Al contrario di quanto sostenuto da Modica la Comest aveva tutte le risorse finanziarie e non era come affermato in uno stato di “insolvenza tecnica”. Certo parliamo di una azienda sconvolta da una vicenda giudiziari importante ma non così malata. Al fine di risanare le sorti finanziarie Modica ha ceduto dei rami d’azienda del gruppo e li ha fatti rilevare da una società in amministrazione giudiziaria la Tosa, confiscata in via definitiva e amministrata dal fratello Giuseppe Modica con l’avallo del tribunale. Un operazione che nei bilanci non avrà alcun beneficio. Beneficio che invece trarranno le società che venderanno i rami d’azienda in questione realizzando un profitto di un milione di euro. Quanto ai debiti prescritti (quindi non più dovuti ne esigibili) nel 2009 questi vengono ceduti tramite scrittura privata da Comest e Icotel (società del gruppo Cavallotti) alla Advisor and services for Business di cui diventerà amministratore unico proprio Modica de Moach pochi mesi dopo la firma di questa scrittura privata, facendogli così acquisire indebitamente un milione di euro. Sui fatti esposti, la commissione regionale antimafia dapprima ha audito Pino Maniaci e qualche giorno fa ha ascoltato la testimonianza di Pietro Cavallotti. Sulla scorta di queste audizioni e delle numerose denunce di anomalie la commissione guidata da Nello Musumeci sta preparando un dossier. «Dopo avere completato le trascrizioni – annuncia il presidente dell’Antimafia – provvederemo a trasmettere il documento anche all’autorità giudiziaria’. «Abbiamo riferito al prefetto (Postiglione ndr) che in un anno e mezzo la commissione ha raccolto il grido di allarme di giornalisti, amministratori, imprenditori e rappresentanti dei lavoratori che denunciano la persistenza di molte ombre nella gestione dei beni tolti alla mafia». «In alcuni casi – ha spiegato Musumeci – si tratta di denunce di vere e proprie incompatibilità, situazioni preoccupanti. In altri casi abbiamo riscontrato la concentrazione di molti incarichi nelle mani di un unico amministratore e tentativi di favorire società e studi professionali». Pietro Cavallotti dopo l’audizione si è detto soddisfatto per aver avuto la possibilità di raccontare davanti alle istituzioni la storia della sua famiglia. «Ho avuto la possibilità – ha affermato Cavallotti –  di replicare alle affermazioni fuorvianti rese dai magistrati Scaletta e Petralia lo scorso 21 ottobre alla Commissione Nazionale Antimafia» «Viviamo in una condizione di indigenza a seguito dei vari provvedimenti giudiziari e siamo impossibilitati a trovare un lavoro per la cattiva reputazione costruita attorno alla nostra famiglia» Cavallotti ha chiosato «Tuttavia  ringrazio Telejato per avere per primi avuto il coraggio di denunciare il malaffare che ruota attorno al sistema dei beni sequestrati». Continuerà l’indagine di Telejato che da anni sta denunciando questa gravissima situazione, anche attraverso la petizione lanciata su change.org nella quale si chiede che Pino Maniaci venga ascoltato dalla commissione nazionale antimafia.

Il lato oscuro dell'antimafia, scrive “La Repubblica” che diventa paladina di quell’antimafia partigiana, di sinistra e pro magistrati che vedono in “Libera” lo sbocco naturale e interessato. Perché al di la di “Libera” c’è un sistema emarginato di associazioni libere di fatto che ogni giorno devono combattere la mafia e l’antimafia.

Le associazioni che si presentano come paladine della legalità sono centinaia ma non tutte sono affidabili. Anzi. La loro presenza e la loro attività rischiano di svilire il lavoro eccezionale di gruppi storici diventati paladini della lotta ai clan. Rapporti della polizia giudiziaria, racconti dei pentiti, inchieste dei magistrati, svelano che spesso dietro una pretesa onestà si nascondono interessi personali e, in alcuni casi, contigui con la stessa criminalità organizzata. Il tutto all'ombra di fondi pubblici, raccolte di beneficenza e, persino, utilizzo di beni sequestrati alle cosche. Una realtà allarmante su un tema delicatissimo.

Quando crollano passione e onestà, scrive Federica Angeli. E' la faccia oscura dell'antimafia. La parte che insinua sospetti e che inquina, alla fine, il grande lavoro svolto per il trionfo della legalità. Una faccia disegnata da decine di piccole e grandi associazioni. Nascono, da nord a sud, soprattutto sull'onda emotiva di arresti o inchieste eclatanti contro il crimine organizzato nei propri territori. Si vestono di buoni principi e di slogan efficaci. Ma poi, lontano dai riflettori, finiscono per emergere i veri elementi che li sorreggono: una galassia costellata di opportunisti, personaggi ambigui, cacciatori di immagine, uomini e donne che agiscono con prevaricazioni, spesso ricatti, per far tacere chi osa denunciarli. Così si disperde quella lotta che è fatta di passione e onestà, e si dissolve in mille rivoli, partendo da un'antipolitica spinta al parossismo, fatta di scherni e nomignoli affidati al politico di turno, con l'obiettivo di affossarlo per prenderne il posto. Fino ad arrivare al lavoro sottotraccia e silenzioso, necessario per infiltrarsi in aziende e mettere le mani sui beni confiscati dallo Stato alla malavita organizzata e assegnati in gestione alle cooperative. Sciascia li chiamava i "professionisti dell'antimafia". Sbagliava bersaglio il giornalista e scrittore siciliano, ma il concetto è ancora vivo. I cosiddetti "Eroi della sesta" che, attraverso lo stendardo della lotta al crimine organizzato e alla malavita, si accreditano su un territorio e poi si gettano su carriere politiche e finiscono per fare il gioco della criminalità, purtroppo esistono. Perché vestirsi di antimafia oggi spesso diventa un modo per ripulire la propria immagine. "La 'ndrangheta studia a tavolino, in modo scientifico, la possibilità di creare o avvicinare le associazioni antimafia esistenti per continuare a fare i propri interessi. È una strategia", sostiene il collaboratore di giustizia Luigi Bonaventura. Il fenomeno in Italia è cresciuto in maniera esponenziale. Sono tante le piccole associazioni nate dalla Lombardia alla Puglia, passando per il Lazio, all'ombra e sul modello di associazioni serie come Libera, il movimento delle Agende Rosse, daSud, Caponnetto, Addiopizzo. Perché parlare di mafia può attirare fondi e consenso elettorale, soprattutto nelle piccole realtà. Come si diventa associazione antimafia. Ma chi si nasconde dietro le associazioni antimafia? E chi controlla che dietro questo business non ci sia l'ombra della malavita? Nessuno. Il difetto sta alla radice. Il percorso per avere il bollo di antimafia è infatti identico a quello che segue un circolo ricreativo. Per aprire un "club" antimafia ci sono diverse strade: quella della costituzione di un'associazione, che nella stragrande maggioranza diventa onlus, quello delle attività di promozione sociale e quello delle fondazioni. Nel primo caso basta un semplice atto costitutivo che ne sancisca la nascita e lo scopo, uno statuto che stabilisce regole e organizzazione del gruppo. Quindi si deposita il contratto d'associazione presso l'ufficio del registro competente e si fa richiesta di iscrizione all'albo regionale delle organizzazioni di volontariato, al registro provinciale delle associazioni e all'anagrafe comunale delle associazioni. Poi ci sono le attività di promozione sociale: queste associazioni presentano uno statuto e devono essere iscritte presso la presidenza del Consiglio dei ministri, dipartimento per gli Affari Sociali e sono iscritte a un registro nazionale del ministero del Lavoro e delle politiche sociali. In Italia ce ne sono 174 e come associazione antimafia riconosciuta c'è solo Libera, il faro di tutte le realtà che fanno concretamente antimafia sul territorio nazionale. Infine, le fondazioni: una volta redatto l'atto costitutivo e depositato da un notaio lo statuto, chiedono un riconoscimento presso la prefettura di competenza se operano a livello nazionale, o presso la Regione se sono attive soltanto in un territorio circoscritto. Sull'ultima modalità si è di recente espresso Raffaele Cantone, presidente dell'Autorità anticorruzione, gettando più di un dubbio sul grado di trasparenza della gestione di alcune fondazioni: "La maggior parte delle attività politiche si è spostata fuori dai partiti, contenitori non sempre pieni, e si svolge nelle fondazioni che dovrebbero essere trasparenti. Il business dei falsi paladini. Scandagliando i registri di Regioni, Province e Comuni, in Italia si tocca quota 87mila di associazioni. Di queste 49.801 sono diventate onlus, si sono iscritte al registro dell'Agenzia delle entrate e hanno fatto richiesta di ricevere il 5 per mille dei contributi Irpef degli italiani. Oltre 2.000 dovrebbero essere antimafia a giudicare dal nome di battesimo che hanno scelto, legato ai personaggi che attraverso la lotta alla mafia hanno fatto grande il nostro paese. Così si trovano associazioni nate nel nome di Borsellino, di Falcone e di tanti altri. Molte rievocano intestazioni da codice penale "416bis" o "41bis". Poi ci sono altre, tantissime altre associazioni che agiscono all'ombra di quelle grandi e piccole organizzazioni virtuose e realmente operative. Prendendo soldi dagli iscritti all'associazione (contributi volontari si legge negli statuti, laddove sono pubblicati), oppure dallo Stato con richieste di alloggi o di progetti da finanziare. Tradotto in soldi: migliaia e migliaia di euro che non si sa dove finiscono, visto che moltissime di queste associazioni non hanno mai pubblicato in rete i loro bilanci. Eppure, nei vari territori in cui operano, si continuano a spacciare per comitati o coordinamenti "contro tutte le mafie". Poi però, seguendole attraverso i social network o nei dibattiti pubblici, si scopre che tutto fanno tranne contrastare le mafie. Così capita di leggere anatemi contro Saviano, insulti a presidenti di municipio tacciati di essere denunciati per mafia quando la notizia è destituita di ogni fondamento, attacchi strumentali al partito che governa quel territorio, fino a scoraggiare le persone dal fare nomi e cognomi di clan malavitosi perché "le denunce non siamo noi a doverle fare", o anche a gettare ombre sulle associazioni antimafia serie che operano sul territorio. Ma di comunicati antimafia neanche l'ombra. Quasi sempre, quando si indaga sui personaggi che le governano, ci si accorge che a farne parte sono persone che non hanno sfondato in politica e che tentano di riavvicinarsi alla poltrona attraverso l'Antimafia. Oppure persone allontanate dalle forze dell'ordine che sotto lo stendardo dell'associazionismo antimafia, sfilano in marce per la legalità al fianco di personaggi collusi con la criminalità organizzata oppure hanno ricevuto locali per la sede di associazioni da presidenti di provincia rimossi dall'incarico e condannati per abuso di ufficio. Gli inganni dell'antimafia. Nel composito  -  e talvolta oscuro  -  universo delle associazioni antimafia può quindi capitare di imbattersi in "icone" e personaggi dal doppio volto. Si prendano ad esempio le peripezie di Rosy Canale. A stravolgere l'immagine pubblica della coordinatrice del "Movimento delle donne di San Luca", considerata un'eroina in perenne battaglia contro la malavita organizzata, è stata l'inchiesta della Dda di Reggio Calabria sugli affari delle cosche 'ndranghetiste Nirta e Strangio di San Luca. Un'indagine che alla fondatrice dell'associazione antimafia, lo scorso giugno, è costato un rinvio a giudizio per truffa e malversazione. Le accuse contro Rosy Canale sono state formulate a margine dell'operazione che ha portato all'arresto dell'ex sindaco del piccolo Comune calabrese, poi sciolto per infiltrazioni mafiose. Si tratta di Sebastiano Giorgi, un politico "capace", che sfilava in cortei contro la 'ndrangheta al mattino e stringeva accordi elettorali con le cosche alla sera. In cambio di voti avrebbe assegnato l'appalto per la metanizzazione della cittadina alle cosche Pelle e Nirta. E Rosy Canale? Nell'operazione simbolicamente nominata "Inganno", i carabinieri di Reggio Calabria hanno arrestato l'autrice di libri sulla 'ndrangheta per truffa e peculato. Attraverso il proprio movimento e la fondazione "Enel Cuore" aveva ottenuto tutto il necessario per inaugurare un vero gioiello dell'antimafia nel cuore di San Luca: 160 mila euro pubblici e uno stabile confiscato ai Pelle. Peccato che la struttura non abbia mai visto la luce: la Canale avrebbe infatti speso i soldi di prefettura e Regione per quelli che i militari dell'Arma hanno definito "motivi esclusivamente personali". Così, se da una parte nella lista degli acquisti di Rosy Canale finivano una Smart e una Fiat 500, dall'altra l'eroina affossava anche le speranze delle donne che hanno deciso di seguirla nelle sue battaglie: i 40 mila euro del progetto "Le botteghe artigianali" sono stati spesi non per promuovere l'attività manifatturiera del sapone, ma per acquistare cosmetici da rivendere con il logo dell'associazione. L'antimafia come arricchimento personale è però un volume che si compone di diversi capitoli. Ecco, rimanendo ancora in provincia di Reggio Calabria, la vicenda di Aldo Pecora, leader di "Ammazzateci tutti", finito nell'occhio del ciclone per via della propria residenza. Il presidente e fondatore del movimento contro le 'ndrine, fondato nel 2005 dopo l'uccisione del vicepresidente del consiglio regionale della Calabria Francesco Fortugno e supportato anche dalla figlia del magistrato Antonino Scopelliti, ucciso dalla mafia il 9 agosto 1991, risultava essere residente in uno degli appartamenti ricavati in un "fabbricato in corso di costruzione" a Cinquefrondi. Nulla di cui dubitare, se non fosse che il palazzo in questione sia stato di proprietà della cosca Longo di Polistena, clan egemone nella zona dagli anni '80 e disarticolato dalle operazioni Scacco Matto del 2011 e Crimine del 2010. Pronta la reazione dell'avvocato della famiglia Pecora, che in una replica agli articoli della cronaca locale ha minacciato querela per poi parlare di "agguato mediatico" e spiegare che né Aldo né i genitori hanno mai pensato che il palazzo dove vivevano in affitto potesse essere patrimonio mafioso prima del sequestro del 7 febbraio 2012. Sul caso e la relativa denuncia per diffamazione decideranno i giudici del tribunale di Reggio Calabria. Nel frattempo, le procure di tutta Italia indagano su casi simili. Perché, come scrive il gip Domenico Santoro nell'ordinanza di custodia cautelare redatta per il caso Canale, "fa certo riflettere che persone che si presentano come paladini della giustizia finiscano con l'utilizzare scientemente per malversazioni di denaro pubblico e vere e proprie attività fraudolente l'antimafia. Non controllare simili ambiti del sociale è forse peggio che rimanere scarsamente attivi nel contrasto alla criminalità mafiosa".

A Ostia minacce e ricatti per ottenere favori, scrive Lorenzo D’Albergo.

Andrea Tassone, lei è stato minacciato da una persona che ora fa antimafia, non appena è stato eletto presidente del X Municipio di Roma. È così?

"Sì, lui prima era candidato nella Lista civica Marino e faceva parte della mia coalizione, ma non lo avevo di certo fatto io il suo nome. Prese un centinaio di voti e non appena fui eletto mi mandò il seguente messaggio, via sms: O mi dai l'assessorato Turismo e Cultura e due persone a mia scelta o ti pianto un casino".

Lei come ha risposto?

"Andando dai carabinieri a sporgere denuncia per estorsione. Denuncia che ora è in mano a un magistrato".

Questa persona ora fa parte di un'associazione antimafia, giusto?

"Sì, ma per quanto mi riguarda il comportamento che ha quel soggetto e altre persone a lui vicine non è affatto coerente con quanto sostengono di fare. Io penso che la mafia vada combattuta nelle sedi istituzionali tagliando tutti i ponti con alchimie e collusioni con soggetti che facevano parte della vecchia amministrazione. E certo non si combatte attraverso un social network né facendo antipolitica. L'antimafia non dovrebbe avere un colore politico. O sbaglio?".

Probabilmente possono avere delle prove schiaccianti contro di lei e il suo modo di gestire il denaro pubblico.

"Se hanno queste prove andassero in procura a denunciarle. Sono mesi che, con frequenza quotidiana, insinuano che questa amministrazione operi in modo poco chiaro e insinuano che ci siamo messi in tasca dei soldi per opere che abbiamo fatto e hanno persino scritto che io ero stato denunciato per mafia. Tutto falso. Sono stato denunciato perché non ho dato loro la sala consiliare per fare un'assemblea contro la mafia e parliamo di agosto 2013. Non conoscevo lo statuto dell'associazione, perché non me lo hanno inviato, e come non l'ho data a nessuno e solo ai rappresentanti politici per una presentazione, non vedo perché loro avrebbero dovuto avere un palco privilegiato. Soprattutto alla luce del fatto che di un argomento così serio come l'antimafia possono dibattere soltanto persone più che titolate a farlo. Non chi di antimafia non sa nulla, ma al contrario assume certi atteggiamenti, come ricattarmi per avere un assessorato".

Da chi è composta questa associazione antimafia?

"Io conosco solo tre persone e so che sono state allontanate dalla politica, sono persone che non sono state votate e ora smaniano per avere consulenze o incarichi che magari possono aver avuto nelle precedenti amministrazioni. Nella mia non c'è posto per persone così, persone che mistificano la realtà, e sostengono che noi siamo tutti collusi e ladri. Lo dimostrassero invece di spargere fango".

Insomma, da lotta antimafia ad attacco politico, fino ad arrivare a un cosiddetto stalking telamatico.

"Con frequenza quotidiana parlano di me attraverso i social network e i siti delle loro molteplici associazioni. Sì, perché ne hanno almeno sei di associazioni, virtuali e non, sul territorio attraverso cui spargono fango. Non solo quella antimafia. Ogni cosa è motivo di critica. La critica è giusta, per carità, ma a queste persone interessava far parte dell'amministrazione e avere un ruolo. E se i cittadini non li hanno voluti, non ci posso fare nulla. Siamo ancora in democrazia".

Quindi, torno a chiederle, questa associazione non fa antimafia?

"Non so cosa fa, ma l'amministrazione ha messo dei paletti ben precisi sul taglio delle collusioni tra amministrazione e mafia. Se ho sentore di questo o di atteggiamenti di prevaricazione e ricatto io non do alcun credito, l'aria è cambiata: qui a Ostia non funziona più così".

Lei ha paura di queste persone?

"Io non ho paura di nessuno, la cosa che mi dispiace è che da loro vengono pubblicati gli indirizzi di casa mia e dei miei anziani genitori su Facebook. Io sono il presidente di un municipio e abito in un posto isolato con un figlio minorenne. Se qualcuno, fomentato dalle loro menzogne, non fosse in linea con le mie scelte, decidesse di farmi del male conoscendo la mia abitazione? Non lo trovo giusto, ho informato i carabinieri che mi stanno davvero aiutando molto".

Lei lo ha denunciato per estorsione, la procura ha in mano il fascicolo. È fiducioso?

"Sono stato qualche tempo fa dal procuratore capo della procura di Roma Giuseppe Pignatone. Le sue parole mi risuonano ancora nelle orecchie: "Non si lasci scoraggiare presidente, vada avanti". Sono parole che danno molta carica e molta voglia di fare bene. Non posso non aver fiducia nella magistratura, quando ho visto con i miei occhi quello che la procura di Roma ha fatto per questo territorio con l'operazione Alba Nuova, che ha portato all'arresto di 51 persone".

La garanzia del modello Libera, scrivono Federica Angeli e Lorenzo D’Albergo. Se alcune delle associazioni passate in rassegna sembrano essere più attente alla propria partita Iva che al contrasto alla malavita organizzata, dall'altra sponda del fiume antimafia c'è Libera. Riconosciuta come associazione di promozione sociale dal ministero del Lavoro e inserita nel 2012 nella lista delle 100 migliori organizzazioni non governative del mondo per la trasparenza dei suoi bilanci e dei contratti dei suoi 15 dipendenti, Libera pubblica tutti i suoi rendiconti sul proprio sito a garanzia di una condotta a prova di "antimafia". A denunciare la latitanza di un sistema di controlli efficace è Gabriella Stramaccioni, responsabile delle politiche sociali, per 18 anni coordinatrice nazionale di Libera e braccio destro del presidente Don Luigi Ciotti: "Purtroppo non esiste una Authority che controlli il terzo settore (il comparto onlus e associazioni, ndr) ed è praticamente impossibile monitorare e attenzionare chi gravita nell'associazionismo che fa antimafia. O meglio, un organismo di controllo c'era, ma è stato abolito dal governo Monti. Abbiamo chiesto che venga ripristinato e c'è una proposta di legge attualmente in discussione in Parlamento (Il ripristino dell'Authority è nelle linee guida della Riforma del terzo settore a cui sta lavorando il governo ndr)". "E' difficile fare differenza tra buoni e cattivi - continua Gabriella Stramaccioni - perché ci sono movimenti che nascono sull'onda emotiva, che servono per denunciare quel particolare fenomeno. Poi, però, sull'azione di lungo raggio, ci si accorge che non si tratta più di antimafia. Noi, invece, siamo seriamente impegnati nella lotta contro la criminalità organizzata". Mettendo in rete più di 20 mila volontari e 1.300 associazioni a livello nazionale e locale e incontrandone i rappresentanti durante le assemblee e gli stati generali antimafia, come quello previsto ad ottobre a Roma, Libera ha fatto passi da gigante negli anni: ha un protocollo col ministero dell'Istruzione, organizza centinaia di interventi nelle scuole e nelle università con i familiari di vittime di mafia e testimoni pronti a incontrare i ragazzi. "Autofinanziandoci - spiega ancora la coordinatrice di Libera - abbiamo indagato e scritto dossier sulla ricostruzione dell'Aquila, sulle mafie nel pallone e le loro infiltrazioni nel calcio, e sullo scandalo delle sale slot. Naturalmente, come è esplicitato nello statuto di ogni associazione antimafia veramente operativa, supportiamo i cittadini vittima della malavita costituendoci parte civile nei processi penali. "Quanto ai beni confiscati - prosegue Stramaccioni - Libera non li gestisce direttamente, ma dà supporto alle cooperative che partecipano ai bandi. Le nostre battaglie non le abbiamo mai fatte contro una casacca politica, ma contro quello che ritenevamo dovesse essere cambiato. Così è stato per il 416ter, la gestione dei beni confiscati". Una gestione che certo non piace alla mafia e ai suoi capi come dimostrano le recenti minacce fatte da Riina a Don Ciotti.

Eppure Sciascia si sbagliava, scrive Federica Angeli. Sciascia parlava dei professionisti dell'antimafia, intendendo coloro che fanno l'antimafia "come formidabile strumento per fare carriera, procurarsi il consenso del pubblico, acquisire crediti da spendere in qualsivoglia impresa". Insomma i quaquaraquà dell'antimafia. Esiste questo pericolo? Giriamo la domanda al Procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. "Sciascia - risponde - sbagliava completamente bersaglio, perché se la prendeva con magistrati di cui poi si è dimostrato l'effettivo impegno nell'antimafia, fino al sacrificio della vita, come nel caso di Borsellino. A parte questo clamoroso errore, il rischio è molto concreto. Ne esiste uno generale che soggetti che perseguono interessi personali non confessabili e non coerenti con interessi della collettività si inseriscano nelle associazioni antimafia o le fondino per crearsi o ricrearsi una verginità sotto il simbolo della lotta alle mafie. Poi esiste un altro pericolo, ovvero che imprenditori un tempo contigui alle associazioni mafiose entrando in questi sodalizi si rimpossessino del bene confiscato. Negli anni passati abbiamo verificato attraverso indagini della Dda di Napoli che alcuni soggetti si erano avvicinati nel casertano a cooperative a cui era stata affidata la gestione dei terreni confiscati".

Il vessillo dell'antimafia viene dunque sfruttato oggi come una sorta di trampolino di lancio per avere una credibilità. Un segnale può essere il proliferare di tante di queste presunte associazioni?

"Non c'è dubbio che bisogna sempre stare molto attenti a chi ha le insegne dell'antimafia e che cura interessi che non sono corretti e che sono ben diversi da quelli della collettività. L'antimafia non può avere contropartite personali. La proliferazione è un fatto di per sé positivo, la cultura della legalità va benissimo, ma in concreto bisogna vedere cosa queste associazioni fanno e le istituzioni di polizia e della magistratura devono vigilare".

Prima che il governo Monti la abolisse, esisteva l'Authority del Terzo Settore. Esiste oggi un organo che controlli tutte queste associazioni antimafia?

"No attualmente non esiste, è un po' affidato all'autodisciplina dei dirigenti di queste benemerite associazioni ai quali raccomandiamo di vigilare sui soggetti che ne entrano a fare parte e di segnalarli immediatamente agli organi competenti".

Come può un cittadino difendersi da chi fa finta antimafia e abusa della credibilità altrui?

"Il cittadino può segnalare elementi di sospetto, ma siamo noi delle istituzioni che dobbiamo vigilare e immunizzare certe realtà. La collaborazione del cittadino la promuovi e la incentivi nel momento in cui lo Stato dimostra di fare sul serio".

Lei propose concretamente, quando era nella Dda di Napoli, di fare qualcosa per stanare l'antimafia di facciata. Cosa?

"Proposi, nella riassegnazione dei beni confiscati, il controllo capillare di quel bene. Vede, i beni confiscati riassegnati, specialmente le aziende produttive, sono spesso a rischio di riconquista mafiosa. Le mafie non perdono mai interesse verso il bene che è stato loro confiscato e c'è sempre il rischio di un ritorno al possesso di quel bene, attraverso dei prestanome e delle finte associazioni appunto. Seguire tutte le vicende societarie di quel bene, partendo dagli organismi dirigenti delle aziende, perché non ricada nelle mani della criminalità organizzata, diventa dunque uno strumento fondamentale per l'azione di contrasto all'accumulazione di ricchezza criminale".

Che tipo di controlli si possono fare?

"Vanno fatti rigorosi controlli preventivi. Per esempio non dimentichiamo che stanno per partire gli appalti per la bonifica della Terra dei Fuochi su cui va concentrata la massima attenzione investigativa".

Secondo lei un'associazione antimafia che attacca continuamente attraverso dibattiti e attraverso internet politici dalla fedina penale immacolata o altre associazioni antimafia e giornalisti che hanno fatto inchieste sulla mafia possono essere credibili su un territorio?

"Questi sono evidentemente atteggiamenti sospetti che andrebbero valutati".

Le associazioni che evitano di fare il nome di criminali nella zona in cui fanno antimafia hanno invece credibilità?

"Direi assolutamente no, ma bisogna distinguere caso per caso e capire per quale motivo si comportano così".

Ci sono associazioni antimafia come la capofila Libera, daSud, il movimento Agende Rosse, Caponnetto, Addiopizzo di Palermo che giorno dopo giorno si muovono con strumenti efficaci e danno concretezza alla loro lotta. Possiamo fidarci di queste?

"Assolutamente sì".

Un'associazione per i testimoni, scrive Alan David Scifo. Fra tutte le associazioni antimafia in Italia ce n'è una che nasce dalla voglia di un uomo che ha vissuto in prima persona gli effetti dell'estorsione nei suoi confronti. Questo uomo è Ignazio Cutrò, imprenditore edile di Bivona, nell'agrigentino, che nel 1999 ha avuto la forza di dire un secco "no" alle richiesta di pizzo delle cosche. Cedere avrebbe significato non avere più la forza di guardare negli occhi i suoi figli, ma dopo questa risposta negativa il lavoro di Cutrò è crollato. Numerosi mezzi edili sono stati bruciati e nessuno ha più voluto affidargli lavori per paura di futuri problemi. Dal 2006 l'imprenditore, insieme alla propria famiglia, è stato inserito nel programma di protezione dei testimoni giustizia. Dopo aver dato vita all'associazione "Libere Terre" ad Agrigento, ha fondato un'associazione antimafia che raccoglie i testimoni di giustizia d'Italia.

Ignazio Cutrò come mai ha deciso di fondare questa associazione?

"Volevo fare qualcosa di diverso dalle altre associazioni. In Italia ci sono associazioni antimafia solo di nome ma che poi non agiscono sul campo, la mia si è più volte costituita parte civile in molti processi antimafia, ha aperto sportelli on-line per essere sempre contattabile da chiunque voglia ribellarsi alle cosche. Inoltre siamo riusciti, attraverso l'associazione di cui sono presidente, a far approvare il decreto legge che permette ai testimoni di giustizia di essere assunti nella pubblica amministrazione.

Ma come mai non si è rivolto alle associazioni antimafia esistenti?

Perché molto spesso accade che nessuno ti cerca quando sei in una posizione del genere. Nessuna associazione mi ha aiutato all'inizio, l'unica persona che mi è stata vicina sin dall'inizio è stato Don Luigi Ciotti. Le altre associazioni che invece agiscono contro la mafia solo di facciata ma poi non aiutano le persone che veramente ne hanno bisogno fanno il gioco della mafia. Molto spesso queste associazioni, oltre a non aver al proprio interno persone che hanno vissuto le intimidazioni sulla propria pelle, non hanno mai contattato nessuno che è stato vittima di estorsioni.

Per quanto riguarda i fondi, da chi è finanziata la vostra associazione?

Non riceviamo alcun tipo di finanziamento. La nostra associazione è interamente autogestita nonostante personalmente sono in ristrettezze economiche. Nei processi confidiamo sull'aiuto di avvocati che lavorano gratis per noi, ma nessuno ci ha mai aiutato economicamente. Molte associazioni vengono finanziate dallo stato, ma cosa fanno di concreto?

Lei ha denunciato i suoi estorsori e poi hai rifiutato di andare via dalla Sicilia, nonostante lo Stato le avesse dato la disponibilità di farsi una nuova vita. Perché?

Io la mafia voglio combatterla da qui. Io amo la mia terra e sono fiero di essere siciliano. Per questo motivo ho deciso di non scappare e di aiutare anche gli altri che sono nel mio Stato. In Italia siamo 88, di cui 44 fanno parte dell'associazione, molto spesso siamo abbandonati da tutti. Quando dico che lo stato ci ha abbandonato, non intendo i governanti, ma i singoli cittadini. Io ho rifiutato un posto regionale e tutto ciò che era pronto per farmi vivere una seconda vita, ma con la mia famiglia abbiamo deciso di lottare da qui. Decidendo questo però adesso sto combattendo una guerra difficile: non lavoro più e ora mi hanno pure tagliato il gas.

Alcune volte le associazioni antimafia sono usate come trampolino per la politica.

Lo so bene. Ma chi nasce soldato deve morire soldato. Io ho rifiutato posti in politica che mi sono anche stati proposti. Io sono un imprenditore e voglio continuare il mio lavoro da imprenditore.

“Buttanissima Sicilia” a Palermo. Intervista a Salvo Piparo e Pietrangelo Buttafuoco di Gianluca Ferrari su “La Gazzetta Palermitana”. Il 31 gennaio 2015 Buttanissima Sicilia arriva a Palermo. In questa tappa, che si preannuncia la più importante, sarà il Teatro Biondo a offrire il palco al libro denuncia di Pietrangelo Buttafuoco – già successo editoriale di questa estate – divenuto recitazione per mezzo dello stile inconfondibile di Salvo Piparo, Rosemary Enea e Costanza Licata. Un grido di disperazione e d’amore, amore terribile, verso una terra ormai patria del malaffare e del peggiore costume politico. Ed è il fardello di ogni siciliano: soffrire. Perchè – e qui Carmen Consoli ci permetta la citazione – amare la Sicilia è come amare una prostituta, ti tradirà sempre, ma ne sei così innamorato che non puoi separartene. Abbiamo incontrato per voi i protagonisti: Pietrangelo Buttafuoco e Salvo Piparo, il giornalista scrittore e il cuntastorie, ”un cronista ai tempi in cui non esisteva ancora il telegiornale”.

INTERVISTA A SALVO PIPARO.

 Come nasce l’incontro con Buttafuoco e l’idea di portare a teatro Buttanissima Sicilia?  

«Salvo e Valentino (Ficarra e Picone) mi parlavano da tempo di Pietrangelo Buttafuoco e della sua scrittura. E’ stato durante le riprese di “Andiamo a quel paese” che poi ci siamo effettivamente incontrati, avevo comprato in quei giorni Buttanissima Sicilia e lo stavo per finire. Lui mi ha detto: se ti piace, hai carta bianca, lo puoi mettere in scena. Lo spettacolo è diventato una sorta di centro di aggregazione dove dentro ci sono finiti Salvo, Valentino (loro è la scrittura del racconto finale), le canzoni e l’ironia di Costanza Licata e anche la satira religiosa: un rosario di Sicilia che si presta al gioco di parole con Rosario Crocetta, la denuncia di una serie di sue farfallonate».

Quale è stata la risposta del pubblico?

«Durante queste repliche abbiamo avuto tutti la sensazione che lo spettacolo sia cresciuto, si sia ormai collaudato. Ci capiamo di più tra noi attori, ma anche il messaggio arriva meglio al pubblico. Ad esempio, per me parlare dell’Autonomia aveva un certo margine di rischio, oggi noi con le repliche e con lo studio che abbiamo fatto sulle cose che sono accadute nel frattempo con il Governo Crocetta, ci trovavamo a infiammarci nel raccontare una regione veramente buttanissima, che si prostituisce, con le trivelle che arrivano, dove si grida ad un No Muos che però poi si fa, e dove tutto diventa una farsa. E poi il teatrino della mafia dell’antimafia…»

Ecco, a proposito di quest’ultimo concetto, la mafia dell’antimafia.

«Parleremo di due mafie e le faremo duellare, sono la mafia e la mafia dell’antimafia che si sta arricchendo. Certo, anche questo è un concetto rischioso, lo sapevamo tutti quanti, per molti è ancora prematuro, però è un concetto antico già affrontato da Sciascia alla sua maniera. Noi siciliani, d’altronde, siamo esattamente spaccati in due. Spiritosi quanto delittuosi. Ma dal voto corrotto in poi si arriva al degrado. Io e Costanza Licata siamo nati in due quartieri popolari, sappiamo benissimo qual è il carattere di questa città e di questa regione, l’animo di noi isolani è pessimista perchè respiriamo l’irredimibile, e possiamo anche aggrapparci a degli specchietti… il fermento, la primavera di Orlando, il tram, ma la verità è che la città ha bisogno di alcune scosse. La Sicilia non può essere solo fiction, mi vergogno di avere partecipato a Squadra Antimafia – Palermo oggi, già il titolo è tutto sbagliato».

«E in questo quale dovrebbe essere il ruolo della satira? Oggi dopo la strage di Parigise ne torna a parlare.

«Il teatro civile questo deve fare: denunciare, innescare nella gente un senso di rivalsa. Ma il teatro non può essere mai violenza. Lungi da noi fare uno spettacolo politico, ma nella satira è così, si prende in giro Crocetta così come Nello Musumeci. Ce la prendiamo con un sistema, non con la persona».

La Sicilia che spazi offre per l’arte?

«Io ho 34 anni, mi considero ancora un giovane. Come giovane ti dico che non si può vivere di teatro in questa nostra terra. Conosco un sacco di talenti palermitani che sono costretti a fare i caffè nei bar per poter andare a fare teatro la sera. Altrimenti significa che ti passano dei finanziamenti, come viveva la vecchia guardia palermitana: impiegati pubblici a tutti gli effetti, prendevano finanziamenti dal Comune, dalla Provincia e dalla Regione. Erano dei privilegiati. Oggi soldi non ci sono più. Ameno che non diventi Ficarra e Picone, che non hanno bisogno di queste logiche, ma stiamo parlando di eccezioni. La soluzione è fare gruppo con un pugno di persone che hanno le idee chiare e che si stimano a vicenda. Questo è quello che faccio con la cooperativa Terradamare, ragazzi con tanta voglia di fare».

Nell’epoca del teatro sperimentale, tu scegli  di ritornare a un genere antichissimo come quello del cunto. Come mai?

«Il cabaret non è mai stato il mio obiettivo, volevo raccontare le cose che mi piacciono, la storia di Palermo. Ho iniziato col raccontare il mio quartiere, l’Albergheria, poi sono andato oltre, Brancaccio, la Guadagna, il Capo, Passo di Rigano che si chiama così perchè era un passo pieno pieno di origano, ho raccontato l’Ucciardone, perchè tutto coltivato a cardoni, la Via Libertà che di libertà non ha niente perchè in una notte Ciancimino la debellò, abbattendo le ville liberty. Ci sono delle storie splendide che ho ereditato da mio nonno. Questo voglio raccontare: noi, chi siamo. Ho lavorato degli anni a Milano, ma ero siciliano solo nella carta d’identità e quindi un perdente perchè di siciliano non sapevo niente. Lì ho aperto gli occhi e tornato a Palermo ho iniziato a divulgare questo verbo, la nostra identità. Ma la cosa più importante è che la gente uscendo da teatro ha capito quello che ha visto, in nome del teatro sperimentale la gente esce dopo aver visto una cosa che non ha capito però ha battuto pure le mani».

Di questa Sicilia forse fra qualche secolo ne faranno un cunto. Manca però la natura epico-cavalleresca, cosa ci sarà da raccontare?

«Ti dico una cosa. In verità il cunto non viene dalla tradizione epico-cavalleresca. Hanno voluto dire così perchè conveniva dire così. I cunti vengono dagli antichi greci, Omero quindi – cuntastorie per eccellenza – raccontava le storie della mitologia greca. Ora, i greci vennero in Sicilia, i francesi vennero in Sicilia, la mistura delle due tecniche fece nascere il mestiere del cuntastorie siciliano che unì le gesta dei paladini di Francia, lasciate in eredità dai francesi, con la metrica greca. I nostri avi si mettevano attorno a un fuoco, quando non esisteva la televisione, e si raccontavano le storie, le sciarre, i duelli all’arma bianca, lo stesso episodio della Baronessa di Carini è una storia delittuosa, non c’è niente di epico-cavalleresco. I cuntastorie, quindi,  alla loro maniera, raccontavano fatti di cronaca. Ed è quello che stiamo facendo anche noi con Buttanissima Sicilia, raccontando l’attualità continuiamo la tradizione».

INTERVISTA A PIETRANGELO BUTTAFUOCO di Gianluca Ferrari su “La Gazzetta Palermitana”.

Dopo un fortunato tour nel resto dell’Isola, lo spettacolo finalmente va in scena a Palermo, proprio la sede di quel “Palazzo” al centro della sua invettiva. Palermo è il punto di arrivo e contemporaneamente la tappa di partenza. La città, per la sua sensibilità, per la sua storia, soprattutto la tradizione legata al Teatro Biondo laurea questo spettacolo, e mi auguro che il pubblico possa essere partecipe così come a Caltanissetta, a Catania, a Noto, a Comiso. La cosa che più mi coinvolge è che il libro sia diventato uno spettacolo che ha persino un’esigenza, quella di trovare un genere che lo possa definire. E quindi la forma migliore è quella di essere affidata e destinata alla grandezza, alla bravura, alla perfezione che hanno voluto dare loro Salvo Piparo, Costanza Licata e Rosy Enea.

Come nasce l’incontro con Salvo Piparo?

«Nasce nel solco della mia ammirazione nei confronti della sua bravura che si è saldata anche in un’amicizia. Si è poi stabilita un’elettricità virtuosa determinata anche, anzi vorrei dire soprattutto, dalla firma che noi leggiamo in locandina della regia, che è quella di Peppino Sottile, che per me è stato ed è maestro di scrittura e si conferma maestro nella drammaturgia e nella scrittura scenica. Oggi anche un idolo pop come Pif dice che l’autonomia va abolita».

Il libro è ormai diventato un manifesto controrivoluzionario, rispetto all’epopea crocettiana?

«C’è un sentimento spontaneo nell’opinione pubblica che è diventato patrimonio comune di tanti siciliani a maggior ragione, poi, di chi abitando, vivendo, soffrendo la Sicilia capisce qual è l’urgenza da risolvere. E cioè quella di poter cominciare a costruire un futuro in questa terra. Il fatto è che lui (Crocetta) non sapendo risolvere i problemi li criminalizza, e questo non è certamente il modo per potere governare. Potrebbe soltanto portare e aumentare incenso all’altare del suo ego, ma non è sicuramente questa una soluzione per la Sicilia».

Chi tocca l’antimafia si scotta. Beppe Lumia, che lei definisce “il più professionista dei professionisti dell’antimafia”, le ha risposto attaccandola in prima persona, anche associando il suo nome a quello di figure non specchiate.

«Se si riferisce alle reazioni che hanno nei confronti del mio lavoro giornalistico, come avrà notato, l’atteggiamento è presto detto, e cioè: non avendo nessun argomento per smentire ciò che scrivo, non hanno altra alternativa che quella di delegittimarmi, ed è quella di mascariare, di cercare di ridicolizzare o criminalizzare l’avversario».

L’esempio dell’Abercrombie è esilarante. Il brand americano ha due sedi in Italia: a Milano e… ad Agira. E questo perchè a Mirello Crisafulli tutti dicono I love you. E’ questa la fogna del potere?

«Quello è un esempio scelto apposta per raccontare le contraddizioni di una realtà sociale qual è quella siciliana. La definizione “fogna del potere” si riferisce poi a quell’idea di fare della Sicilia territorio, laboratorio esperimento per operazioni di trasformismo che da sempre hanno visto in Sicilia l’epicentro per sommovimenti che poi hanno coinvolto l’intero territorio nazionale».

Nel libro lei denuncia in tempi non sospetti la realtà del Cara di Mineo. Poi c’è il Muos, le trivelle, sembra che la Sicilia sia riconosciuta a livello internazionale come zona franca.

«Perchè qui trovano un facile terreno che è quello di avere dei compari disponibili ad assecondare qualunque gusto e qualunque menù».

Concludiamo con un invito allo spettacolo.

«La locandina, il titolo, i nomi degli attori in scena, la firma della regia di Peppino Sottile, già questo è un succulento invito, sono sicuro nessuno rimarrà deluso, perfino lo stesso Crocetta».

Pensa che verrà?

«Verrà di sicuro! Tra tanti inciampi e disavventure derivate dal suo essere maldestro, per fortuna conserva una qualità: è un uomo di spirito, e non potrà certo mancare a questo appuntamento».

Ascesa e declino dell'Antimafia degli affari "che non si possono rifiutare", scrive Giulio Ambrosetti su “La Voce di New York”. Un' inchiesta coinvolge la dirigenza di Confindustria Sicilia e indirettamente quei politiici antimafia che dovevano rappresentare "il nuovo" rispetto ai vecchi "comitati d'affari". Mala gestione dei beni sequestrati alla mafia, conflitti d'interessi alla Regione, irregolarità sull'utilizzo dei fondi europei, privatizzazione degli aeroporti... La magistratura ultimo baluardo in difesa della legalità? Tira un’aria pesante in questi giorni lungo l’asse Palermo-Caltanissetta-Roma. Agli incroci di mafia e antimafia c’è un po’ di traffico. Un ingorgo da legalità strillata. Storie strane. E un’inchiesta su presunti fatti di mafia che coinvolge il presidente di Confindustria Sicilia, Antonello Montante, considerato uno degli uomini di punta dell’antimafia e dell’antiracket. Si tratta di dichiarazioni di pentiti di Cosa nostra che lo tirano in ballo. Notizie da prendere con le pinze, ovviamente. Ma il fatto che siano venute fuori, beh, è segno che alcune ‘cose’, nell’Isola, stanno cambiando. Anche, anzi soprattutto per chi, dal 2008, di diritto o di rovescio, esercita in Sicilia un potere pieno e, adesso, un po’ controllato: il senatore del Megafono-Pd, Giuseppe Lumia. E’ lui, ormai da sette lunghi anni, l’uomo politico più potente della nuova e della ‘vecchia’ Sicilia. E’ lui il garante di tanti, forse troppi accordi in bilico tra politica, economia e chissà cos’altro ancora. A lui fa riferimento Antonello Montante, oggi sfiorato dal dubbio che dai tempi di Crispi e di Giolitti fino ai nostri giorni illumina come un’ombra sinistra tanti politici siciliani ascesi al soglio del potere. Dubbi che, nel caso dell’ex presidente della Regione, Totò Cuffaro, si sono trasformati in condanna a sette anni per mafia. Dubbi che hanno accompagnato il suo successore, Raffaele Lombardo, anche lui fulminato da una condanna di primo grado  sempre per mafia (in questi giorni dovrebbe iniziare il processo di secondo grado). Ogni storia giudiziaria, ogni inchiesta dei magistrati inquirenti, si sa, è storia a sé. Ma è impossibile non vedere in questa vicenda il contesto politico in cui è maturata la svolta giudiziaria che coinvolge Montante. Proviamo a illustrarla. In politica sono importanti i segnali. E il primo segnale sinistro è arrivato circa una settimana prima del ‘siluro’ che ha colpito il presidente di Confindustria Sicilia. Ed è stata la scoperta che la Regione siciliana della quale Rosario Crocetta è il presidente - anche lui, neanche a dirlo, personaggio legato a doppio filo al senatore Lumia - non si è costituita parte civile in un procedimento giudiziario che coinvolge un funzionario regionale finito in manette per tangenti. Questa mancata costituzione di parte civile da parte della Regione, stando a indiscrezioni, potrebbe essere legata al fatto che il funzionario finito sotto processo, Gianfranco Cannova, era il responsabile del procedimento amministrativo di importanti autorizzazioni ambientali. La firma sui provvedimenti di autorizzazione non poteva essere la sua, perché si tratta, come già accennato, di un funzionario e non di un dirigente. Viene da chiedersi, a questo punto, perché hanno arrestato lui, se a firmare erano, a norma di legge, altri dirigenti. E’ in questo scenario che si inserisce la mancata costituzione di parte civile da parte del governo regionale di Crocetta. Con molta probabilità, dietro questa storia c’è un comitato di affari. E questo comitato di affari che la Regione sta cercando di proteggere non costituendosi parte civile? E’ Cannova non sa nulla di questa storia? Le domande sono più che legittime, perché quello che sta succedendo è veramente strano. In ogni caso, per il presidente Crocetta - un personaggio che, a parole, si proclama sempre antimafioso e paladino della cultura della legalità - è una pessima figura, sia nel caso in cui avesse semplicemente ‘dimenticato’ di costituirsi parte civile, sia nel caso in cui si dovesse venire a scoprire che dietro questa storia c’è un comitato di affari. La cosa strana è che gli ultimi due dirigenti che stavano sopra il funzionario regionale finito in manette non ci sono più. Il primo - Vincenzo Sansone - è andato in pensione negli stessi giorni in cui esplodeva il caso Cannova. Il secondo - Natale Zuccarelo - con parenti importanti nel mondo politico siciliano, è stato trasferito negli uffici del dipartimento regionale dei Rifiuti. Una settimana dopo lo scivolone di Crocetta (che comunque, come già accennato, non è nuovo a questo genere di stranezze, se è vero che il suo governo, in tanti, forse troppi casi, ha ignorato le regole sull’anticorruzione) è arrivata la botta a Montante. Agli osservatori non sfugge che il presidente di Confindustria Sicilia è stato chiamato a far parte dell’Agenzia per i beni confiscati e sequestrati alla mafia. Una struttura, inventata dalla politica italiana, della cui presenza in vita i cittadini del nostro Paese non avvertivano e non avvertono ancora oggi il bisogno. Su questo punto è bene essere chiari. Dei beni sequestrati e confiscati alla mafia si occupa già la magistratura. Ci sono state polemiche sul fatto che chi va a gestire questi beni - che di solito sono avvocati e commercialisti nominati dai magistrati - non avrebbe e competenze imprenditoriali per gestire aziende confiscate che poi, magari, falliscono. Il problema esiste. Ma non si capisce perché, a risolverlo, dovrebbero essere soggetti nominati da una politica che spesso è collusa con la mafia. Insomma, senza girarci tanto attorno, il dubbio, tutt’altro che campato in aria, è che la politica stia provando a togliere ai magistrati la gestione dei beni confiscati alla mafia. E siccome sono noti i rapporti tra mafia e politica, non è da escludere che i politici, con questo stratagemma, puntino a restituire, sottobanco, i beni confiscati ai mafiosi o ai loro eventuali prestanome. Nessuno, per carità!, vuole offendere i soggetti - Prefetti in testa - chiamati a gestire l’Agenzia per i beni confiscati o sequestrati alla mafia. Le nostre sono semplici considerazioni politiche che non coinvolgono i Prefetti. Considerazioni legate, piaccia o no, alla storia del nostro Paese. E’ un peccato di lesa maestà ricordare - lo faceva nei primi del ‘900 Gaetano Salvemini - che Giolitti, nel Sud d’Italia, esercitava il suo potere proprio con i Prefetti in combutta con i prepotenti e i mafiosi dell’epoca? E ci sono dubbi sul fatto che, in Italia, ancora una volta, l’ultimo baluardo contro un’illegalità mai doma è rappresentato dalla magistratura? Detto questo, la politica farebbe bene a sbaraccare subito questa inutile Agenzia per i beni confiscati e sequestrati alla mafia. Quanto ai problemi legati alla mancata gestione imprenditoriale delle aziende confiscate alla criminalità organizzata, beh, è sufficiente affiancare ai commercialisti e agli avvocati imprenditori o associazioni di imprese. Ma questo deve farlo la magistratura e non i politici attraverso un’inutile Agenzia controllata dalla politica! Fine delle considerazioni sull’aria pesante che oggi si respira nell’Isola? Niente affatto. I cambiamenti in corso sono ancora più profondi. Qualcuno, in Sicilia, a partire dal 1994, pensava di essere immune da qualunque controllo di legge. E, in effetti, forse in parte è stato così. Chi scrive ricorda un sindaco di Corleone di sinistra che in quegli anni affidava e rinnovava appalti a una società riconducibile a parenti stretti del boss Bernardo Provenzano. Per non parlare della storia del miliardo di vecchie lire messo a disposizione dall’Onu nel 2000. Soldi, affidati a soggetti dell’antimafia, di cui non si è saputo più nulla. Tra i personaggi che hanno sempre navigato in un’Antimafia molto discutibile c’è il già citato senatore Lumia. Che oggi non sembra più il politico irresistibile di un tempo. Qualcuno ha creduto che lui e i personaggi a lui vicini non sarebbero mai stati chiamati a rispondere del proprio operato. Forse perché ha pensato, errando di grosso, che la magistratura era assimilabile agli altri poteri dello Stato italiano, più o meno addomesticabili. Ebbene, questo qualcuno si è sbagliato. Perché sia la magistratura nel suo complesso (con riferimento, come vedremo, anche al Tar, sigla che sta per Tribunale amministrativo regionale della Sicilia), sia la Corte dei Conti stanno rispondendo ai prepotenti, ai furbi e anche ai mafiosi, vecchi e nuovi con un solo linguaggio: quello della legalità. La vicenda che oggi coinvolge Montante - vicenda, lo ribadiamo, legata a dichiarazioni di pentiti ancora tutte da verificare - arriva da lontano e, con molta probabilità, è destinata ad andare lontano. Toccando tutti i gangli del sistema di potere che dal 2008 tiene in pugno la Sicilia. Chi scrive, già nei primi mesi dello scorso anno, sul quotidiano on line LinkSicilia, segnalava, ad esempio, lo strano caso di Patrizia Monterosso, segretario generale della presidenza della Regione (in pratica, il più alto burocrate della Regione siciliana che, lo ricordiamo, in virtù della propria Autonomia, potrebbe essere assimilato a uno Stato americano se la stessa Autonomia venisse applicata correttamente: cosa che non avviene), e di suo marito, l’avvocato Claudio Alongi. Con la prima che si pronunciava su un incarico del marito presso la stessa amministrazione regionale! E con il secondo che forniva pareri legali alla moglie per fatti che riguardano la stessa amministrazione regionale! Entrambi in palese conflitto di interessi. Quando abbiamo scritto queste cose ci hanno quasi presi per matti. Non ci credevano. Ma oggi questa vicenda è diventata di dominio pubblico. E, con molta probabilità, è al vaglio delle autorità competenti. Superfluo aggiungere che anche la Monterosso fa parte del sistema di potere del senatore Lumia. Il senatore Lumia - che è il vero presidente ombra della Regione siciliana, in quanto inventore della candidatura di Crocetta insieme con i geni dell’Udc, formazione politica in via di decomposizione politica - comincia  a perdere colpi. Ben prima del ‘siluro’ che in questi giorni ha centrato Montante, lo stesso segretario generale della presidenza della Regione, la già citata Patrizia Monterosso, è stata condannata dalla Corte dei Conti al pagamento di oltre un milione di euro per fatti riguardanti il settore della formazione professionale. Un altro ‘pezzo’ importante del sistema di potere di Lumia - la dirigente generale del dipartimento Lavoro della Regione, Anna Rosa Corsello - è stata di recente ‘bastonata’ dal Tar Sicilia, che ha dichiarato nullo un atto amministrativo da lei confezionato (si tratta del decreto di accreditamento degli enti di formazione, atto che avrebbe dovuto essere firmato dal presidente della Regione e che, invece, è stato firmato dall’ex assessore regionale, Nelli Scilabra). Il decreto dichiarato nullo dal Tar Sicilia potrebbe avere effetti dirompenti, perché sui soldi già spesi sulla base di un decreto nullo la Corte dei Conti dovrebbe avviare un’azione di responsabilità a carico dei protagonisti di questa incredibile storia (parliamo di milioni di euro). Non solo. Sembra che, adesso, anche l’Unione europea si stia svegliando. Fino ad oggi Bruxelles, sulla formazione professionale, ha fatto finta di non vedere violazioni incredibili. I burocrati legati all’attuale governo regionale hanno bloccato l’assegnazione di fondi europei per rivalersi su errori commessi nell’erogazione di fondi pubblici. Solo che i fondi erogati irregolarmente erano regionali, mentre quelli con i quali la Regione ha provato a rivalersi erano europei. Due tipologie di fondi pubblici non sovrapponibili. Morale: la Regione non avrebbe dovuto bloccare l’erogazione di fondi europei per recuperare fondi regionali erogati illegittimamente. Ma c’è, nella gestione della formazione professionale siciliana, un’irregolarità che sta ancora più a monte. Una storia molto più grave che Bruxelles non ha ancora sanzionato. I fondi europei, per definizione, sono ‘addizionali’: si debbono, cioè, sommare ai fondi nazionali e regionali. La Regione siciliana, invece, dal 2012, utilizza i fondi europei sostituendoli totalmente ai fondi regionali. E questo non si può fare. Non a caso è in corso una class action da parte del mondo della formazione professionale siciliana contro la Regione che, ormai da quattro anni, non si dota del Piano formativo regionale della formazione professionale con fondi regionali, finanziando tutto con le risorse del Fondo sociale europeo. Cosa, questa, che non si dovrebbe fare perché a vietarlo è la stessa Unione europea che, fino ad oggi, violando leggi e regolamenti che essa stessa si è data, fa finta di non vedere tutto quello che succede in Sicilia in questo settore, rendendosi complice di un’irregolarità ai danni di se stessa. Tutto questo vale per il passato e per il presente. Ma il siluro che ha colpito Montante e il sistema di potere del senatore Lumia riguarda anche il futuro. E’ noto a tutti che, guarda caso in questi giorni, si è aperta la caccia alle tre società che gestiscono gli aeroporti siciliani. Sono la Sac, che gestisce gli aeroporti di Catania Fontanarossa e Comiso; la Gesap, che gestisce l’aeroporto Falcone-Borsellino di Palermo; e l’Airgest, che gestisce l’aeroporto ‘Vincenzo Florio’ di Trapani. Per motivi misteriosi queste tre società - fino ad oggi controllate da soggetti pubblici - dovrebbero essere privatizzate. Si tratta di società che, se gestite con oculatezza, potrebbero dare utili e ricchezza alla collettività. Ma siccome siamo in Italia questa ricchezza se la debbono incamerare i privati. A questo sembra che punti il governo Renzi che, non a caso, su questi e su altri argomenti è perfettamente in linea con Berlusconi, alla faccia della sinistra che lo stesso Pd di Renzi dice di rappresentare! L’affare più grosso è rappresentato dall’aeroporto di Catania, il più importante della Sicilia, destinato a diventare un hub. Non a caso su questo aeroporto si è già gettato come un falco Ivan Lo Bello, altro esponente di Confindustria Sicilia vicino a Montante. Chi prenderà il controllo della Sac - società per azioni oggi controllata dalle Camere di Commercio di Catania, Siracusa e Ragusa, dall’Istituto regionale per le attività produttive e dalle Province di Catania e Siracusa - assumerà pure la gestione dell’aeroporto di Comiso, snodo aeroportuale importante per il flusso turistico verso il Barocco di Noto, Siracusa e Ragusa e per il trasporto cargo di tutta l’ortofrutta prodotta nelle serre che, dal Ragusano, arrivano fino a Gela e Licata. Un po’ meno importanti - ma non per questo da tralasciare - gli aeroporti di Palermo e Trapani. Nella Gesap - società che, come ricordato, gestisce l’aeroporto ‘Falcone-Borsellino’ - troviamo la Provincia di Palermo come socio di maggioranza, poi il Comune e la Camera di Commercio, sempre di Palermo. Mentre l’Airgest fa capo per il 49 per cento alla Provincia di Trapani, per il 2 per cento alla Camera di Commercio, sempre di Trapani, e per il restante 49 per cento a un gruppo di privati. Non sfugge agli osservatori che Montante, oltre che presiedere la Camera di Commercio di Caltanissetta, è presidente dell’Unioncamere, cioè dell’Unione delle Camere di Commercio della Sicilia. E le Camere di Commercio, in tutt’e tre le eventuali privatizzazioni delle società aeroportuali, giocheranno un ruolo centrale. Lo stesso discorso vale per le Province siciliane, tutte commissariate e gestite dalla stessa Regione, cioè dall’accoppiata Lumia-Crocetta…Insomma, i conti tornano. O meglio, cominciano a non tornare per Lumia, per Montante e per Crocetta. Tre personaggi che hanno fatto fortuna utilizzando l’antimafia come trampolino di lancio per la politica (e per gli affari). Ma adesso tutto questo mondo sembra in difficoltà. Una caduta che non sembra risparmiare nemmeno il numero due di Confindustria Sicilia, Giuseppe Catanzaro, titolare della più grande discarica della Sicilia in quel di Siculiana, in provincia di Agrigento. Sotto scacco - non a caso sempre da parte della magistratura - è finita tutta la gestione dei rifiuti in Sicilia imperniata ancora sulle discariche. Una follia tutta siciliana che inquina l’ambiente. Va ricordato che quasi tutte le discariche siciliane non sono a norma di legge. Nelle discariche non possono essere sotterrati i residui organici, cioè il cosiddetto ‘umido’ che andrebbe lavorato a parte. Invece in quasi tutte le discariche siciliane i camion pieni di immondizia entrano, scaricano e vanno via. Ma questo non si può fare, la legge non lo consente. E invece si fa. Ma adesso la festa sembra finita. Non va meglio per la gestione dell’acqua. Tutti in Sicilia sanno che, in due anni e oltre di legislatura, il Parlamento siciliano, di fatto, ha bloccato il disegno di legge d’iniziativa popolare per il ritorno alla gestione dell’acqua pubblica. La mafia, in Sicilia, è sempre stata contro l’acqua pubblica. Era così ai tempi di Don Calogero Vizzini e Giuseppe Genco Russo. Ed è così anche oggi che la mafia opera da Bruxelles, imponendo i proventi delle attività criminali nel calcolo del Pil dei Paesi dell’Unione europea. La mafia non vuole il ritorno all’acqua pubblica. E la politica siciliana si sta adeguando alle ‘richieste della mafia che, come insegna ‘Il Padrino’, in genere, non si possono rifiutare. Questo spiega perché, proprio mentre scriviamo, mezza Regione siciliana è mobilitata a bloccare i tentativi di alcuni Sindaci dell’Agrigentino di gestire l’acqua nell’interesse dei cittadini. Un esempio intollerabile…Insomma, tutto il mondo che gira attorno a Lumia, Montante, Catanzaro, Lo Bello e Crocetta - che è un mondo di politica legata agli affari, dall’agenzia dei beni confiscati alla mafia alla gestione della burocrazia, dalle società aeroportuali ai rifiuti, fino all’acqua - in un modo o nell’altro non sembra più in sintonia con una certa idea di antimafia. La Giustizia da una parte e i grandi interessi che si scontrano, dall’altra parte, stanno disegnando in Sicilia nuovi scenari. 

Palermo, un politico ambasciatore dei padrini. 14 commercianti denunciano il pizzo, 27 arresti. In manette il consigliere comunale Giuseppe Faraone, è accusato di concorso in tentata estorsione: per conto dei boss avrebbe chiesto soldi a un imprenditore. Alle ultime regionali in Sicilia era stato candidato nella lista del governatore Crocetta, risultò il primo dei non eletti. All'alba, il blitz di carabinieri, squadra mobile e nucleo speciale di polizia valutaria. Il procuratore Lo Voi: "Agli estorti dico, non avete futuro", scrive Salvo Palazzolo su “La Repubblica” In campagna elettorale Giuseppe "Pino" Faraone si definiva un "paladino della legalità" e urlava a squarciagola il simbolo della sua lista: "Amo Palermo". Ma poi andava ad abbracciare uno dei boss più in vista della città, Francesco D'Alessandro. Tanta affettuosità non è sfuggita ai carabinieri del Reparto Operativo, che hanno fotografato il politico mentre bacia il mafioso, davanti a un bar di viale Strasburgo. Eccola, l'ultima cartolina da Palermo. Il padrino del potente clan di San Lorenzo e il politico, attualmente consigliere comunale. Questa mattina, Faraone è stato arrestato insieme ad altre 26 persone, accusate di essere i nuovi boss del pizzo. Adesso, deve difendersi da un'imputazione pesante per un incensurato, tentata estorsione aggravata: la procura distrettuale antimafia di Palermo lo accusa di essere stato l'insospettabile ambasciatore dei clan, avrebbe recapitato addirittura una richiesta di pizzo a un imprenditore. E' un nuovo scossone per la politica siciliana. Perché Giuseppe Faraone, 69 anni, è stato deputato regionale e poi assessore provinciale, negli ultimi vent'anni è passato dall'Udc alla lista del governatore Crocetta, il Megafono, risultando nel 2012 il primo dei non eletti al parlamento siciliano. 2.085 voti non gli sono bastati per la Regione. 896 sono stati invece sufficienti per il consiglio comunale, dove Faraone aderisce proprio al gruppo del Megafono. Il vero scossone per Palermo sono le denunce di 14 fra imprenditori e commercianti, sono loro che hanno fatto scattare il blitz con le dichiarazioni fatte alle forze dell'ordine. A luglio, dopo una prima operazione antiracket, erano stati convocati in caserma. Messi di fronte all'evidenza di indagini e intercettazioni hanno ammesso di aver pagato il pizzo. E sono andati anche oltre, riconoscendo esattori e ambasciatori del racket. Fra questi c'era anche l'insospettabile Faraone, avrebbe avvicinato un imprenditore che si occupa di forniture elettriche. Altri esattori del clan San Lorenzo hanno chiesto il pizzo a una nota concessionaria Honda di Palermo, alla ditta che si occupa della pulizia allo stadio e a quella che stava ristrutturando un palazzo per conto della Curia. I boss imponevano il pagamento della "mesata", ma anche assunzioni. Il provvedimento che ha fatto scattare il blitz di questa mattina è stato firmato dal gip Luigi Petrucci, su richiesta del procuratore aggiunto Vittorio Teresi e dei sostituti Francesco Del Bene, Amelia Luise, Annamaria Picozzi, Dario Scaletta e Roberto Tartaglia. Il procuratore capo Franco Lo Voi dice in conferenza stampa: "Il contributo delle vittime, sostenute anche da Addiopizzo, è stato fondamentale per questa indagine. Agli uomini che ancora pretendono le estorsioni voglio dire che non hanno molta strada davanti a loro, non hanno futuro. E questo sia grazie alle collaborazioni sempre più numerose delle vittime, sia grazie alle indagini". Il sindaco Orlando annunciato invece la costituzione di parte civile nel processo. La denuncia. "Ho ricevuto una richiesta estorsiva, che mi è stata rivolta da una persona che conosco da molti anni, in quanto si tratta di un politico che attualmente ricopre delle cariche all'interno dell'amministrazione comunale". Inizia così il drammatico racconto dell'imprenditore che ha incastrato il consigliere comunale: "E' Giuseppe Faraone, che è stato assessore alla viabilità, l'ho conosciuto perché la mia azienda si occupa anche di lavori stradali. E poi mi aveva chiesto più volte di aiutarlo nella raccolta dei voti per le varie tornate elettorali. A fine 2012, mi rappresentò che alcuni amici lo avevano incaricato di richiedermi del denaro, in quanto avevano bisogno di aiuto finanziario. Risposi in maniera dura, rappresentandogli che non avevo amici e non avevo alcuna intenzione di pagare alcunché. Anche perché avevo capito che si trattava di una richiesta estorsiva". Iniziarono giorni terribili per l'imprenditore. Faraone tornò a ribadire la richiesta di pizzo, "perché gli amici hanno bisogno di una mano di aiuto", disse all'imprenditore. Che continuava a resistere. Iniziarono le telefonate anonime e strani squilli al citofono. Gli dicevano: "Rivolgiti agli amici". Fino a quando l'imprenditore decise di affrontare Faraone: "Lo andai a trovare al bar Golden, dove sapevo di poterlo incontrare, lo agredii verbalmente in quanto lo ritenevo responsabile di quello che stavo accadendo. Gli dissi che qualora mi fosse successo qualcosa avrei addossato a lui ogni responsabilità. Per questo aveva anche predisposto una lettera che avevo consegnato al mio avvocato, corredata da precise istruzioni perché venisse resa pubblica qualora fosse successa qualcosa a me o alla mia azienda.  Faraone si mise a ridere, non mi rispose e se ne andò".

Giuseppe Faraone Arrestato, il consigliere che nessuno vuole: Rosario Crocetta lo scarica e Matteo Salvini non lo riconosce, scrive Gabriella Cerami, L'Huffington Post. La storia è quella di sempre: nessuno sa. Tutti si affrettano a scaricare l’accusato, anzi, in questo caso l’arrestato. Giuseppe Faraone, il consigliere comunale di Palermo finito in carcere con l’accusa di tentata estorsione, viene rinnegato da chiunque. Soprattutto dal presidente siciliano, Rosario Crocetta, che eppure lo aveva candidato alle Regionali del 2012 nella lista il Megafono, movimento che fa capo proprio al governatore. La prima reazione di Crocetta è la seguente: “Hanno fatto bene ad arrestarlo. Se ha lasciato il Megafono vuol dire che non si trovava bene. Mi risulta che aveva aderito alla Lega Nord, così Salvini impara a non utilizzare la Lega come un taxi”. In realtà, non c’è traccia dell’addio di Faraone al Megafono, anzi ancora oggi risulta essere il presidente del gruppo consiliare del comune di Palermo “Megafono-Noi con Salvini”. Dal canto suo il segretario della Lega Nord prende le distanze dicendo di non aver mai conosciuto Faraone, che fa capo al Megafono, mentre il consigliere di Noi con Salvini a Palermo è Giorgio Calì. In sostanza, i due hanno creato un gruppo consiliare unico pur mantenendo il proprio riferimento politico. Per capire la vicenda occorre fare un passo indietro. Faraone entra nel maggio del 2012 nel Consiglio comunale del capoluogo di Regione con la lista “Amo Palermo” e aderisce al gruppo Misto. Nell’ottobre dello stesso anno si candida alle elezioni regionali nella lista il Megafono e risulta il primo dei non eletti. Ma dopo l’esperienza di questa campagna elettorale lascia il gruppo Misto per creare, nell’aprile del 2013, il gruppo consiliare “Megafono-Centro democratico”. Per formare un gruppo occorre essere almeno in due. Il collega di Faraone è Giorgio Calì, eletto con Italia dei Valori e poi passato a Centro democratico. La storia politica di Calì è caratterizzata da diversi cambi di casacca. Dal Centro democratico, nell’aprile del 2014, passa al Dpr (con annesso cambio di nome del gruppo consiliare che ora diventa “Megafono-Dpr”). Alla fine Calì approda alla Lega Nord e annuncia, in conferenza stampa, la sua adesione al movimento di Salvini. A questo punto il 22 gennaio scorso il gruppo consiliare si trasforma in “Megafono-Noi con Salvini”. Alla luce dell’arresto di Faraone, l’associazione del suo nome alla Lega Nord è immediata. Tanto che Salvini annuncia querele “a pioggia”: “Specifico – dice - che non lo conosco, non so chi sia, non fa parte di NcS. Il problema Faraone è tutto di Crocetta”. Ma ecco la replica del governatore della Sicilia, nel gioco dello scarica barile: “Ci sono una serie di personaggi che si vogliono riciclare, Salvini in Sicilia deve stare attento, rischia di imbarcare criminali". E poi ancora: “Faraone non è mai stato autorizzato a utilizzare il nome e il simbolo del megafono”. Fatto sta il simbolo che appare sul sito del comune di Palermo non lascia spazio a equivoci. Così, in tutta questa vicenda, a tanti è rimasto un dubbio: come mai il presidente della Regione non si era accorto che proprio a Palermo, capoluogo di Regione, c’era un gruppo con il simbolo del suo movimento? Adesso Crocetta garantisce che “sta mettendo ordine, istituendo segreterie territoriali e provinciali. Abbiamo cominciato in alcune zone della Sicilia, dobbiamo farlo al più presto anche a Palermo”. I dubbi rimangono. E la Lega Nord era a conoscenza del fatto che un suo consigliere avesse come alleato un esponente del Megafono di Crocetta? “Assolutamente no”, dice il deputato Angelo Attaguile, catanese e uomo del Carroccio che sta organizzando la Lega in Sicilia. “Calì è stato superficiale e noi davamo per scontato che facesse parte del gruppo Misto. Questa mattina l’ho richiamato dicendogli di passare subito al Misto. Faraone invece non so chi sia, non lo conosco e non è mai venuto alle nostre riunioni. Di Calì posso assicurare che è una persona perbene perché ho verificato il suo curriculum”. Alla fine della storia, nel tira e molla tutto politico all'indomani dello sbarco della Lega Nord in Sicilia, ciò che rimane è il simbolo che mette insieme il "Megafono" di Crocetta e il logo "Noi con Salvini", e dunque Faraone e Calì, che dall'aprile 2013 fanno parte dello stesso gruppo in consiglio comunale.

Pif: un selfie antimafia li seppellirà? Scrive Antonio Roccuzzo su “Il Fatto Quotidiano”. Antimafia da selfie? Sì. E poi, in fondo, perché no, se il fine giustifica il mezzo? Postando su Twitter il suo video alla lapide di via Libertà che a Palermo ricorda l’uccisione di Piersanti Mattarella, nel giorno dell’elezione al Quirinale del fratello Sergio, forse quel tardo-post-sessantottino di Pif (al secolo Pierfrancesco Diliberto) avrà ricordato la vecchia frase di Michail Bakunin: “Sarà una risata a seppellirvi”. A seppellire almeno un altro pezzettino di consenso ai mafiosi. Lui, Pif, inquieta e –  il suo film La mafia uccide solo d’estate cos’è se non questo? – cerca di resuscitare con un sorriso la memoria di fatti tragici che il nostro Paese ha smarrito e non coltiva come si deve. Pur avendo segnato la vita quotidiana di un sacco di gente, anche della gente indifferente. E allora che selfie sia, anche a chi non piace lo strumento di comunicazione renziana per eccellenza. Un selfie non vi seppellirà, ma almeno vi farà pensare. L’amarissimo paradosso e il provocatorio “cazzeggio” di quel selfie da cantastorie antimafia è il seguente: bisogna avere un fratello eletto al Colle, per essere ricordato da tutti come un eroe antimafia! Deve aver pensato questo Pif che è mediaticamente dovunque ma in questo caso apre una sua parentesi (tra uno spot e l’altro, tra una comparsata e un – meritato – premio) per far passare messaggi. E in questo caso qual è il messaggio? “Caro dottor Mattarella (Piersanti, ndr) ho il sospetto che il prossimo 6 gennaio ci sarà un po’ più di gente a ricordarla”, dice il nostro sovraesposto testimonial dell’antimafia che sorride. E poi chissà perché l’idea antimafia deve essere sempre accoppiata soltanto al pianto. Perché? Io un po’ di memoria sicula la custodisco e nei primi movimenti di studenti palermitani negli anni Ottanta ho visto un sacco di sorrisi, speranze, parole dolci. Per esempio tra i ragazzi in corteo a Ciaculli, 1983, quartiere occupato dal boss Michele Greco. Io c’ero e l’aria era di una passeggiata festosa al di là di una porta che nessuno aveva mai aperto: un “cazzeggio” di ragazzi che trasgredivano una regola, quella del non parlare, non gridare, non sorridere. Ricordo il sorriso di Giovanni Falcone, davanti alla notizia di quel corteo variopinto che aveva illuminato quelle strade buie di Palermo. Allora, negli anni Ottanta, non c’erano cellulari e selfie non se ne facevano. La lotta alla mafia, 35 anni dopo, si fa anche così, con un sorriso e l’amarezza di chi ricorda – Pif la cita senza dirla – la frase di Bertold Brecht da Vita di Galileo: “Sventurata la terra che ha bisogno di eroi”. E per contrasto beato il Paese che di eroi può fare a meno. Non è purtroppo il caso del nostro Paese, perché – per esempio a Palermo – di lapidi simili a quella del selfie di Pif è disseminato quasi ogni incrocio. Ho iniziato a fare il cronista in Sicilia proprio in quel lontano 1980, quando a Palermo la mafia uccideva chiunque e in tutte le stagioni: Piersanti Mattarella (presidente della Regione, 6 gennaio), Emanuele Basile (capitano dei carabinieri, 4 maggio), Gaetano Costa (procuratore della Repubblica, 6 agosto) e la guerra di mafia mieteva cento-centoventi picciotti morti ammazzati all’anno e negli anni prima e dopo altri omicidi e altre lapidi da selfie antimafia. E allora, alzino onestamente la mano quanti – tra le persone comuni ma anche tra i 1.009 grandi elettori di Sergio Mattarella – ricordano quei lontani eventi. Quel banale e sgangherato selfie di Pif non riesumerà la memoria, ma già aiuta a seppellire la nostra cattiva coscienza.

3 marzo 2015. Predica contro il pizzo, arrestato per estorsione. Il presidente della Camera di Commercio di Palermo, che spesso si era vantato di essere dalla parte della legalità, è stato colto in flagrante dai carabinieri mentre riscuoteva il denaro che aveva preteso in cambio di "un favore", scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”. Negli ultimi dieci anni il presidente della Camera di Commercio di Palermo, Roberto Helg, ha firmato protocolli di legalità per contrastare - sulla carta - le estorsioni; ha pure stretto accordi – sempre sulla carta - per sostenere legalmente ed economicamente le vittime del pizzo che decidono di denunciare gli esattori del racket ed è stato sempre pronto a fare dichiarazioni puntuali alla stampa, con frasi ad effetto in cui diceva di condannare chi si piegava al ricatto della mafia. Tutto questo è accaduto a Palermo dove Roberto Helg, con un passato travagliato fra dichiarazioni di pentiti che lo citavano, è diventato il leader dei Commercianti, prima in Confcommercio e poi alla Camera di Commercio, e ha continuato a rappresentarli anche dopo che la sua azienda è fallita. “La royalty... dal 7 noi passiamo al 10... quindi tu hai un risparmio... (...) Ne paghi 110 di aumento, dal 7 al 10... Cento sono quelli che dobbiamo dare... Tu hai un risparmio di 104 mila 440... E sei dentro, al dieci”. “Quindi praticamente quello che dovrei dare io in più sono questi centomila euro... ”. “Di cui io ho ottenuto anche 50 lunedì, prima del consiglio... Gli altri, 10 mila al mese. Ho detto che ne rispondo io, mi farà un assegno e m’u tegnu sarbatu...”. Ecco i dialoghi tra Roberto Helg, presidente della Camera di commercio di Palermo arrestato mentre intascava una tangente, e Santi Palazzolo, titolare delle omonime pasticcerie di Cinisi e dell’aeroporto di Punta Raisi, che ha denunciato l’estorsione che gli avrebbe permesso un risparmio sui canoni di affitto degli spazi in aeroporto. Il dialogo tra i due è stato interrotto dai carabinieri, che hanno arrestato Helg. A leggere la rassegna stampa degli ultimi anni Helg viene disegnato come un paladino della legalità che sprona i propri associati a denunciare. I palermitani nascondono sempre delle sorprese. Anche in quelle giornate che sembrano uguali alle altre. Non è sempre come appare. Come ieri pomeriggio quando nella stanza super accogliente del presidente della Camera di Commercio si consuma un'estorsione. E si scopre che la vittima non è il presidente, bensì un ristoratore, a cui Helg che lo aveva convocato aveva imposto il pagamento di centomila euro per ottenere la proroga di affitto di uno spazio commerciale all'aeroporto di Palermo dove lo stesso Helg è vice presidente. Basta dunque un pomeriggio come quello di ieri, in cui viene fuori un mondo ribaltato, come pure la coscienza del povero ristoratore che per continuare a lavorare è costretto a versare una somma di denaro, come se fosse un pizzo, e a chiederglielo non è un mafioso, bensì il presidente della Camera di Commercio. L'uomo non ci sta a questa richiesta e si rivolge ai carabinieri, denuncia come spesso lo stesso Helg aveva invitato a fare, e i militari predispongono un servizio di appostamento e mettono addosso alla vittima una microspia per registrare la conversazione. Tutto è pronto. Scatta l'operazione che viene coordinata dal procuratore aggiunto Dino Petralia. Ecco la scena: tutto si svolge poco prima delle ore 17 di martedì 2 marzo. Il ristoratore come da appuntamento preso con Helg si presenta nel grande edificio della Camera di Commercio di Palermo che si affaccia sul porto. Raggiunge l'ufficio e il leader dei commercianti lo accoglie sulla porta. Fa accomodare il ristoratore e questo gli consegna una somma in contanti di 50 mila euro, come aveva preteso Helg e poi l'impegno da parte del commerciante della corresponsione rateale di diecimila euro al mese fino a raggiungere il residuo importo di 50 mila euro. A garanzia di questo impegno Helg pretende un assegno in bianco. Il ristoratore lascia l'ufficio e subito dopo fanno irruzione nella stanza i carabinieri che avevano ascoltato la conversazione. Sulla scrivania gli investigatori trovano una busta con trentamila euro in contanti e in una tasca della giacca di Helg c'è l'assegno in bianco. Il presidente della Camera di Commercio viene arrestato per estorsione e portato in carcere. I magistrati lo interrogano ed Helg avrebbe risposto facendo rilevanti ammissioni sulle quali sono in corso indagini. All'interrogatorio che è durato tutta la notte hanno preso parte oltre all'aggiunto Petralia anche il procuratore Francesco Lo Voi. Roberto Helg, cinque anni fa, quando era presidente di Confcommercio, ricordava Libero Grassi sostenendo che Palermo non era più quella del 1991 quando l'imprenditore venne assassinato perché si era opposto al pagamento del pizzo. E sosteneva pure che Palermo era cambiata anche nel mondo delle associazioni, e aggiungeva: «oggi posso affermare con certezza che nessun imprenditore resta solo, in quanto tutte le associazioni si impegnano nell'invitare i propri associati alla denuncia». E la certezza ad Helg è arrivata praticamente ieri pomeriggio. Solo che dalla parte dell'estorsore questa volta c'è lui.

Intasca mazzetta da 100mila euro, preso presidente Camera Commercio. E lui: «L’ho fatto per bisogno». Roberto Helg, in qualità di vicepresidente della Gesap, la società che gestisce l’aeroporto di Palermo, avrebbe chiesto e ottenuto la tangente per favorire l’apertura di un ristorante nello scalo siciliano. Era in prima linea nella lotta a racket e corruzione, scrive Chiara Marasca su “Il Corriere della Sera”. Una busta con 30mila euro in contanti sulla scrivania, un assegno in tasca: il presidente della Camera di Commercio di Palermo, Roberto Helg, è stato arrestato lunedì pomeriggio mentre incassava una «mazzetta». In qualità di vicepresidente della Gesap, la società che gestisce l’aeroporto di Palermo, spiega la procura in una nota, Helg avrebbe «chiesto e ottenuto il pagamento di una somma di denaro di 100.000 euro da un esercente del settore della ristorazione, affittuario di uno degli spazi commerciali dell’aeroporto, il quale si era rivolto a lui per ottenere la proroga triennale del contratto a condizioni favorevoli». La richiesta e la consegna del denaro sono state integralmente monitorate dalla polizia giudiziaria. Helg, noto imprenditore palermitano la cui storica azienda era però fallita nel 2012, era in prima linea nella lotta alla corruzione e al racket. L’accusa per Helg è di estorsione aggravata: ha prospettato al commerciante le difficoltà dell’operazione di rinnovo se non supportata dal suo intervento e dal pagamento di 50 mila euro in contanti e di 10 mila euro al mese per 5 mesi, con il contestuale rilascio, come garanzia dell’impegno, di un assegno in bianco del residuo importo di 50 mila euro. Al sopraggiungere della polizia giudiziaria nella stanza di Helg attorno alle 17 di ieri, il presidente della camera di commercio aveva già ricevuto e messo in tasca l’assegno; sulla sua scrivania c’era anche una busta con 30mila euro in contanti. Interrogato dai magistrati della Procura, Helg ha fatto ammissioni sulle quali sono in corso indagini. «L’ho fatto per bisogno, mi hanno pignorato la casa», si sarebbe giustificato il presidente della Camera di Commercio di Palermo nel corso del lungo interrogatorio della scorsa notte. L’indagato avrebbe negato per ore tentando di giustificare la presenza dei contanti e dell’assegno dell’imprenditore. Intorno alle due di notte, sentendo che gli inquirenti erano in possesso della registrazione della sua conversazione con la vittima all’atto della consegna dei soldi, ha deciso di ammettere la richiesta della tangente sostenendo di aver avuto bisogno di denaro. È stata la vittima dell’estorsione, titolare della pasticceria Palazzolo, che ha un punto vendita all’aeroporto di Palermo, a rivolgersi ai carabinieri dopo la richiesta del denaro. Le investigazioni sono state svolte dai militari del Nucleo investigativo del reparto operativo di Palermo sotto il comando del maggiore Alberto Raucci e con il coordinamento del comandante del reparto, il tenente colonnello Salvatore Altavilla, e del comandante provinciale colonnello Giuseppe De Riggi. L’indagine è condotta dai pm Luca Battinieri e Geri Ferrara, del dipartimento reati contro la pubblica amministrazione, con il coordinamento del procuratore aggiunto Dino Petralia e la supervisione del procuratore capo Francesco Lo Voi che ha partecipato all’interrogatorio notturno di Helg, che ora si trova nel carcere palermitano di Pagliarelli. Il legale di Helg, l’avvocato Fabio Lanfranca, ha chiesto alla Procura la concessione dei domiciliari per motivi di età, e per motivi di salute essendo affetto da una grave cardiopatia. Roberto Helg compirà 78 anni il prossimo 5 maggio. Dal ‘97 è presidente di Confcommercio Palermo. Nel 1976 gli è stata conferita l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica italiana, e nel 2003 quella di Cavaliere ufficiale della Repubblica e nel 2012 quella di Commendatore ordine al merito della Repubblica Italiana. Helg navigava da tempo in cattive acque. La sua storica ditta (settore tavola, cristallerie, argenterie e arredamento), aveva chiuso nel 2012 dopo quasi quarant’anni di attività. Helg, dal 1997 anche alla guida di Confcommercio Palermo, aveva dichiarato: «Non riusciamo più ad andare avanti». E i dipendenti aspettavano lo stipendio da due anni. Roberto Helg, di recente, aveva approvato insieme alla giunta camerale di Confcommercio il piano triennale di prevenzione della corruzione. L’associazione da lui guidata, inoltre, è stata la prima in Italia ad aprire uno sportello per la legalità, per assistere gli imprenditori che denunciano usura e richieste di pizzo. Proprio la lotta al racket è stato il suo impegno negli ultimi anni: Helg è stato tra coloro i quali con un comunicato stampa nei giorni scorsi aveva espresso solidarietà ad Antonello Montante, il leader di Confindustria in Sicilia e paladino della lotta al pizzo, indagato per frequentazioni mafiose dalla Procure di Caltanissetta. Risale ad alcuni mesi fa, infine, una dura polemica tra Helg e il delegato per la legalità di Confindustria nel capoluogo siciliano, Giuseppe Todaro, che è anche componente di Addiopizzo, il quale aveva sostenuto in un’intervista al Giornale di Sicilia che il 90 per cento dei commercianti palermitani paga il pizzo. Helg aveva contestato quella percentuale e aveva sostenuto: «Mi sento di smentire categoricamente che il 90% dei commercianti del cosiddetto “salotto buono” paghi il pizzo e mi rifiuto di credere che le forze dell’ordine diano a Todaro notizie così riservate». «Ho deciso di rinunciare al mandato difensivo di Roberto Helg perché lo ritengo incompatibile con il mio ruolo di legale di Confcommercio Palermo e con la scelta di assistere le vittime di estorsione che ho fatto molti anni fa». Parole dell’avvocato Fabio Lanfranca nominato difensore da Roberto Helg.

Palermo, arrestato Helg mentre intasca una tangente. Indagini sull'ipotesi di un sistema corruttivo. Il presidente della Camera di Commercio è stato fermato per estorsione: è stato denunciato dal titolare delle pasticcerie Palazzolo ed è scattata la trappola. "L'ho fatto per bisogno, ho la casa pignorata" ha detto durante la confessione. Pioggia di richieste di danni, Confcommercio lo espelle. L'avvocato rinuncia a difenderlo, scrive invece “La Repubblica”. Il presidente della Camera di commercio di Palermo, Roberto Helg, è stato arrestato dai carabinieri di Palermo mentre intascava una tangente. Helg, personaggio assai noto in città, presidente di Confcommercio Palermo, è attualmente anche vice presidente della Gesap, la società di gestione dell'aeroporto Falcone Borsellino di Palermo. Spiegano i carabinieri che "proprio nella veste di rappresentante Gesap, Helg ha chiesto e ottenuto il pagamento di una somma di denaro di 100 mila euro a un esercente del settore della ristorazione, affittuario di uno degli spazi commerciali dell'aeroporto, il quale si era rivolto a lui per ottenere la proroga triennale del contratto a condizioni favorevoli. La richiesta e la consegna del denaro ha fatto registrare la classica sequenza estorsiva consistente nella prospettazione, da parte di Helg, della difficoltà dell'operazione di rinnovo se non supportata dal suo prezioso intervento e, da parte del commerciante, nell'adesione all'illecito pagamento" per il quale Helg "ha preteso, oltre alla consegna di una somma in contanti di 50 mila euro, l'impegno da parte del commerciante alla corresponsione rateale di 10 mila euro al mese con il contestuale rilascio, in funzione di garanzia dell'impegno, di un assegno in bianco". Dalla confessioni di Helg l'indagine potrebbe allargarsi fino a rivelare un sistema corruttivo più ampio. Gli investigatori sono al lavoro. All'arrivo dei militari nella stanza di Helg, attorno alle 17 di ieri negli uffici della Camera di commercio, Helg aveva già ricevuto l'assegno, che aveva riposto nella tasca della giacca, e sulla sua scrivania era presente una busta con 30 mila euro in contanti. "Il contestuale colloquio intercettato era in termini del tutto coerenti con la vicenda estorsiva - dicono gli investigatori - Interrogato dai magistrati della Procura, a fronte di specifiche e dettagliate contestazioni, Roberto Helg ha fatto rilevanti ammissioni sulle quali sono in corso indagini". La notizia-bomba dell'arresto si è diffusa stamattina nel bel mezzo di un incontro sul lavoro femminile che si teneva proprio alla Camera di commercio di Palermo e ha colto di sorpresa i presenti, in gran parte imprenditrici o aspiranti tali. Incredulità e sgomento i sentimenti prevalenti, nessuna voglia di parlare: "Non e' il momento di fare dichiarazioni", si è limitata a dire Patrizia Di Dio, presidente nazionale di Terziario Donna Confcommercio e promotrice dell'appuntamento. Il Comune di Palermo ha annunciato che si costituirà parte civile. L'operazione conclusa ieri ha avuto inizio da una denuncia dell'imprenditore Santi Palazzolo, titolare di una storica pasticceria di Cinisi e del punto di ristorazione interno all'aeroporto di Punta Raisi, che si è rivolto ai carabinieri e ha rivelato i dettagli dell'illecita richiesta di denaro e delle sue modalità estorsive. L'imprenditore si è presentato venerdì pomeriggio dai carabinieri. L'uomo, visibilmente agitato, ha chiesto di parlare con i militari per denunciare che Helg gli avrebbe chiesto una tangente di centomila euro per il rinnovo degli affitti dei locali dell'aeroporto. "Proprio da lui, uomo della legalità non me lo aspettavo - ha detto agli inquirenti - sono esterrefatto, ecco perché sono qui". Le investigazioni sono svolte dai militari del nucleo Investigativo diretto dal maggiore Alberto Raucci, con il coordinamento del comandante del Reparto Operativo, il tenente colonnello Salvatore Altavilla, e del comandante provinciale, il colonnello Giuseppe De Riggi. L'indagine è condotta dal procuratore aggiunto Petralia e dai sostituti Battinieri e Ferrari. "L'ho fatto per bisogno, mi hanno pignorato la casa", ha detto Helg durante la confessione. Ieri notte, il procuratore capo di Palermo Francesco Lo Voi ha partecipato personalmente all'interrogatorio di Helg nel carcere di Pagliarelli. In un primo momento Helg avrebbe tentato di negare la tangente. "Poi è stato smentito dalle sue stesse parole registrate - dice il procuratore Lo Voi - e non ha potuto che ammettere tutto". Ha spiegato agli inquirenti di avere agito "per difficoltà economiche". Helg "non si aspettava che l'imprenditore vittima della tangente lo denunciasse ai carabinieri", dice il procuratore Lo Voi. A chi gli fa notare che Helg era considerato a Palermo un paladino della legalità e dell'antimafia, il procuratore allarga le braccia e dice: "Purtroppo a Palermo succede anche questo..." Helg però non si sarebbe limitato a confessare. E avrebbe fatto rivelazioni sull'esistenza di un sistema corruttivo più ampio. L'intercettazione della sua richiesta di denaro, fatta dalle microspie dei carabinieri piazzate addosso al commerciante che ha denunciato tutto, farebbero pensare al coinvolgimento di altri personaggi. La Procura, dunque, sta cercando di capire se dietro la richiesta ci sia una sorta di organizzazione che si spartiva le tangenti incassate dai commercianti e se Helg avesse già fatto richieste estorsive ad altri. La Procura è in contatto con l'Anac, l'autorità nazionale anticorruzione guidata dal magistrato Raffaele Cantone, e non si escluderebbe un commissariamento della Gesap. I pm, inoltre, stanno facendo uno screening del patrimonio di Helg per eventuali misure di prevenzione. Per 40 anni Roberto Helg è stato titolare di negozi di articoli da regalo a Palermo, attività aperta nel 1974 e fallita nel dicembre 2012, l'anno successivo alla rielezione di Helg alla presidenza della Camera di commercio di Palermo, che guida dal 2006, nonostante il fallimento della sua attività commerciale. La sede commerciale più prestigiosa si trovava in via Ruggero Settimo, a Palermo, e chiuse nel 2000; altri negozi, compreso quello del centro Etnapolis di Belpasso, nel Catanese, chiusero negli anni successivi. L'ultimo negozio ad abbassare le saracinesche fu quello di Carini (Palermo), inaugurato nel 2008. Da paladino della legalità all'arresto per estorsione aggravata. Ecco la parabola discendente di Roberto Helg, 79 anni, sorpreso dai Carabinieri con una bustarella di 30.000 euro sul tavolo del suo ufficio avuta da un imprenditore in cambio del rinnovo dell'affitto di un locale all'aeroporto Falcone e Borsellino. La somma complessiva da pagare era di 100.000 euro. Ma chi è Helg? Non ha mai mancato un convegno sull'antimafia, si è sempre schierato con la legalità e contro il pizzo. Lo scorso dicembre, Roberto Helg, era stato al centro di una polemica con Confindustria. A fare scoppiare la miccia era stata una intervista rilasciata da delegato per la legalità di Confindustria Palermo Giuseppe Todaro, in cui sosteneva che che il 90% dei commercianti di Palermo "pagano il pizzo". Helg aveva duramente contestato quella dichiarazione dicendo che non era vero. quella percentuale e aveva sostenuto: "Non è vero".La causa del fallimento, spiegò Helg, stava nel drastico calo dei consumi e dai mancati incassi per vendite effettuate all'ingrosso anche all'estero, soprattutto in Tunisia. Le attività erano gestite dalla Gearr srl (50 mila euro di capitale, che aveva raggiunto un'esposizione con le banche di oltre 3,5 milioni), di cui era socio anche il fratello di Helg, Fulvio. Helg nel gennaio dello scorso anno ha approvato insieme alla giunta camerale il piano triennale di prevenzione della corruzione. La Camera di commercio, infatti,  "ai sensi del proprio Statuto promuove la cultura della legalità come condizione necessaria per la crescita economica, in particolare, nel campo della lotta al racket delle estorsioni e dell'usura". Nella struttura camerale, che  ha adottato il piano triennale di prevenzione della corruzione nel gennaio 2014, esiste anche lo sportello legalità  al fine "di avviare una propria concreta iniziativa nel settore della prevenzione all'usura e dei fenomeni estorsivi, in stretta collaborazione con la Prefettura di Palermo con la quale ha sottoscritto un Protocollo di Intesa per attuare una più stretta sinergia di intervento nella tutela degli imprenditori della provincia". "Ciò - è scritto nel sito della Camera di commercio - ha consentito di avviare la realizzazione di un'importante 'rete di partenariato' con soggetti pubblici e privati di provata esperienza ed impegno su queste tematiche , che ci consente di fornire gratuitamente  assistenza quotidiana agli imprenditori della provincia di Palermo, che versano in gravi condizioni economiche e quindi a rischio usura, o già vittime di fenomeni usurari o estorsivi". "Appresa dalla stampa la notizia dell'arresto del presidente Roberto Helg, la Confcommercio di  Palermo ha convocato d'urgenza la Giunta Esecutiva per assumere gli eventuali necessari provvedimenti", si legge in una nota dell'associazione. Fabio Giambrone, presidente della Gesap, la società di gestione dell'aeroporto di Palermo, ha convocato per oggi alle 16,30 una conferenza stampa presso l'hotel Borsa. Il consiglio di amministrazione della società si riunirà alle 15. Il Comune di Palermo, Confcommercio, la Gesap e la Camera di commercio hanno annunciato che si costituiranno parte civile nel processo. Il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, esprime "appezzamento per l'operato delle forze dell'ordine e della magistratura, per questo ennesimo contributo all'affermazione della legalità nella nostra città" e annuncia di avere dato mandato all'avvocatura comunale per la costituzione di parte civile "ove ciò dovesse essere processualmente possibile". Anche Fabio Giambrone, presidente della Gesap, la società che gestisce l'aeroporto di Punta Raisi, annuncia che la Gesap si costituirà parte civile e che ha consegnato copia del verbale del consiglio di amministrazione della Gesap all'autorità giudiziaria: "La società non può subire questa esposizione, abbiamo revocato le funzioni e la carica di Roberto Helg e convocato l'assemblea dei soci per il 12 marzo per nominare il successore". Raffaele Cantone, presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione ricorda: "Fece un intervento particolarmente appassionato contro la corruzione". E continua: "ferma restando la presunzione di innocenza, è evidente come in questo mondo ci sia tanta ipocrisia e questa fa molti più danni, rispetto alla stessa corruzione. Se un soggetto del genere parla di contrasto alla corruzione e poi viene arrestato il rischio vero è che si mette in discussione anche la battaglia oltre alle sue parole". Il gruppo dirigente di Confcommercio ha deciso di applicare la sanzione estrema, l'espulsione. A comunicarlo oggi pomeriggio, nella sede di via Emerico Amari, i quattro vice presidenti di Confcommercio di Palermo, Antonello Di Liberto, Patrizia Di Dio, Luigi Genuardi, Rosanna Montalto, e il direttore Vincenzo Costa. "Esprimiamo coralmente solidarietà e vicinanza all'imprenditore anch'egli dirigente di Confcommercio Palermo, che ha denunciato i gravi fatti - si legge nella nota diffusa alla stamp a- abbiamo deciso di applicare la massima sanzione prevista dalla Statuto, ovvero l'espulsione nei confronti di Helg. La Confcommercio, nel confermare il suo impegno per la legalità, si costituirà parte civile nel processo e il gruppo dirigente di Confcommercio Palermo esprime apprezzamento per il lavoro svolto dalla magistratura e dalle forze dell'ordine". Nella sala dove si è tenuta la conferenza stampa ci sono  ancora le foto di Helg con l'attuale presidente del Senato Pietro Grasso e i codici etici di legalità siglati da Concommercio. "Non è una giornata felice per Confcommercio -ha detto Genuardi- ma riteniamo che abbiamo  fatto quello che andava fatto. Riteniamo che questi  sono fatti straordinari e la Confcommercio conferma il suo percorso per la legalità e non si fermerà davanti a questo brutto episodio. L'importante -ha concluso- è la risposta che sapremo dare". Il difensore di Roberto Helg, l'avvocato Fabio Lanfranca, ha rinunciato al suo incarico "per ragioni di incompatibilità". Lo stesso legale è anche il difensore di Confcommercio. "Sono fuori Palermo - dice Lanfranca - e sto apprendendo, ora dopo ora, sempre nuovi particolari sullal vicenda. Purtroppo ci sono profili di incompatibilità. Ho appreso anche della sua ammissione. E io sono legale dell'associazione dei commercianti. non posso accettare. Io assisto le vittime degli estorsori, non posso difendere Helg".

Pizzo in città, quando Helg polemizzò con i dati diffusi da Confindustria. Giuseppe Todaro, aveva sostenuto in un'intervista al Giornale di Sicilia, che il 90% dei commercianti della città paga il pizzo, scrive “Il Corriere della Sera”. Risale a poco dopo Natale la polemica che vide contrapposti il presidente della Camera di commercio di Palermo, Roberto Helg, arrestato ieri per tangenti, e il delegato per la legalità di Confindustria nel capoluogo siciliano Giuseppe Todaro, che è anche componente di Addiopizzo, il quale aveva sostenuto in un'intervista al Giornale di Sicilia che il 90% dei commercianti della città paga il pizzo. Helg aveva contestato quella percentuale e aveva sostenuto: «Non mi è chiaro se chi l'ha intervistato abbia capito bene quanto da lui detto. Mi sento di smentire categoricamente che il 90% dei commercianti del cosiddetto "salotto buono" paghi il pizzo e mi rifiuto di credere che le forze dell'ordine diano a Todaro notizie così riservate». Sulla questione era intervenuto il Comitato di redazione del Giornale di Sicilia, che aveva parlato di «assolute anomalie» contenute nelle dichiarazioni di Helg, prima delle quali «la smentita di un'intervista non rilasciata da lui. È la prima volta che accade in 200 anni di giornalismo. Seconda anomalia, Helg ha chiuso le sue attività per fallimento, continuando a rappresentare gli altri imprenditori che invece le mantengono in vita. Non ci risultano altri casi simili». Helg, sempre in quella circostanza, aveva spiegato: «Da anni sostengo che la lotta al racket vada fatta tutti insieme e non una associazione contro un'altra: questa è una strategia di basso profilo e che non porta buoni frutti. I risultati ottenuti a Palermo dimostrano che la mia posizione è vincente e mi vedo costretto a chiedere all'amico Giuseppe Todaro di smentire quanto riportato a suo nome dall'articolo o di rilasciare altra intervista con l'elenco dei nomi di tutti i commercianti che continuano a pagare il pizzo nella zona bene di Palermo, negandolo poi alle Forze dell'ordine. Se l'amico Todaro ci darà i nomi che dice di conoscere, agiremo di conseguenza come facciamo da anni: contattando l'imprenditore per convincerlo a collaborare con le forze dell'ordine e, in caso di un suo rifiuto, sospendendolo dall'associazione, com'è ormai prassi consolidata».

I due volti di Helg, l'uomo per tutte le stagioni che diceva: "Qui non si paga il pizzo". Il presidente della Camera di commercio arrestato ieri è un esponente di spicco, assieme a Montante, di Unioncamere Sicilia cui Crocetta ha affidato un appalto da due milioni per l'Expo, scrive Emanuele Lauria su “La Repubblica” Il primo problema, adesso, se lo porrà il governatore Rosario Crocetta. Che ha assegnato con affidamento diretto un appalto da due milioni di euro per l'Expo a un'associazione, Unioncamere Sicilia, i cui vertici sono stati stati investiti da inchieste giudiziarie: il presidente Antonello Montante è indagato per mafia e un autorevole membro della giunta, Roberto Helg, è appena finito in carcere per tangenti. E' solo uno dei risvolti dell'operazione che ha portato all'arresto di Helg, commerciante del settore degli articoli da regalo e influentissimo attore della vita amministrativa  e politica della città. Helg, 78 anni, Cavaliere del lavoro dal 1976 e più recentemente insignito del titolo di commendatore, è un collezionista di cariche che ha ricoperto incarichi di punta in tutte le stagioni politiche palermitane. E' presidente della Camera di commercio dal 2006 e il suo secondo mandato scade l'anno prossimo. E' stato presidente di Confcommercio Sicilia dal 2006 al 2008, dopo essere stato per nove anni il vice di Sergio Billè. Oggi continua a guidare Confcommercio Palermo. Un uomo per tutte le stagioni, vicino a Forza Italia al tempo della giunta Cammarata e non distante oggi a una parte del Pd "di governo". Uno dei più potenti rappresentanti del mondo produttivo siciliano, con un'anomalia sullo sfondo: l'attività imprenditoriale di Helg è fallita nel 2012. Considerato un paladino della legalità, il presidente della Camera di commercio palermitana non ha mai mancato un convegno sull'antimafia. La giunta camerale da lui guidata, nel gennaio 2014, ha adottato il piano triennale di prevenzione della corruzione. Con l'obiettivo di "promuovere la cultura della legalità come condizione necessaria per la crescita economica, in particolare, nel campo della lotta al racket delle estorsioni e dell'usura". Il 27 dicembre scorso, nel rispondere piccato al delegato per la legalità di Confindustria Palermo Giuseppe Todaro, Helg aveva detto: "Smentisco categoricamente che il 90 per cento dei commercianti del centro della città paghi il pizzo". Oggi che lo stesso Helg è stato colto in flagrante mentre intascava una mazzetta, quelle parole suonano decisamente beffarde.

Il grande inganno dell'antimafia siciliana: così l'eroe della legalità mette le mani sull'Expo. Montante, indagato assieme all'ex governatore Lombardo, condannato, sono i creatori di Caltanissetta "zona franca" anti-pizzo. Tra collusioni e fiumi di soldi, tutti i paradossi di un'impostura politica dietro la dittatura degli affari, scrivono Attilio Bolzoni ed Emanuele Lauria su su “La Repubblica”. Lo sapevate che esiste una "zona franca della legalità" dove ci sono gli abitanti più buoni e più onesti d'Italia? E lo sapevate che l'hanno fortemente voluta un governatore condannato per mafia e un imprenditore indagato per mafia? Per capirne di più bisogna andare a Caltanissetta, quella che è diventata la capitale dell'impostura siciliana. Nella città dove è iniziata l'irresistibile ascesa del cavaliere Antonio Calogero Montante detto Antonello, presidente di Confindustria Sicilia, presidente della locale Camera di commercio, presidente di tutte le Camere di commercio dell'isola, consigliere per Banca d'Italia, delegato nazionale di Confindustria (per la legalità, naturalmente) e membro dell'Agenzia nazionale dei beni confiscati (unica carica dalla quale si è al momento autosospeso per un'indagine a suo carico per concorso esterno), si può scoprire come in nome di una assai incerta antimafia si è instaurata una sorta di dittatura degli affari. Un califfato che si estende in tutta la Sicilia ma che è nato qui, a Caltanissetta, dove commistioni  -  e in alcuni casi connivenze  -  fra imprese e politica, impresa e stampa, imprese e forze di polizia, imprese e magistratura, hanno ammorbato l'aria e fatto calare una cappa irrespirabile sulla città. In Sicilia tutto si fonda su due parole magiche: legalità e antimafia. È una "legalità" costruita a tavolino e un'"antimafia padronale" che copre operazioni politiche opache e favorisce gruppi di interesse. Dopo la felice stagione iniziata con la "rivolta degli imprenditori" del 2007 guidata da Ivan Lo Bello contro il racket, trasformismo e ingordigia hanno snaturato l'iniziale esperienza e una consorteria si è impadronita di tutto. La "zona franca" l'ha pretesa la Confindustria siciliana di Montante, l'unico "partito" che nel governo regionale siede ininterrottamente da sei anni con un proprio rappresentante. Quando governatore era Raffaele Lombardo  -  il 2 maggio del 2012  -  fu istituita con un atto ufficiale la Provincia di Caltanissetta fu riconosciuta come "zona franca della legalità". L'obiettivo era quello di concedere benefici fiscali alle aziende che "si oppongono alle richieste estorsive della criminalità organizzata". Previsione di spesa: 50 milioni di euro. Lombardo, che al momento della firma era già indagato per reati di mafia, due mesi più tardi si è dimesso e un anno dopo è stato condannato in primo grado a 6 anni e 8 mesi. Un (presunto) amico dei boss che concede agevolazioni a chi si batte contro il racket su richiesta di chi  -  Montante  -  è oggi a sua volta chiamato in causa da cinque pentiti per legami con le "famiglie". Trame di potere in una Sicilia che non ha mai temuto il paradosso. La Confindustria di Montante ormai è ovunque. Guida l'Irsap, l'istituto che gestisce le aree industriali siciliane, ha un peso decisivo nel business dei rifiuti e ora ha messo le mani sull'Expo. Pochi giorni fa, l'assessore alle Attività produttive Linda Vancheri, il rappresentante di Confindustria nella giunta di Rosario Crocetta, ha siglato una convenzione che assegna a Unioncamere un pacchetto di interventi per due milioni di euro. Chi guida Unioncamere in Sicilia? Antonello Montante. Sarà lui, malgrado l'inchiesta per concorso esterno, a decidere quali "eccellenze" siciliane del settore agro-alimentare dovranno figurare nella vetrina di Milano e in undici stand fra porti e aeroporti dell'isola. Materia d'indagine per almeno due procure (Palermo e Caltanissetta) e per Raffaele Cantone, il presidente dell'Authority contro la corruzione che, appena il 16 gennaio scorso, ha annunciato che su Expo è stato avviato "il più grande controllo antimafia di tutti i tempi". Una rete di interessi così fitta è protetta anche da una stampa a volte troppo compiacente con Montante e i suoi amici. Al punto da proporre (l'ha fatto La Sicilia in un lungo articolo) la notizia di una laurea honoris causa in Economia e Commercio riconosciuta dall'Università "La Sapienza" all'imprenditore. L'ateneo ha smentito il giorno dopo. Era falso. Nelle sue molteplici vesti istituzionali Montante ha spesso offerto un "sostegno" a mezzi d'informazione e singoli giornalisti. Da presidente della Camera di Commercio di Caltanissetta ha erogato una pioggia di contributi, sotto la voce "azione di marketing territoriale". Ne hanno beneficiato cronisti-scrittori, ancora prima della pubblicazione dei loro libri e testate web. Una settimana fa Il Fatto Nisseno, uno dei siti favoriti, ha cancellato un'intervista di Michele Costa (il figlio del procuratore ucciso a Palermo nel 1980) che manifestava perplessità sull'opportunità che Montante  -  sott'inchiesta  -  mantenesse le sue cariche. L'intervista è sparita nella notte "dopo devastanti pressioni". Un altro clamoroso caso riguarda un contratto di collaborazione per due anni  -  1.300 euro al mese  -  che Confindustria Centro Sicilia (sempre Montante presidente) ha firmato con il responsabile delle pagine di Caltanissetta de Il Giornale di Sicilia. Tutti episodi, quelli citati, che hanno spinto l'Ordine dei giornalisti ad aprire un'indagine conoscitiva. Oltre ad Antonello Montante, c'è un altro campione dell'antimafia a Caltanissetta. Si chiama Massimo Romano, socio e amico del Cavaliere, è il proprietario di 34 supermercati sparsi per la Sicilia e, qualche anno fa, era già finito nelle pieghe di un'indagine sui "pizzini" di Bernardo Provenzano molto interessato alla grande distribuzione. Romano da molto tempo siede a tavoli istituzionali con questori e prefetti, è il presidente del Confidi (un consorzio che cede prestiti a piccole e medie imprese) e il suo nome è scivolato in un'operazione antimafia dove il fratello Vincenzo  -  secondo il giudizio dei magistrati  -  l'avrebbe tenuto fuori dalla faccenda delle estorsioni "per preservarlo da possibili negative conseguenze sia di immagine che di carattere giudiziario". Il doppio volto di Caltanissetta zona franca per la legalità. C'è promiscuità fra investigatori e magistrati e l'indagato di mafia Montante. A Roma e in Sicilia. A Caltanissetta  -  visti i suoi rapporti intensi con Angelino Alfano che poi l'ha designato anche all'Agenzia dei beni confiscati  -  Antonello Montante è riuscito, il 21 ottobre del 2013, a far presiedere al ministro dell'Interno il comitato nazionale per l'ordine pubblico e sicurezza. Un organismo che, solo in casi straordinari, si riunisce lontano da Roma. In Sicilia non accadeva dai tempi delle stragi di Falcone e Borsellino. Perché la scelta di Caltanissetta? Per farla diventare quella che non è mai stata, cioè una roccaforte dell'antimafia. In Sicilia e a Caltanissetta c'è una vicinanza molesta fra imprenditori e rappresentanti dello Stato (si racconta di questori che si trasformano in tappetini al cospetto di Montante, di prefetti che hanno ricevuto esagerate regalie), ci sono investigatori che si fanno assumere parenti e amiche dalla cordata (è il caso di un ufficiale della Dia e di un maggiore della Finanza), ci sono uomini dei servizi segreti che sguazzano allegramente nell'ambiente "antimafioso", c'è una prossimità imbarazzante con molte toghe. Tanto evidente che ha portato il nuovo presidente dell'Associazione nazionale magistrati Fernando Asaro a invitare i suoi colleghi "a una ineludibile concreta distanza da centri di potere economici ". Più chiaro di così.

Montante, il nuovo mostro da sbattere in prima pagina. L'imprenditore pro-legalità Antonello Montante è oggetto delle dichiarazioni di alcuni pentiti. Non ha ricevuto nemmeno un avviso di garanzia. Ma tanto basta a massacrarlo sulle pagine di alcuni giornali, scrive Filippo Astone su “Affari Italiani”. Antonello Montante rappresenta l'Enzo Tortora del terzo millennio? Per fortuna no. Almeno per il momento. Dando seguito alle dichiarazioni di alcuni pentiti, Tortora venne processato e condannato in alcuni gradi di giudizio, subendo anche un linciaggio mediatico, con penne importanti (Camilla Cederna e Giorgio Bocca) che si dichiararono convinte della sua colpevolezza. Come Tortora, Montante è oggetto di dichiarazioni di un paio di pentiti, ancora tutte da riscontrare. Però non ha pendenze giudiziarie, non ha ricevuto nemmeno un avviso di garanzia, e subisce un linciaggio mediatico solo da parte di alcuni, che sono giornalisti di calibro nemmeno lontanamente paragonabile a quello di Cederna e Bocca. Tuttavia il torto subito da Montante, e il danno per le battaglie che ha condotto in questi anni, sono molto rilevanti. Enzo Tortora però non si è mai occupato di giustizia o di antimafia, ed è incappato nelle spire dei pentiti "a gettone" solo per un puro scherzo del caso. Da un nome segnato su una agenda, si è arrivati a giochi di parole, a scherzi e quindi a una tragica realtà. Tutt'altro che casuale sembra essere invece il discredito che si tenta di gettare sull'attuale presidente di Confindustria Sicilia nonché vice presidente nazionale di Confindustria con delega sulla legalità. Antonello Montante, 52 anni, nativo di Serradifalco, a pochi chilometri da Caltanissetta, con la mafia c'entra eccome. E' infatti un imprenditore che ha fatto dell'antimafia e della lotta per la legalità la sua ragione di vita, guidando insieme ad altri imprenditori meridionali di Confindustria (il suo alter ego Ivan Lo Bello, e poi Giuseppe Catanzaro, Marco Venturi, Giuseppe Todaro e tanti altri) una rivoluzione pro-legalità che ha segnato uno spartiacque storico. Con le sue battaglie, Antonello Montante ha rischiato la vita e ci ha messo la faccia, ottenendo risultati importanti: oltre 100 imprenditori espulsi da Confindustria per contiguità alla mafia; dozzine di dimissioni spontanee da Confindustria per non essere espulsi; la creazione nelle principali città di un percorso che accompagna per mano gli imprenditori che vogliono denunciare i loro estortori (lo stesso Montante si è esposto in prima persona molte volte, per convincere alcuni colleghi a denunciare); la creazione di un "rating" per la legalità che è diventato legge nazionale dello Stato; la riforma delle Asi, enti clientelari che dovevano gestire gli insediamenti industriali in Sicilia e invece alimentavano solo il malaffare (al loro interno, i mafiosi avevano addirittura la faccia tosta di convocare le riunioni); e soprattutto una nuova mentalità in Confindustria, per cui la legalità, almeno in teoria, coincide con la normalità, e chi non accetta questo principio se ne deve andare. Questa nuova cultura è una rivoluzione copernicana. La Confindustria siciliana prima della rivoluzione di Montante e Lo Bello era pressappoco la stessa che non voleva espellere i mafiosi e i collusi, ma proprio Libero Grassi, che se non fosse stato ucciso era destinato a venir cacciato dall’associazione imprenditoriale. Gran parte dei vertici di quella Confindustria Sicilia (nelle sue diramazioni settoriali e territoriali) erano collusi, come dimostrato da varie inchieste giudiziarie, che li hanno condannati e in alcuni casi incarcerati. Questo è Antonello Montante. Che nella sua giornata di 24 ore trova anche il tempo di gestire due imprese, una che fa ammortizzatori ad alto contenuto tecnologico, e un'altra che produce biciclette di lusso. Le presunte "rivelazioni" dei pentiti, ancora tutte da verificare (le due inchieste di Caltanissetta e Catania, non su Montante ma sulle dichiarazioni dei pentiti nel loro complesso, hanno questo scopo) servono a delegittimarlo proprio pochi giorni dopo che il suo ingresso nel consiglio dell'Ansbc, l'Autorità nazionale dei beni sequestrati e confiscati, un colosso che gestisce qualcosa come 65 miliardi di euro di controvalore (tra cui 10.500 immobili e 1500 aziende), quasi quanto il fatturato della Fiat. Montante, unico imprenditore in un cda di prefetti e magistrati, avrebbe potuto assumere dopo poche settimane un ruolo chiave nell'Ansbc. Ma lo hanno rallentato, con la classica strategia mafiosa del "mascariare", già tentata perfino con Giovanni Falcone (vi ricordate le lettere del "Corvo"). «Mascariare» in siciliano significa tingere con il carbone. Basta un tocco e resta un segno. Quello del sospetto, ovviamente. Ma non è solo per delegittimare qualcuno che la mafia lo tinge con il carbone. Quello è solo il primo passo. Il secondo, se la delegittimazione funziona, può essere quello di porre fine alla vita del delegittimato, sperando poi che la cosa venga vista da molti non come l'eliminazione di un eroe, ma come una "vicenda tra loro". Spiace che alcuni giornalisti, sicuramente in buona fede ma traviati dalla convinzione di avere la verità in tasca (soprattutto se si deve dar contro a qualcuno, processarlo e condannarlo in quattro e quattr'otto, senza nessun aggancio alla realtà dei fatti né a quella giudiziaria) si prestino a questo gioco al massacro. Nelle ultime settimane Montante è stato rappresentato da alcuni quotidiani come se fosse indagato per mafia (e non è vero, non ha ricevuto nessun avviso di garanzia, gli unici fascicoli aperti riguardano le dichiarazioni di alcuni pentiti, sulle quali la magistratura è obbligata a cercare riscontri), come se fosse un personaggio discutibile (e da chi? perchè?), come se si fosse dimesso dall'Ansbc (e invece si è solo "autosospeso", cioé per il momento non partecipa alle riunioni), come se ci fosse una presa di distanza della magistrature e delle forze dell'ordine da lui (invece la collaborazione continua). Eppure, il 24 gennaio 2015 (poco prima delle rivelazioni pentitizie a "orologeria", guarda caso) il presidente della Corte di Appello di Caltanissetta, Salvatore Cardinale, in apertura di anno giudiziario aveva detto: «ci sono ancora boss che impartiscono ordini dal carcere e che continuano a mantenere e ad esercitare il loro antico potere. Il periodo preso in esame, è stato caratterizzato da intimidazioni, minacce, insinuazioni e delegittimazioni varie rivolte a magistrati, funzionari pubblici e rappresentanti di organizzazioni private, specie quelli più esposti sul campo dell’antimafia e della lotta all’illegalità. Si tratta di segnali che sembrano manifestare un parziale cambiamento della strategia fin qui perseguita del cosiddetto “inabissamento” a favore della scelta di una maggiore visibilità anche mediatica dell’insofferenza sempre più crescente verso l’azione di contrasto che tuttora è condotta dallo Stato e che trova l’adesione in alcuni protagonisti di un’imprenditoria libera e illuminata. In tal senso, da parte degli investigatori, sono stati interpretati gli attacchi contro i nuovi vertici confindustriali siciliani e nisseni, spesso aggrediti attraverso il metodo subdolo della diffamazione e del discredito mediatico, e l’accentuata campagna di delegittimazione condotta a tutto campo contro vari protagonisti dell’antimafia operativa, mirati a riprodurre una strategia della tensione che potrebbe tradursi in azioni eclatanti. Su tale linea strategica sembrano porsi i due “avvertimenti”, uno dei quali consumato a Caltanissetta, posti in essere contro il Presidente dell’Irsap». Parole simili le ebbe a dire Sergio Lari, capo di quella stessa procura di Caltanissetta oggi chiamata a far luce sulle rivelazioni di questi pentiti a proposito di Montante e di altro. L'occasione era un convegno a Chianciano Terme, nel settembre 2013. «È in corso una campagna di delegittimazione da parte di centri di poteri occulti, che mirano a screditare chi in Sicilia combatte malaffare e mafia.Una campagna di delegittimazione, che è anche una strategia della tensione potrebbe tradursi in attentati e stragi», disse Lari. Il magistrato parlava chiaro: «Ci sono centri di potere, collegati sicuramente con le organizzazioni mafiose, che utilizzando nuovi mezzi di comunicazione come blog, social network o fantomatici giornali on line gettano sospetti e fango su chi l'antimafia la fa davvero, ovvero con i fatti. Hanno avviato una campagna di delegittimazione, oltre a proseguire con gli avvertimenti. Continuano ad arrivare buste con proiettili, croci e altri messaggi inquietanti». Non si possono tacere neanche le dichiarazioni del prefetto Umberto Postiglione, direttore dell'Agenzia per i beni sequestrati, alla commissione antimafia della Regione Sicilia. «Quando ero Prefetto ad Agrigento» ha spiegato Postiglione durante l'udienza, «mi dicevano: Eccellenza, siamo nella casa di Pirandello , e io dicevo che Pirandello era un dilettante a confronto. Le cose che si riescono a costruire in Sicilia possono essere estremamente articolate anche nell’architettura diffamatoria. Se c’è qualcuno che nell’ombra ha bisogno di vendicarsi potrebbe farlo attraverso questi meccanismi, insomma una forma di ritorsione per la svolta confindustriale. Bisogna venirne fuori cercando di recuperare la verità. Io ripeto che non ho giudizi da esprimere, Montante lo conosco e mi è sempre sembrato una persona che lotta per la legalità». Montante viene difeso anche dalla Dna, la Direzione nazionale antimafia, che nella relazione 2014, presentata al Parlamento il 24 febbraio 2015 (cioé ben dopo l'emergere dello "scandalo"), scrive: «Nell’ultimo periodo si assiste ad una crescente reazione delle organizzazioni mafiose e dei suoi poteri collegati (come ad esempio quello dei “colletti bianchi”) contro l’azione di contrasto alla criminalità organizzata, nonché contro l’opera di legalità posta in essere in questi anni dall’Associazione Confindustriale di Caltanissetta e, in generale, da quella regionale». “In tale contesto – prosegue la Dna – sembrano iscriversi gli atti intimidatori consumati ai danni del Presidente dell’Irsap (Istituto regionale per lo sviluppo delle attività produttive), Alfonso Cicero. In definitiva, sembra che la reazione di cosa nostra, attuata su più piani, abbia come obiettivo quello di innalzare il livello di aggressione contro quel modello voluto anche da Confindustria Sicilia, che ha costituito, in questi ultimi anni, un elemento di forte discontinuità rispetto al passato”. E che dire dell'intercettazione ambientale di un colloquio fra due mafiosi, in un bar di San Cataldo, cittadina della provincia nissena? «Questa è la seconda tranche da fare arrivare ai familiari del ‘cantante’. Devi sapere che il sistema così viene meglio incentivato e nelle sue cantate si ricorda sempre qualcuno in più», si dicono i due nel colloquio, registrato nel settembre 2014. E poi, un riferimento esplicito a Montante e Lo Bello: «Giuro su mia mamma che questi devono scomparire dalla faccia della terra… a noi interessa solo che viene anticipata quella notizia sul giornale per massacrarli nell’immagine». Ma in che cosa consistono le accuse dei pentiti contro Montante? Secondo quanto emerge dalle anticipazioni giornalistiche, tra il 1999 e il 2002, Montante avrebbe pilotato alcuni appalti all'interno del consorzio Asi di Caltanissetta. La cosa stupisce, perché all'epoca l'imprenditore non aveva cariche né in Confindustria, né a livello politico, né all'interno dell'Asi. Ma contrasterebbe vieppiù con la battaglia condotta da Montante e Lo Bello (e da Alfonso Cicero, funzionario regionale che ha sempre lavorato in sintonia con loro) per la bonifica di questi consorzi. Da leggere, quello che denunciarono Montante e Lo Bello nel giugno 2014 in Commissione parlamentare antimafia. Una denuncia che è solo l'ennesima, e fa eco alle decine di azioni simili condotte in passate. Disse Lo Bello: «…ci troviamo, in Sicilia, in una situazione complessa, che riguarda – voglio portarla all’attenzione della Commissione antimafia – il ruolo dei consorzi di sviluppo industriale, che hanno dimostrato nel tempo di essere un luogo di presenza capillare e diffusa di criminalità mafiosa. Oggi la regione ha riportato al centro i consorzi, ma il presidente dei consorzi Asi, oggi Irsap, è oggetto di continue intimidazioni. Peraltro, da tempo ha avuto un aumento della scorta, il secondo livello, ed è costantemente attaccato da tanti soggetti con minacce significative, su cui voglio richiamare l’attenzione della Commissione antimafia. Mi riservo anche di fare arrivare alla Commissione antimafia della documentazione sui temi dei consorzi di sviluppo industriale, tema centralissimo anche nelle dinamiche nel rapporto tra cattiva impresa e sistema mafioso». E aggiunse Montante: «Abbiamo divulgato una cultura di impresa nuova, sostenendo che forse era il caso di cambiare rotta, considerato che nel 2005 e nel 2007 i presidenti delle Confindustrie siciliane erano stati tutti indagati o arrestati per lo stesso problema, Palermo, Caltanissetta, Enna. Il problema del consorzio Asi si conosceva, ma non era emerso.……Ha parlato il mio collega dei consorzi Asi, che andavano oltre ogni immaginazione. Erano luoghi, come le indagini e le condanne dimostrano, in cui le organizzazioni si riunivano. È un’anomalia tutta nostra, tutta siciliana o del Mezzogiorno d’Italia. Erano cose pazzesche. Ricordiamo che e un imprenditore del nord, che doveva realizzare un opificio industriale, presidente, chiedeva l’autorizzazione al comune d’appartenenza, chiedendo la concessione Pag. 17edilizia per costruirlo. Parlo della Sicilia, ma possiamo anche parlare della Calabria e di altri luoghi. In Sicilia non era così. Bisognava andare prima al comune di appartenenza, chiedere l’autorizzazione alla costruzione dell’opificio, parlare con tutta la commissione edilizia, senza dimenticare nessuno, con l’ingegnere capo, ma non finiva lì. Serviva il nulla osta del consorzio dell’area sviluppo industriale, un ente appaltante in contrapposizione al comune d’appartenenza. All’interno del consorzio Asi c’erano un presidente, un direttore generale, un ingegnere capo e una struttura infinita. Non lo ha citato Lo Bello, che ha fatto grandi cose, ma lascia il ruolo a me e mi fa fare bella figura, quindi racconto io che in una due diligence sempre a due abbiamo verificato che all’interno dei consorzi ASI c’erano insediate anche 30 aziende e il consiglio d’ammissione dello stesso consorzio era di 70 unità. In Sicilia, ad esempio, il numero degli amministratori dei consorzi Asi era un totale di 800 persone, con circa 500 aziende insediate, quindi non è questo il problema. Oggi abbiamo copiato modello nazionale virtuoso. In realtà, lo ha fatto chi ha proposto la legge, in parte anche noi, e oggi un gruppo dirigente non è sostituito da un altro gruppo dirigente: si è sostituito quel modello e 800 persone sono sostituite da 5. Questo si è verificato. Non vi ho detto cosa fossero i consorzi Asi dentro le Asi stesse, queste aree industriali: dei condomìni. Ho aziende da decenni al nord: ci si apre un’azienda in un’area a destinazione industriale e si chiede l’autorizzazione solo al comune. Poi c’è da versare ogni mese una quota per il giardinaggio esterno. Questo è un condominio, non con 30 aziende, bensì con 500 insediate. I consorziati servivano, quindi, a controllare le aziende e poi diventavano i luoghi – parlo di inchieste e di condanne che vediamo ogni giorno – dove si incontravano i capimafia, non di nascosto, niente di segretato, bensì ufficialmente proprio lì nei consorzi. Facevano, quindi, riunioni con la mafia. Non affidavano i terreni a veri imprenditori, ma a quelli a cui serviva il terreno, lo regalavano. Sono attive inchieste anche a Palermo, a Catania, a Caltanissetta, ad Agrigento. Non ne parliamo. Parlo, naturalmente, sempre della Sicilia. L’attuale presidente Cicero è stato oggetto, e la notizia è pubblica, di inquietanti attentati. Gli stessi procuratori hanno sentito l’esigenza di esternarlo in maniera forte ricorrendo all’attività mediatica. Questo signore o questi signori vivano in uno stato di guerra vera. Parliamo di ordigni, di commandi interi, sei persone, fortunatamente tutte fotografate, che arrivano con un mezzo perché volevano caricarlo o ammazzarlo. Fortunatamente, sono stati beccati dalle telecamere e quindi è stato sventato tutto. Non stiamo parlando, quindi, di fantasie, ma di cose serie. Queste sono le cose più grosse, poi ce sono si minori. È saltato un sistema. Oggi le aree industriali danno a chi ha un progetto e anche subito. Oggi non ci sono più le consulenze, i vitalizi, non c’è spartizione politica e questo, naturalmente, ha fatto saltare i nervi. Oggi quell’organizzazione non controlla più le aziende, e quindi non sa a chi chiedere il pizzo e a chi non chiederlo. Questo è saltato. Questo è ciò che fa Confindustria. Ho iniziato a dire che non siamo un’associazione antiracket, ma che dobbiamo dire al nostro associato che non gli conviene un certo comportamento. Se si è in un sistema malato, prima o poi si finisce come in quella due diligence mia e di Lo Bello, per cui dopo venti o trent’anni si crolla o lo Stato arriva e sequestra l’azienda o la sequestra la mafia o ti ammazzano comunque per strada. Penso che in parte ci siamo riusciti. Il problema è culturale, presidente, non di azioni o di legge, ma è un problema per cui bisogna comunque un po’ ancora forse aspettare».

Coinvolto in due inchieste per mafia, Montante lascia l'Agenzia per i beni confiscati. Il delegato per la legalità di Confindustria, presidente dell'associazione in Sicilia, si sospende dall'incarico dopo le notizie pubblicate da Repubblica delle indagini che lo riguardano a Caltanissetta e Catania, scrive Emanuele Lauria su “La Repubblica”. Antonello Montante lascia la carica di consigliere dell'Agenzia per i beni confiscati ai boss. Una decisione sofferta. maturata solo nelle ultime ore, dopo un frenetico giro di consultazioni. Il presidente di Confindustria Sicilia, delegato per la legalità dell'associazione di viale dell'Astronomia, si sospende dai vertici dell'Agenzia dopo le notizie, pubblicate da Repubblica, di due inchieste per mafia, a Caltanissetta e Catania, che lo vedono coinvolto. A parlare di Montante sono cinque pentiti, che raccontano di una vicinanza dell'imprenditore di Serradifalco (Caltanissetta) con esponenti di spicco delle locali "famiglie". Montante, in una nota, annuncia la sospensione dall'incarico nel direttivo dell'Agenzia presieduta dal prefetto Umberto Postiglione e di cui fa parte anche il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. Negli ultimi giorni anche da ambienti confindustriali era giunta a Montante la sollecitazione a compiere questo passo: una mossa che dovrebbe servire a placare le polemiche, in attesa di sviluppi giudiziari. Scrive il leader confindustriale: "È per il profondo rispetto verso tutte le istituzioni, a partire da magistratura e forze dell’ordine, che oggi, alla luce delle notizie che ho appreso dalla stampa, seppure sconsigliato da tanti, ho deciso di autosospendermi dal consiglio direttivo dell’Agenzia". Montante mantiene gli incarichi all'interno di Confindustria: il comitato di presidenza di viale dell'Astronomia mercoledì aveva ribadito la fiducia all'imprenditore, uno dei protagonisti nell'Isola della rivolta degli industriali contro il racket: passaggio non scontato, che aveva fatto seguito al sostegno offerto il giorno prima, a Palermo, dai vertici di Confindustria Sicilia, Ance Sicilia, Piccola Industria e Giovani industriali dell'Isola. Ma la questione centrale, ogni giorno di più, era diventata la permanenza di Montante nel ruolo di consigliere dell'Agenzia per i beni sequestrati e confiscati alla mafia. "Montante si dovrebbe dimettere? Non lo so, dipende da una sua sensibile valutazione ", aveva detto il prefetto Postiglione, pur rimanendo prudente: "Nessuno è colpevole fino a che non è condannato né è costretto a dimettersi per legge". In un silenzio sostanziale di quasi tutti i principali partiti, Sel, grillini e Rifondazione Comunista avevano auspicato un passo indietro di Montante. L'autosospensione, in particolare, era stata chiesta dal vicepresidente della commissione antimafia Claudio Fava. Una decisione che Montante ha preso stamattina. "Mai avrei pensato – scrive Montante – di dovermi trovare un giorno in una situazione simile dopo anni trascorsi in trincea, insieme a tanti altri imprenditori, sempre al fianco delle istituzioni. Anni durante i quali un gruppo di giovani imprenditori siciliani ha preso coraggio e ha espulso dalla propria associazione persone che avevano rivestito ruoli apicali negli organi associativi regionali e che, come hanno sottolineato alti magistrati in occasioni pubbliche, grazie al metodo mafioso e a protezioni politiche, avevano creato un sistema di potere di portata regionale se non nazionale. Anni durante i quali abbiamo accompagnato decine di colleghi alla denuncia, sostenendoli anche nelle aule di tribunale, anni in cui abbiamo sollecitato controlli antimafia preventivi, in alcuni casi mai fatti prima, e ci siamo costituiti parte civile, insieme con tutte le associazioni aderenti a Confindustria, in processi contro esponenti di spicco della criminalità organizzata". Il presidente degli industriali siciliani parla anche dei collaboratori di giustizia che lo chiamano in causa: "Le persone che vedo citate negli articoli giornalistici pubblicati in questi giorni - afferma Montante - sono state da noi tutte denunciate e messe alla porta, così come è possibile leggere in documenti pubblici consegnati in commissione Antimafia, in occasione dei Comitati per l'ordine e la sicurezza pubblica e, comunque, a tutti gli organi antimafia del Paese. Lo abbiamo fatto subendo minacce gravissime e mettendo a rischio la nostra vita. Tutto per affermare una rivoluzione innanzitutto culturale".

L'antimafia dei veleni. Dietro il caso Montante Pentiti e manovre politiche, scrive Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia”. Cosa c'è dietro il caso Montante e dietro la notizia delle indagini che lo riguardano?  Radiografia di una vicenda che potrebbe affondare le sue radici nella guerra che cova sotto il movimento Antimafia. Cosa c'è dentro il caso giudiziario di Antonello Montante e quali contesti politici si agitano attorno alla figura del presidente degli industriali siciliani? Innanzitutto ci sono pentiti vecchi e nuovi. Come le indagini. Il caso Montante esplode oggi ma, a giudicare dalle parole di alcune autorevoli voci, interessate e non, sembra avere radici antiche. Radici che potrebbero affondare nella guerra che cova sotto il movimento Antimafia. Un movimento attraversato più che da spaccature da vere e proprie logiche di fazione. Il quotidiano 'La Repubblica' dà notizia dell'esistenza di un'indagine per reati di mafia a carico di Montante. Anzi, le indagini sarebbero due: una a Caltanissetta e l'altra a Catania. Tre pentiti lo chiamerebbero in causa. Di uno di loro viene fatto il nome, Salvatore Dario Di Francesco. Arrestato un anno fa, Di Francesco ha iniziato a fare i nomi e a parlare di appalti pilotati tra il 1999 e il 2004 nell'Area di sviluppo industriale di Caltanissetta, dove lui stesso prestava servizio. Ambienti vicinissimi alla Confindustria lo vorrebbero animato da risentimenti personali - per alcuni addirittura spinto da propositi di vendetta - nei confronti della stessa organizzazione che ne aveva duramente contestato l'operato. Di Francesco è compare di nozze di Vincenzo Arnone, figlio di Paolino che nel 1992 si suicidò in carcere dove era stato richiuso perché coinvolto in un blitz antimafia. Vincenzo Arnone, a sua volta, è compare di nozze di Montante. Nell'abitazione di quest'ultimo, era il 2010, furono trovate alcune fotografie che li ritraevano assieme a metà degli anni Ottanta. Le foto e pure il certificato di matrimonio, nell'aprile dell'anno scorso, furono pubblicate sulla rivista I Siciliani Giovani e oggi vengono rilanciate da La Repubblica. Non si conoscono ancora i contenuti delle dichiarazioni di Di Francesco e degli altri due collaboratori di giustizia di cui pure i nomi restano segreti. Uno potrebbe essere Carmelo Barbieri che già nel 2009 proprio ai pm nisseni - c'era anche il capo della Procura, Sergio Lari, ad interrogarlo - fece il nome di Montante. Non sappiamo che fine abbia fatto questa indagine. Né conosciamo l'evolversi di quella che sarebbe stata aperta a Catania un anno fa. Si sa, ma solo in virtù di alcune indiscrezioni, che si tratterebbe di un'inchiesta nata da un esposto. Il fatto che siano i magistrati etnei ad occuparsene, però, sembrerebbe giustificato dalla presenza di un pm nisseno nel contenuto della stessa denuncia. Chi e cosa abbia denunciato non è dato sapere. La questione potrebbe essere legata, ma anche questa è solo un'ipotesi, alle vicende sollevate dall'ex pm di Caltanissetta ed ex assessore regionale ai Rifiuti, Nicolò Marino, che in un'intervista del novembre scorso al quotidiano 'La Sicilia' ricordò al cronista e ai lettori: “Non dimenticate che io e Lari eravamo a Caltanissetta assieme e che entrambi sappiamo chi è Montante”. Un passaggio che potrebbe avere fatto nascere l'esigenza di un approfondimento investigativo. Montante, in una nota tranciante, si limita oggi a replicare citando le parole, definite “profetiche”, del presidente della Corte d’Appello di Caltanissetta. Secondo Montante, saremmo di fronte ad un atto di delegittimazione nei confronti dell'azione concreta di Confindustria sul fronte della lotta alla mafia. Lo stesso Montante, dunque, ci obbliga a rileggere le parole pronunciate da Salvatore Cardinale - è lui il presidente della Corte d'appello citato dal rappresentante degli industriali siciliani - durante l'inaugurazione dell'anno giudiziario nisseno. Cardinale aveva stigmatizzato "un clima di allarme, fatto di intimidazioni, minacce, insinuazioni e delegittimazioni varie rivolte a una platea di magistrati, funzionari pubblici e rappresentanti di organizzazioni private, specie quelli più esposti sul campo dell'antimafia e della lotta all'illegalità". Ed aveva citato, in maniera esplicita, “gli attacchi contro i nuovi vertici confindustriali siciliani e nisseni, spesso aggrediti attraverso il metodo subdolo della diffamazione e del discredito mediatico, e l'accentuata campagna di delegittimazione condotta a tutto campo contro vari protagonisti dell'antimafia operativa, mirati a riprodurre una strategia della tensione che potrebbe tradursi in azioni eclatanti". L'indagine su Montante si muove su due piani, uno giudiziario e uno politico. Il fronte giudiziario sarebbe alle battute iniziali. L'attualità dei tempi viene dettata dal fatto che per Di Francesco non è ancora scaduto, o forse lo è da pochi giorni, il termine dei 180 giorni previsto dalla legge per raccoglierne le confessioni. Attuale è anche l'aspetto politico della vicenda, visto che Montante, presidente degli industriali siciliani e delegato nazionale di Confindustria per la legalità, appena quindici giorni fa, è stato chiamato dal governo nazionale, e dunque dalla politica, nel direttivo dell'Agenzia per i beni confiscati alla mafia. Dovrà dare il suo contributo per mettere ordine in un settore apparso finora lacunoso. A cominciare dal fatto che migliaia di beni restano improduttivi e molti sono addirittura ancora in mano agli stessi mafiosi a cui sono stati sottratti. L'Agenzia per i beni confiscati, dati alla mano, è una delle più grosse holding italiane la cui gestione, storicamente, è stata terreno di scontro fra le correnti di pensiero, e non solo, dell'Antimafia. Montante ha da subito parlato della necessità di un'inversione di rotta, forse suscitando timori e gelosie.

Il caso Montante: l’inchiesta per mafia che spacca l’Antimafia. Crocetta e Lumia lo difendono a spada tratta, il M5S, Libera e Addiopizzo chiedono che faccia un passo indietro. Il presidente di Confindustria nazionale Giorgio Squinzi si limita ad esprimere la propria ”sorpresa”. L’indagine di Caltanissetta divide il mondo politico e imprenditoriale tra chi non crede alla delegittimazione dell’industriale e chi si interroga sul rischio di un impegno di cartapesta, scrive Paolo Patania su “L’Ora Quotidiano”. Crocetta lo difende a spada tratta, il M5S chiede che faccia un passo indietro. Il presidente di Confindustria nazionale Giorgio Squinzi si limita ad esprimere la propria ”sorpresa” e quello della Camera di commercio di Palermo Roberto Helg si augura che ”si possa fare chiarezza in brevissimo tempo”. Enrico Fontana, coordinatore dell’associazione Libera di don Luigi Ciotti, chiede che lasci subito l’incarico che ricopre all’Agenzia dei beni confiscati. La notizia dell’indagine per mafia su Antonello Montante, 52 anni, il leader degli industriali siciliani che ha inventato il ”codice etico” dell’imprenditoria schierata contro il racket delle estorsioni, spacca l’Antimafia istituzionale, rimbalza tra i salotti della politica e quelli della finanza isolana, e minaccia di appannare un simbolo del contrasto alle cosche mafiose, appoggiato pubblicamente negli ultimi anni anche da magistrati del calibro di Sergio Lari, procuratore di Caltanissetta, capo dell’ufficio inquirente che lo ha iscritto nel registro degli indagati e che ora si limita a dichiarare: ”No comment, di più non posso dire”. L’indagine della procura nissena, come ha scritto Repubblica lunedì scorso, sarebbe aperta dall’estate scorsa, e sarebbe entrata nel vivo solo a dicembre. Ieri il Corriere della Sera, ha rivelato l’esistenza di alcune strane intercettazioni recapitate il 2 ottobre scorso nella sede di Confindustria in via dell’Astronomia, a Roma, con una sorta di verbale, non ufficiale ma dettagliato. Qualcuno aveva registrato, più volte dal 4 al 18 settembre, alcune persone sedute  in un  bar di San Cataldo, in provincia di Caltanissetta, mentre si scambiavano del denaro e pronunciavano frasi del tipo: “Questa è la seconda tranche da fare arrivare ai familiari del ‘cantante’. Devi sapere che il sistema così viene meglio incentivato e nelle sue cantate si ricorda sempre qualcuno in più”. E poi, un riferimento esplicito a Montante e Ivan Lo Bello: “Giuro su mia mamma che questi devono scomparire dalla faccia della terra… a noi interessa solo che viene anticipata quella notizia sul giornale per massacrarli nell’immagine”. Gli uffici di Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria,  avrebbero consegnato l’anomalo verbale al procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, che a sua volta lo avrebbe trasmesso ai procuratori di Caltanissetta, Sergio Lari, e Catania, Giovanni Salvi. Ma oggi Repubblica torna all’attacco, pubblicando i nomi di altri tre dei cinque pentiti che accusano Montante: oltre a Salvatore Dario Di Francesco, sarebbero Pietro Riggio, Aldo Riggi e Carmelo Barbieri, nipote del boss della Cupola Giuseppe Madonia. Secondo il quotidiano, i tre, a vario titolo, avrebbero parlato di rapporti di Montante col vecchio Paolino Arnone, boss di Serradifalco, di  ”mediazioni” per far lavorare una ditta di mafia, del ”rispetto” che alcuni picciotti dovevano portare all’industriale proprio per la sua vicinanza con gli Arnone. Nessuno può dire al momento se le accuse dei collaboratori che denunciano le ”relazioni pericolose” di Montante con esponenti di Cosa nostra siano solide al punto da rivelare l’impostura di un’antimafia di facciata oppure se siano il tentativo di travolgere in una furia iconoclasta Montante in quanto simbolo del  ”nuovo corso” di un’imprenditoria siciliana davvero desiderosa di riscattarsi dal giogo mafioso. Lui, il diretto interessato, si è difeso con una nota nella quale sostiene che ”gli attacchi” a Confindustria sono il frutto di una ”campagna di delegittimazione” che punta a distruggere la stagione di rinnovamento avviata in Sicilia a partire dal ”codice etico”. E qualcuno oggi parla di intrigo politico e giudiziario che ruoterebbe attorno alll’Agenzia dei beni confiscati, che gestisce quasi 10.500 immobili, circa 4.000 beni mobili e oltre 1.500 aziende. Di certo ci sono due cose: la prima è che i siciliani di Confindustria negli ultimi anni sono stati accusati più volte di aver costituito una sorta di ”partito dell’antimafia”, protagonista di una vera e propria marcia di occupazione di posti-chiave del potere economico dell’isola e anche aldilà dello Stretto. La seconda è che, aldilà degli esiti al momento impossibili da prevedere, l’inchiesta di Caltanissetta ha disorientato il mondo politico e industriale, spaccando il fronte dell’antimafia tra chi ipotizza manovre occulte per screditare la ”rivoluzione copernicana” di Montante e chi invece ritiene le accuse dei pentiti il primo passo del disvelamento di un’antimafia di cartapesta. Risultato? Negli ultimi due giorni agenzie hanno battuto un diluvio di dichiarazioni pro, contro, e anche in buona parte ”attendiste”, nei confronti del paradosso tutto siciliano di un paladino dell’imprenditoria contro le cosche finito sotto accusa per mafia. Il commento più duro è quello dei deputati siciliani del M5S Giancarlo Cancelleri e Valentina Zafarana, che chiedono un passo indietro di Montante perché ”un simbolo non può essere appannato dai sospetti”: ”Si dimetta, in attesa che la giustizia faccia il suo corso”. Il più morbido è quello di Crocetta, che da Confindustria ha ricevuto un sostegno più che robusto per la sua scalata a Palazzo d’Orleans e oggi restituisce il favore: “Montante lo conosco come persona che ha lottato e lotta contro il racket delle estorsioni e contro la mafia. Aspettiamo serenamente cosa dirà la magistratura, al momento si tratta di indiscrezioni giornalistiche, non e’ detto che sia iscritto nel registro degli indagati. Non sappiamo nulla”. Ora Crocetta sottolinea che “proprio con Montante, Confindustria ha avviato il percorso di discontinuita’ nella lotta alla mafia rispetto a quanto avveniva in passato”. E sulla vicenda che sarebbe oggetto dell’indagine, le nozze di Montante e i suoi testimoni, tra i quali il mafioso Vincenzo Arnone, figlio dello storico padrino Paolino Arnone, boss di Serradifalco, il Governatore  dichiara: “Montante all’epoca aveva 17 anni, cosa doveva capirne di mafia. Allora qualunque siciliano che abbia avuto un vicino di casa o un compagno di scuola mafioso puo’ essere indagato? Basta questo per essere accusati?” Ma il più ”pesante” è quello di Libera, che guida 1500 tra associazioni e gruppi impegnati nel “recupero sociale e produttivo dei beni liberati dalle mafie”. E chiede le dimissioni di Montante dal direttivo dell’Agenzia dei Beni confiscati. All’attacco anche Addiopizzo di Catania: ”Nell’attesa di ulteriori sviluppi -scrive l’associazione in una nota – e certi che Montante potrà difendersi nelle opportune sedi, siamo altrettanto sicuri che l’Agenzia vorrà prendere i più opportuni provvedimenti al fine di assicurare la massima prudenza e trasparenza nella scelta di chi, seppure indirettamente, deve gestire senza ombre, pin nome  e per conto dello Stato e di tutti i cittadini, beni e aziende confiscate alla criminalità organizzata”. E il magistrato Piergiorgio Morosini, componente del Csm, dichiara che ”un’indagine di per sé non significa nulla, specie in una terra difficile come la Sicilia. Ma il ruolo di componente di un’agenzia pubblica come quella dei beni confiscati alla mafia richiede da parte di Montante un’autosospensione dalle funzioni. Sarebbe un’espressione della stessa cautela che richiediamo ai politici coinvolti in vicende di questo tipo”. Beppe Lumia, senatore Pd, ex presidente della Commissione Antimafia, transitato nel 2012 dal Pd alla lista Il Megafono (quella di Crocetta) invita ad osservare tutta la faccenda da questo punto di vista: “Salvatore Dario Di Francesco (uno dei pentiti che accusa Montante, ndr) è un ex colletto bianco, un imprenditore che è stato bombardato da Montante ai tempi della rivoluzione in Confindustria. Da quello che emerge, non c’è nulla che riguardi il presente ma il passato, i primi anni del Duemila quando appunto la Confindustria di Lo Bello e Montante cominciò il bombardamento su Cosa Nostra”. Cioè, insiste Lumia, “sono molto scettico rispetto a questa inchiesta semplicemente perché Montante l’ho visto in azione”. Ma la dichiarazione più attesa è quella di Squinzi, il leader nazionale di Confindustria, che però si limita a manifestare tutto il suo stupore: “Sono sorpreso dalle anticipazioni a mezzo stampa che riguardano Antonello Montante, che ha deciso da tempo di schierarsi nella lotta contro la mafia, rischiando in prima persona”.  Pro Montante, senza equilibrismi, è la Fai, la Federazione delle associazioni antiracket che ieri ha dichiarato: “Esprimiamo la nostra convinta fiducia nel lavoro dei magistrati, ma e’ doveroso richiamare la forza e il valore di una storia personale e collettiva, quella di Antonello Montante e del nuovo gruppo dirigente di Confindustria Sicilia”. La Federazione ricorda come nell’estate del 2007, proprio a Caltanissetta parti’ “una vera e propria rivoluzione copernicana che ha rappresentato un elemento di svolta nella lotta al racket rafforzando l’esperienza di quel movimento che nel 1990 era nato a Capo d’Orlando”. Confindustria Sicilia, dunque, “non puo’ essere etichettata ne’ come antimafia dell’ultimora né come soggetto segnato dalla retorica. Al contrario: dopo quella svolta niente più, sul terreno dei fatti concreti, è stato come prima per gli imprenditori siciliani”. Roberto Helg, presidente della Camera di Commercio, infine, spera in un rapido chiarimento: “Sono vicino al collega Montante e mi auguro che si possa fare chiarezza in brevissimo tempo. Chi si batte per la legalità, come lui, non può attendere a lungo che vengano chiariti i termini di una vicenda come quella che lo riguarda”. Più o meno la stessa posizione del segretario generale della Cgil Sicilia, Michele Pagliaro, che aggiunge: “Non possiamo che augurarci che la magistratura faccia presto a chiarire se in questi anni non tutto è stato limpido nell’antimafia”.

Antonello Montante, battaglie (ignorate), denunce (dimenticate) di ministri e magistrati e parole (calate) dei pentiti, scrive Roberto Galullo su “Il Sole 24 ore”. Il presidente di Confindustria Sicilia e delegato di Confindustria nazionale sui temi della legalità Antonello Montante sarebbe accusato da alcuni pentiti di essere in contatto o vicino a mafiosi o ad ambienti mafiosi, dai quali avrebbe ricevuto favori ricambiati. Ora, specificato che la magistratura (di Caltanissetta e Catania che starebbero indagando) farà il suo corso (sul quale non mi permetto di fare appunti), specificato che non mi permetto neppure di giudicare il lavoro dei giornalisti che hanno scritto della vicenda, specificato che dei pentiti (in generale) mi fido da sempre quanto un piranha negli slip e quando ne ho trattato me ne sono dovuto pentire giurando a me stesso che si fottessero tutti,  ricordato che nessuno come i siciliani e i calabresi è specializzato in “tragediate” (altresì chiamate “carrette”), specificato che non compete a me prendere le difese di Antonello Montante (e infatti non le prendo perché lo fa da solo e/o con i suoi avvocati), sottolineato che fino a che ci sarà democrazia e libertà di opinione, stampa, giudizio, parola e informazione, continuerò a ragionare con il mio cervello senza guardare in faccia a nessuno, vi sottopongo, o cari lettori di questo umile e umido blog, un mero contributo di riflessioni ad una vicenda nelle mani sacrosante della magistratura.

1)   Complimenti vivissimi alle menti raffinatissime che, da alcuni mesi, stanno distillando le fughe di notizie sulla (o sulle) indagini e/o procedimenti penali aperti nei confronti di Montante. Gli ambienti investigativi e giudiziari, pronti, senza scrupoli e contravvenendo ai principi costituzionali e a quelli scritti sulla Carta europea dei diritti dell’Uomo, a indagare i giornalisti per concussione (avete letto bene, con pene che arrivano a 7 anni di reclusione) quando danno liberamente conto di procedimenti o indagini a loro sgradite, sono invece rapidissimi nell’allungare la manina (a chi vogliono) con informazioni a orologeria a qualcuno congeniali. Perché vedete, sia che si tratti di una bufala accusatoria montata ad arte (dai pentiti suddetti che ovviamente rappresenterebbero il braccio e non certo la mente), sia che si tratti di un filone propizio per fare luce su presunti legami impropri tra mafia e antimafia, queste fughe di notizie su indagini definite dai giornali blindatissime (come? Blindatissime? Pensa te se non lo erano…) sono state studiate a tavolino. Sono mesi, infatti, che si assiste ad un “distillato” di voci e sussurri su Montante.

2)   Un risultato immediato, le menti raffinatissime che hanno cantato, l’hanno raggiunto: infliggere un colpo durissimo all’antimafia. Non mi riferisco a quella dei nomi ma a quella dei fatti e dei gesti. Ebbene, mi domando e vi domando: con quale forza e spirito in Sicilia e al Sud (ma non solo) gli imprenditori vessati dalle mafie continueranno a bussare alle porte delle forze dell’ordine e della stessa Confindustria per denunciare i propri maledetti carnefici mafiosi? Credetemi anche in questo caso: proprio questo è il momento più propizio. Denunciate la mafia, perché è “merda”. Non solo quella fatta da picciotti e capibastone ma, soprattutto, quella fatta di intelligenze al servizio del male. Chi denuncia è sempre libero e ora più che mai, sono convinto, Forze dell’Ordine e Confindustrie locali sono pronte ad accogliere e seminare legalità.

3)   Ricordo che Francesco Cossiga chiamava il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, Leoluca Orlando Cascio. Lo stesso Cossiga, che ovviamente era perennemente coperto da immunità parlamentare e/o presidenziale, nel corso di una trasmissione televisiva con Giuliano Ferrara, più di 20 anni or sono, spiegò che nella prima relazione di minoranza della Commissione Antimafia degli anni ’70, firmata dalla vittima della mafia, onorevole Pio La Torre, ammazzato nel 1982, il padre dell’allora onorevole Leoluca Orlando (Cascio), celebre notabile Dc, era definito il collegamento tra la politici ed ambienti salottieri palermitani del dopoguerra dove era facile che bianco e nero si mischiassero. Quando, oltre 20 anni fa, conobbi Leoluca, che non ricorreva mai al doppio cognome (Orlando Cascio), di tutto mi preoccupai tranne che di giudicarlo dalle gesta di suo padre. Ammesso e non concesso che fossero nebulose. Un uomo politico – la stessa cosa, sublimata da poche settimane da un elezione, si può dire per la famiglia Mattarella, di cui un membro è diventato Presidente della Repubblica alla luce del sole e dell’ombra, visti gli attacchi rivolti ai presunti trascorsi paterni – lo giudico dal momento e nel momento in cui fa politica, cioè si prende cura di una collettività amministrata. Il suo passato mi interessa ma solo se serve per dimostrare nel presente e per il futuro, coerenza con i principi e i valori nei quali io personalmente sono stato cresciuto e che insegno ai miei due figli. Se quei valori sono contraddetti (onestà, probità, lealtà, legalità, incorruttibilità, rispetto dei diritti e della legge e via di questo passo) me ne fotto di passato, presente e futuro. Bene. Mutatis mutandis, lo stesso discorso vale per chi si oppone alla mafia tra gli imprenditori che (è il caso di Montante) ricoprono anche fondamentali ruoli associazionistici. Da quando io l’ho conosciuto (otto anni or sono iniziò la battaglia confindustriale per l’etica d’impresa e la rivolta alla mafia prima proprio a Caltanissetta e poi su per li rami in tutta Italia) i comportamenti e il rigore di Montante mi sono apparsi conseguenziali a valori di dura opposizione all’economia criminale e alla mafia sociale, che scorre a fiumi nelle varie stanze dei bottoni di una classe dirigente sempre più corrotta. Inutile ricordare le prese di posizione (tutti dobbiamo ricordare che è proprio la parola il primo nemico della mafia, fondata non a caso sull’omertà) ma gli atti sì: le espulsioni dei mafiosi o dei presunti mafiosi dalle associazioni, i commissariamenti mai osati prima di alcune Confindustrie locali (do you remember Reggio Calabria?), i protocolli d’intesa visti e rivisti per renderli non chiacchiere (di solito lo sono) ma concreti, l’azione di rinnovamento nelle associazioni (comprese quelle camerali, o sono anche quelle frutto di comparaggio?), l’obbligo di white list negli appalti pubblici, le zone franche per attirare investimenti nelle province palermitane e nissene, la legalità al centro dell’azione degli industriali, il rating di legalità per le imprese nei confronti delle banche e degli enti appaltatori, il sostegno a quella magistratura che finalmente ha deciso di usare il lanciafiamme contro le mafie e i sistemi criminali, le costituzioni di Confindustria (proprio a Caltanissetta e poi ovunque) come parte civile nei processi per mafia e la durissima lotta in Sicilia (poi ci torno) contro quei centri di potere massonico deviato/mafioso che erano le aree di sviluppo industriale. Figuriamoci se, quando l’ho saputo, potevo e posso giudicare le azioni di Montante per il fatto che quando aveva 17 anni un suo testimone di nozze, venti anni dopo il matrimonio o giù di lì,  da incensurato passerà ad essere noto alla Giustizia, come suo padre che morirà poi suicida in carcere nel 1992.  Chi è senza peccato, scagli il primo testimone.

4)   C’è chi, in questi giorni, si sta prodigando per srotolare “dietrologie” a giustificazione delle presunte dichiarazioni (da riscontrare o pera della magistratura alla quale ci rimettiamo) dei pentiti (1, 5, 10, 100, boh!) contro Montante. E’ perché è stato nominato dal Governo nella inutile (finora) Agenzia nazionale dei beni confiscati alle mafie! E’ perché il movimento antimafia si è sempre spaccato su tutto in Sicilia e dunque è il risultato di una guerra intestina (ma intestina a chi?)! E’ perché chi troppo vuole nulla stringe e, tranne la carica di sindaco, a Caltanissetta e a Roma ormai lui è più di un papa! E’ perché queste cose entrano in campo mentre si giocava (ma si gioca tuttora) la partita per occupare la poltrona di capo della Procura di Palermo! E’ perché è amico di potenti troppo potenti in tutti i campi: dalla politica alla magistratura! E’ così o cosà, lascio che ciascuno dica la propria (rispetto tutti a maggior ragione, e lo dico in generale, quando non sono d’accordo).  Io aborro la dietrologia e faccio, umilmente, riferimento ad un fatto, che sarà senza dubbio una coincidenza. Se ho ben capito il capataz degli accusatori sarebbe tal Salvatore Dario Di Francesco, che nell’area di sviluppo industriale di Caltanissetta prestava lavoro. Bene. Leggete quel che denunciarono il 5 giugno 2014 anche (e sottolineo anche) in Commissione parlamentare antimafia Montante e Ivanhoe Lo Bello (vicepresidente nazionale di Confindustria) a proposito delle Asi siciliane e non solo: «…ci troviamo, in Sicilia, in una situazione complessa, che riguarda – voglio portarla all’attenzione della Commissione antimafia – il ruolo dei consorzi di sviluppo industriale, che hanno dimostrato nel tempo di essere un luogo di presenza capillare e diffusa di criminalità mafiosa. Oggi la regione ha riportato al centro i consorzi, ma il presidente dei consorzi Asi, oggi Irsap, è oggetto di continue intimidazioni. Peraltro, da tempo ha avuto un aumento della scorta, il secondo livello, ed è costantemente attaccato da tanti soggetti con minacce significative, su cui voglio richiamare l’attenzione della Commissione antimafia. Mi riservo anche di fare arrivare alla Commissione antimafia della documentazione sui temi dei consorzi di sviluppo industriale, tema centralissimo anche nelle dinamiche nel rapporto tra cattiva impresa e sistema mafioso» (Lo Bello). «Abbiamo divulgato una cultura di impresa nuova, sostenendo che forse era il caso di cambiare rotta, considerato che nel 2005 e nel 2007 i presidenti delle Confindustrie siciliane erano stati tutti indagati o arrestati per lo stesso problema, Palermo, Caltanissetta, Enna. Il problema del consorzio Asi si conosceva, ma non era emerso.…Ha parlato il mio collega dei consorzi Asi, che andavano oltre ogni immaginazione. Erano luoghi, come le indagini e le condanne dimostrano, in cui le organizzazioni si riunivano. È un’anomalia tutta nostra, tutta siciliana o del Mezzogiorno d’Italia. Erano cose pazzesche. Ricordiamo che e un imprenditore del nord, che doveva realizzare un opificio industriale, presidente, chiedeva l’autorizzazione al comune d’appartenenza, chiedendo la concessione Pag. 17edilizia per costruirlo. Parlo della Sicilia, ma possiamo anche parlare della Calabria e di altri luoghi. In Sicilia non era così. Bisognava andare prima al comune di appartenenza, chiedere l’autorizzazione alla costruzione dell’opificio, parlare con tutta la commissione edilizia, senza dimenticare nessuno, con l’ingegnere capo, ma non finiva lì. Serviva il nulla osta del consorzio dell’area sviluppo industriale, un ente appaltante in contrapposizione al comune d’appartenenza. All’interno del consorzio Asi c’erano un presidente, un direttore generale, un ingegnere capo e una struttura infinita. Non lo ha citato Lo Bello, che ha fatto grandi cose, ma lascia il ruolo a me e mi fa fare bella figura, quindi racconto io che in una due diligence sempre a due abbiamo verificato che all’interno dei consorzi ASI c’erano insediate anche 30 aziende e il consiglio d’ammissione dello stesso consorzio era di 70 unità. In Sicilia, ad esempio, il numero degli amministratori dei consorzi Asi era un totale di 800 persone, con circa 500 aziende insediate, quindi non è questo il problema. Oggi abbiamo copiato modello nazionale virtuoso. In realtà, lo ha fatto chi ha proposto la legge, in parte anche noi, e oggi un gruppo dirigente non è sostituito da un altro gruppo dirigente: si è sostituito quel modello e 800 persone sono sostituite da 5. Questo si è verificato. Non vi ho detto cosa fossero i consorzi Asi dentro le Asi stesse, queste aree industriali: dei condomìni. Ho aziende da decenni al nord: ci si apre un’azienda in un’area a destinazione industriale e si chiede l’autorizzazione solo al comune. Poi c’è da versare ogni mese una quota per il giardinaggio esterno. Questo è un condominio, non con 30 aziende, bensì con 500 insediate. I consorziati servivano, quindi, a controllare le aziende e poi diventavano i luoghi – parlo di inchieste e di condanne che vediamo ogni giorno – dove si incontravano i capimafia, non di nascosto, niente di segretato, bensì ufficialmente proprio lì nei consorzi. Facevano, quindi, riunioni con la mafia. Non affidavano i terreni a veri imprenditori, ma a quelli a cui serviva il terreno, lo regalavano. Sono attive inchieste anche a Palermo, a Catania, a Caltanissetta, ad Agrigento. Non ne parliamo. Parlo, naturalmente, sempre della Sicilia. L’attuale presidente Cicero è stato oggetto, e la notizia è pubblica, di inquietanti attentati. Gli stessi procuratori hanno sentito l’esigenza di esternarlo in maniera forte ricorrendo all’attività mediatica. Questo signore o questi signori vivano in uno stato di guerra vera. Parliamo di ordigni, di commandi interi, sei persone, fortunatamente tutte fotografate, che arrivano con un mezzo perché volevano caricarlo o ammazzarlo. Fortunatamente, sono stati beccati dalle telecamere e quindi è stato sventato tutto. Non stiamo parlando, quindi, di fantasie, ma di cose serie. Queste sono le cose più grosse, poi ce sono si minori. È saltato un sistema. Oggi le aree industriali danno a chi ha un progetto e anche subito. Oggi non ci sono più le consulenze, i vitalizi, non c’è spartizione politica e questo, naturalmente, ha fatto saltare i nervi. Oggi quell’organizzazione non controlla più le aziende, e quindi non sa a chi chiedere il pizzo e a chi non chiederlo. Questo è saltato. Questo è ciò che fa Confindustria. Ho iniziato a dire che non siamo un’associazione antiracket, ma che dobbiamo dire al nostro associato che non gli conviene un certo comportamento. Se si è in un sistema malato, prima o poi si finisce come in quella due diligence mia e di Lo Bello, per cui dopo venti o trent’anni si crolla o lo Stato arriva e sequestra l’azienda o la sequestra la mafia o ti ammazzano comunque per strada. Penso che in parte ci siamo riusciti. Il problema è culturale, presidente, non di azioni o di legge, ma è un problema per cui bisogna comunque un po’ ancora forse aspettare» (Montante).

5)   Il 24 gennaio 2015 il presidente della Corte di appello di Caltanissetta, Salvatore Cardinale, in apertura di anno giudiziario dirà: «ci sono ancora boss che impartiscono ordini dal carcere e che continuano a mantenere e ad esercitare il loro antico potere. Il periodo preso in esame, è stato caratterizzato da intimidazioni, minacce, insinuazioni e delegittimazioni varie rivolte a magistrati, funzionari pubblici e rappresentanti di organizzazioni private, specie quelli più esposti sul campo dell’antimafia e della lotta all’illegalità. Si tratta di segnali che sembrano manifestare un parziale cambiamento della strategia fin qui perseguita del cosiddetto “inabissamento” a favore della scelta di una maggiore visibilità anche mediatica dell’insofferenza sempre più crescente verso l’azione di contrasto che tuttora è condotta dallo Stato e che trova l’adesione in alcuni protagonisti di un’imprenditoria libera e illuminata. In tal senso, da parte degli investigatori, sono stati interpretati gli attacchi contro i nuovi vertici confindustriali siciliani e nisseni, spesso aggrediti attraverso il metodo subdolo della diffamazione e del discredito mediatico, e l’accentuata campagna di delegittimazione condotta a tutto campo contro vari protagonisti dell’antimafia operativa, mirati a riprodurre una strategia della tensione che potrebbe tradursi in azioni eclatanti. Su tale linea strategica sembrano porsi i due “avvertimenti”, uno dei quali consumato a Caltanissetta, posti in essere contro il Presidente dell’Irsap». La domanda sorge spontanea: è impazzito il procuratore generale che parla di «imprenditoria libera e illuminata…di intimidazioni, minacce, insinuazioni, delegittimazioni, metodi subdoli e discrediti mediatici» in corso nei confronti anche dei vertici confindustriali nisseni e siciliani oppure i pentiti? Non dico tanto ma se avessi ricevuto io la soffiata sulle presunte indagini su Montante (a quando Lo Bello?) questa domanda me la sarei fatta e quantomeno avrei tenuto acceso il falò del dubbio.

6) Già perché, guardate voi come è corta la memoria,  il 21 ottobre 2013, a Caltanissetta, ci fu una riunione straordinaria del Comitato nazionale per l’ordine pubblico per fronteggiare il rischio di nuovi attentati di cui nessuno, i questi giorni, si è ricordato. Senz’altro le menti raffinatissime hanno sperato nell’oblio. Mai come in quei mesi, le speranze di cambiamento, descritte sui media di tutto il mondo dopo la decisione – di Confindustria Sicilia prima e Confindustria nazionale poi – di mettere all’angolo gli imprenditori che non denunciavano pizzo e mafie, apparivano lontane, sotto assedio e a rischio. «A Caltanissetta è scesa in campo la squadra-Stato al massimo livello, dal Procuratore nazionale antimafia ai vertici delle Forze dell’ordine, dai prefetti alle Dda, al Governo», disse il ministro dell’Interno Angelino Alfano, rispondendo a chi gli chiedeva se ci fosse il rischio che Cosa nostra alzi il tiro. «Non possiamo escludere – ha detto – che questo sia l’intendimento della mafia». Poi il ministro ribadì sostegno e vicinanza agli imprenditori, «a cominciare da Montante e Lo Bello che si sono ribellati al racket».

7)   Ma attenzione ora ad un’altra data: il 17 settembre 2013, il Comune di Chianciano Terme (Siena) mise sul proprio sito istituzionale foto e cronaca di un convegno sulle stragi di mafia del ’92 che si era tenuto due giorni prima nella sala Fellini delle Terme e passato sotto drammatico silenzio a livello nazionale. Anch’esso passato nel dimenticatoio della stampa e dalla speranza di oblio delle menti raffinatissime. «È in corso una campagna di delegittimazione da parte di centri di poteri occulti – dichiarò in quell’occasione il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari – che mirano a screditare chi in Sicilia combatte con i fatti malaffare e mafia. Ci sono centri di potere, collegati sicuramente con le organizzazioni mafiose, che utilizzando nuovi mezzi di comunicazione come blog, social network o fantomatici giornali online e gettano sospetti e fango su chi l’antimafia la fa davvero, ovvero con i fatti. Hanno avviato una campagna di delegittimazione, oltre a proseguire con gli avvertimenti. Continuano ad arrivare buste con proiettili, croci ed altri messaggi inquietanti».

8)   Dunque eravamo a settembre 2013 e Lari, vale a dire il capo della Procura che ora con quella di Catania starebbe indagando su Montante, un anno e mezzo fa parlava di centri di potere che ordiscono campagne di delegittimazione e discriminazione utilizzando ogni mezzo possibile e immaginabile. Certo, non c’erano nomi e cognomi ma Lari, un mese dopo quelle frasi, a ottobre, sarà alla riunione del Comitato per l’ordine pubblico e la sicurezza, con un ministro dell’Interno che invece fece i nomi di coloro che si erano ribellati al racket, a partire (i nomi li ha fatti Alfano, non io o voi) da Lo Bello e Montante. E poche settimane fa, un procuratore generale, Cardinale, metterà in fila gli avvenimenti senza peli sulla lingua. Due più due fa ancora quattro? Di questo incontro a Chianciano Terme, a parte le cronache locali toscane e siciliane, la grande stampa si disinteressò, perché un annuncio di morte non è una notizia. Quelle che sgorgano dalle menti raffinatissime – che, ripeto, siano fondate o meno –  si. Le mafie hanno memoria lunga e non basta una vita per cancellarla. Tifo, come sempre, per la Giustizia e spero, nel nome dell’Italia onesta nella quale senza se e senza ma mi riconosco, di sapere prestissimo la verità. I miei principi non cambieranno. Ne usciranno rafforzati.

IL BUSINESS DEI BENI SEQUESTRATI E CONFISCATI.

La mafia dell’antimafia. Il business dei beni sequestrati e confiscati. Come si vampirizzano le aziende sane. «L’antimafia è un’entità composita con finalità politiche e speculative. Se la mafia è quella che ci propinano, allora la mafia non esiste. La mafia siamo noi tutti: i politici che mentono o colludono, le istituzioni che abusano, i media che tacciono, i cittadini che emulano. Se questo siamo noi, quindi mai nulla cambierà.»

Il 3 febbraio 2015, nel suo primo discorso di insediamento da Capo dello Stato, Sergio Mattarella ha parlato di lotta alla criminalità organizzata e di corruzione.  "La lotta alla mafia e quella alla corruzione sono priorità assolute", ha detto nel suo discorso di insediamento. "La corruzione - ha aggiunto - ha raggiunto un livello inaccettabile, divora risorse che potrebbero essere destinate ai cittadini, impedisce la corretta espressione delle regole del mercato, favorisce le consorterie e danneggia i meritevoli e i capaci". Il capo dello stato ha citato le "parole severe" di Papa Francesco contro i corrotti, "uomini di buone maniere ma di cattive abitudini". Ed ha sottolineato quanto sia "allarmante la diffusione delle mafie in regioni storicamente immuni. La mafia è un cancro pervasivo, distrugge speranze, calpesta diritti". A giudizio del presidente Mattarella occorre "incoraggiare l'azione della magistratura e delle forze dell'ordine, che spesso a rischio della vita si battono per contrastare la criminalità organizzata. Nella lotta alle mafie - ha ricordato cedendo per un attimo alla commozione - abbiamo avuto molti eroi, penso a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per sconfiggere la mafia occorre una moltitudine di persone oneste competenti tenaci e una dirigenza politica e amministrativa capace di compiere il proprio dovere verso la comunità". Ad ascoltare Mattarella a Montecitorio c'erano il presidente della Regione Rosario Crocetta e il sindaco Leoluca Orlando, che proprio di Falcone era acerrimo nemico.

Molti altri lo hanno ascoltato a Montecitorio: persone oneste e meno oneste. Tra le persone oneste folta schiera è nel centro sinistra: quasi tutti o tutti. Fiancheggiatori della giustizia e della legalità o vittime o parenti di vittime della mafia. Se non lo sono, vale lo stesso. Nel centro destra, poi, son tutti mafiosi (a prescindere). Certo è questo quel che si vuol far intendere. Ma a destra non se ne curano. Basta loro adoperarsi per gli interessi del loro capo. I magistrati, poi, sono gli innominati di manzoniana memoria. Loro sì onesti per davvero, perchè la gente comune non lo sa, ma i magistrati non hanno nulla da spartire con i comuni mortali, perchè loro, i magistrati, vengon da Marte.

Dopo l'elezione di Sergio Mattarella a Capo dello Stato, su Facebook la politica si scatena nei commenti, scrive “Libero Quotidiano” ed “Il Giornale”. Qualcuno non condivide l'elezione come fa Matteo Salvini, ma qualcun altro tra i grillini (che hanno votato Imposimato), ha attaccato il neo-presidente in modo duro. A farlo è Riccardo Nuti che afferma: "Lodare Mattarella come antimafia perché il fratello fu ucciso dalla mafia è falso e ipocrita perché allora bisognerebbe dire anche che il padre era vicino alla mafia". Lo scrive su Facebook il deputato M5s, che aggiunge: "Ma se è vero che gli errori dei genitori non possono ricadere sui figli, allora non possono essere utilizzate altre vicende dei parenti in base alla propria convenienza. L'uccisione di un parente da parte della mafia (i motivi possono essere tanti e diversi fra loro) non da nessun bollino di garanzia di lotta alla mafia". Un commento che di certo farà discutere. 

L’antimafia è un’entità composita con finalità politiche e speculative. Se la mafia è quella che ci propinano, allora la mafia non esiste. La mafia siamo noi tutti: i politici che mentono o colludono, le istituzioni che abusano, i media che tacciono, i cittadini che emulano. Se questo siamo noi, quindi mai nulla cambierà.» Non lo dice Don Ciotti, presidente nazionale di “Libera”, anche perché non oserebbe mai, ci vorrebbe pure. Lo afferma categoricamente il dr Antonio Giangrande, noto scrittore e sociologo storico e fine conoscitore del fenomeno della Mafia, della Massoneria e delle Lobbies e della Caste, oltreché presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”. Ed è tutto dire. Io sono il presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Sodalizio antiracket ed antiusura riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione iscritta presso la Prefettura di Taranto. Per le problematiche sociali affrontate, siamo l’associazione madre di tutte le associazioni tematiche e territoriali, così come riporta il nostro sito web. Se qualcuno ha un problema me lo segnala. Non ho il potere di risolverlo, (nessuno può) ma di elevarlo agli onori della cronaca, sì. Io sono il Don Ciotti della mia associazione, per intenderci. Però abbiamo un difetto. Io ho un difetto: non sono comunista e non santifico i magistrati. Per questo i media ci ignorano. Ma non i cittadini. Prova a mettere su google il mio nome e vedrai quanti parlano di me. Ho pochi amici su Facebook e sul gruppo associazione contro tutte le mafie, perché dopo un po’ di tempo cancello gli amici o gli iscritti, quando verifico che hanno sbagliato amico o gruppo. Noi siamo diversi e ce ne vantiamo. Ogniqualvolta mi hanno interpellato, le vittime hanno preteso la soluzione. Mai una volta che abbiano offerto il loro appoggio, il loro sostegno. Non ho potere, ne sono sostenuto da alcuno e pure i coglioni mi dicono: che ci stò a fare. A prendere le ritorsioni dei magistrati che tentano in ogni modo di tacitarmi. Ogni volta che qualcuno si è confrontato con me per forza di cose voleva alzare la sua bandiera ed il suo nome, per un interesse personale. Gli onori a lui, le rogne a me. Le lotte si portano avanti insieme e non per la propria guerra. E’ un tallone di Achille parlare di sé. Si sarà sempre additati di mitomania o pazzia o di interesse personale. Pensi che qualcuno abbia pensato a me per competenza, capacità, esperienza e coraggio per portare avanti in Parlamento le aspettative del popolo. No. Pur incapaci son tutti pronti ad ante mettersi. Io parlare di voi o di altri e come se parlassi per me. Ma parlo di voi e ne sono contento. Perché è come se fossi uno di voi. Quest’ultima inchiesta è pubblicata su 500 siti web di portali di informazione a me collegati in tutta Italia. Pensi che ciò non basti a dare spazio alla tua storia, che non è la tua: è di mille come te? Pensi che lo abbia fatto per un interesse personale e che abbia chiesto a qualcuno un compenso? Quindi non serve avere una associazione in più, ma basta avere la consapevolezza di avere una guida o di avere uno strumento che porti ad un risultato. E mi dispiace dirlo, sarà solo quello di aver fatto conoscere la propria storia e non sarà quello di avere giustizia in questa Italia e con questi italiani. Segui me, vediamo fin dove arriviamo, perché il mio cammino è iniziato 20 anni fa. Io son Antonio Giangrande e basta questo basta. Pensa a Berlusconi: se è successo a lui, e non è stato capace di difendersi, figuriamoci ai poveri cristi. C'è qualcosa da fare: far conoscere la verità a tutti ed in tutti i modi. Solo quello ci rimane da fare. I miei siti web. I miei canali youtube. La mia tv web. I miei libri. Sono tutti strumenti di divulgazione che fanno male al sistema e ciò serve a cambiarlo. Come azione politica noi combattiamo, oltre che per cambiare il sistema, anche per una proposta concreta: il difensore civico giudiziario a tutela del cittadino che abbia i poteri del magistrato ma che non sia uno di essi: corporativo ed amicale. Questo sì che cambierebbe le cose in fatto di garanzia per le vittime di giustizia.

L’antimafia non combatte i mafiosi. Il suo intento è osannare i magistrati (i Pubblici Ministeri in particolare) per asservirli ai loro fini. Ossia: eliminare i rivali politici (avete mai visto qualcuno di sinistra condannato per mafia o per il reato inventato dai magistrati quale l’associazione o la partecipazione esterna alla mafia?) e sfruttare economicamente i beni sequestrati ed espropriati, spesso ingiustamente.

L’Antimafia: o si è con loro, o si è contro di loro. Ti chiami Giangrande o Sciascia uguale è. E’ inutile rivolgersi ai parlamentari per ottenere giustizia. Molti sono genuflessi alla magistratura, qualcuno è colluso, tanti sono ricattati o sono ignavi. La poltrona vale qualsiasi lotta di civiltà. Per questo nessuno di loro merita il voto degli italiani veri.

Ecco allora che nasce impettito il fenomeno mediatico dell’invasione virulenta della mafia in tutta Italia. L’Italia all’estero è una nazione ormai infetta. Non è più la Sicilia martoriata da Cosa Nostra o dalla Stidda, con vittime illustri uccise dai boss (dello Stato), o non è più la Calabria martirizzata dalla ‘Ndrangheta, o non è più la Campania tormentata dalla Camorra. Oggi l’Italia per i magistrati è tutta una mafia. E gli intellettuali di sinistra ci marciano. Ed all’estero ringraziano per il degrado del Made in Italy. Fa niente se prima l'illegalità diffusa si chiamava tangentopoli e guarda caso i comunisti non son stati colpiti. Oggi nel fenomeno criminogeno (sempre di destra, sia mai) ci sono di mezzo siciliani, napoletani e calabresi: allora è mafia!

L’antimafia per creare consenso e proselitismo monta campagne stampa di sensibilizzazione che incitano le vittime a denunciare. “DENUNCIA IL RACKET. TI CONVIENE.” A questo punto sembra più una minaccia che un invito.

Le vittime, diventate testimoni di giustizia, successivamente sono abbandonate al loro destino, che porta questi a pentirsi ed a  rinnegare quanto fin lì fatto. Esemplari sono le testimonianze da tutta Italia tra i tanti di: FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.

A cosa porta per davvero l'interesse dell'Antimafia se non tutelare le vittime dell'estorsione e dell'usura, così come propinata?

Il fenomeno taciuto è la gestione dei beni sequestrati, prima, e confiscati, poi. Per capire bene il fenomeno di cui si crede di essere unica vittima bisogna andare al di là di quello che si conosce.

I beni di sospetta leicità sono sequestrati con un provvedimento giudiziario come misura di prevenzione ed eventualmente confiscati con successiva pena accessoria in sentenza, che spesso non arriva. Questi beni sotto sequestro vengono affidati a un amministratore giudiziario scelto dal giudice del caso, che dovrebbe gestirlo mantenendolo in attività e tenerlo agli stessi livelli che precedevano il sequestro. Ma no è così.

I beni sotto tutela sono appetibili da tutti coloro che agiscono all’interno del sistema. Apparato non accessibile a tutti.

Firma l'appello: "Niente regali alle mafie, i beni confiscati sono cosa nostra", si legge sul sito web di "Libera". "Cosa nostra"? Mi sembra di aver già sentito da altri lidi questa affermazione. "Cosa vostra"? Con quale diritto?

"Attorno ai beni confiscati e all’assegnazione di essi si può sviluppare l’unica vera opportunità per coinvolgere attivamente la società civile nella lotta alle mafie, portandola al suo esito più elevato: quello di estirpare culturalmente il fenomeno mafioso sul territorio a cominciare dal riuso di beni confiscati che devono essere effettivamente restituiti alla collettività", si legge su vari siti web di associazioni e comitati fiancheggiatori di "Libera" e della CGIL.

Una espropriazione proletaria nel nome dell’antimafia? Una buona trovata.

Rock e sociale incrociano le loro strade in Il silenzio è dolo. Il brano è di Marco Ligabue e si intitola "Il silenzio è dolo". Marco Ligabue l'ha scritta quando ha scoperto la storia del contestato sorteggio con cui sono stati "selezionati" gli scrutatori per le recenti elezioni europee nei seggi di Villabate, in Sicilia. L'iniziativa è stata presentata a Montecitorio e ha riscosso l'appoggio del presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati Nino Di Matteo, convinto che "la mafia ha sempre prosperato nel silenzio, i mafiosi vogliono che di mafia non si parli". Della selezione e dell'operato degli scrutatori e dei presidenti di seggio, uguale in tutta Italia, sorvoliamo, anche perché è cosa di sinistra, ma attenzioniamo un fatto. I Parlamentari e l'associazione Nazionale Magistrati non hanno posto uguale attenzione all'appello di Pino Maniaci. Ed i media neppure.

«Mafia dell’Antimafia: l'inchiesta di Telejato audita in Parlamento - scrive Pino Maniaci - C’è ancora un business di cui non si parla, un business di milioni di euro. Il business dell’Antimafia. Quattro mesi dopo il brutale assassinio di Pio La Torre, nel 1982, viene approvata la legge Rognoni-La Torre, che consentiva il sequestro e la confisca di quei beni macchiati di sangue. Finalmente, lo Stato aveva le armi per attaccare gli ingenti patrimoni mafiosi. Nel ’96 grazie a Libera nasce la legge 109 che disponeva l’uso sociale dei beni confiscati alla mafia, e finalmente terreni, case, immobili tornano alla comunità. Tutto bellissimo. Nella teoria. Qualcosa però non funziona. Questi beni, sequestrati, confiscati, falliscono l'uno dopo l’altro. Il 90% di imprese, aziende, immobili, finisce in malora spesso prima ancora di arrivare a confisca. A non essere rispettata e ad aver bisogno di una riforma strutturale è la Legislazione Antimafia - Vittime della mafia e relativo Decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159. Parliamo di aziende e imprese sequestrate perché di dubbia legalità: aziende che forse furono acquistate con proventi mafiosi, o che svolgono attività illecito-mafiose, e che per chiarire questo dubbio vengono poste sotto sequestro ed affidate alla sezione delle misure di prevenzione del Tribunale competente. In questo caso, parliamo del Tribunale di Palermo, che amministra la grande maggioranza dei beni in Sicilia. I beni confiscati sono circa 12.000 in Italia; di questi più di 5000 sono in Sicilia, circa il 40%. La maggior parte nella provincia di Palermo. Si parla di un business di circa 30 miliardi di euro, solo qui a Palermo. Questi beni sotto sequestro vengono affidati a un amministratore giudiziario scelto dal giudice del caso, che dovrebbe gestirlo mantenendolo in attività e tenerlo agli stessi livelli che precedevano il sequestro. Questa fase di sequestro secondo la legge modificata nel 2011 non deve superare i 6 mesi, rinnovabile al massimo di altri 6, periodo in cui vengono svolte le dovute indagini e si decide il destino del bene stesso: se dichiarato legato ad attività mafiose esso viene confiscato e destinato al riutilizzo sociale; se il bene è pulito viene restituito al precedente proprietario. Purtroppo la legge non viene applicata: il bene non viene mantenuto nello stato in cui viene consegnato alle autorità, né vengono rispettate le tempistiche. In media il bene resta sotto sequestro per 5-6 anni, ma ci sono casi in cui il tempo si prolunga fino ad arrivare a 16 anni. L’albo degli amministratori competenti che è stato costituito nel gennaio 2014 per legge dovrebbe essere la fonte da cui vengono scelti questi soggetti: in base alle competenze e alle capacità. Ma la scelta è arbitraria, effettuata dai giudici della sezione delle misure di prevenzione. Ritroviamo molto spesso la solita trentina di nomi, che amministrano decine di aziende e imprese. E non per capacità, perché la maggior parte di quei beni falliscono durante la fase di sequestro. Anche se poi vengono dichiarati esterni alla vicenda e gli imputati assolti da tutte le accuse. Telejato, la piccola emittente televisiva comunitaria siciliana che gestisco dal 1999 e che da allora non ha mai smesso di denunciare e lottare contro la mafia, ha sede a Partinico e copre un bacino d’utenza caratterizzato storicamente da una forte presenza mafiosa. La dichiarazione di fallimento e la messa in liquidazione dei beni confiscati è la strada più facile per gli amministratori, perché li esonera dall’obbligo della rendicontazione e consente loro di “svendere” mezzi, attrezzature, materiali, anche con fatturazioni non conformi al valore reale dei beni, girando spesso gli stessi beni ad aziende collaterali legate agli amministratori giudiziari. La pratica di vendere parti delle aziende stesse mentre sono ancora sotto sequestro, è abbastanza consolidata, e ci si ritrova con aziende svuotate e distrutte ancor prima del giudizio definitivo, che sia di confisca o di dissequestro. Questi sono solo alcuni esempi, alcune storture del sistema; ma molti sono i casi che riflettono un problema strutturale: una legge limitata, da aggiornare, che non permette gli adeguati controlli e conduce troppo spesso al fallimento dei beni per le - forse volute - incapacità del sistema. Posso fare nomi, esempi, citare numeri e casi. Chiedo alla Commissione Antimafia di essere audito per esporre questa inchiesta che stiamo portando avanti a Telejato, con notevole fatica, perchè non abbiamo nessuno al nostro fianco».

Il business dell'Antimafia. Conoscete Cavallari, il re mida della sanità? A bari si son fottuto tutto di questo signore. Tutte le sue cliniche private. Per i magistrati era mafioso perchè era associato con sè stesso. E poi come si dice, alla mano alla mano…Ossia conoscere altre storie similari ma non riuscire a cambiare le cose?!? Perché ognuno pensa per sé. Una voce è una voce; tante voci sono un boato che scuote. Peccato che ognuno pensa per sé e non c’è boato. Basterebbe unirsi e fare forza.

Si prosegue con Matteo Viviani, che raccoglie la testimonianza  di una famiglia siciliana di imprenditori: Mafia, antimafia e aziende che affondano. I Cavallotti hanno subito estorsioni dal braccio destro di Provenzano, irruzioni armate in casa, finendo poi in galera per aver pagato il pizzo. Erano glia anni di Cosa Nostra, spiegano, e tutti pagavano il pizzo. Nonostante dopo anni di processo sia stato appurato che i Cavallotti non siano mafiosi, continuano a non poter gestire la loro azienda. L'amministratore che se ne sarebbe dovuto occupare infatti, ha effettuato operazioni di vendita poco chiare di cui, alla fine, ha beneficiato economicamente. Viviani lo raggiunge, ma lui non dà risposte. Il 29 gennaio 2015 è andato in onda Italia Uno, nel corso della trasmissione “Le Iene” un lungo e documentato servizio sui fratelli Cavallotti, su come chi dovrebbe rappresentare lo Stato abbia distrutto un’azienda florida che dava lavoro a circa 200 dipendenti e su come questa vicenda, che ormai si protrae da 16 anni, malgrado le assoluzioni del tribunale e la riconosciuta estraneità dei fratelli Cavallotti a qualsiasi  forma di collusione mafiosa, per decisione dell’ineffabile magistrato che dirige l’Ufficio Misure di Prevenzione di Palermo, ancora continua, scrive Salvo Vitale. I dati e i contatti con l’azienda sono stati forniti in gran parte da Telejato. Vista la complessità dell’inchiesta che l’emittente conduce da tempo, lo staff delle Iene ha deciso, per il momento di affrontare solo un’impresa, quella dei Cavallotti, ma riservandosi di portare all’attenzione  le altre malversazioni che, su questo campo, sono consumate in nome e con l’avallo dello Stato.  Davvero meschina e al di là di ogni umano senso di dignità la figura dell’ ex amministratore giudiziario, che non ha saputo dare spiegazioni delle sue malversazioni e delle false fatturazioni girate a un’azienda del fratello. In pratica abbiamo assistito in diretta alle prove dimostrate di come si commette un reato, con l’avallo dei magistrati delle misure di prevenzione e come, chi dovrebbe rappresentare lo Stato e tenere in piedi le aziende che gli sono state affidate, fa di tutto per distruggerle ai fini di un  utile personale. Le riprese di un’azienda con i mezzi di lavoro arrugginiti, abbandonati, con i capannoni spogli, non possono che generare tristezza. Come succede in Italia, non succede niente, anzi, se succede qualcosa, succede per danneggiare chi chiede giustizia. Come nel caso dell’ultimo recentissimo  sequestro operato ai figli dei Cavallotti, che cercavano di raccogliere i cocci dell’azienda. Questo è quello che la redazione di Telejato  vorrebbe andare a dire alla Commissione Antimafia, se questa si decidesse di tenere conto della richiesta di ascoltarla, già sottoscritta da 40 mila cittadini.

Ma per la Commissione Antimafia la mafia è tutt’altra cosa…

La differenza tutta politica tra il 1992 e adesso sta nei numeri che ho dato prima. Il sistema politico è esangue. E neppure il grillismo è riuscito a trasfondervi qualcosa. Il sistema politico è stretto nella tenaglia tra il renzismo (che, va ricordato, non ha mai avuto alcun suffragio elettorale) e l’astensionismo ormai dilagante. Paragonate l’affluenza in Emilia Romagna nel 1992 (per la Camera, Circoscrizione Bologna-Ferrara-Ravenna-Forlì: 94,44 per cento; Circoscrizione Parma-Modena-Piacenza-Reggio Emilia: 92, 99 per cento) con il misero 37,7 per cento delle regionali del 2014, e si capisce di cosa stia parlando. Gli italiani, soliti ignavi, non lo dicono, ma dimostrano il loro odio e disprezzo, o comunque il loro distacco dalla politica contemporanea che viene da lontano con l’astensionismo od altre forme di protesta. La politica interessa solo a 3 italiani su 10 e magari. Secondo Renato Mannheimer su “Il Corriere della Sera” la politica interessa solo a 3 italiani su 10 e magari, dico io, proprio perché interessati dai favori richiesti e ricevuti. I risultati delle ultime amministrative hanno dato una scossa violenta alla vita dei partiti. L'elevato tasso di astensione, il gran numero di schede bianche e nulle (di cui troppo poco si è parlato) e il successo di un movimento antipartitico come la lista 5 stelle hanno mostrato tutta la debolezza delle forze politiche tradizionali nell'opinione pubblica italiana. D'altra parte, questo scarso appeal dei partiti era già stato indicato dalle ricerche che mostravano il decrescere progressivo del grado di fiducia nei loro confronti. La sfiducia verso i partiti si inquadra in un più generale trend di disaffezione da tutte le principali istituzioni politiche, anch'esso accentuatasi negli ultimi anni. L'indice sintetico di fiducia per le istituzioni politiche elaborato da Ispo (che misura, attraverso un algoritmo statistico, il consenso verso diverse istituzioni, dall'Ue al Parlamento, al Governo, fino al presidente della Repubblica) mostra al riguardo un calo drastico al valore del 25,5 di oggi. Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere. Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……

Ma non solo la politica paga fio. Non si fidano della magistratura 2 italiani su 3, scrive Errico Novi su "Il Garantista". E’ un crollo. Il tasso di fiducia nei magistrati passa dal 41,4% di un anno fa ad appena il 28,8%. Lo dice il Rapporto 2015 dell’Eurispes, presentato ieri a Roma dal presidente dell’istituto Gian Maria Fara. Che definisce il dato su giudici e pm «preoccupante e inatteso». Di fatto quello della magistratura è il potere che perde maggiori consensi: più del 30% di quelli che già aveva. Il governo è messo male, il dato della fiducia è al 18,9%, eppure è in lieve crescita rispetto a un anno fa. Il che autorizza a credere che nella lite tra le toghe e l’esecutivo sul taglio delle ferie, i cittadini parteggino decisamente per quest’ultimo. I dati rischiano di galvanizzare Renzi. Soprattutto nella sua guerra a distanza con i magistrati. Secondo il Rapporto Italia 2015 dell’Eurispes la fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni tende al ribasso. Ma se si va nel dettaglio, le cose si mettono davvero malissimo per la magistratura, che ha un tasso di consenso ridotto ormai al 28,8% e diminuito nel giro di un anno di ben 12,6 punti percentuali (nel 2014 era dunque al 41,4%, tutta un’altra cosa). Il governo come istituzione nel suo complesso ha un punteggio da incubo, sta al 18,9%. Ma seppur di qualche decimale, e in un clima di generale scoramento, è in salita. Non che ci sia da festeggiare visti i numeri, ma insomma il presidente del Consiglio potrebbe dedurne che gli italiani parteggiano più per lui che per le toghe, nella contesa sul taglio delle ferie. Interpretazioni a parte, le statistiche presentate ieri alla Biblioteca Nazionale di Roma da Gian Maria Fara, che dell’Eurispes è presidente, fanno impressione. Il giudizio degli italiani nei confronti delle istituzioni resta complessivamente negativo, il 69,4% dice di riporvi minore fiducia che in passato. E questo in un quadro complessivo di certezze sempre più scarse, di valutazioni molto critiche nei confronti dell’Unione europea e della moneta unica e in un generale clima di oppressione percepita nei confronti di fisco e burocrazia. Nulla di sorprendente, però. Tranne il dato sui magistrati. Che tracollano in modo davvero verticale – di fatto perdono oltre il 30% dei consensi che avevano – nonostante il grande impatto mediatico di inchieste come quella su Mafia Capitale. E’ la pietra tombale sul ricordo stesso della stagione di Mani pulite. Un cambio di paradigma che tra l’altro è stato ampiamente rappresentato pochi giorni fa all’inaugurazione dell’anno giudiziario dal primo presidente della Cassazione, Giorgio Santacroce, proprio con il riferimento alla golden age di Tangentopoli. Nella sua esposizione pubblica Fara non si dilunga granché sul dato. Si limita a definirlo «preoccupante e inatteso». E a proporlo anche in versione capovolta: «La quota di cittadini che non ripongono fiducia nella magistratura è passata dal 54,8% del Rapporto 2014 al 68,6% dell’ultimo rilevamento». Il clima del Paese non è certo colorato di rosa, dice lo studio presentato. Gli aspetti patologici da rimuovere in fretta sarebbero la pervasività della burocrazia e le tasse asfissianti. Soprattutto il primo elemento potrebbe indurre il sospetto che il crollo della magistratura nell’indice di gradimento degli italiani sia parte di una più generale ripulsa nei confronti di tutto ciò che è apparato e potere pubblico. E invece non è così. Niente da fare, le toghe non possono aggrapparsi neppure a questo. Perché nonostante l’analisi del presidente Fara parta da quello che lui chiama il «Grande Fardello» degli adempimenti infiniti e del fisco, la fiducia nei confronti della pubblica amministrazione non è in calo, anzi: è in clamorosa ascesa, fa registrare un +18,1% e si risolleva così da un dato precedente molto basso, fino a raggiungere il 39,1%. Meglio i travet e gli impiegati, meglio i ministeriali di giudici e pm. Chi l’avrebbe mai detto. Persino i partiti si riprendono un po’ (arrivano al 15.1% con un significativo +8,6% rispetto a un an anno fa), addirittura i vituperatissimi sindacati hanno consensi più che doppi rispetto alle forze politiche (tasso di fiducia al 33,9%, con un +14,7). La magistratura niente, è così penalizzata dalla ricerca dell’Eurispes da far pensare a un rancore profondo, diffuso, quasi a una voglia di fargliela pagare. Figurarsi se davvero insisteranno con il piagnisteo per quei 15 giorni su 45 di vacanza in meno.

Tutto il potere alle toghe. Dai la parola all’imputato? Favoreggiamento, scrive Guido Scarpino su "Il Garantista". Da 17 anni scrivo sui giornali e denuncio la mafia. Mi hanno anche bruciato la macchina e minacciato. Mi è capitato poi di dare diritto di replica agli imputati. Per esempio a un certo Serpa. Perché lo ho fatto? Perchè vivo – o così credo – in uno stato di diritto. Non è che se uno è accusato di un reato mafioso perde il dirtto a difendersi, no?. E invece un Pm, durante la requisitoria, se l’è presa con quei giornalisti che danno la parola ai boss e di conseguenza «favoreggiano la mafia…» Il diritto di replica può essere concesso anche ad un boss di ‘ndrangheta in semilibertà o ad un presunto “capoclan” a piede libero? E’ una domanda, a mio avviso superflua - soprattutto se posta dal cronista di un giornale che si chiama il Garantista – che pongo a me stesso dopo aver udito la requisitoria di un pubblico ministero antimafia, svoltasi a Paola, in provincia di Cosenza, che, bontà sua, ha distribuito bacchettate a destra e a manca: ai politici, ai parlamentari e finanche – mi chiedo cosa ci sia dietro – al “solito articolista”, che avrebbe condotto una “attività di favoreggiamento” per aver offerto il diritto di replica. In un clima di omertà e condizionamento denunciato dal pm, mi sarei atteso, dallo stesso pm, quanto meno nomi e cognomi. Tuttavia, ciò non è accaduto, ed il quesito di cui sopra lo pongo a me stesso, anche perché il sottoscritto, in diciassette anni di professione in cui ha documentato quasi quotidianamente le attività delittuose delle cosche tirreniche, nonostante le auto bruciate (la sua auto) e le tante minacce mafiose subite (“spedizioni punitive” sotto casa e proiettili inclusi), ha avuto il buon senso di far parlare, in replica, il boss della cosca Serpa, a quel tempo in semilibertà. Mario Serpa ha infatti contattato, anni addietro, il cronista perché voleva replicare a chi, come il sottoscritto, lo accusava d’aver mandato alcuni parenti – che incutevano terrore facendo il suo nome – a taglieggiare gli esercenti commerciali; anticipava telefonicamente, al giornalista, l’invio di una lettera a sua firma, concordata con l’avvocato Gino Perrotta, che il giornale pubblicò sulle pagine regionali a corredo di un altro pezzo, a dir poco “cattivo”, sempre a firma del sottoscritto, in cui si riportava il curriculum criminale dello stesso boss di Paola. Quella missiva (che non è stata sequestrata, come erroneamente riferito) è stata consegnata, dal sottoscritto, ai carabinieri, dopo essere stata pubblicata. In diciassette anni di attività, dunque, ho fatto parlare Mario Serpa e non credo d’aver “favorito” nessuno. Era un suo diritto parlare, in uno Stato di diritto e dopo centinaia di batoste a mezzo stampa. Peraltro era stato promesso dal detenuto in semilibertà, sempre al sottoscritto, l’invio di un corposo “dossier-confessione” a sua firma, da trattare – era questo l’intento – in una serie di articoli o attraverso la stesura di un libro. Una inchiesta giornalistica che mi avrebbe consentito di raccogliere una importante “verità di parte” da mettere in contrapposizione ai fatti storici ed ai fatti processuali della mala nella provincia di Cosenza.  Poi Mario Serpa venne arrestato e quel dossier venne trovato in carcere e finì – questo sì – sotto sequestro. Ho fatto parlare, poi, Nella Serpa, cugina di Mario e presunta “reggente” della cosca di Paola. Mi ha inviato delle lettere dal carcere che ho pubblicato (due, di cui una in ricordo del suo avvocato, il noto compianto penalista Enzo Lo Giudice), mentre altre tre/quattro missive (credo anche telegrammi), contenenti dure accuse e velate minacce al sottoscritto, non le ho rese note – ma consegnate (e non sequestrate) ai carabinieri quando mi è stata bruciata l’auto – solo perché di scarso interesse pubblico. Ricordo ancora, quando lavoravo a Calabria Ora, di essere stato contattato da un “gancio” per una intervista al boss di Cetraro, Franco Muto, che poi, nonostante la mia piena disponibilità a recarmi in quel di Cetraro, dove sono sempre stato odiato per le innumerevoli pagine da me stilate contro la cosca, non venne mai rilasciata. Ricordo ancora, diversi anni or sono, di essere stato convocato dai carabinieri, su richiesta dello stesso pm, per aver ospitato sulle mie pagine la denuncia di un avvocato penalista (Gino Perrotta) a discolpa di un suo assistito, un aspirante pentito prelevato dal carcere senza autorizzazione per indurlo a contattare telefonicamente i suoi “compari” al fine di raccogliere indizi nell’ambito di indagini antimafia. In questo caso, il magistrato perse mezz’ora del suo prezioso tempo solo per pormi una domanda: “Ma lei con chi sta? Con noi o con loro?”.  Io risposi: “Io sto con me stesso. Faccio il giornalista”. Una risposta che mi portò, poco dopo ad un’altra convocazione, questa volta in caserma a San Lucido – pare sempre su richiesta dello stesso pm - per rispondere sulla fonte di una notizia di cronaca nera apparsa sul mio giornale ed a mia firma. Chiaramente mi rifiutai di fare nomi, ma fornii ai carabinieri (me l’ero portato dietro, perché avevo previsto la mossa del “nemico”) copia di un articolo apparso il giorno prima su un giornale concorrente in cui il giornalista intimo amico di quel pm, pubblicò la stessa notizia, precedendomi, ma lui – il collega – non venne convocato da nessuno. Dunque, dopo migliaia di articoli contro le cosche del Tirreno (ospitando anche tante veline dei “buoni”), dare spazio in replica, con tre articoli, ai “cattivi”, può anche non fare piacere a tutti, ma a me interessa poco proprio perché opinione “interessata”.  Mi sono sempre guardato le spalle dalla ‘ndrangheta e dalla malapolitica ed ho imparato ad essere guardingo anche verso “padroni” in cerca di “servi” e verso quei pochissimi pm che vivono di visibilità ad ogni costo. Dopotutto, se un giornalista che fa parlare un mafioso è accusato – verbalmente, e non certo sulla carta – di essere un “favoreggiatore” (opinione personale non condivisa), un magistrato che acquista consapevolmente una villa abusiva (è la motivazione di un giudice), è uno che non rispetta le regole e non è in condizioni di dare lezioni a nessuno. P.S.: Oggi sono in vena di consigli: non dimenticate di chiedere al neo pentito Adolfo Foggetti chi è il mandante e chi l’esecutore dell’incendio della mia auto. Poi confrontate i nomi con quelli da me forniti al magistrato di Paola.

Ma questi magistrati non sono coerenti.

L'ex pm antimafia Ingroia difende un boss pluriomicida. È il legale del camorrista La Torre, accusato di 40 delitti. Di lui Saviano disse: "È solo uno smargiasso ambiguo", scrive Gianpaolo Iacobini su "Il Giornale". Antonio Ingroia, l'ex pm antimafia che difende un camorrista. Più d'uno è saltato sulla sedia quando il nome del magistrato che dava la caccia ai capi di Cosa Nostra è risuonato nelle aule del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere insieme a quello di Augusto La Torre, fino ai giorni dell'arresto - e pure oltre - boss del clan dei Chiuovi di Mondragone, alleato dei Casalesi ed egemone nell'alto Casertano, nel basso Lazio e lungo la costa domizia tra il 1980 e gli inizi dei Duemila. Davanti ai giudici sammaritani La Torre - che dietro le sbarre s'è laureato in Psicologia - è comparso da testimone nel processo a carico di Mario Landolfi, imputato di corruzione e truffa aggravata dal metodo mafioso per la vicenda d'un consigliere comunale dimessosi, secondo la Procura, in cambio dell'assunzione trimestrale della moglie in una società di servizi. L'ex ministro s'è sempre detto innocente e La Torre, in videoconferenza, ha smentito avesse contatti col clan, ma a far notizia è stata la nomina del nuovo legale del boss psicologo, poi confermata dal portavoce dell'ex procuratore aggiunto. Quello che, all'indomani del giuramento da avvocato, assicurava: «Per coerenza con la mia storia non difenderò né mafiosi né corrotti». E invece alla fine s'è ritrovato al fianco d'un barone del crimine organizzato, condannato in via definitiva a 22 anni per associazione camorristica e ad altri 9 per estorsione aggravata ed a tutt'oggi sotto processo anche per omicidio. La replica: «Nessuna contraddizione: è un collaboratore di giustizia». Insomma, un conto sarebbe difendere i mammasantissima tutti d'un pezzo, un altro assistere mafiosi contriti, anche quando, confidando nell'impunità, confessano i peggiori misfatti. Come La Torre, autoaccusatosi di una quarantina di omicidi, con le vittime crivellate di colpi, gettate nei pozzi di campagna e dilaniate con le bombe a mano, per smembrarne i corpi e lasciarli a marcire sotto acqua e terra. Di sicuro, c'è collaboratore e collaboratore: l'imperatore di Mondragone, detenuto dal 1996, saltò il fosso nel 2003, ma poco dopo la protezione gli fu revocata per un'estorsione. E i Tribunali hanno fin qui preso con le molle le sue dichiarazioni, negandogli sconti di pena, mentre proprio uno degli Ingroia-boys, lo scrittore Roberto Saviano, nel luglio del 2012 ne stroncava l'attendibilità, definendolo su Facebook «un pentito pieno di lati ambigui: smargiasso e feroce, è arrivato a far pentire l'intero clan per ricevere sconti di pena, in cambio della possibilità di uscire tutti dal carcere dopo una manciata di anni e conservare un potere economico legale, avendo ormai demandato il potere militare ad altri. Il boss, pur se pentito, dal carcere dell'Aquila tempo fa chiedeva anche danaro: aggirando i controlli scriveva lettere di ordini e richieste». Avesse ragione Saviano, che a sentire gli ingroiani ha ragione per definizione, è questo il nuovo cliente di Antonio Ingroia, un avvocato che non difende né mafiosi né corrotti. Ipse dixit.

GIOVANNI FALCONE "ROVINAVA L'ITALIA".

Che tristezza: Francesca Morvillo prima separata dal marito, ora trasferita altrove, scrive Pippo Giordano il 12 dicembre 2015 su “La voce di New Yoirk". Ho avuto l'onore di lavorare con Giovanni Falcone e ho conosciuto sua moglie, Francesca Morvillo. Non ho condiviso la scelta di separarli e mi rende triste, ancora una volta, apprendere che la salma della signora sarà trasferita altrove...Avevo scritto che non avrei mai più parlato della traslazione dal cimitero di Sant'Orsola alla chiesa di San Domenico, sempre a Palermo, della salma del Giudice, Giovanni Falcone. E coerenza vuole che anche oggi non ritorni sull'argomento, non ne ho diritto. E tuttavia, quando ho saputo che le spoglie della dottoressa Francesca Morvillo, moglie del Giudice Falcone, saranno trasferite dal cimitero di Sant'Orsola al cimitero dei Rotoli, un grande dispiacere ha attanagliato la mia mente. La dottoressa Francesca Morvillo, anch'essa Giudice, troverà pace eterna in una sepoltura monumentale, che sarà concessa gratuitamente dal Comune di Palermo.

Nelle more che trattasi di decisioni private, il mio cuore è colmo di tristezza. I due Giudici, appartenevano e appartengono a tutti gli italiani ed ora pensare che il trasferimento delle spoglie della dottoressa Francesca Morvillo sia la conseguenza di un atto che allora non ho condiviso, mi rende particolarmente triste. Ricordo che una delle mie prime azioni, ogni volta mi recavo al cimitero di Sant'Orsola, era fermarmi e “parlare” col dottor Giovanni Falcone e pregare per loro due. Il mio non era un mero atto di routine o perchè obbligato a passar davanti loro mentre andavo a trovare i miei cari, sepolti a pochi metri dalla loro cappella. No! Il mio era un atto d'amore e di rispetto: era un momento di raccoglimento a mo' di ringraziamento per il grande onore d'avermi accettato nel suo ambiente di lavoro. Non posso dire altrettanto per la dottoressa Morvillo. La incontrai una sola volta in modo occasionale mentre era in compagnia del dottor Falcone. Successe prima del loro matrimonio, quando nei salotti buoni di Palermo si ridacchiava del loro amore. Miserabili individui! Quindi, anche la dottoressa Morvillo lascerà quella che fu la dimora condivisa con suo marito. Non spetta a me dare giudizi sulla decisione di aver posto in essere la separazione del dottor Falcone da sua moglie dottoressa Morvillo, tuttavia prego di rispettare la mia tristezza. Non oso immaginare, la mia frustrazione, quando per la prima volta passerò inanzi alla cappella, che per anni aveva custodito i corpi martoriati di Falcone e Morvillo. Il gesto vigliacco e miserabile di Cosa nostra, li vide morire insieme: altri, invero, li hanno divisi. E non posso qui non ricordare le parole del collaboratore di giustizia Gino La Barbera, che fu l'ultimo a veder vivi Falcone. Morvillo e i miei colleghi periti nella strage di Capaci. La Barbera aveva pedinato le auto per segnalarne i movimenti a Brusca. Alla mia domanda, “ ..cosa hai pensato nel vederli andare a sicura morte?” Rispose, senza un segno di mimica facciale: “ ...niente era u me travagghiu!” ("niente, era un lavoro"). Con infinito rammarico di non vederli più accanto, spero che riposino in pace.

Il Comune rimedia allo sgarbo alla moglie di Falcone. Francesca Morvillo, separata dal marito trasferito al pantheon di Palermo, avrà una tomba monumentale al cimitero dei Rotoli. Un omaggio dopo le polemiche dei mesi scorsi legate alla separazione dei due coniugi, scrive Mariateresa Conti Venerdì 11/12/2015 su “Il Giornale”. Giovanni, il suo Giovanni con cui condivideva la vita blindata, con cui ha condiviso la morte il 23 maggio del ’92, e da cui è stata separata, in morte, non è più al suo fianco dallo scorso 3 giugno: lui, Giovanni Falcone, eroe della Sicilia e di Palermo, ha traslocato al pantheon di Palermo, la chiesa di San Domenico. Lei invece, Francesca Morvillo, pure magistrato, pure vittima di mafia visto che è morta a fianco del marito nella stessa strage di Capaci, e anzi vittima di mafia doppia visto che condivideva nel quotidiano i sacrifici del suo compagno in una vita blindata in cui, concordi, avevano deciso di non avere bambini perché «non si fanno orfani, si fanno figli», è rimasta sola al cimitero di Sant’Orsola. E adesso il comune di Palermo ha deciso di onorarla, con una cappella interamente dedicata a lei al cimitero dei Rotoli. A due passi dal mare e da quella villa dell’Addaura, diventata celebre anche per un attentato fallito nel 1989, che lei e Giovanni condividevano. Una sorta di risarcimento a scoppio ritardato, quello proposto dall’amministrazione comunale del capoluogo siciliano. Nei mesi scorsi, quando si è saputo che solo Giovanni Falcone sarebbe stato spostato con tutti gli onori nella chiesa, San Domenico, che ospita i siciliani illustri, era scoppiato un mezzo putiferio, tanto da far rinviare la traslazione della salma, inizialmente prevista per il 23 maggio (il ventitreesimo anniversario esatto dell’omicidio), al 3 giugno. In tanti avevano protestato, ritenendo il trasloco di Falcone al pantheon senza la moglie un vero e proprio sgarbo alla memoria di Francesca. Ma i familiari di Falcone, e soprattutto la sorella Maria, anima della Fondazione che dei magistrati uccisi a Capaci porta il nome, aveva tirato dritto senza tentennamenti, a dispetto delle critiche. E dei distinguo, come quello dei figli di Paolo Borsellino, il giudice trucidato in via D’Amelio due mesi dopo Falcone: «Non ce la siamo sentita - aveva spiegato alla cerimonia di inaugurazione del monumento funebre la figlia di Paolo, Lucia - di separare papà da mamma, non potevano fare questo sgarbo a nostra madre, separandoli nella tomba». Adesso l’iniziativa dell’amministrazione comunale. Che non sana quella separazione forzata ma almeno rende onore a una donna magistrato vittima delle stragi del ’92.

Capaci bis, Falcone nel mirino dei servizi: ''Rovinava l'Italia'', scrive il 12 Dicembre 2015 Miriam Cuccu su “Antimafia duemila”. Già nell'89 c'era chi voleva neutralizzare politicamente il giudice Giovanni Falcone, anche all'interno degli ambienti di polizia. E' quanto ha riferito il pentito Francesco Di Carlo, ex boss di Altofonte e collaboratore dal '96, ieri all'udienza del processo "bis" sulla strage di Capaci: "All'inizio del 1989 - ha raccontato il teste - vennero da me in carcere, quando ero in Inghilterra a Full Sutton, a chiedere se potevo far avere un contatto per cercare di calmare la situazione di omicidi e attentati. Ma poi parlando" dissero nel corso di più di un incontro "che volevano stagionare Falcone, sradicare, toglierlo perché stava rovinando l'Italia, perché voleva costruire la Dia e la Procura nazionale antimafia". Al primo incontro era presente anche l'ex dirigente di Polizia Arnaldo La Barbera, insieme ad altre due persone, tra cui uno che rispondeva al nome di "Giovanni", appartenente ai servizi segreti. La Barbera, deceduto per una malattia incurabile, era già sospettato dalla Procura di Caltanissetta di essere al centro, con altri funzionari di polizia del gruppo investigativo Falcone-Borsellino, del colossale depistaggio orchestrato per ostacolare la ricerca della verità sulla strage di via d'Amelio. "I servizi volevano cercare di annientare Falcone - ha continuato Di Carlo - con calunnie o qualsiasi cosa, e sapevano che al tempo Cosa nostra controllava centimetro per centimetro". "Ho avuto piacere - ha continuato - di conoscere Falcone (in carcere, ndr) quando era venuto in Inghilterra, una persona umile e disponibile. Lo ricordo con simpatia, era entrato e mi aveva stretto la mano chiedendomi come stavo". L'ex mafioso, condannato in Inghilterra a 25 anni di carcere per traffico internazionale di stupefacenti, ha anche raccontato davanti alla Corte d'assise nissena che fin dagli inizi degli anni Novanta i servizi segreti arabi erano particolarmente interessati a quanto accadeva in Italia e in particolare in Sicilia. In particolare, nel ’91, durante un incontro, questi 007 “si misero a completa disposizione” per risolvere eventuali “questioni italiane”. Secondo Di Carlo avrebbero voluto dare il proprio contributo per “aggiustare la sentenza sul maxiprocesso. Dissero che avevano possibilità di arrivare ovunque tramite le ambasciate e salvaguardare i processi, c’era il maxiprocesso e altri in appello. Cosa nostra non era abituata a subire pesanti condanne. Sostenevano di conoscere bene il giudice Falcone e dicevano che faceva parte dei servizi segreti americani. Li misi quindi in contatto con mio cugino Antonino Gioè” che dopo il loro incontro a Roma "mi disse 'sono persone importanti, hanno le mani in pasta ovunque' e io gli risposi 'stai attento che ti possono usare e poi ti abbandonano'". Il pentito ha poi raccontato di una riunione della P2 alla quale ha preso parte: "Era il 1980, avevo accompagnato Nino Salvo, ci vedevamo sempre a Roma, ma conoscevo tante persone compreso l'avvocato Guarrasi, conosciutissimo in Sicilia e a Roma, uno dei capi della massoneria in base a quello che mi ha detto Nino Salvo, dove arrivava lui si aprivano le porte. Io non facevo parte di logge perché ero già in Cosa nostra e in questi casi, soprattutto nella provincia di Palermo, non si poteva fare parte della massoneria. Avevano in mente di capovolgere la situazione italiana, un seguito del '69-'70 quando volevano fare un colpo di Stato con il principe Borghese. Dopo pochi mesi è stato scoperto l'elenco della P2 contenente i nomi di generali, questori, prefetti e politici". La vicenda della strage di Capaci, come molti altri episodi oscuri della storia italiana, è entrata a far parte del libro "Doppio livello" di Stefania Limiti, giornalista sentita ieri in qualità di teste indagata in procedimento connesso (per il reato di falsa informazione al pubblico ministero, nonostante la teste non avesse mai ricevuto alcun avviso di garanzia) in quanto la Limiti si è avvalsa del segreto professionale non rivelando al pm la fonte di cui si è servita. "Ho ripreso il lavoro fatto dal pm Luca Tescaroli - ha spiegato la Limiti - mi è stato di grande aiuto nel ricostruire la vicenda come la propongo del “doppio livello” di Capaci. In sede giornalistica e non solo autorevoli personaggi hanno fatto spesso cenno a presenze esterne a Cosa nostra all'interno della vicenda di Capaci e non solo. Da lì ho descritto quella che potrebbe essere la realizzazione della strage partendo dall'analisi proposta da Tescaroli, usando i suoi documenti processuali". "Ho ascoltato questa persona - ha aggiunto la teste, facendo riferimento alla fonte - che mi disse di aver fatto parte della Gladio siciliana e mi chiese di mantenere l'anonimato. Questo è l'unico strumento che ho come giornalista". Oltre all'esame di Fernando Termentini, consulente tecnico della difesa in merito alle dinamiche dell'esplosione della bomba di Capaci, la Corte di Caltanissetta ha sentito ieri Corrado Carnevale, ex presidente della prima sezione penale della Cassazione soprannominato "ammazzasentenze". "Non ho mai mantenuto un particolare atteggiamento per i processi di mafia. Per me erano come tutti gli altri", ha affermato. Carnevale ha negato di aver mai detto che Falcone era un cretino dicendo che "non ho mai parlato di Falcone, non avevo motivo per farlo", spiegando poi che di Falcone trovò "solo una lettera dell'aprile del 1991 con la quale chiedeva di predisporre il trasferimento degli atti relativi al maxiprocesso da Palermo a Roma, cosa che non era possibile perché dovevano rimanere a Palermo a disposizione del relatore. Lettera che non ebbe nessun seguito. Nel dispositivo - ha aggiunto Carnevale - furono commessi molti errori materiali". Carnevale è stato più volte invitato dal presidente della Corte d'Assise, Antonio Balsamo, a non esprimere giudizi sul giudice Giovanni Falcone, del quale lo Stato italiano ha ampiamente riconosciuto le doti umane e professionali.

Corrado Carnevale: se un giudice è bugiardo, scrive il 12 Dicembre 2015 Giorgio Bongiovanni su “Antimafia duemila”. Al processo Capaci bis per l'uccisione del giudice Giovanni Falcone l'ex presidente della prima sezione penale della Cassazione, Corrado Carnevale, detto "ammazzasentenze", è comparso ieri come teste davanti alla Corte d'Assise di Caltanissetta. "Non ho mai parlato di Falcone, non avevo motivo per farlo" dice, nonostante esista un'intercettazione dello stesso Carnevale in cui l'ex magistrato parla di Falcone come di un "cretino". In una conversazione con l'avvocato Giovanni Aricò, l'8 marzo 1994, Carnevale diceva: "I motivi per cui me ne sono andato non sono quelli di pressione di quel cretino di Falcone... perché i morti li rispetto, ... ma certi morti no" non risparmia nemmeno la moglie di Falcone, Francesca Morvillo: "…Io sono convinto che la mafia abbia voluto uccidere anche la moglie di Falcone che stava alla prima sezione penale della Corte d'Appello di Palermo per farle fare i processi che gli interessavano per fregare qualche mafioso". Al tempo in cui l'intercettazione era diventata di dominio pubblico Carnevale aveva infine ammesso di aver avuto "del risentimento nei confronti del dottor Falcone". Risentimento che traspare anche dall'ultima udienza, quando Carnevale parla della lettera di Falcone "con la quale chiedeva di predisporre il trasferimento degli atti relativi al maxiprocesso da Palermo a Roma", un dispositivo nel quale secondo lui "furono commessi molti errori materiali". Per questo l'ex magistrato è stato più volte richiamato dal presidente Balsamo, affinché non esprimesse giudizi sull'operato di un giudice le cui capacità sono ovunque ampiamente riconosciute. Carnevale potrebbe spiegarci perché ha annullato centinaia di sentenze a carico di boss mafiosi, ma non lo farà e nelle sue dichiarazioni continua a smentire se stesso, oltre a remare contro la stessa verità giudiziaria. Come nell'intervista rilasciata a Panorama sulla sentenza di condanna per l'ex senatore Marcello Dell'Utri, in carcere per concorso esterno in associazione mafiosa, nella quale critica aspramente l'impianto accusatorio poi confermato in Cassazione. La sentenza di Palermo stabilisce che ci sono prove che Dell’Utri concorse agli interessi di Cosa nostra, per quanto esternamente, fino al 1992. "Il mafioso a tempo? Vengono a rifilarci una bubbola del genere? - commenta Carnevale - il mafioso non è una specie di boy scout alla rovescia, che deve compiere tutti i giorni la sua cattiva azione per essere utile alla causa. Basta essere stato a disposizione una volta per essere considerato a disposizione sempre". E ancora: "Il concorso esterno è un’invenzione. Dal punto di vista giuridico non sta in piedi. O si dà un apporto o non si dà. Per essere partecipi dell’organizzazione criminale, non è necessario compilare domande, sostenere concorsi o partecipare a un’iniziazione. È letteratura. Chi svolge attività vantaggiose per la mafia ne fa parte, senza tanti arzigogoli". La speranza è che la magistratura incarnata da Carnevale abbia davvero fine, e che questa possa essere totalmente composta da degni rappresentanti, attenti alla ricerca la verità, che scrivano sentenze veramente nel nome del popolo italiano. Giudici come Corrado Carnevale rappresentano un grave ostacolo per la verità, la giustizia e la democrazia. Soprattutto, come sopra dimostrato, quando sono palesemente bugiardi.

MATTEO MESSINA DENARO: LATITANTE DI STATO?

Pagina Facebook su Messina Denaro, polemiche e oltre mille fan, scrive il 4 Gennaio 2016 “Il Giornale di Sicilia”. C'è chi lo saluta con "auguri grande Zio", chi gli augura "buona latitanza". Ma ci sono anche gli indignati che commentano sconcertati. Festeggia l'arrivo del 2016 facendo un "carissimo augurio di buon anno allo stato italiano con un messaggio: "morte a voi e salute a mia". E' il profilo Facebook, aperto dal 2012, intestato a "L'ultimo Padrino di Cosa nostra, Matteo Messina Denaro", che ha 1.196 persone che lo seguono, 116 delle quali hanno cliccato 'mi piace' sul post. "Ancora una volta - si legge sul profilo Fb - ho stappato bottiglie di (champagne) a fiume. Buon anno a tutti gli (amici) tranne che gli 'infami'". Nella pagina c'è chi lo saluta con "auguri grande Zio", chi gli augura "buona latitanza" e chi scrive: "Padrino siete un grande e io ho sparato i fuochi in vostro onore". Ma ci sono anche gli indignati che commentano sconcertati: "vergogna", "ammazzatevi" e "ho segnalato la pagina alle autorità competenti".

La pagina Facebook di Matteo Messina Denaro e i suoi auguri di buon anno. L'idiozia che non uccide ma fa male, scrive “Notte Criminale” il 5 gennaio 2016. «Sconcerto, indignazione e tristezza». Il sindaco di Castelvetrano, Felice Errante, commenta così la notizia di una pagina Facebook che inneggia al superlatitante Matteo Messina Denaro. Nel profilo dal titolo «Matteo Messina Denaro, l'ultimo Padrino di Cosa Nostra», aperto dal 2012 e seguito da 1.260 persone, ci sono link ad articoli che raccontano le ultime operazioni contro Cosa nostra, ma anche gli attentati di Parigi, oltre a un riferimento alle condizioni di salute di Totò Riina con tanto di dedica «Un abbraccio di cuore al mio 'Padrinò» firmato Matteo Messina Denaro. «Sentir cantare il suono del kalashnikov, mi ricorda i bei tempi passati della mia misteriosa gioventù. La stessa fine gliela auguro a tutto il corpo armato dello stato e a tutti i Magistrati. 'Tempo al Tempò» si legge in un post datato 7 gennaio in cui si fa riferimento all'attentato al giornale Charlie Hebdo. L'ultimo post risale al primo gennaio: «Ancora una volta - c'è scritto - ho stappato bottiglie di (champagne) a fiume. Buon anno a tutti gli (amici) tranne che gli 'infamì. Ah dimenticavo: Faccio il mio carissimo augurio di buon anno allo stato italiano con un messaggio: 'Morte a voi e salute a mià». A corredo del post una foto che ritrae l'ultima primula rossa da giovane con tanto di cuoricini, 124 mi piace e 46 condivisioni. E tra i commenti c'è anche chi scrive: «Padrino siete un grande e io ho sparato i fuochi in vostro onore. Un abbraccio e buon 2016 e libertà assoluta e per sempre». Qualcun altro aggiunge: «Caro padrino, io ho un enorme rispetto per voi e una Grande stima mi sarebbe fatto piacere di incontrarla di persona ma le auguro tantissimi auguri a voi e fate in modo di non farvi prendere la vostra cattura sarebbe un Grande dolore per noi che la vogliamo bene». «Questa pagina è un'indecenza, un'offesa alla memoria di tutti quei servitori dello Stato che hanno perso la vita per difendere i cittadini onesti e liberare la nostra terra dal cancro mafioso - scrive un cittadino indignato -. Ma state sereni, la cattura di Messina Denaro sarà solo questione di tempo. Lo Stato vincerà sempre!». «Un padrino (finto) senza volto ne palle. Praticamente una cacchetta vagante» scrive un'altra cittadina. E c'è anche chi fa gli auguri a Peppino Impastato, ucciso nel maggio del 1978. «Buon compleanno Peppino. Perché la mafia mai come ora è una montagna di mer... E Messina Denaro è solo l'ennesimo cog... che ancora non ha capito che c'è un potere che va oltre il suo». Durissimo il commento del sindaco Errante. «Un manipolo di disadattati, non sono secondo me semplici idioti, non può costringere una comunità sana a dovere replicare a tali nefandezze - dice -. Faccio veramente fatica, prima da cittadino, poi da sindaco a comprendere come si possa inneggiare ad un criminale. Ma cosa ancor più grave come si fa ancora a poter ritenere che la mafia sia una risorsa per un territorio che è stato, invero, dalla stessa sempre saccheggiato e mortificato». L'auspicio del primo cittadino è che forze di polizia e magistratura inquirente possano «presto fare luce sull'ennesimo tentativo volto a mortificare quanti quotidianamente si spendono per l'affermazione della cultura della legalità». 

Su facebook un profilo che inneggia al superlatitante Matteo Messina Denaro, scrive il 5 gennaio 2016 Ilaria Calabrò su “Stretto Web”. Il sindaco di Castelvetrano commenta il profilo dal titolo “Matteo Messina Denaro, l’ultimo Padrino di Cosa Nostra” che inneggia al superlatitante Matteo Messina Denaro con queste parole: “sconcerto, indignazione e tristezza”. Il profilo è stato aperto nel 2012 ed è attualmente seguito da 1.265 persone, vengono postati link ad articoli che raccontano le ultime operazioni contro Cosa nostra, ma anche gli attentati di Parigi, oltre a un riferimento alle condizioni di salute di Totò Riina con tanto di dedica “Un abbraccio di cuore al mio ‘Padrino’” firmato Matteo Messina Denaro. Tanti i post e i commenti presenti nella pagina, tra questi c’è chi scrive: “Padrino siete un grande e io ho sparato i fuochi in vostro onore. Un abbraccio e buon 2016 e libertà assoluta e per sempre”. Qualcun altro aggiunge: “Caro padrino, io ho un enorme rispetto per voi e una Grande stima mi sarebbe fatto piacere di incontrarla di persona ma le auguro tantissimi auguri a voi e fate in modo di non farvi prendere la vostra cattura sarebbe un Grande dolore per noi che la vogliamo bene”. “Questa pagina è un’indecenza, un’offesa alla memoria di tutti quei servitori dello Stato che hanno perso la vita per difendere i cittadini onesti e liberare la nostra terra dal cancro mafioso – scrive un cittadino indignato – ma state sereni, la cattura di Messina Denaro sarà solo questione di tempo. Lo Stato vincerà sempre!”. Durissimo il commento del sindaco di Castelvetrano: “Un manipolo di disadattati, non sono secondo me semplici idioti, non può costringere una comunità sana a dovere replicare a tali nefandezze – dice – faccio veramente fatica, prima da cittadino, poi da sindaco a comprendere come si possa inneggiare ad un criminale. Ma cosa ancor più grave come si fa ancora a poter ritenere che la mafia sia una risorsa per un territorio che è stato, invero, dalla stessa sempre saccheggiato e mortificato”. L’auspicio del primo cittadino è che forze di polizia e magistratura inquirente possano “presto fare luce sull’ennesimo tentativo volto a mortificare quanti quotidianamente si spendono per l’affermazione della cultura della legalità”.

Matteo Messina Denaro: latitante di Stato? Si chiede il 12 Dicembre 2015 Scorta Civica Palermo su “Antimafia Duemila”. Matteo Messina Denaro continua ad essere libero di delinquere nonostante la condanna all’ergastolo per le stragi del 1993 e, con la sua ultraventennale latitanza, ripropone gli scenari già calcati da troppi capimafia. Pio La Torre ricordava che per la strage di Portella delle Ginestre, il 1° maggio 1947, le forze più retrive del blocco agrario fecero ricorso alla banda di Salvatore Giuliano, la cui latitanza sarebbe stata protetta da alcuni organi dello Stato, dall’ispettore regionale di P.S., che andava a pranzo con Salvatore Giuliano e, nello stesso tempo, ordinava lo stato d’assedio nella zona di Montelepre per “scovare” il bandito, al Ministro degli Interni, che compì un “falso di Stato” nel dare la “sua versione” della morte di Giuliano, che, invece, era stata un “omicidio di Stato”, a cui fece seguito “l’avvelenamento di Stato” di Pisciotta nelle carceri dell’Ucciardone. Ricordiamo che Salvatore Giuliano riuscì a “resistere” nella latitanza per sette anni, dal settembre del 1943 alla morte, il 5 maggio 1950. Nell’articolo “LA MAFIA E LO STATO”, in QUADERNI siciliani del Maggio del 1974, Pio La Torre evidenzia la lunga latitanza di Luciano Liggio. Ricordiamo che Luciano Liggio inizia la sua latitanza nel novembre 1948, per sottrarsi al confino. Verrà arrestato dopo più di 15 anni, nel maggio del 1964, a seguito della stretta seguita alla strage di Ciaculli. Riprende la latitanza nel novembre del 1969 e continua a delinquere sino al nuovo arresto nel maggio 1974. La Torre evidenzia: “E’ noto che poi Liggio riesce ad allontanarsi indisturbato da una clinica romana nel novembre 1969 e può riprendere liberamente la sua attività di latitante di Stato”. Il conto è presto fatto, Luciano Liggio rimarrà latitante, comandando la mafia siciliana, per venti anni. AntimafiaDuemila, con l’articolo “CONSEGNATELO!” del 1° dicembre scorso, ci ha ricordato che altri capimafia hanno goduto di lunghe o lunghissime latitanze: Totò Riina vanta 23 anni e Binnu Provenzano addirittura 40 anni. Non dimentichiamo la latitanza di Nitto Santapaola, che inizia dopo la strage della circonvallazione, il 16 giugno 1982, e l’uccisione del Generale Della Chiesa, della moglie Emanuela Setti Carraro e dell’agente Domenico Russo, il 3 settembre dello stesso anno. La latitanza avrà termine solo dopo 10 anni, nel maggio del 1993. E’ ben noto l’episodio della sua mancata cattura nell’aprile del 1993 a Terme Vigliatore, che è stato sollevato nel processo di appello nei confronti del Generale Mori e del Colonnello Obinu, per la mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995 a Mezzojuso. Non dimentichiamo la latitanza di Francesco Di Carlo, boss di Altofonte, che inizia nel febbraio del 1980 e termina nel giugno del 1985, per l’arresto disposto dalle autorità inglesi. Nelle sue dichiarazioni ha ripetutamente parlato delle sue frequentazioni, da latitante, con il generale Santovito, a capo del Servizio di informazione militare. Non dimentichiamo la latitanza del padre di Matteo Messina Denaro, dal quale ha ereditato lo scettro, Francesco detto “Don Ciccio”, che, dopo oltre otto anni di latitanza, fu stroncato da un infarto nel novembre del 1998. Il suo corpo, composto per potere celebrare solenni funerali, fu lasciato davanti casa, nelle campagne di Castelvetrano. In definitiva, la latitanza di Matteo Messina Denaro ripropone gli stessi scenari e appare la prova che ci sono uomini insospettabili che continuano la trattativa. Per questo Scorta civica continua a chiedere che venga arrestato Matteo Messina Denaro, latore dell’ordine di uccidere Nino Di Matteo, che venga trovato l’arsenale della mafia, dove viene custodito l’esplosivo per l’attentato, che venga fatta verità e giustizia per le stragi del 1992 e del 1993. Palermo, 11 dicembre 2015.

MAFIA DEMOCRATICA.

I boss sparano a Palermo ma vogliono democrazia. Le intercettazioni che hanno permesso di "fermare" sei persone svelano che i clan eleggono i capi con il voto segreto e rispetto al passato chiedono più condivisione nelle scelte scrive su “L’Espresso” Lirio Abbate l'11 dicembre 2015. A Palermo da una parte c'è una mafia melliflua, che riesce a piegare le proprie vittime del racket con l'intimidazione, e dall'altra c'è un'organizzazione criminale assolutamente sanguinaria che non ha dimenticato la violenza come parte costitutiva di Cosa nostra, dimostrando di avere ancora oggi una capacità di fuoco e una reazione militare che preoccupa investigatori e inquirenti. Perché, come dimostrano le indagini dei carabinieri di Palermo che hanno portato al fermo di sei persone su ordine dei magistrati della Procura distrettuale antimafia, ci sono uomini e mezzi capaci di reagire, armi in pugno, in poche ore e lasciare sull'asfalto le loro vittime. A Palermo è accaduto lo scorso ottobre e oggi i pm guidati da Francesco Lo Voi hanno portato le prove che i boss non hanno perso la loro caratteristica violenta e sanno formare sicari capaci di infilare cinque colpi di fila nella schiena di una persona mentre scappa. Non è da tutti. Quindi, accanto alla forma di convincimento degli imprenditori e commercianti a pagare il pizzo, c'è ancora quella violenta per la quale Cosa nostra è conosciuta in tutto il mondo. Le intercettazioni hanno svelato che la cosca più vecchia di Palermo è tornata ad essere la più pericolosa. A guidarla, uno scarcerato eccellente degli ultimi tempi, Giuseppe Greco. Consigliere del capo, Salvatore Profeta, uno dei boss condannati per la strage Borsellino e poi scagionati. Era tornato in attività anche un altro degli scarcerati del caso Borsellino, Natale Gambino, pure lui chiamato in causa dal falso pentito Vincenzo Scarantino. Le indagini riguardano la famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù e avrebbero svelato il coinvolgimento della cosca nell'omicidio di Salvatore Sciacchitano e nel ferimento di Antonino Arizzi, avvenuti a Palermo il 3 ottobre scorso. Nelle intercettazioni diffuse dai Carabinieri le votazioni dei mafiosi di Santa Maria di Gesù, una delle famiglie criminali più antiche di Cosa nostra, per l’elezione del “governo” interno. Le microspie evidenziano come il voto sia avvenuto a scrutinio palese: “Ci ammazziamo come i cani, perché non la possiamo fare ad alzata di mano?” Dalle attività investigative è emerso anche che i vertici del clan venivano designati attraverso elezioni a cui partecipavano uomini d'onore, secondo una prassi di cui i pentiti hanno parlato negli anni Ottanta. Alcuni dei fermati sarebbero coinvolti nell'agguato a Sciacchitano, punito per aver partecipato, poche ore prima di essere ucciso, al ferimento di Luigi Cona, personaggio vicino a Cosa nostra. Il contesto in cui matura il fatto è importante, perché è quello di Santa Maria del Gesù, feudo di Stefano Bontate, il principe di Villagrazia, ucciso nel 1981 e poi di Pietro Aglieri. È nella zona di Villagrazia che parte tutto. Un anno fa, in una barberia, le microspie dei carabinieri intercettano una conversazione importante che dà la svolta alle indagini. I mafiosi che parlano descrivono un sistema di elezione del capo “reggente” e dei suoi collaboratori. In questo piccolo negozio da barbiere gli affiliati al clan scandiscono i ruoli e dicono che Giuseppe Greco è “il principale”, termine utilizzato per indicare il reggente della cosca. E poi fanno il nome del sottocapo e del capodecina e del collaboratore fidato del “principale”. C'è un momento in cui parlano anche delle elezioni. Sì, perché dentro Cosa nostra si fanno anche le elezioni. E fanno riferimento agli anni Settanta in cui comandava Stefano Bontate, in cui si facevano le elezioni per scegliere il capo e vi partecipavano più di 120 affiliati. Oggi gli elettori mafiosi in questa zona di Palermo sono molto di meno, circa una ventina, ma il sistema di elezione sembra essere lo stesso: c'è come campagna elettorale che precede la scelta del nuovo capo. I votanti si riuniscono, riprendono le vecchie modalità, e indicano il nome del nuovo boss su una scheda elettorale, o un “pizzino”, come si faceva in passato, e questi biglietti, piegati venivano imbucati in una scatola di scarpe. I carabinieri adesso hanno documentato tutto, apprendendo anche i nuovi vertici della famiglia mafiosa. Ritornare ai vecchi metodi è significativo, come pure far riferimento a Bontate. Nelle intercettazioni viene citato il “principe di Villafranca” come un esempio da seguire, ma era anche visto come un dittatore la cui parola era legge. Oggi però i boss vogliono “più democrazia”. Sembrerà strano ma anche i mafiosi non vogliono sottostare alle dittature. E così nelle intercettazioni fanno capire che le cose oggi sono cambiate, e c'è condivisione delle decisioni. Il “principe”, come dicono i mafiosi nelel conversazioni registrate, governava incontrastato ma oggi si governa con una visione più democratica. Il pentito Francesco Marino Mannoia detto «Mozzarella» abbatte miti che Buscetta non aveva intaccato. Per esempio, quello "della mafia buona che non uccide" e non «tratta» l'eroina. Campione di questa categoria era stato ritenuto Bontate. «Niente vero. Don Stefano era esattamente come gli altri. Finiamola con queste sciocchezze: uccideva e si arricchiva con la droga». Parola di «Mozzarella», che di Bontate era stato angelo custode e «soldato». Qualche esempio? Un ladruncolo che lo aveva deriso per via della faccia gonfia «fu portato da Stefano Bontade che lo strangolò». Sorte analoga per un rapinatore che dava fastidio nel quartiere; in quel caso il commento del «principe» fu: «Ordinaria amministrazione». Efrate Giacinto, il francescano ucciso nella sua «cella» dentro il convento del cimitero di Santa Maria del Gesù? «Mozzarella» chiede e Bontate spiega: «Era un puttaniere». Al giudice, Mannoia aggiungerà: «In passato aveva dato rifugio a latitanti di Cosa Nostra, ma da tempo non ci servivamo più di quel convento». Adesso occorre guardare meglio agli atteggiamenti e ai comportamenti di questi nuovi boss. Gli investigatori lo hanno fatto e i pm hanno colto i nuovi segnali che arrivano dai clan. Certo fa impressione ascoltare alcune registrazioni in cui c'è un mafioso che inizia a cantare “volare” dopo aver sentito i colpi di pistola sparati da un suo compare che ha ucciso un uomo. Alcune conversazioni si sentivano trent'anni fa tra i mafiosi, adesso i toni sembrano essere tonati tali. Anche se occorre tener presente che l'omicidio dal quale parte l'indagine è stato compiuto lo scorso ottobre e in due mesi l'organizzazione è stata scoperta. I mafiosi dovrebbero capire che non hanno dove andare, che vengono beccati subito. Ma occorre constatare che questi personaggi che hanno ancora come mito Bontate non sanno cos'altro fare. Sanno solo mafiare, e l'arresto lo mettono in conto. Un po meno, però, la condanna all'ergastolo.

Mafia, ecco come vengono decisi i vertici di Cosa Nostra. L'ultima operazione del Ros svela i metodi "democratici" utilizzati a Palermo per l'elezione dei boss mafiosi dopo l'arresto di Riina, scrive l'11 dicembre 2015 Nadia Francalacci su “Panorama”. Decidevano alleanze, candidature ed esecuzioni all'interno di una sala da barba. È lì, nel cuore del feudo mafioso di Santa Maria di Gesù, che i boss di Palermo si riunivano prima di dar via alle elezioni per il rinnovo dei vertici del clan. Ed è proprio lì che è stata decisa anche la punizione di uno degli affiliati: Salvatore Schiaccitano ucciso lo scorso 3 ottobre. Carabinieri del Ros e del Comando Provinciale di Palermo hanno eseguito sei arresti nei confronti di boss palermitani accusati a vario titolo di omicidio, tentato omicidio, associazione mafiosa e reati legati al possesso di armi. Le indagini sono state concentrate sulla famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù, e avrebbero svelato il coinvolgimento della cosca nell'omicidio di Sciacchitano e nel ferimento di Antonino Arizzi, avvenuti due mesi fa. Sciacchitano avrebbe partecipato a un agguato contro un pregiudicato vicino alla cosca. Dopo poche ore, però, sarebbe stato punito: segno della capacità militare del clan, in grado di organizzare in pochissimo tempo una reazione militare all'aggressione di uno dei suoi. Dall'inchiesta emerge il ritorno ai vecchi metodi di designazione dei capi, una sorta di "democratizzazione" criminale seguita agli anni di tirannia dei corleonesi di Totò Riina. I vertici del clan venivano designati attraverso elezioni a cui partecipavano uomini d'onore, secondo una prassi di cui i pentiti hanno parlato negli anni '80. Ma tra gli arrestati di questa mattina c'è anche uno dei sette ergastolani condannati e poi scagionati dal processo per la strage di via D'Amelio costata la vita al giudice Paolo Borsellino. Si tratta di Natale Gambino finito in cella insieme a Giuseppe Greco, già arrestato e condannato per associazione mafiosa. I due, intercettati, parlano esplicitamente del rinnovo dei vertici dell'associazione mafiosa.

La mafia non abbandona i vecchi riti: un bacio in fronte per i nuovi boss. Sei arresti in Sicilia. E le indagini su un omicidio avvenuto lo scorso ottobre hanno svelato che le cosche palermitane non rinunciano ai riti dell’«onorata società», scrive su “Il Corriere della Sera” Giovanni Bianconi l’11 dicembre 2015. Passano i decenni, ma le regole della mafia restano sempre le stesse. Anche nel nuovo secolo i boss procedono a eleggere capi e sottocapi per governare le «famiglie» e i «mandamenti», come avveniva quando esisteva la Cupola. E così, nel giugno del 2014 le microspie dei carabinieri del Ros hanno registrato una riunione in cui si discute della campagna elettorale per la scelta di chi deve comandare sulla zona di Santa Maria di Gesù, periferia sud-est di Palermo. Con tanto di bacio in fronte a suggellare la scelta dei candidati. Nella riunione del 20 giugno gli uomini d’onore parlano esplicitamente di «Cosa nostra»: una delle rarissime occasioni in cui utilizzano il nome svelato per la prima volta dal pentito Tommaso Buscetta più di trenta anni fa. Quando si parla di “Cosa Nostra” non si scherza. Una circostanza considerata di importanza storica dai pm della Direzione distrettuale antimafia guidati dal procuratore Franco Lo Voi e dall’aggiunto Leonardo Agueci, emersa dalle indagini su un omicidio avvenuto nell’ottobre scorso di cui sono stati arrestati i presunti mandanti ed esecutori. «A prescindere della confidenza che abbiamo... quando parliamo di Cosa Nostra...parliamo di Cosa Nostra! Quando dobbiamo babbiare ...babbiamo!», cioè scherziamo, dice il boss Natale Gambino, intercettato con altri quattro presunti mafiosi all’interno del negozio di un barbiere nel quartiere della Guadagna. È un summit di mafia ascoltato in diretta dagli investigatori che hanno visto gli uomini d’onore arrivare e il barbiere uscire prima che cominciasse la riunione. Gambino, 57 anni, è stato scarcerato nel 2011 in seguito alla richiesta di revisione del processo sulla strage di via D’Amelio (era stato condannato all’ergastolo sulla base delle dichiarazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino), come il settantenne Salvatore Profeta, anche lui presente alla riunione, riarrestato un mese fa per mafia nell’ambito di un’altra indagine della polizia. I due parlavano con Giuseppe “Pino” Greco, 53 anni, già condannato per associazione mafiosa e tornato libero dopo aver scontato la pena; secondo gli inquirenti è lui l’uomo più importante tra i presenti, tanto che Profeta, nonostante sia molto più anziano, gli si rivolge con rispetto e deferenza: «Che piacere avere u zu Pinuzzu!». Durante la lunga discussione Greco rimprovera Gambino per non aver obbedito a un suo ordine (probabilmente relativo alla riscossione dei soldi di un’estorsione): «E allora Natà... se siamo rimasti in un modo ...ma perché dobbiamo fare in un’altra maniera?»; e quello si scusa dicendo che non aveva capito: «Pino... a me mi dispiace che tu hai pensato... perché se tu mi dici una cosa ...io che fa, non ci vado?». Profeta prova a giustificare Gambino, rimproverandolo a sua volta, dopodiché la riunione va avanti sui ruoli di vertice da assegnare nel mandamento di Villagrazia. «Io incarichi non ne voglio... io voglio essere solo diretto con te...e...no ...sottocapo...», dice Gambino a Pino Greco. L’anziano Profeta si associa: «Io pure… a me che devi fare …che sono rimbambito…», e gli altri ridono. Greco spiega che si svolgeranno le elezioni, Gambino annuncia il suo voto per lui, e Profeta promette che farà campagna elettorale in suo favore. In un altro passaggio lo stesso Salvatore profeta ricorda le votazioni per i vertici dentro Cosa nostra negli anni Settanta: «All’epoca si facevano mi pare… ogni cinque anni ... ma sempre Stefano Bontade acchianava (risultava vincitore, o comunque comandava, ndr)!», riferendosi al capomafia palermitano assassinato nel 1981 su ordine di Totò Riina nella guerra scatenata dai Corleonesi. «Per fare queste votazioni ci voleva il posto buono...», interviene Gambino, e Profeta spiega: «Sì, ma... all’epoca cento... centoventi eravamo...». Oggi invece «se li sommi quanto siamo? Neanche a venti arriviamo!». Il figlio Nino, arrestato anche lui, ribatte «No, forse di più siamo», ma Salvatore Profeta insiste: «Venti… trenta». Rispetto agli anni ruggenti e degli omicidi a centinaia i numeri sono cambiati, ma i protagonisti invecchiati e i giovani epigoni continuano a perpetuare le stesse regole.

I boss tornano al voto per il nuovo governo di Cosa nostra. Le cimici svelano un omicidio. Blitz dei carabinieri a Palermo, 6 arresti. Smantellata la storica cosca di Santa Maria di Gesù. Il nuovo padrino veniva baciato in fronte. Come cambia la mafia siciliana, tra vecchi riti e nuova violenza: due mesi fa, un giovane è stato punito in modo eclatante. Mentre i sicari sparavano, i capimafia assistevano a distanza all'esecuzione. E in macchina canticchiavano, scrive Salvo Palazzolo su “La Repubblica” del 11 dicembre 2015. La campagna elettorale è stata breve, i candidati non erano molti. Ma è stata una campagna elettorale intensa a Santa Maria di Gesù, periferia orientale di Palermo: dopo tanti anni, i boss sono tornati al voto per eleggere il governo di una delle famiglie più antiche di Cosa nostra. Questo dicono le microspie disseminate nel ventre della città. Un segnale importante per le indagini dei magistrati della Direzione distrettuale antimafia: è davvero finita l'era del tiranno Totò Riina che tutto decideva e imponeva, la mafia siciliana riparte dalle vecchie tradizioni. Ed è purtroppo un segnale di riorganizzazione, nonostante gli arresti e i processi degli ultimi tempi. Due mesi fa, i padrini di Santa Maria di Gesù che sono tornati al voto hanno ordinato ed eseguito l'omicidio di un giovane, Mirko Sciacchitano, aveva la sola colpa di avere accompagnato in moto l'autore di una spedizione punitiva. Questa mattina, i carabinieri del Ros e del nucleo Investigativo del comando provinciale hanno arrestato 6 persone. I sostituti procuratori Sergio Demontis, Francesca Mazzocco e Gaspare Spedale hanno firmato un provvedimento urgente di fermo. Perché la cosca più vecchia di Palermo era tornata ad essere la più pericolosa. A guidarla, uno scarcerato eccellente degli ultimi tempi, Giuseppe Greco. Consigliere del capo, Salvatore Profeta, uno dei boss condannati per la strage Borsellino e poi scagionati. Era tornato in attività anche un altro degli scarcerati del caso Borsellino, Natale Gambino, pure lui chiamato in causa dal falso pentito Vincenzo Scarantino. I boss di Santa Maria di Gesù non erano coinvolti nell'eccidio del 19 luglio 1992, ma erano mafiosi a tutti gli effetti. Gli investigatori li hanno intercettati all'interno di una sala da barba mentre discutono delle nuove votazioni. E si apre il dibattito, tra i fautori del voto palese e del voto segreto. Si discute di franchi tiratori e di alleanze necessarie per designare tutte le cariche all'interno del mandamento. Fra dichiarazioni di voto e rinunce alla candidatura: per Cosa nostra palermitana è il ritorno alle regole che raccontò il pentito Tommaso Buscetta al giudice Giovanni Falcone. Così, i mafiosi di Palermo provano a far rivivere l'organizzazione. Il capo del mandamento, Giuseppe Greco, veniva ossequiato con un bacio in fronte: nella nuova mafia i simboli servono a rinserrare le fila. E non erano solo nostalgici del passato: due mesi fa, i boss di Santa Maria di Gesù hanno deciso un omicidio nel giro di poche. Dopo il ferimento di una persona a loro vicina, la vendetta è arrivata severa. Con una gragnola di colpi in piazza. Così è morto Mirko Sciacchitano, aveva 29 anni. Mentre tre sicari gli sparavano, due dei vecchi padrini del clan assistevano a distanza all'esecuzione, all'interno di un'auto. C'era una microspia nella vettura. Si sentono i colpi a distanza, e uno dei boss che canticchia. In una sala da barba, i carabinieri del Ros hanno ascoltato la riunione in cui si discuteva delle elezioni. "Quando parliamo di Cosa nostra, parliamo di Cosa nostra... quando dobbiamo babbiare, babbiamo", diceva Natale Gambino. Un'intercettazione eccezionale per l'indagine coordinata dal procuratore Franco Lo Voi e dal procuratore aggiunto Leonardo Agueci. Una delle poche intercettazioni in cui i boss parlano esplicitamente di "Cosa nostra". Gambino ossequiava il padrino, Giuseppe Greco: "Tu qua rappresenti a noialtri". E chiedeva: "Ma per fare la famiglia che aspetti?". I boss sollecitavano a gran voce le nuove elezioni. "Ma io incarichi non ne voglio", spiegava Gambino. "Io voglio essere solo diretto con te, sottocapo". "La famiglia tutta dobbiamo fare per votazione", diceva anche Salvatore Profeta. E il capomafia ribadiva: "Sì, così dobbiamo fare". Gambino era per il voto palese: "Io lo do aperto". Soprattutto, per evitare altri contrasti in famiglia: "Ci ammazziamo come i cani, ma perché non lo possiamo fare ad alzata... ad alzata di mano?". E Profeta ribadiva: "Allora, alziamo la mano e li contiamo". I boss ricordano le elezioni che si facevano negli anni Settanta, quando il capomafia di Santa Maria di Gesù era il re della mafia palermitana, Stefano Bontate, poi ucciso per ordine di Totò Riina nel 1981. "All'epoca, cento, centoventi eravamo". E il vincitore delle elezioni era sempre lui, Stefano Bontate. Perché, in realtà, quelle di Cosa nostra non sono mai state libere elezioni. "Ogni cinque anni si facevano". I boss ridono. E Gambino sussurra: "Una barzelletta".

MARCO BOVA, I PM E GLI ATTI D'INDAGINE SECRETATI TROVATI IN CASA DELL'INDAGATO.

Trapani, cronista non rivela fonti dopo articolo sul Fatto.it. E il pm lo indaga. Accusa di false informazioni al pubblico ministero per Marco Bova, in seguito a un articolo sui documenti giudiziari riservati trovati negli uffici dell'ex senatore Pd Papania. Il pubblicista, sentito come persona informata sui fatti, non ha rivelato le fonti invocando il segreto professionale. Che però, secondo la Procura, vale solo per i professionisti. Nonostante diverse sentenze dicano l'opposto, scrive Giuseppe Pipitone il 14 dicembre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". Un articolo in cui si racconta dei documenti top secret trovati negli armadi di un ex senatore può costare al cronista un’indagine per false informazioni al pubblico ministero. È quello che è successo al giornalista pubblicista Marco Bova, iscritto nel registro degli indagati dalla procura di Trapani perché non ha voluto rivelare la fonte di alcune informazioni contenute in un articolo pubblicato su ilfattoquotidiano.it il 30 settembre scorso. Un pezzo in cui si raccontavano alcuni particolari emersi nell’indagine a carico di Nino Papania, l’ex senatore del Pd estromesso dalle liste alle politiche del 2013 perché considerato “impresentabile” dal comitato dei garanti del suo stesso partito. Papania è imputato a Trapani, nell’ambito di un procedimento per voto di scambio, reato che si sarebbe consumato ad Alcamo, suo feudo elettorale, alle amministrative del 2012. Come svelato da ilfattoquotidiano.it quelle elezioni erano andate in onda mentre i fedelissimi dell’ex senatore procacciavano voti in cambio di denaro e promesse di posti di lavoro. Ed è in uno dei rivoli di quell’inchiesta che gli agenti del nucleo di polizia Tributaria della guardia di Finanza hanno ritrovato alcuni documenti riservati negli uffici del politico dem. Si tratta di alcuni verbali d’interrogatorio eseguiti dalla procura di Trapani proprio nell’ambito della stessa inchiesta che coinvolge Papania, e che quindi non potevano essere nelle disponibilità dell’ex senatore. In più i documenti sono “privi di firme” e senza gli omissis inseriti successivamente dai pm: come ci sono finiti negli archivi dell’esponente Pd? Gli inquirenti sospettavano che quei verbali provenissero direttamente dai computer dell’autorità giudiziaria: come dire che il politico dem godesse di particolari favori persino nei ranghi della pg. Dopo la pubblicazione dell’articolo, il pm di Trapani Marco Verzera ha contattato Bova per interrogarlo come persona informata sui fatti. Al momento di rivelare la fonte delle sue informazioni, Bova si è però rifiutato appellandosi al segreto professionale. Per questo motivo è stato iscritto nel registro degli indagati per false informazioni: Bova infatti è giornalista pubblicista e secondo il pubblico ministero non può trincerarsi dietro il segreto professionale proteggendo la fonte, prerogativa che sarebbe riservata solo ai professionisti. In realtà, già in passato sono state emesse sentenze di senso opposto, volte cioè a estendere la possibilità di appellarsi al segreto professionale anche per i giornalisti pubblicisti. L’ultima è quella del tribunale di Palermo che ha accolto la richiesta di Maria Letizia Affronti, giornalista pubblicista e collaboratrice dell’inviata di Striscia la Notizia Stefania Petyx. Affronti era l’autrice del reportage di Striscia in cui si raccontava della barca di Diego Cammarata, l’ex sindaco di Palermo che usava come skipper un dipendente della Gesip, società del comune. Dal servizio nacque un indagine – e poi un processo – per abuso d’ufficio e truffa a carico del sindaco e dello skipper, ma la giornalista si era appellata al segreto professionale quando il legale di uno degli indagati le aveva chiesto la fonte delle sue informazioni. Da qui si è arrivati alla decisione del tribunale siciliano, che è destinata comunque a fare giurisprudenza.

Sicilia, negli armadi dell’ex senatore Papania (Pd) i verbali della sua inchiesta. In una perquisizione ai danni dell'ex parlamentare sono stati sequestrati alcuni documenti riservati: sono gli interrogatori e le intercettazioni dell'indagine sul voto di scambio ad Alcamo (Trapani), che lo vedono oggi indagato. Gli investigatori sospettano che questa documentazione sia "uscita dai computer dell'autorità giudiziaria, sicuramente non hanno seguito un percorso tradizionale", scrive Marco Bova su "Il Fatto Quotidiano" il 30 settembre 2015. Documenti riservati, che contenevano i verbali d’interrogatorio effettuati da pm e investigatori, ritrovati negli armadi di un ex senatore della Repubblica. È l’ultima novità emersa dalle indagini a carico Nino Papania, ex senatore del Pd, uno degli “impresentabili” cancellato dalle liste delle politiche 2013, oggi imputato a Trapani, dove si stanno celebrando due procedimenti sul presunto voto di scambio avvenuto alle amministrative 2012 di Alcamo, il feudo elettorale dell’ex parlamentare. A leggere gli atti della procura trapanese, pubblicati dal fattoquotidiano.it, quelle elezioni erano state effettuate mentre alcuni fedelissimi dell’ex senatore compravano voti in cambio di denaro e generi alimentari, promettendo posti di lavoro e segnando le schede. L’inchiesta (poi sfociata nei due processi) sin da subito ha investito frontalmente un sistema ben ramificato, tanto da far parlare di un meccanismo “fitto e consolidato” basato sulla raccolta di voti. In entrambi i faldoni ad esempio viene spiegato il ruolo di onlus e cooperative che si rifornivano presso il banco delle Opere di Carità, salvo poi (come ritiene l’accusa) distribuirle ai fini elettorali. Ma non solo. Perché nel tentativo di ricostruire gli aspetti finanziari della vicenda dallo scorso marzo la procura di Trapani ha aperto un nuovo fascicolo di indagine coordinato dal procuratore capo Marcello Viola e dai sostituti Rosanna Penna e Marco Verzera. Proprio nell’ambito di questa nuova inchiesta l’8 maggio gli uomini del nucleo di polizia Tributaria della guardia di Finanza hanno effettuato una perquisizione presso gli uffici della Futura 2000, una cooperativa nelle disponibilità di Papania. E’ in questi uffici che è avvenuto il ritrovamento di nove documenti riservati. Sono tre interrogatori eseguiti dalla procura di Trapani “privi di firme”: uno di questo, ad esempio, era stato integrato da numerosi omissis dai pm, ma nell’armadio di Papania è stata ritrovata la versione integrale. Poi c’è un fascicolo dei carabinieri di Alcamo “privo della firma del comandante del reparto” e sintesi di intercettazioni. Tra i documenti anche un verbale di sommarie informazioni rese da Carmelo Guido, che all’epoca era direttore della banca Don Rizzo (la locale banca di credito cooperativo) e che lo scorso 17 luglio è deceduto in un incidente stradale mentre viaggiava a bordo della sua bicicletta. Ma non solo. Perché tra i documenti ritrovati, infatti, ci sono anche esposti anonimi indirizzati al prefetto ed al procuratore capo di Trapani – inspiegabilmente nelle disponibilità di Papania – e poi un foglio manoscritto. Si tratta di una “lettera privata” sequestrata dagli investigatori per rispondere ad un altro rebus. Papania tuttora è indagato dalla direzione antimafia di Palermo per un presunto “sistema di assunzioni” all’Aimeri Ambiente, una società di smaltimento rifiuti. E’ l’inchiesta per la quale era stata chiesta al Senato l’autorizzazione all’utilizzo di alcune intercettazioni di Papania, recentemente accordata, solo per quelle precedenti al novembre 2010 (nonostante la richiesta del Tribunale di Palermo specificasse che le intercettazioni più utili erano quelle successive al novembre 2010). In questo fascicolo era stato acquisito un documento ritrovato negli uffici di Orazio Colimberti (all’epoca dirigente dell’Aimeri), un manoscritto in cui veniva chiesta la promozione di ruolo per alcuni dipendenti e la dicitura in stampatello “copiare e distruggere”. Secondo gli inquirenti quel documento era stato scritto da Papania che, oltre a disconoscerlo, si è sottratto alla perizia calligrafica. Proprio per questo il documento “privato” sequestrato nella perquisizione dell’8 maggio ha permesso ai magistrati di fare un confronto calligrafico che ha stabilito come “entrambi i documenti devono ritenersi autografi in quanto opera grafica dello stesso Papania”. Come ci sono finiti quei documenti negli archivi dell’ex senatore? Gli investigatori sospettano che questa documentazione sia “uscita dai computer dell’autorità giudiziaria, sicuramente non hanno seguito un percorso tradizionale”. E adesso si aprono, dunque, scenari preoccupanti dato che la Procura di Trapani tra l’ottobre 2012 ed il febbraio 2014 è stata al centro di alcuni strani episodi che hanno convinto la commissione parlamentare Antimafia ad ascoltare il procuratore Viola ed i sostituti Andrea Tarondo e Piero Grillo. Episodi che vanno dal ritrovamento di microspie (in un auto di servizio ed all’interno del Palazzo di Giustizia) alla violazione dell’ufficio del procuratore Viola. Di Marco Bova.

GIANNI IENNA, MAFIOSO PER FORZA.

Ienna, mafioso per forza, scrive Salvo Vitale il 10 dicembre 2015 su “Telejato”. QUELLA DI GIANNI IENNA È LA STORIA PIÙ AGGHIACCIANTE IN CUI MI SONO IMBATTUTO. QUEST’UOMO CHE OGGI HA 83 ANNI, ASPETTA ANCORA DI AVERE GIUSTIZIA ED HA ATTRAVERSATO UN TUNNEL DI ORRORI CHE SEMBREREBBERO IMPENSABILI PER UN PAESE CIVILE.

Comincia la sua carriera come carpentiere “uno di quelli che l’arte l’aveva nel sangue”, scrive lui stesso, e poiché ci sa fare, prima con lavori a cottimo, poi al servizio di noti professionisti dell’edilizia, nel giro di pochi anni diventa un affermato costruttore fino a quando non decide di mettersi in proprio, acquistando aree edificabili, con la formula della permuta (appartamenti in cambio del terreno) e realizzando diversi palazzi, che venivano poi pagati con la stipula di due compromessi, il 50% in nero, senza fattura e il 50% registrato nell’atto di pubblica vendita. Cominciano anche i contatti con i politici (Matta, Di Giuseppe), l’apertura di credito con le banche e le prime richieste di pizzo in cambio di protezione e tranquillità nell’esecuzione dei lavori.  Le richieste cominciano negli anni ’70 con Emanuele D’Agostino che gli presenta Giovanni Teresi (detto “u pacchiuni”) e poi il “principe di Villagrazia” Stefano Bontade, il quale gli dà via libera nella compravendita di terreni nella zona di via Oreto: la sua quota è di mille lire per metro quadrato e 500 mila lire per ogni appartamento: a dire del pentito Totuccio Contorno “Ienna era la gallina dalle uova d’oro”. Altri pagamenti (cinquecentomila lire al mese) vengono effettuati a Giuseppe Di Maggio, reggente della zona di Brancaccio, dove Ienna aveva deciso di costruire la sua casa. Nel 1977 nasce “L’Immobiliare San Paolo” e Ienna è ormai lanciato nella costruzione di grandi palazzi: vince anche un appalto per il completamento di un ufficio postale, di oltre quattro miliardi e a questo punto si presenta un inviato del mafioso Saro Riccobono a chiedere 50 milioni, 25 subito e 25 a metà lavoro. Con la morte di Stefano Bontade e la scomparsa dei suoi complici si presentano nuovi mafiosi, con nuove richieste, ovvero il 50% dell’utile ricavato.  Siamo nella zona di Brancaccio, dove l’esattore è Giovanni Drago (che ha confessato 52 omicidi), ma i padrini sono i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano che si presentano con una prima arrogante richiesta di 50 milioni. Sono gli anni ’80/93 in cui imperversa la guerra di mafia. Si aggiunga una richiesta mafiosa di versamento in banca di 800 milioni da convertire in titoli di stato anonimi, così da fruire di interessi semestrali da versare naturalmente ai mafiosi. “Tutto quello che mi veniva detto era scontato e , nel caso di rifiuto di eseguire gli ordini, la violenza e le minacce di morte li avvertivo ancora prima che si esprimevano nel parlare: da questo momento in poi, siamo nell’82 e sino al giugno 1994 ho pagato il pizzo sempre sotto minaccia dei fratelli Graviano: duemiliardiottocentomilioni”.  Sono i Graviano che decidono anche chi deve acquistare l’ex mulino Virga: dopo aver dato il consenso, nel giro di qualche giorno lo negano. Ienna continua a costruire alloggi, scuole poi locate alla provincia, il tutto con regolare certificazione antimafia, sotto il rigido controllo mafioso e realizza il suo più ambizioso progetto: una lottizzazione che prevede la costruzione di un grande albergo, l’Hotel San Paolo Palace e insieme 380 appartamenti più negozi e scantinati. Le cifre sono da capogiro: 23 miliardi e cinquecento milioni di Mutui Fondiari per gli appartamenti, 22 miliardi di scoperture chirografarie, 13 miliardi di mutuo a tasso agevolato per la realizzazione dell’albergo. Per la vendita degli appartamenti la tecnica è sempre la stessa, metà in nero, con semplice ricevuta e metà registrato nell’atto di vendita Tra gli acquirenti Ienna elenca anche il dott. Fiore, marito di Rita Borsellino. Dopo qualche tentativo di mettere in vendita l’albergo, Ienna decide di gestirlo in proprio. Rinuncia anche alla costruzione di un grosso lavoro di circa quattro miliardi presso l’ospedale Buccheri La Ferla per l’esosa richiesta di 500 milioni di pizzo da parte dei Graviano, i quali, ormai latitanti, continuano a mungere la “minnedda”. Invitano Ienna un incontro a Villagrazia di Carini e gli fanno questo discorso: “Ienna, noi l’abbiamo sempre rispettata perchè lei ha mantenuto gli impegni, e per questo suo comportamento e per non avere mai sbagliato nei nostri confronti riteniamo di dimezzare la richiesta e le chiediamo solo cinque appartamenti, anzichè dieci. Per due appartamenti le manderemo una coppia di coniugi e lei farà i compromessi dichiarando di avere ricevuto 15 milioni per ogni immobile e così a trance periodiche lei salderà i due appartamenti. Gli altri tre appartamenti noi non li vogliamo, li tenga lei, li venda lei, tenuto conto che ogni appartamento ha il valore di 300 milioni, tre per tre fa nove, quindi 900 milioni, cento milioni glieli regaliamo e così lei dovrà solo darci 800 milioni, come vede noi lo rispettiamo perchè lei merita”. Questa testimonianza è riportata da un memoriale inedito del sig. Ienna, il quale aggiunge: “Quindi mi regalavano i miei soldi!!!” Nei primi quattro anni, dal ’90 al ’94 l’albergo funziona a ritmo pieno ospitando alcune squadre partecipanti ai mondiali di calcio, ma anche carabinieri inviati a Palermo per l’emergenza mafia. Per non parlare delle prime riunioni fatte dalla nascente Forza Italia in alcune salette, a titolo gratuito, alle quali partecipa il giudice Giordano, quello del maxiprocesso. In un certo momento, non sono chiari i motivi, Gianfranco Miccichè, coordinatore per la Sicilia, prende le distanze. A Ienna vengono richiesti i locali, da parte dei Graviano, per un nuovo gruppo politico, “Sicilia Libera”. In una suite alloggiano la madre e la sorella dei Graviano, le quali, dice Ienna, pagano regolarmente la pensione. I suoi interessi si allargano anche a Termini Imerese, dove paga il pizzo al boss locale Giuseppe Gaeta. Il 28 luglio 1994, scatta il mandato di custodia cautelare. Con una delle loro tipiche sceneggiate una ventina di carabinieri, con allegato codazzo di giornalisti e cineprese, si presentano presso l’abitazione di Ienna, la mettono a soqquadro, e arrestano il malcapitato per concorso esterno in associazione mafiosa “buttandomi come un sacco di materia vivente”. Lo portano al San Paolo hotel, cercano, scassano porte e poi, dopo una breve sosta alla caserma di Piazza Massimo, lo scaraventano all’Ucciardone. Ienna ha il tempo di intravedere ammanettato un altro suo grande collega, il costruttore Piazza: tre giorni d’isolamento, un breve interrogatorio col giudice Garofalo e il 19 agosto, con bagaglio un sacco di spazzatura nero per i propri effetti, trasferimento, dentro il cellulare, a 40 gradi, a destinazione ignota, senza che la famiglia ne sappia niente. “Quello che ho visto quel giorno nei gabinetti fu orribile, da vergognarsi al pensiero di esserci stato”. Da Napoli prosegue il viaggio in altro cellulare, ammanettato, dentro una gabbia di un metro per un metro, sino al carcere di Ariano Irpino. Dopo un mese può rivedere la sua famiglia, può nominare un avvocato difensore, continua a girare da un carcere all’altro, mentre le sue ben 15 istanze di scarcerazione vengono rigettate. Dopo 27 mesi di carcere, senza alcuna prospettiva di un processo, Ienna esprime al giudice, tramite il suo avvocato Marcello Carmina la sua volontà di collaborare, ma il P.M, la dott.ssa Pino si lascia sfuggire la frase “Ienna per me deve morire in carcere”. L’altro PM Gozzo ritiene attendibile la collaborazione e pensa che il patrimonio dovrebbe essergli restituito. La prima scarcerazione avviene il 12 dicembre 1996. Dopo due anni e 8 mesi: a Ienna viene imposto di non rientrare a Palermo, in attesa della protezione. Cominciano minacce e attentati. Il capitano Strada, addetto alla protezione di Ienna, gli dice: “Ienna, perchè non fa il nome di Andreotti, dicendo che lo ha conosciuto qui a Palermo in diversi posti e così lei uscirà da questa storia e le ritorneranno il patrimonio”. Dopo qualche mese Strada è trasferito, mentre Ienna si rivolge all’avv. Fragalà, il quale gli consiglia di ritrattare. Finalmente si va a processo e il 22.10.1998 Ienna è condannato a 7 anni di carcere per associazione mafiosa ex art.416 bis con confisca di tutto il patrimonio. Il colpo è durissimo, ma ancora più duro è l’arrivo dei carabinieri, l’indomani, nell’abitazione di Roma, con un mandato di custodia cautelare: i giudici si spaventavano della pericolosità di questo soggetto e ne temono anche la fuga. Altro inferno a Regina Coeli, trasferimento a Lanciano, altro trasferimento a Rebibbia in isolamento per alcune settimane, altro trasferimento coatto a Reggio Calabria, senza cibo per quasi due giorni, carcere di Reggio con un rubinetto sempre aperto e acqua che attraversa il cervello. Qualcuno, per pietà, gli dà un uovo, un pezzetto di pane duro e una mela fradicia, dicendogli “Buona pasqua, più di questo non posso”. Altri 15 giorni di cella d’isolamento, un processo in cui il giudice gli chiede cosa sa del giudice Terranova e, visto che egli non sa niente, altre settimane in isolamento, trasferimento a Lanciano e, dopo due giorni, trasferimento di nuovo a Palermo, sempre in isolamento. Ienna non ce la fa più e chiede al suo avvocato Carmina cosa fare per uscire da quell’inferno. Carmina è lapidario: “Se vuole uscire dovrà cambiare la sua linea difensiva, perchè il Tribunale aspetta che lei ammetta di essere stato socio dei mafiosi. Se lei cambia rotta e dice questo tipo di verità che il tribunale vuole, sicuramente sarà scarcerato subito. Dovrà anche ammettere di essere stato anche parzialmente finanziato dai mafiosi per potere costruire quello che lei ha realizzato: faccia i nomi e vedrà che subito uscirà e le restituiranno il patrimonio. O così o pomì: se non aderisce a quanto le ho detto è pronto un altro mandato di custodia cautelare per estorsione e lei dal carcere non uscirà più”. Pur di uscire Ienna ammette colpe non sue e mentre prima, da vittima della mafia stava in carcere, adesso, da autodichiarato mafioso, si ritrova libero. A Roma riprende il suo lavoro, incappa in una serie di disavventure, mentre in appello e in Cassazione viene confermata la condanna a sei anni. Così arrivano i carabinieri, lo ammanettano e lo riportano a Rebibbia, dove tutti sanno della sua collaborazione con la giustizia e lo ritengono un traditore. Prima della fine capita che un certo Rinzivillo gli chiede per la sua famiglia, senza soldi, di cambiare un assegno di 2700 euro per pagare la rata di un mutuo e Ienna, impietosito, autorizza la sua segretaria Giovanna Guajana a pagare: conclusione: Giovanna Guaiana finisce in carcere e ci resterà cinque mesi e 12 giorni, in attesa di processo per associazione mafiosa, per avere conosciuto la cognata di Rinzivillo, che era un boss di Gela. Scrive Ienna: “La mia storia è e rimane la più travagliata, la più angosciosa storia che un uomo possa subire dalla vita e dallo Stato italiano senza nessuna prova, senza nessun riscontro, senza avere commesso nessun reato, la giustizia italiana ti distrugge la vita, la famiglia e quant’altro”. E siccome non ci sta a portarsi addosso per sempre la patente di mafioso, ovvero l’accusa di far parte di quelli che gli avevano distrutto la vita, inoltra una prima istanza di revisione del processo al tribunale di Caltanissetta, allegando la testimonianza giurata dell’avv. Carmina, quello che lo aveva indotto a confessare il falso pur di essere liberato. Caltanissetta, senza aver controllato le nuove carte, rigetta il ricorso e rifiuta di sentire i testimoni della difesa; gli avvocati ricorrono in Cassazione, dove i giudici si esprimono per una rivalutazione alla luce dei fatti nuovi prodotti. L’istanza è ancora una volta rigettata e l’ultima spiaggia rimane, dopo 21 anni, un ricorso alla Corte Europea di Strasburgo. In attesa.

USURA ED ESTORSIONE: CONVIENE DENUNCIARE? RISPONDONO LORO. ANTONIO GIANGRANDE. PINO MANIACI E MATTEO VIVIANI DE LE IENE PER I FRATELLI CAVALLOTTI E L'ITALGAS. FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.

ANTONIO GIANGRANDE. Alla domanda rispondo come dr. Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, iscritta presso la Prefettura di Taranto e per gli effetti riconosciuta dal Ministero Dell’Interno.

Per dare una risposta un po’ lunghina, ma estremamente esauriente ed esaustiva, bisogna partire dalla concezione che si ha dei mafiosi in Italia. Nel calcio, così come nella politica, specie a sinistra, vige il concetto che se si vince e si ha successo, si vale, se si perde, gli altri han rubato. Ergo: tu sei ricco e di successo, allora sei un mafioso. Così come molte associazioni antiracket ed antiusura, che non sono di sinistra o riconducibili alla CGIL, la mia associazione non è inserita nel sistema precostituito dell’antimafia Grasso-Ciotti-ANM/MD e per gli effetti vedo e denuncio le storture di una struttura mediatico-giudiziaria. Non ho il megafono dei media di sinistra col paraocchi ideologico, né tantomeno di quelli di destra, occupati ad osannare Berlusconi. Per questo non mi rimane che testimoniare il presente nei miei libri. In particolare: “Mafiopoli” e “Usuropoli e fallimentopoli”. Tornando alla domanda. La risposta la danno gli stessi protagonisti più noti della cronaca dimenticata. Mi astengo dal dilungarmi sulla mia storia. Un ristorante bruciato e dalla burocrazia mai risarcito, né fatto ricostruire. Dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Comunque in regime di sottomissione ideologica l’establishment ha altre cose da pensare rispetto a quello che il popolo anela.

PINO MANIACI. Beni sequestrati, Maniaci: “Gli dei delle misure di prevenzione”. Il direttore di Telejato è stato ascoltato in Commissione regionale antimafia. In quella sede ha presentato il suo dossier sui curatori dei patrimoni sottratti ai boss di Cosa nostra: “Sono sempre gli stessi e gestiscono patrimoni immensi. A volte con problemi di incompatibilità”, scrive Riccardo Campolo su “L’Ora Quotidiano”. “A fronte di quattromila richieste per fare l’amministratore giudiziario, vengono nominati sempre i soliti noti: Dara, Modica de Mohac, Benanti e soprattutto Cappellano Seminara. Quest’ultimo, tutt’ora, continua a gestire capitali immensi, nonostante qualche problema di incompatibilità”. Pino Maniaci, direttore di Telejato, ricostruisce per loraquotidiano.it le denunce portate davanti alla Commissione regionale antimafia durante la sua audizione dello scorso 17 dicembre. Secondo quanto riferito da Maniaci, il sistema delle misure di prevenzione farebbe acqua da tutte le parti, non rispettando il principio ispiratore della legge Rognoni-La Torre. “Non sono riuscito a scalfire con le mie denunce – ha spiegato – il sistema delle assegnazioni degli incarichi a pochi privilegiati. Quando ho riferito ciò che sapevo, mi sono reso conto che la politica era consapevole di ciò che stava succedendo. Forse i parlamentari non sono nelle condizioni di intervenire, al massimo hanno il potere legislativo per correggere”. Nessuno ha preso provvedimenti nei confronti delle persone denunciate dal direttore di Telejato? ”Non funziona così, funziona così per le persone normali, ma non per gli dei delle misure di prevenzione”. “Un lungo e intenso confronto in Commissione Antimafia regionale. Abbiamo appena finito di ascoltare Pino Maniaci, direttore di Telejato. Pino dipinge un quadro a tinte fosche, tante ombre e poche luci, ci fornisce spunti interessanti, soprattutto sulla gestione dei beni confiscati, e nei prossimi giorni ci consegnerà un dossier dettagliato che studieremo con attenzione. Gli ho detto, salutandolo, che non è solo e che deve continuare a fare il suo lavoro, il giornalista, come sempre ha fatto: con la schiena dritta e la testa alta”. Lo scrive sui social network il vicepresidente della Commissione regionale Antimafia, Fabrizio Ferrandelli. a conclusione dell’audizione del direttore della Tv di Partinico al centro di continue intimidazioni.

LE IENE. Le Iene e Mafia, antimafia e aziende che affondano. Nella puntata di giovedì 29 gennaio 2015, de Le Iene Show uno dei servizi proposti ha toccato il tema della mafia e l’inviato Matteo Viviani ha voluto raccontare la storia della famiglia Cavallotti ed ambientata a pochi chilometri da Palermo. Una vita, quella dei fratelli Salvatore, Vincenzo, Giovanni, Gaetano, dedicata a svolgere il proprio lavoro, con passione e dedizione con l’intento di lasciare ai figli un modo migliore in cui vivere, salvo poi trovarsi, da un giorno all’altro, senza nulla a causa dello stato che sottrae tutto in nome della legalità. In poco tempo vedere i frutti di anni di lavoro, mandati in fumo da qualcun’altro che è stato messo a gestire il tutto al posto di proprio dallo stato. I fratelli raccontano la loro storia sin dagli inizi: dalle idee geniali che frutta una grande molo di lavoro, all’infiltrazione della mafia che spinge per riscuotere il pizzo, fino ad arrivare ad una situazione insostenibile fatta di arresti assurdi e condanne per associazione a delinquere. Il resto ve lo facciamo vedere senza svelarvi altro, per farvi gustare a pieno quanta assurda è questa storia.

A Le Iene Show nella puntata andata in giovedì 29 gennaio 2015, Matteo Viviani racconta la storia di un’azienda di famiglia siciliana affondata dalla mafia e dal mancato sostegno dello Stato. Siamo a pochi chilometri da Palermo, nella ditta familiare gestita dai fratelli Salvatore, Vincenzo, Giovanni e Gaetano Cavallotti. Tutti e quattro hanno dedicato anima e corpo a questo lavoro per sperare di poter lasciare qualcosa ai rispettivi figli. Ma neppure la loro realtà imprenditoriale in crescita è passata inosservata alla mafia locale che ha bussato alla loro porta pretendendo il pagamento del pizzo. Da qui è iniziato un calvario in cui l’intervento dello Stato non ha fatto che peggiorare le cose. Nel 98 i Carabinieri hanno eseguito perquisizioni e arrestato le vittime della vicenda, ovvero proprio loro che erano “costretti” a pagare il pizzo. Chi ha pagato viene trattato alla stregua di complice: le banche prendono le distanze e l’attività inizia a dare segni di cedimento. A capo delle aziende sono state messe persone terze (amministratori delegati) e ai proprietari originari non resta che assistere inermi al graduale fallimento, alla distruzione inesorabile del frutto di anni di sacrifici. I contratti già in essere decadono e passano ad altre società. Ma c’è di peggio: il patrimonio di famiglia viene sequestrato in via preventiva fino a quando, sostengono le autorità, “non riusciranno a dimostrare la provenienza lecita dei beni”. La “giustizia” arriva dopo 12 anni e 4 gradi di giudizio: i Cavallotti vengono dichiarati innocenti, estranei alla Mafia. Viviani ha intervistato l’amministratore delegato per capire se veramente ha sempre agito a favore dell’azienda vittima del sequestro. Spunta una differenza sospetta di un milione di euro circa di cui i Cavallotti non hanno visto un centesimo. Se volete vedere il servizio completo su questa assurda vicenda di in-giustizia italiana cliccate nel link sotto.

Le Iene parlano dei Cavallotti, scrive Salvo Vitale su “Peppino Impastato”. Ieri sera è andato in onda Italia Uno, nel corso della trasmissione “Le Iene” un lungo e documentato servizio sui fratelli Cavallotti, su come chi dovrebbe rappresentare lo stato abbia distrutto un’azienda florida che dava lavoro a circa 200 dipendenti  e su come questa vicenda, che ormai si protrae da 16 anni, malgrado le assoluzioni del tribunale e la riconosciuta estraneità dei fratelli Cavallotti a qualsiasi  forma di collusione mafiosa, per decisione dell’ineffabile dottoressa Saguto, il magistrato che dirige l’Ufficio Misure di Prevenzione di Palermo  ancora continua . I dati e i contatti con l’azienda sono stati forniti in gran parte da Telejato Vista la complessità dell’inchiesta che l’emittente conduce da tempo, lo staff delle Iene ha deciso, per il momento di affrontare solo un’impresa, quella dei Cavallotti, ma riservandosi di portare all’attenzione  le altre malversazioni  che, su questo campo, sono consumate in nome e con l’avallo dello stato.  Davvero meschina e al di là di ogni umano senso di dignità la figura dell’ ex amministratore giudiziario Modica de Moach, che non ha saputo dare spiegazioni delle sue malversazioni e delle false fatturazioni girate a un’azienda del fratello. In pratica abbiamo assistito in diretta alle prove dimostrate di come si commette un reato, con l’avallo dei magistrati delle misure di prevenzione e come, chi dovrebbe rappresentare lo stato e tenere in piedi le aziende che gli sono state affidate, fa di tutto per distruggerle ai fini di un  utile personale. Le riprese di un’azienda con i mezzi di lavoro arrugginiti, abbandonati, con i capannoni spogli, non possono che generare tristezza. Come succede in Italia, non succede niente, anzi, se succede qualcosa, succede per danneggiare chi chiede giustizia. Come nel caso dell’ultimo recentissimo  sequestro operato ai figli dei Cavallotti, che cercavano di raccogliere i cocci dell’azienda. Questo è quello che la redazione di Telejato vorrebbe andare a dire alla Commissione Antimafia, se questa si decidesse di tenere conto della richiesta di ascoltarla, già sottoscritta da 40 mila cittadini.

La storia allucinante dei fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno, estratto da I Siciliani Giovani aprile 2014 n°19: Beni Confiscati: così non funziona di Salvo Vitale, Pino Maniaci, Christian Nasi e pubblicato su “La Nuova Belmonte”.

La Comest. Quella dei fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno è una storia allucinante. Sono cinque fratelli che, negli anni ‘90 cominciano a lavorare per alcune aziende legate al nascente affare della metanizzazione in Sicilia. Fiutano che c’è in ballo un fiume di miliardi in arrivo, si parla di 400 miliardi delle vecchie lire, specialmente da parte della Comunità Europea, che li affida alla Regione e decidono di mettersi in proprio, ognuno con una propria azienda relativa a uno specifico settore. E’ tutto in ordine, partecipano ai bandi della Regione, hanno i requisiti richiesti, cominciano ad avere numerosi appalti, specie nelle Madonie, con la clausola del possesso di una gestione trentennale, per poi tornare tutto all’Ente Committente, cioè ai comuni. Sul mercato nasce, a far concorrenza a loro l’Azienda Gas spa, per iniziativa di un impiegato regionale, di nome Brancato, il quale chiede, per fondare la società, i soldi a Vito Ciancimino, allora all’apice della carriera politica: Ciancimino si serve di un suo commercialista, Lapis, legato ai più discussi politici siciliani, da Cintola a Vizzini: viene stipulato, con l’avallo, a Mezzoiuso, dell’allora Presidente della Commissione Antimafia Lumia, un protocollo di legalità e si aprono le porte per gli appalti: unico ostacolo la Comest e le altre aziende dei fratelli Cavallotti, ma si fa presto a metterli fuori gioco: Belmonte è la patria di Benedetto Spera, uno dei più temuti mafiosi legati a Bernardo Provenzano: attraverso il collaboratore di giustizia Ilardo, infiltrato appositamente, viene trovato un “pizzino” nel quale, con riferimento a un appalto ottenuto ad Agire, è scritto: “Cavallotti due milioni”. Si fa presto a incriminare i Cavallotti, che, come tanti pagavano il pizzo, per associazione mafiosa, e a far disporre il sequestro di tutti i loro beni. Siamo nel 1998, allorchè Vito Cavallotti viene arrestato per reati legati al 416 bis, da cui, nel 2001 viene assolto. Dopo che nel 2002 la Corte d’Appello ha ribaltato la sentenza con una condanna e dopo una serie di vicende processuali, nel 2011 Vito Cavallotti è assolto definitivamente e prosciolto da ogni accusa, ma, qualche mese dopo, nei suoi confronti scattano altre misure di prevenzione personale e patrimoniale, sino ad arrivare al 22.10.2013, allorchè il PG Cristodaro Florestano propone il dissequestro dei beni e la sospensione delle misure di prevenzione nei confronti di tre dei fratelli Cavallotti: ad oggi le motivazioni della sentenza non sono state ancora depositate. All’atto della prima denuncia viene nominato come amministratore giudiziario un certo Andrea Modìca di Moach, il quale già dispone di altre nomine da parte del tribunale , oltre che essere il terminale di altre aziende, tipo la TOSA, di cui si serve per complesse partite di giro, sino ad arrivare all’Enel gas. L’ammontare dei beni confiscati è di circa 30 milioni di euro , ma ben più alto è il valore di quello che i Cavallotti avrebbero potuto incassare nei lavori di metanizzazione dei comuni, mal’azienda non è stata ancora dissequestrata, malgrado siano passati quasi tre anni, anzi, per, viene confiscata una nuova azienda di uno dei fratelli, che si è spostato a Milazzo e nel dicembre 2013 estrema beffa, viene disposto un nuovo sequestro ad un’azienda creata dal figlio, nel tentativo di risollevare la testa, la Euroimpianti plus, e l’amministrazione giudiziaria, revocata al Modìca, viene affidata a un certo Aiello, che si rifiuta di far lavorare in qualsiasi modo, il ragazzo titolare, la cui sola colpa è di essere figlio di uno che è stato indagato, condannato e poi prosciolto dall’accusa di associazione mafiosa. Gli ultimissimi sequestri riguardano un complesso di aziende edili di Vito Cavallotti, figlio di Salvatore, la Energy clima, la Sicoged la Tecnomet e la Ereka CM, una parafarmacia già chiusa dal 2013. La prima seduta svoltasi il 30.1.2014 è stata rinviata nientemeno che al 22.5 per ritardo di notifica. Tutto ciò malgrado la proclamata innocenza dei Cavallotti. Per non parlare della rovina nella quale si sono trovate circa 300 famiglie che ruotavano attorno alle aziende. Rimane ancora senza risposta la domanda di questa gente: perché questo accanimento? E il motivo è forse da ricercare nell’ingente somma che il tribunale dovrebbe pagare per risarcire queste imprese che sono state smantellate da amministratori giudiziari voraci e spregiudicati.

Questo sistema non guarda in faccia a nessuno.

ITALGAS. Italgas: il colosso commissariato dall’antimafia. A dicembre 2014 ascoltati anche i vertici Snam in commissione parlamentare, scrive Luca Rinaldi su “L’Inkiesta”. Commissariata per sei mesi dal 9 luglio 2014 da parte della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, e commissariamento prorogato di altri sei mesi lo scorso dicembre. È l’attuale situazione della società Italgas, controllata al 100% da Snam, i cui principali azionisti di Snam sono Cassa Depositi e Prestiti Reti, Cassa Depositi e Prestiti e per un altro 49% altri investitori istituzionali. È la prima volta che una società quotata subisce una misura del genere. Italgas conta 1.500 concessioni, una rete di distribuzione di 53mila chilometri e 6 milioni di utenze a cui fornisce gas per quasi 7,5 miliardi di metri cubi. Un colosso che per gli inquirenti ha però trovato tra i suoi affari anche quelli di alcune società riconducibili a cosa nostra. E il gas storicamente attrae gli interessi della mafia siciliana da Mattei ai giorni nostri. Così capita che il cane a sei zampe si trovi tra le società cui appalta la metanizzazione del Sud Italia strutture in mano a soggetti destinatari di misure di prevenzione patrimoniali in passato accusati (ma poi assolti) di concorso esterno in associazione mafiosa e altre società su cui le procure antimafia hanno messo la lente d’ingrandimento. I pm di Palermo hanno richiesto e ottenuto per Italgas il commissariamento in seguito a una inchiesta partita sulla società Gas spa, società riconducibile a Vito Ciancimino e invece gestita formalmente dall’imprenditore Ezio Brancato. La stessa Gas nei primi anni duemila risulta però essere sotto il controllo di del figlio di don Vito, Massimo, che tramite due legali, la cede alla spagnola Endesa. Nel maggio del 2013 tre società del gruppo Gas finiscono in amministrazione giudiziaria e l’inchiesta della procura di Palermo, coordinata dai pm Petralia e Scaletta prosegue. Si arriva così ai fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno, accusati di concorso esterno in associazione mafiosa, e poi assolti. Tuttavia i due sono destinatari di alcune misure di prevenzione patrimoniale. Vengono sequestrati ai due beni per il valore di circa otto milioni di euro nel dicembre 2013, e nell’inchiesta fanno capolino due società, la Imet e la Comest. Quest’ultima, che già compariva in un pizzino di Bernardo Provenzano e un’altra, la Euroimpianti, mettono nei guai Italgas. Proprio la Comest fa parte di un pacchetto di acquisizioni di Italgas, che ne prende il controllo successivamente all’amministrazione giudiziaria nel 2009. Ma la società che segna un punto di svolta per la vicenda è la EuroImpianti, che secondo la procura di Palermo sarebbe sempre riconducibile ai fratelli Cavallotti. EuroImpianti vince l’affidamento di alcuni appalti in Sicilia e Liguria e si occupa della manutezione di altre strutture controllate da Eni. Il 22 dicembre 2011 Euroimpianti entra in amministrazione giudiziaria in seguito alle inchieste della procura di Palermo, e nel luglio 2014 è il turno di Italgas, che secondo i giudici «aveva sicuramente cognizione del fatto che la Euroimpianti pur se formalmente intestata ai giovanissimi figli di Cavallotti Vincenzo e Cavallotti Gaetano, era di fatto gestita dai predetti imprenditori». Per il tribunale di Palermo ci sono sospetti di infiltrazioni mafiose all'interno di Italgas, che è anche quotata in Borsa: ora si trova affidata a un amministratore giudiziario. Sullo sfondo della vicenda una interdittiva antimafia atipica nei confronti della Euroimpianti arriva il 2 novembre del 2011 dalla procura di Messina. L’interdittiva atipica, presente nell’ordinamento italiano e ora non più in vigore dopo l’approvazione del codice antimafia del 2013, faceva accendere una spia nei confronti di un’azienda che prendeva parte a un appalto, ma senza effetti immediati: l’appaltatore può discrezionalmente valutare se interrompere o meno il rapporto. Per il tribunale di Palermo ci sono sospetti di infiltrazioni mafiose all'interno di Italgas, che è anche quotata in Borsa: ora si trova affidata a un amministratore giudiziario. A ricostruire la vicenda è Luca Schieppati, per tre mesi amministratore delegato di Italgas prima del commissariamento, in audizione alla Commissione Parlamentare Antimafia. L’11 novembre del 2014 Schieppati si siede davanti alla commissione parlamentare antimafia per riferire sulla vicenda Italgas. Esordisce specificando che «il racconto di questa sera è quello di una persona che, fino al 10 aprile 2014, era direttore generale operations di SNAM Rete Gas, dopodiché dall'11 aprile è stato in Italgas, dove in questi tre mesi esatti, dall'11 aprile 2014 all'11 luglio 2014, non ha mai saputo di questa vicenda». Fatto sta che dopo la sospensione EuroImpianti viene riabilitata nell’ottobre del 2012: per 14 mesi la società non ha partecipato a gare di Italgas, poi riprende il servizio. Arriva il commissariamento anche per Italgas nel luglio 2014. «misura - dice Schieppati in audizione - che ha colto Italgas di sorpresa, perché non ci era mai pervenuta, prima di quella data, nessuna richiesta né alcuna informazione relativamente ai fatti». Viene sentito anche Leonardo Rinaldi, Ex amministratore delegato di Gas Natural Distribuzione Italia SpA, altra società che ha portato le indagini dei pm su Italgas, ma la sua audizione in commissione è rimasta secretata. A dicembre vengono sentiti in commissione anche Paolo Mosa, amministratore delegato di Snam Rete Gas e Carlo Malacarne, Amministratore delegato di Snam, i quali ricalcano le parole di Schieppati sulla sorpresa del provvedimento di commissariamento, e indicano che la società ha già avviato un monitoraggio interno per la selezione delle ditte che partecipano agli appalti. Malacarne, amministratore delegato di Snam: «Non solo non ne ero al corrente, ma non è nel mio compito normale essere al corrente di un rapporto fra la società che ha l'indipendenza operativa e i suoi appaltatori». «Mi sento di dire - ha riferito Malacarne ai commissari - che ci sono state delle carenze, sicuramente, a livello locale, localizzate. Queste carenze vanno comunque individuate». E ancora «Il discorso di Eurimpianti Plus e Cavallotti l'ho letto nella notifica. Non solo non ne ero al corrente, ma non è nel mio compito normale essere al corrente di un rapporto fra la società che ha l'indipendenza operativa e i suoi appaltatori. Io non ne ero al corrente non solo nel 2009, ma neanche nel 2014. Questo discorso di Cavallotti l'ho letto, ma non ne ero assolutamente al corrente. Lo dico molto sinceramente». Uno scarico di responsabilità che forse chiarisce ancora poco i rapporti tra le società in gioco, cioè Italgas e quelle dei Cavallotti. Dopo sei mesi, dal giugno al dicembre 2014 i commissari di Italgas e i giudici sembrano non vederci ancora chiaro e, come riporta La Stampa, in Italgas permangono «condizioni di potenziale agevolazione degli interessi di soggetti collegati alla criminalità organizzata» mentre il pm «ha rappresentato di aver in corso il completamento di ulteriori attività investigative». È uno dei passaggi del provvedimento, secondo quanto riferito da chi ha visionato i documenti, con il quale il tribunale di Palermo ha prorogato per altri sei mesi il commissariamento della società controllata da Snam Rete Gas. In sostanza le indagini della procura di Palermo non si sono fermate, e si è in cerca di altri elementi utili, in particolare su negligenze nella gestione del sistema informatico degli appalti. Letta dunque la relazione degli amministratori giudiziari (Sergio Caramazza, Luigi Giovanni Saporito, Marco Frey, Andrea Aiello), depositata lo scorso 18 dicembre e fatta propria dai giudici nel provvedimento del 24, avrebbe fatto emergere in particolare una serie di carenze nel sistema di concessione degli appalti per i lavori sulla rete. I commissari: in Italgas permangono «condizioni di potenziale agevolazione degli interessi di soggetti collegati alla criminalità organizzata». Carenze, scrive ancora La Stampa, in grado di avere impatti negativi sul budget e sui conti della società. Proprio alla luce di queste carenze, i pm avevano chiesto e ottenuto nel novembre scorso il sequestro dei dati storici del sistema che gestisce gli appalti dell’intero gruppo Snam, al fine di «estrarre» i contratti relativi a Italgas. A poco è servito, secondo il giudice, l’attività posta in essere da Snam , che lo scorso 13 dicembre aveva a sua volta proposto una serie di misure per eliminare i problemi riscontrati dagli amministratori. Insomma, il rischio che Italgas rientri tra gli appetiti di cosa nostra è ancora alto e i giudici dicono che i commissari nella stessa Italgas che genera un terzo dei ricavi del gruppo Snam, pari a 1,3 miliardi di euro, devono restarci almeno fino al prossimo luglio.

«Ringrazio Riccardo Spagnoli e Matteo Viviani per avere, per la prima volta, portato a conoscenza degli italiani una verità che ancora oggi nei media, nelle aule di Tribunale, financo in Commissione Nazionale Antimafia si tenta di mistificare. Ringrazio anche il dott. Antonio Giangrande per avere ora - come in passato - trattato in maniera imparziale e professionale la storia della mia famiglia. Un ringraziamento particolare va a Pino Maniaci per avere per primo dato ascolto alla richiesta di aiuto della mia famiglia - scrive sul suo profilo Facebook Pietro Cavallotti - Ciò che più dà fastidio non è tanto il costatare che i sacrifici di due generazioni sono andati in fumo perché non siamo mai stati attaccati ai beni materiali; non è tanto vedere che un amministratore giudiziario si è impunemente arricchito sulle tue spalle con l'avallo - non so se consapevole o meno - del giudice che lo ha nominato, che ne avrebbe dovuto controllare l'operato e al quale avevamo a tempo debito segnalato le irregolarità compiute da questo signore amministratore. La cosa che più ci mortifica è continuare ad essere accostati alla mafia nonostante una sentenza di assoluzione passata in giudicato. Per chi ha subito le vessazioni della mafia nell'attività di impresa, financo nella vita privata non c'è nulla di peggio che essere accostati alla criminalità mafiosa. La mafia ci fa schifo! Noi siamo assolutamente lontani dalla logica mafiosa della prepotenza e della prevaricazione. Noi giovani abbiamo vissuto la nostra infanzia tra aule di Tribunale e case circondariali. Ma non abbiamo mai perduto la speranza nella giustizia. Pensavamo che l'assoluzione dei nostri padri ci avesse restituito la dignità che il fango di quelle infamanti accuse ci aveva tolto. Ci siamo messi in gioco e, ispirandoci ai valori che ci sono stati trasmessi dai nostri padri - l'amore per lavoro, il senso della legalità, il rispetto per il lavoratore che abbiamo sempre anteposto al bene personale - abbiamo costituito con le nostre mani una società che con impegno e sacrificio siamo riusciti a far crescere producendo il benessere per le famiglie dei nostri collaboratori e una aspettativa di vita migliore per noi stessi. Pensavamo di avere recuperato quello che la cattiva giustizia aveva tolto a noi e ai nostri padri. Avevamo per un attimo accarezzato il pensiero di vivere in un Paese civile. Ma evidentemente ci sbagliavamo. Nel 2012, infatti, viene sequestrata la nostra azienda. Sapete perché? Perché l'amministratore giudiziario che si vede nel video ha fatto una segnalazione al Tribunale dicendo che la nostra società faceva concorrenza alla Comest. Nel provvedimento di sequestro si continua a ripetere che i nostri padri sono vicini alla mafia. Ma come si può dire una cosa del genere a fronte di una sentenza ampiamente assolutoria? Ed ecco che proprio quando pensi di esserti rimesso in carreggiata, precipiti di nuovo in basso. Ti ritrovi isolato, emarginato dai media e da qualcuno che fino a poco prima ritenevi essere amico, tutto intorno terra bruciata. Siamo letteralmente impossibilitati nella ricerca di trovare un lavoro. Nessuno è disposto ad assumerci per paura di ripercussioni giudiziarie. Sono addirittura stati capaci di porre in amministrazione giudiziaria la Italgas perché questa ha avuto dei regolari rapporti commerciali con la nostra società che, secondo l'accusa, sarebbe riconducibile ai fratelli Cavallotti "vicini ad esponenti di spicco della criminalità organizzata". Questo ci ferisce e ci sconforta. Con la massima - e forse ingenua - fiducia nelle istituzioni, mandiamo una lettera alla Commissione Nazionale antimafia chiedendo di essere ascoltati per chiarire la vicenda giudiziaria della nostra famiglia e i rapporti che ci sono stati tra la nostra società e la Italgas, esprimiamo la più ampia disponibilità a collaborare per l'accertamento della verità. Ad oggi non ci è stata data alcuna risposta. Qualcuno potrebbe dire <<le colpe dei padri non devono ricadere sui figli>>. Ma talvolta nello sconforto ci chiediamo: quale sarebbe la colpa dei nostri padri? La loro colpa è forse quella di essere innocenti? Quella di avere subito le minacce della mafia in un periodo storico in cui opporvisi significava sottoscrivere la propria condanna a morte? Noi siamo orgogliosi di tutto quello che i nostri padri hanno fatto, di tutto quello che ci hanno insegnato. Ci dicono che noi siamo i prestanome dei nostri padri. Cosa falsa. Noi portiamo con orgoglio il loro nome e non lo prestiamo! E se la conseguenza dell'amore che noi proviamo nei loro confronti deve essere quella di portare insieme a loro questa croce noi siamo disposti a farlo, mai abbandonando la fiducia nella giustizia che siamo certi, prima o dopo, arriverà. L'auspicio è che giornalisti seri come Antonio Giangrande, Pino Maniaci, Marco Salfi, le stesse Iene, tutti gli altri protagonisti della antimafia vera (come Salvo Vitale), tutti i protagonisti della lotta contro tutte le mafie - per dirla con il dott. Giangrande -, tutti gli uomini liberi non asserviti al potere e non inclini a fare aprioristicamente da eco alla voce delle procure, possano ancora impegnarsi per far luce sul malaffare che ruota attorno al sistema criminale delle misure di prevenzione, dietro il quale spesso si nasconde e si arricchisce impunemente sotto il manto della legalità la criminalità meglio organizzata».

La Mafia dell’Antimafia: l'inchiesta di Telejato audita in Parlamento, scrive Pino Maniaci su “Change”. C’è ancora un business di cui non si parla, un business di milioni di euro. Il business dell’Antimafia. Quattro mesi dopo il brutale assassinio di Pio La Torre, nel 1982, viene approvata la legge Rognoni-La Torre, che consentiva il sequestro e la confisca di quei beni macchiati di sangue. Finalmente, lo Stato aveva le armi per attaccare gli ingenti patrimoni mafiosi. Nel ’96 grazie a Libera nasce la legge 109 che disponeva l’uso sociale dei beni confiscati alla mafia, e finalmente terreni, case, immobili tornano alla comunità. Tutto bellissimo. Nella teoria. Qualcosa però non funziona. Questi beni, sequestrati, confiscati, falliscono l'uno dopo l’altro. Il 90% di imprese, aziende, immobili, finisce in malora spesso prima ancora di arrivare a confisca. A non essere rispettata e ad aver bisogno di una riforma strutturale è la Legislazione Antimafia - Vittime della mafia e relativo Decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159. Parliamo di aziende e imprese sequestrate perché di dubbia legalità: aziende che forse furono acquistate con proventi mafiosi, o che svolgono attività illecito-mafiose, e che per chiarire questo dubbio vengono poste sotto sequestro ed affidate alla sezione delle misure di prevenzione del Tribunale competente. In questo caso, parliamo del Tribunale di Palermo, che amministra la grande maggioranza dei beni in Sicilia. I beni confiscati sono circa 12.000 in Italia; di questi più di 5000 sono in Sicilia, circa il 40%. La maggior parte nella provincia di Palermo. Si parla di un business di circa 30 miliardi di euro, solo qui a Palermo. Questi beni sotto sequestro vengono affidati a un amministratore giudiziario scelto dal giudice del caso, che dovrebbe gestirlo mantenendolo in attività e tenerlo agli stessi livelli che precedevano il sequestro. Questa fase di sequestro secondo la legge modificata nel 2011 non deve superare i 6 mesi, rinnovabile al massimo di altri 6, periodo in cui vengono svolte le dovute indagini e si decide il destino del bene stesso: se dichiarato legato ad attività mafiose esso viene confiscato e destinato al riutilizzo sociale; se il bene è pulito viene restituito al precedente proprietario. Purtroppo la legge non viene applicata: il bene non viene mantenuto nello stato in cui viene consegnato alle autorità, né vengono rispettate le tempistiche. In media il bene resta sotto sequestro per 5-6 anni, ma ci sono casi in cui il tempo si prolunga fino ad arrivare a 16 anni. L’albo degli amministratori competenti che è stato costituito nel gennaio 2014 per legge dovrebbe essere la fonte da cui vengono scelti questi soggetti: in base alle competenze e alle capacità. Ma la scelta è arbitraria, effettuata dai giudici della sezione delle misure di prevenzione. Ritroviamo molto spesso la solita trentina di nomi, che amministrano decine di aziende e imprese. E non per capacità, perché la maggior parte di quei beni falliscono durante la fase di sequestro. Anche se poi vengono dichiarati esterni alla vicenda e gli imputati assolti da tutte le accuse. Telejato, la piccola emittente televisiva comunitaria siciliana che gestisco dal 1999 e che da allora non ha mai smesso di denunciare e lottare contro la mafia, ha sede a Partinico e copre un bacino d’utenza caratterizzato storicamente da una forte presenza mafiosa. La dichiarazione di fallimento e la messa in liquidazione dei beni confiscati è la strada più facile per gli amministratori, perché li esonera dall’obbligo della rendicontazione e consente loro di “svendere” mezzi, attrezzature, materiali, anche con fatturazioni non conformi al valore reale dei beni, girando spesso gli stessi beni ad aziende collaterali legate agli amministratori giudiziari. La pratica di vendere parti delle aziende stesse mentre sono ancora sotto sequestro, è abbastanza consolidata, e ci si ritrova con aziende svuotate e distrutte ancor prima del giudizio definitivo, che sia di confisca o di dissequestro. Questi sono solo alcuni esempi, alcune storture del sistema; ma molti sono i casi che riflettono un problema strutturale: una legge limitata, da aggiornare, che non permette gli adeguati controlli e conduce troppo spesso al fallimento dei beni per le - forse volute - incapacità del sistema. Posso fare nomi, esempi, citare numeri e casi. Chiedo alla Commissione Antimafia di essere audito per esporre questa inchiesta che stiamo portando avanti a Telejato, con notevole fatica, perchè non abbiamo nessuno al nostro fianco.

La famiglia Cavallotti è solo la punta dell'iceberg, scrive Pino Maniaci su “Change”. I fratelli Cavallotti, sono stati assolti con sentenza definitiva dalla infamante accusa di concorso esterno in associazione mafiosa con la formula "perchè il fatto non sussiste". In riferimento all’assoluzione dei fratelli Cavallotti il dott. De Lucia ha dichiarato che tale pronuncia giudiziale “come tutte le sentenze di assoluzione, però, deve essere letta. Una serie di dati processuali lì non hanno trovato, per una serie di questioni di natura formale, soddisfazione”. Ebbene, i fratelli Cavallotti sono stati assolti non per “questioni di natura formale”, ma perchè, a seguito di un lungo e complesso procedimento penale, sono stati ritenuti vittime e non complici della mafia per i motivi di cui adesso si dirà. Gli elementi da cui è scaturito il processo penale sono gli stessi su cui si basano le misure di prevenzione avverso le quali pende ricorso in Cassazione. Si tratta di una serie di pizzini e di dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia che, se interpretate correttamente, dimostrano come le imprese dei fratelli Cavallotti, piuttosto che essere state avvantaggiate illecitamente dalla mafia, alla stregua di tutte le imprese operanti in Sicilia negli anni '80 e '90 - periodo della massima recrudescenza del fenomeno mafioso - sono state costrette a pagare il pizzo e a subire furti e danneggiamenti nei propri cantieri, tutti denunciati alle autorità competenti. I Cavallotti non hanno mai partecipato al sistema di spartizione illecita degli appalti (c.d. "Accordo Provincia") ideato dal Siino; ciò è dimostrato in maniera irrefutabile dall'elenco dei lavori che il gruppo Cavallotti ha svolto dalla data della costituzione della prima società di capitali alla data del sequestro, dal quale si evince che mai alcuna impresa riconducibile al gruppo Cavallotti si è aggiudicata lavori di importo superiore ad un Miliardo di lire indetti dall'Anas o dalla Provincia tra la seconda metà degli anni ottanta e il 1991 - periodo della riferita operatività dell'accordo suddetto avente ad oggetto, come spiegato dallo stesso Siino, la spartizione dei lavori indetti da Anas e Provincia di valore superiore ad un Miliardo di Lire . Quanto poi alla non meglio precisata - e perciò suggestiva - “documentazione riferibile a Bernardo Provenzano, che parla di appalti all'epoca di natura miliardaria, che riguardavano il gruppo Cavallotti” cui ha fatto cenno il dott. De Lucia secondo il quale tale documentazione avrebbe avuto “una valorizzazione diversa in sede processuale, ma questo non toglie che quel materiale trova nuovo utilizzo nella misura di prevenzione attualmente pendente”, può essere di aiuto alla comprensione della vicenda processuale ricordare che si tratta di missive dattiloscritte inviate dal Provenzano all’Ilardo e da questi consegnate al Colonnello Riccio. In queste missive si fa cenno, da una parte, ai lavori di metanizzazione dei comuni di Agira e Centuripe, eseguiti dalle società dei fratelli Cavallotti, dall’altra, alla Cooperativa “Il Progresso”, di cui a breve si dirà. Il carteggio in parola va letto - ed è stato valorizzato dai giudici del processo penale - come pagamento del pizzo, e ciò per le seguenti ragioni. Le gare per i lavori per la metanizzazione dei comuni di Agira e Centuripe sono state indette e aggiudicate a Palermo dalla Siciliana Gas. Queste missive sono del seguente tenore:

1- "Ti prego se puoi mettere a posto questi tre bigliettini che ti mando che cadono tutti e tre nella Provincia di Enna dammi risposta di quello che fai".

2- "Imp. Coop. Il Progresso deve fare un lavoro a Piazza Armerina - devono fare il consolidamento Pile sul Fiume Gela sotto il viadotto Fontanelle al km 48 strada Statale 117 bis importo 500 m circa questo lo cominceranno verso fine Febbraio 95. Imp. Cavallotti. Lavoro Gas Agira dopo Leonforte Provincia di Enna. Imp. 4 ml. Imp. Cavallotti. Lavoro Gas Centuripe Provincia di Enna Imp. 4 ml. Dammi risposta se li raccomandi o nò".

Va precisato che nel gergo mafioso con l'espressione "raccomandazione", come affermato incidentalmente nella sentenza che ha assolto dalla accusa di turbativa d’asta il sig. Pavone, titolare della Cooperativa “Il Progresso” menzionata nello stesso bigliettino, si intende fare riferimento alla messa a posto. Pur non contenendo una datazione, tali missive vengono fatte erroneamente risalire all'Ottobre del 1994 così da essere collocate, nella prospettazione accusatoria, in epoca antecedente alla aggiudicazione dei lavori (Dicembre 1994). Inoltre, la Cassazione ha stabilito che le dichiarazioni dell’Ilardo e le sintesi delle stesse contenute nella relazione del Riccio (dove si fa cenno al dato temporale) sono inutilizzabili perché ritenute prove formate in violazione di legge in assenza del contradditorio. Ma non è tutto. Sulla base di una nota "regola di mafia", se Provenzano avesse voluto favorire l'aggiudicazione dei lavori ai Cavallotti, avrebbe dovuto rivolgersi al referente locale della consorteria mafiosa competente su Palermo - luogo, nel quale vengono indette e aggiudicate le gare - e non di certo all'Ilardo, referente della famiglia mafiosa di Caltanissetta ed Enna. Viceversa, l'indirizzamento delle missive all'Ilardo dimostra, in verità, ancora una volta, che Provenzano faceva riferimento alla messa a posto. E ciò risulta compatibile con una ulteriore "regola di mafia" secondo la quale la riscossione del pizzo compete alla famiglia del luogo in cui i lavori vengono eseguiti. Alcune delle concessioni ottenute con regolare procedura dai Cavallotti, dopo il loro arresto avvenuto nel 1998, sono state sottratte alla Comest, già in amministrazione giudiziaria, e affidate, senza alcuna gara con il c.d. "patto di legalità" siglato dall'allora prefetto Profili, proprio alla Gas s.p.a., in corrispondenza dello stanziamento dei fondi europei per la metanizzazione della Sicilia al fine di, come si legge nell’atto prefettizio, “prevenire e reprimere ogni possibile tentativo di infiltrazione della malavita organizzata nel mercato del lavoro, nella fase di aggiudicazione degli appalti e negli investimenti, nonchè nello svolgimento dei lavori presso i cantieri e nell’esercizio delle attività produttive”. Con riferimento a questa operazione è di interesse, inoltre, riportare le dichiarazioni rese da Massimo Ciancimino presso il Tribunale di Palermo alla presenza dei magistrati dott. Ingroia e dott. Di Matteo il 09/07/2008: "si erano occupati insieme anche di fare levare l'aggiudicazione della, dei lavori dell'impresa quella dei Cavallotti per farla aggiudicare sempre all'impresa Brancato - Lapis". L'allora Presidente della Commissione Antimafia Giuseppe Lumia in data 17/06/2000 partecipava a Mezzojuso alla inaugurazione dei lavori di metanizzazione eseguiti dalla Gas s.p.a. spiegando al suo uditorio la necessità di coniugare lo “sviluppo con la legalità”. Nel processo di appello del processo di prevenzione il Procuratore Generale, Florestano Cristodaro, ha chiesto la revoca delle misure di prevenzione sia personali che patrimoniali ritenendo ancora una volta i Cavallotti "vittime della mafia" ed invitando i giudici a "leggere serenamente le carte processuali". Ora, se un Procuratore della Repubblica italiana, ha chiesto di revocare le misure di prevenzione, ciò significa, che con riferimento alla vicenda dei Cavallotti non è ravvisabile neppure l'indizio della loro vicinanza alla mafia; E se questo dato così significativo viene letto insieme alla sentenza di assoluzione definitiva la conseguenza non può che essere una: i Cavallotti non hanno mai avuto nulla a che fare con la mafia! Veniamo adesso all'audizione della commissione Nazionale Antimafia nella quale sul sequestro Italgas sono stato audito il dott. Dario Scaletta “Belmonte Mezzagno è un paesino della provincia di Palermo, per chi non lo conoscesse, ed è il paese di Benedetto Spera, un noto esponente mafioso assicurato alle patrie galere”) del dott. De Lucia (DE LUCIA: “(a) Belmonte Mezzagno, un paese di poche migliaia di anime, (i Cavallotti) sono ben noti sia per le capacità imprenditoriali sia per il tipo di rapporti che hanno con la criminalità mafiosa in quel territorio, che è stata per anni rappresentata dal braccio destro di Bernardo Provenzano, Benedetto Spera”), dell’On.le Lumia (LUMIA: “Belmonte Mezzagno, un comune dove agiva un boss mafioso del calibro di Benedetto Spera, che stava nel Gotha mafioso insieme a Provenzano e a Giuffrè”). Sembra quasi che le imprese gestite da cittadini belmontesi siano per ciò stesso dotate, in chiave indiziaria, di un marchio registrato che ne certifica l’origne criminale. Questo modo di argomentare che segue il noto detto di “fare di tutt’erba un fascio” è inamissibile oltre che offensivo nei confronti di una intera comunità cittadina. Vale la pena di ricordare che Belmonte Mezzagno non è soltanto il paese che ha dato i natali a Benedetto Spera, ma il paese in cui vivono e da cui provengono centinaia di lavori infaticabili e imprenditori onesti che lottano tra mille difficoltà a fianco dei propri collaboratori non soltanto contro la crisi economica ma anche contro un pregiudizio che talvolta fa più male della crisi. Belmonte Mezzagno, “per chi non lo conoscesse”, è il paese di artisti, di musicisti e sportivi di fama internazionale, dei migliori studenti dell’Università di Palermo. Continueremo con la Nostra battaglia e vi preghiamo di sostenere la petizione.

FRANCESCO DIPALO. Imprenditore di Altamura, testimone di giustizia, minaccia di darsi fuoco, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Un testimone di giustizia, Francesco Di Palo, ha minacciato di darsi fuoco nella serata di ieri davanti alla Prefettura di Monza, procurandosi comunque delle ustioni alle mani con liquido infiammabile. Francesco Di Palo è un imprenditore di Altamura, diventato testimone di giustizia e recentemente uscito dal programma di protezione. Tuttavia lui e la sua famiglia continuano a sentirsi in pericolo. Di Palo era il titolare della 'Venere srl' di Matera, società che produceva vasche idromassaggio, dichiarata fallita un anno prima che l’imprenditore decidesse di denunciare alla magistratura barese i soprusi subiti dalla mala altamurana e il presunto intreccio tra mafia, politica e Forze dell’Ordine. A causa delle ristrettezze economiche derivanti dal suo status di testimone di giustizia, l’uomo ha più volte protestato pubblicamente contro il ministero dell’Interno e la procura di Bari. Nell’ottobre 2011 chiese di uscire dal programma di protezione perchè – disse ai giornalisti – il Viminale non gli pagava più l’affitto della casa nella località protetta in cui viveva: per questo, il 27 ottobre 2011, protestò con un megafono davanti al tribunale di Bari dove era giunto in treno ("senza pagare il biglietto") e senza scorta. Raccontò che anche i suoi tre figli erano tornati a casa, ad Altamura. «Ero disposto a tutto per la giustizia, ma sono stato buttato al vento come un pezzo di carta. Protesto – disse in quell'occasione ai cronisti – per dire a questa procura che i testimoni di giustizia sono trattati come pezze per pulire le scarpe».

Altamura: nuove minacce per i fratelli Di Palo  Scritte intimidatorie contro il giornalista ed il testimone di giustizia, scrive Savino Percoco su “Antimafia Duemila”. Lo scorso dicembre 2014, all’indomani di alcune denunce, testimoniate in diretta radiofonica ai microfoni di Radio Regio Stereo, Alessio e Francesco Di Palo, sono stati destinatari di minacciose frasi intimidatorie scritte su alcuni muri della città di Altamura. Non è la prima volta che i due fratelli, entrambi molto attivi nella lotta contro la criminalità organizzata, sono destinatari di inquietanti messaggi o minacce. In passato sono stati vittime anche di violente aggressioni fisiche e verbali ed hanno subito danni anche su alcuni beni mobili. Alessio è giornalista e conduttore radiofonico e nei suoi programmi denuncia senza timore il malaffare mafioso e le sue connessioni. Francesco invece è un ex imprenditore e titolare della Venere S.r.l. di Matera, produttrice di vasche idromassaggio, divenuto testimone di giustizia dopo aver coraggiosamente denunciato i suoi estorsori. Dal dicembre 2009 su richiesta del pm antimafia Desirèe Digeronimo, oggi consigliere comunale di Bari, è entrato nel programma di protezione, iniziando così la dura vita dei testimoni di giustizia in località protetta fatta di segretezza, difficoltà economiche e limitazioni di movimenti e spostamenti. Nonostante ciò nei loro confronti regna un certo silenzio. Nessuno, tra i media, ha dato risalto alle intimidazioni subite ed anche tra le istituzioni sono latitanti nell'esprimere vicinanza verso questi due uomini che a distanza di anni, continuano il duro commino in nome della giustizia e della legalità. Francesco Di Palo, assieme al fratello, qualche mese fa ha presentato una serie di esposti alla Procura della Repubblica di Bari, denunciando continue estorsioni ai danni di imprenditori, commercianti ed artigiani altamurani. Nella sua denuncia Di Palo ha spiegato come, a suo parere, vi sia una nuova famiglia criminale che sta prendendo il controllo sulle attività estorsive un tempo condotte dal boss Bartolomeo Dambrosio, trucidato da 50 colpi di arma da fuoco nelle campagne altamurane il 6 settembre del 2010. “Inoltre sono stati inviati esposti - aggiunge Francesco - con i quali abbiamo denunciato fatti gravi e penalmente rilevanti che vedono coinvolti imprenditori deviati di Altamura, affiliati al clan Dambrosio e ad un clan di Bari. Non abbiamo più avuto notizie. Mai in nessuna Procura d’Italia un Testimone di Giustizia non è stato convocato dai Magistrati dopo aver denunciato fatti gravi e penalmente rilevanti. Mai in nessuna Procura della Repubblica d’Italia un soggetto che denuncia una organizzazione criminale per estorsioni, non è convocato dai magistrati per confermare le denunce rese e/o approfondire i fatti oggetto delle stesse denunce”. Alla luce di ciò, qualche settimana fa i due fratelli lanciarono un appello dagli studi di Radio Regio Stereo indirizzato al Prefetto di Bari, chiedendo non solo un intervento a riguardo ma anche spiegazioni per il mancato scioglimento del Consiglio Comunale di Altamura per condizionamento mafioso.Su quest’ultio punto, l’ex imprenditore ricorda importanti deposizioni rilasciate agli inquirenti dalla vedova del boss Bartolomeo Dambrosio (oggi testimone di giustizia) riguardo presunti coinvolgimenti tra mafia, imprenditoria e politica altamurana. Nello specifico, risalta i punti e afferma “che il Sindaco di Altamura Mario Stacca chiedeva al boss supporto per le sue campagne elettorali …  il Presidente del Consiglio Comunale di Altamura, si recava a casa del boss per chiedere sostegno per la sue candidature a consigliere comunale di Altamura … e che gli amministratori e politici Altamurani erano quasi tutti nel libro paga del Columella”.

A tutela delle sue accuse, il testimone di giustizia fa riferimento anche ad alcune intercettazioni telefoniche apparse sui giornali, tra il figlio di Carlo Dante Columella (patron della discarica di Altamura) e il Presidente del Consiglio comunale di Altamura Nico Dambrosio, quando “parlavano delle presunte mazzette che i Columella pagavano al segretario del sindaco tanto che quest’ ultimo era definito dagli intercettati, mani viola (dal colore delle banconote da 500 euro. Nelle stesse intercettazioni si faceva riferimento a presunte mazzette che andavano anche al Sindaco Stacca”. Il senso di solitudine da parte del testimone di giustizia si manifesta anche dopo un ulteriore atto intimidatorio nei suoi confronti, avvenuto negli ultimi tempi. “Uno dei principali indagati per Mafia murgiana, recentemente raggiunto da nuova ordinanza di custodia cautelare per reati di mafia - spiega Francesco - ha persino lanciato, tramite una rete televisiva privata, una sorta di petizione per non farmi mettere più piede ad Altamura. Tutto questo nella più assoluta indifferenza delle Autorità Giudiziarie. Io ho sacrificato la mia famiglia, le mie aziende, il futuro dei miei figli perché ho creduto nella Giustizia e la Procura di Bari non risponde alle mie missive: ma lo Stato con chi sta?”.

Francesco Dipalo: "Io, testimone di giustizia contro la Mafia Murgiana". La lettera dell’imprenditore: “Entrati nel programma di protezione, un incubo senza fine". Pubblichiamo di seguito la lettera inviata al direttore Giorgio Bongiovanni di “Antimafia duemila” da Francesco Dipalo, testimone di giustizia di Altamura che ha denunciato i clan della Mafia Murgiana.

«Egregio Direttore, chi Le scrive è un Imprenditore di Altamura che alcuni anni fa denunciò una organizzazione criminale denominata Mafia Murgiana che imponeva il pizzo al sottoscritto e ad una intera classe imprenditoriale. A seguito delle mie dichiarazioni rilasciate alla DDA di Bari e dopo sei anni di indagini, la dottoressa Desirèe Digeronimo, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bari, e il dott. Roberto Pennisi Sostituto Procuratore della Direzione Nazionale Antimafia, applicato alla DDA di Bari, chiesero ed ottennero dal GIP di Bari il rinvio a giudizio di numerosi soggetti tra i quali figuravano, affiliati al clan Dambrosio di Altamura, imprenditori deviati, esponenti delle forze dell’ordine, professionisti, politici ed amministratori pubblici accusati a vario titolo di associazione mafiosa, omicidi, occultamento di cadavere, detenzione illegale di armi da guerra e relative munizioni, estorsione, usura, detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, sfruttamento della prostituzione, rapimento (per avere rapito un imprenditore di Altamura rilasciato per aver pagato un riscatto) ecc. Sempre dalle mie denunce si svilupparono altri filoni di indagini che consentirono al Tribunale di Lecce (competente su quello di Bari), di rinviare a giudizio una ventina di soggetti tra i quali figuravano magistrati togati, giudici di pace, avvocati ecc. tutti accusati di aver pilotato sentenze in favore del boss Bartolomeo Dambrosio e dei suoi affiliati. Sempre dalle mie denunce si sono sviluppati altri filoni di indagini tra i quali vi sono quello della sanità pugliese, e delle escort. Il mio vero dramma ha inizio quando, su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di Bari e della Direzione Nazionale Antimafia, io e la mia famiglia, esattamente 5 anni fa fummo inseriti nello speciale programma di protezione e condotti in località segreta. Da allora per tutta la mia famiglia ha avuto inizio un incubo senza fine. Siamo stati umiliati, derisi, vessati, maltrattati e ci siamo sentiti dire anche che rompevamo i coglioni quando contestavamo comportamenti irresponsabili, ingiustificati ed ingiusti messi in atto da funzionari del Ministero dell’Interno nei confronti di soggetti che in questa maledetta storia sono solo vittime. È stato distrutto il futuro affettivo dei miei figli che hanno dovuto lasciare amici e parenti per essere destinati all’isolamento più totale. Una delle mie figlie solo dopo pochi mesi non sopportava più lo stato di solitudine e di sofferenza a cui era sottoposta e tornò a casa ad Altamura. Come se tutto ciò non bastasse, da quando sono stato sottoposto allo speciale programma di protezione, il Servizio Centrale di Protezione non ha provveduto a notificarmi gli atti giudiziari. Nel frattempo alcuni dei soggetti arrestati e/o rinviati a giudizio, mi avevano querelato per diffamazione e/o reati simili. A seguito delle predette querele, sono stato rinviato a giudizio, processato e condannato in contumacia dai giudici di pace di Altamura mentre io ero all’ oscuro di tutto. Io non sapevo neanche di essere stato querelato. Ovviamente gli imputati hanno utilizzato le condanne inflitte in contumacia al sottoscritto dal giudice di pace di Altamura per tentare di screditarmi nei processi nei quali erano imputati. Ad un testimone di giustizia sotto protezione in una località segreta, lo Stato non gli ha notificato gli atti giudiziari. Mi è stato impedito di esercitare il diritto di difesa nei processi. Con gli atti e i documenti in mio possesso, avrei potuto dimostrare ai giudici di pace che le querele sporte nei miei confronti dagli affiliati al clan Dambrosio erano pretestuose e facevano parte di una strategia difensiva finalizzata a screditarmi. Ma vi è di più: lo Stato non mi ha concesso di presenziare nei processi nei quali sono persona offesa e mi sono costituito parte civile contro i miei estorsori, contro soggetti accusati di reati gravi come omicidi, ecc. Mi è stato impedito di puntare il dito contro i miei estorsori. Inoltre mi è stato impedito di poter raggiungere altre procure per acquisire atti a mia firma di procedimenti penali a carico di altri soggetti da me denunciati, e che erano strettamente attinenti ai procedimenti penali in corso a Bari. Il risultato è che i colletti bianchi della mafia murgiana sono stati assolti. Uno dei principali imputati assolti, solo poche settimane dopo la sentenza di assoluzione è stato raggiunto da una nuova ordinanza di custodia cautelare per reati simili. Lo Stato mi ha impedito di esercitare il diritto di difesa nei processi ed ha agevolato le posizioni processuali di soggetti legati ad una potente organizzazione criminale che da oltre un decennio ha condizionato la vita sociale ed economica di una intera comunità. Ora sono tornati a delinquere più forti di prima grazie alla inerzia dello Stato. Ovviamente il sottoscritto ha provveduto ad inviare al Ministro dell’Interno, oltre che al vice Ministro, una serie di esposti con i quali denunciavo tutto quello che si stava verificando e che stavano inclinando i processi a beneficio degli imputati. Nessuno mi ha mai risposto. Si sta per volgere al termine il processo in Corte di Assise a Bari nei confronti di tutti gli altri affiliati al clan e al sottoscritto non è stato concesso di presenziare ad una sola udienza. Si continua ad impedire ad un testimone di giustizia di presenziare alle udienze. Ma nonostante le decine di esposti che ho inviato a mezzo raccomanda a/r al Ministro Alfano, mai nessuna risposta mi è pervenuta e nessun provvedimento e stato adottato per consentirmi di avere giustizia. Ho anche denunciato al Ministro Alfano con decine di missive, che nonostante i processi in corso, nonostante le indagini tuttora in corso, il Servizio Centrale di Protezione ha reso pubblica la mia residenza nella località dove attualmente vivo e nessuna tutela è stata predisposta per la mia famiglia ed in particolare nei confronti di mia figlia che vive ad Altamura. Non mi ha mai risposto. Ora tutti sanno che vivo a Monza. Ho scritto decine di missive ai Prefetti di Bari e di Monza e Brianza con le quali ho chiesto se sono in state attuate misure di tutela idonee a garantire la incolumità dalla mia famiglia. Nessuno mi ha mai risposto. Si continua a favorire le posizioni processuali di esponenti della mafia murgiana e il Ministro Alfano non risponde. Egregio direttore, in questo Paese per garantire la incolumità dei propri cari che rischiano di essere lasciati nelle mani dei carnefici, bisogna ricorrere ad atti estremi. Questo è lo Stato. Cordialità. Francesco Dipalo»

LUIGI ORSINO. Vittime di camorra abbandonate dallo Stato – L’invito a denunciare il racket è una trappola? Scrive “Pensare Liberi”. Ci ritroviamo a parlare di malagiustizia, ma questa volta la protagonista indiscussa è la camorra. Abbiamo raccolto la testimonianza di un nostro concittadino napoletano che riporteremo integralmente nel presente articolo. Questa vuole essere una denuncia nei confronti della politica, delle istituzioni, della magistratura, delle forze dell’ordine e nei confronti di quei cittadini collusi e quindi omertosi. Sappiamo tutto, i vari “stacci tu qua e poi vediamo se fai l’eroe!” Bene, la storia che portiamo oggi alla luce parla proprio di un caso eroico, di chi ha detto no alla camorra, di chi ne ha pagato pesantissime conseguenze, di chi non trova dalla sua parte nemmeno l’opinione pubblica, i media, o famosi giornalisti o scrittori. Perchè quando si fanno i nomi, quando dal generico si passa al pratico, allora le cose si fanno davvero serie. Questo articolo non diverrà un best-seller, ma bisogna avere il coraggio di denunciare soprattutto i casi reali e stringersi intorno a questi. Tutti devono sapere cosa accade a un nostro concittadino nel momento in cui cade in questo vortice di violenza e disumana realtà. Belle parole? Vediamo se siamo bravi anche con i fatti? Ci incontriamo per strada a parlarne da uomini? Questa storia, come tante altre, dimostra come lo Stato sia completamente assente nel momento in cui bisogna difendere i cittadini che hanno avuto il coraggio di denunciare il racket. Politicamente scorretto dirlo? Denunciare il racket è un dovere? Solo così si può sconfiggere la camorra? L’omertà… di chi? Slogan di un certo effetto, di quelli che suscitano gli applausi delle platee… peccato che spesso questo invito a denunciare il racket si riveli solo una ingegnosa, quanto sospettosamente premeditata, trappola mortale. I fatti parlano in questi termini. Lo Stato? Assente ingiustificato…Veniamo al coraggioso e disperato racconto del protagonista cittadino Luigi Orsino e della sua famiglia. «La nostra attività imprenditoriale (mia e di mia moglie Esposito Giuseppina) inizia nel 1979, all’epoca eravamo studenti, con l’apertura di un piccolo negozio di mobili in Portici (Na). Nel tempo la nostra attività si ingrandì e arrivammo a possedere 2 aziende, una ditta individuale ed una S.r.l., proprietarie di 3 negozi di abbigliamento in Portici, di un grosso negozio di arredamenti sempre in Portici e di un ancor più grande negozio di arredamenti in Sant’Anastasia. Ovviamente avevamo molti dipendenti ed eravamo divenuti benestanti. Comperammo una villa al mare in Calabria, due proprietà a S. Sebastiano al Vesuvio (villa con giardino e dependance con giardino), un appartamento di lusso ad Ercolano e due appartamenti in pieno centro di Roccaraso ( circa 130 mq + 60 mq), un locale commerciale in Portici. Ad un certo punto entrammo nelle mire del clan Vollaro che pretese cifre sempre più consistenti per farci lavorare in pace, ovviamente ad ogni nostra resistenza corrispondevano minacce, atti intimidatori e attentati. L’esosità degli estorsori ci costrinse a ricorrere all’aiuto finanziario di una persona, che credevamo essere nostro amico e con cui effettivamente intrattenevamo rapporti di amicizia a livello familiare, tale individuo si offerse di prestarci il denaro per poter tacitare le richieste estorsive dei camorristi. In seguito questa persona, noto professionista napoletano, si rivelò essere un avido usuraio che in complicità con altri svolgeva questa ignobile attività. In seguito l’usuraio si rivelò essere un personaggio molto pericoloso ed aggressivo, arrivando a minacciarmi con una pistola ed a vantarsi dei suoi stretti legami con il feroce clan camorristico dei Vollaro. Quest’individuo arrivò a pretendere interessi che, fatti i dovuti calcoli e grazie ad un perverso meccanismo, arrivano a raggiungere finanche il 400%. Sempre questo viscido personaggio, quando non potei onorare prontamente i prestiti, si appropriò con minacce ed atti violenti delle mie proprietà di Ercolano e di Roccaraso, una vera e propria estorsione perpetrata usando la violenza per vincere la mia riottosità. L’eccessiva avidità dei camorristi e del loro affiliato, e forse una sopravvalutazione delle mie disponibilità finanziarie, causarono il tracollo economico delle mie aziende ed il loro conseguente fallimento. Ovviamente tutti i miei beni furono pignorati a favore dei creditori, tra cui per altro avevano avuto la sfacciataggine d’inserirsi anche gli usurai. Il Giudice delle esecuzioni immobiliari del Tribunale di Nola si rifiutò di voler considerare il caso nel suo insieme e ritenne che non era sua competenza valutare i risvolti penali (intanto avevo denunciato il tutto alla Procura della Repubblica), in tal modo equiparava il mio caso, di fatto, ad un fallimento doloso, quanto in realtà  era sempre stato, e tale riconosciuto dallo stesso tribunale fallimentare, fallimento semplice non fraudolento. E’ pur vero che il giudice è tenuto a salvaguardare i diritti dei creditori ma è altrettanto vero che egli è tenuto a verificare la validità dei crediti vantati. Tra i miei creditori vi sono gli usurai e banche che si sono comportate come usurai e continuano a farlo tutt’ora. Le banche hanno applicato l’anatocisma finchè la legge non ha comparato tale pratica all’usura, ora applicano comunque pratiche che fungono da moltiplicatore del debito, va, inoltre considerato che le stesse banche hanno commesso atti illegali, dimostrati, ma su cui il Giudice civile non ha mai indagato. Il G.E. Si è limitato a dichiararsi incompetente a ripartire tra i creditori il ricavato delle vendita all’asta dei miei beni, compreso la casa in cui abito con la famiglia. Veniamo al risvolto penale della vicenda: Nel 2004 presentammo denuncia alla Procura della Repubblica contro usurai ed estorsori, tale denuncia, su consiglio pro bono di un giovane legale, tracciava per grandi linee la vicenda perché ci aspettavamo di essere convocati da un magistrato per poter scendere nei particolari. La denuncia fu presentata alla Procura e non alle locali forze dell’ordine perché negli anni precedenti si erano verificati episodi di collusione tra tali organismi e la malavita organizzata, i fatti ebbero grande rilevanza e furono promosse azioni giudiziarie, inoltre noi stessi avemmo a costatare strani comportamenti. Ascoltati dai CC di San Sebastiano rendemmo  dettagliata deposizione circa i fatti riguardanti l’usura ma fummo più vaghi sugli estorsori, per le ragioni già dette. Dal 2004 al 2010 nessuno ci ha ascoltato, ad eccezione dei CC 2 volte, in ogni caso mai nessun giudice, ed anzi la procedura è stata divisa in due tronconi, uno per l’usura ed uno per l’estorsione, nonostante noi avessimo dimostrato che i reati erano contigui e perpetrati da personaggi in complicità tra loro, Proc. N° 52969/05 e 11335/10. A giugno del 2010 il Giudice che si occupava delle indagini sull’usura ha archiviato la procedura senza neanche avvertirci, privandoci del nostro diritto di fare opposizione. Inoltre non si spiega come mai lo stesso magistrato, su nostra richiesta ci abbia concesso i benefici previsti dall’art. 20 della legge 44/1999 (il 25/11/2010) che prevede la sospensione dei termini esecutivi per le vittime della criminalità organizzata, riconoscendoci, dunque, tale status, e poi poco dopo (comunque prima dello scadere dei canonici 300 gg) archivia il tutto, bloccando in tal modo la nostra richiesta di poter accedere ai fondi di solidarietà destinati alle vittime di camorra. Veramente la spiegazione è che il Signor Giudice in 5 anni non ha fatto indagini ma ha tenuto la pratica a raccogliere polvere, dopo di che dovendo rispondere della sua ignavia si è cavato d’impaccio archiviando. La motivazione dell’archiviazione “ perché non eravamo credibili in quanto esistevano rapporti antecedenti con gli usurai” è una vera beffa. Tali rapporti li avevamo già riferiti noi nella nostra denuncia, specificandone la natura e furono proprio tali rapporti a far conoscere agli usurai la nostra florida situazione finanziaria, (l’usuraio era il nostro commercialista sin dal lontano 1979, mai avevamo prima sospettato la sua vera attività). Ancora maggiormente inspiegabile è l’archiviazione della procedura contro gli usurai se si considera il fatto che abbiamo prodotto prove non solo testimoniali (testimonianza mia e di mia moglie) ma anche prove documentali incisive e verificabili. Resta in piedi la procedura contro gli estorsori, ma l’archiviazione della procedura contro gli usurai non fa ben sperare. Nel frattempo tutti i miei beni sono stati venduti forzosamente dal Tribunale, la casa in cui abitiamo è stata anch’essa venduta e il 07 settembre u.s. l’Ufficiale Giudiziario , con l’appoggio della forza pubblica, mi voleva gettare materialmente per strada, solo le mie precarie condizioni di salute lo hanno costretto a rinviare al 19 ottobre 2011, quando interverrà un’ambulanza per sgomberarmi senza correre il rischio di essere denunciati per tentato omicidio. In quale modo noi si possa sopravvivere senza più una casa, senza un lavoro, nell’indigenza più assoluta, io gravemente cardiopatico, con tre by-pass, e mia moglie malata anch’essa, nessuno mi ha mai spiegato. Tutti gli sforzi fatti in questi anni per rientrare nel tessuto produttivo (vari tentativi di iniziare una nuova attività) sono stati vanificati dall’aggressività dei criminali che mi hanno perseguitato e continuano ancor oggi. Nel tempo abbiamo subito minacce, intimidazioni ed attentati di ogni genere: spari contro i nostri esercizi (molte volte), furti di automezzi carichi di merce, spari conto la mia casa e la mia vettura, furti negli esercizi, rapimento di mio figlio (durato pochi minuti per fortuna), auto con mia moglie a bordo spinta fuori strada, percosse a me e a mia moglie, uccisione del nostro amato cane a colpi d’arma da fuoco. E ultime in ordine di tempo atti vandalici contro la mia vettura (settembre 2010), un ordigno incendiario gettato nel cortile di casa (07/12/2010) che ha causato un principio d’incendio da me domato con un estintore, dopo di che sono intervenuti i CC. Il 3 gennaio 2011 un messaggio anonimo contenente una minaccia, scritto su un biglietto d’auguri, è stato lasciato nella buca delle lettere. Il 17 gennaio 2011 un individuo introdottosi nel giardino di casa ha aggredito mia moglie,verso le ore 19, picchiandola e poi spingendola per le scale interne al giardino stesso. Evidentemente i malavitosi vogliono mantenere costante la pressione su di noi ed anzi rincarano vieppiù la dose. Il 21/03/2011 un individuo aggredì in giardino mia moglie ponendo in essere un tentativo di strangolamento. Lo stato economico attuale è disastroso, viviamo della carità del Comune (ogni tanto ci paga qualche bolletta) e della Chiesa di San Sebastiano al Vesuvio che ci fornisce pacchi alimentari. Faccio notare che per volere del comitato per l’ordine e la sicurezza siamo sottoposti a protezione di tipo 4, cioè i Carabinieri della locale caserma passano più volte al giorno a controllare che non vi siano pericoli incombenti. Sicuramente la costanza e la tenacia del Comandante la stazione di San Sebastiano al Vesuvio e dei militi ai suoi ordini ha evitato che nuove e,  forse più gravi, violenze fossero commesse a nostro danno. Ci risulta incomprensibile come sia possibile proteggerci se saremo in ridotti a vivere in strada (realmente, non retoricamente). Come è incomprensibile che la polizia si mobiliti in otto, dico otto, agenti, alcuni della DIGOS per sfrattarci mentre contemporaneamente il Comandante dei CC e il suo vice erano presenti per garantirci la protezione. Una assurda ed incomprensibile contraddizione. Il prossimo 19 ottobre l’ufficiale giudiziario accompagnato probabilmente da un plotone di poliziotti, con l’ambulanza pronta nel caso mi dovesse venire un altro infarto mi butteranno in strada, con la famiglia, a calci nel di dietro. Se fossi stato il boss Provenzano forse mi avrebbero trattato meglio. E’ molto facile fare i forti con i deboli, salvo poi a farsi deboli con i forti. Luigi Orsino»

“DENUNCIA IL RACHET. TI CONVIENE.” A questo punto sembra più una minaccia che un invito. Vogliamo fare luce su un particolare che ci ha colpito molto e che, a nostro avviso, rappresenta la chiave del “problema camorra” e nello stesso tempo la sua vera forza. La collusione tra questa e le istituzioni, ma soprattutto, la collusione tra camorra e cittadini. Chiunque, inaspettatamente, può rivelarsi un camorrista, anche il più insospettato e insospettabile amico di famiglia. In questo caso è venuta fuori la figura di un commercialista il cui vero lavoro è quello di segnalare alla camorra le aziende che fatturano bene e che vanno a gonfie vele, arrotondando con attività di estorsione, mentre il lavoro contabile è soltanto una copertura. Che questo principio entri bene nelle nostre teste. Il nemico non è soltanto fuori.

PINO MASCIARI: «Costretto a sparire e autoproteggermi perché abbandonato dalla scorta in Calabria», scrive Roberto Galullo su “Il Sole 24Ore”. Il suo telefono cellulare torna raggiungibile 19 minuti dopo la mezzanotte ma il Sole-24 Ore riesce a mettersi in contatto con Pino Masciari – il testimone di giustizia calabrese che per oltre 36 ore era scomparso a Cosenza – solo alle 9.31 di oggi. Ha la barba lunga e sta poco al telefono. «La scorta mi ha detto che non mi avrebbe riportato a casa. Mi ha girato le spalle e se ne è andata. A quel punto ho dovuto tutelarmi e sono stato costretto a fare tutto da solo senza dare notizie a nessuno, neppure a mia moglie. Mi sono mosso da solo e non nascondo che nel primo tratto di strada mi hanno riconosciuto e sono stato preso dal panico. Con mezzi di fortuna mi sono messo all'opera per tornare a casa, a Torino, dove sono giunto ieri sera tardi». In altre parole, come lui stesso scrive sul sito, «mi sono sentito costretto ad auto-proteggermi e a tornare a casa, non ritenendo giusto di esporre i civili che mi stavano accompagnando in quanto versavo, per l'ennesima volta, privo di protezione in terra di Calabria». Da quel momento ha staccato il cellulare perché, dice, «sarebbe stato possibile essere rintracciato da chiunque». A casa l'aspettavano moglie e figli che – a quanto dichiara al Sole-24 Ore lo stesso Masciari - nulla sapevano. E che per 36 ore hanno cercato di avere notizie. E che per 36 ore nulla hanno intuito se è vero che la coniuge di Pino ha cercato di averne in ogni modo e che ancora nel pomeriggio di ieri aveva un rappresentante del servizio scorte di Torino accanto a lei in casa. Notizie sulla sua scomparsa che - a quanto si apprende solo questa mattina nel momento in cui è stato pubblicato il comunicato stampa nel sito di Pino Masciari – la prefettura (di Torino? Di Cosenza?, non è dato sapere visto che manca l'intestazione) sapeva. E lo Stato (qualunque fosse la prefettura) non le ha comunicate alla moglie? A quanto sembra no anche se è umanamente difficile da credere. Alle ore 9 di ieri mattina la prefettura ha infatti ricevuto questo comunicato spedito via fax dallo stesso Masciari: «Oggetto: Urgente Comunicazione Giuseppe Masciari. La presente, quale documento ufficiale, è per comunicare che in questo momento sono a Cosenza, Calabria, e sono stato " abbandonato" dal personale di scorta, con la conseguenza che sto provvedendo di rientrare a Torino con mezzi pubblici o di fortuna. Vani sono stati i tentativi di contattare il personale di scorta di riferimento di ………… . Pertanto mi rivolgo a Lei per un intervento immediato che tuteli la mia persona e per denunciare il susseguirsi di mancate condizioni di sicurezza che avvengono, in particolar modo in Calabria, e che mi espongono a serio rischio. Reputo le autorità preposte responsabili se dovesse accadere qualcosa alla mia persona. Cordialità» . Questa la nuda cronaca (conclusiva o dovremo aspettarci la versione dello Stato, attraverso le spiegazioni del Viminale?) di due giornate delle quali non si sentiva francamente il bisogno.

Chi è Giuseppe Masciari?

Il mio nome è Giuseppe Masciari, un imprenditore edile calabrese, nato a Catanzaro nel 1959. Sono stato sottoposto a programma speciale di protezione dal 18 ottobre 1997, insieme a mia moglie (medico odontoiatra) e ai miei due bambini. Dal 2010, fuoriuscito dal Programma Speciale di Protezione, vivo sotto scorta. Ho denunciato la ‘ndrangheta e le sue collusioni con il mondo della politica. La criminalità organizzata ha distrutto le mie imprese di costruzioni edili, bloccandone le attività sia nelle opere pubbliche che nel settore privato, rallentando le pratiche nella pubblica amministrazione dove essa è infiltrata, intralciando i rapporti con le banche con cui operavo. Non ho accettato le pressioni mafiose dei politici e del racket della ‘ndrangheta. Il sei per cento ai politici e il tre per cento ai mafiosi, ma anche angherie, assunzioni pilotate, forniture di materiali e di manodopera imposta da qualche capo-cosca o da qualche amministratore, pretese di regali di appartamenti e costruzioni gratuite, finanche acquisto di autovetture: questo fu il prezzo che mi rifiutai di pagare. Fummo allontanati dalla nostra terra per l’imminente pericolo di vita in cui ci siamo trovati esposti, insieme alla mia famiglia. Da quando operavo nella mia attività con le mie aziende, non mi sono arreso mai ai soprusi della ‘ndrangheta, mi ribella, riferisco tutto all’Autorità Giudiziaria e denuncio; tanto fu ferma la mia scelta di non cedere ai ricatti che  arrivai al punto di dover chiudere tutte le mie imprese licenziando nel settembre 1994 gli ultimi 58 operai rimasti.

Ingresso nel Programma Speciale di Protezione. Il 18 Ottobre 1997 io, mia moglie Marisa e i miei due figli appena nati entrammo nel programma speciale di protezione e scompariamo dalla notte al giorno: niente più famiglia, lavoro, affetti, niente più Calabria. Testimonio nei principali processi contro la ‘ndrangheta e il sistema di collusione, quale parte offesa costituendomi come parte civile. Divento “il principale testimone di giustizia italiano”, così definito dal procuratore generale Pier Luigi Vigna. Inizia il CALVARIO: accompagnamenti con veicoli non blindati, con la targa della località protetta, fatto sedere in mezzo ai numerosi imputati denunciati, intimidito, lasciato senza scorta in diverse occasioni relative ai processi in Calabria, registrato negli alberghi con il mio vero nome e cognome, senza documenti di copertura. Troppi episodi svelano le falle del sistema di protezione che dovrebbe garantire sicurezza per me e la mia famiglia.

Lo Stato istituisce la figura del testimone di giustizia. 2001. Con la legge 45/2001 si istituisce la figura del testimone di giustizia, cittadino esemplare che sente il senso civico di testimoniare quale servizio allo Stato e alla Società. Il 28 Luglio 2004, la Commissione Centrale del Ministero degli Interni mi notifica che “sussistono gravi ed attuali profili di rischio, che non consentono di poter autorizzare il ritorno del Masciari e del suo nucleo familiare nella località di origine. Ritenuto che il rientro non autorizzato nella località di origine potrebbe configurare violazione suscettibile di revoca del programma speciale di protezione”.

Revoca del programma speciale di protezione. Il 27 Ottobre 2004, tre mesi dopo, la stessa Commissione Centrale del Ministero degli Interni mi notifica il temine del programma speciale di protezione. Tra le motivazioni si indica che i processi erano terminati. Cosa non vera: i processi erano in corso e la D.D.A. di Catanzaro emetteva in data , 6 febbraio 2006 successiva alla delibera, attestato che i processi era in corso di trattazione.

Ricorso contro la revoca. 19 Gennaio 2005, faccio ricorso al TAR del Lazio contro la revoca, azione che mi permette di rimanere sotto programma di protezione in attesa di sentenza.

Il programma cessa in ogni caso. 1 Febbraio 2005, senza tenere conto del ricorso già in atto, la Commissione Centrale del Ministero dell’Interno delibera ancora una volta di “ invitare il testimone di giustizia Masciari Giuseppe ad esprimere la formale accettazione della precedente delibera ricordando che alla mancata accettazione da parte del Masciari, seguirà comunque la cessazione del programma speciale di protezione”.

Non posso testimoniare ai processi. Il 19 Maggio 2006, il mio legale invia una nota alle Autorità competenti per segnalare che i Tribunali erano stati notiziati “della fuoriuscita del Masciari dal programma di protezione” e che pertanto non risultavo essere più soggetto a scorta per accompagnamento nelle sedi di Giustizia. Mi sono recato ugualmente nei processi con senso di DOVERE, accompagnato dalla società civile.

Sentenza del TAR: diritto alla sicurezza. Gennaio 2009, dopo 50 mesi a fronte dei 6 mesi stabiliti dalla legge 45/2001 art.10 comma 2 sexies-, il TAR del Lazio pronuncia la sentenza riguardo il ricorso e stabilisce l’inalienabilità del diritto alla sicurezza, l’impossibilità di sistemi di protezione o programmi a scadenza temporale predeterminata e ordina al Ministero di attuare le delibere su sicurezza, reinserimento sociale, lavorativo, risarcimento dei danni. Per tramite del mio legale faccio richiesta formale dell’ottemperanza della sentenza.

Sciopero della fame e della sete. Aprile 2009 Non avendo ricevuto nessuna risposta dalla Commissione Centrale del Ministero dell’Interno, annuncio la volontà di cominciare il 7 aprile lo sciopero della fame e della sete, fintanto che non vedrò rispettati i diritti della mia famiglia ancor prima che i miei. Lo sciopero della fame è l’ultima risorsa, supportata dlla società civile e dagli “Amici di Pino Masciari” vista l’urgente necessità di tornare a vivere che dichiarano: «Grazie a Pino Masciari abbiamo imparato ad amare lo STATO. Dodici anni di sofferenza e esilio sono un prezzo altissimo che i Masciari hanno pagato con dignità, senza mai rinnegare la scelta fatta. E’ ora che questo STATO riconosca loro quanto dovuto. Noi, Società Civile, non possiamo accettare questa scelta senza lottare fino all’ultimo istante al fine di evitare l’ennesimo estremo sacrificio della famiglia Masciari. Basta una firma, e la volontà di apporla. Per i cittadini, lo STATO e la Costituzione. Per la Famiglia Masciari.» Il 14 maggio termina lo sciopero della fame e della sete a seguito dell’impegno preso dalla Presidenza della Repubblica attraverso la nota del 12 maggio, che da quel momento mi  assegna scorta e tutela adeguata e ulteriori vetture di staffetta, che mi hanno accompagnato.

Due eventi preoccupanti. Il 21 luglio 2009, sul davanzale della mia ex sede della ditta di costruzioni (attualmente ufficio legale di mio fratello), a Vibo Valentia, è stato ritrovato un ordigno inesploso. Il 19 agosto l’abitazione in località segreta nella quale risiedo con la mia famiglia, è stata violata. In questo caso si è trattato probabilmente di ladri comuni (cosa comunque gravissima, a riprova della vulnerabilità cui siamo soggetti), nel precedente è stata invece la ‘ndrangheta, che ricorda di non avere fretta, non dimentica.

L’uscita dal Programma speciale di protezione. Nel 2010 ho concordato la conclusione del Programma Speciale di Protezione in comune sintonia con il Ministero dell’Interno, dando cosi inizio ad una nuova fase della mia vita e quella della mia famiglia, con le Istituzioni e la società civile al mio fianco. Oggi vivo alla luce del sole, pur rimanendo “sotto scorta”.

L’inizio di una nuova vita. «”Quando istituzioni e società civile si assumono le proprie responsabilità lo Stato vince. In questo credo e continuo a credere ed è per questo che sono certo che la mia vicenda si concluderà con la giusta reintroduzione sia in ambito lavorativo che sociale ed umano“.» In questi anni ho girato l’Italia, ho solidarizzato con i familiari delle vittime di mafia ed altre associazioni, persino oltre confine, sono stato a raccontare la mia storia in numerosissimi istituti scolastici e incontri organizzati dalla società civile. Inoltre ho ottenuto la cittadinanza onoraria di molte città.  E infine, si è deciso – insieme a mia moglie – di raccontare la nostra storia in un libro. Si intitola “Organizzare il coraggio. La nostra vita contro la ‘ndrangheta”, lo ha pubblicato la casa editrice torinese “Add”.

COSIMO MAGGIORE. L’ultimatum del testimone di giustizia Cosimo Maggiore: “Mi hanno lasciato solo”, scrive Paolo de Chiara il 14 gennaio 2015 su “19 luglio 1992”. “Nella mia azienda non entrerà nessuno. Io non sono come loro, sono una persona perbene. Ho ricevuto una proposta indecente: fare un accordo con la mafia. Cosa devo fare per uscire da questa drammatica situazione? Devo rivolgermi ad un usuraio? Devo fare il gioco dei mafiosi che ho denunciato? Devo vendere la mia anima al diavolo, alla Sacra Corona Unita? Non ho ritirato le mie denunce, neanche dopo le innumerevoli pressioni. Ho mandato in galera i miei estorsori. Continuerò su questa strada, sino alla fine. Sino alla morte”. Cosimo Maggiore, il testimone di giustizia che ha sfidato la mafia pugliese, è determinato, fermo sulle sue posizioni. “Meglio la morte, che perdere la dignità”. Non vuole e non cerca compromessi. Abbiamo già raccontato la sua drammatica storia (Il Testimone di giustizia abbandonato dallo Stato, restoalsud.it), ma nulla è cambiato. Cosimo è un imprenditore (si occupava di infissi), vive a San Pancrazio, in provincia di Brindisi, dove risiede la figlia del capo di Cosa Nostra, Totò Riina. Ha avuto il coraggio di dire no nel suo territorio, stretto da una morsa mortale, quella della Sacra Corona Unita, la mafia sotterranea, di cui pochi si occupano. Una delle mafie più pericolose presenti in Italia, che opera nel silenzio e nel disinteresse generale. Maggiore ha rotto questo muro di omertà, ha denunciato, ha testimoniato. Ha indicato con il dito i suoi aguzzini, ha fatto i nomi e i cognomi. Ha permesso allo Stato di condannare questi pericolosi delinquenti, assassini senza scrupoli. “Grazie alle mie dichiarazioni lo Stato si è imposto con la legge, con la legalità. Ora lo stesso Stato mi ha lasciato solo. Oggi (lunedì 12 gennaio 2015, ndr) entreranno nel mio capannone, messo all’asta per il mancato rispetto di una legge dello Stato (legge 44 del 1999, ‘Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura’), ma io non rinuncerò a lottare. Dovranno prima uccidermi”. Dopo le denunce è iniziato il suo percorso ad ostacoli. “Sto combattendo la mia battaglia anche contro le Istituzioni”. Poco attente, distratte e insensibili, soprattutto nei confronti dei testimoni di giustizia, che non hanno nulla a che fare con i collaboratori. Due figure diverse: i primi, semplici cittadini che hanno fatto il proprio dovere attraverso la denuncia; i secondi, già appartenenti a consorterie mafiose (definiti anche ‘pentiti’) e con dei reati sulle spalle. “Ho scritto al presidente della Repubblica, al Ministro degli Interni, al Presidente del Tribunale di Brindisi, al Generale dei Carabinieri. L’Arma è l’unica Istituzione che mi è stata vicina. Gli altri non hanno risposto ai miei appelli, al mio grido di aiuto”. Ma perché il capannone di Maggiore è andato all’asta? Non è riuscito a pagare i suoi creditori, “nemmeno il giudice civile ha accettato la sospensione (articolo 20, legge 44 del ’99)”. L’asta è stata vinta da un unico partecipante “legato alla criminalità. Ho chiesto informazioni, un mio amico mi ha riferito dei legami di sangue con Roberto Maci, fratello di Vito, appartenente alla delinquenza locale. Sono stanco di combattere inutilmente, la mia scelta è stata fallimentare. Ogni volta che rilascio un’intervista devo subire anche le pressioni di alcuni soggetti. Mi arrivano anche continui messaggi per le cose che scrivo quotidianamente su Facebook. Ho tutti contro, maledetto il giorno che ho denunciato”. Cosimo ha tentato anche la strada del dialogo con il “prestanome”. Tutto inutile. “Ho visto l’ufficiale giudiziario salire sulla macchina del boss della Scu, denunciato da me e condannato a due anni di carcere. Non mi sento più un testimone di giustizia, ma una vittima dello Stato”. Il testimone di giustizia pugliese è sconfortato, ha perso fiducia. Il dovere di ogni cittadino è denunciare, sempre e comunque. Costi quel che costi. L’unica arma è allearsi con lo Stato, almeno per mettere i bastoni tra le ruote a questi ripugnanti delinquenti. Cosimo Maggiore è pentito della sua scelta, porta avanti da solo la sua battaglia. “Per entrare dovranno chiamare un fabbro. La mia reazione dipenderà dalle loro azioni. Mi farò ammazzare, meglio morto che senza dignità”.

Si barrica nella sua azienda venduta all’asta e tenta il suicidio, l’imprenditore che denunciò il racket: “Vaffanculo Stato”. L’intervista realizzata da Maristella De Michele su “Brindisi Oggi”. Ha perso tutto, ora anche la sua azienda venduta all’asta. Questa mattina i nuovi proprietari hanno cambiato il lucchetto e si sono appropriati dell’azienda di Cosimo Maggiore, l’imprenditore di San Pancrazio Salentino che nel 2008 denunciò i suoi estorsori, ritenuti elementi di spicco della Sacra Corona unita di Torre Santa Susanna. Maggiore è stato riconosciuto testimone di giustizia, ma come la maggior parte dei testimoni è stato abbandonato dallo Stato.  In un paese dove i collaboratori di giustizia vengono tutelati meglio dei testimoni, gente che non ha commesso alcun reato ma che ha deciso di denunciare il racket e il malaffare. Una volta raccolte le  testimonianze poi vengono lasciati al loro destino, senza alcuna garanzia. La legge che riconosce lo status di testimoni di giustizia  è la stessa che garantisce tutele per i pentiti. Ma questi ultimi servono, e quindi vengono protetti. I testimoni, come molti di loro raccontano “vengono usati e poi mandati via… per loro siamo solo dei rompiglioni” Questa è una delle frasi più volte lette nel libro del giornalista Paolo De Chiara che in “Testimoni di giustizia” riporta la storia e le interviste ad molti di coloro che hanno denunciato e si sono opposti alle organizzazioni criminali. La storia di Cosimo Maggiore ve l’abbiamo già raccontata in un nostro reportage.  Alla sua triste vicenda oggi si aggiunge un nuovo tassello. Lui  non solo non  ha più un lavoro, pochissime tutele, una vita di stenti ma la sua azienda è stata venduta all’asta  perché non è stata riconosciuta la legge prevista in questi casi per la sospensione del pagamento delle varie contribuzioni. Oggi è sfiorato nella sua mente il pensiero di farla finita, di saltare in aria in quel capannone che è stata la sua vita. Ma non ce l’ha fatta, ha guardato la foto dei suoi e ha deciso di continuare a vivere. Arrabbiato, amareggiato, deluso, con la dignità calpestata si lascia sfuggire in questa intervista: “vaffanculo allo Stato”.

Azienda va all’asta e imprenditore tenta il suicidio, scrive A.P. su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. «Vaff... allo Stato». Sono le ultime durissime e sofferte parole dell’imprenditore Cosimo Maggiore, che nel 2008 denunciò i suoi estorsori, ritenuti elementi di spicco della Sacra Corona unita di Torre Santa Susanna. Maggiore è stato riconosciuto testimone di giustizia, ma è stato abbandonato dallo Stato. Uno schiaffo in un paese dove i collaboratori di giustizia vengono tutelati meglio dei testimoni, gente che non ha commesso alcun reato ma che ha deciso di denunciare il racket. Ma una volta raccolte le testimonianze persone come Maggiore vengono abbandonate al loro destino, senza alcuna garanzia. La legge che riconosce lo status di testimoni di giustizia è la stessa che garantisce tutele per i pentiti. Al termine di una mattinata convulsa l’imprenditore si è barricato in azienda tentando di farla finita. L’ultimo disperato grido d’allarme dopo che alla fine di una vicenda che va avanti da quasi 7 anni, la sua attività è stata venduta all’asta. Maggiore non solo non ha più un lavoro, pochissime tutele, una vita di stenti, ma ha finito anche col perdere la sua azienda che è stata venduta all’asta perché non è stata riconosciuta la legge prevista in questi casi per la sospensione del pagamento delle varie contribuzioni. E ieri mattina quando ha visto che i lucchetti all’ingresso della sua attività erano stati sostituiti ha pensato di compiere un insano gesto vedendo che tutte le battaglie sostenute negli ultimi anni erano perse. Amaro il suo sfogo: «È finita oltre che la mia vita si sono presi anche la mia azienda. Fanno bene a non denunciare. Non denunciate il racket. Ecco cosa succede, sbattuto fuori da casa mia! La mia banca la Popolare pugliese non ha accettato l’art. 20 della legge 44/99, la legge che tutela chi è colpito dal racket. Grazie Stato». Con la voce rotta dall’amarezza spiega perchè non ha portato a termine il suo gesto: «Mi sono barricato nel capannone perchè avevo deciso di farla finita. C’era già tutto pronto anche le bombole di propano. Poi... ho guardato le foto dei miei figli... e... non ce l’ho fatta». Poi conclude: «Vaff... allo Stato!».

L’azienda del testimone di giustizia finisce all’asta. “Pronto a barricarmi dentro”, scrive Paolo De Chiara su “Resto al Sud”. “Nella mia azienda non entrerà nessuno. Io non sono come loro, sono una persona perbene. Ho ricevuto una proposta indecente: fare un accordo con la mafia. Cosa devo fare per uscire da questa drammatica situazione? Devo rivolgermi ad un usuraio? Devo fare il gioco dei mafiosi che ho denunciato? Devo vendere la mia anima al diavolo, alla Sacra Corona Unita? Non ho ritirato le mie denunce, neanche dopo le innumerevoli pressioni. Ho mandato in galera i miei estorsori. Continuerò su questa strada, sino alla fine. Sino alla morte”. Cosimo Maggiore, il testimone di giustizia che ha sfidato la mafia pugliese, è determinato, fermo sulle sue posizioni. “Meglio la morte, che perdere la dignità”. Non vuole e non cerca compromessi. Abbiamo già raccontato la sua drammatica storia (Il Testimone di giustizia abbandonato dallo Stato, restoalsud.it), ma nulla è cambiato. Cosimo è un imprenditore (si occupava di infissi), vive a San Pancrazio, in provincia di Brindisi, dove risiede la figlia del capo di Cosa Nostra, Totò Riina. Ha avuto il coraggio di dire no nel suo territorio, stretto da una morsa mortale, quella della Sacra Corona Unita, la mafia sotterranea, di cui pochi si occupano. Una delle mafie più pericolose presenti in Italia, che opera nel silenzio e nel disinteresse generale. Maggiore ha rotto questo muro di omertà, ha denunciato, ha testimoniato. Ha indicato con il dito i suoi aguzzini, ha fatto i nomi e i cognomi. Ha permesso allo Stato di condannare questi pericolosi delinquenti, assassini senza scrupoli. “Grazie alle mie dichiarazioni lo Stato si è imposto con la legge, con la legalità. Ora lo stesso Stato mi ha lasciato solo. Oggi (lunedì 12 gennaio 2015, ndr) entreranno nel mio capannone, messo all’asta per il mancato rispetto di una legge dello Stato (legge 44 del 1999, Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura), ma io non rinuncerò a lottare. Dovranno prima uccidermi”. Dopo le denunce è iniziato il suo percorso ad ostacoli. “Sto combattendo la mia battaglia anche contro le Istituzioni”. Poco attente, distratte e insensibili, soprattutto nei confronti dei testimoni di giustizia, che non hanno nulla a che fare con i collaboratori. Due figure diverse: i primi, semplici cittadini che hanno fatto il proprio dovere attraverso la denuncia; i secondi, già appartenenti a consorterie mafiose (definiti anche pentiti) e con dei reati sulle spalle. “Ho scritto al presidente della Repubblica, al Ministro degli Interni, al Presidente del Tribunale di Brindisi, al Generale dei Carabinieri. L’Arma è l’unica Istituzione che mi è stata vicina. Gli altri non hanno risposto ai miei appelli, al mio grido di aiuto”. Ma perché il capannone di Maggiore è andato all’asta? Non è riuscito a pagare i suoi creditori, “nemmeno il giudice civile ha accettato la sospensione (articolo 20, legge 44 del ’99)”. L’asta è stata vinta da un unico partecipante “legato alla criminalità. Ho chiesto informazioni, un mio amico mi ha riferito dei legami di sangue con Roberto Maci, fratello di Vito, appartenente alla delinquenza locale. Sono stanco di combattere inutilmente, la mia scelta è stata fallimentare. Ogni volta che rilascio un’intervista devo subire anche le pressioni di alcuni soggetti. Mi arrivano anche continui messaggi per le cose che scrivo quotidianamente su Facebook. Ho tutti contro, maledetto il giorno che ho denunciato”. Cosimo ha tentato anche la strada del dialogo con il “prestanome”. Tutto inutile. “Ho visto l’ufficiale giudiziario salire sulla macchina del boss della Scu, denunciato da me e condannato a due anni di carcere. Non mi sento più un testimone di giustizia, ma una vittima dello Stato”. Il testimone di giustizia pugliese è sconfortato, ha perso fiducia. Il dovere di ogni cittadino è denunciare, sempre e comunque. Costi quel che costi. L’unica arma è allearsi con lo Stato, almeno per mettere i bastoni tra le ruote a questi ripugnanti delinquenti. Cosimo Maggiore è pentito della sua scelta, porta avanti da solo la sua battaglia. “Per entrare dovranno chiamare un fabbro. La mia reazione dipenderà dalle loro azioni. Mi farò ammazzare, meglio morto che senza dignità”.

Il testimone di giustizia abbandonato dallo Stato. “Maledetto il giorno che ho denunciato, maledico questo Stato e le persone che mi hanno convinto a denunciare e che mi hanno lasciato solo”. È l’imprenditore Cosimo Maggiore che parla, un testimone di giustizia di San Pancrazio Salentino, in provincia di Brindisi. La stessa località che ospita la figlia del capo dei capi di Cosa Nostra, Totò Riina. Cosimo è stanco, è abbattuto. Ha denunciato i suoi estorsori, uomini della Sacra Corona Unita, finiti in galera e condannati grazie al suo senso civico. Alla sua onestà di cittadino perbene. Vittima di estorsione e di minacce da parte dei mafiosi del posto. La mafia pugliese, sanguinaria e violenta, che sembra quasi dimenticata. Lo stesso ‘trattamento’ riservato alla ‘ndrangheta, sino a qualche tempo fa. Ha perduto la sua azienda e la speranza. “Oggi non lavoro più, cazzeggio tutto il giorno su facebook, la mia valvola di sfogo. Il mio capannone è stato messo all’asta. Mi hanno fatto terra bruciata intorno. Sono solo, con la mia famiglia. Sai chi ha acquistato all’asta il mio capannone? Un prestanome delle persone che ho denunciato. Ma nessuno entrerà nella mia struttura, a costo di farmi saltare in aria”. Cosimo ha scritto una lettera al presidente della Repubblica Napolitano, al ministro Alfano, al Prefetto, al Generale dei Carabinieri. “Non ho ricevuto risposta da nessuno. L’unica cosa che hanno fatto è stato il ritiro delle armi, legalmente detenute. Le ho regalate ai miei amici dell’Arma”. Cosimo Maggiore ha una scorta, due carabinieri (“tutto ciò che mi resta, due angeli custodi”) che lo seguono ovunque. “Ho ricevuto premi come imprenditore coraggio, tutti mi dicono sei coraggioso, hai le palle, servono persone come te. Sono uno scemo, mi sento solo e abbandonato”. Ma quando inizia la sua storia di testimone di giustizia? “Otto anni fa, nel 2006, quando vennero da me dei soggetti per una proposta”. Una ‘assicurazione’, un’estorsione di 500euro al mese, da destinare alle famiglie dei carcerati. “Non accettai la proposta”. Cosimo pensa a lavorare, ha diversi cantieri aperti, costruzioni da ultimare. Si occupa di infissi. Va avanti per la sua strada, a testa alta. Ma i delinquenti non mollano la presa. Si rifanno vivi dopo qualche mese. “Vengo convocato in un appartamento, dove trovo una bella sorpresa. Non c’erano lavori da effettuare, ma una nuova proposta da accettare. Pretendevano anche gli interessi arretrati, circa 2mila euro al mese”. Nella stanza erano “presenti Occhineri Antonio e Musardo Mario”, entrambi detenuti. Cosimo continua a subire pressioni, strani sguardi, avvertimenti. Racconta la sua drammatica storia a un ispettore della squadra mobile e denuncia nel 2007. “Ho avuto paura, questa è brutta gente. Hanno collegamenti con le forze dell’ordine e non solo”. Sino ad oggi ha collezionato 32 denunce, “è stato tutto inutile”. Le pressioni continuano senza soste. “Un mio compare, vicino a questa organizzazione criminale, mi avvicina diverse volte. Pretendono che ritiri la querela, mi incontrano”. È presente anche Bruno Andrea, capo indiscusso della zona, oggi in carcere con una trentina d’anni da scontare. Fratello di Ciro, capo storico della Scu, già condannato all’ergastolo. “Mi fanno parlare con un avvocato, che a tavolino, mi spiega cosa devo fare”. Il ‘compare’ continua la sua azione, “non potevo immaginare che anche lui potesse appartenere all’organizzazione. Gli dissi che non doveva farsi più vedere, ricordo una sua frase, non potrò mai più dimenticarla: ‘fai attenzione, non sai chi hai sfidato. Sono gli stessi criminali che, tempo fa, hanno ammazzato e seppellito sotto un terreno due giovani”. Cosimo Maggiore è una brava persona, non la ritira la denuncia. Si posiziona dalla parte dello Stato (che in molte circostanze non si dimostra tale e con la ‘S’ maiuscola), vuole e cerca giustizia. La sua dettagliata testimonianza manda in galera sette soggetti. Diventa quasi un eroe. Nel 2007 a San Pancrazio il Presidente della Provincia convoca un consiglio monotematico, coinvolgendo tutti i sindaci (di Brindisi e provincia), i politici, la Camera di Commercio e le autorità locali. Tutti insieme per celebrare “l’imprenditore coraggioso, tutti volevano aiutarmi. Ad oggi non ho mai visto nessuno. Dopo la denuncia è cominciato il mio calvario”. Nel 2008 i riconoscimenti pubblici: il premio 112 dell’Arma dei Carabinieri e il premio imprenditore coraggio. Iniziano i problemi anche con la sua attività. “Mano a mano comincio a perdere i lavori”. ‘Non possiamo saltare anche noi in aria’ – le parole ripetute all’infinito – potevi pensarci prima. Te la sei cercata. Perde tutti i lavori. “Ed iniziano altri problemi, le ingiunzioni. Mi avevano avvisato, me lo avevano detto chiaramente: ‘te la faremo pagare. Rimarrai da solo come un cane’. Si è avverato tutto”. Il testimone di giustizia non si dà pace. “Il mio capannone è stato messo all’asta, nessuno ha applicato l’articolo 20 della legge 44 del 1999 (Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura). La banca non ha mai accettato questa legge, nessuna sospensione. Solo una presa per il culo”. Si legge nell’interrogazione dell’aprile 2014, a firma del senatore Iurlaro: “Chi denuncia il racket dovrebbe essere tutelato ai sensi di quanto stabilito dalla legge del 1999. Chi è vittima dell’estorsione e denuncia il racket, si rivolge alle associazioni anti racket proprio perché ne presume l’adeguata esperienza assistenziale, invece, nel territorio brindisino, il signor Maggiore ha ricevuto solo danni per inadeguata assistenza. È stato persino danneggiato pesantemente, per il mancato interessamento volto alla sospensione dei termini di 300 giorni ex art.20, come era suo diritto e come, da prassi, ottiene la vittima di estorsione e/o usura che abbia denunciato ed abbia presentato domanda di accesso al Fondo”. Cosimo ha 47 anni, una moglie e due figli. Ma come vive la famiglia Maggiore questa assurda situazione? “Preferisco non parlarne. Con me hanno vinto loro, i mafiosi. Siamo rimasti soli, tremendamente soli. Vado sempre in giro con una lettera intestata alla mia famiglia. Mi resta soltanto una strada: il suicidio”.

Un ex imprenditore chiede aiuto: “La SCU ha mantenuto la sua promessa: Io non vivo più”, scrive Maristella De Michele su “Brindisi Oggi”   “Se non paghi finirai di lavorare”; “Se denunci avrai finito di vivere”; “Se ti fai parte civile, muori”. Firmato La Scu (Sacra corona unita). Questo e molto altro lo ha vissuto – e continua a vivere – sulla sua pelle Cosimo Maggiore, oggi 47enne, ex imprenditore di San Pancrazio Salentino, piccolo paese in provincia di Brindisi. ‘Ex’ perché oggi Maggiore si ritrova senza un lavoro e senza la sua azienda. Perché? Perché un bel giorno mentre nel Salento stava per sbocciare la Primavera al cancello della sua azienda di infissi si è presentato il pizzo. Una macchia nera che avvolge e distrugge tutto: il lavoro, la libertà, la serenità, la vita. L’imprenditore, che si è piegato pochissime volte ai ricatti della criminalità organizzata, è stato costretto al pagamento attraverso intimidazioni e minacce, ma poi aggrappandosi alle sue forti spalle ha deciso di recarsi dalle forze dell’ordine e denunciare. Dal 2006 ad oggi per Cosimo Maggiore e la sua famiglia, sono stati anni di lotte, minacce, denunce, arresti, paure. L’imprenditore da otto anni vive sotto protezione. Al suo fianco ci sono sempre due carabinieri – definiti da lui gli angeli custodi – che non lo perdono di vista. Una vita che oramai non si può più definire vita. Un’azienda ereditata dal padre che dopo venti anni di duro lavoro si è sgretolata, ma non a causa della crisi o della mancanza di lavoro, ma a causa del giro del racket. Cosimo Maggiore non si è inginocchiato ai piedi della Scu e ha denunciato, non una sola volta, ma più volte fino a far arrestare anche il boss della frangia torrese della Sacra corona unita, Andrea Bruno insieme ai suoi compari. Oggi però dopo anni di inferno, Cosimo Maggiore – considerato dallo Stato un Testimone di giustizia e vittima del racket – sostiene che a sbattergli le porte in faccia sia stato proprio lo Stato e le associazioni Antiracket e sostiene, ancora, che a vincere sia stata la Scu. Il suo capannone, infatti, lo Stato lo ha venduto all’asta. Una parte, quindi, della sua ex azienda è stata acquistata da terze persone. L’imprenditore di San Pancrazio Salentino lo scorso settembre ha presentato un’ennesima denuncia presso l’Arma dei carabinieri. In quella querela Maggiore dichiara a chiare lettere che il suo capannone sarebbe stato acquistato da un prestanome. Già in passato Maggiore aveva rilasciato qualche dichiarazione, ma oggi per la prima volta ha accettato di parlare in una video-intervista.

LUIGI COPPOLA. Sono disposto a darmi fuoco. Parla il testimone di giustizia Luigi Coppola. Abbandonato dallo Stato, scrive Paolo De Chiara sul suo blog. “La camorra ha iniziato, ma le Istituzioni stanno continuando il lavoro”. Non usa mezzi termini il testimone di giustizia Luigi Coppola per spiegare la sua situazione. Difficile e drammatica per lui e per la sua famiglia. La famiglia Coppola, per una scelta coraggiosa e dignitosa, è costretta ad elemosinare un posto per dormire. Tutto è cominciato nel 2001. Luigi era un commerciante di auto a Boscoreale, in provincia di Napoli. Stanco delle vessazioni della camorra, denuncia le estorsioni e l’usura. Grazie alle sue denunce si aprono le porte del carcere per alcuni esponenti camorristici locali. Oggi la famiglia Coppola è stata abbandonata dallo Stato. Ritornati nella loro terra, dopo aver girato il Paese, hanno toccato con mano la diffidenza della gente comune. “Un giorno sono entrato insieme alla mia scorta in un noto ristorante di Pompei. A me e mia moglie è stato impedito di sederci a tavola”. Nel gennaio del 2010 il Viminale ha revocato la scorta e la vigilanza fissa. Per lo Stato l’imprenditore Coppola non rischia nulla. Solo per un ricorso al Tar viene risparmiata la scorta. Non è facile, nel BelPaese, la vita dei testimoni di giustizia. Per l’europarlamentare Sonia Alfano: “le loro storie, purtroppo, sono tutte uguali: eroi civili che hanno denunciato i fatti criminosi che hanno subito o di cui sono venuti a conoscenza e che, dopo i processi (le cui sentenze quasi sempre si soffermano sulla nobiltà del loro gesto) sono stati abbandonati dallo Stato, estromessi dai programmi di protezione, lasciati senza sicurezza e senza mezzi di sostentamento”. Luigi Coppola, membro della consulta anticamorra del comune di Boscoreale e coordinatore di uno sportello antiracket, continua la sua solitaria battaglia. “Sono anche disposto a darmi fuoco davanti al Viminale. E’ un mese che ho lasciato l’albergo per motivi economici e nessuno si è curato di noi”.

Coppola, a chi si riferisce?

“Allo Stato”.

Cosa chiede allo Stato?

“Di essere ricevuto e di cercare una soluzione al mio grosso problema. Nel momento in cui lo Stato mi abbandona definitivamente sotto il profilo della sicurezza la camorra metterà in atto il proprio atto criminale”.

Ha ricevuto altre minacce?

“Sto vivendo temporaneamente presso l’abitazione di mio fratello. Ultimamente si sono registrati degli sgradevoli episodi. Qualcuno, scambiando mio fratello per me, gli ha dato del cornuto. C’è stata una regolare denuncia fatta da mio fratello”.

Esiste una petizione promossa dal comitato per la tutela dei testimoni di giustizia, tra i firmatari Salvatore Borsellino, Sonia Alfano, Angela Napoli, Giuseppe Lumia, Elio Veltri. A che punto siamo?

“Non ricordo bene se siamo a 1300 o 1400 adesioni. C’è l’intenzione, entro questo mese, di portarla all’attenzione del Capo dello Stato per vedere se almeno lui ci riceva”.

Nel luglio scorso Sonia Alfano ha inviato una lettera al Presidente della Repubblica per illustrare la situazione dei testimoni di giustizia. Siete stati ricevuti dal Capo dello Stato?

“No, l’incontro non c’è mai stato. A parte la lettera dell’onorevole Alfano, mi ci sono recato personalmente al Quirinale. Insieme a mia moglie abbiamo fatto lo sciopero della fame, ma in tre giorni e tre notti nessuno si è visto. Ho avuto una sola risposta dal Quirinale. In quei giorni sono scesi dei funzionari che mi hanno comunicato che il Capo dello Stato non può interferire in decisioni che devono essere prese da altri organi dello Stato”.

Il neo ministro degli Interni, Anna Maria Cancellieri, ha dichiarato che “si interesserà al caso”.

“Il ministro ancora non si è interessato. L’altro giorno sono stato ricevuto dal senatore Giuseppe Lumia e prima dell’incontro sono riuscito ad ascoltare le dichiarazioni della Cancellieri alla Camera dei Deputati, un’interrogazione a risposta immediata sull’altro caso del testimone di giustizia Cutrò. Il ministro ha risposto anche sugli altri testimoni, affermando che il Viminale si è sempre preso cura dei testimoni e nulla sarebbe stato lasciato al caso. Io sono la prova che tutto ciò è falso e sfido la Cancellieri a smentirmi”.

Lei era un rivenditore di automobili a Boscoreale. Nel 2001 denuncia l’estorsione e l’usura della camorra…

“E viene decapitato definitivamente il clan Pisacane di Boscoreale, vengono tratti in arresto un reggente del clan Cesarano, più due suoi cognati. In più vengono arrestati appartenenti al clan Gionta di Torre Annunziata e numerose persone che avevano fatto usura nei miei confronti. In totale 30 persone. Per pagare la camorra fui costretto ad acquisire denaro a tassi usurai. Grazie alle mie dichiarazioni è stato anche sciolto il Comune di Boscoreale per infiltrazioni camorristiche”.

Nel 2002 venite inseriti nel programma di protezione per i testimoni di giustizia…

“Grazie al sostituto procuratore Giuseppe Borrelli, che lavora attualmente presso la Procura di Catanzaro. Prima stava alla Dda di Napoli. Prima di lui, chi aveva preso la situazione in mano non aveva ritenuto opportuno attivare nessuna misura di sicurezza. In quel periodo ho subito due aggressioni e ci sono i referti ospedalieri che lo provano”.

Nel 2007 la famiglia Coppola rientra in Campania, precisamente a Pompei. 

“Avevamo scelto Pompei perché ritenuta tranquilla”.

E come siete stati accolti dalle Istituzioni, dalla gente?

“Peggio della camorra. Al sindaco sono state portate delle petizioni che sono state girate alla Direzione Distrettuale Antimafia e all’ex prefetto di Napoli. Il sindaco non ha mai dimostrato sensibilità nei nostri confronti, anche quando siamo stati costretti a vivere nelle auto blindate”.

Come spiega la frase “a voi non si loca e non si vende…”.

“Mi auguro che sia solo un fattore di paura, ma non credo che il Comune di Pompei possa avere paura. Questa è discriminazione”.

Dopo i vari gradi di giudizio, nel 2009, i processi aperti grazie alla sua testimonianza arrivano in Cassazione.

“Ventitre di loro vengono definitivamente condannati per associazione di stampo mafioso. Da un mesetto è uscito il reggente, il braccio destro del clan Pisacane. Stiamo parlando di un clan che fino ad oggi non ha prodotto pentiti e che ha tutta la voglia di rimettersi in piedi, di riprendersi il territorio per continuare con la droga, con le estorsioni e con l’usura”.

Per lo Stato la famiglia Coppola non rischia nulla. Viene revocata la vigilanza fissa e la scorta.

“Alla revoca mi oppongo con un ricorso al Tar. La scorta viene mantenuta, ma la vigilanza non viene rimessa. La camorra dà il proprio segno di apprezzamento con proiettili inesplosi e una bottiglia incendiaria. Attualmente ho ancora la scorta, ma so che stanno operando per eliminarla”.

Oggi come vive la famiglia Coppola?

“A carico di mio fratello e di mia madre, senza un centesimo. Il 24 gennaio le banche mi iscriveranno al recupero crediti e sarà per me la morte civile. E se tutto questo avverrà mi darò fuoco davanti al Viminale”.

Lei ha due figlie.

“Frequentano il liceo”.

A scuola come vengono trattate?

“Non bene. Vengono viste come degli appestati dai loro amici, sicuramente condizionati dai genitori”.

L’ex sottosegretario Mantovano le disse: “cerchiamo di non prenderci il dito, la mano e il braccio”.

“Ho presentato regolare denuncia alla Procura di Roma”.

Esiste lo Stato nei suoi territori?

“Stato è una parola troppo grossa. La camorra ha preso il posto dello Stato”.

L'IMPRENDITORE LUIGI COPPOLA, PERSEGUITATO DALLA CAMORRA E ABBANDONATO DALLO STATO. Inizia nel lontano 1993 la triste storia di Luigi Coppola , 47enne sposato, con 2 figlie, scrive E. Lampitella su “Globuli Azzurri”. Da venditore d’auto a perseguitato dalla Camorra. Coppola è uno dei tanti che denunciano i propri aguzzini ma rimangono sotto traccia. Grazie alle sue deposizioni, nel 2001 sono state arrestate più di 34 persone di 4 Clan diversi, tra cui il Boss Pesacane. L’imprenditore è rimasto vittima delle attenzioni di tre clan diversi. Colpa, la sua, vendere auto in un trivio che è sotto la “giurisdizione” di 3 clan diversi, tra Bosco Reale, Boscotrecase e Torre Annunziata, che lo vedevano come potenziale riciclatore. Rappresentava un boccone prelibato per il loro malaffare . E’ così entrato in una vera e propria spirale del terrore, a causa dei rifiuti alle pesanti richieste di estorsione e riciclaggio di più esponenti malavitosi che si palleggiavano il cittadino onesto di turno. Ma La storia di luigi Coppola non si ferma qui, dopo aver collaborato con la giustizia alla fine di 10 anni passati in mano ad usurai per pagare il pizzo ai camorristi, Coppola è rimasto solo. Abbandonato dallo stato e ridotto alla fame, costretto a dormire in auto con la scorta. Un’ordinanza del Viminale, che fa seguito alle richieste avanzate da Coppola, nega al collaboratore di giustizia il programma di protezione. Luigi Coppola stasera racconterà la sua storia a Globuli Azzurri, programma di Samuele Ciambriello, sempre sensibile a queste tematiche.

LUIGI LEONARDI. Camorra, denunciò chi gli chiedeva il pizzo: abbandonato dallo Stato e dalla famiglia, scrive Giovanni Gaudenzi su Theblazonedpress.it. Luigi Leonardi ha 39 anni, ed è stato per molti anni uno degli imprenditori più ricchi di Napoli. Guadagnava anche 250 mila euro a settimana, con la sua attività di fabbricazione d’impianti d’illuminazione e 4 negozi sparsi per la provincia partenopea. Oggi non guadagna praticamente nulla, e le sue imprese non esistono più. Perchè ha osato denunciare i taglieggiatori mandati dalla camorra, che gli chiedevano oltre 24 mila euro al mese per garantirgli la loro protezione. Lui, invece di sottostare al vile ricatto dei clan, ha scelto di ribellarsi, presentando 18 denunce negli ultimi 12 anni. Sulle sue dichiarazioni sono basati 2 processi, il primo dei quali ha portato a 63 condanne in primo grado. Per il commerciante nessuna protezione, nessuna misura precauzionale come quelle previste per i pentiti. Perché Leonardi, con i camorristi, non ha mai voluto avere nulla da spartire. E’ stato aggredito a sprangate, nel 2009, ed è finito in ospedale con una diagnosi di cecità temporanea all’occhio sinistro. L’uomo è stato anche sequestrato per 24 ore, a Secondigliano. Ma non si è arreso, sfidando la mala e perdendo tutto quello che aveva, negozi compresi. Ora chiede solo che lo Stato provveda a proteggerlo e che gli venga riconosciuto lo status di testimone di giustizia, insieme al risarcimento dei danni subiti. “Rifarei tutto- spiega- Con la camorra non ho mai voluto compromettermi.” Il cugino del padre, Antonio Leonardi, è sospettato di essere affiliato alla famiglia mafiosa dei Di Lauro. Ed è questa la ragione per la quale la sua famiglia lo ha abbandonato, lasciandolo solo a combattere la sua battaglia: “Se mi fossi rivolto a lui- dice- avrebbe risolto immediatamente la questione. Ma ho scelto di stare dalla parte della legalità. Adesso, alla mia situazione, deve pensarci lo Stato.” 

Camorra, denunciò i clan. La famiglia lo lascia solo, lo Stato non lo risarcisce. Luigi Leonardi, a causa delle estorsioni, ha perso due fabbriche di impianti di illuminazione, i negozi e la casa. Negli anni ha subito minacce ed è stato sequestrato. Le sue dichiarazioni hanno portato a due processi, per questo la famiglia, sospettata di essere vicina ai Di Lauro, non gli rivolge più la parola da 5 anni. Adesso l'imprenditore chiede che gli venga riconosciuto lo status di testimone di giustizia e un risarcimento, scrive Antonella Beccaria su “Il Fatto Quotidiano”. Ha 39 anni e da 5 non riceve dalla sua famiglia un messaggio, nemmeno un augurio per Natale. Ma fino a qualche anno fa le feste comandate, però, gliele ricordavano gli “esattori” della camorra, gli stessi che gli chiedevano il pizzo e che per l’occasione, oltre ai 6 mila euro a settimana, gli volevano imporre un’integrazione di 1500 euro. Luigi Leonardi, nato a Napoli nel 1974 e oggi riparato in una località in provincia di Salerno, a causa del racket ha perso le sue due fabbriche di impianti di illuminazione e i relativi negozi, distribuiti tra Cardito, Nola, Giugliano e Melito, nel Napoletano. Ed è accaduto nonostante si sia ribellato al “sistema” che cercava di stritolarlo presentando 18 denunce nell’arco di 12 anni. Denunce che hanno portato a due processi, il primo celebrato davanti al tribunale di Nola e giunto a sentenza di primo grado il 31 maggio 2010 con condanne per 63 persone e periodi di reclusione che vanno tra 5 ai 17 anni. Il secondo processo, invece, è ancora in corso a Napoli. Partito a rilento con udienze rinviate per 5 volte a causa di difetti di notifica, sta entrando nel pieno e il 22 ottobre Luigi Leonardi racconterà davanti al collegio giudicante la sua vicenda che ha ricostruito in due incontri con ilfattoquotidiano.it, il primo a Sasso Marconi, in provincia di Bologna, e il secondo a Firenze, nella sede dell’Associazione stampa Toscana. Qui esordisce affermando che, rispetto ai testimoni di giustizia, “i pentiti hanno più voce in capitolo. Chi invece non ha mai voluto avere a che fare con i clan, avrebbe diritto almeno allo stesso tipo di protezione offerto ai collaboratori”. L’affermazione trova ragione nel fatto che l’imprenditore napoletano, nel corso degli anni, ha subito diversi atti di violenza. Oltre alle intimidazioni dei clan napoletani di Secondigliano, Melito, Marano e Ottaviano, ognuno dei quali pretendenva la propria fetta sul fatturato di Leonardi, poi si è passati alle vie di fatto. Prima c’è stata l’auto dell’imprenditore sbalzata fuori strada al termine di un inseguimento. Poi un’aggressione, a metà 2009, a suon di spranghe di ferro che l’hanno fatto finire in ospedale con una diagnosi di cecità temporanea all’occhio sinistro. E ancora, nel settembre dello stesso anno, l’uomo è stato sequestrato e tenuto per 24 ore prigioniero nelle Case Celesti di Secondigliano, un rione ad alto degrado soprannominato “terzo mondo”. “In quelle ore”, racconta Leonardi, “mi hanno puntato contro una pistola e mi hanno fatto vedere cambiali per un valore di 26 mila euro che ovviamente non erano mie. Ma pretendevano che le pagassi e per assicurarsi che lo facessi, nonostante li avessi già denunciati, mi hanno preso l’automobile e la moto, che secondo loro valevano la metà dell’importo che mi chiedevano”. Poi lo hanno rilasciato pensando di averlo “ammorbidito”. Invece l’imprenditore è andato avanti, presentandosi a carabinieri, polizia e sostituti procuratori ogni volta che lo convocavano per stendere un nuovo verbale. “Così, alla fine, mi hanno bruciato l’ultimo negozio che mi era rimasto, quello di Melito: in due ore se n’è andato in fumo l’ultimo pezzo della mia attività commerciale”. Oggi le fabbriche non esistono più e nemmeno i punti vendita. Erano stati aperti a partire dal 1997. Allora Luigi Leonardi, giovanissimo, aveva investito il denaro che con la madre era riuscito a mettere da parte, circa 75 milioni di vecchie lire. Con lui c’erano i fratelli e per i primi due anni tutto era sembrato andare per il meglio tanto che nel 1999 le imprese di famiglia erano riuscite ad accedere a un finanziamento regionale di 5 miliardi di lire per costruire un capannone industriale a San Giorgio del Sannio, in provincia di Benevento. Con la prima tranche da 1 miliardo e 200 milioni erano stati eseguiti i lavori edili e i contratti con i fornitori dei macchinari erano stati firmati. Ma a quel punto erano iniziati i problemi con i riscossori dei clan. Problemi che sono l’inizio della fine e che portano alla rinuncia dell’importo restante del finanziamento, a una denuncia penale contro lo stesso Leonardi, accusato – e poi prosciolto – di essersi appropriato di denaro pubblico senza aver concluso il progetto presentato e al tentativo di contenere le richieste dei clan. Ai quali tuttavia non sono bastati gli oltre 70 mila euro che, in un primo tempo, l’imprenditore paga nell’arco di 11 mesi. “A un certo punto mi sono ribellato, ho deciso che di soldi, a loro, non gliene avrei più dati”, spiega. “Fare impresa vuol dire essere liberi, la ‘protezione’ che i camorristi invece offrono è esattamente il contrario della libertà d’impresa. Non si può accettare di finire in quella spirale, ogni cittadino dovrebbe denunciare, malgrado il prezzo da pagare”. Il prezzo, per Luigi Leonardi, è stato elevatissimo. Con l’entrata in funzione del capannone del beneventano, contava di portare da 20 a 30 i suoi dipendenti, che invece hanno dovuto essere licenziati. Dai 250 mila euro a settimana che fatturava versando regolamente tasse e contributi, è passato a dover farsi bastare 200 euro al mese. Sfrattato dalla casa dove abitava, per un periodo ha occupato un appartamento sopra il negozio di Melito e ha trascorso anche un periodo dormendo in macchina. E ora che ha cambiato città e ha ripreso da libero professionista la sua attività, chiede solo che gli venga riconosciuto lo status di testimone di giustizia e la protezione dello Stato. “Nel processo in corso a Napoli proveranno a farmi passare per un mafioso”, dice. Il cugino di suo padre, infatti, è Antonio Leonardi, arrestato a fine 2012 e sospettato di essere affiliato al clan Di Lauro. “Con la camorra, però, non ci ho mai avuto a che fare. Il paradosso di questa situazione è che so che se mi fossi rivolto a lui, i miei problemi si sarebbero risolti in un attimo, ma la mia scelta è stata quella di mettermi dalla parte della legalità”. Per questo la famiglia lo ha cancellato. “Ti stavi zitto e non succedeva niente”, gli hanno detto. Invece lui ha parlato, prima con i carabinieri del nucleo operativo di Castello di Cisterna e poi con gli agenti della squadra mobile di Napoli venendo sentito in un primo tempo dal sostituto Luigi Alberto Cannavale e in seguito dal collega Francesco De Falco, che oggi rappresenta l’accusa contro i boss che Leonardi accusa. “Se rifarei tutto?”, afferma alla fine. “Sì, non mi pento di aver parlato, starei solo più attento a conservare meglio le carte”. Si riferisce alle fatture e ai documenti bruciati nel negozio di Melito, quelli che oggi gli impediscono di essere risarcito a causa di un altro muro che si è trovato davanti, la burocrazia. “Mi hanno detto che non avendo più alcuna pezza d’appoggio non posso dimostrare l’entità del danno che ho subito. E allora, per fare qualcosa, sto pagando di tasca mia perizie che accertino quest’altro sopruso. Anche a queste assurdità lo Stato dovrebbe pensare”.

TIBERIO BENTIVOGLIO. Tiberio Bentivoglio, imprenditore antimafia: «Ho denunciato, Equitalia mi porta via la casa». Rompe il muro di omertà contro la 'ndrangheta, ma resta solo. Così, tra silenzi, lentezze burocratiche e casa ipotecata, si umilia il coraggio di chi denuncia le cosche di Reggio Calabria, scrive Gelsomino Del Guercio su “L’Espresso”. «Sto perdendo casa e lavoro, ho già perso la serenità familiare. Allora oggi mi chiedo: conviene denunciare i propri aguzzini come ho fatto io?». E' il grido di un uomo disperato quello che affida a "l'Espresso" Tiberio Bentivoglio, imprenditore reggino 61enne sotto scorta e testimone di giustizia dal 1992, cioè da quando si è ribellato ai suoi estorsori. Da allora per Tiberio è iniziato un lungo calvario. Gli hanno voltato le spalle gran parte dei suoi concittadini di Condera, la frazione di Reggio Calabria dove abita e dal 1979 è titolare di un negozio, la "Sanitaria S.Elia" che vende prodotti elettro medicali e articoli per la prima infanzia. Perché da quelle parti sfidare i boss è un sacrilegio. Ma sopratutto gli hanno voltato le spalle le istituzioni, che lo hanno abbandonato a se stesso nonostante gli appelli al consiglio regionale della Calabria, alla Commissione Parlamentare Antimafia , al ministro dell'Interno Angelino Alfano e persino a papa Francesco. In questi giorni la parabola di Tiberio è giunta al capolinea. Sommerso dai debiti, con un fatturato crollato negli ultimi nove anni del 75% (cioè 2 milioni e mezzo di euro in meno) e un conseguente danno per mancato guadagno che si aggira ad oltre 800 mila euro, l'imprenditore è sull'orlo del crac e dirà addio al suo negozio e non solo. Il colpo finale è arrivato tra le fine di settembre e i primi giorni di ottobre. Equitalia gli ha inviato l'avviso di vendita all'asta della sua abitazione, già ipotecata da oltre un anno per 991mila euro. L'iter prima dello sfratto durerà circa sei mesi. L'ipoteca di Equitalia era arrivata perché da nove anni non paga più i contributi all'Inps dei propri dipendenti (ora rimasti in due, prima erano in cinque) ai quali fino all'anno scorso riusciva a versare a mala pena gli assegni con gli stipendi. «Ho sempre pagato tutto regolarmente ai lavoratori fin quando ho potuto», sottolinea l'imprenditore. Per il danno erariale relativo ai contributi Inps, sua moglie (la loro è un'azienda familiare) ha subito due condanne in primo grado dal tribunale di Reggio Calabria per appropriazione indebita (pena sospesa): la prima un anno fa, la seconda una settimana fa. «Il paradosso è che adesso diventiamo noi i "pregiudicati"…», afferma sconsolato Tiberio. Come se non bastasse, da qualche settimana si è fatto incalzante il pressing delle banche, che dopo l'ipoteca sull'abitazione hanno ritirato gli affidamenti: non concedono più alcuna forma di credito, mutui e prestiti a Bentivoglio. Sono stati ridotti i carnet degli assegni a lui destinati perché sui suoi conti correnti non c'è abbastanza denaro per pagare i fornitori del negozio (circa 150). Il risultato è che le banche, come da legge, hanno inoltrato gli assegni scoperti ai notai - il cosiddetto "protesto" - e per l'imprenditore si prospettano nuove sanzioni amministrative (che comunque non riuscirà a pagare). L'ennesima batosta è arrivata sabato 4 ottobre quando ha ricevuto il preavviso di sfratto dai proprietari del negozio, perché, ormai da un anno, non ha i soldi per pagare l'affitto. Invece il 10 dicembre 2014 il tribunale di Reggio stabilirà se Tiberio dovrà abbandonate il deposito annesso al negozio perché anche in quel caso è "forzatamente" moroso nei confronti del proprietario. Ma perché un uomo libero, un imprenditore coraggioso, un testimone di giustizia, fondatore peraltro di "Reggio Libera Reggio", iniziativa anti racket nata in città il 20 aprile 2010, si è ritrovato in una condizione così assurda, al punto da ritenere che sia stata una cosa sconveniente, un errore, denunciare la 'ndrangheta? E' giusto che in un Paese civile si debba pagare tacitamente il pizzo per non ridursi in questo stato di disperazione? Quest'ultima domanda, tanto più in queste ore, se la stanno ponendo Tiberio, la moglie e sopratutto i suoi figli, «psicologicamente devastati da questa vicenda», dice lui. Nelle sue parole traspare un rimorso rabbioso per quella battaglia iniziata 20 anni fa. «Mi sono rifiutato di riconoscere il loro sistema criminale e sono stato costretto a subire una serie di punizioni e perfino un tentato omicidio che si verificò dopo la condanna di alcuni malavitosi da me nominati nelle denunce». Episodi agghiaccianti, sette in totale. Il primo nel 1992 (furto al negozio), altri due nel 1998 (furto e attentato). Quindi un attentato dinamitardo al negozio nell’aprile 2003 e un incendio nel 2005. Nel giugno 2008 va a fuoco il capannone-deposito. Nel febbraio 2011 gli sparano mentre sta andando nel suo frutteto, alle 6 del mattino. «Solo il caso ha voluto che il proiettile, probabilmente quello fatale, si fermasse nel marsupio di cuoio, che quel giorno portavo a tracolla sulle spalle. Gli autori del tentato omicidio a oggi restano ignoti, mentre io continuo a trascinarmi su una sola gamba in quanto l’altra ha riportato lesioni permanenti causati dai proiettili». Da quel momento a Bentivoglio è stata potenziata la scorta, ora di "terzo livello", cioè assegnata ad una persona "ad alto rischio". Questa serie di intimidazioni ha scatenato un primo, ma graduale allontanamento della clientela dal negozio. E' lunga la lista degli amici che hanno cominciato a far finta di non vederlo, a non salutarlo in strada, a schivarlo. Peggio ancora dopo che il testimone di giustizia, nel 2007, ha denunciato la presunta connivenza del parroco locale don Nuccio Cannizzaro con Santo Crucitti, presunto boss di Condera-Pietrastorta. Il reato di favoreggiamento di cui era accusato il sacerdote è stato prescritto a luglio 2014 e a Condera, dopo la pronuncia del Tribunale di Reggio, si è festeggiato con caroselli d'auto e fuochi d'artificio. «Don Nuccio da queste parti è molto temuto, ma sta di fatto che in Italia la giustizia è lentissima», ammonisce Bentivoglio. Non solo la giustizia, ma lo è anche la burocrazia, che ha scagliato il colpo di grazia contro la "Sanitaria S.Elia". C'è una legge, la 44 del 1999, che prevede aiuti alle vittime di mafia. «Per l'attentato al negozio del 2003 ho ricevuto 3400 euro a fronte di 120mila euro di danni. Per l'incendio del 2005 ho avuto circa 300mila euro in tre anni, e per l'incendio al capannone del 2008 circa 400mila euro, tanto quanto il valore della merce bruciata, ma sempre dopo tre anni». In teoria la normativa stabilisce che lo Stato ripaghi la vittima entro 60 giorni dal fatto. «In realtà la media di attesa è molto più lunga - sentenzia Bentivoglio - intanto, ogni volta che ho subito un agguato, in attesa di ricevere quei soldi sono rimasto anni ed anni con il mio negozio e il deposito distrutti». I clienti in fuga, la liquidità che viene a mancare, le difficoltà nel pagare i fornitori, un mix micidiale, «che mi è costato 2 milioni e mezzo di euro in nove anni, a tanto ammonta il calo del mio fatturato e 800mila di mancato guadagno che è alla base del mio indebitamento verso Stato, fornitori, locatari. In confronto a ciò gli indennizzi ricevuti in tre anni, non compensano praticamente nulla». Sempre per la legge 44/99, gli è valso 16mila euro il tentato omicidio del 2011 (soldi ricevuti nel 2014), e poiché quella norma sospende i provvedimenti esecutivi per 10 mesi, è rimasto tutelato dall'avviso di sfratto del proprietario del deposito fino a settembre 2013. «Non ho mai trovato gente disponibile ad affittare un locale ad una persona come me, che ha già subito una serie di attentati». Eppure l'imprenditore-coraggio non vuol rassegnarsi ad un epilogo che sembra scritto. «Griderò fino all’ultimo giorno di vita - chiosa Bentivoglio - non voglio e non posso finire così. Io ho fatto il mio dovere ma sto perdendo tutto. Se non avessi una famiglia mi sarei già suicidato».

IGNAZIO CUTRO'. L'imprenditore Ignazio Cutrò chiude per mafia "Lo Stato mi ha lasciato solo". Aveva denunciato il racket: “Tante parole al vento perchè alla fine sono stato abbandonato. Mi chiedo quale sia oggi il posto della lotta alla mafia nell’agenda del governo”, scrivono Piero Messina e Maurizio Zoppi su “L’Espresso”. Chiuso per mafia: è il titolo adatto per l’ultimo capitolo della storia imprenditoriale di Ignazio Cutrò. Ultimo, perché l’imprenditore in prima linea contro Cosa Nostra, pronto a denunciare i suoi estortori, alla fine si è arreso e ha chiuso la sua azienda. La procedura è stata avviata al registro delle Imprese di Agrigento.  Così, l’azienda che aveva detto no al racket, nei fatti, oggi non esiste più. A Cutrò resta solo una montagna di debiti col fisco e le banche per evitare il fallimento. “Che dire? Un bel segnale per tutti gli imprenditori che sono assaliti dalla mafia e dagli estortori – è il commento caustico di Cutrò – da oggi per tutti è chiaro quale sia la fine delle aziende che si oppongono alla mafia”. Ma come si è arrivati al default? Dopo aver denunciato i suoi estortori, accusandoli pubblicamente e contribuendo all’attività di magistrati e investigatori, l’imprenditore di Bivona, un piccolo comune della provincia di Agrigento, s’era trovato letteralmente solo. Lo Stato all’inizio, sembrava volesse prendere a cuore la causa dell’imprenditore, sul cui operato – nella sentenza che seppelliva il sistema del racket mafioso agrigentino – i giudici esprimevano ben 19 pagine di riflessioni. Cutrò e la sua famiglia finiranno sotto scorta per le continue minacce. A quel punto, l’imprenditore si trova di fronte al classico bivio: scegliere di essere trasferito in località protetta ed essere stipendiato dallo Stato o rinunciare ai sussidi e tentare di far ripartire la sua attività. “ In quel momento ho scelto di restare – ricorda Cutrò – perché ho tentato di essere coerente fino in fondo. Che lotta alla mafia è quella che costringe gli imprenditori ad abbandonare la propria terra e la propria attività?”. Non mancano le stille di curaro: “io sono tra i pochi imprenditori che ha iniziato a collaborare senza versare un centesimo agli esattori della mafia. Non tutti erano nella mia stessa condizione. Molti hanno saltato il fosso soltanto dopo che gli investigatori avevano scoperto e accertato il loro soggiacere alle richieste economiche della mafia”. Che Cutrò credesse fino in fondo  alla scelta di restare in Sicilia lo dimostra l’utilizzo dei fondi ricevuti dallo Stato come danno biologico. “A me ed ai miei familiari – spiega – è stato riconosciuto un risarcimento di circa 100 mila euro. Quei soldi avrei potuto metterli da parte, invece li ho usati per pagare tasse e contributi. Insomma, volevo il Durc a posto (durc è l’acronimo di documento unico di regolarità contabile, necessario per lavorare nel settore pubblico, ndr) per poter essere chiamato a lavorare. Forse ho sbagliato”. Ogni tentativo di far ripartire l’azienda sarà inutile. Cutrò e la sua azienda verranno isolati. L’imprenditore tenterà persino di mettere in vendita tutti i mezzi della sua azienda, camion, macchine scavatrici, bulldozer e utensili. Non si è presentato nessuno. “Messaggio chiaro – dice – messaggio non detto che vale più di mille parole: le cose di Cutrò non si toccano”. L’ultimo tentativo è dell’estate scorsa, quando Cutrò viene chiamato a lavorare dal general contractor dell’impianto fotovoltaico di Gela. Missione fallita, di quel sogno declinato nel segno dell’energia verde resta solo una collina rasa al suolo e tante imprese, come quella dell’ormai ex imprenditore antimafia, che non vedranno mai il risultato del lavoro svolto. Eppure sarebbe bastato poco per salvare quella piccola impresa edile in prima linea nella lotta alla mafia, bastavano solamente 38.500 euro. A tanto ammontavano i debiti fiscali che Cutrò avrebbe dovuto pagare per restare con il Durc pulito. Ma lo Stato ha erogato soltanto 20 mila euro, il resto non è mai arrivato. Cutrò sostiene di avere sperato sino all’ultimo nell’intervento del Viminale: “Resta solo l’amarezza – ricorda – per decine e decine di riunioni, tempo perso e parole al vento. Perchè alla fine sono stato abbandonato. Mi chiedo quale sia oggi il posto della lotta alla mafia nell’agenda del governo. A parte le vetrine della legalità, mi sembra tutto fermo e tutto inutile. Non vorrei fare polemica, ma non ritengo giusto che uno Stato in grado di pagare un riscatto di 12 milioni di euro per salvare la vita di due ragazze italiane prese in ostaggio dai terroristi, non trovi le risorse, o molto più probabilmente la voglia, di trovare quei 18 mila euro che rappresentavano la mia salvezza” . “Ora – conclude Cutrò – non mi resta che prendere atto di aver fallito, di avere distrutto la mia vita e quella dei miei figli. Ma in fondo dal Viminale mi avevano avvertito,  me l’avevano detto che non avrei più potuto lavorare nella mia terra”.

Chi sono le istituzioni che aiuteranno chi denuncia?

EQUITALIA. STROZZINI DI STATO.

Equitalia, strozzini di Stato: per 2.100 euro ne vogliono 3 mila, scrive di Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Avviene tutti i giorni in gran parte delle case degli italiani. A metà mattina suona il postino «Raccomandata!», apri e ti trovi fra le mani una missiva di Equitalia, che sono sempre dolori. Si tratta delle solite multe prese magari senza nemmeno accorgersene (soste, infrazioni al traffico, eccessi di velocità etc..) o di contestazioni della Agenzia delle Entrate per rilievi formali magari di poco conto sulle dichiarazioni dei redditi. Al signor Marco Rossi (il nome è di fantasia) proprio quest'ultima è arrivata: una cartella Equitalia con una contestazione per irregolarità formali da parte della Agenzia delle Entrate su una dichiarazione dei redditi di cinque anni prima. «Ma come? Sono lavoratore dipendente, l’unica cosa che aggiungo è qualche detrazione di spese mediche e per questo invio tutto al commercialista». Marco manda la cartella di Equitalia al commercialista, che allarga le braccia: «La cifra non è enorme. Bisogna pagarla». Marco sospira: «Per lei non saranno enormi 2.114,66 euro. Ma per me sono più di un mese di stipendio. Almeno si può pagare a rate?». Con l’aiuto del commercialista è subito pronta la lettera da spedire ad Equitalia: non c’è bisogno di allegare documentazione che comprovi le difficoltà del momento per cifre così basse. E infatti Equitalia tempo un mese risponde a Marco, che apre la lettera tutto felice: «Le abbiamo accordato la ripartizione del pagamento di tale documento in n.28 rate mensili». Rateizzare - Il piano di ammortamento - scrivono - è stato «formulato secondo il criterio alla francese, che prevede rate di importo costante con quota di capitale crescente e quota interessi decrescente». Il signor Rossi non ci capisce molto: qualcosa cresce, qualcosa altro decresce. Ma vede il conto totale a fine operazione: 3.076,44 euro. Rateizzare quel debito che nemmeno capisce gli costa insomma 950 euro più che pagare subito. Sono 20 giorni di stipendio che si involano un po’ salendo un po’ scendendo «alla francese» per finire in tasca ad Equitalia. Le varie colonne dicono «quota capitale», «quota interessi di mora», «quota interessi di dilazione», «quota compensi di riscossione». Si fa due calcoli e significa che in due anni e 4 mesi il suo debito aumenta del 45,2%. Se va da uno strozzino dal cuore buono finisce che per una cifra così i prestito riesce perfino a risparmiare rispetto a quanto gli chiede il fisco italiano. Equitalia vuole il 32,58% in interessi di mora, poi il 4% di interessi di dilazione e l’8,6% di compensi di riscossione. Avranno ragione? Naturalmente hanno ragione: sono le leggi e i regolamenti che prevedono questo lievitare del debito dei contribuenti. Ogni governo di questi ultimi anni ha fatto finta di addolcire la pillola, si è sgolato parlando di «fisco amico», di «sportello amico», di una Equitalia dal volto umano, magari ha anche allargato e allungato le possibilità di rateizzare il debito per cifre via via più consistenti e perfino in tempi più lunghi, per venire incontro alle difficoltà che la crisi economica crea nel bilancio familiare o aziendale di milioni di contribuenti. Ma al ruolo vocazionale di strozzinaggio lo Stato non ha mai rinunciato, in nessuno dei volti in cui si presenta. Tassi di interesse - Il primo gennaio 2014 scorso sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana è stato pubblicato il nuovo tasso di interesse legale stabilito dal governo italiano: è l’uno per cento. Il contribuente non si deve attendere di più quando presta soldi o li dà in custodia a Stato o privati secondo le leggi vigenti. Ma se il percorso è quello contrario: è lo Stato che li deposita da te (ad esempio facendoti rateizzare il tuo debito con lui), quella regola non vale più, e sono dolori per il cittadino. Oltretutto non c’è solo Equitalia: quel debito potrebbe essere con l’ufficio tributi di un comune, o con un ufficio giudiziario, o con un altro ente pubblico. E ognuno applica il tasso che vuole. Ad esempio gli interessi sulle dilazioni sono diversissimi in ogni posto di Italia: si va da zero fino al 6 per cento. Ed è questione di fortuna: gli uffici giudiziari applicano il 4,5%. L'ufficio tributi del comune di Monza (e di pochi altri piccoli comuni) non chiede interessi (il tasso sulle dilazioni è 0%). Quello di Livorno vuole il 4,5%, quello di Perugia si accontenta dell'1% che sarebbe poi il tasso legale, quello di Pitigliano chiede il 3,5%. A Messina vogliono il 4%, a Torino il 5%, a Milano sulla tassa per i rifiuti viene applicato un interesse dilazionatorio del 2%, a Novara l'ufficio tributi chiede il 2,5%, in un posto vip come Courmayeur si accontentano dell’1,5% (a Cortina invece è 1%).

Chi sono le istituzioni che aiuteranno chi denuncia?

Usura ed estorsioni, in manette il figlio del prefetto Sessa, scrive “Il Mattino”. Daniele Sessa, 31 anni, figlio del prefetto di Avellino, Carlo, è stato arrestato ieri dai militari del Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Taranto, su disposizione del giudice per le indagini preliminari. Sessa è finito in carcere all’alba insieme a Cosimo De Pasquale. I due, entrambi tarantini, sono dietro le sbarre con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata all'usura e all'estorsione. Nel corso delle indagini della Guardia di Finanza, eseguite anche con l'ausilio di intercettazioni telefoniche ed ambientali, è emerso che Sessa e De Pasquale, gestivano nel capoluogo ionico un giro di usura nei confronti di numerosi commercianti, con il supporto anche di altre tre persone, delle quali due legate da vincoli di parentela. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, mentre Daniele Sessa si occupava principalmente di procurare i capitali e di gestire la parte contabile, Cosimo De Pasquale, sfruttando la sua fama di uomo violento, si assicurava con continue minacce e intimidazioni fisiche e psicologiche, il rispetto delle scadenze da parte delle vittime finite nel giro di usura.

Gli altri tre componenti dell’associazione a delinquere, denunciati a piede libero, fungevano, a loro volta, da collettori insospettabili per la raccolta delle rate usurarie, mettendosi a disposizione come supporto logistico dell'associazione malavitosa. Ai due arrestati, su disposizione del pubblico ministero della Procura tarantina, sono stati sequestrati i conti correnti bancari, a titolo preventivo d'urgenza. L'operazione, condotta dalla Guardia di Finanza, è stata denominata «Ultima chanche». Le indagini delle Fiamme Gialle di Taranto sono andate avanti per circa un anno. I finanzieri sono entrati in azione dopo la denuncia di alcuni commercianti finiti nella rete degli strozzini. Secondo quanto accertato dagl inquirenti, Sessa e De Pasquale imponevano agli esercenti del rione Italia, che avevano chiesto piccole somme di denaro in prestito, tassi usurai che si aggiravano tra il 150-180 per cento.

Assistente sociale e usuraio. Nel blitz coinvolto Daniele Sessa, figlio di un Prefetto. Disponeva di macchine costose e con l’hobby delle competizioni motociclistiche, scrive “Taranto Buonasera”. Uno dei due  presunti usurai, arrestati ieri dalla Guardia di Finanza,  lavorava anche come assistente sociale. Daniele Sessa, 31 anni, incensurato e figlio di Prefetto, ufficialmente aiutava i bisognosi e, così come emerge dalle indagini delle Fiamme Gialle “ricavava redditi nell’ordine soltanto di poche centinaia di euro mensili, tanto da non presentare neppure le relative dichiarazione fiscali”. Di Daniele Sessa, che è attualmente in carcere con le pesanti accuse di associazione a delinquere e usura, gli investigatori del nucleo di polizia tributaria nel corso delle indagini hanno tracciato un preciso identikit. “Tra il 2011 e il 2013 era ancora a carico dei genitori, e tuttavia ciò non gli ha impedito di disporre di macchine costose, due Audi A6 e di coltivare l’hobby delle competizioni motociclistiche, anch’esso notoriamente  piuttosto impegnativo dal lato finanziario”. Arrestato  nella operazione “Ultima chance” anche il 46enne Cosimo De Pasquale che secondo l’accusa avrebbe a curato con continue minacce il “rispetto” delle scadenze da parte delle vittime. Altri  tre, tra cui zio e nipote, tutti commercianti, sono indagati a piede libero.  E’ emerso che fungevano da collettori insospettabili per la raccolta delle rate usurarie, mettendosi a disposizione come supporto logistico dell’organizzazione. I due arrestati sono attualmente detenuti nella casa circondariale di largo Magli, a disposizione del giudice delle indagini preliminari che li interrogherà  lunedì prossimo. Nei confronti di De Pasquale e Sessa, su ordine del pm Lucia Isceri è stato operato anche il sequestro preventivo d’urgenza dei conti correnti bancari. Nel corso delle indagini, durate oltre un anno e  condotte anche con intercettazioni telefoniche, è emerso che De Pasquale e il suo amico Sessa avrebbero gestito nel capoluogo jonico il giro di usura. Tra le vittime una decina di titolari di esercizi commerciali e di laboratori artigianali.  Avrebbero pagato tassi usurari che arrivavano fino al 180% annui, titolari di ristoranti, di negozi di abbigliamento e imprenditori. Secondo l’accusa le vittime sarebbero state minacciate anche in casa o nei luoghi di lavoro. In alcune circostanze Sessa avrebbe proceduto anche personalmente a richiedere i pagamenti degli interessi usurari.  Avrebbe comunque ricoperto il ruolo di mandante delle azioni estorsive che avrebbe, invece, messo in atto, il suo amico Cosimo De Pasquale.

La Guardia di Finanza di Taranto ha arrestato ieri due tarantini con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata all’usura e all’estorsione. Si tratta del 46enne Cosimo De Pasquale e del 31enne Daniele Sessa, scrive “La Voce di Manduria”. Quest’ultimo è figlio di Carlo Sessa, attuale prefetto di Avellino, già prefetto della neo costituita Prefettura della Provincia Bat e commissario prefettizio del comune di Manduria dove possiede ancora un’antica  villa nelle campagne tra Manduria e Sava. Secondo l’accusa, i due arrestati, con la complicità di altri tre indagati a piede libero, avrebbero gestito un giro di attività usuraia nei confronti di numerosi commercianti ai quali praticavano interessi sino al 180% annui. L’inchiesta delle fiamme gialle assume particolare spessore proprio grazie alla presenza, tra gli indiziati di reato, del figlio del prefetto Sessa. Il giudice delle indagini preliminari, Martino Rosati, nella sua ordinanza, descrive il giovane come «vocato alla violenza». Seppure ancora a carico dei genitori – scrive il gip -, dichiarava redditi per poche centinaia di euro mensili, disponeva di autovetture costose e coltivava l’hobby altrettanto costoso delle competizioni motociclistiche.

Da un fatto ad un al'atro.

Il Prefetto (poco perfetto) del Bunga Bunga. Guarda un po’: il prefetto Carlo Ferrigno, uno dei testi chiave dell’atto di accusa di "papponaggio" a Berlusconi (“A casa di Berlusconi c’era pure la Minetti, col seno da fuori, che baciava Berlusconi in continuazione. Che puttanaio…”), è un esperto della materia: risulta iscritto nel registro degli indagati per violenza sessuale da sette donne: ricattate in cambio di pompini…, scrive “Dagospia”.

1 - IL PREFETTO SOTTO INCHIESTA PER VIOLENZA SESSUALE...Franco Bechis per "Libero". Uno dei testi chiave dell'atto di accusa a Silvio Berlusconi, il prefetto Carlo Ferrigno, è stato intercettato non su ordine di Ilda Boccassini e dei pm di Milano che stavano indagando sui festini di Arcore, ma del pm Stefano Civardi, che lo ha iscritto nel registro degli indagati per ipotesi di reato gravissime, fra cui la violenza sessuale. Il clamoroso particolare filtra con discrezione dal palazzo di Giustizia di Milano, e fa leggere sotto altra luce l'inchiesta principale. Ferrigno infatti è protagonista delle 389 pagine di intercettazioni telefoniche che Milano ha inviato in parlamento per inchiodare Berlusconi. Lo è perché Ferrigno è prefetto della Repubblica, e fra il 2003 e il 2006 è stato anche commissario anti-racket nominato dal governo Berlusconi. È attraverso le sue parole intercettate in tre telefonate che gli inquirenti e la stampa hanno disegnato il quadro delle feste di Arcore. Ferrigno non ha avuto mezze parole. È stato lui a definirle «un puttanaio» e a dare questo quadro alla stampa nelle prime ore. Lui a giudicare - alla luce dei festini - «un uomo di merda» il presidente del Consiglio, raccontando: «[...] tutte ragazze che poi alla fine erano senza reggipetto, solo le mutandine, quelle strette [...], capito? Bella roba, tutta la sera [...], pensa un po', che fa questo signore [...], ma che schifo quell'uomo». Trattandosi di un prefetto, di «un servitore dello Stato», quel giudizio è stato la chiave di lettura di quelle carte. Nessuno degli inquirenti però, inviandole a Montecitorio, si è premurato di fare sapere i guai giudiziari in cui il prefetto che si scandalizzava è incappato, e per cui il suo telefonino era sotto controllo del pm. Ferrigno è stato denunciato nel febbraio scorso dal presidente di Sos usura, Frediano Manzi, e dal presidente della Associazione Sos Italia Libera, Paolo Bocedi. Alla denuncia erano allegate sette testimonianze di donne che raccontavano ricatti e violenze sessuali subìte dal prefetto per sbloccare i loro mutui dal fondo anti-usura. Fatti avvenuti anche dopo l'abbandono dell'incarico di commissario, perché a loro dire il prefetto Ferrigno sosteneva di avere ancora in mano il commissariato. Le sette donne sono state convocate in procura e hanno confermato parola per parola i fatti. Una vittima dell'usura aveva consentito di filmare la sua denuncia, chiedendo di oscurare il volto. Il filmato è visionabile sul nostro sito www.libero-news.it. In procura sono arrivate altre due testi di accusa nei confronti di Ferrigno che hanno raccontato episodi di violenza sessuale svoltisi negli uffici o nelle abitazioni di Torino, di Milano e di Roma in cui si trovava il prefetto. Tutti e nove i verbali sono stati segretati dalla procura che ancora ha indagini in corso. Le accuse delle testi - lo capisce bene chi può visionare il video - sono gravissime. I presunti ricatti subiti sono di incredibile e odiosa violenza, le parole crude. Ferrigno - secondo il racconto - imponeva rapporti sessuali completi e talvolta orali in cambio dello sblocco dei mutui. E minacciava le malcapitate di non fare denuncia, perché tanto lui aveva relazioni con molti pm e molte procure e non le avrebbero mai prese sul serio. Il pubblico ministero Civardi invece le ha prese molto sul serio e così è nata l'inchiesta. Quando sono emerse le prime notizie, Ferrigno ha negato ogni responsabilità, sostenendo che le signore si erano inventate tutto. Sfortuna vuole che pochi giorni dopo, in tutt'altra procura - quella di Fermo - ma per episodi non dissimili si sia presentato un imprenditore, G.G., denunciando di avere subito analoghi ricatti dal prefetto per sbloccare la somma da lui attesa dal fondo anti-usura. Ha raccontato di avere dovuto pagare 5 mila euro per una serata che Ferrigno voleva trascorrere con alcune ragazze di un night club della riviera marchigiana. Il prefetto anche in questo caso è stato iscritto nel registro degli indagati, non per reati sessuali ma per corruzione. Entrambe le indagini sono ancora in corso, e per Ferrigno vale naturalmente la presunzione di innocenza. Anche se sembra singolare la sua inclinazione allo scandalo per le feste di Berlusconi. È curioso però come i verbali di intercettazione di Ferrigno siano finiti dentro un altro faldone che poco aveva a che vedere con il prefetto. Ferrigno infatti ha solo sfiorato le feste di Arcore, grazie a un suo rapporto assai stretto con una ballerina marocchina, Maria Makdoum, che la sera del 13 luglio ballò ad Arcore e nel cuore della notte telefonò a Ferrigno per un resoconto. Di quella telefonata ci sono solo i tabulati. Ma è citata come fosse avvenuta il giorno precedente in altre due telefonate, contenute in un brogliaccio di intercettazioni relative a telefonate che il prefetto ha fatto a un amico e al figlio il 22 e il 29 settembre 2010, a due mesi e mezzo dai fatti. Un giallo ulteriore che dovrà essere chiarito.

2 - LE INTERCETTAZIONI...Da "Libero". Che uomo di merda (...) Praticamente questo sai che faceva? Facevano le orge lì dentro, non con droga, non mi risulta, capito? E facevano quel lavoro lì. Bevevano tutte mezze discinte, e poi lui è rimasto con due o tre di queste (...) tutte ragazze che poi alla fine erano senza reggipetto, solo le mutandine quelle strette (...) capito? Bella roba, tutta la sera (...) pensa un po\', che fa questo signore (...) ma che schifo quell'uomo.

La testimone X.Y su Ferrigno....Sua Eccellenza il prefetto Carlo Ferrigno mi chiamò a Roma per vedere la mia pratica perché diceva che c'erano novità. Mi mandò a prendere da Tonino, il suo autista. Suonai. Mi venne ad aprire Sua Eccellenza e io ero un po' imbarazzata perché lo vidi in accappatoio. (...) La situazione era imbarazzante perché era nudo. Lui lasciava aperto l'accappatoio e quindi si vedevano i genitali. Cominciò con dei convenevoli (...) mi chiese di toccarlo. Mi disse proprio "Mi fai il favore di toccarmi?". Dissi che non ci pensavo proprio. Lui reagì sostenendo che non avevo capito, non dovevo pensare male... Mi prese per mano e mi portò in camera da letto... (...) Mi prese le mani e le mise sui suoi genitali... Io mi ritrassi. Lui disse che non avevo capito niente, (...) ma che ero abbastanza intelligente per capire che questa situazione mi avrebbe portato dei benefici. Lui (il prefetto Carlo Ferrigno) chiuse la porta dietro di me a chiave. Mi sono sentita sicuramente in trappola (...). Mi disse che non pretendeva tanto, che gli bastava anche un rapporto orale. Gli dissi che non se ne parlava proprio. Lui mi spinse sul letto e mi infilò la mano nei calzoni. Nel frattempo si era slacciato i suoi e aveva fuori il pene e i testicoli (...) Mi disse che le pratiche potevano restare ferme fino alla prescrizione, che lui aveva tanti amici nelle procure e anche fra i giudici e che la mia denuncia sarebbe finita in niente... Mi portò nei sotterranei... Mi prese la mano, la portò sui calzoni. Si slacciò la cerniera e in quella occasione mi disse che era la soluzione a tutti i miei problemi... se non vuoi avere un rapporto con me possiamo avere almeno un rapporto orale. Chiaramente mi rifiutai e lui mi disse che avevo deciso comunque la mia fine...

Ferrigno su Berlusconi. A casa di Berlusconi c'era pure la Minetti, col seno da fuori, che baciava Berlusconi in continuazione, insomma, senti, proprio un puttanaio eh? Quella Minetti lì, dice che poi non è nemmeno tanto bella, quella sera che c'erano tutte donne, Emilio Fede, Lele e lei, c'era anche la Minetti (...) quella mi chiamava, pur essendo lei una puttanella è rimasta esterrefatta quando stavano tutte discinte con le mutande, mezze ubriache, in braccio a Berlusconi e se le baciava tutte, le toccava tutte....

"Pizzo come i malavitosi", 7 arresti per le tangenti su appalti della Marina militare. Secondo l'accusa, da più di 10 anni, gli imprenditori erano tenuti a pagare il 10 per cento del valore delle commesse per aggiudicarsi i lavori. In manette cinque ufficiali, un sottufficiale e un dipendente civile, scrive Vittorio Ricapito su “La Repubblica”. Scandalo in Marina Militare. Per la procura di Taranto ufficiali e responsabili degli uffici imponevano il pizzo  alle aziende fornitrici e dell'appalto. Un sistema di tangenti a percentuale fissa, il dieci per cento sull'importo di ogni appalto o fornitura, sotto minaccia di rallentare o ostacolare i pagamenti.  "Come la malavita organizzata", il pizzo veniva imposto "in modo rigido e con brutale e talora sfacciata protervia", scrive il gip Pompeo Carriere nell'ordinanza di custodia cautelare, causando danni notevoli sia alle singole imprese che all'intera economia locale. Con l'aggravante che il giro di tangenti era imposto da dipendenti dello Stato, per la maggior parte militari, "che hanno giurato fedeltà alla Repubblica e all'osservanza delle regole, innanzitutto deontologiche, dell'ordinamento di appartenenza". Secondo gli investigatori, il "sistema del 10 per cento" andava avanti da almeno dieci anni, una prassi illecita che tacitamente si trasferiva da un comandante all'altro, come un passaggio di consegne. All'alba di questa mattina sono scattate le manette. I carabinieri del comando provinciale di Taranto guidati dal colonnello Giovanni Tamborrino hanno portato in carcere l'attuale e due ex vice direttori del commissariato militare marittimo di Taranto (Maricommi), un ex capo reparto, un sottufficiale capo deposito, un dipendente civile addetto alla contabilità del reparto e un capo ufficio del settore logistico dello Stato Maggiore della Marina militare, tutti accusati di concussione. Gli arresti sono stati eseguiti a Roma, Napoli e Taranto. In carcere sono finiti il capitano di vascello Attilio Vecchi, di 54 anni (in servizio al Comando Logistico di Napoli); il capitano di fregata Riccardo Di Donna, di 45 anni (Stato Maggiore della Difesa-Roma); il capitano di fregata Marco Boccadamo, di 50 anni (Stato Maggiore Difesa-Roma); il capitano di fregata Giovanni Cusmano, di 47 anni (Maricentadd Taranto); il capitano di fregata Giuseppe Coroneo, di 46 anni (vice direttore Maricommi Taranto); il luogotenente Antonio Summa, di 53 anni (V reparto Maricommi Taranto); e Leandro De Benedectis, di 55 anni (dipendente civile di Maricommi Taranto). Secondo gli investigatori le tangenti venivano riscosse dall'ufficiale alla guida del quinto reparto e poi divise in percentuali a seconda degli accordi con chi aveva seguito l'iter amministrativo della pratica. C'era da oliare diversi ingranaggi: chi dal comando di vertice assicurava la copertura finanziaria sui relativi capitoli di bilancio, chi autorizzava l'atto di spesa, chi sottoscriveva l'atto dispositivo, chi materialmente contabilizzava assegni e provviste ed infine chi si interfacciava direttamente con la vittima del sistema. Il tutto naturalmente suddiviso in percentuali formulate in base all'importanza che rivestiva nel procedimento ogni singolo attore. L'inchiesta del sostituto procuratore Maurizio Carbone è decollata il 13 marzo del 2014 quando i carabinieri arrestarono in flagranza di reato il capitano di fregata Roberto La Gioia, 45 anni, comandante del 5° reparto di Maricommi, fermato nel suo ufficio subito dopo aver intascato una tangente di 2mila euro da un imprenditore. Questo aveva già denunciato tutto ai carabinieri sostenendo di aver subìto per anni il "sistema del 10 per cento" e versato tangenti per circa 150 mila euro per mantenere l'appalto dello smaltimento delle acque di sentina delle navi militari. Fra casa ed ufficio del militare, gli investigatori trovarono circa 44mila euro ma soprattutto alcune pen drive su cui era annotata la contabilità occulta e la lista delle imprese che pagavano tangenti. Il 5° reparto di Maricommi, guidato da La Gioia fino al suo arresto, è quello che si occupa dell'approvvigionamento, stoccaggio e rifornimento di combustibili e lubrificanti delle unità navali della Marina Militare e dei mezzi aeromobili, assicurando rifornimenti h24 e 365 giorni all'anno. Nei successivi nove mesi gli investigatori si sono concentrati sulle dichiarazioni dell'ufficiale arrestato, hanno ascoltato i titolari delle imprese che lavorano con la Marina militare, messo sotto controllo telefoni e sequestrato documenti, computer e buoni carburanti, portando alla luce un giro di pizzo di notevoli dimensioni. La Marina militare, si legge in una nota, "ribadendo il proprio pieno sostegno all'azione della magistratura, ha incrementato al proprio interno le attività ispettive e di controllo finalizzate a prevenire e contrastare il fenomeno della corruzione, a salvaguardia del personale che presta quotidianamente servizio con spirito di sacrificio e senso dello stato, compiendo il proprio dovere anche a rischio della vita".

Marina Militare e appalti, 7 arresti per concussione, scrive “la Gazzetta del Mezzogiorno”. Un “vero e proprio pizzo imposto in modo rigido e con brutale e talora sfacciata protervia, e che ha causato nel complesso danni notevoli sia alle singole imprese che all’intera economia locale, sostanzialmente alla stregua dell’agire della malavita organizzata”. Lo scrive il gip di Taranto Pompeo Carriere nell’ordinanza di custodia cautelare, richiesta dal pm Maurizio Carbone, notificata a 7 indagati, tra militari e civili, nell’ambito di una inchiesta sugli appalti gestiti dalla Marina militare. La tangente imposta era pari al 10% dei profitti. I carabinieri del comando provinciale di Taranto hanno arrestato il vice direttore di Maricommi, due ex vice direttori, un ex capo reparto, un sottufficiale capo deposito, un dipendente civile addetto alla contabilità del reparto e un capo ufficio del settore logistico dello Stato Maggiore della Marina Militare per concussione. In concorso tra loro – secondo l'accusa – abusando delle loro qualità e dei loro poteri, con la minaccia di ostacolare la regolare emissione dei mandati di pagamento per la esecuzione dei lavori di manutenzione e forniture di servizi e materiale loro affidati per conto della Marina militare, gli indagati hanno costretto “vari imprenditori a versare materialmente al capo del V Reparto di Maricommi, in tempi diversi, più somme di denaro non dovute per importi variabili e altre utilità, per un valore complessivamente comunque equivalente al 10% circa dei profitti derivanti dai servizi svolti”. Somme che il capo reparto, precisa una nota dei carabinieri, “provvedeva a distribuire successivamente in diverse parti percentuali secondo gli accordi tra loro intervenuti”.

Gip: imponevano «pizzo» come malavitosi, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. E' in corso, nelle provincie di Taranto, Roma e Napoli, l’esecuzione, da parte dei Carabinieri del Comando Provinciale di Taranto, di sette ordinanze di custodia cautelare in carcere emesse dal gip su richiesta della locale Procura della Repubblica. Le misure restrittive e contestuali perquisizioni vedono fra i destinatari appartenenti della Marina Militare fra i quali Ufficiali, Sottufficiali e personale civile, ritenuti responsabili, in concorso tra loro, del reato di concussione nell’ambito di appalti in favore dell’ente. L'inchiesta, avviata dopo la denuncia presentata da un imprenditore che sosteneva di aver pagato tangenti in relazione ad un appalto, sfociò il 12 marzo 2014 nell’arresto del capitano di fregata Roberto La Gioia, di 46 anni, comandante del quinto reparto di Maricommi, che si occupava di contratti e appalti. L'ufficiale fu bloccato dopo aver ricevuto una busta con 2mila euro dall’imprenditore, che rappresentava – secondo l'accusa – una tranche di una tangente imposta per emettere i mandati di pagamento nei confronti della sua azienda. Il sospetto degli investigatori è che il militare abbia chiesto una tangente del 10 per cento. I carabinieri successivamente perquisirono l’appartamento e l’ufficio di La Gioia trovando altro denaro ritenuto frutto della concussione. Furono sequestrate anche due pen drive dell’arrestato, in cui furono scoperti file con un elenco di imprese. Accanto a ognuna di esse era riportato il valore dell’appalto aggiudicato e il pagamento di tangenti. Sono cinque ufficiali in servizio a Napoli, Roma e Taranto, un sottufficiale e un impiegato, entrambi in servizio a Taranto, le sette persone portate in carcere dai carabinieri nell’ambito dell’indagine sulle tangenti imposte sugli appalti della Marina Militare. In carcere sono finiti il capitano di vascello Attilio Vecchi, di 54 anni (in servizio al Comando Logistico di Napoli); il capitano di fregata Riccardo Di Donna, di 45 anni (Stato Maggiore della Difesa-Roma); il capitano di fregata Marco Boccadamo, di 50 anni (Stato Maggiore Difesa-Roma); il capitano di fregata Giovanni Cusmano, di 47 anni (Maricentadd Taranto); il capitano di fregata Giuseppe Coroneo, di 46 anni (vice direttore Maricommi Taranto); il luogotenente Antonio Summa, di 53 anni (V reparto Maricommi Taranto); e Leandro De Benedectis, di 55 anni (dipendente civile di Maricommi Taranto). Sono tutti indagati in concorso con il capitano di fregata Roberto La Gioia, di 46 anni, ex responsabile di Maricommi, arrestato il 12 marzo del 2104 ed attualmente e sottoposto all’obbligo di firma. L’ufficiale fu indagato per concussione nei confronti di una serie di imprenditori locali, assegnatari di servizi per conto della Pubblica Amministrazione nell’ambito degli appalti gestiti dalla direzione di Commissariato per la Marina Militare di Taranto. Al graduato fu sequestrata una somma di denaro contante, suddivisa in singole mazzette, per un ammontare complessivo pari a 44mila euro. Il gip scrive nell’ordinanza di custodia cautelare eseguita oggi che il sistema ideato dagli indagati faceva sì che gli imprenditori concussi fossero vittime di una “vera e propria prassi illecita che si trasferisce da un comandante all’altro, in un ideale passaggio di consegne, più o meno tacito”.

Ma non è la prima volta.

Un provvedimento di interdizione dagli incarichi è stato chiesto dal sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Taranto Vincenzo Petrocelli nei confronti di quattro ufficiali della Marina Militare, coinvolti in un’inchiesta su appalti assegnati dalla Marina Militare per lavori nell’Arsenale di Taranto, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La richiesta è stata accolta dal gip del tribunale di Taranto Michele Ancona: trattandosi tuttavia di personale militare è necessario prima procedere agli interrogatori di garanzia, già fissati per il 28 e il 31 marzo 2008. Per i quattro ufficiali era stato chiesto l’arresto, ma il gip ha respinto la richiesta di misura cautelare. In tutto sono nove gli indagati. I quattro destinatari del provvedimento interdittivo sono l’ammiraglio Giulio Cobolli, attuale comandante dell’Arsenale militare, l’ammiraglio ispettore Alberto Gauzolino, ex direttore dell’Arsenale di Taranto, trasferito a Roma; Pietro Covino, in servizio a La Spezia, e Nicola Giustino, contrammiraglio in servizio a Taranto. Si ipotizzano anche i reati di truffa e turbativa d’asta perché alle gare di appalto avrebbero partecipato ditte che non avevano requisiti. L'inchiesta sfociò, il 9 novembre 2005, nel sequestro preventivo e probatorio di un’area di circa 18.000 metri quadrati all’interno dell’Arsenale della Marina Militare, nella quale lavorano numerose ditte appaltatrici, e delle attrezzature utilizzate per la manutenzione delle navi. Successivamente fu notificato il provvedimento di sequestro preventivo ai titolari delle ditte, alcune delle quali avrebbero la sede legale in un bar o in campagna. All’ammiraglio ispettore Alberto Gauzolino fu affidata la custodia giudiziale dell’area interessata dal sequestro. Le indagini dei carabinieri del Nil e dei funzionari dell’Ispettorato del lavoro facevano riferimento a presunte violazioni della normativa sulla sicurezza sul lavoro. Durante le ispezioni, sarebbe emersa la mancanza dei requisiti utili per poter partecipare alle gare di appalto espletate dalla Marina militare. Per altre aziende, invece, furono avviati accertamenti sulle modalità con le quali era stato ottenuto il certificato Nato necessario per compiere interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria sulle navi militari.

E poi....

Denuncia un concorso ma l'Ateneo la accusa: «Collezionava incarichi», scrive Luca Barile su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Un assegno di ricerca, pagato dall’Ateneo dal 2007 al 2011, entra a gamba tesa in un processo non ancora incominciato, ma che sta già facendo discutere. Dalla procura di Taranto, è notizia dell’altro ieri, il pubblico ministero Remo Epifani ottiene il rinvio a giudizio per una decina di professori universitari, accusati a vario titolo di aver favorito, nella fase di valutazione dei titoli, il candidato risultato vincitore di un concorso per ricercatore, bandito nel dicembre del 2009. Ma dalla direzione generale dell’Ateneo, nel frattempo, era partita una lettera, datata 12 dicembre 2014 scorso, indirizzata all’avvocatura dello Stato. Nella missiva si chiede un parere su come comportarsi nei confronti di Monica Bruno, titolare dell’assegno di ricerca. Da una verifica interna parrebbe che la signora, moglie del magistrato tarantino Ciro Fiore, possa aver percepito quella borsa senza averne avuto diritto. E quindi l’Università è pronta a pretenderne la restituzione. Quello che non è chiaro, ed ecco perché il parere richiesto all’avvocatura, è se si possa anche annullare il contratto che, a suo tempo, l’assegnista Bruno firmò con l’Ateneo. Questione non da poco (senza contratto, niente titolo) considerando che la signora è l’autrice dell’esposto dal quale è partita l’indagine sul concorso da ricercatore, un posto nel settore del diritto commerciale nella sede distaccata, a Taranto, dell’ateneo barese. Perché il titolo di assegnista ha il suo valore in una procedura di valutazione comparata. Tanto più che proprio sui titoli, Bruno sta giocando la sua partita contro Giuseppe Sanseverino, vincitore del concorso. La tesi, accolta da una sentenza del 2013 del Consiglio di Stato, è che i commissari valutarono positivamente alcuni titoli presentati da Sanseverino, in particolare delle esperienze scientifiche all’estero, senza accertarne la veridicità. Il Consiglio di Stato ordinò all’Università di ripetere la comparazione dei titoli, per i due concorrenti in causa ed il rettore, Antonio Uricchio, annullò il precedente decreto di nomina di Sanseverino, con cui questi era stato dichiarato vincitore. Inoltre, ha messo in moto la procedura per formare una nuova commissione. Della vecchia, sono indagati alcuni docenti baresi e non, compreso il professor Gianvito Giannelli, noto per aver svolto l’incarico di curatore fallimentare del Bari Calcio. È indagato anche il professor Ugo Patroni Griffi, presidente della Fiera del Levante, anche se non faceva parte della commissione. Sanseverino, però, ha denunciato all’Ateneo che la sua concorrente avrebbe ottenuto incarichi, come amministratore giudiziario, curatore e revisore dei conti durante il periodo dell’assegno di ricerca. La cosa è incompatibile con l’esclusivo impegno richiesto ad un assegnista. E' stata fissata per il 13 febbraio 2015 prossimo l’udienza preliminare, dinanzi al gup del tribunale di Taranto Vilma Gilli, a carico di 11 persone per un presunto concorso truccato per un posto di ricercatore in diritto commerciale alla sede tarantina della Facoltà di Economia dell’università di Bari.

Concorso Università a Bari: 11 indagati tra cui 4 professori, scrive Massimiliano Scagliarini “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una dottoranda con il registratore sempre acceso in tasca e un concorso da ricercatore in Diritto commerciale annullato dal Consiglio di Stato. Un calderone di vita universitaria che ha scatenato una guerra tra Procure, coinvolgendo 11 persone (tra cui 4 docenti) che oggi si ritrovano indagati con l’accusa di aver truccato non solo le selezioni, ma persino l’assegnazione degli incarichi gratuiti di supplenza. Il punto è che la dottoranda Monica Bruno, che dal 2009 ha inviato diverse denunce sulla questione, è moglie di un magistrato di Taranto, Ciro Fiore, all’epoca dei fatti gip nel Tribunale jonico ed oggi trasferito al Minorile. A febbraio il procuratore aggiunto di Bari, Lino Giorgio Bruno, aveva chiesto e ottenuto l’archiviazione delle accuse per una parte dei fatti, ma a inizio giugno il pm di Taranto, Remo Epifani, ha inviato l’avviso di conclusione delle indagini ad 11 persone: oltre ai commissari del concorso annullato, nell’elenco ci sono il vincitore, Giuseppe Sanseverino, 46 anni, di Massafra, ed i docenti baresi Gianvito Giannelli, 54 anni, e Ugo Patroni Griffi, 48 anni. Ce n’è abbastanza per parlare di liti in famiglia. Anche perché Patroni Griffi, presidente della Fiera del Levante, della Bruno è stato non solo tutor ma anche testimone di nozze. E Giannelli, ultimamente molto noto alle cronache per l’incarico di curatore fallimentare del Bari calcio, è a sua volta sposato con un sostituto procuratore. Ma quando la commissione che doveva nominare un ricercatore in Diritto commerciale ha prescelto Sanseverino rispetto agli altri tre partecipanti (tra cui c’erano il figlio del professor Giorgio Costantino e la figlia della professoressa Eda Lofoco), la dottoressa Bruno ha preso carta e penna e con l’avvocato Carlo Raffo ha denunciato una serie di presunte irregolarità, arrivando a formulare persino i capi di imputazione: nell’avviso di conclusione delle indagini la procura di Taranto li ha ripresi quasi tutti, e quasi parola per parola. In particolare, la Bruno ha denunciato quello che lei stessa chiama il «metodo del cappello» per l’assegnazione delle supplenze: il professor Patroni Griffi (che per questo è accusato di truffa e falso ideologico) avrebbe presentato domanda salvo poi ritirarla all’ultimo momento, avvantaggiando così - questa è la tesi - il dottor Sanseverino. Un punto su cui la procura di Bari, chiedendo l’archiviazione, aveva però espresso un’opinione contraria: semplicemente perché anche in quei casi Sanseverino poteva comunque vantare i titoli migliori dell’unica altra candidata. Il concorso per ricercatore del 2009, che a breve dovrà essere ripetuto con una nuova commissione e presumibilmente vedrà di nuovo la Bruno ai blocchi di partenza, è stato annullato sulla base di una decisione della giustizia amministrativa sulla valutazione comparativa dei titoli. Per questo la procura di Taranto accusa di abuso d’ufficio sia Sanseverino sia i commissari, tra cui oltre a Giannelli ci sono il bolognese Filippo Paolucci e il campano Ermanno Bocchini. Ma soprattutto, nei guai dopo le denunce (e le registrazioni) della Bruno sono finiti alcuni suoi ex colleghi dottorandi, accusati di favoreggiamento aggravato per aver negato ciò che probabilmente hanno detto a proposito del concorso mentre non sapevano di essere intercettati. Al di là dei docenti di ruolo, il vero beffato di tutta questa storia finora è proprio Sanseverino, che oltre a non aver ottenuto il posto è accusato anche di aver «barato» nel curriculum. Sanseverino ha depositato in procura una lunga memoria, in cui esamina in dettaglio i propri titoli accademici, si toglie qualche sassolino dalla scarpa, ma passa anche al contrattacco nei confronti della Bruno: ha infatti documentato che la collega, mentre percepiva l’assegno di dottorato da parte dell’Università di Bari, continuava a svolgere l’attività professionale di revisore dei conti. Nel frattempo il dossier di Sanseverino è finito alla Corte dei Conti: questa storia non finirà mai...

Concorso all'Università, 11 indagati illustri. "Truccarono le carte". La selezione per il posto di ricercatore in diritto commerciale internazionale, la procura di Bari archivia, Taranto verso il giudizio. Il Consiglio di Stato annulla la prova, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. Un concorso universitario. Undici indagati illustri. Un dibattito tra due procure, quella di Taranto e quella di Bari, che sullo stesso fatto hanno opinioni diverse: a Bari archiviano, nel capoluogo jonico sono pronti ad andare a giudizio. La storia è quella del concorso da ricercatore in diritto commerciale internazionale bandito dall'università di Bari per la sede di Taranto. La selezione viene vinta dal professor Giuseppe Sanseverino. Ma una delle partecipanti, Monica Bruno, non ci sta e presenta il ricorso amministrativo: il Tar le dà torto mentre il Consiglio di Stato ribalta la sentenza e di fatto annulla la prova che infatti si sta rifacendo in queste settimane. Non è chiaro, dicono i giudici amministrativi, in una sentenza in cui parlano tra le altre cose di "eccesso di potere", quali criteri abbia utilizzato la commissione per "sovvertire il diverso peso dei titoli di ricerca esibiti da ciascun candidato", dunque è tutto da rifare.  Il giudizio amministrativo però rappresenta soltanto una fetta di questa storia. La Bruno ha presentato un corposissimo esposto in procura, preparando persino i capi di imputazione. In un primo momento Taranto ha inviato gli atti a Bari, iscrivendo nel registro degli indagati ventinove persone, cioè tutto il consiglio di dipartimento. Con un provvedimento del 26 febbraio del 2014 firmato dal sostituto Luciana Silvestris e dall'aggiunto Giorgio Lino Bruno, Bari però archivia il reato di falso inizialmente ipotizzato. E rimanda le carte a Taranto per ulteriori valutazioni. Nei giorni scorsi la doccia fredda: il pm di Taranto Remo Epifani ha fatto notificare a undici persone un avviso di garanzia. E' indagata l'intera commissione di esame composta dai professori Gianvito Giannelli, Luigi Paolucci ed Ermanno Bocchino. L'accusa è di falso e abuso di ufficio perché "con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, procuravano intenzionalmente un ingiusto vantaggio patrimoniale al candidato Sanseverino in concorso con il quale agivano, consentendogli il positivo superamento della procedura di valutazione contributiva. Cagionano così un danno ingiusto alla candidata Bruno". Non solo: dice il pm che ci sono anche dei falsi compiuti per "riconoscere al Sanserverino titoli preferenziali inesistenti" per "formulare giudizi favorevoli su pubblicazioni che non potevano essere valutate", il tutto chiaramente per consentire al professore di vincere la prova a scapito della Santoro. Nell'inchiesta è indagato anche il professor Ugo Patroni Griffi che però non faceva parte della commissione ma che è accusato dalla Santoro e dalla procura di aver favorito Sanseverino, perché suo allievo. Agli atti sono state depositate alcune intercettazioni fatte dalla stessa Santoro nella quale altri docenti, ora iscritti nel registro degli indagati (gli altri sono i professori Ermanno Bocchini, Luigi Paolucci, Anna Zaccaria, Francesco Sporta Caputi, Laura Tafaro, Giuditta Lagonigro, Rosa Calderazzi e Francesco Costantino) raccontavano alla collega di sapere che Sanseverino avrebbe dovuto vincere il concorso perché "aveva dei titoli fortissimi". Sanseverino a sua volta è passato al contrattacco depositando una memoria contro la Bruno (moglie del magistrato Ciro Fiore scrive nella memoria) nella quale fa notare tra le altre cose che la collega avrebbe ricevuto un assegno di ricerca mentre svolgeva altri ruoli, tra i quali “perizie contabili e societarie, curatele fallimentari e procedimenti penali” presso gli uffici giudiziari tarantini. Eppure al titolare dell'assegno è "inibito lo svolgimento - dice Sanseverino - in modo continuativo di rapporti di lavoro nonché l'esercizio di attività libero professionali". Oltre questo c'è poi la questione amministrativa. Come detto il Consiglio di Stato ha annullato il concorso perché la commissione avrebbe favorito Sanseverino a scapito della Bruno. 'Confrontando le relative attività di ricerca - si legge infatti nella sentenza emerge, in termini oggettivi, un dato di prevalenza per la dottoressa Bruno". Dopo la decisione dei giudici amministrativi è stata formata una nuova commissione che però ha interrotto i lavori. La Santoro ha mandato loro una diffida, spiegando che avrebbero dovuto rivalutare soltanto i suoi titoli e quelli di Sanseverino e non quelli di tutti gli altri candidati. Una teoria che non ha convinto però il rettore, Antonio Uricchio, che infatti ha chiesto un parere al Consiglio di Stato per capire come comportarsi ed è in attesa di ricevere una risposta. Per il momento il concorso è bloccato. Intanto però l'avviso è diventato un caso in ambito accademico. Anche se tutte le persone coinvolte si dicono serenissime. Se da una parte il legale di Patroni Griffi, Ugo Paliero, si dice sicurissimo di chiarire tutto in tempi stretti anche vista la "posizione marginale" del suo assistito, il difensore del professor Giannelli, Vito Mormando spiega: "I rilievi che gli vengono mossi fanno riferimento a presunte e opinabili irregolarità amministrative, tra l'altro già travolte dalla sentenza del Tar e dal decreto di approvazione degli atti da parte del rettore. Comunque un dato è pacifico: il concorso si è svolto presso l'università di Bari. La competenza non è tarantina".

MAI DIRE MAFIA. FRANCESCO CAVALLARI E LA SFIDUCIA NEI MAGISTRATI.

L’irresistibile ascesa di Cicci e le mille luci della città che pensava in grande. Il rappresentante di farmaci che divenne il re Mida della sanità privata. Nella sua villa cenò Liza Minnelli, scrive Angelo Rossano su “Il Corriere del Mezzogiorno”. È un’alba livida e umida. E’ l’alba di martedì 28 marzo 1995. Se, alla fine, questa storia diventerà davvero la trama per un film, ebbene, la prima scena non potrà che essere questo momento in questa città: Bari. I blitz vengono fatti sempre all’alba, sia che si tratti di criminalità comune, organizzata o di colletti bianchi. Sia che si tratti di sicari di malavita o del sindaco o del direttore della Gazzetta del Mezzogiorno. L’appuntamento con le manette è a quell’ora lì. E lo fu anche quel giorno. Quando 35 persone finirono coinvolte in un’inchiesta sulla sanità privata. Una storia di tangenti, giri miliardari e rapporti mafiosi. Così si disse e si scrisse. Il Corriere della Sera titolò il pezzo: «Tangenti, in manette i padroni di Bari». E poi finirono tutti assolti. Quell’inchiesta era iniziata qualche tempo prima: il 3 maggio del 1994, un altro martedì. Francesco Cavallari finì in manette con alcuni suoi collaboratori per una storia di ricoveri poco chiara. Da lì, alle sue agendine, ai racconti e alle testimonianze sui suoi rapporti con la politica e con i pezzi che contavano nella società barese, il passo fu breve. E’ l’operazione «Speranza» coordinata dall’allora procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia Alberto Maritati (poi divenne parlamentare prima dei Ds e poi del Pd e anche sottosegretario). Al centro di tutto c’è lui: Francesco Cavallari, detto Ciccio solo da chi voleva far credere di conoscerlo bene, mentre il suo vero nomignolo era «Cicci». E con lui finirono nell’inchiesta e agli arresti domiciliari gli ex ministri Vito Lattanzio (Dc) e Rino Formica (Psi), accusati di corruzione e finanziamento illecito ai partiti. Furono pesantemente coinvolti l’allora sindaco di Bari, Giovanni Memola (Psi), accusato di corruzione, l’ex sindaco Franco De Lucia (Psi), ma ancora un ex presidente della Regione, Michele Bellomo (Dc), ex assessori regionali come Franco Borgia (Psi) e Nicola Di Cagno (liberale), il direttore della Gazzetta del Mezzogiorno, Franco Russo. E anche appartenenti alle forze dell’ordine, capiclan, magistrati. In vent’anni sono stati tutti assolti. Tutti, tranne uno: Cicci. Lui aveva patteggiato. Ma l’altro ieri (che giorno era? il 6 maggio, un altro martedì) la Cassazione - proprio in occasione del suo compleanno - ha stabilito di fatto che Francesco Cavallari, l’ex «re Mida» della sanità privata barese, non è mafioso. I giudici hanno disposto un nuovo procedimento per la rideterminazione della pena. Assistito dagli avvocati Franco Coppi e Mario Malcangi, Cavallari nel 1995 patteggiò una condanna a 22 mesi di reclusione per associazione mafiosa e corruzione e gli fu confiscata gran parte del patrimonio, circa 350 miliardi di lire. Chiariamo: la corruzione resta, ma la pena andrà rideterminata. Il patrimonio? Si vedrà. Un vero tesoro accumulato a partire dalla fine degli anni ’70, grazie alla legge che istituì il servizio sanitario nazionale e che prevedeva le convenzioni con i privati. Il rappresentante di medicinali Cavallari compie il grande passo: «Rileva le quote di una società che possedeva la clinica Santa Rita, in via Bottalico, a Bari», racconta Antonio Perruggini, che fu suo stretto collaboratore ed è l’autore del libro Il botto finale, sottotitolo: «Morì un giudice, un imprenditore finì in esilio. Storia dello scandalo giudiziario più clamoroso di Bari e delle sue inaspettate fortune» (Wip edizioni, 10 euro). Fu quella la porta che Cavallari attraversò per entrare negli anni Ottanta da protagonista. Era la Bari da bere, la Bari governata dall’asse socialisti-democristiani. Nelle elezioni del 1981 per la prima volta in città il Psi superò il Pci. Era la Bari del giro vorticoso di soldi e favori, di affari e carriere, di rapporti opachi con il malaffare e la malavita, di assistenza medica privata in cliniche che sembravano alberghi a 5 stelle e posti di lavoro da chiedere e da garantire. Una città dove tutto si teneva insieme. Ma era soprattutto una città che aspirava al ruolo di capitale e poggiava le sue ambizioni su quattro pilastri: la sanità privata, la cultura, la finanza, la tecnologia. Erano le Ccr (le Case di cura riunite), il Petruzzelli, la Cassa di risparmio di Puglia e Tecnopolis. Era quindi anche la città del Petruzzelli e di Ferdinando Pinto, un altro socialista. Un lustro per la città che toccò l’espressione più alta con la produzione dell’Aida in Egitto, tra le vere Piramidi. Altri tempi, si dirà: rubinetti della spesa pubblica sempre aperti e politica compiacente. Certo, ma anche altre ambizioni, altre visioni, altra borghesia. Com’è finita lo ricordano tutti. Teatro in fiamme e a Pinto ci sono voluti dieci anni per dimostrare di essere innocente. Erano anche gli anni delle cene a casa Cavallari: villa su corso Alcide De Gasperi, lato destro andando verso Carbonara, con due piscine (una era coperta e l’altra scoperta), interni progettati dallo studio barese dell’ingegnere Dino Sibilano. Una volta, lì cenò Liza Minnelli, ma c’è chi ricorda anche Umberto Veronesi e Renato Dulbecco. Nulla di strano, in fondo nel frattempo Cavallari era diventato il capo di un’azienda, le Case di Cura Riunite, «cui facevano capo - ricorda Perruggini - 11 strutture a Bari e provincia specializzate in cardiochirurgia, dialisi, cardiologia, chirurgia, geriatria: è stata fino alla metà degli anni ’90 la prima azienda sanitaria privata di Italia con un fatturato prossimo ai 300 miliardi di lire annui e oltre 4mila dipendenti. All’epoca le Case di Cura Riunite erano per dimensioni seconde solo all’Ilva di Taranto». Bari era diventata l’eldorado della medicina convenzionata. Antonio Gaglione cardiochirurgo, già deputato, senatore e sottosegretario, ricorda ancora quell’8 maggio del 1992, oggi sono esattamente 22 anni, era il giorno che i baresi dedicano a San Nicola: a Villa Bianca (clinica Ccr) eseguì per la prima volta in Puglia un’angioplastica su un malato di cuore. Non era un paziente qualunque: si trattava di quel Nicola Di Cagno, politico e docente universitario, che tre anni dopo sarebbe finito coinvolto nell’inchiesta. E se la sera, dopo il teatro, si andava a cena da «Cicci» e dalla moglie, la signora Grazia Biallo, la mattina si facevano affari anche grazie al ruolo che aveva assunto la Cassa di Risparmio di Puglia, presidente Franco Passaro, socialista, docente universitario. Sotto la presidenza Passaro (dal 1981 al 1994) la Cassa diventa banca leader della Puglia assieme al Banco di Napoli. Com’è finita? L’ex presidente ha raccontato nel 2010 la sua versione in un libro La Resa. Piccola storia di una banca e di un processo. Infine, la quarta gamba di questa sorta di «primavera tecnocratica» barese anni ’80. Tecnopolis, il primo parco scientifico e tecnologico d’Italia, nasce alle porte di Bari da un’intuizione del professore di fisica Aldo Romano (prima socialista, poi vicino ai democristiani), allievo di Michelangelo Merlin che era a capo di un dipartimento di fisica, quello barese, dove ci fu la prima laurea d’informatica del Sud, seconda in Italia. Tecnopolis viene inaugurato nel 1984, per l’occasione arriva anche il vice governatore della California e assiste al convegno di battesimo intitolato «Finanza, tecnologia e imprenditorialità». L’Università di Bari, la Banca d’Italia, la Cassa per il Mezzogiorno e il Formez erano insieme nell’incubatore che consentirà la nascita del parco. Il modello del parco scientifico e tecnologico fu esportato in tutta Italia. Anche su Tecnopolis fu aperta un’inchiesta giudiziaria. Romano lasciò la presidenza del parco e andò a insegnare a Roma. Dall’inchiesta, alla fine, non emerse nulla. Nel 1982, intanto, la Regione Puglia, presidente Antonio Quarta varò il «Piano regionale di Sviluppo centrato sull’innovazione». Era l’82 e alla Regione si parlava di innovazione. Oggi Tecnopolis di fatto è InnovaPuglia, società della Regione che progetta e gestisce programmi di tecnologia dell’informazione e della comunicazione ed è anche una società per la promozione, gestione e sviluppo del Parco Scientifico e Tecnologico. Forse si farà davvero un film su un pezzo di questa storia. E se la scena iniziale sarà quella dell’alba sul lungomare di Bari, quella finale non potrà che essere il tramonto di Santo Domingo, dove adesso Francesco Cavallari, detto Cicci, gestisce una gelateria.

Francesco Cavallari, ex «re Mida» della sanità privata barese, non è mafioso. Lui lo aveva sempre sostenuto, ma le sue dichiarazioni dinanzi a pubblici ministeri e giudici erano rimaste inascoltate. E vent'anni dopo arriva la clamorosa decisione della Cassazione: è stata annullata la sentenza con la quale la corte di appello di Lecce aveva respinto l'istanza di revisione del processo al termine del quale nel gennaio 2013 era stato condannato per associazione mafiosa. I giudici della Suprema corte hanno disposto un nuovo procedimento per la rideterminazione della pena. Lo aveva sempre sostenuto e la Cassazione gli ha dato ragione: Francesco Cavallari non è mafioso. La Suprema Corte ha annullato la sentenza con la quale la corte d’Appello di Lecce nel gennaio 2013 aveva detto «no» all’istanza di revisione del processo avanzata dai suoi difensori, sulla base di un principio, in fondo, semplice semplice: un’associazione mafiosa con se stesso non può esistere. Cavallari è stato assistito dagli avvocati Franco Coppi e Mario Malcangi. Bari. Tutti assolti: con questo verdetto, 14 anni dopo gli arresti, si è concluso il processo d’appello per trentuno imputati coinvolti nell’operazione Speranza, in cui la procura di Bari ipotizzava un intreccio tra mafia, politica e affari. E così l’unico colpevole è rimasto Francesco Cavallari, noto come Cicci, per lungo tempo il re Mida della sanità privata pugliese e italiana: l’imprenditore, infatti, dopo essere stato arrestato, patteggiò una pena a ventidue mesi di reclusione per associazione mafiosa e corruzione subendo un sequestro patrimoniale di circa 350 miliardi di vecchie lire. A questo punto, però, visto che tutti i presunti componenti di quella organizzazione criminale sono stati scagionati nei vari processi relativi all’inchiesta che si sono susseguiti nel corso degli anni, Cavallari di fatto risulta associato con se stesso: proprio per questa ragione l’imprenditore, un tempo ex presidente delle Case di Cura Riunite e adesso gestore di una gelateria a Santo Domingo, ha chiesto la revisione del processo. L’inchiesta sul presunto intreccio tra politica, affari e criminalità organizzata nella gestione delle case di Cura Riunite di Bari, denominata speranza, fu diretta dall’allora pm Alberto Maritati, successivamente parlamentare del partito democratico e più volte sottosegretario, e coinvolse politici, magistrati e giornalisti. Tutti, naturalmente, non toccati dalla vicenda. Il vicenda giudiziaria che travolse Bari nel 1995 vide coinvolti oltre all’imprenditore esponenti politici di primo piano (tra i quali gli ex ministri Lattanzio e Formica poi assolti) amministratori regionali e infine esponenti della criminalità organizzata barese. Cavallari da anni vive a Santo Domingo dove gestisce una gelateria.

Lo aveva sempre sostenuto e la Cassazione gli ha dato ragione: Francesco Cavallari non è mafioso, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La Suprema Corte ha annullato la sentenza con la quale la corte d’Appello di Lecce nel gennaio 2013 aveva detto «no» all’istanza di revisione del processo avanzata dai suoi difensori, sulla base di un principio, in fondo, semplice semplice: un’associazione mafiosa con se stesso non può esistere. Le carte, adesso, torneranno a una diversa sezione della Corte d’Appello salentina che dovrà rideterminare la pena che Cavallari aveva patteggiato: corruzione sì, falso in bilancio anche, ma mafia davvero «no». Così ha stabilito la Suprema Corte che ha accolto la richiesta della stessa Procura generale, oltre che quella dei difensori dell’ex «Re Mida» della sanità privata pugliese. «Sono contento che sia stata ristabilita la verità storica su quello che abbiamo sempre sostenuto da molto tempo», ha commentato l’avvocato Mario Malcangi, difensore di Cavallari, insieme con il principe del foro, il professor Franco Coppi. Si chiude così, dopo qua-si vent’anni, non solo la vicenda privata di Cavallari, ma anche quella della imponente operazione denominata «Speranza». Gli inquirenti teorizzarono la sussistenza, nel territorio barese, di u n’associazione a delinquere di stampo mafioso nata da un ben preciso accordo criminoso intervenuto tra Cavallari, maggior azionista e presidente del consiglio d’amministrazione della società «Case di Cura Riunite» s.r.l. e titolare effettivo della Geoservice s.r.l. - e i principali capi clan baresi. Nel mirino degli inquirenti «il controllo di attività economiche e servizi di pubblico interesse » anche «attraverso la manipolazione del consenso elettorale a beneficio di candidati compiacenti». L’operazione rappresentò un «cataclisma» per il sistema politico e imprenditoriale locale. Il primo vero scandalo nella gestione della sanità privata. Pesanti accuse che non hanno retto al vaglio della magistratura giudicante. Personaggi del calibro di Antonio, Sabino, Mario e Giuseppe Capriati, tra gli altri sono stati strada facendo assolti in via definitiva. Era il 1995 quando il gup del Tribunale di Bari aveva ratificato il patteggiamento a una pena (sospesa) di 22 mesi anche per l’accusa di associazione mafiosa per Cavallari. Un patteggiamento criticato dalla stessa sentenza con cui il Tribunale di Bari assolse alcuni suoi computati. Il re della sanità privata, che oggi vive a Santo Domingo dove gestisce una gelateria, non poteva essere considerato credibile quando ammise «di avere posto in essere molteplici e gravi condotte di corruzione di pubblici amministratori e di reati finanziari, e una serie di assunzioni di malavitosi» e non attendibile quando «pur riconoscendo di avere intrattenuto rapporti di connivenza con alcuni boss della malavita» negò «di avere stipulato un rapporto con i clan » . Nel corso del tempo tutti gli altri imputati erano stati assolti in via definitiva dalla stessa accusa. Di qui la richiesta di revoca della sentenza con proscioglimento «dal menzionato delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso, perché il fatto non sussiste, con conseguente rideterminazione della pena inflitta ». La Corte d’Appello di Lecce aveva detto «no». Di diverso avviso la Cassazione. Dalle sentenze di merito è persino emerso come «Cicci» «sia stato sottoposto ad atti di intimidazione da parte dei clan». A seguito del patteggiamento, i giudici confiscarono numerosi beni tra i quali ville, appartamenti e terreni. Tra questi, anche la villa di corso De Gasperi a Bari e l’appartamento in via Putignani, nel centro del capoluogo, ora in uso alle forze dell’ordine. Un sequestro disposto ai sensi del codice antimafia. Adesso il rischio è che potrebbero ritornare nelle mani di Cavallari. Con tante scuse.

«Anzitutto, devo precisare che sono stato difeso da prof. Franco Coppi, ma anche dall’avv. Mario Malcangi di Bari, che mi ha seguito in questa vicenda. Qual è la mia prima reazione? Sono molto, molto felice, perché è tornata serenità e pace in famiglia e, finalmente, penso che potrò ritornare con un bel rapporto con mia moglie, perché purtroppo all’epoca non resse a tutto quel tam tam che ci fu tra carabinieri, guardia di finanza, ecc. Tanto che arrivammo al divorzio. Adesso, penso che lei si sia definitivamente convinta che in casa non ha mai avuto un Totò Riina o un Bernardo Provenzano. Quindi sono molto felice. Anche se in questa grande gioia che provo in questo momento c’è grande dolore per come sono ridotte le mie strutture, che erano un gioiello all’epoca. Non lo dico io, lo dicevano tutti. E soprattutto per le migliaia di dipendenti che hanno perso il posto di lavoro. Io non sono d’accordo con chi dice, con chi ha sempre detto che mi hanno tolto i magistrati, Maritati, Scelsi, 20 anni di vita. Io ho guadagnato 20 anni di vita in questo periodo. Perché se fossi rimasto a Bari, con quelle ansie, preoccupazioni, anni di dolore che ho provato, sarei crepato. Ecco perché io non sono crepato a Bari, ma finalmente, posso dire oggi, che loro mi hanno regalato 20 anni di vita. Quindi, sembrerà un paradosso. Sono grato a quei provvedimenti, che all’epoca presero per la mia libertà personale, che mi consentì, dopo tanti anni, di fare degli accertamenti diagnostici. Da qui venne fuori che ero un cardiopatico. Sto aspettando la mia famiglia, che mi raggiungerà in questi giorni, proprio per chiarire alcune situazioni tra di noi, di famiglia, e, quindi, penso di ritornare al momento debito. Perché adesso voglio completare tutto l’iter giudiziario. Certamente ritornare a Bari. Vedere quello strazio. Quelle condizioni in cui versano le mie strutture. Io penso che eviterò di passare da via Fanelli. Eviterò di passare da via Salandra, da via Ciro Petroni. Ecco quindi cercherò di non frequentare quei posti, per non rivivere certi momenti che ho vissuto. Molto belli. Ho maturato in me una grande decisione, che mi fa piacere, in primis, riportare attraverso Telenorba. Io creerò una fondazione per assistere coloro i quali sono senza difesa, perché non hanno la possibilità di permettersi un avvocato, ed anche un assistenza a parenti di persone che sono incarcerate».

Cavallari fu arrestato nel ’94 e patteggiò la pena di 22 mesi per associazione mafiosa ed alcuni episodi di corruzione. Dalle sue dichiarazioni racconta, rimasero coinvolti una sessantina di politici e tra loro l’ex assessore regionale Alberto Tedesco, che però, non venne indagato. Cavallari affermò di aver dato 20 milioni di lire anche a Massimo D’Alema, ma i pm baresi chiesero ed ottennero l’archiviazione dell’accusa per finanziamento illecito ai partiti. Ha riferito anche che alla fine degli anni 80 un amico gli segnalò per un’assunzione Patrizia D’Addario, ma non se ne fece nulla.

Sanità, Politia ed Affari. E’ già successo a Bari nei primi anni 90, dice Antonio Procacci in un suo servizio su Telenorba. Fu un vero terremoto. Un’ottantina le persone indagate e una trentina gli arrestati. Alla fine ha pagato solo uno: Francesco Cavallari. Il re delle cliniche private. Fu arrestato nel maggio ’94 e scarcerato a novembre, quando cominciò a svuotare il sacco. Fece i nomi, e che nomi: da i ministri Lattanzio e Formica al sottosegretario Lenoci; dall’ex presidente della giunta regionale Michele Bellomo all’ex senatore Alberto Tedesco, a cui, secondo il racconto fatto all’allora pm Alberto Maritati, oggi compagno di partito dell’ex assessore, diede un contributo di 40 milioni di lire per la campagna elettorale di Lenoci, pochi mesi prima del sui arresto. E poi parlò di magistrati, funzionari pubblici, direttori generali di ASL e persino di giornalisti. Partito come informatore scientifico, Cavallari ha costruito un impero. Il più grande della sanità italiana ed europea. Con 10 cliniche private e 4000 dipendenti: pagando mazzette finanziano campagne elettorali ed assumendo centinaia di dipendenti sponsorizzati dai politici e dalla malavita locale. Tutto annotato in agende e sul computer in un file denominato, non a caso, mala.doc. “Sono l’unico imprenditore che non si è potuto sottrarre ai ricatti dei politici, malavita organizzata, magistrati e forze dell’ordine” ha sempre sostenuto e dichiarato Cicci Cavallari, che era solito favorire l’acquisto di materiale sanitario da fornitori che li venivano segnalati dai politici. Nulla di nuovo nella successiva inchiesta “Tarantini”. All’epoca non c’era la droga e neanche le escort, anche se una giovanissima Patrizia D’Addario fu presentata pure a Cavallari, ma con l’intento di fargli eseguire giochi di prestigio in alcune serate nelle sue cliniche. C’erano già, invece, i viaggi regalati, però, non ai medici, bensì ad alcuni giudici e funzionari regionali. La grande differenza di ieri, rispetto ad oggi, la fanno, però, soprattutto i soldi. Davvero tanti: 4,5 miliardi di vecchie lire, secondo le ultime stime che l'ex re delle CCR avrebbe pagato a tutti: dal PCI, come ammesso da Massimo D’Alema, fino all’MSI. Chi più, chi meno, un po’ tutti confermarono di aver intascato mazzette da Cavallari, anche se alla fine, gogna mediatica a parte, nessuno, o quasi, ha pagato. Anzi, è la Regione Puglia che deve pagare a Cavallari 63 milioni di euro per TAC, risonanze magnetiche e ricoveri in esubero non saldati ai tempi dello scandalo. Fu proprio Tedesco, all’epoca assessore alla Sanità, a stoppare i pagamento alle CCR, come ha ricordato recentemente il re Mida della Sanità. Per non parlare delle parcelle degli avvocati, che hanno difeso molti di quei politici e rigorosamente a carico dello Stato. Alcuni di essi si sono ritirati dalla scena, altri invece, sono ancora sugli scudi.

Guardia di finanza in azione: finiti in prigione anche l'ex assessore regionale Marroccoli e un consigliere comunale di Bari. TITOLO: Puglia, manette alla sanità privata. Tra le accuse più pesanti: truffa aggravata, falso e corruzione. Ricoveri mai effettuati, pagati dall'Usl 600 mila lire al giorno. Coinvolti anche i vertici di "Apulia Salus" e "Santa Maria". Ventisei arresti, il carcere attende Francesco Cavallari padrone di dieci cliniche, scriveva Piraino Giancarlo su “Il Corriere della Sera” il 4 maggio 1994. Per qualche ora s'è temuto che, avvertito in tempo, fosse riuscito a riparare all'estero. Poi, a metà pomeriggio, è giunta notizia che stava tornando da Milano per costituirsi ai giudici baresi. Francesco Cavallari, "re" della sanità privata in Puglia, era stato infatti raggiunto da due ordinanze di custodia cautelare. Al mattino era già finito in cella Paolo Biallo, suo cognato e braccio destro nella gestione delle Case di cura riunite (10 cliniche, 4 mila dipendenti, 250 miliardi di fatturato all'anno), il direttore sanitario Nicola Simonetti (piantonato in ospedale), e altri quattro tra medici e dirigenti del gruppo. Sempre in mattinata erano stati arrestati l'ex assessore alla Sanità della Regione Puglia, Tommaso Marroccoli, e un consigliere comunale di Bari, Giuseppe Pellecchia. Il blitz della Guardia di finanza aveva raggiunto anche i vertici dei due gruppi concorrenti delle Case riunite: i fratelli Franco e Giuseppe Cacurri, proprietari dell'Apulia Salus (tre cliniche, più altre tre partecipate) e Vincenzo Traina, della Santa Maria. Coinvolti anche tre funzionari della Regione, Maria Grazia De Luca, Nicola Armenise e Lorenzo D'Armento. In tutto 34 ordinanze di custodia cautelare, che hanno interessato 27 persone (qualcuno ne ha ricevuta più d'una). Truffa aggravata, falso, reati contro la pubblica amministrazione e corruzione, i reati contestati dai giudici Giovanni Colangelo ed Annamaria Tosto. I provvedimenti sono stati firmati dal gip Maria Iacovone. In ballo i ricoveri in regime di convenzione e soprattutto quelli d'urgenza. Negli uffici dei funzionari regionali sono stati sequestrati documenti riguardanti il periodo 1990-93. Alle sole Case di cura riunite sarebbero stati versati 85 miliardi per ricoveri mai effettuati. Un soggiorno di degenza, alla Mater Dei o altra clinica del gruppo, costava sino a 600 mila lire. L'indagine sarebbe partita da una denuncia riguardante le risonanze magnetiche e le Tac. Differenziate le accuse: quella di corruzione riguarderebbe solo i vertici delle Case di cura riunite, l'ex assessore Marroccoli e i funzionari regionali. Marroccoli, i funzionari regionali e i vertici delle Case di cura sono finiti in carcere; per tutti gli altri, arresti domiciliari. Per Bari è un autentico terremoto. I personaggi sono tutti notissimi. Cavallari era nel mirino della magistratura da tempo. Il sostituto procuratore Nicola Magrone (ora deputato progressista) aveva accusato lui e il cognato Paolo Biallo d'assunzioni fatte negli ambienti della malavita. L'indagine gli era poi stata tolta, alla vigilia, pare, del coinvolgimento di alcuni personaggi politici. Magrone era stato anche deferito al Csm e poi completamente prosciolto. Di fronte al plenum del Csm era invece finito nel gennaio scorso il procuratore generale di Bari, Michele De Marinis. A lui erano stati contestati anche l'atteggiamento tenuto in quella vicenda e la sua supposta amicizia con Cavallari, ma nei suoi confronti non era poi stato assunto alcun provvedimento. La sanità privata pugliese è sempre stata al centro di polemiche politiche. Le opposizioni, di destra e di sinistra, alla giunta regionale hanno sempre contestato l'entità dei finanziamenti. Cifre imponenti: nel solo bilancio 1993 94, 310 miliardi, più altri 100 per la sola assistenza nelle malattie da tumore. Dei 310 miliardi i due terzi sarebbero finiti ai tre gruppi ora sotto indagine; i 100 miliardi per l'oncologia quasi tutti alla sola "Mater Dei", clinica di Cavallari in regime di convenzione con la Regione sino al 31 dicembre di quest' anno. Dopo quella data il governo della Puglia dovrebbe decidere se rinnovare la convenzione o acquistare la clinica. Ma in questo caso Cavallari aveva già pronta la soluzione di ricambio: proprio in questi giorni stava per varare l'Istituto oncologico del Mediterraneo, con i soldi dell'Isveimer e della Cassa di risparmio di Puglia; benchè il suo gruppo abbia con la Cassa barese un'esposizione di 65, qualcuno dice 100 miliardi.

Il giudice morto che turba un pm e un senatore Pd, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”,  Lun, 26/09/2011 con  Massimo Malpica. Le inchieste sulla sanità pugliese, le accuse tra magistrati, gli esposti al Csm, le denunce in Procura. I veleni tra le toghe baresi di questi giorni, che vedono l'ex pm Scelsi contrapposto al capo dell'ufficio giudiziario del capoluogo, Laudati, ricalcano una storia oscura di 15 anni fa. Nel 1994 la Procura di Bari indaga su un re della sanità pugliese, Francesco Cavallari, presidente delle Case di cura riunite. Al lavoro ci sono quattro pm. Alberto Maritati (l'attuale senatore Pd che a detta di Scelsi, nel 2009, gli chiese notizie sull'affaire Tarantini per conto del dalemiano De Santis) e Corrado Lembo della Direzione nazionale antimafia, Giuseppe Chieco e Pino Scelsi (lo stesso che oggi accusa Laudati) della Dda locale. Procuratore capo facente funzioni è Angelo Bassi.

Bassi non è una toga rossa. Non ha colori. A dicembre '94 difende Antonio Di Pietro: «Si sono disfatti di un magistrato scomodo facendo disperdere intorno a lui il senso della giustizia», detta alle agenzie. Quando però il mese prima Silvio Berlusconi era stato raggiunto da un avviso di garanzia alla conferenza Onu sulle mafie, Bassi aveva apertamente parlato di «scempio». Non sui giornali, ma in ufficio sì. Tanto era bastato, racconta oggi la moglie, Luigina, per inquadrarlo come «non allineato». Di certo, da quel momento la sua vita prende una piega drammatica. Bassi, come tanti a Bari, conosce Cavallari, che è sotto intercettazione. Viene registrato un colloquio tra l'aggiunto e l'indagato. I due si danno del tu, si chiamano per nome. E poi, un giorno, a dicembre del 1994, Bassi va a casa di Cavallari per interrogarlo. «Essere andato a interrogare Cavallari, che intendeva collaborare, a casa sua (...) bastò a far decretare la mia fine», racconta lui stesso, a luglio del 1997, a Carlo Vulpio del Corriere della Sera. I «colleghi» che indagano su Cavallari lo denunciano alla procura di Potenza (allora competente per i magistrati baresi, ora è Lecce, come Laudati sa bene) e al Csm. Bassi si ritrova indagato: abuso di potere e omissione di atti d'ufficio le ipotesi di reato. Il Csm a settembre del 1995 lo trasferisce a Napoli: incompatibilità ambientale. E l'otto novembre '96 viene rinviato a giudizio dalla procura di Potenza. Proprio due dei suoi «accusatori», Scelsi e Chieco, in udienza confermano che Bassi «li raggiunse nel loro ufficio per informarli dell'incontro con Cavallari», nel corso del quale Bassi aveva raccolto una confidenza, utile per un'indagine che vedeva Maritati parte lesa a Potenza, subito trasmessa dagli stessi pm alla procura lucana. Non sembra un comportamento da favoreggiatore. Infatti il 14 marzo '97 Bassi viene assolto perché il fatto non sussiste. La motivazione della sentenza è devastante per gli accusatori dell'ex procuratore, e stigmatizza in particolare Maritati. Che, pur in conflitto di interessi, come inquirente e come parte lesa di quelle dichiarazioni, secondo il giudice «non ha avvertito la necessità di astenersi dal prendere parte a qualsiasi iniziativa del suo ufficio in relazione ad un fatto che lo riguardava personalmente, ed abbia anzi redatto unitamente ai colleghi Chieco e Scelsi la relazione inviata in data 23-12-94 al procuratore della Repubblica di Potenza». Bassi, assolto in tribunale, il giorno dopo la sentenza viene condannato in ospedale, dove gli viene diagnosticata una malattia in fase terminale. Morirà un anno dopo, non prima di aver denunciato i suoi accusatori Maritati, Scelsi, Chieco e Lembo che si ritrovarono sotto indagine a Potenza in un fascicolo. Archiviato. Come archiviata finì la denuncia degli stessi pm da parte di Cavallari, che nella maxi-inchiesta barese che aveva coinvolto anche big della politica come Massimo D'Alema (percettore per sua stessa ammissione di un finanziamento da Cavallari, ma il reato era prescritto) era stato, alla fine, l'unico condannato, patteggiando 22 mesi. Decisivo per chiudere l'indagine potentina in cui Cavallari denunciava «gravi violazioni» dei pm, fu il nastro di un colloquio in procura a Bari di Maritati e Chieco con lo stesso Cavallari, in cui l'imprenditore rivelava ai suoi interlocutori una sorta di «complotto» della politica contro di loro. Deja-vu? Fatto sta che Cavallari, di fatto, li scagiona mentre, a Potenza, li accusa. Tutto normale? Insomma. Maritati, come rimarcava in un'interrogazione del '97 l'allora senatore di An Ettore Bucciero, era «al contempo indagato (...) e magistrato inquirente che raccoglie e registra le dichiarazioni confidenziali del suo accusatore». Un delirio. Ma non è la sola stranezza. Quel verbale viene chiuso con Maritati che fa presente come alle «11.50 del giorno 12 febbraio 1996, Cavallari è uscito dalla nostra stanza», a Bari. Eppure lo stesso Cavallari quel giorno, secondo gli atti del procedimento della procura lucana, venne convocato e interrogato dai pm Nicola Balice ed Erminio Rinaldi. Alle 12: dieci minuti dopo, a 140 chilometri di distanza. E i due magistrati, ascoltando il nastro barese dell'ubiquo imprenditore, invece di stupirsi della strana coincidenza di date, chiesero (e ottennero) l'archiviazione per il futuro senatore Maritati e per i suoi colleghi. Chi tocca certi fili muore, come Bassi.

“Cavallari? Il male lo ha subito”. "In punta di piedi mi permetto di rivolgermi alla Sua persona in qualità di amico di Francesco Cavallari, dopo aver appreso dagli organi di informazione della consegna, anche alla Sua presenza, della villa di Rosa Marina in favore di una nobile causa sociale. Annoveri anche il buon Cavallari nelle preghiere che anche altri vescovi gli hanno sempre riservato". "In punta di piedi mi permetto di rivolgermi alla Sua persona in qualità di amico di Francesco Cavallari, dopo aver appreso dagli organi di informazione della consegna, anche alla Sua presenza, della villa di Rosa Marina in favore di una nobile causa sociale. Annoveri anche il buon Cavallari nelle preghiere che anche altri vescovi gli hanno sempre riservato". Una lettera aperta, (pubblicata da Nicola Quaranta su “Brindisi Report”) una difesa a tutto campo dell'imprenditore barese Francesco Cavallari. Antonio Perruggini, ex responsabile delle Pubbliche relazioni del Gruppo Case di Cura Riunite di Bari, all'indomani dell'inaugurazione, presso l'ex villa del Re delle Ccr di Bari, del Centro per l'autonomia, ripercorre le tappe della vicenda giudiziaria di Cicci Cavallari: fondatore delle "Case di Cura Riunite" di Bari, coinvolto negli anni Novanta nella tangentopoli barese. E lo fa rivolgendosi in prima persona al Vescovo di Brindisi e Ostuni, monsignor Rocco Talucci, che nel corso della cerimonia di benedizione ha sottolineato il senso e il valore dell'evento che ha sancito la consegna ai volontari del Centro per la riabilitazione dei disabili del patrimonio immobiliare a suo tempo confiscato: "Come nella Resurrezione, siamo a celebrare il passaggio dal male al bene". Queste le parole del vescovo. Ma chi, al fianco di Cavallari, ha lavorato per anni, vivendo la stagione fortunata delle Case di cura Riunite (all'epoca azienda leader in Europa nella Sanità Privata, con 250 miliardi di fatturato, undici presidi e oltre 4000 dipendenti), non ci sta: "Il Procuratore della Repubblica di Bari Angelo Bassi, il magistrato integerrimo che si permise di trattare Francesco Cavallari con umanità pur non avendo mai avuto alcun rapporto con lo stesso imprenditore imputato per mafia, mentre era in preda a atroci sofferenze, mi disse poco prima di morire che il caso Cavallari sarebbe terminato con un botto finale. E così è stato, anche se quello più fragoroso deve ancora arrivare. Non so se Cavallari assisterà a quell'esplosione, ma di sicuro il suo nome, la sua storia e quella dei suoi carnefici, ci saranno. In prima fila, ognuno con le proprie responsabilità e meriti. Proprio come diceva l'indimenticabile magistrato". La ragione dello sfogo: "Ancora oggi - scrive Perrugini - le cronache regalano pezzi di ingiustizia, così eclatante da far rabbrividire. Mi chiedo come si può non sapere che quell'uomo è innocente e ha subito ingiustamente un martirio durato 17 anni. Invece ancora oggi in pompa magna autorevolissimi esponenti della politica, dello Stato e della Chiesa partecipano all'affidamento di un bene di Cavallari, sequestrato perché lo stesso era accusato (mai condannato !) di ipotesi mafiose risultate penosamente infondate. Anzi infondatissime. E così l'azione devastante verso quell'uomo e l'azienda che aveva realizzato, ovvero di quelle cliniche che furono un vanto per il territorio pugliese e un esempio di eccellenza clinica per il meridione di Italia, pare non terminare mai, nonostante ben tre gradi di giudizio che hanno urlato la stessa parola finale: innocente. Dopo 17 anni". E la difesa continua: "Era il 17 dicembre del 2009 quando per l'ennesima volta un collegio giudicante di appello aveva sconfessato sonoramente tutta l'opera costata miliardi, contro Cavallari. Ma non bastò. Chi volle il suo sacrificio, quello della sua famiglia e dei suoi dipendenti, non si dette per vinto e in un ultimo disperato tentativo, tentò la strada della Cassazione, che con decisione ha consacrato quanto per anni e in tutte le lingue aveva riferito e avevano motivato i suoi legali. Non bastarono le testimonianze, i riscontri inesistenti, le rogatorie internazionali in mezzo mondo finite con un nulla di fatto, e la leale collaborazione dell'imprenditore a far ragionare i suoi accusatori". "Doveva sparire. E così avvenne. Ora è esiliato a Santo Domingo. Oggi è gravissimo e in certi versi sconvolgente, che la "signora con la spada" pronta a troncare ogni ingiustizia, non ottenga il giusto rispetto. E così mentre si scrive la parola fine "all'assalto alla diligenza", ora deve essere il tempo della presa d'atto di un fallimento e del riconoscimento morale e materiale di quanto è avvenuto in danno di un innocente. Di mafia si intende. Perché Francesco Cavallari è stato accusato di altri reati, che non potevano procurare l'attacco verso tutto il suo essere e consentire di entrare anche nei "buchi delle sue serrature" e incenerire anche la polvere che calpestava. Quindi l'affondo, nelle parole di Peruggini: "L'affare ciclopico c.c.r". ha sorpassato da tempo i limiti della decenza politico-economico - istituzionale e nonostante le urla di giustizia consacrate in coerenti sentenze penali e civili, non ha fatto muovere nulla e nulla è stato fatto, come se in una sorta di limbo imbalsamato e maledetto da un diabolico sortilegio, "la bestia" doveva restare vittima, in attesa della tanto adorata "bella". Quello che è stato più volte e chiaramente scritto "in nome del popolo italiano", evidentemente ha infastidito i pochi reduci della "lotta verso Cavallari" e così mentre viene consacrato che quanto ha subito è stato davvero troppo, attraverso le ipotesi di mafia e truffa naufragate insieme alle loro congetture, l'unica vittima di questo affare colossale, resta Cicci Cavallari che ha creato lavoro e sviluppo economico, restando completamente estraneo alle insussistenti accuse del naufragio annunciato". Ed in fine le conclusioni: parole rivolte direttamente a monsignor Talucci. "Mi aspetto che almeno un Vescovo, con il suo noto senso di Carità avverta la opportunità di condividere una atroce sofferenza, agevolmente da conoscere con un minimo cenno, al fine di poter annoverare anche il buon Cavallari nelle preghiere che anche altri vescovi gli hanno sempre riservato. Penso che qualsiasi uomo che sente il dovere della giustizia terrena e divina, debba avere la gioia di conoscere una storia, a maggior ragione quando questa è costellata da grandi sofferenze trasformate spesso in altre versioni lontane dalle sentenze e dai fatti per il tramite di articoli e menzogne riportate in centinaia di "cronache", e in libri pubblicati e venduti sulla pelle di Cavallari e di una azienda passata di mano senza troppe esitazioni". "La storia vera, che in tutta solitudine Cavallari, ormai stremato, ha invocato per anni e che non è stata mai ascoltata ha sostenuto invece varie fortune politiche, una drammatica disoccupazione e l'affermazione di un nuovo modello di gestione della sanità che viviamo ogni giorno. Basta ancora oggi alzare il telefono e chiedere la disponibilità di una Risonanza Magnetica o di una Tac per rendersene conto". La chiosa, in calce alla lettera indirizzata al vescovo: "Ringrazio il Signore - scrive Perruggini - per avermi donato la gioia di essermi rivolto alla Sua pregevole persona e di aver vissuto nel mio cuore un glorioso momento di giustizia, pregandoLa di perdonare il mio sfogo e di rivolgere la Sua preghiera e il Suo perdono anche verso chi a Cavallari volle così male". La storia giudiziaria di Cavallari, in sintesi: negli anni Novanta l'imprenditore barese finì in manette nell'ambito di un'operazione che portò la magistratura a scoperchiare un presunto intreccio affaristico, politico, criminale. Una vicenda giudiziaria che scosse nel capoluogo i palazzi del potere. Cavallari a suo tempo patteggiò la pena, quella di associazione per delinquere di stampo mafioso, e uscì dal carcere. Riacquistata la libertà, perse però i suoi averi. Quel patteggiamento, infatti, segnò la fine del suo impero economico e portò alla confisca di gran parte dei beni di famiglia, compresa la lussuosa villa nel residence più esclusivo del litorale ostunese. Nei mesi scorsi la Cassazione ha chiuso anche l'ultimo capitolo di quella vicenda giudiziaria, dichiarando inammissibile il ricorso che era stato presentato dalla Procura generale avverso la sentenza con la quale nel 2009 i giudici d'appello mandarono assolti, perché il fatto non sussiste, anche le dodici persone ritenute vicine ai clan baresi a cui, sempre secondo la Pubblica accusa, Cavallari aveva concesso una serie di aiuti, a partire dalle assunzioni presso le sue cliniche. Nel corso del tempo furono assolti anche gli altri personaggi eccellenti coinvolti in quella inchiesta: ex assessori e funzionari regionali, ex ministri, giornalisti. Cavallari, l'unico all'epoca a scegliere la strada del patteggiamento, risulta così anche l'unico colpevole.

Maritati & C.: “liberammo Bari”. Adesso chi ci libererà da loro? Si chiede Nicola Picenna su “Toghe Lucane”. L'inchiesta “Speranza” (31 imputati) e l'inchiesta “Toghe Lucane” (34 indagati) hanno molto in comune, oltre al numero degli indagati che quasi quasi coincide. Entrambe ipotizzano una vasta rete di corruttela fra imprenditori, politici, magistrati e delinquenza comune e non. Entrambe sembrano destinate a finire in un nulla di fatto. Tutti assolti in appello (tranne Francesco Cavallari che aveva scelto il patteggiamento) quelli di “Speranza”. Tutti in attesa che si pronunci il Gip sulla richiesta di archiviazione tombale, per “Toghe Lucane”. Uno dei PM che aveva condotto le indagini nell'inchiesta “Speranza”, Alberto Maritati, difende il suo operato: “può anche succedere che l'accusa venga rovesciata con una sentenza di assoluzione, ma non per questo si deve pensare che il pm sia stato un cieco persecutore”. Anche il Procuratore Capo, Giuseppe Chieco, difende l'operato della Procura di cui ha la responsabilità, criticando quello del dr Luigi de Magistris dopo che gli indagati da quest'ultimo – nel “filone” Marinagri, troncone rilevante del “Toghe Lucane, sono stati assolti. Nel processo “Speranza”, “non si deve pensare che il pm sia un cieco persecutore. I provvedimenti cautelari da noi richiesti sono passati al vaglio di tre giudici: il gip, il Tribunale del Riesame e la Cassazione”, così parla Alberto Maritati. Nel procedimento “Toghe Lucane-Marinagri” il provvedimento (cautelare) del sequestro del cantiere è stato confermato dal Gip, dal Riesame, dalla Cassazione e, per altre due volte, nuovamente dal Gip. Ma De Magistris viene dipinto come un “cattivo magistrato”. Nel procedimento penale “Toghe Lucane” il pensiero infamante è obbligatorio. “Di regola il pm che svolge le indagini è lo stesso che sostiene l'accusa anche nel dibattimento e, a certe condizioni, anche in appello. I pm non hanno seguito il procedimento fino alla conclusione... e il processo è stato spezzettato in tanti tronconi: questo secondo me ne ha decretato la fine”. Così parla Maritati del processo “Speranza” e non si sbaglia. Per “Toghe Lucane” è lo stesso. Il primo pm (Luigi de Magistris) viene sottratto all'inchiesta; gli subentra Vincenzo Capomolla che spezzetta “Toghe Lucane” in tanti tronconi. Nel momento topico del processo anche Capomolla evapora. Arriva Cianfrini che in pochi minuti valuta quintali di atti giudiziari e chiede l'assoluzione. Gabriella Reillo, Gup dalle indiscusse capacità valutative, assolve. “Quell'inchiesta ha liberato Bari da una cappa... Cavallari controllava la città. Così come ha detto egli stesso a noi e come ha detto a voi (Corriere del Mezzogiorno, ndr) nell'intervista conferma di aver distribuito 4 miliardi di lire ai politici e non solo”; sempre Maritati che parla apertis verbis. Anche per “Toghe Lucane” emergeva la “cappa” o, come scrisse De Magistris, “l'associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, alla truffa aggravata ai danni dello Stato ed al disastro doloso”. Che Bari si sia liberata da quella cappa, alla luce delle recenti inchieste sulla sanità pugliese, appare affatto certo. Come accade in Basilicata, dove gli indagati da De Magistris (in buona parte) occupano ancora i posti di comando e controllo. Se non che, a guardare tutto, si scopre che Giuseppe Chieco, oggi fra gli indagati in “Toghe Lucane” è stato fra i PM dell'inchiesta “Speranza” insieme con Maritati. Che Chieco e Maritati furono indagati per abuso d'ufficio in una inchiesta tenuta dalla Procura di Potenza da cui vennero prosciolti grazie alle improvvide dichiarazioni rese loro (che strano) proprio da Francesco Cavallari. Era il 12 febbraio 1996, in Procura a Bari, presenti Chieco, Maritati e Cavallari. Ma Cavallari nega e si scopre che in quello stesso giorno, a quella stessa ora, Cavallari Francesco veniva interrogato a Potenza. Carte false, Chieco e Maritati vennero salvati da carte false autoprodotte. “Liberammo Bari” dice Maritati, ma chi ci libererà da loro? p.s. Qualcuno chieda ad Alberto Maritati, perché la quota parte dei 4 miliardi finita nelle tasche di Massimo D'Alema finì con la prescrizione e come mai egli decise di candidarsi proprio nel partito di Max e come fu che, eletto alle suppletive, D'Alema lo volle immediatamente sottosegretario nel I e II governo di cui era Presidente del Consiglio. Qualcuno chieda a Maritati perché non indagò Alberto Tedesco, indicato fra i percettori di una quota consistente dei “soliti” 4 miliardi; come oggi risulta indagato per analoghe operazioni poste in essere da assessore della giunta “Vendola”. Qualcuno chieda a Maritati come fa a sostenere lo sguardo dei parenti di quel magistrato coperto da accuse infamanti ma poi assolto per non aver commesso il fatto. Qualcuno gli chieda perché, ancora oggi, non sente vergogna ogni qualvolta ne richiama la memoria, tradendolo anche da morto, come di un magistrato colpevole di inqualificabili (ma inesistenti) reati.

E POI PARLIAMO DELL'ILVA.

Il tribunale fallimentare di Milano ha dichiarato lo stato di insolvenza dell'Ilva di Taranto, nell'ambito della procedura di amministrazione straordinaria. Come giudice delegato per la procedura stessa è stata nominata Caterina Macchi. Si apre quindi il capitolo finale per la tormentata azienda siderurgica, ormai destinata al fallimento.  L'azienda "presenta un indebitamento complessivo pari a 2.913.282.000 euro", scrivono i giudici nella sentenza. Secondo i giudici l'Ilva "si trova in stato di insolvenza come adeguatamente illustrato nel ricorso" del commissario straordinario presentato lo scorso 21 gennaio e "comprovato dalle allegazioni documentali, risultando - si legge nel provvedimento - che la società presenta capitale circolante negativo per circa 866 milioni di euro, una posizione finanziaria netta negativa per 1583 milioni di euro, una progressiva riduzione del patrimonio netto contabile e una redditività negativa della gestione" sempre in riferimento al 30 novembre 2014. Mancano materie prime, stop alcuni impianti - Intanto a rendere ancora più complicata una situazione non facile, è arrivato l'annuncio dell'Ilva ai sindacati metalmeccanici di fermare alcuni impianti a causa del mancato rifornimento delle materie prime provocato anche dalla protesta degli autotrasportatori. "L'azienda - dice Vincenzo Castronuovo della Fim Cisl di Taranto - ha precisato che la situazione potrebbe cambiare in caso di ripartenza degli approvvigionamenti".

“Il futuro dell’Ilva è legato a filo doppio a quello di Taranto e a quello di un intero comparto, strategico per gli interessi nazionali. Per questo qualsiasi intervento inerente lo stabilimento va ben oltre l’ambito locale, e merita di essere affrontato in maniera approfondita e valutato in tutti i suoi possibili aspetti e in tutte le sue profonde ripercussioni, al netto da contrapposizioni demagogiche e pregiudiziali, cercando di alimentare e stimolare confronto e dialogo e non uno scontro sempre più esasperato” ha affermato  Nuovo Centrodestra in Consiglio regionale, Domi Lanzilotta. “E la preoccupazione per il contesto ambientale e per la tutela dei posti di lavoro va ovviamente estesa anche al considerevole indotto: apportando quindi i dovuti correttivi al decreto che ha restituito allo Stato una necessaria centralità per evitare la svendita dell’impianto, ma al tempo stesso non chiedendo e auspicando ripensamenti e retromarce in palese contraddizione con le precedenti, dure e motivate critiche e preoccupazioni per la gestione -piena di ombre- dei privati. Il momento così critico deve indurre allora a stemperare la tensione e a una piena assunzione di responsabilità da parte delle parti chiamate in causa. Per la ricerca di un difficile equilibrio, alla luce delle numerose difficoltà e criticità emerse, ma che va trovato nelle sedi istituzionali, per non lasciare sprofondare Taranto in un nuovo incubo, dopo anni di buio e colpevole silenzio”.

Lospinuso: “Non può essere lo Stato a far fallire le imprese, si paghino subito i debiti indotto Ilva”. “Confindustria Taranto lancia un grido di allarme: il decreto per Taranto, anziché salvarla, rischia di affossare la città con una crisi occupazionale senza precedenti. Eppure, Forza Italia ha presentato emendamenti risolutori, proposti anche dal Senatore Amoruso, che rappresentano la strada maestra per garantire i crediti vantati dalle aziende dell’indotto, evitandone il fallimento”. Lo sostiene in una nota il consigliere regionale di Forza Italia, Pietro Lospinuso. “Oltre ai 3000 dipendenti delle aziende dell’indotto che rischiano il posto di lavoro – aggiunge – anche l’Ilva potrebbe mettere in cassa integrazione 5000 dipendenti. Ciò vuol dire che l’intera città di Taranto rischia il fallimento. Pensare che le aziende abbiano fornito materiali e prestazioni per l’Ilva in questi mesi, contando sull’affidabilità dello Stato che l’amministrava tramite i suoi commissari; e che oggi queste realtà economiche siano sul filo del rasoio, è veramente il colmo. Non può essere lo Stato a far fallire le imprese ed anzi, deve pagare i debiti pregressi del siderurgico: il senatore Amoruso propone una soluzione che ritengo condivisibile e concreta per la salvaguardia del sistema-impresa di Taranto. Come proposto negli emendamenti presentati, il governo potrebbe garantire i debiti al 100% presso le banche con la Cassa Depositi e Prestiti, e così gli istituti di credito presterebbero le somme necessarie. Agli imprenditori non resterebbe che pagare gli interessi alle banche per i prestiti ricevuti e per lo Stato sarebbe una manovra quasi a costo zero. In alternativa, potrebbe essere la stessa Cassa depositi a finanziare le imprese dell’indotto in forza dei crediti da riscuotere dall’Ilva. Il governo, inoltre, potrebbe prevedere, nel decreto in questione, la sospensione dei debiti delle imprese interessate verso Equitalia, come prima misura di sostegno per le realtà economiche che non vengono pagate ormai da mesi. Come pure si potrebbe immaginare un sistema di compensazione fiscale per le imprese interessate”. “Siamo aperti ad ogni altra alternativa – conclude Lospinuso – purché non sia una chiacchiera per perdere altro tempo. Taranto è una questione nazionale e adesso non c’è più tempo per scherzare”.

Come si fa a salvare l’Ilva senza la collaborazione della procura di Taranto? Si chiede Luigi Amicone  su “Tempi”. Siamo stati facili profeti quando abbiamo ricostruito le pazzesche vicende di questo tipico caso di “catastrofe italiana” indotta per via giudiziaria. Eppure una via di uscita che non sia il fallimento o la statalizzazione si può ancora trovare due numeri a fotografare lo spartiacque tra cos’era prima della “cura” a cui è stata sottoposta dalla procura di Taranto e cos’è oggi, dopo tre anni di inchieste, arresti, sequestri, blitz della polizia giudiziaria, la più grande acciaieria d’Europa: da una media di utili annua che sfiorava i 100 milioni, Ilva è passata a perdite secche di 1 miliardo l’anno. Siamo stati facili profeti quando ricostruimmo le pazzesche vicende di questo tipico caso di “catastrofe italiana” indotta per via giudiziaria. Adesso, dopo che l’azienda è stata commissariata (e naturalmente indagato anche il commissario governativo Enrico Bondi, sostituito nel giugno scorso con Piero Gnudi dal governo Renzi) la fotografia è la seguente: permanendo il sequestro giudiziario su due terzi dello stabilimento, le banche hanno staccato un assegno di 125 milioni come seconda rata di un prestito che servirà a pagare stipendi di dicembre e tredicesime agli 11 mila dipendenti. Dopo di che, buio completo. Non si sa come verranno pagati gli stipendi a partire dal prossimo gennaio. E soprattutto non si sa chi salderà i circa 400 milioni di debiti scaduti con i fornitori. Non bastasse, quale investitore straniero può essere così matto da prendersi sul gobbo un’azienda condannata a intervenire con bonifiche ambientali per 1,8 miliardi di euro (pena il mancato dissequestro degli impianti) e sul cui capo pendono richieste di risarcimento danni per 35 miliardi? Essendo un caso tragico di zelo giudiziario, il genio della giustizia italiana si è inventato di tutto. Perfino il prelievo forzoso (e l’uso per ricapitalizzare l’acciaieria commissariata dallo Stato) degli 1,2 miliardi sequestrati ai Riva (tutt’ora, almeno per il diritto nazionale e internazionale, proprietari al 90 per cento delle acciaierie) nell’ambito di un’inchiesta milanese che li accusa di truffa ai danni dello Stato. Le banche e gli otto trust a cui i Riva hanno affidato il loro “tesoretto” (oltre che un ricorso pendente in Cassazione), hanno fatto sapere che, mancando una sentenza definitiva sulla partita giudiziaria (che nulla ha a che vedere con il caso Ilva) non se ne parla nemmeno di utilizzare quei soldi. Di qui l’impasse che lascia presagire il peggio. Ad oggi sono solo chiacchiere le notizie che circolano di aziende italiane ed estere che sarebbero disposte a entrare nell’“affare” Ilva. Corre ad esempio la leggenda secondo cui il più grande gruppo europeo dell’acciaio (gli anglo-indiani di Arcelor-Mittal, alleati con Marcegaglia) avrebbe presentato un’offerta. E si racconta che anche il lombardo Arvedi sarebbe disposto a entrare nella cordata. In realtà, vere e proprie offerte per l’Ilva non ce ne sono. Per questo si è dato inizialmente spago alla voce di un intervento dello Stato che consentisse di sfruttare anche per le acciaierie tarantine la legge Marzano. Uno schema che in pratica prevederebbe il fallimento pilotato dell’Ilva e la sua cessione. Ma è difficile immaginare un percorso per cui, prima si fa fallire un’azienda per via giudiziaria. Poi la si sottrae con un commissario governativo (esproprio) ai suoi legittimi proprietari. Infine il governo la rivende al migliore offerente. Ora, sebbene alla Fiom non dispiaccia questa via (tant’è che a Repubblica Landini dice «no, assolutamente no» a un piano di salvataggio dell’Ilva che coinvolga anche gli attuali proprietari), Renzi ha capito in fretta che non può essere questa la strada di un paese che sta in Europa e che vorrebbe ricominciare ad attrarre gli investitori stranieri piuttosto che gli avvoltoi. Dunque? «Dunque stiamo a vedere», dicono a Federacciai. «Renzi è intelligente. Capisce bene che l’Ilva non può fallire e non può mettere per strada 11 mila operai, più un centinaio di imprese che lavorano nell’indotto. Se lo Stato fa la sua parte e i Riva, come hanno fatto sapere, faranno la loro, una via d’uscita si trova». E magari una via d’uscita modello Alitalia. Con un bad company che si accolla le passività e la giungla di pendenze giudiziarie. E una new company che riparte grazie a un mix di ricapitalizzazione privata (banche, Riva, Arvedi, Arcelor-Mittal-Marcegaglia) e intervento statale (Cassa depositi e prestiti, attraverso il Fondo strategico). Certo, la condizione perché si possa ipotizzare una via d’uscita al disastro, è che la procura di Taranto molli la presa sui sequestri e consenta all’azienda di tornare sul mercato producendo e vendendo acciaio e non avvisi di garanzia. A questo proposito, conversando in pubblico con il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, si era da parte nostra avanzata la modesta proposta di dare al Pil italiano la possibilità di schizzare all’in su di un paio di punti grazie alla messa in mora (ad esempio con un anno sabbatico) di quei pubblici ministeri che, come ci ha detto l’ex capo procuratore di Napoli Lepore, fanno danni perché «si credono dei padreterni» . Quando funzionava a pieno regime l’Ilva valeva il 75 per cento del Pil tarantino e l’1 di quello italiano. Se invece di continuare a tenere sotto sequestro due terzi dello stabilimento la procura di Taranto si mostrasse meno intransigente, forse una via d’uscita per l’Ilva si troverebbe.

Il romanzone del caso Ilva, una catastrofe italiana. Ecco come abbiamo distrutto la più grande acciaieria d’Europa, scrive Luigi Amicone su "Tempi". Stanziamenti, tre leggi ad hoc, l’ingaggio di due governi, della Suprema Corte e della Corte Costituzionale. Niente da fare. L’Ilva chiude e riapre l’Iri. I magistrati sono scatenati, Enrico Letta è imbelle. Nei prossimi giorni il parlamento varerà una serie di provvedimenti per rilanciare la commissariata Ilva. La più grande acciaieria d’Europa. Almeno fino a due anni fa. Dopo di che, nel biennio di massimo protagonismo della Procura di Taranto, tra il 26 luglio 2012 (data del primo sequestro degli impianti) e il 20 dicembre 2013 (pronuncia della Cassazione contro il sequestro del patrimonio della famiglia Riva, maggiore azionista dell’azienda), l’Ilva ha perso un terzo della sua produzione di acciaio, ha dimezzato i ricavi e nel 2014 attuerà un massiccio piano di messa a “contratti di solidarietà” di 3.579 lavoratori. 26 luglio 2012. 20 dicembre 2013. Segnatevi queste due date. Corrispondono all’arco temporale durante il quale due magistrati, il procuratore capo Franco Sebastio e il giudice per le indagini preliminari Patrizia Todisco, impegnati a perseguire per “disastro ambientale” la proprietà e gli amministratori dell’Ilva, hanno di fatto determinato la politica ambientale e industriale di un pezzo importante del sistema Italia (prerogative che, per legge, spetterebbero al governo e alle amministrazioni pubbliche). Non solo. Questa coppia di magistrati è stata sufficiente a polverizzare ogni record in materia di conflitto tra funzione giudiziaria e gli altri poteri dello Stato. Anticipato in rapide sequenze da trailer, il film è il seguente. Dopo aver ordinato le due prime e pesantissime raffiche di arresti e di sequestri all’Ilva (26 luglio e 26 novembre 2012), prima la procura e il gip di Taranto si oppongono con ricorso alla Corte costituzionale a una legge dello Stato del 3 dicembre 2012. Poi, alla sentenza (9 aprile 2013) che dichiara “costituzionale” una legge dello Stato (la cosiddetta “salva Ilva”), la Procura attende un mese prima di predisporre il dissequestro, previsto per sentenza, di prodotti Ilva che la stessa Procura aveva impedito di commercializzare a partire dal 26 novembre 2012. Prodotti che in data 15 maggio 2013, giorno in cui il gip di Taranto firma il dissequestro, hanno perduto (per deperimento e caduta dei prezzi sul mercato dell’acciaio) oltre un terzo del loro valore di 1 miliardo di euro. Ancora. Il 25 maggio 2013, cioè dopo essere stati contraddetti dalla Corte costituzionale (sentenza del 9 aprile e deposito delle motivazioni del 10 maggio 2013), i magistrati di Taranto sequestrano altri 8,1 miliardi di patrimonio dei proprietari dell’Ilva e mantengono ferrignamente tale sequestro (col rischio di far collassare l’intera filiera aziendale dei Riva) fintanto che, sette mesi dopo, la Corte di Cassazione cancella senza rinvio tale provvedimento, dichiarandolo «abnorme» e «fuori dall’ordinamento». Infine, dopo l’incredibile braccio di ferro tra Procura e leggi dello Stato, dopo che i più gravi e importanti provvedimenti assunti dai magistrati nei confronti dell’Ilva sono stati demoliti da ben due sentenze delle massime Corti, invece che chiedere conto di quanto siano costati allo Stato (e a Taranto) l’intransigenza e gli errori della Procura, Enrico Letta riesce nell’impresa di rinunciare a esercitare le prerogative di un primo ministro e di un governo. Così, con l’alibi che nel giugno 2013 la proprietà Ilva (con tutto quello che aveva addosso) non era ancora riuscita a mettersi completamente a norma rispetto alle severe regole ambientali approvate nel decreto “salva Ilva”, il governo vara un ennesimo decreto legge che, a partire dall’agosto 2013, sancisce il “commissariamento straordinario” dell’Ilva. Azienda privata che viene in questo modo trasformata in azienda parastatale per almeno i prossimi 36 mesi. E ora, secondo le richieste del commissario Enrico Bondi, l’Ilva dovrebbe essere ricapitalizzata con i soldi (1,2 miliardi di euro) che i Riva si sono visti porre sotto “sequestro cautelativo” dalla Procura di Milano. Non per violazioni all’Ilva, ma su tutt’altra partita di una (ad oggi presunta) «maxi-evasione fiscale». E ora godiamoci il film (si fa per dire), distesamente. Il 27 novembre 2012, Stefano Saglia, vicepresidente della commissione Camera per le Attività produttive è ancora ottimista. Il giorno prima era scattata una seconda retata, dopo quella del 26 luglio con cui il gip di Taranto, Patrizia Todisco, aveva sequestrato sei impianti dell’area a caldo dell’Ilva, emesso otto mandati di arresto cautelare per manager dell’acciaieria (compreso l’allora 87enne Emilio Riva, ex patron dell’Ilva) e nominato quattro custodi giudiziari. Dunque, il 26 novembre 2012 una seconda ondata di arresti aveva portato in carcere altre sei persone e posto sotto sequestro 1,8 milioni di tonnellate di prodotti Ilva del valore commerciale di 1 miliardo di euro. Nonostante queste notizie, per Saglia l’acciaieria di Taranto resta «una grande realtà siderurgica di cui il paese non può privarsi. L’Ilva vale lo 0,5 per cento di Pil nazionale». E poi naturalmente ci sono in ballo migliaia di posti di lavoro. Per la precisione: 11.611 impiegati nelle acciaierie di Taranto più gli addetti in società strettamente collegate all’Ilva. In totale, senza contare l’indotto del Nord, nel novembre 2012 Ilva occupa ancora 15.358 persone e il suo fatturato consolidato (oltre 6 miliardi di euro nel 2011) è in netta ripresa rispetto al biennio 2009-2010. Ed ecco una fotografia dell’azienda esattamente un anno dopo, dicembre 2013, quando il commissario straordinario Bondi scrive nella sua relazione che le vendite sono in picchiata, costi e perdite in paurosa ascesa. Colpisce il brusco calo di produzione. L’Ilva perde due milioni di tonnellate d’acciaio, un terzo della produzione, in un solo anno. Nel 2013  produce 6 milioni e 300 mila tonnellate, contro gli 8 milioni e 300 mila del 2012. Rispetto al 2011, quando a bilancio risultavano ricavi superiori a 6 miliardi di euro, in aumento del 30,4 per cento rispetto al 2010, la relazione di Bondi prevede per il 2013 ricavi quasi dimezzati, 3,65 miliardi, oltre il 40 per cento in meno rispetto al 2011, anno che precede gli interventi della Procura. Insomma, benché goda della speciale rete di protezione messa a disposizione dai governi Monti e Letta (che nell’ultimo biennio hanno approvato ben tre decreti legge ad hoc e cospicue risorse economiche per interventi emergenziali, a cominciare dai 336 milioni di euro resi disponibili fin dall’agosto 2012) l’Ilva è inchiodata. Si deve procedere alla sua ricapitalizzazione. «All’Ilva servono 3 miliardi», dichiara Bondi al vertice ministeriale del 9 gennaio scorso. E la legge sull’emergenza ambientale, la cosiddetta “Terra dei fuochi-Ilva” in corso di definitiva approvazione in Senato, dovrebbe servire a procurarli. Come? In parte utilizzando il miliardo e rotti di euro sequestrati ai Riva dal procuratore di Milano (e attualmente anche consulente di Palazzo Chigi) Francesco Greco. In parte provando a convincere banche e investitori a entrare nella partita Ilva. E veniamo al “disastro ambientale” di cui sono accusati imprenditori, manager, funzionari pubblici, che hanno gestito l’Ilva negli ultimi 15 anni. Prima, però, facciamo un bel passo indietro. Il 13 aprile 1972, in un elzeviro di pagina 3 sul Corriere della Sera, Antonio Cederna, fondatore di Italia Nostra, descrive così la Taranto dell’Ilva-Italsider a gestione statale: «Una città disastrata, una Manhattan del sottosviluppo e dell’abuso edilizio. Mille camion al giorno scaricano a mare il materiale sbancato a monte e i velenosi residui degli altiforni: un’enorme distesa di mare è già colmata e i lavori procedono senza tregua». Cederna annota sgomento: «Un’impresa industriale a partecipazione statale, con un investimento di quasi duemila miliardi, non ha ancora pensato alle elementari opere di difesa contro l’inquinamento e non ha nemmeno piantato un albero a difesa dei poveri abitanti dei quartieri popolari sottovento». Il riferimento è al quartiere Tamburi, quello che nel 2013 è stato segnalato per l’alta incidenza di tumori. A distanza di oltre quarant’anni, 3 febbraio 2014, è Adriano Sofri a raccontare la visita e il ritorno da Taranto con animo «desolato». La magnifica penna di Repubblica non si lascia tentare dagli sforzi compiuti da ben due governi, dalle istituzioni locali e dalla stessa Corte costituzionale che il 9 aprile 2013 aveva richiamato la necessità di contemperare le esigenze del lavoro, della salute e del rispetto dell’ambiente, spettando al governo e alla pubblica amministrazione, non alla magistratura, dettare indirizzi e scelte in questi ambiti. Si ha l’impressione che per giustizia Sofri intenda questo: «Poi, nella notte fra l’11 e il 12 gennaio i custodi giudiziari hanno compiuto un’ispezione a sorpresa senza preavviso nell’Ilva e hanno trovato gli impianti (quelli che dovrebbero funzionare a ritmo ridotto) “tirati al massimo”. Anomale accensioni delle torce dell’acciaieria…» e via di altre illegalità. Bene. Dai primi anni Settanta, quando Cederna descriveva lo sversamento e inquinamento a cielo aperto dell’Ilva statale, pare che non sia successo niente. Poi, dai primi mesi del 2012, per la procura, i suoi periti e, a seguire, ambientalisti e dipietristi 2.0, l’Ilva diventa “il mostro di Taranto”. E i Riva – che pure hanno documentato investimenti a Taranto per 3 miliardi in tecnologia e 1,5 miliardi per l’ambiente – gli emblemi di un capitalismo selvaggio, feroce sfruttatore dei lavoratori, dell’ambiente e della salute. In effetti, sussurrano i collaboratori degli (ex) patron dell’Ilva, i Riva hanno commesso due gravi errori. Primo: sono scesi a Taranto col piglio bauscia del “sciur parun” del Nord. Secondo: il 17 febbraio 2012 non si sono presentati all’incidente probatorio dove avrebbero potuto giocarsi una sentenza del Tar di Lecce che aveva dato loro ragione in tema di emissioni di diossina. Detto ciò, sembra veramente arduo che l’accusa riesca a dimostrare in sede processuale che «in 13 anni» (13 anni? E i precedenti 50?) l’Ilva dei Riva è stata l’unica ed esclusiva responsabile di “disastro ambientale”. Tanto più che, oltre alla siderurgia, il sito industriale di Taranto comprende una grande raffineria, una grande centrale elettrica, un grande cementificio, un grande arsenale militare pieno di amianto. Non solo. A complicare le cose a quelli che vedono nei Riva il diavolo e nell’Ilva l’inferno, c’è un particolare rivelato da Corrado Clini, ex ministro dell’Ambiente del governo Monti che conosce ogni piega del caso e se ne è occupato personalmente fino al passaggio di testimone al suo omologo ministro Orlando del governo Letta. Dice Clini: «Il 4 agosto 2011 è stata data l’Autorizzazione integrata ambientale (Aia) per Ilva di Taranto, dopo un’istruttoria di 5 anni, con 462 prescrizioni. 5 anni è un tempo superiore 10 volte a quanto prevede la legge. E le 462 prescrizioni erano in gran parte in contraddizione tra loro e non applicabili, perché espressione di un compromesso “politico” tra la resistenza dell’impresa ad assumere impegni in linea con le migliori tecnologie disponibili e le istanze della Regione e degli enti locali in gran parte non sostenibili sul piano della fattibilità tecnica e giuridica. Ilva ricorre al Tar contro gran parte delle prescrizioni, ritenute in contrasto tra di loro e nei confronti delle norme vigenti. Il Tar riconosce la fondatezza del ricorso di Ilva e disapplica una parte rilevante delle prescrizioni. Nello stesso tempo, con valutazioni opposte a quelle del Tar, la procura della Repubblica di Taranto rileva che l’Aia non è adeguata per risolvere le molte problematiche ambientali e per la salute causate dallo stabilimento Ilva». Giusi Fasano, giornalista del Corriere della Sera, è a Taranto nei giorni dei sequestri e arresti che mettono a rischio quasi 12 mila posti di lavoro. Il 17 agosto 2012 l’inviato del Corriere segue il vertice che si svolge in città tra le istituzioni e le parti coinvolte nella crisi delle acciaierie. Il governo Monti è presente con due carichi da novanta, il ministro dell’Ambiente Corrado Clini e il ministro per lo Sviluppo economico e le infrastrutture Corrado Passera. Manca qualcuno? Sì. Manca il procuratore capo Franco Sebastio che pure è l’artefice, diciamo così, di tutto il can can. Giusi Fasano ha il suo cellulare, chiama, lasciamoli chiacchierare. «Sebastio risponde da Soverato, Calabria, “dove vengo in vacanza da 35 anni”, dice. Ma come? È a tre ore di distanza, arrivano i ministri a Taranto perché una sua inchiesta ha fatto dell’Ilva un caso nazionale e lei non torna nemmeno per una stretta di mano? “L’ho detto anche a loro in una telefonata, cordialissima: vedrete che non mancherà l’occasione”. Più che una promessa sembra una minaccia. “Non mancherà occasione nel senso che c’è sempre tempo per farlo. Presentarmi nell’incontro di venerdì non mi è sembrato opportuno. Lì c’era spazio per politici, amministratori, sindacalisti… che c’entrava un magistrato?”». Ecco, bisogna aggiungere altro? Sì, bisogna aggiungere che alla fine del 2012 il procuratore Sebastio metterà in un libro-intervista le sue riflessioni. «Quando arriva a Taranto con la toga sulle spalle? “Vengo trasferito nella mia città sempre da pretore nel ’76”. Che situazione trova? “Una situazione non certo facile. L’emergenza ambientale c’era tutta, ma non era agevole rendersene conto e, soprattutto, documentarla”. Ostacoli? “Diciamo che non mancavano ostacoli oggettivi”. In che senso? “Beh, in generale l’inquinamento ambientale non sempre provoca danni immediati. In alcuni casi, come per l’amianto, occorre aspettare anche decenni per rilevare le conseguenze sulla salute delle persone. E poi non c’era una sensibilità diffusa sulla qualità del lavoro e la tutela dell’ambiente. Naturalmente, anche la Giustizia soffriva della stessa miopia”». (Il mio Salento, la mia Puglia, dicembre 2012, edizione Affari Italiani). Dunque, alla fine del 2012 apprendiamo dal pm accusatore degli ultimi quindici anni di Ilva che dei 40 anni precedenti in cui lo stesso pm era a Taranto c’è ben poco da ricordare. Eppure, già all’inizio degli anni Settanta Antonio Cederna scriveva quel che scriveva sulla Iri-Italsider-Ilva di Stato. Ma certo, sono anni in cui «ostacoli oggettivi» non consentivano interventi come quelli odierni. E dal 1982 al 2012? Sempre in prima linea. Però «diciamo che la società civile non era consapevole del problema». La società civile? Ascoltiamo in proposito l’ex ministro Corrado Clini. «Nel marzo 2012, per superare le contraddizioni ed uscire dalla situazione di stallo che si era venuta a creare, sulla base di gran parte delle valutazioni della procura della Repubblica di Taranto ho disposto la revisione dell’Aia. Contestualmente al riesame dell’Aia, ho avviato una ricognizione sullo stato dell’ambiente nel territorio di Taranto. È stato messo in evidenza che molte iniziative strategiche per il risanamento ambientale di Taranto, programmate e finanziate a partire dalla fine degli anni ’90, non erano state avviate o completate. E straordinariamente, nessuno aveva avuto nulla da ridire. In particolare. Primo, il piano di disinquinamento per il risanamento del territorio della provincia di Taranto, finanziato nel 1998 con 50 milioni euro, era stato in gran parte disatteso. Secondo, le risorse destinate al risanamento ambientale del Mar Piccolo nel 2005 (26 milioni euro) erano state successivamente destinate ad altri interventi nella regione Puglia. Terzo, le risorse stanziate per il risanamento del quartiere Tamburi di Taranto (49,4 milioni di euro) il 3 luglio 2007 erano state successivamente destinate ad altri progetti». E adesso occhio alle date. Clini spiega: «Il 26 ottobre 2012, dopo una procedura di sei mesi ho rilasciato la nuova Aia, con la prescrizione dell’adeguamento degli impianti agli standard europei più severi e avanzati e che impone  investimenti per 3 miliardi di euro». È un’Aia draconiana. Impone all’Ilva standard che in Europa si devono adottare entro il 2016 (mentre i tedeschi hanno ottenuto un posticipo al 2018). L’Ilva deve adottarli entro il 2014. I primi due interventi prevedono la copertura di 65 ettari – l’equivalente di circa settanta campi di calcio di serie A – di parchi minerali. Il secondo, l’intubamento di novanta chilometri di nastri trasportatori. «Il 15 novembre 2012 – spiega Clini – Ilva accetta  le prescrizioni e presenta il piano degli interventi per dare attuazione alla nuova Aia. Nello stesso tempo Ilva ritira tutti i contenziosi aperti nel 2011 e 2012 dall’azienda contro l’Amministrazione. Insomma, Ilva aveva finalmente deciso di allinearsi alle direttive europee, voltando pagina». Con la retata del 26 novembre, naturalmente tutto cambia. Si era creata una via d’uscita rispettosa di tutte le esigenze (salute, lavoro, ambiente) al dramma di Taranto. Ma “la legge è legge”. Stessa storia accade il 24 maggio 2013, dopo la sentenza del 9 aprile con cui la Corte Costituzionale aveva sbloccato i sequestri e confermato la legittimità del “salva Ilva” di Monti. Il gip di Taranto passa a sequestrare l’intero patrimonio dei Riva. È la mazzata finale. Vero che alla procura di Taranto non basterà il bel servizio di Report del 18 novembre scorso, completamente allineato con le tesi della Procura degli 8,1 miliardi sequestrati perché questa, dicono i periti del gip, «è la cifra da noi stimata delle risorse sottratte dai Riva al risanamento ambientale Ilva». Vero che, 7 mesi dopo il teorema della procura e dell’affetto sostenitore di Report, arriverà la sentenza della Cassazione che disintegra l’ordinanza del gip di Taranto e ordina la restituzione degli 8,1 miliardi di patrimonio sequestrati ai Riva. Ma ormai il danno è fatto, l’Ilva è a pezzi, l’aria che tira a Taranto è di scontro permanente, insormontabile. E il governo Letta che fa? Invece di affrontare di petto l’incredibile anomalia di una procura che ha sbagliato pesantemente e che è stata due volte sonoramente stroncata nei suoi atti dagli stessi vertici del potere togato (Corte costituzionale e Suprema corte), ecco, invece di affrontare due magistrati, il governo batte in ritirata e si inventa una legge di “commissariamento straordinario”. Il resto è storia di questi giorni. Le acciaierie di Taranto sono tornate sotto amministrazione parastatale. E forse, chissà, invece che Ilva domani si chiameranno Iri.

La saggezza di un Capo magistrato: «I pm non sono padreterni. Devono servire il cittadino», scrive Luigi Amicone su “Tempi”. Giovandomenico Lepore, l’ex numero uno della procura di Napoli, la più grande d’Italia, si confessa a Tempi. Separazione delle carriere, responsabilità civile dei magistrati, poco garantismo o troppo garantismo. Per una volta non parliamo dei problemi della giustizia. Per una volta parliamo di un magistrato “vecchio stampo”. Che poi significa semplicemente funzionario dello Stato, piuttosto che vincitore di concorso che si dà arie di primo ballerino alla Scala. Bene, coadiuvato dal giornalista Nico Pirozzi, l’ex capo procuratore di Napoli Giovandomenico Lepore (foto a fianco) ha scritto un libro apolide rispetto alle correnti dell’Anm e controcorrente sul mestiere più delicato e terribile. Un libro di bilanci e di vicende giudiziarie narrate con precisione, gustosi aneddoti e statistiche. Un libro che per il fatto stesso di suggerire saggezza e ironia fin dal titolo pirandelliano – Chiamatela pure giustizia (se vi pare), Edizioni Cento Autori –, il rifiuto di sedurre il lettore con la sgamata tecnica dell’“indignazione”, rappresenta un buon viatico all’azione, non giudiziaria ma educativa e culturale, di contrasto alla proliferazione di cervelli all’ammasso che da un ventennio hanno messo in capo alla magistratura il vasto programma di creazione di un Mondo Nuovo. Giovandomenico Lepore, 78 anni, sposato, napoletano, uomo del buon umore e della lingua del popolo, cinquant’anni di vita trascorsi in magistratura. Dopo essere stato pretore, pm, aggiunto, sostituto, presidente della procura generale, ha diretto per sette anni (2004-2011) la procura di Napoli, la più grande e tormentata d’Italia. Il Csm lo scelse all’unanimità come capo degli uffici requirenti (per una volta trovando l’accordo il correntismo politico di destra e di sinistra), «perché alla procura generale stavo troppo tranquillo e sereno». Mentre occorreva che qualcuno di forte e autorevole mettesse fine allo scontro che, un po’ come succede oggi a Milano, spaccava la procura partenopea all’epoca della gestione di Agostino Cordova. Fu così che Lepore venne incardinato al vertice e in breve riportò ordine (e perfino una certa armonia) tra i centosedici pubblici ministeri della città delle emergenze per antonomasia. «Non ho fatto niente di particolare se non tenere la porta aperta, ascoltare, dialogare, assumere le mie responsabilità, decidere. E all’occorrenza anche correggere certe storture». È stato il regista di alcune delle inchieste più rumorose della Seconda Repubblica (le cosiddette Calciopoli, P4, escort a Palazzo Grazioli, emergenza rifiuti, bonifiche fantasma, mega truffe sulle invalidità civili, appalti al Comune) e ha stroncato il clan dei Casalesi. Cioè quel pezzo di potente camorra con a capo Michele Zagaria «che le forze dell’ordine mi arrestarono proprio qualche giorno prima di andare in pensione, fu per me un regalo quasi più bello della buonuscita». Tempi ha incontrato Lepore a Milano, tra una conferenza e l’altra organizzate nell’ambito dei corsi (obbligatori, legge del governo Monti) di aggiornamento professionale per i giornalisti. Conversazione all’Ata Hotel e aperitivo al bar dei cinesi.

Nei confronti dei magistrati di Prima Repubblica emerge talvolta, da parte dei colleghi della Seconda, l’accusa più o meno velata di “collusione col potere”. Certa attuale magistratura è così consapevole del potere e della centralità che ha assunto in un ventennio di scandali, che a quei pochi che eventualmente contestano loro certi metodi (tipo l’uso disinvolto della carcerazione preventiva), essi rispondono che «la legge è la legge». Il che sarebbe un’ovvietà se, di fatto, non fosse uno scaricare la coscienza personale dall’orizzonte del proprio operare. Che ne pensa?

«Penso che la legge vada sempre interpretata con buon senso e equilibrio. Lo lasci dire a uno che è stato per cinquant’anni al penale, tranne nei due anni che ho fatto il pretore a Genova, quando il pretore era un magistrato magnifico, stava nei piccoli centri ma era a contatto con la gente e, se era di buon senso, risolveva i problemi veramente secondo giustizia. Queste sono anche le finalità per cui ho scritto il libro. Proprio per dare indicazioni ai colleghi giovani. Infatti, durante i miei sette anni da capo procuratore a Napoli, mi sono accorto che arrivano in Procura giovani magistrati – magari hanno appena vinto il concorso – e ognuno di loro che va a ricoprire l’ufficio di pubblico ministero si crede un Padreterno, si crede al di sopra delle parti, e non si rende conto che invece è solo un servitore del cittadino. Perciò quando sento dire: “Ma io sono un magistrato!”, con quel tono sopracciglioso di chissà chi, a me scappa da ridere. Un magistrato? Beh, io non lo so fare, ma bisognerebbe fargli un bel pernacchio. Ma è così, sono duecento anni che in Italia la giustizia non funziona, rassegniamoci, non funzionerà per altri duecento…»

Eppure c’è una parte di magistratura che è convinta di avere una missione salvifica nella società…

«Guardi, io capisco che con la velocità dei nuovi mezzi di comunicazione e qualche ansia di protagonismo – la televisione, i titoli sui giornali, la gente che vuole “giustizia” – ci si esponga e si creda di rendere un buon servigio alla società. Il magistrato risponde alla legge. È vero. Ma risponde tanto meglio quanto più serve lo spirito e le finalità della legge: servire lo Stato e prima ancora i cittadini. Dunque, per essere dei buoni magistrati non occorre protagonismo per poi magari un giorno, sull’onda della notorietà, procacciarsi un posticino in politica. È anche a questo riguardo che la riforma del 2006 diede funzioni ordinatrice e coordinatrice al capo dell’ufficio. I pubblici ministeri non possono pretendere di godere della stessa indipendenza e autonomia del giudice. Sono parti e quindi devono in qualche modo rispondere al capo ufficio. Capisco le resistenze, ciascuno ha la propria testa ed è giusto che la utilizzi. Però il capo ha la responsabilità degli uffici e io non mi sono mai tirato indietro dal ricordarlo ai miei colleghi. Quando stralciai l’inchiesta su Bertolaso e due prefetti perché ritenevo che non vi fossero elementi che giustificassero provvedimenti restrittivi, l’ho fatto e non me ne sarei pentito, anche se poi li avessero condannati. Grazie a Dio ho avuto ragione, perché tutte e tre le posizioni vennero poi assolte. Per questo è di fondamentale importanza la valutazione attenta dei candidati prima di nominare i capi degli uffici requirenti. È il vertice dell’ufficio che dà l’impronta, in un verso o nell’altro, negativamente o positivamente, all’azione della procura».

Lei ci sta dicendo che la magistratura è l’ultimo posto in Italia dove si fa politica?

«Purtroppo non abbiamo ancora trovato un sistema che prescinda dalle correnti. Però, secondo la mia modesta opinione, il Csm dovrebbe essere composto solo da togati. Che ci stanno a fare i cosiddetti “membri laici”, spesso reduci o trombati della politica?»

Non mi riferivo ai politici in Csm, mi riferivo proprio al fatto che gli incarichi, così come i capi delle procure, vengono decisi nei negoziati tra le correnti dell’Anm e con criteri lottizzatori molto simili al tanto vituperato Cencelli della politica di Prima Repubblica. O sbaglio?

«Per me il problema è solo la eventuale malafede. Le correnti sono una realtà e non ci possiamo fare niente. E poi è normale che un magistrato abbia le sue idee politiche. L’importante è che non agisca in malafede. Vede, l’ho detto anche in conferenza qui a Milano. In un certo senso anche il delinquente ha una sua buona fede. E se tu magistrato sei corretto, stai tranquillo che le disgrazie non succedono. Ma se tu sei scorretto, ricorri ai trabocchetti, sei in malafede, è chiaro che raccogli quello che hai seminato. E poi non è vero che le nomine sono sempre lottizzate. Pensi al mio caso, ma ce ne sono anche molti altri. Ripeto, secondo me non sono le idee politiche, di destra o di sinistra che siano, a ostacolare la giustizia. L’ostacolo è il magistrato che si fa trascinare dalla sua ideologia e insiste, in malafede, a farsi trascinare».

L’ex procuratore di Bari Michele Emiliano ha lasciato la procura nel 2003, è stato eletto sindaco e poi segretario regionale Pd. Adesso dice che  ritorna a fare il magistrato. Le pare possibile?

«Beh, sì, se la legge lo consente… Però, no. Dal mio punto di vista se un magistrato va in politica deve lasciare la magistratura. Come fa il cittadino ad avere fiducia? Quale garanzia di imparzialità può dare ai cittadini?»

Condivide lo zelo con cui certe procure “attenzionano” i pochi grandi asset che sono rimasti in Italia? Pensi al caso delle presunte tangenti che l’accusa era certa fossero state pagate da Finmeccanica per piazzare elicotteri italiani in India. È finito in nulla ma l’Italia ci ha perso un mercato da 75 miliardi di dollari e commesse da due-tre miliardi di euro. Non le sembra distruzione del sistema-paese, per di più in un contesto di recessione e disoccupazione di massa?

«Capisco. Una cosa sono le tangenti che rientrano in Italia come provviste al manager o al politico che ha procacciato l’affare. Un’altra è quando sui mercati dell’Est, o dell’estremo oriente, per non parlare dell’Africa, l’azienda italiana deve passare, diciamo così, dalle forche caudine di sistemi corrotti in loco. Non è certo bello a vedersi. Ma questo è il mondo. Che senso ha metter tanto zelo e indagare i rapporti tra aziende e soggetti esteri? Ripeto, mi riferisco al contesto ambientale di certi mercati, non alle eventuali bustarelle che rientrano in Italia al manager o al politico per un affare che, poniamo, l’azienda italiana ha fatto in Africa e che vanno senz’altro perseguite. Sto parlando di come il mondo funziona realisticamente in certe aree geografiche. Lei ha fatto il caso di Finmeccanica. Lì non c’è stata nessuna tangente dice il dispositivo assolutorio. Ma anche se ci fossero state provviste da parte di soggetti esteri per ottenere all’azienda italiana la possibilità di entrare in un mercato – d’accordo, non sarebbe un bel vedere e infatti non si deve proprio vedere – non capirei lo zelo investigativo. Mettetevi al posto del soggetto straniero, come pensate che prenda la nostra attività? “Sapete che c’è? La commessa che dovevo dare a voi italiani la giro al belga piuttosto che all’inglese”. Questo è il punto. Il buon magistrato deve sempre ricordare che la legge lo pone al servizio del cittadino non astrattamente, ma realisticamente e prudentemente, considerando tutti i fattori di contesto in cui è chiamato a operare. Altrimenti io cittadino posso anche pensare che qualche interesse indicibile ce l’hai pure tu. E magari non è di questo paese».

De Magistris ha fatto cadere Prodi…

«Veramente quello lo ha fatto cadere un collega che sta dalle parti di Santa Maria Capua a Vetere, se si riferisce al caso Mastella».

Al di là del caso Mastella, Luigi De Magistris, questo singolare personaggio che condannato in prima istanza e obbligato a dimettersi da sindaco di Napoli – così come tutti i politici (in primis Berlusconi) sono stati obbligati a dimettersi in ottemperanza alla legge Severino – è il solo caso di politico che ottiene una sospensiva (dal Tar della Campania) e torna sindaco. E quanti danni ha fatto, da magistrato, con i suoi flop?

«Conoscevo suo padre, era un magistrato straordinario, eccezionale, equilibrato, direi impeccabile. Adesso questo figlio, che è pure intelligente e, devo dire, assolutamente onesto, pecca un pochino di impulsività. Quanto alle sue inchieste finite in flop devo dire che il problema non è suo. Ha fatto indagini, si è appassionato al suo quadro probatorio. Insomma, ha fatto il mestiere del pubblico ministero. È vero, ha sbagliato a farsi trascinare in televisione e a farsi rappresentare come una Giovanna D’Arco che sta sulle barricate. Però, chi lo poteva o doveva fermare – se c’erano le ragioni per fermarlo – era il capo ufficio. Allora, o il capo è stato un pusillanime e non ha avuto il coraggio di fermare cose sbagliate. Oppure il capo ha condiviso l’inchiesta e un certo modo di procedere. Terzo non è dato».

Arresti cautelari. Non c’è un sistema giudiziario in Europa che come il nostro vi ricorra così disinvoltamente. Con la conseguenza che le carceri italiane sono piene di persone ancora in attesa di giudizio. Non è tortura questa?

«Guardi che sono tre le motivazioni per giustificare provvedimenti cautelari restrittivi. Tu devi provare che c’è rischio di inquinamento delle prove, di fuga e di reiterazione del reato. Il problema è che la pressione dei media e della cosiddetta “opinione pubblica” non aiutano. Vai a spiegare, poniamo nel caso di un omicidio per gelosia, con reo confesso e magari pure pentito, che ci sono tutti i presupposti per concedere la libertà provvisoria. Vai a spiegare che se non c’è pericolo di fuga e naturalmente non c’è pericolo di inquinamento delle prove essendo il reo confesso, il rischio di reiterazione è nullo, ovviamente, per la particolare fattispecie di reato (quello ha ucciso la moglie per gelosia, non è che adesso c’è il rischio che ammazzi il primo che passa). Se li immagina i titoli dei giornali? Ci vuole più coraggio a fare le cose bene che a farle strizzando l’occhio alla vox populi, o meglio, alla vox media».

Ma lei, quando i suoi sostituti chiesero l’arresto di Bertolaso e dei due prefetti, si mise di traverso.

«E perché avrei dovuto rovinare la vita a tre persone quando il quadro probatorio non mi sembrava giustificare gli arresti? Poi, come le ho detto, mi andò bene, furono tutti e tre assolti. Ma anche se fossero stati condannati io ero il capo e dovevo assumermi le mie responsabilità. Dopo di che, non vorrei sembrare un’anima bella: se ci sono elementi per giustificare un provvedimento di restrizione della libertà si deve provvedere. Bisogna anche capire, però, che un arresto cautelare non è una prova di colpevolezza, perché poi la prova si forma in dibattimento. È chiaro che, purtroppo, proprio per le ragioni del giornalismo alla velocità della luce poi succede che chi finisce agli arresti cautelari viene marchiato a vita, perde la reputazione, l’onore, il lavoro, a prescindere. Per questo bisogna ponderare con prudenza ed equilibrio ogni provvedimento di questo genere. Purtroppo l’opinione pubblica è stata abituata ad avere la certezza di colpevolezza già dall’avviso di garanzia. E questo non va bene».

Cosa pensa dello scontro in atto alla Procura di Milano tra il capo Bruti Liberati e l’aggiunto Alfredo Robledo?

«Il dissidio è forte. Ci penserà il Csm. Mi spiace soltanto che queste cose finiscano sui giornali. La gente cosa capisce della magistratura? E soprattutto, a che serve alla gente sapere che questo e quello stanno litigando? È tutto gossip che fa solo male alla giustizia».

Come disse una volta Luciano Violante, bisognerebbe separare le carriere dei magistrati da quelle dei giornalisti?

«Sì, bisognerebbe tagliare il cordone. Anche se io ho sempre avuto rapporti splendidi con i giornalisti. Se dicevo a uno di loro: “Guarda questa cosa che ti hanno spifferato è vera, ma non la scrivere sennò mi comprometti le indagini”, beh questi mi obbediva e non usciva niente. Poi è capitato qualcuno con l’ansia dello scoop che ha creduto di farmi fesso. Peggio per lui, l’ho messo nel libro nero e non s’è visto più. Così la pubblicazione delle intercettazioni, a mio parere non va bene. Però capisco la pressione che avete addosso voi giornalisti… Comunque è sempre una questione di persone. Con me non è potuto mai succedere. Chiaro che poi non è che puoi controllare tutti gli uffici. Come si vide con l’inchiesta Calciopoli, dove molti verbali vennero rubati e pubblicati in un vero e proprio volumetto e questo ci rovinò l’indagine».

Però, se il Csm funzionasse bene, sarebbe già una mezza riforma della giustizia, non crede?

«Credo che il Csm dovrebbe essere composto solo da magistrati. Che c’entra il cosiddetto “laico”? Il Csm svolge una funzione importantissima. Come le dicevo, l’ufficio del capo procuratore è decisivo per l’organizzazione e il coordinamento dell’attività requirente. Per questo il problema è come scegli e chi scegli ai vertici delle procure…»

Da quale corrente è stato portato all’ufficio di capo a Napoli?

«Da nessuna. Ho avuto la fortuna o la sfortuna, veda un po’ lei, di essere prescelto all’unanimità. Me ne stavo tranquillo e sereno in procura generale quando mi hanno chiesto di mettermi a disposizione per sanare un pesante conflitto che spaccava in due la procura. Non voglio parlare della situazione che trovai negli uffici, dico soltanto che grazie a un paziente lavoro di ascolto e di mediazione siamo riusciti a ricompattare la più grande procura d’Italia, con 116 procuratori. Le assicuro, non è stato uno scherzo».

Beh, i risultati insegnano…

«Ripeto, quando si devono scegliere i capi degli uffici requirenti bisogna ponderare bene le scelte. Fortunatamente io sono stato scelto sopra, sotto e oltre ogni corrente. E mi scusi se cambio argomento pensando alle correnti politiche in generale: che spettacolo è questo che non si riesce a eleggere due membri della Corte costituzionale perché, così si dice, la Corte ormai è un organismo politico? E allora aboliamola questa Corte invece di assistere a questo spettacolo indecoroso!»

In effetti Svizzera e Gran Bretagna, tanto per citare i primi due paesi che vengono in mente, non hanno la Corte costituzionale e non pare siano paesi incivili…

«Ma l’Italia ne ha bisogno, abbiamo una Costituzione che la prescrive, va interpretata, la Corte è indispensabile per dirimere i conflitti istituzionali».

Cosa pensa del moltiplicarsi delle leggi anti-corruzione, anti-riciclaggio, anti-autoriciclaggio e via discorrendo? Ormai si pensa che le leggi siano la bacchetta magica per risolvere tutto e non si risolve niente, anzi.

«È vero che il costume italiano è peggiore di altri. Però è anche vero che la corruzione c’è sempre stata. Che fai, fermi lo sviluppo perché prima dev’essere tutto pulito e moralizzato? Che fai, blocchi i cantieri perché c’è sempre qualcuno in “odore di mafia”? E poi che significa “in odore di mafia”? Che se c’è un tale, un operaio o un impiegato di una certa impresa che è legato a qualche cosca o ha la fedina penale macchiata, fermi tutto in nome della normativa antimafia? Adesso vedo che a Milano è arrivato Raffaele Cantone, un bravissimo collega, per vigilare sull’Expo. Ma che vuol dire “super magistrato”, “super procuratore”? E poi, in concreto, che vuole dire “vigilare”, che può fare? Non mi sembra che sia la via giusta quella di moltiplicare le authority e gli istituti cosiddetti “anticorruzione”. Cantone è bravissimo, per carità. Ma che può fare in concreto? Rischia di aggiungere carte a carte, burocrazia a burocrazia.  Vede, si moltiplicano gli organismi e le autorità, ma ancora non si fa abbastanza per far comprendere che il problema della corruzione è di cultura e di educazione. È qui che devi intervenire. Non puoi ridurre la giustizia a feticcio e aspettarti dalla magistratura la bacchetta magica per risolvere tutti i problemi. Il mestiere del magistrato non è quello di salvare il mondo. È quello di fare rispettare le leggi nell’interesse della giustizia, dello Stato e, prima di tutto, dei cittadini».

MAFIA E FALLIMENTI. AZIENDE SANE IN MANO AI TRIBUNALI. GESTIONE CRIMINALE?

Aziende sequestrate e Tribunale. Solo un rapporto fiduciario?

Come vengono gestiti, nell’immediato, i beni sequestrati alla mafia?

Domande a cui dà risposta la redazione di “Telejato su “I siciliani”. Il tribunale di Palermo gestisce circa il 40% di tutti i beni sequestrati per un valore complessivo stimato superiore ai 50 miliardi di euro. Sostanzialmente una finanziaria. Da mesi ci occupiamo dell’amministrazione giudiziaria delle aziende sequestrate alla mafia. Il tema è grave ed importante sia per la portata del fenomeno, calcolabile in diverse decine di miliardi di euro, che per il significato simbolico che porta con sé. Un’azienda sotto sequestro, a differenza di una confiscata può essere restituita al proprietario; e nel caso questo avvenga, le condizioni devono essere le medesime di quando l’impresa è stata fatta oggetto del provvedimento di prevenzione. Ovvero se viene sequestrata un’azienda florida, con un certo numero di dipendenti, una liquidità e delle proprietà, queste devono essere conservate, se non ampliate fino al termine del sequestro; sia che questo si tramuti in confisca, sia che venga revocato. Per far questo, la giustizia si avvale degli amministratori giudiziari. Chi sono costoro? Normalmente dei professionisti: avvocati, ragionieri, commercialisti di comprovata esperienza e competenza. Qual è il meccanismo di nomina? Nel 2010, la cosiddetta legge Alfano stabilisce che ogni tribunale debba istituire un albo degli amministratori giudiziari, redatto secondo criteri, appunto, di competenza ed esperienza. Questa normativa è ad oggi per lo più inapplicata, e ci si rifà ancora alla legislazione precedente. Prima del 2010, la legge stabiliva che gli amministratori dovessero essere nominati con l’unico criterio del rapporto fiduciario tra presidente della Sezione Misure di Prevenzione del tribunale di competenza e professionista. Questo dava, e dà ancor oggi, un potere enorme al magistrato competente, che affidandosi unicamente al libero arbitrio e, si spererebbe, al buon senso, gestisce un immenso patrimonio. Sempre al tribunale di Palermo, la dott.ssa Saguto, presidente della Sezione Misure di Prevenzione, ha a disposizione circa quattromila professionisti fra cui scegliere. Nonostante una così ampia schiera di personale disponibile, ad amministrare le aziende sequestrate sono poche decine di professionisti. Viene da chiedersi il perché. Sono solo loro quelli “di fiducia”? Sono i migliori sulla piazza, e quindi è bene affidarsi per lo più, anche se sarebbe meglio dire esclusivamente, ad essi? Qualche dubbio in più sorge quando si prova a scavare nell’operato di alcuni di loro. Prendiamo ad esempio l’avv. Cappellano Seminara. Titolare di un importante studio palermitano, amministra, tra gli altri, i beni di Ciancimino in Italia e all’estero. A lui è stata affidata, nel marzo 2012, la gestione delle società del porto di Palermo che si occupano di logistica e, secondo un’informativa della DIA, infiltrate da Cosa Nostra. Nel 2011, in seguito ad un provvedimento della prefettura, 24 portuali vengono sospesi dal lavoro in via cautelare dal consiglio d’amministrazione, perché sospettate di avere rapporti con gli ambienti mafiosi. Le prove a supporto sono per lo più legami di parentela. I 24 portuali non possono recarsi sul posto di lavoro, ma vengono comunque pagati, perché il provvedimento è solo cautelare, non punitivo. Il buon senso vorrebbe che una situazione di questo tipo durasse il meno possibile. O licenziati o reintegrati. Accertati i fatti, caso per caso, e decisa una linea, nella concertazione fra tribunale ed amministrazione, i lavoratori dovrebbero essere licenziati o reintegrati. Diversamente si ha un enorme spreco di denaro per pagare gente che non lavora, e le famiglie coinvolte giacciono in un limbo con l’angoscia di non conoscere il proprio destino. Per il porto questo stato di cose dura 24 mesi, per lo più sotto l’amministrazione Cappellano Seminara, decorsi i quali, a seguito di una nuova nota della Sezione Misure di Prevenzione del tribunale, ovvero della dott.ssa Saguto, vengono sospese le retribuzioni, ma non viene assunta alcuna decisione definitiva. I lavoratori – e le loro famiglie – restano senza sostentamento, ma non perdono il posto. Unica possibilità è dimettersi e cercare una nuova occupazione, oppure lavorare in nero. Cosa devono pensare le persone coinvolte? Che si stava forse meglio quando c’era la mafia? Non c’è peggior sconfitta per lo Stato. Nel frattempo, l’amministratore continua a percepire un lauto stipendio, per sé e per i suoi collaboratori. Dove stanno competenza, esperienza e affidabilità? Altro amministratore, altro caso. Il commercialista Salvatore Benanti è uno dei maggiori amministratori giudiziari della provincia di Palermo. Per conto del tribunale si occupa della gestione di numerose cave di cemento e di alcune grandi aziende. Amministra tra gli altri i beni del mafioso Sbeglia. Trovandosi nella situazione di vendere alcuni immobili, manda il vecchio proprietario a condurre le trattative. La cosa viene denunciata e il mandato di amministrazione viene revocato. Fin qui tutto bene, verrebbe da dire, se non fosse che Benanti viene confermato negli altri suoi incarichi, anzi, ad oggi continua a ricevere nomine da parte del Tribunale di Palermo. Dobbiamo dedurre che, nonostante questi fatti, permane il rapporto fiduciario fra la dott.ssa Saguto e l’amministratore.

La mafia e il sequestro ai Cavallotti. I figli: "Fateci lavorare", scrive Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia”. I loro padri sono gli imprenditori di Belmonte Mezzagno assolti per mafia, ma il cui patrimonio è stato sequestrato perché ritenuti "socialmente pericolosi". I due cugini chiedono di essere sentiti dalla Commissione nazionale antimafia che sta indagando sui presunti intrecci fra i Cavallotti e Italgas. “La giustizia faccia il suo corso. Nel frattempo, però, dateci la possibilità di lavorare”. Pietro e Vito Cavallotti escono allo scoperto. Sono i figli di Salvatore e Gaetano, imprenditori edili di Belmonte Mezzagno, sul cui patrimonio - il provvedimento riguarda pure un terzo fratello, Vincenzo - si è abbattuta la scure del sequestro. I fratelli Cavallotti in passato sono stati assolti dall'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa perché ritenuti vittime della mafia, ma sottoposti a misure patrimoniali e personali perché ritenuti “socialmente pericolosi”. Tra le imprese finite sotto sequestro ci sono la Comest e la Imet, citate nella corrispondenza di Bernardo Provenzano per il pagamento del pizzo per i lavori di metanizzazione nei comuni di Agira e Centuripe. In un altro pizzino era Giovanni Brusca a scrivere a Provenzano per affrontare il tema della messa a posto dell'impresa dei Cavallotti che stava realizzando la metanizzazione a Monreale. Finite sotto sequestro la Imet e la Comest, i fratelli avrebbero, secondo l'accusa, dirottato i loro interessi sulla Euro Impianti, non figurando in prima persona, ma intestandola ai figli. Dal 2011 anche la Euroimpianti è in amministrazione giudiziaria. Di recente il caso Cavallotti è finito all'attenzione della Commissione nazionale antimafia. Nel luglio scorso, infatti, i pubblici ministeri e gli uomini del Nucleo di polizia tributaria sono arrivati fin dentro l'Italgas, i cui dirigenti avrebbero continuato a fare affari con aziende riconducibili ai Cavallotti nonostante fossero al corrente dei guai giudiziari degli imprenditori siciliani. Da qui la decisione della sezione Misure di prevenzione di commissariare un colosso pubblico come Italgas, a tempo determinato. Ora è proprio alla Commissione antimafia che i cugini Pietro e Vito si rivolgono: “Chiediamo di essere ascoltati per chiarire che i nostri genitori non hanno mai avuto nulla a che fare con la mafia. Piuttosto che essere state avvantaggiate illecitamente dalla mafia, le nostre imprese, negli anni '80 e '90, periodo della massima recrudescenza della mafia, sono state costrette a pagare il pizzo ed a subire danneggiamenti”. Questa è l'unica, seppure accorata, parentesi che i giovani Cavallotti aprono sul merito delle indagini patrimoniali. Oggi sono altri i temi che gli stanno a cuore: “Si sono succeduti dei sequestri a cascata nei confronti di noi figli a cominciare dalla Euro Impianti per finire con società che neppure operavano nel settore della metanizzazione e che si occupavano esclusivamente di progettazione. Eppure sono state sequestrate. Le abbiamo create noi. Cosa dobbiamo fare? Andare all'estero per lavorare? In Italia ogni nostra iniziativa viene stoppata perché ogni volta viene ricondotta ai fratelli Cavallotti. Nessuno si sogna di assumerci per paura di ritorsioni da parte della autorità giudiziaria. Nessuno ci fa più un prestito. Non crediamo che tutto ciò sia corretto. La nostra unica colpa è quella di essere figli di persone che sono state assolte dalla infamante accusa di mafia. Siamo assolutamente lontani dalla logica mafiosa della prevaricazione e della violenza. I nostri genitori hanno sempre avuto fiducia nella giustizia e anche noi continueremo ad averne”. Al di là del merito processuale si proiettano anche le parole del legale, l'avvocato Rocco Chinnici: “Ci difenderemo nel processo come abbiamo sempre fatto. Eravamo convinti della estraneità alle accuse in sede penale e lo siamo anche in sede patrimoniale. Il problema oggi è un altro. Siamo di fronte ad interi gruppi familiari che non riescono più a lavorare”.

L’affare Italgas: i fratelli Cavallotti e la mafia nell’azienda (dello Stato) commissariata, scrive Paolo Borrometi su “News You-ng”. L’affare Italgas, noto alle cronache degli ultimi mesi, assume sempre più contorni inquietanti. A seguito della relazione degli amministratori Giudiziari – nominati dal Tribunale di Palermo -, infatti, è stata chiesta la proroga del commissariamento per mafia della controllata di Snam. La vicenda fece molto scalpore quando i finanzieri arrivarono nella sede centrale dell’Italgas a Torino con un decreto della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Non era mai capitato che una società quotata in borsa fosse commissariata per mafia. Eppure è così ed oggi cercheremo di capirne le motivazioni, andando a fare un “viaggio” fra i nomi (illustri) che ne hanno determinato il commissariamento per sei mesi. Affonda le radici nell’impero di Ciancimino l’operazione coordinata dal procuratore aggiunto di Palermo, Dino Petralia, e dal sostituto Dario Scaletta, che ha portato al decreto della sezione presieduta da Silvana Saguto. L’Italgas spa insieme alla Napoletana gas spa sono state commissariate per diverse ragioni, una serie di elementi emersi nel corso di procedimenti per l’applicazione di misure di prevenzione personali e patrimoniali nei confronti di soggetti ritenuti socialmente pericolosi. Le due società, infatti, avrebbero posto in essere attività che avrebbero agevolato i fratelli Cavallotti, Vincenzo, Gaetano e Vito, sottoposti a misura di prevenzione per la presunta appartenenza ad una associazione mafiosa legata a “Cosa Nostra”. I fratelli Cavallotti, imprenditori operanti nel settore della metanizzazione, sono originari di Belmonte Mezzano e sarebbero stati vicini a mafiosi del calibro di Bernardo Provenzano, Giovanni Brusca e Benedetto Spera. Grazie a queste “amicizie” avrebbero goduto di un rapporto di collaborazione commerciale con l’Italgas spa. Tale rapporto sarebbe continuato nonostante l’applicazione delle misure di prevenzione personali e patrimoniali ai fratelli Cavallotti, connaturandosi quindi le caratteristiche di una oggettiva agevolazione. I Cavallotti avrebbero continuato la propria attività nel settore della metanizzazione attraverso una serie di società intestate a parenti, tra le quali la Euroimpianti Plus Srl. Ciononostante la Italgas spa, pur conoscendo le condizioni della Euroimpianti Plus Srl avrebbe – secondo quanto appurato dagli investigatori – continuato ad intrattenere rapporti di collaborazione imprenditoriale. I Cavallotti – secondo il racconto di vari collaboratori di giustizia – sarebbero stati legati, per l’appunto, anche a Angelo Siino, Giovanni Brusca, Giuseppe Maniscalco, Salvatore Barbagallo, Giovanni Mazzola, Simone Vitale e Francesco Campanella. Interessante comprendere anche come il sistema delle “raccomandazioni” risulta tramite i “pizzini” di Bernardo Provenzano nei quali si farebbe “esplicito riferimento” di favorire le imprese dei fratelli Cavallotti. Proprio fra questi pizzini, Bernardo Provenzano raccomanderebbe i Cavallotti per i lavori di metanizzazione del comune di Agira (aggiudicati poi, appunto, alla Ilmet srl amministrata da Gaetano Cavallotti) e quelli del comune di Centuripe (aggiudicati alla Cosmet srl, amministrata da Vincenzo Cavallotti). Ma i Cavallotti godono delle raccomandazioni anche di Giovanni Brusca per quanto riguarda la metanizzazione del comune di Monreale, poi assegnata alla Cosmet srl.

CESSIONE DELLE RETI DI DISTRIBUZIONE DELLE SOCIETA’ CO.ME.ST srl e COM. e S.V. srl alla Italgas spa. Nel luglio del 2008 la CO.ME.ST srl dei fratelli Cavallotti (che era già in amministrazione giudiziaria) ha ceduto alla Italgas srl il proprio ramo di azienda nei comuni di Bompietro, Blufi, Alimena e Nicosia. Nello stesso atto la società TO.SA. (anch’essa costituita dalla stessa amministrazione giudiziaria) ha ceduto alla Italgas spa la COM. e SV. srl, che si occupava di commercializzare gas negli stessi comuni e insieme alla Co.ME. ST svolgevano la attività di distribuzione nei comuni di Acate, Chiaramonte Gulfi, Foresta, Santa Lucia Del Mela, Sciara e Tortorici. Cosa assurda è che nel gennaio del 2010 l’Italgas spa aveva comunicato di aver riscontrato difetti nella costruzione degli impianti (nel comune di Bompietro). La stessa CO.ME.ST nel maggio del 2011 riconobbe tali problemi e eseguì degli interventi. Stesse contestazioni vennero mosse nei confronti della TO.SA. Eppure i rapporti sono rimasti tali. Ed è nel decreto finale del Tribunale di Palermo che si legge come “Italgas spa ha mantenuto da diversi anni rapporti commerciali con le società dei fratelli Cavallotti”. Per di più Italgas spa avrebbe accordato alla Euro Impianti Plus srl una serie di importanti appalti sia in Sicilia che in Liguria, pur sapendo che questa società fosse controllata da Vincenzo e Gaetano Cavallotti. Quindi si è permesso ai fratelli Cavallotti di proseguire nella stesse attività imprenditoriale esercitata con la COSMET, nonostante fosse sottoposta a sequestro e confisca, affondando alla Euro Impianti srl la manutenzione degli impianti costruiti dagli stessi soggetti. Insomma il “giochetto delle tre carte”. Stessi mezzi, stesse opere, realizzate da altra società, facente capo sempre agli stessi nomi. E pensare che l’Italgas spa è, per l’appunto, una società statale quotata in borsa…

In seguito all’inchiesta sull’affare Italgas scritta dal collega Paolo Borrometi e pubblicata dalla nostra testata, scrive il giornale, i fratelli Cavallotti ci inviano una replica che pubblichiamo integralmente. Convinti dell’ottimo lavoro svolto dal nostro collega, tra l’altro finito sotto scorta a seguito di minacce ed aggressioni subite della mafia, abbiamo come sempre deciso di fornire spazio ed occasione di replica anche a chi ha voluto fornire la sua versione dei fatti.

Mi sembra che questa difesa a spada tratta del cronista sia una discolpa non richiesta. "Excusatio non petita, accusatio manifesta" è una locuzione latina di origine medioevale. La sua traduzione letterale è "Scusa non richiesta, accusa manifesta".

“I fratelli Cavallotti, non sono mai stati vicini alla mafia, né tanto meno a “mafiosi del calibro di Bernardo Provenzano e Benedetto Spera”. Ciò risulta in maniera chiara da una sentenza definitiva che ha assolto i fratelli Cavallotti dalla infamante accusa di concorso esterno in associazione mafiosa con la formula “perchè il fatto non sussiste”, essendo stati ritenuti, a seguito di un lungo e complesso procedimento penale, vittime e non complici della mafia. Le dichiarazioni rese dai vari collaboratori di giustizia hanno dimostrato come le imprese dei fratelli Cavallotti, piuttosto che essere state avvantaggiate illecitamente dalla mafia, alla stregua di tutte le imprese operanti in Sicilia negli anni ’80 e ’90 – periodo della massima recrudescenza del fenomeno mafioso – sono state costrette a pagare il pizzo e a subire furti e danneggiamenti nei propri cantieri, tutti denunciati alle autorità competenti. In particolare, gli stessi collaboratori di giustizia hanno indicato i Cavallotti non come degli uomini d’onore e neppure come dei soggetti vicini alla mafia ma, piuttosto, come imprenditori dei quali alcuni degli stessi collaboratori di giustizia avevano curato la “messa a posto” – intesa nel significato lumeggiato dal Siino e da una nutrita serie di collaboranti come “pagamento del pizzo” – ovvero avevano sentito parlare come imprenditori costretti a subire le vessazioni della mafia. Quanto poi ai “pizzini” di Bernardo Provenzano, si tratta di missive dattiloscritte da questi inviate all’Ilardo e da questi consegnate al Colonnello Riccio. In queste missive si fa cenno, da una parte, ai lavori di metanizzazione dei comuni di Agira e Centuripe, eseguiti dalle società dei fratelli Cavallotti, dall’altra, alla Cooperativa “Il Progresso”. Il carteggio in parola va letto ed è stato valorizzato dai giudici del processo penale come pagamento del pizzo, e ciò per le seguenti ragioni. Le gare per i lavori per la metanizzazione dei comuni di Agira e Centuripe (che si trovano in Provincia di Enna) sono state indette e aggiudicate a Palermo dalla Siciliana Gas (che non va confusa con la Gas s.p.a. di cui erano soci Ciancimino Vito, Lapis ed Ezio Brancato, consuocero di Giusto Sciacchitano, e che rispetto alle imprese dei Cavallotti operava in un regime di assoluta concorrenza). Sulla base di una nota “regola di mafia”, se Provenzano avesse voluto favorire l’aggiudicazione dei lavori ai Cavallotti, avrebbe dovuto rivolgersi al referente locale della consorteria mafiosa competente su Palermo luogo, nel quale vengono indette e aggiudicate le gare e non di certo all’Ilardo, referente della famiglia mafiosa di Caltanissetta ed Enna. Viceversa, l’indirizzamento delle missive all’Ilardo ha dimostrato che Provenzano faceva riferimento alla messa a posto. E ciò risulta compatibile con una ulteriore “regola di mafia” secondo la quale la riscossione del pizzo compete alla famiglia del luogo in cui i lavori vengono eseguiti. In disparte poi che, in relazione alle procedure di aggiudicazione di questi lavori, non è stata riscontrata alcuna irregolarità. Inoltre, l’importo indicato nei bigliettini è più basso rispetto a quello per il quale i lavori vengono aggiudicati, e ciò dimostra come quei bigliettini facessero riferimento non alla aggiudicazione dei lavori ma al pagamento del pizzo che, come hanno dichiarato diversi collaboratori di giustizia, viene calcolato in percentuale rispetto al valore di aggiudicazione dell’appalto, segno che i Cavallotti avevano indicato all’esattore del pizzo un importo inferiore a quello reale e ciò al fine di pagare di meno. Quanto alle raccomandazioni di Brusca di cui avrebbero goduto i Cavallotti segnalo che il Brusca riferisce di essersi occupato, con riferimento alla metanizzazione del Comune di Monreale, esclusivamente della messa a posto delle imprese dei Cavallotti. Si precisa inoltre, che la metanizzazione del Comune di Monreale è stata promossa e realizzata dalla Comest attraverso il sistema della finanza di progetto. Vale la pena di ricordare soltanto che, in virtù dell’art. 21 della Legge Regionale dell’8 Gennaio del 1996, è stata consentita la promozione privata di concessione di opere pubbliche. Attraverso questo sistema la Comest ha ottenuto diverse concessioni per la costruzione e gestione della rete di distribuzione del gas metano in vari comuni siciliani. Questi lavori, estranei alla logica mafiosa di spartizione degli appalti, venivano realizzati, in assenza di finanziamenti pubblici, con gli utili di esercizio delle imprese Cavallotti e con il sostegno finanziario del sistema bancario a cui le società del gruppo facevano regolarmente ricorso.  La Tosa non è stata costituita dagli amministratori giudiziari in quanto trattasi di una società sottoposta a sequestro a far data dal 1996. In data 01/07/2009 la Comest, in amministrazione giudiziaria, cede a Italgas i bacini di utenza dei seguenti comuni: Alimena, Blufi, Bompietro, Fraz. Villadoro del Comune di Nicosia. In data 01/04/2009 – tre mesi prima della descritta cessione – la Euro Impianti plus, previa regolare gara di appalto indetta da Itlagas e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea stipula in ATI un contratto avente ad oggetto la estensione, manutenzione e l’ampliamento di reti gas nei comuni ricadenti nel centro operativo di Enna del quale, a seguito della suddetta cessione, fanno parte anche i comuni di Alimena, Blufi, Bompietro, Fraz. Villadoro del Comune di Nicosia. Nel 2010 viene riscontrato da Italgas un difetto nell’impianto del Comune di Bompietro. La costruzione degli impianti nei quali sono stati riscontrati questi difetti, è stata avviata dai Cavallotti, ma la parte di impianto “irregolare” – “parte terminale per la connessione utenza” (le c.d. “prese”) – è stata compiuta dalla amministrazione giudiziaria la quale ha altresì curato l’attivazione dell’intero impianto cittadino e che avrebbe dovuto provvedere alla manutenzione dello stesso prima della riferita cessione. L’amministrazione giudiziaria, avendo riconosciuto nel 2011 il difetto, si offre di provvedere alla manutenzione di quell’impianto. Tuttavia la Comest, nel corso dell’amministrazione giudiziaria, aveva perduto tutti i requisiti tecnici previsti dalla legge e dal regolamento interno di Italgas necessari per potere eseguire lavori di manutenzione reti gas. L’opera di adeguamento dell’impianto di cui si discute, viceversa, avrebbe potuto essere affidata “direttamente” alla Euro impianti plus in virtù del contratto di cui sopra. Nondimeno piuttosto che affidare l’adeguamento alla Euro Impianti plus  l’Italgas ha indetto una nuova gara alla quale sono state invitate diverse società censite nell’albo dei fornitori di fiducia della stessa Italgas dotati dei richiesti requisiti tecnici, economici e profesisonali fra le quali la Euro Impianti plus che, essendo già presente nel territorio, ha potuto presentare una offerta economica più vantaggiosa per Italgas aggiudicandosi in ATI, nel rispetto della legalità e senza sponsorizzazioni mafiose, i lavori di cui si discute con un risparmio per Italgas di circa il cinquanta per cento. A ciò si aggiunga che nel corso della decennale attività di impresa dei fratelli Cavallotti non si è mai verificato alcun incidente in merito alle opere da essi interamente realizzate. Non si riesce a comprendere che cosa ci sia di anomalo nella costituzione di una società di capitali da parte di familiari di persone innocenti, ed, ancora, non si comprendere che cosa ci sia di anomalo, in un regime di libero mercato, nell’aggiudicazione di alcuni appalti da parte di questa società, dotata di tutti i requisiti necessari, a fronte di una offerta migliore e più vantaggiosa per l’ente appaltante rispetto a quella presentata da altri concorrenti. Presso la Euro impianti plus, prima dell’applicazione delle misure di prevenzione sia personali che patrimoniali – pervenuta in data 20/10/2011 – vengono assunti Gaetano e Vincenzo Cavallotti con la qualifica professionale di impiegato al livello Q del C.C.N.L. con mansioni di capo cantiere ed impiegato tecnico, essendo essi dotati di elevata capacità e particolare perizia sui cantieri che i lunghi anni di processo e di custodia cautelare non hanno potuto cancellare. Se dei soggetti volessero eludere le misure di prevenzione presterebbero la propria opera “ufficialmente”, alla luce del sole, con regolare contratto di lavoro presso una società che, secondo l’accusa, sarebbe stata costituita proprio allo scopo di eludere le misure preventive? Certamente no. E ancora: se dei soggetti volessero eludere le misure di prevenzione, reinvestirebbero gli utili di esercizio della società cosa che di fatto è avvenuta nella Euro Impianti plus piuttosto che dividerseli al fine di sottrarli ad eventuali misure ablative? Certamente no. Questo dimostra, senza alcun dubbio, l’assoluta liceità dei rapporti tra la Euro impianti plus e i fratelli Cavallotti Gaetano e Vincenzo che, nonostante la consapevolezza della loro acclarata innocenza, dopo l’ingiusta e ingiustificabile applicazione delle misure di prevenzione (sopraggiunta nell’Ottobre del 2011) hanno interrotto il rapporto di lavoro con la società amministrata dai figli. Va ricordato, inoltre che nel grado di appello del processo di prevenzione il Procuratore Generale, Florestano Cristodaro, ha chiesto la revoca delle misure di prevenzione sia personali che patrimoniali ritenendo ancora una volta i Cavallotti “vittime della mafia” ed invitando i giudici a “leggere serenamente le carte processuali”. Ed è questo un aspetto della vicenda che va sottolineato in quanto, pur tenendo a mente che la richiesta del Procuratore Generale non è vincolante nei confronti del Giudice, è noto che ai fini della applicazione delle misure di prevenzione, dal punto di vista dello standard probatorio, non è richiesta la prova della colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio ma il c.d. “indizio di mafia”, che sempre più ha assunto i caratteri del mero sospetto. Ora, se un Procuratore della Repubblica italiana, ha chiesto di revocare le misure di prevenzione, ciò significa, che con riferimento alla vicenda dei Cavallotti non è ravvisabile neppure l’indizio della loro vicinanza alla mafia;E se questo dato così significativo viene letto insieme alla sentenza di assoluzione definitiva la conseguenza non può che essere una: i Cavallotti non hanno mai avuto nulla a che fare con la mafia! Continuare ad accostare i miei familiari alla mafia è offensivo e diffamante in quanto non corrispondente alla realtà. Per chi ha subito nel lavoro, nell’esercizio dell’impresa, financo nella vita privata, le vessazioni e le minacce del crimine organizzato non c’è nulla di peggio dell’essere accostato alla criminalità mafiosa. La mafia ci fa schifo e siamo assolutamente lontani dalla logica mafiosa della prepotenza, della prevaricazione e della violenza!”. 

IL MARCIO DOVE NON TE LO ASPETTI: NEI TRIBUNALI E NELLO SPORT.

Beni confiscati alla mafia in modo strumentale e fallimenti truccati?

Chi controlla i controllori? Il caso Cavallotti come i casi di Danilo Filippini e di Sergio Briganti.

Venerdì 24 ottobre 2014 si tiene a Taranto la conferenza prefettizia tra il Prefetto, Umberto Guidato, il dirigente dell’Ufficio ordine e Sicurezza Pubblica, sostituito dal capo di Gabinetto, Michele Lastella e le associazioni antimafia operanti sul territorio della provincia di Taranto. In quell’occasione è intervenuto il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, oltre che scrittore e sociologo storico, che da venti anni studia il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSapce.com e Google Libri.

Il dr Antonio Giangrande ebbe ad affermare che nuovi fenomeni si affacciavano nel mondo dell’illegalità: l’usura di Stato con Equitalia, l’usura bancaria e, per la crisi imperante, l’usura pretestuosa, ossia la denuncia di usura per non pagare i fornitori.

Il prefetto ed il suo vice, in qualità di rappresentanti burocratici del sistema statale prontamente hanno contestato l’esistenza dell’illegalità para statale e para bancaria, mettendo in dubbio l’esistenza di indagini giudiziarie che hanno svelato il fenomeno.

Eppure La corruzione passa per il tribunale. Tra mazzette, favori e regali. Nei palazzi di giustizia cresce un nuovo fenomeno criminale. Che vede protagonisti magistrati e avvocati. C'è chi aggiusta sentenze in cambio di denaro, chi vende informazioni segrete e chi rallenta le udienze. Il Pm di Roma: Un fenomeno odioso, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A Napoli, dove il caos è dannazione di molti e opportunità per gli scaltri, il tariffario lo conoscevano tutti: se un imputato voleva comprarsi il rinvio della sua udienza doveva sganciare non meno di 1.500 euro. Per “un ritardo” nella trasmissione di atti importanti, invece, i cancellieri e gli avvocati loro complici ne chiedevano molti di più, circa 15mila. «Prezzi trattabili, dottò...», rabbonivano i clienti al telefono. Soldi, mazzette, trattative: a leggere le intercettazioni dell’inchiesta sul “mercato delle prescrizioni” su cui ha lavorato la procura di Napoli, il Tribunale e la Corte d’Appello partenopea sembrano un suk, con pregiudicati e funzionari impegnati a mercanteggiare sconti che nemmeno al discount. Quello campano non è un caso isolato. Se a Bari un sorvegliato speciale per riavere la patente poteva pagare un magistrato con aragoste e champagne, oggi in Calabria sono tre i giudici antimafia accusati di corruzione per legami con le ’ndrine più feroci. Alla Fallimentare di Roma un gruppo formato da giudici e commercialisti ha preferito arricchirsi facendo da parassita sulle aziende in difficoltà. Gli imprenditori disposti a pagare tangenti hanno scampato il crac grazie a sentenze pilotate; gli altri, che fallissero pure. Ma negli ultimi tempi magistrati compiacenti e avvocati senza scrupoli sono stati beccati anche nei Tar, dove in stanze anonime si decidono controversie milionarie, o tra i giudici di pace. I casi di cronaca sono centinaia, in aumento esponenziale, tanto che gli esperti cominciano a parlare di un nuovo settore illegale in forte espansione: la criminalità del giudiziario. «Ciò che può costituire reato per i magistrati non è la corruzione per denaro: di casi in cinquant’anni di esperienza ne ho visti tanti che si contano sulle dita di una sola mano. Il vero pericolo è un lento esaurimento interno delle coscienze, una crescente pigrizia morale», scriveva nel 1935 il giurista Piero Calamandrei nel suo “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”. A ottant’anni dalla pubblicazione del pamphlet, però, la situazione sembra assai peggiorata. La diffusione della corruzione nella pubblica amministrazione ha contagiato anche le aule di giustizia che, da luoghi deputati alla ricerca della verità e alla lotta contro il crimine sono diventati anche occasione per business illegali. Nello Rossi, procuratore aggiunto a Roma, prova a definire caratteristiche e contorni al fenomeno: «La criminalità del giudiziario è un segmento particolare della criminalità dei colletti bianchi. Una realtà tanto più odiosa perché giudici, cancellieri, funzionari e agenti di polizia giudiziaria mercificano il potere che gli dà la legge». Se la corruzione è uno dei reati più diffusi e la figura del giudice comprato è quella che desta più scandalo nell’opinione pubblica, il pm che ha indagato sulla bancarotta Alitalia e sullo Ior ricorda come tutti possono cadere in tentazione, e che nel gran bazar della giurisdizione si può vendere non solo una sentenza, ma molti altri articoli di enorme valore. «Come un’informazione segreta che può trasformare l’iter di un procedimento, un ritardo che avvicina la prescrizione, uno stop a un passaggio procedurale, fino alla sparizione di carte compromettenti». Numeri ufficiali sul fenomeno non esistono. Per quanto riguarda i magistrati, le statistiche della Sezione disciplinare del Csm non fotografano i procedimenti penali ma la più ampia sfera degli illeciti disciplinari. Nell’ultimo decennio, comunque, non sembra che lo spirito di casta sia prevalso come un tempo: se nel 2004 le assoluzioni erano quasi doppie rispetto alle condanne (46 a 24) ora il trend si è invertito, e nei primi dieci mesi del 2012 i giudici condannati sono stati ben 36, gli assolti 27. «Inoltre, se si confrontano queste statistiche con quelle degli altri Paesi europei redatte dalla Cepej - la Commissione europea per l’efficacia della giustizia - sulla base dei dati del 2010», ragiona in un saggio Ernesto Lupo, fino al 2013 primo presidente della Cassazione, «si scopre che a fronte di una media statistica europea di 0,4 condanne ogni cento giudici, il dato italiano è di 0,6». Su trentasei Paesi analizzati dalla Commissione, rispetto all’Italia solo in cinque nazioni si contano più procedimenti contro i magistrati. Chi vuole arricchirsi illegalmente sfruttando il settore giudiziario ha mille modi per farlo. Il metodo classico è quello di aggiustare sentenze (come insegnano i casi scuola delle “Toghe Sporche” di Imi-Sir e quello del giudice Vittorio Metta, corrotto da Cesare Previti affinché girasse al gruppo Berlusconi la Mondadori), ma spulciando le carte delle ultime indagini è la fantasia a farla da padrona. L’anno scorso la Procura di Roma ha fatto arrestare un gruppo, capeggiato da due avvocati, che ha realizzato una frode all’Inps da 22 milioni di euro: usando nomi di centinaia di ignari pensionati (qualcuno era morto da un pezzo) hanno mitragliato di cause l’istituto per ottenere l’adeguamento delle pensioni. Dopo aver preso i soldi la frode continuava agli sportelli del ministero della Giustizia, dove gli avvocati chiedevano, novelli Totò e Peppino, il rimborso causato delle «lungaggini» dei finti processi.    Un avvocato e un giudice di Taranto, presidente di sezione del tribunale civile della città dei Due Mari, sono stati invece arrestati per aver chiesto a un benzinaio una tangente di 8mila euro per combinare un processo che il titolare della pompa aveva con una compagnia petrolifera. Se a Imperia un magistrato ha aiutato un pregiudicato a evitare la “sorveglianza speciale” dietro lauto compenso, due mesi fa un giudice di pace di Udine, Pietro Volpe, è stato messo ai domiciliari perché (insieme a un ex sottufficiale della Finanza e un avvocato) firmava falsi decreti di dissequestro in favore di furgoni con targa ucraina bloccati dalla polizia mentre trasportavano merce illegale sulla Venezia-Trieste. Il giro d’affari dei viaggi abusivi protetti dal giudice era di oltre 10 milioni di euro al mese. Raffaele Cantone, da pochi giorni nominato da Matteo Renzi presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, evidenzia come l’aumento dei crimini nei palazzi della legge può essere spiegato, in primis, «dall’enorme numero di processi che si fanno in Italia: una giustizia dei grandi numeri comporta, inevitabilmente, meno trasparenza, più opacità e maggiore difficoltà di controllo». I dati snocciolati tre mesi fa dal presidente della Cassazione Giorgio Santacroce mostrano che le liti penali giacenti sono ancora 3,2 milioni, mentre le cause civili arretrate (calate del 4 per cento rispetto a un anno fa) superano la cifra-monstre di 5,2 milioni. «Anche la farraginosità delle procedure può incoraggiare i malintenzionati» aggiunge Rossi. «Per non parlare del senso di impunità dovuto a leggi che - sulla corruzione come sull’evasione fiscale - sono meno severe rispetto a Paesi come Germania, Inghilterra e Stati Uniti: difficile che, alla fine dei processi, giudici e avvocati condannati scontino la pena in carcere». Tutto si muove attorno ai soldi. E di denaro, nei tribunali italiani, ne gira sempre di più. «Noi giudici della sezione Grandi Cause siamo un piccolo, solitario, malfermo scoglio sul quale piombano da tutte le parti ondate immense, spaventose, vere schiumose montagne. E cioè interessi implacabili, ricchezze sterminate, uomini tremendi... insomma forze veramente selvagge il cui urto, poveri noi meschini, è qualcosa di selvaggio, di affascinante, di feroce. Io vorrei vedere il signor ministro al nostro posto!», si difendeva Glauco Mauri mentre impersonava uno dei giudici protagonisti di “Corruzione a palazzo di giustizia”, pièce teatrale scritta dal magistrato Ugo Betti settant’anni fa. Da allora l’importanza delle toghe nella nostra vita è cresciuta a dismisura. «Tutto, oggi, rischia di avere strascichi giudiziari: un appalto, un concorso, una concessione, sono milioni ogni anno i contenziosi che finiscono davanti a un giudice», ragiona Rossi. I mafiosi nelle maglie larghe ne approfittano appena possono, e in qualche caso sono riusciti a comprare - pagando persino in prostitute - giudici compiacenti. In Calabria il gip di Palmi Giancarlo Giusti è stato arrestato dalla Dda di Milano per corruzione aggravata dalle finalità mafiose («Io dovevo fare il mafioso, non il giudice!», dice ironico Giusti al boss Giulio Lampada senza sapere di essere intercettato), mentre accuse simili hanno distrutto le carriere del pm Vincenzo Giglio e del finanziere Luigi Mongelli. A gennaio la procura di Catanzaro ha indagato un simbolo calabrese dell’antimafia, l’ex sostituto procuratore di Reggio Calabria Francesco Mollace, che avrebbe “aiutato” la potente ’ndrina dei Lo Giudice attraverso presunte omissioni nelle sue indagini. Sorprende che in quasi tutte le grandi istruttorie degli ultimi anni insieme a politici e faccendieri siano spesso spuntati nomi di funzionari di giustizia e poliziotti. Nell’inchiesta sulla cricca del G8 finirono triturati consiglieri della Corte dei Conti, presidenti di Tar e pm di fama (il procuratore romano Achille Toro ha patteggiato otto mesi), mentre nell’inchiesta P3 si scoprì che erano molti i togati in contatto con l’organizzazione creata da Pasquale Lombardi e Flavio Carboni per aggiustare processi. Anche il lobbista Luigi Bisignani, insieme al magistrato Alfonso Papa, aveva intuito gli enormi vantaggi che potevano venire dal commercio di informazioni segrete: la P4, oltre che di nomine nella pubblica amministrazione, secondo il pubblico ministero Henry Woodcock aveva la sua ragion d’essere proprio nell’«illecita acquisizione di notizie e di informazioni» di processi penali in corso. Secondo Cantone «nel settore giudiziario, e in particolare nei Tar e nella Fallimentare, si determinano vicende che dal punto di vista economico sono rilevantissime: che ci siano episodi di corruzione, davanti a una massa così ingente di denaro, è quasi fisiologico». I casi, in proporzione, sono ancora pochi, ma l’allarme c’è. Se i Tar di mezza Italia sono stati travolti da scandali di ogni tipo (al Tar Lazio è finito nei guai il giudice Franco Maria Bernardi; nelle Marche il presidente Luigi Passanisi è stato condannato in primo grado per aver accettato la promessa di ricevere 200 mila euro per favorire l’imprenditore Amedeo Matacena, mentre a Torino è stato aperto un procedimento per corruzione contro l’ex presidente del Tar Piemonte Franco Bianchi), una delle vicende più emblematiche è quella della Fallimentare di Roma. «Lì non ci sono solo spartizioni di denaro, ma anche viaggi e regali: di tutto di più. Una nomina a commissario giudiziale vale 150 mila euro, pagati al magistrato dal professionista incaricato. Tutti sanno tutto, ma nessuno fa niente», ha attaccato i colleghi il giudice Chiara Schettini, considerata dai pm di Perugia il dominus della cricca che mercanteggiava le sentenze del Tribunale della Capitale. Dinamiche simili anche a Bari, dove l’inchiesta “Gibbanza” ha messo nel mirino la sezione Fallimentare della città mandando a processo una quarantina tra giudici, commercialisti, avvocati e cancellieri. «Non bisogna stupirsi: il nostro sistema giudiziario soffre degli stessi problemi di cui soffre la pubblica amministrazione», spiega Daniela Marchesi, esperta di corruzione e collaboratrice della “Voce.info”. Episodi endemici, in pratica, visto che anche Eurostat segnala che il 97 per cento degli italiani considera la corruzione un fenomeno “dilagante” nel Paese. «Mai visto una città così corrotta», protesta uno dei magistrati protagonisti del dramma di Betti davanti all’ispettore mandato dal ministro: «Il delitto dei giudici, in conclusione, sarebbe quello di assomigliare un pochino ai cittadini!». Come dargli torto?

A conferma di ciò mi sono imbattuto nel servizio di TeleJato di Partinico (Pa) del 21 ottobre 2014 che al minuto 31,32 il direttore Pino Maniaci spiega: «Ci occupiamo ancora una volta di beni sequestrati. Questa mattina una audizione al Consiglio Superiore della Magistratura, scusate in Commissione Nazionale Antimafia, alla presenza della Bindi, alcuni procuratori aggiunti e pubblici ministeri di Palermo stanno parlando di Italgas. Quelli di Italgas è tutto un satellite ed una miriade di altre società che ci girano intorno, dove dovranno spiegare come mai le misure di prevenzione di Palermo hanno deciso di mettere sotto amministrazione giudiziaria questa società a livello nazionale. Sapete perché? Perché un certo Modica De Mohac, già il nome è quanto dire, altosonante, ha venduto, mentre le società erano sottosequestro. Dovevano essere semplicemente essere amministrate e per legge non toccate. E per legge in un anno si deve redimere se quel bene va confiscato definitivamente o restituito ai legittimi proprietari. I Cavallotti di Belmonte Mezzagno, assolti con formula piena dall’accusa di mafia, da ben 16 anni hanno i beni sottoposti a sequestro. 16 anni!! Dottoressa Saguto, 16 anni!!! Il Tribunale può violare la legge? In questo caso, sì. E che cosa è successo? Le imprese, le ditte, i paesi che sono stati metanizzati dai Cavallotti, da Modica De Mohac, naturalmente sotto la giurisdizione delle misure di prevenzione della dottoressa Saguto, ha venduto questa metanizzazione, ha venduto queste società all’Italgas. E lì, dopo si è scoperto, che essendoci le società dei Cavallotti, guarda caso l’Italgas è infiltrata mafiosa. E cosa si fa? Si sequestra l’Italgas! Sono quei paradossi tutti nostri. Tutti siculi. Dove, sinceramente, chi amministra la giustizia, che commette queste illegalità la fa sempre da padrone e la fa sempre franca. Ma è possibile? In Sicilia sì!! Vediamo i particolari nel servizio. “Italgas alcuni mesi fa è stata sequestrata e messa sotto tutela, cioè affidata alle cure di amministratori giudiziari ed ispettori che entro 6 mesi dovrebbero verificare se nell’azienda ci sono o ci sono stati infiltrazioni mafiose. La Guardia di Finanza, non si sa se ispirata dal giudice che si occupa dell’ufficio di misure di prevenzione (sapete chi è? La solita dottoressa Saguto, ha trovato che alcuni pezzi di attività delle società erano stati rilevati presso le aziende Cavallotti di Belmonte Mezzagno che si occupavano di metanizzazione. Ma da qui 16 anni sono sotto sequestro. L’operazione di trasferimento degli impianti di metano dei vari comuni venduti in parte all’Italgas per un importo di 20 milioni di euro ed un’altra parte prima alla Coses srl, azienda posta sotto sequestro, amministrata dal Modica, tramite una partita di giro contabile avvenuto nel 2007 per un importo di 2 milioni di euro. Poi gli stessi impianti, dopo essere stati in possesso della Coses srl vengono rivenduti sempre alla Italgas per un importo di 5 milioni di euro. E dopo aver incassato la somma, la stessa Comest Srl, amministrata sempre dal Modica, provvede a trasferire i ricavati della vendita degli impianti di metano nelle società riconducibili ad esso stesso ed ai suoi familiari. Questa manovra è avvenuta semplice al Modica, in quanto alla Comest srl era ed è confiscata e definitivamente passata al demanio. Il Prefetto Caruso, quando era direttore dell’amministrazione dei beni sequestrati e confiscati, accortosi delle malefatte del Modica De Mohac, ha provveduto a sollevare il Modica da tutti i suoi incarichi per poi affidarli ad altri amministratori del tribunale di Palermo. E’ chiaro che l’operazione di vendita, come prescrive la legge, deve essere fatta con il consenso del giudice che ha nominato l’amministratore stesso e quindi la solita dottoressa Saguto dovrebbe essere al corrente di quanto oggi la Commissione Antimafia vorrebbe sapere, avendo convocato il procuratore aggiunto di Palermo Dino Petralia, il Pubblico Ministero Dario Scaletta ed il pubblico ministero Maurizio De Lucia. Non è chiaro quanto c’entrano  i magistrati in tutto questo e perché non ha interrogato il magistrato che invece c’entra. In Italia funziona proprio così. Per complicare quest’indagine è stata associata un’altra indagine che non c’entra con i fratelli Cavallotti e che riguarda una serie di aziende a suo tempo del tutto concorrenziali  con quelle degli stessi Cavallotti e che facevano capo a Ciancimino, al suo collaboratore prof. Lapis  ed ad un altro suo socio. Le notizie trasmesse dalla stampa lasciano credere invece che le aziende dei Cavallotti sono ed agiscono assieme a quelle di Ciancimino e che l’infiltrazione mafiosa che riguarda due cose diverse sia invece la medesima cosa. Staremo a vedere se passati 6 mesi di controllo e l’Italgas potrà tornare a distribuire il suo gas senza pagare di tasca sua il solito amministratore giudiziario e se l’attività persecutoria che si accanisce sui fratelli Cavallotti, assolti, ricordiamo, in via definitiva ma sempre sotto il mirino della solita dottoressa Saguto, possa continuare all’infinito per tutta la settima generazione. Per quanto riguarda l’audizione del giudice Scaletta, egli ha avuto in mano le indagini che riguardavano la discarica di Clin in Romania. Una parte della quale, la cui proprietà è stata attribuita a Ciancimino è amministrata dal solito re degli amministratori giudiziari, Cappellano Seminara, che è sotto processo per aver combinato alcuni imbrogli nel tentativo di impadronirsi di una parte di quella discarica. Ma fermiamoci. Il discorso è così complesso che siamo convinti che la Commissione Antimafia preferirà metterlo da parte e lasciare tutto come si trova  per non scoprire una tana di serpi o per non aprire il coperchio di una pentola dove c’è dentro lo schifo distillato. Per una volta non soltanto di distilleria Bertollini. (Parla la Bindi: La Commissione ha registrato un fallimento sui beni confiscati. Non è così. Non abbiamo registrato un fallimento perché i risultati sono stato ottenuti e non perché questa è la città dove metà dei beni sequestrati  della mafia sono in questa città e le misure di prevenzione e la gestione di questi beni che è stata fatta in questa città e di questa regione ha fatto scuola in tutta Italia.) Sono quei bordelli tutti siculi, sai perché? Ti trovi nella terra del Gattopardo: cambiare tutto per non cambiare un cazzo….»

Chiarificatrice è l’'inchiesta di Salvo Vitale del 31 marzo 2014 su “Antimafia 2000”.  Beni confiscati, così non funziona. E’ una storia che parte da lontano, cioè dal 1982, quando, quattro mesi dopo l’uccisione di Pio La Torre, venne approvata la legge Rognoni-La Torre, (in sigla RTL) che consentiva il sequestro e la confisca dei beni mafiosi. Aggredire i mafiosi nei loro patrimoni era l’obiettivo del nuovo strumento. Dopo  14 anni, a seguito della raccolta di un milione di firme, organizzata dall’associazione Libera, veniva approvata la legge 109/96 che disponeva l’uso sociale dei beni confiscati, una sorta di restituzione ai cittadini di ciò che era stato loro sottratto con la violenza e l’illegalità. Ultimo atto, nel 2011, l’approvazione della cosiddetta legge Alfano che dava o tentava di dare una sistemazione definitiva a tutte le norme sull’argomento e creava l’Agenzia Nazionale ai beni confiscati alla mafia, con sede a Reggio Calabria, che avrebbe dovuto occuparsi gestione dei beni attraverso l’iter dal sequestro alla confisca. Pur riconoscendo che esistono ancora grossi limiti, la legge è ritenuta una delle più avanzate al mondo ed è stata presa a modello per la recente approvazione della normativa europea. Quello dei beni giudiziari è un vero affare, se si tiene conto che il numero dei  beni confiscati è, ad oggi, di 12.946, cifra in continua evoluzione, di cui 1.708 aziende e che di questi, circa il 42,60%  pari a  5.515 è in Sicilia, particolarmente in provincia di Palermo (1870). Si tratta di un patrimonio da alcuni approssimativamente stimato in due miliardi di euro, ma La Repubblica (22 marzo 2012) parla di 22 miliardi di euro, il Giornale di Sicilia (6 febbraio 2014) di 30 miliardi, di cui l’80% nelle mani delle banche. Di queste aziende solo 35 sono in attivo e solo il 2% genera fatturati. E’ un immenso patrimonio comprendente supermercati, ristoranti, trattorie, residence, villaggi turistici, distributori di benzina, fabbriche, impianti minerari, fattorie, serre, allevamenti di polli, agriturismi, cantine, discoteche, gelaterie, società immobiliari, centri sportivi, pescherecci, stabilimenti balneari e anche castelli. Quasi tutti falliti. Molte le difficoltà di carattere finanziario, con i lavoratori da mettere in regola e il pagamento dei contributi arretrati ai dipendenti che i boss facevano lavorare a nero, Sopravvive solo qualche azienda, alle cui spalle c’è una grande struttura, come Libera, che può tornare a fatturare, ma, dice Franco La Torre, figlio di Pio, “finché si tratteranno le aziende di proprietà delle mafie come aziende normali, il meccanismo messo in moto dallo Stato non funzionerà mai”. Un fallimento totale di cui nessuno si dichiara responsabile.

Limiti. Quali sono i limiti? Innanzitutto i tempi molto lunghi che passano dal sequestro alla confisca. Poiché all’atto del sequestro il bene è “congelato”, in genere si  fa ricorso, da parte del tribunale competente, alla nomina di un amministratore giudiziario. E’ questo il primo punto debole: nella maggior parte dei casi si tratta di persone del tutto incompetenti, senza alcuna capacità manageriale, di titolari di studi commercialistici o di studi legali di cui spesso le Procure si servono per alcune indagini, e che sono in buoni rapporti con il magistrato incaricato di fare le nomine. L’incompetenza di queste persone ha portato al fallimento del 90% delle aziende sotto sequestro, alla rovina economica di parecchie famiglie che nelle aziende trovavano lavoro e alla crisi dell’indotto  che gira attorno all’azienda, anche perché, e questo è un altro limite, le aziende sotto sequestro possono  e devono riscuotere crediti, ma non possono saldare debiti se non al momento della sentenza che ne sancisca la definitiva sistemazione. La conclusione a cui si arriva facilmente e a cui arrivano le parti danneggiate è che con la mafia si lavorava, con l’antimafia c’è la rovina economica, ed il messaggio è devastante nei confronti di chi dovrebbe rappresentare lo Stato. La valutazione economica del bene confiscato è fatta da un apposito perito, nominato sempre dal tribunale, al quale spetta un compenso apri all’1% del valore del bene da valutare. Spetta al titolare o al proprietario del bene l’onere della prova sulla provenienza del bene, ovvero l’obbligo di dovere dimostrare che il bene è stato costruito, realizzato, gestito senza violazione della legge. Al giudice spetta invece dimostrare i reati di cui è accusata la persona penalmente sotto inchiesta.  In tal senso si dà alla magistratura un notevole potere e, molto spesso succede di trovare beni confiscati, senza che i proprietari abbiano  ancora riportato particolari condanne penali per associazione mafiosa, oppure altri beni sotto sequestro dopo che i loro titolari sono stati assolti, anche in via definitiva. Per non parlare di debiti e mutui accesi con le banche, che lo stato non si premura di rimborsare e che quindi finiscono co il lasciare il bene nelle mani delle banche stesse. La dichiarazione di fallimento e la messa in liquidazione dei beni confiscati è la strada più facile per gli amministratori, perché li esonera dall’obbligo della rendicontazione e consente loro di “svendere” mezzi, attrezzature, materiali, anche con fatturazioni non conformi al valore reale dei beni, girando spesso gli stessi beni ad aziende collaterali legate agli stessi amministratori giudiziari: per fare un esempio banale, Andrea Modìca da Moach, uno dei più grossi esperti in queste partite di giro a suo favore, degne di scatole cinesi, liquidatore della Comest dei fratelli Cavallotti, ha messo in vendita un camion con gru per 600 euro, girandolo alla ditta D’Arrigo di Borgetto, di cui è ugualmente amministratore, e quando i proprietari hanno denunciato l’imbroglio al giudice  per le misure di prevenzione, la cosa è stata sistemata facendo passare il tutto per una sorta di noleggio.

L’audizione di Caruso. Nell’audizione alla Commissione Antimafia, fatta il 18 gennaio 2012, il  prefetto Caruso, al quale è stata affidata la gestione dell’Agenzia dei beni confiscati alla mafia che ha sede a Reggio Calabria, dice: “Altre criticità riguardano la gestione degli amministratori giudiziari, per come si è svolta fino ad ora…., l’amministratore giudiziario tende, almeno fino ad ora, a una gestione conservativa del bene. Dal momento del sequestro  fino alla confisca definitiva – parliamo di diversi anni, anche dieci – l’azienda è decotta. Siccome compito dell’Agenzia è avere una gestione non solo conservativa, ma anche produttiva dell’azienda, abbiamo una difficoltà di gestione e una difficoltà relativa a professionalità e managerialità che, dal momento del sequestro, posso individuare e affiancare all’amministratore giudiziario designato dal giudice. In tal modo, quando dal sequestro si passerà alla confisca di primo grado, sarà possibile ottenere reddito da quella azienda….. Facendo una battuta, io ho detto che, fino ad ora, i beni confiscati sono serviti, in via quasi esclusiva, ad assicurare gli stipendi e gli emolumenti agli amministratori giudiziari, perché allo Stato è arrivato poco o niente. Ometto di dire quanto succede in terre di mafia quando l’azienda viene sequestrata, con clienti che revocano le commesse e con i costi di gestione che aumentano in maniera esponenziale. Ricollocare l’azienda in un circuito legale, infatti, significa spendere tanti soldi, perchè il mafioso sicuramente effettuava pagamenti in nero e, per avere servizi o commesse, usava metodi oltremodo sbrigativi, sicuramente non legali, e aveva la possibilità di fare cose che in una economia legale difficilmente si possono fare. Siamo in attesa dell’attuazione dell’albo degli amministratori giudiziari, nella speranza di avere finalmente persone qualificate professionalmente alle quali poter rivolgersi e di avere delle gestioni non più conservative ma produttive dell’azienda”.

Il decreto del 6 settembre 2011 n.159 ha , anzi aveva previsto l’istituzione di un albo pubblico degli amministratori, con l’individuazione delle competenze gestionali, l’indicazione del numero delle nomine assegnate e delle competenze in denaro incassate, ma questa norma, per quattro anni è stata accantonata, perché toglie di mano al giudice che dispone delle nomine, il notevole potere di agire a proprio arbitrio e consente che certi passaggi oggi secretati , restino solo a conoscenza o siano a disposizione del Presidente dell’Ufficio che dispone le misure di prevenzione  e del suo diretto superiore, il Presidente del tribunale, e non  diventino di pubblico dominio. Qualche corso di formazione per amministratori giudiziari è stato organizzato dall’Afag  a Milano, e un master a Palermo nel 2013, da parte del DEMS, ma tutto è sfumato nel nulla. Solo il 24.1.2014 è stato finalmente scritto il regolamento per la formazione dell’albo, il quale avrebbe dovuto  diventare diventare operativo dopo l’8 febbraio, ma ancora non se ne sa nulla, addirittura qualcuno dell’Antimafia Nazionale lo ha ritenuto inopportuno: questo regolamento se nasce, nasce monco, nel senso che non prevede alcuna norma sulle retribuzioni degli amministratori e non prevede l’indicazione degli incarichi affidati, i quali, per strane ragioni di privacy, rimangono secretati e nelle mani dei magistrati. Si sa che il numero degli amministratori giudiziari nominati dal tribunale è di circa 150, molti dei quali titolari di più incarichi, grazie a chi ne dispone la nomina. Proprio il prefetto Caruso qualche giorno fa ha messo il dito sulla piaga, disponendo la revoca di alcuni “amministratori” intoccabili: "Alcuni hanno ritenuto di poter disporre dei beni confiscati come "privati" su cui costruire i loro vitalizi. Non è normale che i tre quarti del patrimonio confiscati alla criminalità organizzata siano nelle mani di poche persone che li gestiscono spesso con discutibile efficienza e senza rispettare le disposizioni di legge. La rotazione nelle amministrazioni giudiziarie è prevista dalla legge così come la destinazione dei beni dovrebbe avvenire entro 90 giorni o al massimo 180 mentre ci sono patrimoni miliardari, come l'Immobiliare Strasburgo già del costruttore Vincenzo Piazza, con circa 500 beni da gestire, da 15 anni nelle mani dello stesso professionista che, per altro, prendeva al tempo stesso una parcella d'oro (7 milioni di euro) come amministratore giudiziario e 150 mila euro come presidente del consiglio di amministrazione. Vi pare normale che il controllore e il controllato siano la stessa persona?". Tutto ciò ha provocato le rimostranze del re degli amministratori Gaetano Seminara Cappellano, titolare di uno studio con 35 dipendenti,  detto “mister 56 incarichi”, amministratore di 31 aziende, tra cui proprio la Immobiliare di Via Strasburgo, della quale gli è stata revocata la delega. Il nuovo incarico è stato affidato al prof. universitario Andrea Gemma, del quale si è subito diffusa la falsa notizia che lavora nello studio della moglie di Alfano. Nuovi amministratori sono stati nominati al posto di Andrea Dara (Villa Santa Teresa Bagheria, un impero con 350 dipendenti e un fatturato annuo di 50 milioni di euro) e Luigi Turchio, amministratore dei beni di Pietro Lo Sicco: l’incarico per la liquidazione è stato affidato a all'avvocato Mario Bellavista che (come ha lui stesso obiettato) in un passato lontano è stato difensore di fiducia  di Lo Sicco per qualcosa in cui la mafia non c’entrava: per questo motivo, qualche giorno dopo Bellavista si è dimesso. Non devono essere piaciute al PD le dichiarazioni del prefetto Caruso il quale, tramite Rosy Bindi e su sollecitazione di qualche parlamentare siciliano, è stato convocato urgentemente per un’audizione alla Commissione Antimafia, con l’accusa, già frettolosamente evidenziata da Sonia Alfano, di mettere in cattiva luce l’operato dei magistrati che si occupano di Antimafia. Anche L’ANM, la potente associazione dei magistrati, si è schierata contro Caruso sostenendo che, invece di rilasciare dichiarazioni sull’operato dei magistrati delle misure di prevenzione,  avrebbe dovuto rivolgersi ai magistrati stessi, i quali così avrebbero potuto e dovuto giudicare se stessi. In tempi del genere, potrebbe sembrare che parlare del cattivo operato di alcuni magistrati, sia come fare un favore a Berlusconi che sui magistrati ha sempre detto peste e corna. Questo “fare muro” attorno ai magistrati palermitani, anche quelli che hanno gestito i loro uffici e i loro compiti come una personale bottega, con scelte e preferenze opinabili, finisce con l’avallare la cattiva gestione del settore, coperto, come si vede, da protezioni che stanno molto in alto. Qualche illuminato politico ha dichiarato addirittura che “parlare male dei magistrati significa fare un favore alla mafia”.   Caruso si è difeso sostenendo di non avere a disposizione né uomini, né mezzi, né strumenti legali per affrontare con successo l’intero argomento dei beni confiscati: ma tira voce che, se non si dà una regolata, potrebbe anche perdere il posto: “ In tal senso la Commissione Antimafia è stata  a Palermo il 17, 18. 19 febbraio, per godere di qualche giornata di sole e lasciare le cose come stanno rimuovendo quel rompiscatole di Caruso. Ciò che emerge, ha detto la Bindi, è che l’Agenzia ai beni confiscati dovrà subire alcuni interventi”. E, per quanto si può supporre, non si tratterà di interventi migliorativi, ma punitivi. Interessante una lettera che l’avv. Bellavista ha inviato a Rosy Bindi, nella quale sostiene  che “concentrando l’attenzione sulla mia posizione si sia tentato di sviare la Sua attenzione dall’opera meritoria del Prefetto Caruso che sta scoperchiando pentole mai aperte….  Mi meraviglia come Lei, invece di insistere sul nome Bellavista, non abbia chiesto quale magistrato ha autorizzato alcuni Amministratori a ricoprire 60 o 70 incarichi. Quale magistrato abbia autorizzato pagamenti di parcelle per milioni di euro. (Le faccio presente che una legge della Regione Siciliana, limita i compensi per gli amministratori pubblici a 30000 euro lordi per i presidenti dei cda.), se vi siano familiari di magistrati o di amministratori che hanno ricoperto o ricoprono cariche o incarichi all’interno delle amministrazioni giudiziarie. Se qualche amministratore giudiziario si trovi in conflitto di interessi attuale e non di 14 anni fa. Il Prefetto Caruso  la mafia ha combattuto sulla strada e non da una comoda poltrona a migliaia di chilometri di distanza. Onorevole Presidente, credo che molto più del Dott. Caruso, sia certa magistratura a delegittimare se stessa, quando per difendere le proprie posizioni alza un muro e persiste in comportamenti che rischiano di apparire illegittimi. Sono certo che la Sua intelligenza non cadrà nella trappola del depistaggio già usata durante i tempi bui della prima Repubblica della quale Lei è stata una Autorevole Protagonista”. Nessun dubbio su colui cui fa riferimento Bellavista.
In appoggio all’operato di Caruso si è schierata la CGIL, ma anche il sindacato di polizia Siulp, mentre Equitalia, che dovrebbe essere depositaria di un fondo di due miliardi provenienti dai beni di proprietà dei mafiosi, mostra qualche difficoltà a documentare e a restituire quello di cui dovrebbe essere in possesso. Da parte sua il prefetto Caruso ha detto: “Io lavoro da 40 anni con i giudici e nessuno mi può accusare di delegittimarli. Ho solo detto quello che non va nel sistema”.

Proposte. Da quando nel 2011 è stato approvato il Codice Antimafia, diverse sono state le proposte di modifica, in particolare per la parte che riguarda la gestione patrimoniale. Ultima in ordine di tempo, ma sicuramente la più complessa e strutturata, viene da una  Commissione , istituita nel 2013 dal governo Letta, per studiare il problema dell'aggressione ai patrimoni della criminalità organizzata e presieduta dal Segretario Generale della Presidenza del Consiglio Garofoli, che già si era occupato del tema della corruzione. Nel gennaio 2014 la Commissione, con la partecipazione, fra gli altri, dei magistrati Gratteri, Cantone e Rosi, presenta una relazione di 183 pagine in cui si evidenziano le principali criticità in tema di gestione dei beni e si propongono possibili soluzioni e innovazioni legislative, dall'ampliamento del ruolo e della dotazione di uomini e mezzi dell'Agenzia, all'affiancamento di figure manageriali per la gestione delle aziende, dall'anticipo della verifica dei crediti alla regolamentazione degli amministratori giudiziari. Particolare attenzione nella relazione Garofoli trovano le proposte della CGIL, che si è fatta promotrice di una legge di iniziativa popolare, ribattezzata "Io riattivo il lavoro", sostenuta a loro volta da Libera, ARCI e Avviso Pubblico. Al centro delle modifiche portate avanti dal sindacato ci sono proprio le aziende ed in particolare la tutela dei lavoratori e dei livelli di occupazione. "Due i punti di forza imprescindibili" dice Luciano Silvestri, responsabile Sviluppo e Legalità CGIL "il primo è la creazione dei tavoli di coordinamento presso le prefetture, che dovrebbero coinvolgere parti sociali, istituzioni e società civile nel monitoraggio e nella gestione delle aziende fin dalla fase del sequestro; il secondo è il fondo di rotazione, da finanziare con i soldi (tanti) del Fondo Unico Giustizia e con cui finanziare la fase di "legalizzazione" delle aziende poste in amministrazione statale. Dopo aver raccolto migliaia di firme, la proposta del sindacato è giunta in Commissione Giustizia alla Camera con relatore Davide Mattiello, deputato PD con un lungo trascorso di militanza antimafia. Chissà se e come i due percorsi riusciranno ad incontrarsi!. Il governo, tra i suoi tanti annunci di principio,  ha comunicato che trasformerà in decreti legge molti dei suggerimenti della Commissione Garofoli e che lo farà in tempi brevi. Nel dibattito si inserisce anche Confindustria, in particolare la sezione siciliana, che sta mettendo mano ad alcune autonome proposte, stranamente assonanti con quelle dell'on. Lumia. Per ora nulla è troppo chiaro perché, dicono i responsabili: "Ci stiamo lavorando", ma da uno studio elaborato nel 2012 dall'Università di Palermo e da alcune dichiarazioni più recenti dei rappresentanti degli imprenditori, oltre che di alcuni magistrati applicati alle misure di prevenzione di Palermo e Caltanissetta, a loro notoriamente vicini, si deduce che le aree di principale interesse saranno tre: l'inserimento di figure manageriali all'interno delle procure, la riduzione del ruolo dell'Agenzia per i beni confiscati alla sola fase della confisca definitiva e la verifica dei crediti: c'è chi spinge per anticiparla ad inizio sequestro e chi invece vorrebbe procrastinarla addirittura alla confisca definitiva, complicando ulteriormente la vita a chi onestamente vanta crediti nei confronti di aziende sotto sequestro e che in conseguenza di amplissimi buchi creati da queste fatture non pagate rischia il fallimento. A prima vista sembra si tratti del tentativo, degli industriali siciliani, di mettere le mani su quel che resta dell’economia siciliana per operare l’ennesima rapina: non si vuole dire no al tribunale nel privarlo della nomina del suo amministratore e si istituisce un’altra figura con un altro stipendio: nessuna attenzione e nessuna garanzia è prevista per i posti di lavoro dell’azienda. Fra l’altro, da quando Ivan Lo Bello, già presidente di Confindustria Sicilia ha proposto l’espulsione degli imprenditori che pagano il pizzo, tutti gli industriali siciliani fanno professione di antimafia e trovano magari qualcuno da denunciare come estorsore, tanto per farsi una verginità e lavorare, oltre che col consenso di Cosa Nostra, anche con la protezione dello stato. Non è detto  che l’asino uscito dalla porta non rientri dalla finestra, nel senso che non si trovino all’interno delle Associazioni o degli enti destinatari quelle presenze mafiose di cui ci si voleva liberare. Un problema centrale è comunque quello di garantire il posto di lavoro e tutelare i dipendenti che, quasi sempre, si ritrovano nella rovina economica. Alla Commissione Antimafia la redazione di Telejato, dopo avere sentito diverse associazioni antimafia, ha avanzato le seguenti proposte:

-Consentire l’immediato pagamento dei creditori dell’azienda sin dal momento della confisca, per evitare di causare il fallimento di aziende fornitrici legate all’indotto su cui l’azienda confiscata opera;

- Legare il momento della confisca a quello dell’iter giudiziario, nel senso che non  si può procedere alla confisca di un bene se non è dimostrata, almeno nel primo grado di giudizio, la sua provenienza mafiosa;

- Non consentire più di un incarico agli amministratori giudiziari;

- Svincolare l’arbitrio della nomina dalle competenze nelle mani di un solo magistrato e allargarne la facoltà a tutti i magistrati del pool antimafia;

- Individuare e colpire l’eventuale responsabilità penale dell’amministratore giudiziario obbligandolo a presentare annualmente i bilanci, revocandogli l’incarico nel caso di gestione passiva non motivata adeguatamente e obbligandolo a risarcire i danni nel caso di amministrazione fraudolenta;

- Risarcimento, da parte dello stato, dei danni provocati da cattiva amministrazione giudiziaria, nel caso di totale proscioglimento delle accuse e non reiterazione del provvedimento di confisca, come si è recentemente verificato;

- immediata esecuzione, che non vada oltre un mese,  del provvedimento giudiziario di conferma o dissequestro della confisca. I casi scandalosi di rinvii, spesso di vari mesi, se non di anni, causati da  ritardi, da momentanei malesseri e  da altre scuse prodotte dal magistrato incaricato delle misure di prevenzione non possono essere giustificabili, anche perché l’azienda sotto confisca corre il rischio di perdere il suo giro di affari o di essere messa in liquidazione da amministratori giudiziari che girano attrezzature e macchinari, svenduti a prezzi irrisori ad altre aziende sotto il loro controllo;

-Possibilità di revoca, su eventuale richiesta motivata, dell’incarico di amministratore giudiziario da parte di un magistrato inquirente diverso da quello che ne ha fatto la nomina e che è solitamente il giudice addetto alle misure di prevenzione.

Come si può notare, la richiesta più importante è quella di  distribuire l’immenso potere di cui dispone il singolo magistrato addetto alle misure di prevenzione, nell’amministrazione di un impero di 40 miliardi di euro, utilizzando le competenze anche di altri magistrati, al fine di non strozzare ulteriormente, sino ad arrivare al collasso, la debole economia siciliana, nella quale, il settore dei beni confiscati, salvo pochissimi casi, ha accumulato fallimenti, gestioni poco trasparenti e disperazione da parte di lavoratori trovatisi sul lastrico.  L’affidamento della gestione dei beni  ai rampolli di una Confindustria apparentemente verniciata di antimafia, non è la soluzione del problema, ma sarebbe necessario, come già in qualche altra regione, organizzare  corsi di formazione fatti da gente qualificata e che non siano occasione, come al solito, di distribuire il finanziamento del corso ai soliti “amici” e rilasciare l’attestato a tutti, senza accertare l’acquisizione di competenze.

La “Latticini Provenzano”. Si tratta di un caseificio con  sede a Giardinello, un paese di circa mille abitanti, recentemente assurto alle cronache per la cattura di Sandro e Salvatore Lo Piccolo. Ali inizi del 2000 , grazie ai fondi europei previsti dai Patti territoriali, l’azienda venne ristrutturata e adeguata  alle norme, diventando un moderno caseificio dove lavoravano una trentina di famiglie, assieme a un indotto di pastori e vaccari che fornivano il latte. Il rimborso di questi fondi avviene  dopo che il proprietario li ha anticipati ed è in grado di documentare i lavori eseguiti. La lentezza di questi rimborsi crea notevoli difficoltà economiche al titolare del caseificio, il quale si rivolge a Giuseppe Grigoli, un imprenditore di Castelvetrano, non ancora indagato, ma già conosciuto come il re dei supermercati Despar, e che si scoprirà come prestanome di Matteo Messina Denaro.  Grigoli chiede un aumento  del capitale, chiede di assumere il controllo del 51% dell’azienda per accedere a un megamutuo del Monte dei Paschi di Siena, mutuo che viene bloccato quando Grigoli è arrestato, nel 2006. In questo momento l’azienda conta su 52 dipendenti, di cui 13 vengono licenziati. In un ultimo disperato tentativo Provenzano offre la sua quota allo stato, detentore della parte confiscata,  per ottenere il prestito, ma ci perde anche quella.  Il caseificio, che, in questa vicenda con la mafia c’entrava solo di striscio, come poi confermato dagli sviluppi giudiziari,  viene confiscato e affidato a un curatore giudiziario di nome Ribolla, il quale, nella sua somma incompetenza, nel 2012 lo porta al fallimento con una situazione debitoria di 28 milioni di euro.  E’ un chiaro esempio di come un’industria di eccellenza può essere condotta sul lastrico e di come i restanti 39 operai, che, pur di mandare avanti l’azienda, sino al gennaio 2012 hanno lavorato senza  stipendio, rimangono disoccupati. Con Grigoli contava 52 dipendenti. Nel 2006, con il sequestro, 13 dipendenti vengono licenziati. La chiusura, lo scorso maggio, lascia fuori i restanti 39.  Al momento della chiusura la sua esposizione debitoria era di 28 milioni di euro.   

Il porto di Palermo. La vicenda riguarda 350 lavoratori facenti parte della “Newport”, società che gestisce i lavori portuali. Nel 2010 la DIA inoltra un’informativa al prefetto di Palermo, nella quale sostiene che tra questi lavoratori ci sono quattro mafiosi e 20 parenti di mafiosi, in gran parte facenti parte del clan di Buccafusca, capomafia di Porta Nuova. Si dispone il sequestro preventivo e viene nominato come amministratore giudiziario il titolare dello studio legale “Seminara-Cappellano”, il quale dispone la sospensione cautelare per 24 lavoratori, i quali, sino al giugno 2013, data in cui interviene la dott.ssa Saguto, cioè la responsabile della nomina di Seminara,  sono pagati senza far niente. La vicenda è molto più ingarbugliata di quanto non appaia, in quanto gli operai sono titolari di una quota societaria, ma il dissequestro sarà possibile quando potranno dimostrare di essere esenti da infiltrazioni mafiose. Cioè non si sa quando. Presidente dell’Autorità portuale è stato un uomo dell’on. Lumia, tal Nino Bevilacqua, che attualmente è stato sostituito da un uomo di Schifani, tal Cannatella.

La MEDI-TOUR. E’ un caso più complesso. Si tratta di una cava di pietrisco, in territorio di Montelepre, già di proprietà di Giacomo Impastato, detto “u Sinnacheddu”, fratello di Luigi, il padre di Peppino Impastato. Da lui è passata al figlio Luigi, ucciso a Cinisi il 23 settembre 1981, nel corso della guerra tra i seguaci di Badalamenti e i Corleonesi. La gestione effettiva della cava è stata portata avanti dall’altro figlio Andrea, al quale il 22 febbraio 2008 vengono confiscati beni per 150 milioni di euro riconducibili a Bernardo Provenzano e a Salvatore Lo Piccolo, dei quali Andrea è un prestanome, grazie agli intrallazzi del suo compaesano Pino Lipari, vero ministro dei lavori pubblici di Provenzano, la cui moglie Marianna Impastato ha qualche vincolo di parentela con Andrea. Il provvedimento prevede,  innumerevoli immobili e appezzamenti di terreno da Carini a San Vito Lo Capo, il Mercatone Uno di Carini, anche il sequestro di cinque aziende, tutte del mondo dell’edilizia, la più grossa delle quali è la Medi.tour, che si occupa della gestione della cava di Montelepre. Amministratore giudiziario di tutto viene nominato uno dei pupilli della dott.ssa Saguto, la regina della sezione “misure di prevenzione”, un commercialista di nome Benanti, titolare di uno studio a Palermo e, per quel che se ne sa, in ottimi rapporti con un altro curatore giudiziario molto a cuore alla Procura di Trapani, un certo Sanfilippo. Benanti ha avuto occasione di dimostrare di avere buone conoscenze quando, ottenuta l’amministrazione dei beni di un altro costruttore, Francesco Sbeglia, di Palermo, nel 2010, al Centro Excelsior (Hotel Astoria) mandò, a un incontro con alcuni imprenditori che volevano collaborare alla gestione dei beni, lo stesso Sbeglia. In tal caso, grazie alla protesta dei tre imprenditori, gli venne revocato l’incarico, ma solo quello, in quanto non gli venne meno la fiducia della dott.ssa Saguto. Pare che gli siano affidati una ventina di incarichi, si dice che abbia dilapidato  una cifra altissima degli introiti del supermercato Mercatone, ma il suo nome non è venuto fuori nemmeno nelle polemiche seguite alle dichiarazioni del prefetto Caruso. Torniamo alla Medi.tour.  Andrea Impastato , del quale si vocifera, senza conferme, di una diretta collaborazione con la giustizia,tant’è che nell’ultimo recente processo gli è stata dimezzata la pena,  ha quattro figli, due dei quali, Luigi e Giacomo,  dipendenti della cava. Nel 2011, su decisione del tribunale vengono licenziati, ma i due fratelli non si perdono d’animo e creano una nuova società, la Icocem, con sede a Carini, riconquistando, a poco a poco, buona parte del mercato che si riforniva nella loro ex cava. Riescono anche a “rifarsi” una verginità denunciando al magistrato diversi tentativi di richiesta del pizzo e iniziando una fitta collaborazione. Da parte sua Benanti, che si presenta una volta ogni tanto alla cava di cui è amministratore, con il macchinone e in dolce compagnia, in una sua relazione accusa gli Impastato, diventati suoi diretti concorrenti,  di  associazione mafiosa.  Con strana sollecitudine il tribunale  dispone  il sequestro della Icocem, la dott.ssa Saguto ne affida l’amministrazione, indovinate un po’, al solito Benanti, il quale mette in liquidazione la società che è chiamato ad amministrare e che  si trova a soli cento metri dalla cava. Nel frattempo vengono licenziati i 20 operai che lavorano nella cava, e alcuni sono assunti “ a tempo”, secondo le richieste di materiale: qualcuno di essi è disposto a dichiarare che Benanti avrebbe disposto l’interramento di rifiuti tossici all’interno della cava, facendo poi riempire il tutto con terra e piantumare con stelle di natale: al giardiniere sarebbero stati pagati 18.000 euro. Gli Impastato presentano ricorso, con una loro relazione, nella quale è dimostrata la tracciabilità e la regolarità di tutte le operazioni che hanno condotto alla creazione della loro società, ma l’udienza, che avrebbe dovuto svolgersi ad  ottobre, per indisposizione, di chi, indovinate un po’, della dott.ssa Saguto, è rinviata al 6 febbraio 2013, dopodichè c’è stato un ulteriore rinvio a maggio Quello che più stupisce è la presenza, all’interno della cava, di Benny Valenza, pluripregiudicato e mafioso di Borgetto, da sempre occupatosi di forniture di calcestruzzo, con un pizzo da 2 euro a metro quadrato, da distribuire agli altri mafiosi della zona: gli sono stati sequestrati alcuni beni, è stato condannato per aver fornito cemento depotenziato per la costruzione del porto di Balestrate e per altri reati affini, ma, tornato a piede libero, ha ripreso la sua abituale attività: da qualche tempo agisce come dipendente di un’impresa di legname, allargatasi ultimamente nel campo dell’edilizia, della quale è titolare un certo Simone Cucinella: la ditta il 24.1 ha preso misteriosamente fuoco.  L’intraprendente Valenza  ha installato, naturalmente attraverso meccanismi apparentemente legali, un deposito di materiali da costruzione in un posto collocato tra la cava e il deposito adesso chiuso degli Impastato: non si sa se la collaborazione con Benanti, all’interno della cava, si estenda anche a questa nuova struttura.

La COMEST e l’affare del metano. Quella dei fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno è una storia allucinante. Sono cinque fratelli che, negli anni ‘90 cominciano a lavorare per alcune  aziende legate al nascente affare della metanizzazione in Sicilia. C’è in ballo un fiume di miliardi in arrivo, si parla di 400 miliardi delle vecchie lire, specialmente da parte della Comunità Europea, che li affida alla Regione. Decidono di mettersi in proprio, ognuno con una propria azienda relativa a uno specifico settore. E’ tutto in ordine, partecipano ai bandi della Regione, hanno i requisiti richiesti, cominciano ad aggiudicarsi numerosi appalti e concessioni per  metanizzare molti comuni,con il sistema del project financing, ovvero offrono ai comuni la costruzione degli impianti di metano, con fondi propri ,con la clausola del possesso di una gestione trentennale, per poi lasciare tutto all’Ente Committente, cioè ai comuni stessi.  Sul mercato c’è già  l’Azienda Gas spa, nata per iniziativa di un impiegato regionale, di nome Brancato, il quale , decide di potenziare la società, e chiede i soldi a Vito Ciancimino, allora all’apice della carriera politica.  Ciancimino si serve di un suo commercialista, Lapis, legato ai più discussi politici siciliani, da Cintola a Vizzini: viene stipulato, alla presenza, a Mezzoiuso, dell’allora Presidente della Commissione Antimafia Lumia, un protocollo di legalità  che apre le porte alla Gas spa e al terzetto  Ciancimino-Lapis-Brancato, perchè con questo patto di legalità vengono assegnati ai mafiosi  direttamente gli appalti  senza alcuna celebrazione di gara: unico ostacolo la Comest che già ha ottenuto numerose concessioni in numerosi comuni Siciliani,  e le altre aziende dei fratelli Cavallotti, ma si fa presto a metterli fuori gioco. Belmonte è la patria di Benedetto Spera, uno dei più temuti mafiosi legati a Bernardo Provenzano: attraverso il collaboratore di giustizia Ilardo, infiltrato appositamente, viene trovato un “pizzino” nel quale, con riferimento a un appalto ottenuto ad Agira,  è scritto: “Cavallotti due milioni”. Ci vuol poco a incriminare i Cavallotti, che, come tanti, pagavano il pizzo, con l’accusa di associazione mafiosa e di turbativa d’asta, e a  disporre il sequestro di tutti i loro beni. Siamo nel 1998, allorchè Vito Cavallotti viene arrestato per reati legati al 416 bis, da cui, nel 2001 viene assolto e scarcerato “perché i fatti non sussistono”. Dopo di che nel 2002 la Corte d’Appello  ribalta la sentenza con una condanna e, dopo una serie di vicende processuali, nel 2011 Vito Cavallotti è assolto definitivamente e prosciolto da ogni accusa: di conseguenza i fratelli non sono ritenuti vicini ad esponenti mafiosi di alcun tipo. Qualche mese dopo, nei confronti dei tre fratelli scattano altre misure di prevenzione personale e patrimoniale, sino ad arrivare al 22.10.2013, allorchè il PG Cristofaro Florestano propone il dissequestro dei beni e la sospensione delle misure di prevenzione , motivando, dopo un attenta lettura della documentazione processuale che i tre fratelli  sono stati vittime della mafia, e adducendo, a conferma dell’assoluzione perchè il fatto non sussiste nel procedimento penale, anche le numerose denunce degli attentanti subiti nei cantieri e ai mezzi, nel corso dell’ attività imprenditoriale:  ad oggi le motivazioni della sentenza non sono state ancora depositate. All’atto della prima denuncia viene nominato come amministratore giudiziario, da parte del Tribunale di Palermo, un  Andrea Modìca de Moach, il quale già dispone di altre nomine da parte del tribunale , oltre che essere il terminale di altre aziende, tipo la TO-SA, di cui si serve per complesse partite di giro, sino ad arrivare all’Enel gas. Si tratta di un personaggio legato ad altri fratelli, uno dei quali titolare a Palermo, di uno studio di commercialista, un altro magistrato a Roma e un altro alto dirigente del ministero di Giustizia. L’ammontare dei beni confiscati è di circa 30 milioni di euro , ma ben più alto è il valore di quello che i Cavallotti avrebbero potuto incassare nei lavori di metanizzazione dei comuni. L’azienda non è stata ancora dissequestrata, malgrado siano passati  quasi tre anni, anzi, nel  dicembre 2013 estrema beffa, viene disposto un nuovo sequestro ad un’azienda creata dai figli, nel tentativo di risollevare la testa, la Euroimpianti plus, e l’amministrazione giudiziaria, revocata al Modìca, viene affidata a un avvocato, un certo Aiello, che si rifiuta di far lavorare in qualsiasi modo, i figli titolari, la cui sola colpa è di essere figli di persone che sono state  indagate, condannate e poi prosciolti dall’accusa di  associazione mafiosa. Gli ultimi sequestri riguardano  un complesso di aziende edili, e pure una parafarmacia già chiusa dal 2013: l’accusa è quella della riconducibilità delle aziende ai fratelli Cavallotti, come al solito, accusati di essere vicini ai mafiosi Benedetto Spera e Bernardo Provenzano, malgrado la definitiva assoluzione dalle accuse e la scomparsa, da tempo, dalla scena,  dei mafiosi citati. La prima seduta svoltasi il 30.1.2014 è stata rinviata nientemeno che al 22.5 per “ ritardo di notifica”. Tutto ciò malgrado la proclamata innocenza dei Cavallotti.  Per non parlare della rovina nella quale si sono trovate circa 300 famiglie che ruotavano attorno alle aziende. Rimane ancora senza risposta la domanda di questa gente: perché questo accanimento? E il motivo è forse da ricercare nell’ingente somma che il tribunale dovrebbe pagare per risarcire queste imprese che sono state smantellate da amministratori giudiziari voraci e spregiudicati e che lascia ampio spazio al sospetto che le confische, in attesa della sentenza d’appello della  Cassazione, diverranno definitive e tutto sarà cancellato con un colpo di penna.

E il caso di aggiungere a questa storia alcuni particolari:

Nel 1998 al  gruppo Cavallotti sono confiscate le aziende

- Comest  spa  (valore 50 milioni),

- Icotel  spa (valore 10 milioni), Imet srl (valore 10 milioni),

- Cei srl  (valore 2 milioni),

- Coip srl (valore 10 milioni:

nel 2012 di tutto ciò rimane solo un valore di 20 milioni per la Comest, mentre è o diventa  zero il valore delle altre aziende, anche di quelle ad esse collegate, come la Calcestruzzi Santa Rita, che aveva un valore di partenza di 5 miloni di euro e i gruppi Edil Forestale e D’Arrigo, che, per alcuni aspetti, sono soci in affari con il Modìca.
Il Modìca già nel 2009 è stato denunciato per truffa alla Guardia di Finanza di Palermo, ma della denuncia non s’è saputo più nulla. Intorno a lui e a suo fratello ruotano:

- la Advisor Services  For Bisness  srl, che agisce in stretto contatto con la Mac Consulting srl, di cui è legale rappresentante tal Fabio Uccello,

- la Lamb & Souce Real Estate srl, la Integre Sicilia, azienda oggi in liquidazione,  di cui sono soci la Advisor Service, Kodaleva Sonia, , moglie di Emanuele Migliore, socio di Modìca e Di Fiore Giuseppe, avvocato di fiducia di Modica.

- la CS immobiliare srl., del fratello Marco,

- la Immobiliare Il Borghetto srl.,

- la Gam Immobiliare, che fa da tramite per complesse partite di giro,con le aziende confiscate dei D’Arrigo di Borgetto e della Edil Forestale,

- la Servizi e Progetti srl, il cui legale rappresentante è Roberta Ponte, moglie di Andrea Modica,

- la Cogetec srl, azienda costituita per gestire i subappalti del gruppo Cavallotti, di cui risulta amministratore unico un certo Vincenzo Parisi.

Strettamente collegate alla Comest e alle aziende del Modìca  le vicende della TOSA costruzioni srl, azienda confiscata che acquista per due milioni di euro il ramo aziendale della Comest, mediante un rilevamento virtuale di debiti creati tramite fatture e parcelle: la Tosa vende i suoi debiti o i suoi presunti crediti alla Italgas per 22 milioni di euro ottenendo 5 posti di lavoro per compiacenti  amici del Modìca pronti a prestarsi alle sue manovre speculative. Dalla TOSA, sotto forma di anticipo escono i fondi per alcuni lavori, anche personali, effettuati a Baida, a Cinisi, a Marsala. Oggi la TOSA è stata restituita al demanio dello stato come una scatola vuota, senza una lira e senza che nessuno abbia pagato per la sua  dissoluzione. Di tutto l’impero della Comest è invece rimasto un giro di 700 mila euro di utile grazie alla gestione del metano nei comuni di Monreale, Altavilla Milicia, Santa Cristina Gela e Piana degli Albanesi. Nel 2012 il prefetto Caruso ha revocato a Modìca gli incarichi.

La AEDILIA VENUSTA. (ovvero, come l’Acqua santa può diventare acqua diabolica).  A Palermo, in via Comandante Simone Gulì n.43 presso la borgata Acquasanta si trova, anzi c’era una villa palermitana del 1700, ma dove si potevano notare  visibili tracce di una sua preesistenza  risalente  al 1.500, o addirittura al medioevo: qualche storico ha parlato addirittura  di reperti di origine etrusca. La villa si affacciava sul porticciolo e aveva tutte le finestre con vista sul mare. L’originaria proprietà fu della nobile famiglia dei Gravina, di origine normanna. Gli esponenti del  ramo siciliano dei Gravina, che presero il nome da quello di un feudo pugliese da cui provenivano, parteciparono alla prima crociata, ebbero diritto di essere seppelliti nel pantheon reale, furono Grandi di Spagna, possedevano 9 principati, 5 ducati, 7 marchesati, 3 contee ed oltre 24 baronie. Dentro  l’attuale edificio scorreva una sorgente di acqua minerale, sulfurea e purgativa, contenente sali alcalini, quali solfato di calcio e magnesio, e cloruro di calcio, sodio e magnesio, considerata miracolosa per i suoi benefici. Di lì il nome di “Acqua santa” dato a tutta la borgata . Attualmente l’acqua è stata incanalata in condutture che sfociano a mare. Da una ricerca pubblicata da Claudio Perna e curata dall’Associazione culturale “I Luoghi della Sorgente” apprendiamo che “la sorgente acquifera era situata in una grotta, un piccolo ambiente ipogeico, che un tempo fu santuario pagano, poi piccola cappella conosciuta come Palermo a S. Margherita di fora, dedicata a Santa Margherita, protettrice dai mostri marini, e infine intitolata alla Madonna della Grazie, come attesta il Mongitore che riferisce di un affresco raffigurante la Vergine, risalente al tempo dei Saraceni e rinvenuto nel 1022. Nel 1774 la grotta e i terreni furono concessi al Barone Mariano Lanterna, che acquistò dai benedettini del Monastero di S. Martino delle Scale il terreno circostante la grotta dell’Acquasanta e vi costruì una  tipica casina settecentesca di modeste dimensioni con un semplice impianto su due elevazioni: alcune sale interne mantengono gradevoli decorazioni a fresco tardo-settecentesche. Apprendiamo dalla stessa fonte che nel 1871 i fratelli sacerdoti Pandolfo acquistarono la villa e  fecero uno stabilimento per bagni e cure idroterapiche, che sfruttava le proprietà terapeutiche della sorgente di acqua minerale poco distante per la cura di malattie metaboliche. Nello  stabilimento  si potevano fare dei bagni  alla temperatura naturale dell’acqua di 18°-19° , ma grazie al processo di riscaldamento  anche i bagni caldi, a 25°-36°, e caldissimi fino a 42°. Successivamente i due sacerdoti decisero di commercializzare l’acqua che poteva anche essere bevuta, con 50 cent alla bottiglia. C’era anche la possibilità di fare delle docce che esercitavano la loro azione meccanica su un punto preciso del corpo con getti  d’acqua ascendenti, dal basso verso l’alto, discendenti, dal basso verso l’alto, e laterali in orizzontale. Lo stabilimento aveva in un edificio camerini da bagno distinti in familiari e singolari e nell’altro la macchina a vapore per il riscaldamento dell’acqua, le sale da soggiorno e da pranzo e gli ambienti di servizio. Tale istituto, accresciutosi nel 1892, fu attivo però per poche decine di anni. La struttura dei Bagni Minerali situati nella grotta e nei locali di Villa Lanterna era costituita da due edifici su tre piani collegati da una terrazza, tuttora è ancora visibile l’iscrizione “Fratelli Sacerdoti Pandolfo”, sormontata da un timpano con acroterio. Gli ambienti interni rispettavano l’originaria suddivisione e sul fianco sinistro del prospetto si trovava l’ingresso al mare preceduto da due piloncini, trasformato in abitazione. Le analisi dell’acqua hanno riscontrato proprietà analoghe a quelle della fonte Tamerici di Montecatini Terme. La fonte aveva una portata di 15 litri al secondo e consentiva di effettuare mille bagni al giorno, con continuo ricambio delle acque. Nel 1993 venne effettuato un sopralluogo dai vigili urbani e dalla sovrintendenza e si accertò che la sorgente era ancora utilizzabile e avrebbe potuto essere ripristinata, ma non se ne fece niente: la preziosa acqua, attraverso cunicoli sotterranei, oggi finisce a mare. Tutto questo complesso,  comprende le Terme, anch’esse adibite ad appartamenti, la grotta adiacente all’ex chiesetta, un piano terra di 70 mq, in vendita a 100 mila euro, un piazzale e altre tre più recenti costruzioni adibite ad abitazioni o uffici, di circa 250 mq. L’immobile, suddiviso in cinque unità è stato venduto a tre architetti e a una signora romana. Uno degli  architetti è Vincenzo Rizzacasa, già preside di un istituto d’arte di Santo Stefano di Camastra, che nel 2005 ha deciso di dar vita a un’impresa di costruzioni, la “Aedilia Venusta”, intestata al figlio Gianlorenzo, specializzata in ristrutturazioni, munita di certificato antimafia  e iscritta ad Addio Pizzo, fino a quando non si scopre che al suo interno lavoravano i mafiosi Francesco e Salvatore Sbeglia, legati al campo delle costruzioni e già oggetto di misure di prevenzione, di sequestri e di procedimenti giudiziari. Secondo i giudici gli Sbeglia sarebbero stati soci occulti di Rizzacasa e, attraverso la sua ditta, sarebbero tornati in attività, con metodi e sistemi di illecita concorrenza. Rizzacasa è legato al vicepresidente della Confindustria  Ettore Artioli, titolare di un’azienda, la Venti, che ha commissionato a Rizzacasa la ristrutturazione della Manifattura Tabacchi di Palermo. Nei progetti della Aedilia Venustas c’era anche la trasformazione dell’area della villa del Barone Lanterna in un residence di lusso con 15 appartamenti e due studi professionali, il tutto con regolare concessione, rilasciata nel 2009  e con tanto di visto da parte della Sovrintendenza ai Beni Culturali, che, per contro, avrebbe dovuto tutelare la conservazione di monumenti storici di questo tipo, cosa che in Sicilia scatta solo in certe circostanze.  Scattano le misure di prevenzione per Rizzacasa, al quale vengono sequestrati le imprese edili Aedilia Venustas, l’Immobiliare Sant’Anna, Verde Badia, un insieme di 33 immobili in via badia, una decina di appartamenti, la villa Barone Lanterna, sei magazzini e sette automezzi. Artioli si autosospende dalla Confindustria, ma continua la sua carriera manageriale, al punto che nel 2012 viene nominato, dal sindaco Leoluca Orlando, presidente dell’Amat. Per Rizzacasa, espulso da Confindustria,  inizia un iter giudiziario, una condanna in primo grado per favoreggiamento semplice, cioè senza l’aggravante dell’associazione mafiosa . In appello Rizzacasa è assolto e l’assoluzione è confermata, in via definitiva, nel febbraio 2014, in Cassazione. Assolti anche  i suoi consociati Lena e Salvatore Sbeglia. Rizzacasa ha rinunciato alla prescrizione per avere una sentenza di piena assoluzione. Per una di quelle anomalie tipiche della legge italiana e in particolare, di quella sui beni sequestrati alla mafia, il patrimonio immobiliare di Rizzacasa, per decisione del giudice delle misure di prevenzione, per il quale è sufficiente il “libero convincimento” che l’assoluzione non basta, rimane congelato sotto sequestro, malgrado l’ordine di dissequestro dell’azione penale. Ma siamo arrivati al punto: dopo le denunce del prefetto Caruso, è ormai noto che il giudice delle misure di prevenzione del tribunale di Palermo  ha un rapporto privilegiato con lo studio legale di Cappellano Seminara, al quale ha già affidato una cinquantina di beni confiscati alla mafia. Cappellano, diventato amministratore giudiziario della Aedilia Venustas,  continua l’attività di smembramento della villa del barone Lanterna con la costruzione degli appartamenti in progetto: per risarcirsi del suo  “estenuante” lavoro, da lui stesso stimato in circa 800 mila euro, si impadronisce di due appartamenti: probabilmente ne disporrà la vendita per incassare il compenso. Da una visura notarile storica si rileva che “gli immobili citati vengono venduti a 250 euro al mq. per quanto riguarda la villa antica e le terme, quelli più moderni a 200 euro mq.” Se è vera questa notizia ci vuol poco a dedurre che, fissando un prezzo così basso, Cappellano Seminara può mettere le mani su tutto il complesso edilizio e impadronirsene. Da una nota della Camera di Commercio si deduce che “il fatturato di Aedilia Venustas s.r.l. stimato, nel 2011, tra i 300 e i 600 mila euro, durante il 2011 è diminuito, nello stesso anno,  del -1263% rispetto al 2009 e che il risultato netto ottenuto durante il 2011, dopo gli oneri finanziari, le tasse e gli ammortamenti è diminuito del -609,64% rispetto al 2009”. Il tutto grazie all’oculata amministrazione di Cappellano Seminara e a chi lo ha messo in quel posto.

La 6GDO e l’impero Despar. Quella di Giuseppe Grigoli sembra una storia comune, iniziata con l’apertura, negli anni 80 di una piccola attività di vendita di detersivi all’ingrosso e poi diventata, tra  gli anni ’80 e ’90  una grande  realtà economica, in grado di fatturare 600 milioni di euro l’anno, attraverso l’apertura di una serie di centri commerciali, da Trapani ad Agrigento, a Palermo, con il marchio Despar, in grado di gestire il 10% di tutto il fatturato Despar. La realtà più grossa è “Belicittà”, ovvero il più grande centro commerciale del trapanese, a Castelvetrano. Grigoli crea il gruppo 6GDO , una ditta che distrisce prodotti alimentari a vari supermercati. Si è detto e si è scritto che dietro questo impero finanziario ci sono i soldi  di Matteo Messina Denaro, ovvero c’è il riciclaggio di milioni di euro di oscura o illecita provenienza: si è anche parlato, ma senza particolari riscontri processuali, di  una gestione spesso intimidatoria nell’imporre, con sistemi mafiosi, particolari condizioni ai fornitori di merce. Il nome di Grigoli viene trovato nelle lettere di Matteo Messina Denaro nel covo di Bernardo Provenzano, l'11 aprile 2006.  Grigoli voleva aprire un Despar a Ribera, un paese sotto l’ala protettiva del boss locale Capizzi che, addirittura, gli aveva chiesto il pizzo: pare che Capizzi, in un primo tempo fosse stato assunto nel supermercato, ma che avesse contratto con Grigoli un debito di 297,28  mila euro, che si rifiutava di pagare. Così Messina Denaro si era, per iscritto, rivolto a Bernardo Provenzano chiedendogli di intervenire a favore del “suo paesano". Provenzano si era rivolto al boss di Agrigento Giuseppe Falsone che avrebbe dovuto mettere pace tra i due. E’ caratteristico il tono dei pizzini di Messina Denaro: "Capizzi prima restituisca i soldi che si è preso e dopo gli amici di Ag mi dicono cosa vogliono dal mio paesano ed io sono disponibile a sistemare il tutto. E' ormai una questione di principio. Io ho fatto della correttezza la mia filosofia di vita".  E, nell’ultima lettera, : "Solo se Cpz comincia a pagare  il mio paesano paga 10 mila euro per ogni sito che ha ad Ag per ogni anno. In questo caso, dato che paga, non darà posti di lavoro. La mia seconda proposta: se il mio paesano non paga niente per come vuole il 28 (è il codice di Falsone - ndr) per rispetto a me, ed io lo ringrazio e gli sono grato per ciò e dica al 28 che io non dimenticherò mai questa gentilezza, allora se il mio paesano non paga, darà due posti come impiegati per ogni sito, impiegherà 2 persone che interessano ad Ag". Nel 2006 Grigoli è arrestato, processato e  condannato a 12 anni di carcere per associazione mafiosa: al processo vengono fuori  i nomi di capi mafia, a parte quello dell’imputato latitante Messina Denaro, di suo padre, «don Ciccio», di Bernardo Provenzano, di Filippo Guattadauro, il cognato del capo mafia di Brancaccio, il medico Giuseppe Guttadauro,  i nomi di politici, come quello dell’ex presidente della Regione Totò Cuffaro, che chiede a Grigoli di vendere nei suoi supermercati alcuni vini prodotti da suoi “amici”,  o quello dell’ex deputato regionale  cuffariano, Francesco Regina, andato da Grigoli a chiedere voti. A Grigoli si rivolge persino, per la vendita di ricotta il boss Vito Mazzara, l’uomo che avrebbe ucciso Mauro Rostagno e che attualmente sconta l’ergastolo. La confisca riguarda 12 società cominciando dalla capofila, il Gruppo 6GDO, punto di eccellenza un maxi centro commerciale, il Belicittà di Castelvetrano, e poi ancora 220 fabbricati tra palazzine e ville, 133 appezzamenti di terreni, uliveti e vigneti per un totale di 60 ettari. Tutte aree di campagna ricadenti in quell’area del Belice, da Zangara a contrada Seggio, dove i boss mafiosi siciliani a cominciare da Totò Riina, per continuare con Bernardo Provenzano e i Messina Denaro, avevano fatto incetta di terreni con l’idea che in quei luoghi doveva sorgere negli anni ’90 la “Castelvetrano 2”, un maxi complesso immobiliare che avrebbe dovuto ricalcare la più famosa “Milano 2” di marca berlusconiana. Il tutto viene affidato a un amministratore giudiziario, Nicola Ribolla. I suoi sette anni di amministrazione sono serviti a smantellare interamente un impero economico e a ridurre sul lastrico, senza lavoro, le 500 famiglie che vivevano all’interno delle attività confiscate. Al processo Ribolla ha tentato di giustificare il suo operato dicendo che “molti supermercati associati hanno chiesto di disdire il contratto con noi, i fornitori non ci hanno fatto più credito, e anche le banche ci hanno chiuso i rubinetti”. Sono in corso ancora trattative, stimolate anche in un incontri tra i lavoratori, ai quali è stata già mandata la lettera di licenziamento e  Sonia Alfano, in interventi  del sindaco di Castelvetrano  Felice Errante e della CGIL: il circuito comprende 43 supermercati Despar, più i 40 affiliati del gruppo 6GDO in provincia di Trapani : Despar, Eurospar, Superstore, Interspar ad Agrigento e Trapani.  Hanno già chiuso i supermercati più grossi di Marsala e Trapani, altri lo stanno facendo, poiché  non vengono più riforniti di merci, gli scaffali sono semivuoti. Addirittura, nel 2010 alla Prefettura di Trapani si era firmato un “protocollo di legalità” per salvare la “Special Fruit” una delle tante aziende del circuito di Grigoli e affidarne l’attività alla Coop, ma non se n’è fatto niente. La Special Fruit è stata messa in liquidazione, malgrado Ribolla ne avesse disposto un aumento di capitale stornandovi i soldi della 6GDO La chiusura delle banche ha prodotto la mancanza di liquidità per pagare fornitori e dipendenti, ma ha anche sospeso diversi crediti da riscuotere. Recentemente a Ribolla, forse in considerazione della sua scarsa capacità imprenditoriale, è stato aggiunto, come consulente, l’avvocato Antonio Gemma, vicino ad Angelino Alfano, ma la cosa non è servita a niente. L’amara conclusione di chi si trova sul lastrico è che quando c’era Grigoli tutto funzionava perfettamente,  l’azienda aveva un attivo di 600 milioni che sono scomparsi nel nulla con l’amministrazione giudiziaria: Insomma, ci troviamo davanti al volto nuovo di Cosa Nostra, così come si è potuto vedere anche col sequestro di un miliardo e 300 mila euro fatto al “re del vento” Vito Nicastri, di Alcamo, nel quale l’imprenditoria diventa l’elemento centrale per l’accumulazione del capitale, oltre le vecchie, ma sempre presenti pratiche del pizzo, e gli uomini d’onore, anche senza bisogno di esplicite affiliazioni, sono imprenditori e professionisti. Rispetto all’intraprendenza di costoro lo stato, avvolto nelle sue pastoie o rappresentato da gente incapace rischia di arrivare, quando arriva, con molto ritardo,  si trova davanti al proprio fallimento senza che si imputi tutto ai metodi di un’economia illegale: spesso, come nel caso dei lavoratori della 6DIGI , tutti messi in regola,  tutto funziona, almeno apparentemente, nel rispetto della legalità e all’interno di un circuito efficiente e produttivo.

Una parte di questa inchiesta è stata pubblicata sul numero di marzo 2014 de “I Siciliani giovani”. Ringrazio per la collaborazione, nella realizzazione dell’inchiesta, la redazione di Telejato, ovvero Pino Maniaci e Christian Nasi.

Uno dice, meno male che di pulito in Italia ci rimane lo sport. Segno tangibile di purezza, sportività e correttezza.

Giovanni Malagò, n.1 dello sport italiano, un po' abbacchiato per i 16 mesi di squalifica come... nuotatore, scrive Fulvio Bianchi su “La Repubblica”. Un momento difficile per tutto lo sport italiano, specie nelle istituzioni del calcio. Un momento non facile per la Lega Pro e il suo storico presidente Mario Macalli: dossier e denunce sono nelle mani della Procura federale (sperando che Palazzi, almeno stavolta, faccia in fretta) e anche della Repubblica della Repubblica di Firenze. Sono tanti, troppi, i fronti aperti: la Lega Pro ha licenziato il direttore generale Francesco Ghirelli, già braccio destro di Franco Carraro. E Ghirelli ha "confezionato" un dossier (scottante) che Macalli ha fatto avere al superprocuratore Palazzi. Lo stesso Palazzi presto potrebbe deferire il n.1 della Lega, e vicepresidente Figc, per il caso Pergocrema (vedi Spy Calcio dell'8 ottobre). In caso di condanna definitiva superiore ad un anno, decadrebbe dalle sue cariche. Inoltre la Procura della Repubblica di Firenze l'estate scorsa ha rinviato a giudizio Macalli sempre per il Pergocrema. La stessa Procura toscana avrebbe aperto un fascicolo anche sull'acquisto della splendida sede fiorentina della Lega, sede inaugurata da Platini. In ballo ci sono un fallimento e un paio di milioni..

Il presidente del Coni Giovani Malagò è stato condannato dalla Disciplinare della Federnuoto a 16 mesi di squalifica in qualità di presidente dell'Aniene, società per la quale gareggia anche Federica Pellegrini, scrive “La Gazzetta dello Sport”. Per Malagò dunque scatta la sospensione da ogni attività sociale e federale per il periodo in questione. E' stata così riconosciuta la responsabilità di Malagò per "mancata lealtà" e "dichiarazioni lesive della reputazione" del presidente federale Barelli, denunciato dal Coni per una presunta doppia fatturazione. Il caso era nato per una denuncia del Coni, presieduto da Malagò, alla Procura della Repubblica di Roma, per una presunta doppia fatturazione per 820mila euro per lavori di manutenzione della piscina del Foro Italico in occasione dei Mondiali di nuoto. Nel registro degli indagati era stato iscritto il presidente della Federnuoto Barelli, ma il pm aveva chiesto al gip l'archiviazione. La partita giudiziaria era stata poi riaperta dalla decisione di quest'ultimo di chiedere un supplemento di indagini, tuttora in corso. Nel frattempo, nuovi colpi di scena. Barelli, infatti, ha invitato la Procura federale della Fin ad "accertare" e valutare i comportamenti di Malagò, nella sua condizione di membro della Fin come presidente della Canottieri Aniene. Un invito a verificare se ci possano essere state "infrazioni disciplinarmente rilevanti" nelle parole con cui Malagò riassunse la vicenda nella giunta Coni del 4 marzo, parlando, sono espressioni dello stesso Malagò davanti al viceprocuratore federale, "come presidente del Coni e non da tesserato Fin". Il documento-segnalazione di Barelli accusava in sostanza Malagò di aver detto il falso in Giunta accusando ingiustamente la Federazione. La nota Fin citava la "mancata lealtà" e le "dichiarazioni lesive della reputazione", gli articoli 2 e 7, che Malagò avrebbe violato con le sue parole su Barelli in Giunta sulle "doppie fatturazioni". I legali del Coni avevano sollevato eccezioni di nullità, illegittimità e incompetenza, depositando anche il parere richiesto dalla Giunta al Collegio di Garanzia dello Sport, che chiariva la non competenza degli organi di giustizia delle Federazioni su vicende del genere.

Il passato scomodo di Tavecchio, scrivono da par loro Tommaso Rodano e Carlo Tecce per Il Fatto Quotidiano. "Spuntano una denuncia per calunnia contro il super candidato alla Federcalcio e un dossier depositato in procura che lo riguarda. E si scoprono strane storie, dalle spese pazze fino al doppio salvataggio del Messina. Ogni giorno che passa, e ne mancano cinque all’annunciata investitura in Federcalcio, il ragionier Carlo Tavecchio arruola dissidenti, smarrisce elettori: resiste però, faticosamente resiste. Nonostante le perplessità di Giovanni Malagò (Coni), dei calciatori più famosi e di qualche squadra di serie maggiore o inferiore. Il padrone dei Dilettanti, che dal ‘99 gestisce un’azienda da 700.000 partite a stagione e da 1,5 miliardi di euro di fatturato, com’è da dirigente? Dopo aver conosciuto le sue non spiccate capacità oratorie, tra donne sportive handicappate e africani mangia-banane, conviene rovistare nel suo passato. E arriva puntuale una denuncia per calunnia contro Tavecchio, depositata in Procura a Varese due giorni fa, a firma Danilo Filippini, ex proprietario dell’Ac Pro Patria et Libertate, a oggi ancora detentore di un marchio storico per la città di Busto Arsizio. Per difendersi da una querela per diffamazione – su un sito aveva definito il candidato favorito alla Figc un “pregiudicato doc” – Filippini ha deciso di attaccare: ha presentato documenti che riguardano il Tavecchio imprenditore e il Tavecchio sportivo, e se ne assume la responsabilità. Oltre a elencare le cinque condanne che il brianzolo, già sindaco di Ponte Lambro, ha ricevuto negli anni (e per i quali ha ottenuto una riabilitazione) e i protesti per cambiali da un miliardo di lire dopo il fallimento di una sua azienda (la Intras srl), Filippini allega una lettera, datata 24 ottobre 2000, Tavecchio era capo dei Dilettanti dal maggio ‘99. Luigi Ragno, un ex tenente colonnello dei Carabinieri, già commissario arbitrale, vice di Tavecchio, informa i vertici di Lega e Federazione di una gestione finanziaria molto personalistica del presidente. E si dimette. “Mi pregio comunicare che nel corso del Consiglio di Presidenza – si legge – è stato rilevato che la Lega intrattiene un rapporto di conto corrente presso la Cariplo di Roma, aperto successivamente al Primo Luglio 1999 (…). L’apertura del conto corrente appare correlata alla comunicazione del Presidente di ‘avere esteso alla Cariplo, oltre alla Banca di Roma già esistente, la gestione dei fondi della Lega. Entrambi gli Istituti hanno garantito, oltre alla migliore offerta sulla gestione dei conti, forme di sponsorizzazione i cui contenuti sono in corso di contrattazione”. Quelle erano le premesse, poi partono le contestazioni a Tavecchio: “Non risulta che alcun organo collegiale della Lega sia mai stato chiamato a esprimere valutazioni in ordine a offerte formulate dagli Istituti di credito di cui sopra”. “Risulta che non sono state prese in considerazione dal presidente più di venti offerte di condizione presentate in busta chiusa da primarie banche che operano su Roma, le quali erano state contattate dal commissario”. “Non risulta che né la Banca di Roma né la Cariplo abbiano concluso con la Lega accordi di sponsorizzazione”. “Nella sezione Attività della situazione patrimoniale del bilancio della Lega non appare, nella voce ‘banche’, la presenza del conto corrente acceso presso Cariplo”. “Nella sezione Attività della situazione patrimoniale, alla voce ‘Liquidità/Lega Nazionale Dilettanti’ risulta l’importo di Lire 18.774.126.556, che non rappresenta, come potrebbe sembrare a prima vista, il totale delle risorse finanziarie dei Comitati e delle Divisioni giacenti presso la Lega, bensì è costituito da un saldo algebrico tra posizioni creditorie e posizioni debitorie nei confronti della Lega”. Segue una dettagliata tabella dei finanziamenti ai vari Comitati regionali, e viene così recensita: “Il presidente della Lega ha comunicato che ai suddetti ‘finanziamenti di fatto’ è applicato il tasso di interesse del 2,40%, la cui misura peraltro non è stata stabilità da alcun organo collegiale”. Il vice di Tavecchio fa sapere di aver scoperto anche un servizio di “private banking”, sempre con Cariplo, gestito in esclusiva dal ragionier brianzolo: “Nessun Organo collegiale della Lega ha mai autorizzato l’apertura di tale rapporto (…) e mai ha autorizzato il presidente a disporre con firma singola (…) Trattasi di un comportamento inspiegabile e ingiustificabile, anche in considerazione della consistenza degli importi non inferiore ai venti miliardi di lire”. Ragno spedisce una raccomandata alla Cariplo, e si congeda dai Dilettanti di Tavecchio: “Di fronte all’accertata mancanza di chiarezza, di trasparenza e di correttezza e di gravi irregolarità da parte del massimo esponente della Lega, non mi sento di avallare tale comportamento gestionale e comunico le immediate dimissioni”. Per comprendere la natura del consenso costruito minuziosamente da Tavecchio nella gestione della Lega Dilettanti, un caso esemplare è quello del Messina calcio. La società siciliana approda in Lnd nella stagione sportiva 2008-2009. La famiglia Franza è stufa del suo giocattolo, vorrebbe vendere la squadra, ma non trova acquirenti. Il Messina è inghiottito dai debiti. Dovrebbe militare in serie B, ma il presidente Pietro Franza non l’iscrive al campionato cadetto: deve ricominciare dai dilettanti. Il problema è che il Messina è tecnicamente fallito (la bancarotta arriverà dopo pochi mesi) e non avrebbe le carte in regola nemmeno per ripartire da lì. E invece Tavecchio, con una forzatura, firma l’iscrizione dei giallorossi alla Lega che dirige. L’uomo chiave si chiama Mattia Grassani, principe del foro sportivo e, guarda caso, consulente personale di Tavecchio e della stessa Lnd: è lui a curare i documenti (compreso un fantasioso piano industriale per una società ben oltre l’orlo del crac) su cui si basa l’iscrizione dei siciliani. In pratica, si decide tutto in casa. Nel 2011 il Messina, ancora in Lega dilettanti, è di nuovo nei guai. Dopo una serie di vicissitudini, la nuova società (Associazione Calcio Rinascita Messina) è finita nelle mani dell’imprenditore calabrese Bruno Martorano. La gestione economica non è più virtuosa di quella dei suoi predecessori. Martorano firma in prima persona la domanda d’iscrizione della squadra alla Lega. Non potrebbe farlo: sulle sue spalle pesa un’inibizione sportiva di sei mesi. Non solo. La documentazione contiene, tra le altre, la firma del calciatore Christian Mangiarotti: si scoprirà presto che è stata falsificata. Il consulente del Messina (e della Lega, e di Tavecchio) è sempre Grassani: i giallorossi anche questa volta vengono miracolosamente iscritti alla categoria. Poi, una volta accertata l’irregolarità nella firma di Mangiarotti, la sanzione per il Messina sarà molto generosa: appena 1 punto in classifica (e poche migliaia d’euro, oltre ad altri 18 mesi di inibizione per Martorano). Tavecchio, come noto, è l’uomo che istituisce la commissione “per gli impianti sportivi in erba sintetica” affidandola all’ingegnere Antonio Armeni, e che subito dopo assegna la “certificazione e omologazione” degli stessi campi da calcio alla società (Labosport srl) partecipata dal figlio, Roberto Armeni. Non solo: la Lega Nazionale Dilettanti di Tavecchio ha un’agenzia a cui si affida per l’organizzazione di convegni, cerimonie ed assemblee. Si chiama Tourist sports service. Uno dei due soci, al 50 per cento, si chiama Alberto Mambelli. Chi è costui? Il vice presidente della stessa Lega dilettanti e lo storico braccio destro di Tavecchio. Un’amicizia di lunga data. Nel 1998 Tavecchio è alla guida del comitato lombardo della Lnd. C’è il matrimonio della figlia di Carlo, Renata. Mambelli è tra gli invitati. Piccolo particolare: sulla partecipazione c’è il timbro ufficiale della Figc, Comitato Regionale Lombardia. Quando si dice una grande famiglia."

«Denuncio Tavecchio. Carriera fatta di soprusi» dice Danilo Filippini a “La Provincia Pavese”. A quattro giorni dalle elezioni Figc, Carlo Tavecchio continua a tenere duro, incurante delle critiche e delle prese di posizione - sempre più numerose e autorevoli - di coloro che ritengono l’ex sindaco di Ponte Lambro del tutto inadeguato a guidare il calcio italiano. Tavecchio è stato anche denunciato per calunnia da Danilo Filippini, ex presidente della Pro Patria che ha gestito la società biancoblù dall’ottobre 1988 all’ottobre 1992.

Filippini, perché ha deciso di querelare Tavecchio?

«Scrivendo sul sito di Agenzia Calcio, definii Tavecchio un pregiudicato doc e un farabutto, naturalmente argomentando nei dettagli la mia posizione e allegando all’articolo il suo certificato penale storico. Offeso per quell’articolo, Tavecchio mi ha denunciato per diffamazione. Così, tre giorni fa, ho presentato alla Procura di Varese una controquerela nei suoi confronti, allegando una ricca documentazione a sostegno della mia tesi».

In cosa consiste la documentazione?

«Ci sono innanzitutto le cinque condanne subite da Tavecchio. Poi i protesti di cambiali per una somma di un miliardo di vecchie lire dopo il fallimento della sua azienda, la Intras srl. Ho allegato inoltre l’esposto di Luigi Ragno, già vice di Tavecchio in Lega Dilettanti, su presunte irregolari operazioni bancarie con Cariplo. Più tutta una serie di altre irregolarità amministrative».

Quando sono nati i suoi dissidi con Tavecchio?

«Ho avuto la sfortuna di conoscerlo ai tempi in cui ero presidente della Pro Patria. Quando l’ho visto per la prima volta, era presidente del Comitato regionale lombardo. In quegli anni ci siamo scontrati continuamente. Con Tavecchio in particolare e con la Federazione in generale».

Per quale motivo?

«I miei legittimi diritti sono sempre stati negati, in maniera illecita, nonostante numerosi miei esposti e querele, con tanto di citazioni di testimoni e prove documentali ineccepibili. Da vent’anni subisco dalla Federcalcio ogni tipo di abusi».

Per esempio?

«Guardi cos’è successo con la denominazione “Pro Patria et Libertate”, da me acquisita a titolo oneroso profumatamente pagato, e che poi la Federazione ha girato ad altre società che hanno usato indebitamente quel nome. Per non parlare della mia incredibile radiazione dal mondo del calcio, che mi ha impedito di candidarmi alla presidenza della Figc, come volevo fare nel 2001. Una vera discriminazione, che viola diritti sanciti dalla Costituzione. Sa qual è l’unica cosa positiva di questa vicenda?»

Dica.

«Sono uscito da un mondo di banditi come quello del calcio. E ora mi occupo di iniziative a favore dei disabili: impiego molto meglio il mio tempo».

Tavecchio risulta comunque riabilitato dopo le cinque condanne subite.

«Mi piacerebbe sapere in base a quali requisiti l’abbia ottenuta, la riabilitazione. E comunque, una volta riabilitato, avrebbe dovuto tenere un comportamento inappuntabile sul piano etico. Non mi pare questo il caso».

Insomma, a suo parere un’eventuale elezione di Tavecchio sarebbe una iattura per il calcio italiano...

«Mi auguro davvero che non venga eletto. Questo è il momento di cambiare, di dare una svolta: non può essere Tavecchio l’uomo adatto. Avendolo conosciuto di persona, non mi sorprende neanche che abbia commesso le gaffes di cui tutti parlano. Lui fa bella figura solo quando legge le lettere che gli scrivono i principi del foro. Comunque, ho mandato la mia denuncia per conoscenza anche al Coni e al presidente Malagò. Non ho paura di espormi: quando faccio una cosa, la faccio alla luce del sole».

"La vicenda Tavecchio? Una sospensione molto particolare.. Ma chi stava nell'ambiente del calcio sapeva perfettamente cosa sarebbe successo. Ho letto varie dichiarazioni e mi sento di condividere chi dice: tutti sapevano tutto, e questi tutti sono quelli che sono andati al voto e che, malgrado sapessero che questo sarebbe successo, hanno ritenuto che era giusto votare per Tavecchio. La domanda va girata a queste persone". Il presidente del Coni, Giovanni Malagò, commenta così la vicenda dei sei mesi di stop al presidente della Figc decisi dall'Uefa, scrive “La Repubblica”. "L'elezione è stata assolutamente democratica, evidentemente non hanno ritenuto che il fatto potesse essere penalizzante per il proseguio dell'attività di Tavecchio. Io come presidente del Coni di questa cosa, può piacere o meno, ne devo solo prendere atto perché il Coni può intervenire se una elezione non è stata regolare, se ci sono delle gestioni non fatte bene, per problemi di natura finanziaria, se non funziona la giustizia sportiva, per tutto il resto dobbiamo prenderne atto senza essere falsi". Anche il sottosegretario Delrio, presente stamani ad un convegno al Coni col ministro Lorenzin, si è tirato fuori: "Il mondo sportivo è autonomo, il governo non può intervenire". Malagò ha anche spiegato che comunque questa vicenda "crea un problema di immagine al nostro calcio". Carlo Tavecchio, presente anche lui al Coni, ci ha solo detto: "Io sono stato censurato dall'Uefa e non sospeso. L'Uefa ha preso una decisione, non una sentenza". E dal suo entourage si precisa che la "lettera che Tavecchio ha scritto alle 53 Federazioni europee era di presentazione e non di scuse". Il 21 a Roma c'è Platini per presentare il suo libro: Tavecchio è irritato col n.1 dell'Uefa, lo incontrerà? Domani comitato presidenza Figc, venerdì il presidente Figc a Palermo con gli azzurri. Il lavoro va avanti. Intanto, il 27 torna in ballo anche Malagò: processo di appello alla Federnuoto dopo la condanna di 16 mesi in primo grado. La speranza è in drastico taglio, in attesa di Frattini...

Caso Pergocrema, Macalli verso il deferimento? Il vicepresidente della Figc e n.1 storico della Lega Pro, Mario Macalli, rischia il deferimento in margine al caso Pergocrema. Il procuratore federale, Palazzi, ha chiuso l'indagine e passato le carte alla Superprocura del Coni come prevedono le nuove norme di giustizia sportiva volute dal Coni: ora Macalli potrà presentare le sue controdeduzioni, ed essere anche interrogato. La prossima settimana Palazzi deciderà se archiviare o deferire (più che probabile). Il caso Pergocrema si trascina ormai da molto tempo: questa estate la procura della Repubblica di Firenze aveva chiesto il suo rinvio a giudizio. Macalli secondo i magistrati avrebbe "provveduto a registrare a proprio nome i marchi Pergocrema, Pergocrema 1932, Pergolettese e Pergolettese 1932". In questo caso, il n.1 dell'ex Serie C, come stato scritto su Repubblica la scorsa estate da Marco Mensurati e Matteo Pinci, "intenzionalmente si procurava un ingiusto vantaggio patrimoniale arrecando un danno patrimoniale al Pergocrema fornendo agli uffici preposti della Lega esplicita disposizione di bloccare senza giustificazione giuridica il bonifico da oltre 256mila euro, importo spettante come quota di suddivisione dei diritti televisivi che se disponibili avrebbero consentito alla società sportiva di evitare il fallimento". Macalli aveva sempre assicurato la sua totale estraneità ai fatti. "Chiarirò tutto". Pare sia arrivato il momento. Possibile inoltre il deferimento di Belloli, presidente del Comitato regionale lombardo e fra i candidati alla successione di Tavecchio alla presidenza della Lega Nazionale Dilettanti. Oltre a lui, resterebbero in corsa solo Tisci e Mambelli, mentre avrebbero fatto un passo indietro Repace e Dalpin. Mercoledì prossimo riunione con Tavecchio. Si vota l'11 novembre. Per finire, chiusa l'inchiesta di Palazzi anche su Claudio Lotito: interrogati quattro giornalisti, acquisito il video. Ora le carte sono in possesso di Lotito, che deve difendersi, e del generale Enrico Cataldi, superprocuratore Coni: presto Palazzi dovrebbe fare il deferimento per le parole volgari su Marotta.

La Commissione Disciplinare ha deliberato il 6 marzo 2013 in merito al fallimento dell’Us Pergocrema 1932 ed ha inibito gli ex presidenti Sergio Briganti per 40 mesi e Manolo Bucci per 12, l’ex amministratore delegato Fabrizio Talone per 6 mesi, l’ex vice presidente Michela Bondi per 3 e gli ex consiglieri del Cda Estevan Centofanti per 3, Luca Coculo e Gianluca Bucci entrambi per 6 mesi, scrive “La Provincia di Crema”. Sulla base delle indagini effettuate dalla Procura Federale, la Disciplinare ha deciso di infliggere sanzioni ai personaggi di cui sopra accusandoli «di aver determinato (i due presidenti) e di aver contribuito (gli altri dirigenti) con il proprio comportamento la cattiva gestione della società, con particolare riferimento alle responsabilità del dissesto economico-patrimoniale».

A sbiadire ancor di più l’immagine di Briganti, però, ci pensa Striscia la Notizia. L’ex presidente del Pergocrema, Sergio Briganti, è stato protagonista di un servizio in una delle ultime puntate di Striscia la Notizia, il tg satirico in onda su Canale 5, intitolato “Minacce, spintoni, schiaffi”, scrive “La Provincia di Crema”. Jimmy Ghione è stato avvicinato da una giovane donna che ha segnalato come, nel vicolo del pieno centro di Roma dove si trova il bar di Briganti, le auto non riescano a transitare in quanto la strada è occupata da un lato da sedie e tavolini del locale e dall’altro da motorini. In quel vicolo, il transito è consentito soltanto agli automezzi di servizio, ai taxi, ai motocicli e alle auto munite del contrassegno per i disabili. E proprio un disabile stava sull’auto guidata dalla donna, che si è trovata la strada bloccata. A quel punto, la signora ha chiesto a Briganti di spostare i tavolini, ma la risposta è stata «un vulcano, una cosa irripetibile», ha commentato la donna.

C’è da chiedersi: quanto importante sia il Briganti per Striscia, tanto da indurli ad occuparsi di lui e non delle malefatte commesse dai magistrati e dall’elite del calcio?

Macalli a inizio ottobre 2014 è stato anche deferito per violazione dell’art. 1 dalla Procura Figc (dopo un esposto di Massimo Londrosi, d.s. del Pavia) per aver registrato a suo nome nel 2011 quattro marchi riconducibili al club fallito, e per aver ceduto - dopo aver negato il bonifico che ha fatto fallire il club - quello «Us Pergolettese 1932» alla As Pizzighettone, che nel 2012-13 ha fatto la Seconda divisione con quella denominazione. Macalli patteggerà, scrive “Zona Juve”. Anche su internet non si trova conferma.

Mario Macalli, da 15 anni presidente della Lega Pro di calcio, sarebbe indagato per appropriazione indebita, in merito alla sua acquisizione del marchio del Pergocrema, scrive “La Provincia di Crema”. Sulla scomparsa della società gialloblu (club dichiarato fallito dal tribunale cittadino il 20 giugno 2012), indagano le procure di Roma e Firenze che hanno ricevuto una denuncia da parte dell’ex presidente dei gialloblu Sergio Briganti, nei giorni scorsi inibito per 40 mesi dalla Federcalcio proprio per il fallimento del Pergo. E’ possibile che le due inchieste vengano riunificate. Macalli è stato vice presidente per alcuni anni della società gialloblu, vive a Ripalta Cremasca ed ha il suo studio in città. La storia dell’acquisizione del marchio venne scoperta e resa pubblica da un gruppo di tifosi che avrebbero voluto rilevare la società, percorrendo la strada dell’azionariato popolare. Con quattro registrazioni di marchi, Macalli ha reso impossibile il loro proposito.

Un altro terremoto scuote le malandate istituzioni del calcio italiano. La procura di Firenze, nel giorno della stesura dei gironi, ha chiesto il rinvio a giudizio per Mario Macalli, presidente della Lega Pro. L'accusa: abuso d'ufficio, scrive “La Provincia di Crema”. Oggetto dell'inchiesta penale condotta dal sostituto procuratore di Firenze, Luigi Bocciolini è la vicenda del fallimento del Pergocrema nell'estate 2012, nata dalla denuncia di Sergio Briganti, oggi difeso dagli avvocati Giulia De Cupis e Domenico Naso, e allora presidente del club lombardo. I dettagli dell'accusa per il manager sono pesantissimi: "In presenza di un interesse proprio, intenzionalmente si procurava un ingiusto vantaggio patrimoniale arrecando danno patrimoniale al Pergocrema fornendo agli uffici preposti della Lega esplicita disposizione di bloccare senza giustificazione giuridica il bonifico da oltre 256mila euro, importo spettante come quota di suddivisione dei diritti televisivi, e che se disponibili avrebbero consentito alla società  sportiva di evitare il fallimento".

“Abuso d’ufficio”. E’ questa l’accusa, formulata dal procuratore della repubblica di Firenze, Luigi Bocciolini, che nei giorni scorsi ha portato alla richiesta di rinvio a giudizio Mario Macalli, presidente della Lega Pro, scrive “Crema On Line”. L’oggetto dell’inchiesta, iniziata nel marzo 2013 riguarda la vicenda del fallimento del Pergocrema, avvenuta nel giugno 2012. L’indagine è partita dalla denuncia dell’ex presidente gialloblu Sergio Briganti. Dai verbali in possesso della polizia giudiziaria fiorentina nell’aprile 2012 l’avvocato Francesco Bonanni, responsabile dell’ufficio legale della Lega Pro, era incaricato di effettuare i conteggi relativi alla ripartizione della quota della suddivisione dei diritti televisivi della legge Melandri. La somma destinata al Pergocrema, allora iscritta al campionato di Prima Divisione Lega Pro, era pari a 312.118,54 euro lordi, al netto 245.488, 80 euro. In quel periodo la società cremasca gravava in una pesante situazione debitoria nei confronti di tecnici, atleti e fornitori. Il 3 maggio 2012 è stata presentata un'istanza da Francesco Macrì, legale dell’Assocalciatori, in rappresentanza di dieci tesserati del Pergocrema che vantavano 170 mila euro di debiti nei confronti del club gialloblu. Il tribunale di Crema ha autorizzato il sequestro cautelativo della somma in giacenza, comunicandolo alla Lega Pro. Il sequestro è stato attivato il giorno successivo. Il dato certo, secondo la ricostruzione degli inquirenti, è che il 27 aprile 2012 la Lega era pronta a versare la quota: Bonanni ha escluso di aver dato l'ordine a Guido Amico di Meane, al commercialista della Lega Pro, di bloccare il versamento alla società cremasca. L'unico che avrebbe dato disposizione di non effettuare il relativo bonifico agli uffici preposti sarebbe stato Macalli.

Eppure, nonostante l’impegno della Procura, il Gup di Firenze Fabio Frangini ha assolto Mario Macalli, presidente della Lega Pro, dall’accusa di abuso d’ufficio riguardo al caso del fallimento del Pergocrema. Secondo l'accusa Maccalli non avrebbe autorizzato il versamento alla società della quota dei diritti tv relativa alla stagione 2011-2012.  Non luogo a procedere, scrive “La Provincia di Crema”. Il presidente di Lega Pro e vicepresidente della Federcalcio, Mario Macalli, è stato prosciolto dall’accusa di abuso d’ufficio, nell’ambito della vicenda che portò nel giugno del 2012 al fallimento dell’Us Pergocrema 1932. La decisione è stata presa martedì mattina 21 ottobre dal giudice dell’udienza preliminare del tribunale di Firenze, che non ha quindi accolto la richiesta di rinvio a giudizio depositata dal pubblico ministero Luigi Bocciolini il 30 luglio scorso. Il reato ipotizzato per Macalli era quello previsto e punito dall’articolo 323 del codice penale (l’abuso d’ufficio, appunto). Secondo il pubblico ministero, nella sua qualità di presidente della Lega Pro Macalli aveva intenzionalmente arrecato un ingiusto danno patrimoniale al Pergocrema, dando agli uffici preposti della Lega esplicita disposizione a bloccare, senza giustificazione, il bonifico alla società di 256.488,80 euro alla stessa spettante quale quota per i diritti televisivi. A seguito di ciò, il 28 maggio 2012, due creditori chirografari depositarono istanza di fallimento del Pergocrema, presso il tribunale di Crema, fallimento che veniva dichiarato il 19 giugno. In sostanza, l’accusa puntava a dimostrare che, la società gialloblù fallì perchè non fu in grado di saldare il debito contratto di 113.000 euro con il ristorante Maosi e l’impresa di giardinaggio Non Solo Verde. Il fallimento sarebbe stato evitato se la Lega Pro avesse eseguito a fine aprile sul contro del Pergocrema, come venne fatto per tutti gli altri club, il bonifico dei contributi spettanti alla società stessa. Ma il Gup — come detto —non ha sposato la tesi.

Al termine degli accertamenti, il Gup lo ha prosciolto con formula piena perché "il fatto non sussiste". I difensori del ragioniere cremasco, l’avvocato Nino D’Avirro di Firenze e Salvatore Catalano di Milano hanno evidenziato, tra l’altro, che Macalli non svolge la funzione di pubblico ufficiale e pertanto non si configura il reato di abuso d’ufficio, scrive “Crema On Line”. «Aspettiamo le motivazioni — ha affermato a caldo l’ex presidente del Pergocrema, Sergio Briganti — e poi ricorreremo. La cosa non finisce qui».

Quindi l’inghippo c’era, ma non è stato commesso da un pubblico ufficiale? E qui, da quanto dato sapere, il motivo del non luogo a procedere. Come mai questa svista dei pubblici ministeri?

Ecco i legami e gli intrighi del trio "Cavaliere oscurato"-Macalli-Tavecchio, scrive Stefano Greco su “sslaziofans”. (Il cavaliere oscurato è Claudio Lotito, presidente della Lazio). “Più che Tavecchio, sono quelli che stanno dietro a lui che mi spaventano. Lui è inadeguato e fatico a capire come i dirigenti oggi possano pensare col metodo Lotito, che crede che il Palazzo della Federazione  abbia una porta sola: e la chiave spetti a lui. Non lo accettiamo”. Oggi risuonano come sirene d’allarme le parole pronunciate qualche giorno fa da Renzo Ulivieri. Già, perché oggi è esplosa una bomba che era nell’aria da tempo e che con la sua deflagrazione ha aperto uno dei tanti armadi in cui erano chiusi un po’ di scheletri. L’armadio è quello di Mario Macalli, presidente della Lega Pro, per il quale la Procura di Firenze ha chiesto il rinvio a giudizio per ABUSO D’UFFICIO. Oggetto dell’inchiesta penale condotta dal sostituto procuratore di Firenze, Luigi Bocciolini è“la vicenda del fallimento del Pergocrema nell’estate 2012, nata dalla denuncia di Sergio Briganti, allora presidente del club lombardo”. La notizia è esplosa alla vigilia dell’assemblea delle società di Lega Pro chiamate, proprio oggi, a eleggere i propri consiglieri federali e a nominare i componenti del direttivo; ma il suo vero effetto rischia di produrlo interferendo con la già discussa elezione di Carlo Tavecchio, di cui Macalli è (insieme al “Cavaliere oscurato”) tra i principali sponsor, alla presidenza della Federcalcio. I dettagli dell’accusa per il rinvio a giudizio di Macalli sono pesantissimi: “In presenza di un interesse proprio, intenzionalmente si procurava un ingiusto vantaggio patrimoniale arrecando danno patrimoniale al Pergocrema, fornendo agli uffici preposti della Lega Pro esplicita disposizione di bloccare, senza giustificazione giuridica, il bonifico da oltre 256mila euro, importo spettante come quota di suddivisione dei diritti televisivi. Soldi che, se disponibili, avrebbero consentito alla società sportiva di evitare il fallimento”. Per capire meglio i dettagli di questo brutto pasticciaccio calcistico-penale che la procura di Firenze contesta a Macalli, bisogna fare un salto indietro: nel 2011, cioè circa un anno prima, il presidente di Lega Pro aveva registrato a proprio nome i marchi “Pergocrema” e “Pergocrema 1932”, ma anche quelli “Pergolettese” e “Pergolettese 1932”. Il 19 giugno 2012 arriva il fallimento della società e a seguito del fallimento, il Pergocrema viene cancellato dal campionato di Lega Pro Prima Divisione. Macalli, come per magia, si ritrova “esclusivo titolare dei marchi con cui il Pizzighettone, club di Eccellenza, si iscrive al campionato di Lega Pro come Pergolettese 1932”. Il tutto a danno del Pergocrema e a vantaggio del legale rappresentante del nuovo club nato da questo pasticciaccio, ovvero Cesare Angelo Ferrazza,“con sensibile incremento di valore attribuibile all’azione del Macalli”. E l’indagine ha evidenziato chiari legami e “relazioni di carattere economico tra Macalli e Ferrazza”. Tavecchio, Macalli e il “Cavaliere oscurato”. Con in mezzo la Salernitana, il Pergocrema e Sergio Briganti, ex proprietario del club lombardo e grande amico del “Cavaliere oscurato”. Ma non solo. Tutto nasce nell’estate del 2011. Il “Cavaliere oscurato” ha capito che il calcio è un business e dopo qualche tentativo non andato in porto (tra cui quello del Torino prima dell’arrivo di Cairo), a fine luglio 2011, arriva l’occasione giusta. La Salernitana, appena scomparsa dopo aver fallito la promozione in serie B, è in attesa di un nuovo proprietario. Il sindaco De Luca ha in mano il titolo sportivo da assegnare tramite lodo e Lotito risponde presente. “Per preservare una società patrimonio del calcio italiano”, dice urbi et orbi, in realtà perché il sindaco De Luca si impegna a garantire sia al “Cavaliere oscurato” che a suo cognato Marco Mezzaroma il via libera per la costruzione a Salerno di una cittadella dello sport, con annessi e connessi. Si riparte dalla serie D (di cui è presidente di Lega guarda caso Tavecchio), è vero, ma questo è un business che una famiglia di costruttori non si può certo far scappare, soprattutto considerando il fatto che l’investimento iniziale è modesto (2 milioni di euro di budget per il primo anno, di cui 700.000 escono dalle casse della Lazio) rispetto al ritorno economico che può garantire subito una piazza che un mese prima aveva fatto oltre 25.000 spettatori in Lega Pro per lo spareggio-promozione perso contro il Verona. E poi c’è il futuro garantito dalla promessa di cemento e appalti. Così, Gianni  Mezzaroma (suocero del “Cavaliere oscurato”), tramite la Morgenstern srl diventa proprietario della Nuova Salerno, il cui presidente è ufficialmente il figlio Marco, ma il cui vero “deus ex machina” è il “Cavaliere oscurato”, che alla presentazione parla da proprietario e si presenta con l’intero staff dirigenziale della Lazio, compreso il responsabile della società pronto ad esportare a Salerno la rivista ufficiale, la web radio e la web tv lanciati negli ultimi mesi dalla Lazio. Il “Cavaliere oscurato” sceglie con Tare il nuovo allenatore (Carlo Perrone, fino a giugno 2011 allenatore delle giovanili della Lazio), coordina il mercato e a Formello si fanno le assunzioni e si preparano le buste paga dei dipendenti della Nuova Salerno.

Le nuove regole della Federcalcio consentono al proprietario di una società di serie A di gestire anche una società di serie D, Tavecchio accoglie tutti a braccia aperte e, fin qui, all’apparenza non c’è nulla di strano perché per ora siamo nel rispetto delle regole. Finita qui? No. Il “Cavaliere oscurato” ci prende gusto e, all’improvviso, ad inizio agosto 2011 cominciano a circolare strane voci su un coinvolgimento del presidente della Lazio nella scalata al Pergocrema, società di Lega Pro Prima Divisione passata dalle mani dell’imprenditore Manolo Bucci a quelle di Sergio Briganti (con un passato calcistico non felicissimo a Taranto e Ancona), socio e amico del “Cavaliere oscurato”. Tra i soci della nuova Pergocrema Calcio, figura anche Ciro Di Pietro, imprenditore alberghiero proprietario dell’albergo di Auronzo di Cadore dove va abitualmente in ritiro la Lazio. E lo stesso Briganti, non nasconde il legame con il “Cavaliere oscurato”, anzi.  “Con il presidente della Lazio esiste un rapporto di lavoro, amicizia e rispetto: è una persona che conosce il significato del termine azienda, sa fare calcio tenendo i conti a posto, come piace a me. Non nego che sia un modello”. Le stesse identiche parole pronunciate da Marco Mezzaroma a Salerno il giorno della presentazione. E il legame tra la Pergocrema Calcio e la Lazio diventano ben presto ancora più evidenti, visto che nel giro di pochi giorni arrivano da Formello il promettente difensore Adeleke e i suoi compagni di Primavera Di Mario e Capua. Più Concetti, che stava in prestito a Crotone. Doveva andare anche Makinwa, ma il trasferimento del nigeriano sfuma all’ultimo secondo. Finita? No…Il 29 dicembre, il “Cavaliere oscurato” partecipa ad una conferenza stampa dove viene presentato in pompa magna il gemellaggio tra l’aquila laziale e quella del Bolzano, un matrimonio suggerito da Mara Carfagna, grande amica di Michaela Biancofiore che è vice presidente del Bolzano, società dal passato glorioso che navigava nelle paludi della Lega Dilettanti. Tra un latinismo e le solite gaffe (chiama Marano il suo “grande amico” Murano, presidente del Bolzano), il “Cavaliere oscurato” manda in scena il suo solito show. “Ringrazio tutti per l'accoglienza e per la fiducia che avete riposto nella mia persona per quello che ho fatto sinora in questo mondo. Ho accolto con entusiasmo l'iniziativa della mia amica onorevole Biancofiore e del presidente, che mi hanno coinvolto emotivamente in questo rapporto sinergico di affiliazione. Al nostro amatissimo presidente, non bisogna insegnare il calcio, perché è molto ferrato ed è una persona di altissimo livello, ma comunque attraverso le sinergie si possono ottenere importanti risultati sia in termini di giocatori che di strutture che di esperienze maturate. Io ho rilevato una società al funerale che aveva 550 milioni di debiti: oggi è una delle squadre con il bilancio migliore. Questo è importante perché significa che anche nel calcio si può intraprendere un percorso virtuoso nel rispetto delle regole, nel rispetto di un sano bilancio, cercando di coniugare anche i risultati sportivi: dal 2004 a oggi, ho raggiunto il primo anno l’Intertoto(se lo comprò facendo fuori il Livorno, ma chi se lo ricorda?), il secondo anno l’Europa League (e la perse per la condanna che fece prendere alla Lazio per Calciopoli), il terzo anno la Champions (e non investì neanche un euro per rinforzare la squadra), il quarto anno la vittoria in Coppa Italia, il quinto anno il successo nella Supercoppa Europea (Supercoppa Italiana, in realtà, ma tutto fa brodo)e quest'anno possiamo fare ancora meglio, salvo complicazioni mediatiche che in questo momento ci stanno bombardando. Evidentemente creiamo qualche problema, perché in questo mondo esiste una consuetudine, ‘consuetudo magna vis est’, ossia quando la consuetudine diventa norma, anche se è sbagliata. Il sistema è chiuso e diamo fastidio, ma noi siamo per l'apertura, vogliamo la sana gestione e la trasparenza, vogliamo guardare negli occhi la gente. E anche con questo spirito intraprendiamo questo rapporto di collaborazione, per dare impulso alla città di Bolzano e alla sua squadra, con cui ci sono affinità, anche simboliche, vedi l'aquila ad esempio. La Lazio è a disposizione per favorire la crescita di questa squadra, che deve mantenere la sua autonomia, la sua proprietà. Lotito, dunque, non compra il Bolzano, ma con il Bolzano nasce una bella affiliazione, nata con finalità sociali, all'insegna dei sani valori dello sport. E mi auguro che il Bolzano esca da questa palude dilettantistica”.E giù applausi, anche da parte di Tavecchio che benedice il nuovo matrimonio calcistico-politico. Che dura, visto che poche settimane fa il “Cavaliere oscurato” era tra gli ospiti vip (insieme al ministro Frattini) alla presentazione del libro dela Biancofiore…Quell’anno, tutti promossi, mentre il Pergocrema fa la fine che avete letto all’inizio. La Salernitana passa tra i Pro, quindi in base all’articolo 16 bis, che vieta in modo tassativo a proprietari di club di Serie A e a suoi parenti o assimilati di gestire un altro club professionistico, il “Cavaliere oscurato” dovrebbe vendere o la Lazio o il club campano. Invece no. Perché in Consiglio Federale, grazie ai voti decisivi di Macalli e Tavecchio, arriva una deroga fino a dicembre 2012, poi estesa nel silenzio generale fino a giugno 2013. E poi, l’estate successiva, con equilibrismi da circo, esce un’interpretazione secondo la quale il “Cavaliere oscurato” può restare proprietario dei due club perché uno lo ha preso quando era nei Dilettanti, quindi fino a quando resta in Lega Pro (sotto la protezione di Macalli), va tutto bene. Poi, se e quando passerà in Serie B (sotto Abodi), si vedrà. E l’alleanza si rafforza quando dopo l’ennesima condanna c’è da decidere sulla decadenza del “Cavaliere oscurato” da tutte le cariche. Le premesse giuridiche ci sono, ma la mozione viene respinta. E ora, la grande marcia verso via Allegri, nonostante bucce di banane, condanne passate, rinvii a giudizio e inciuci di ogni genere stile Prima Repubblica. I personaggi sono gli stessi d’altra parte, anche si sono travestiti presentandosi come il “nuovo che avanza”.

Calcio Italia, usi e consumi, scrive P. Cicconofri su “Giulemanidallajuve”. L’Italia del calcio viaggia sempre controcorrente. Iniziamo dal caso Tavecchio, il procuratore federale Palazzi esaminati gli articoli di stampa, gli esposti presentati, i filmati acquisiti e la documentazione trasmessa dalla Figc alla Fifa e alla Uefa si è affrettato ad archiviare l’inchiesta perché “non sono emersi fatti di rilievo disciplinare a carico del neo presidente della Figc Carlo Tavecchio sia sotto il profilo oggettivo sia sotto il profilo soggettivo”. Non è della stessa opinione la Uefa che ha dato un diverso valore alle parole del presidente Figc sospendendolo per 6 mesi, periodo in cui non potrà partecipare alle commissioni del massimo ente calcistico europeo e non sarà presente al congresso che si terrà a marzo 2015. Potrà invece seguire la nazionale. La Federcalcio, in una nota, ha fatto sapere che Tavecchio ha accettato la proposta della Uefa per evitare il protrarsi del contenzioso davanti al Tas che avrebbe dovuto eventualmente stabilire se la Uefa fosse competente ad intervenire su questa materia, stante l'avvenuta archiviazione di un analogo procedimento da parte della procura federale. Un accordo tra gentiluomini? La cosa più curiosa è che a furia di strattonarsi nella corsa a chi più si avvicina a Tavecchio, Ghirardi è arrivato a dire: "La squalifica di Tavecchio? L'Uefa doveva confrontarsi con le legge italiane". Nemmeno il buon senso di starsene in silenzio… Arriviamo a Mario Macalli, presidente della Lega Pro, tristemente famoso per i suoi recenti attacchi alla Juventus. La Procura della Repubblica di Firenze, la scorsa estate, ha rinviato a giudizio Macalli per il caso Pergocrema. L’accusa è abuso d’ufficio: bloccò il bonifico che avrebbe salvato dal fallimento il club.( Macalli alla conquista delle prime pagine …). Nonostante il fatto sia noto alla FIGC dal 28 settembre 2012, il procuratore Palazzi, ad oggi, non ha ancora preso nessuna decisione, nemmeno uno scontato rinvio a giudizio. Ricordiamo che in caso di condanna superiore ad un anno, Macalli decadrebbe da tutte le cariche. Chissà perché questa volta la giustizia sportiva, quella a cui basta il sospetto, non si muove nemmeno in presenza di un rinvio a giudizio della giustizia ordinaria …Lotito, attualmente braccio destro del Presidente della Figc, orami padrone del baraccone Italia, si permette anche di insultare Marotta pubblicamente: "Il problema con Marotta è che con un occhio gioca a biliardo e con l'altro mette i punti", senza subire nessuna conseguenza. In passato, per frasi meno offensive, sono partiti deferimenti immediati. Anche questa volta il solerte procuratore Palazzi si è mosso nel silenzio e con molta cautela. Il Corriere dello Sport informa che la procura federale ha provveduto ad aprire un fascicolo d’indagine. Scopriremo a breve (speriamo) se  Lotito può fare e dire quello che vuole…Terminiamo con il caso Rocchi, l’arbitro di Juventus-Roma, reo di aver favorito, secondo quel comune sentimento popolare di farsopoliana memoria,  i bianconeri. Lasciamo da parte per un momento l’effetto mediatico montato da una stampa sportiva in degrado, la cosa che dovrebbe far riflettere è come la UEFA lo abbia immediatamente designato per la delicata partita tra Albania e Serbia valida per la qualificazione agli Europei del 2016, mentre in Italia, il Corriere dello Sport ha subito messo in evidenza che il designatore lo avrebbe punito con due giornate di stop dopo l’esposizione a pubblico ludibrio. Il nome di Rocchi non appare nella lista delle designazioni per la 7° partita del massimo campionato. E’ uno specchio che riflette una chiara immagine, quella della Giustizia Sportiva italiana che si muove solo e sempre per convenienza e in contrasto con le decisione della Uefa, che delle “chiacchiere” italiane sembra non interessarsi. Per il momento, la cupola formata da Macalli, Tavecchio e Lotito, ha potuto contare su una giustizia sportiva a loro uso e consumo: veloce per archiviare e lenta nel non prendere provvedimenti dovuti. E il famoso sentimento popolare ha avuto ancora la meglio sul buon senso.

ASSOLTI E CONFISCATI. I CAVALLOTTI: STORIE DI MAFIA O DI INGIUSTIZIA?

Questo è un tema da approfondire. Si può essere assolti dai magistrati giudicanti ed allo stesso tempo essere additati come mafiosi dai magistrati requirenti e per gli effetti essere destinatari di confisca dei propri beni, che in base alla sentenza sono frutto di impresa legale? Da quanto risulta sembra proprio di sì. Certo è che la stampa asservita al potere giudiziario mai approfondirà un tema così scottante. E se poi tra i beneficiari dell’atto di confisca ci sono gli stessi magistrati, allora……

La questione non è solo pertinente a Palermo e la Sicilia. Partiamo da Bari. “Assolti e Confiscati”. Un libro da leggere, per capire e meditare! “Assolti e Confiscati” è il libro che Michele Matarrese ha dato alle stampe per raccontare, ovviamente dal punto di vista dei Matarrese, i vent’anni della vicenda Punta Perotti, scrive Lucio Marengo. Finalmente c’è ancor qualcuno che ha il coraggio di ribellarsi in termini ovviamente legali, allo strapotere illimitato di parte di una magistratura che supponendo sia stata in buona fede, ha però distrutto nella sostanza una grande famiglia come di imprenditori come i Matarrese ed impedendo nei fatti lo sviluppo di quello che sarebbe potuto diventare il più bello lungomare d’Italia. Solo il fanatismo ecologico associato alla stupidità politica ha potuto giustificare una battaglia a difesa di una fauna avicola inesistente indicando nella zona di punta Perotti addirittura la presenza di uccelli speciali e particolari. Non  sappiamo a quali uccelli volessero riferirsi gli ambientalisti visto che da quelle parti da sempre risultavano stanziali transessuali, puttane, ed in più grosse zoccole di fogna ed animali sicuramente non rari. Se avessero lasciato finire di costruire, altri imprenditori avevano già investito denaro nella realizzazione di terziario, residenziale e tanto verde, ma questo era di secondaria importanza dal momento che qualcuno probabilmente aveva già deciso di costruire una lungimirante carriera sulla pelle degli altri. Il 2 aprile 2006, dopo dieci anni di battaglie giudiziarie, il sindaco di Bari Michele Emiliano, davanti ad una tavola imbandita, alla presenza di ambientalisti politicamente schierati  festeggiò l’abbattimento dei manufatti di Punta Perotti con un lungo ed applaudito brindisi. Noi eravamo lì e non esultammo perchè prendemmo atto che il lungomare sarebbe diventato quello che oggi è e che fa vergognare tutti noi, specialmente dopo il tramonto. Nessun imprenditore ha mai costruito senza autorizzazioni legittime e legali ma ad un magistrato non costa troppa fatica trovare la pagliuzza nell’occhio ed imbastire un processo come questo che si è concluso dopo quindici anni con la condanna del Governo italiano a risarcire i danni agli imprenditori Matarrese ed altri. Come sempre pantalone pagherà, quello che non condividiamo è che ancora una volta i magistrati che hanno sbagliato non pagano; questa sarebbe la Legge uguale per tutti? Assolti e confiscati, per capire e meditare!

«Mi chiamo Matarrese, Michele Matarrese». Per quanto poco originale, l'inizio è indubbiamente a effetto. Ma la colonna sonora non è quella di James Bond, bensì il crepitare sordo del cemento che implode, sgretolando i palazzi di Punta Perotti e il sogno imprenditoriale della più nota famiglia di costruttori pugliesi, scrive Massimiliano Scagliarini su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una storia tutta barese, perché Bari è la città in cui l'urbanistica fa e disfa fortune, costruisce carriere e crea (falsi) miti nel triangolo tra imprenditori, politica e magistratura. «Assolti e confiscati» è il libro che Michele Matarrese - «una vita dedicata a creare e realizzare, nel segno della serietà e per decenni, strade, ponti, ferrovie, stadi, strutture pubbliche e via dicendo», come si perita di evidenziare nella prefazione - manda in libreria per i tipi del Sole-24 Ore al prezzo (indubbiamente confindustriale) di 28 euro. È la storia, naturalmente dal punto di vista dei Matarrese, dei vent'anni trascorsi tra il primo via libera al complesso di Punta Perotti e la decisione con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo ha sancito che lo Stato italiano non avrebbe dovuto appropriarsi dei terreni su cui sorgevano i palazzoni abusivi. Un pasticcio all'italiana in cui Matarrese - lo ripetiamo, dal suo punto di vista - ha qualche briciolo di ragione: un costruttore progetta, investe, chiede un permesso, lo ottiene, inizia a costruire salvo poi subire un sequestro, ottenere un’assoluzione, poi un secondo sequestro e alla fine l'onta della demolizione pur senza aver riportato alcuna condanna. E dopo tre lustri, a Bruxelles, c'è un giudice che ordina allo Stato di risarcire. Anche per questo il sottotitolo del libro, che sarà presentato a Bari presso il Parco dei Principi (luogo che non può non far venire in mente la vicenda similissima di Lama Balice, con Vito Vasile e il suo «Imputato inconsapevole») è «una storia di straordinaria ingiustizia». Una storia infinita impastata di tribunali e di sofferenze - siamo, diciamolo ancora, dal punto di vista del costruttore -, ma anche di qualche passaggio divertente (una perizia giustificò il pregio ambientale dell'area di Punta Perotti con la presenza in loco di «merli, torni, pettirossi, passere scopaiole, capinere, silvie, occhicotti, magnanine, sterpazzole, cuculi (…) e altre specie di fosso che si uniscono alle stanziali»: prima dei palazzi lì c'erano prostitute e sfasciacarrozze) e di molti particolari inediti, tipo l’esposto inviato al Csm contro i magistrati baresi o anche la lunga lettera al giudice Maria Mitola che per prima aveva disposto il sequestro. Rimasti, l’uno e l’altra, senza risposta. Il libro, la cui tesi è che in molti - a partire dal sindaco di Bari, Michele Emiliano - hanno costruito una carriera sulla demolizione dei palazzi, è costruito su documenti e ritagli di giornale.

Sono 364 le pagine che separano la costruzione dei palazzi di “Punta Perotti” dalla sentenza con cui la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) condanna l’Italia a un risarcimento danni milionario, in favore delle imprese costruttrici, scrive Corato Live. In "Assolti e Confiscati”, il noto costruttore barese Michele Matarrese ripercorre le tappe di una querelle infinita, fra lunghi strascichi giudiziari, inevitabili implicazioni politiche e giuridiche. Le 364 pagine di “Assolti e Confiscati”, volume a firma di Michele Matarrese, con cui il noto costruttore barese ripercorre le tappe di una querelle infinita, fra lunghi strascichi giudiziari, inevitabili implicazioni politiche e spinose questioni giuridiche. Insomma, quella cortina di nebbia che ha avvolto i palazzi eretti a sud di Bari nel ’95 e abbattuti nel 2006, meglio noti come “saracinesca” o “eco-mostro”. Il testo, uscito nello scorso maggio per i tipi de “Il Sole 24 Ore”, è stato presentato nel pomeriggio di martedì scorso presso il Corato Executive Center, in un meeting organizzato dal Rotary di Corato, Bisceglie e Molfetta, con l’Associazione Imprenditori Coratini. Per l’occasione Matarrese – accompagnato da Marco, uno dei figli, e dal cognato, l’ex senatore Mario Greco, già governatore del distretto Rotary 2120 – ha tracciato la “sua” ricostruzione della storia di “Punta Perotti”, fra chiaroscuri e “perché” irrisolti. Una storia che è anche un pezzo importante della storia di Bari e dell’Italia. Famosa o famigerata, a seconda dei punti di vista. Punto nodale del libro la confisca di fabbricati e suoli disposta dalla Cassazione, nonostante il processo penale si sia concluso con l’assoluzione di tutti i soggetti coinvolti dalle accuse di abuso edilizio, assolti perché “il fatto non costituisce reato”. Per la Cassazione, infatti, gli imputati sono incorsi in un errore scusabile nell’applicazione della legge, ciononostante fu disposta la confisca che, per la CEDU, non sarebbe dovuta seguire all’assoluzione, perché «arbitraria e senza alcuna base legale». Risultato: violazione del dettato della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, in due punti, quello che tutela la proprietà privata e quello per cui nessuna pena può essere irrogata senza una legge che, previamente, preveda il fatto come reato. E la conseguente condanna dell’Italia al risarcimento di 49 mln di euro. «Quello che è accaduto non doveva accadere nella nostra Italia, perché è stato un danno alla collettività in senso ampio, qualunque siano le valutazioni di ciascuno di noi», così il presidente dei rotariani coratini, Michelangelo De Benedittis, nel suo indirizzo di saluto. A rappresentare i  Rotary Club che hanno patrocinato l'iniziativa, oltre al'avvocato De Benedittis, c'erano i suoi omologhi, molti soci e Michele Loizzo, delegato dell'attuale governatore distrettuale. Dopo la rituale introduzione rotariana, a stretto giro il presidente dell’AIC, Franco Squeo, ha stigmatizzato le lungaggini di quella vicenda, gli innumerevoli organismi e autorità coinvolte, le norme poco chiare e la scarsa certezza del diritto. «Chi è il colpevole?», si è chiesto Squeo. Di odissea ha parlato l’autore del libro, «anche se non vorrei essere un altro Omero», che nel lungo intervento non ha elemosinato strali a chicchessia, dai magistrati ai politici di ogni dove e colore. «Per scrivere ho atteso l’esito del ricorso alla Corte di Strasburgo e nel libro ho scritto molti perché, a cominciare dal perché il Perotti è stato abbattuto se c’era un ricorso a Strasburgo? Ad alcuni perché ho trovato risposta, per gli altri ci vuole la volontà politica e giudiziaria di voler andare in fondo. Finora ho visto solo la volontà di coprire le malefatte», ha dichiarato Matarrese. Nel suo j’accuse a tutto tondo, Michele Matarrese non ha risparmiato l’omonimo sindaco di Bari, Emiliano. A detta dell’ingegnere ci fu una bozza di transazione, inviata il 25 marzo 2005 al Comune, «che io non volevo firmare manco pazzo, perché troppo onerosa per l’impresa», bozza di cui «io sto ancora aspettando la risposta». Matarrese, poi, ha svelato alcuni retroscena che coinvolgerebbero addirittura il Quirinale. I progettisti del complesso residenziale abbattuto erano in origine gli architetti Chiaia e Napolitano, il compianto fratello del Presidente della Repubblica. «In un incontro al Quirinale – ha riferito il costruttore – come Cavaliere del Lavoro, dissi al Presidente ‘io sono quello del Perotti’, lui mi strinse il braccio e disse "mio fratello ha sofferto molto"». Fra i “perché” in attesa di risposta, in cima all’elenco di Matarrese ce n’è uno che chiamerebbe in causa l’operato della magistratura. «Noi abbiamo iniziato a costruire nel gennaio ’95, piano per piano, la prima denuncia arriva nell’aprile del ’96. Non c’è mai stata una iscrizione nel registro degli indagati, nonostante le verifiche in Procura del nostro legale, e noi andavamo avanti tranquilli. Fino al 17 marzo del ‘97 in cui ci fu l’iscrizione nel registro degli indagati e l’emanazione dell’ordine di sequestro. Se la Procura era di fronte al cantiere – si è chiesto l’imprenditore – e dalle finestre avevano la perfetta visione del cantiere, perché ci fanno arrivare al 13° piano, dopo due anni, per sequestrare? Perché?». Nell’elenco bipartisan è la volta dell’ex ministro dell’Economia, Giulio Tremonti (PdL), «che ha remato contro, quello che ha fatto è spettacolare» ha chiosato Matarrese fra il serio e il faceto, inanellando poi una serie di dettagli, fra gli emendamenti presentati da Tremonti e gli incontri con Gianni Letta, allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Dalla presentazione del suo “Assolti e Confiscati”, il testo di Michele Matarrese è apparso come una sorta di diario o reportage sull’annosa vicenda di Punta Perotti, dal punto di vista dell’imprenditore, naturalmente. Con la pronuncia della Corte di Strasburgo e il relativo risarcimento danni dovuto dallo Stato alle imprese edili ricorrenti, tuttavia, potrebbe non essere calato il sipario sulla “saracinesca” abbattuta. All’orizzonte si affaccia la possibilità – ventilata da Matarrese e rigettata dall’attuale Sindaco Emiliano in un recente duello a singolar tenzone, a colpi di conferenze stampa e lettere aperte – che lo Stato possa rivalersi sul Comune di Bari. In quel caso, la parola "fine" dovrà attendere ancora.

Altra storia è quella dei Cavalotti a Palermo, dove per colpire qualcuno basta brandire l’accusa di mafia e mafiosità. Di loro nessuno ne parla, se non in modo negativo. Bene. Lo faccio io, Antonio Giangrande. Cerchiamo di fare chiarezza e facciamo parlare le carte, a scanso di conseguenze reazionarie da parte di chi si sente defraudato della voce della verità e della giustizia.

Mafia, assolti a Palermo tre fratelli imprenditori.

I tre fratelli imprenditori, Salvatore Vito, Gaetano e Vincenzo Cavallotti, sono stati assolti nel pomeriggio del 6 dicembre 2011 dall’accusa di concorso in associazione mafiosa: la sentenza è della I sezione della Corte d’appello di Palermo, presieduta da Salvatore Di Vitale, che ha accolto le tesi dei difensori. I Cavallotti erano stati arrestati nel 1998, nell’ambito dell’operazione Grande oriente, ed assolti nel 2001. Successivamente, la Corte d’appello aveva ribaltato la decisione e condannato i Cavallotti a pene comprese fra quattro anni e quattro anni e due mesi. La Cassazione aveva poi annullato la sentenza con rinvio, ordinando un nuovo processo. Gli imputati sono di Belmonte Mezzagno (Pa) e sono titolari della Comest, un’azienda che si è occupata della metanizzazione di una serie di Comuni siciliani. L’accusa, basata anche sulla lettura dei pizzini del boss Bernardo Provenzano, consegnati dal confidente Luigi Ilardo, sosteneva che i Cavallotti fossero stati complici dei boss e che avessero ottenuto appalti e commesse grazie al loro essere titolari di un’impresa di mafia. Secondo i giudici, però, sarebbero stati vittime del racket mafioso.

Diventa definitiva l'assoluzione per tre imprenditori, scrive Riccardo Arena su “Il Giornale di Sicilia” del 14 maggio 2012. Ora l'assoluzione è irrevocabile: la Procura generale non ha impugnato la sentenza della Corte d'appello del 6 dicembre 2011, che è così passata in giudicato. «Assolti perché il fatto non sussiste». È per questo che i fratelli imprenditori di Belmonte Mezzagno Salvatore Vito, Gaetano e Vincenzo Cavallotti sono stati definitivamente assolti dall'accusa di concorso in associazione mafiosa. Per arrivare al verdetto finale ci sono voluti quattro processi e 13 anni: la vicenda giudiziaria era iniziata con l'inchiesta «Grande Oriente» del 1998. A passare in giudicato è stata la decisione della prima sezione della Corte d'appello. I Cavallotti erano stati assolti già in tribunale nel 2001, ma poi un'altra sezione della Corte d'appello li aveva condannati a pene comprese fra 4 anni e 4 anni e 2 mesi. La Cassazione, il 18 dicembre 2004, aveva annullato con rinvio la sentenza ed era stato celebrato un altro dibattimento, rallentato anche da una questione risolta dalla Corte costituzionale, che ha dichiarato illegittime le norme sull'inappellabilità delle assoluzioni di primo grado. Cinque mesi fa la sentenza finale, nei giorni scorsi il passaggio in giudicato. Salvatore Vito Cavallotti era difeso dagli avvocati Franco Inzerillo e Ernesto D'Angelo; Gaetano dagli avvocati Gioacchino Sbacchi e Franco Coppi; Vincenzo dagli avvocati Francesca Romana De Vita e Marzia Fragalà, subentrata al padre, Enzo, ucciso nel febbraio dell'anno scorso. Nei confronti dei Cavallotti rimane però il sequestro dei beni, su cui la sezione misure di prevenzione del Tribunale, presieduta da Silvana Saguto, si è riservata la decisione finale: confisca o restituzione. L'assoluzione nel processo penale è un buon viatico per i «prevenuti», ma i due procedimenti camminano su piani diversi e hanno presupposti differenti. Dunque I 'applicazione di una misura di prevenzione non può essere automaticamente esclusa, in virtù dell'assoluzione. I Cavallotti erano titolari della Comest, un'azienda che aveva vinto una serie di appalti per realizzare impianti di metanizzazione in moltissimi paesi dell'Isola. Erano imprenditori vittime di estorsioni o «a disposizione» e complici? Vicini a Provenzano e per questo favoriti, o costretti a sottostare alle regole mafiose? Ora l'accoglimento delle tesi della difesa e dunque l'affermazione della totale estraneità degli imputati a Cosa nostra.

Da quanto si denota, sembra chiaro che gli stessi magistrati hanno inteso la condotta dei Cavallotti come quella di vittime di mafia. Eppure, nonostante ciò, è lo Stato a far più male a loro.

La sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo il 19 ottobre 2011 ha confiscato il patrimonio dei fratelli Salvatore Vito, Gaetano e Vincenzo Cavallotti, imprenditori di Belmonte Mezzagno, processati e assolti, dopo alterne vicende giudiziarie, perché  ritenuti vicini al boss Bernardo Provenzano. I beni – le aziende Comest e Imet, diversi immobili aziendali e personali e autoveicoli -, passati ora al patrimonio dello Stato, ammontano a oltre 20 milioni di euro. I giudici hanno ritenuto i Cavallotti ''socialmente pericolosi'' e hanno applicato loro anche la misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza per due anni. La legge distingue il procedimento di prevenzione dall'esito del processo penale, quindi la misura personale e patrimoniale può essere applicata in presenza di indizi di pericolosità sociale anche se il soggetto è stato assolto.

A chi credere? Angeli o demoni? E poi perché due valutazioni diverse e contrastanti?

La sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo ha confiscato il patrimonio dei fratelli Salvatore Vito, Gaetano e Vincenzo Cavallotti, imprenditori di Belmonte Mezzagno, processati e assolti, dopo alterne vicende giudiziarie, perchè ritenuti vicini al boss Bernardo Provenzano. I beni - le aziende Comest e Imet, diversi immobili aziendali e personali e autoveicoli - passati ora al patrimonio dello Stato, ammontano a oltre 20 milioni di euro. I giudici hanno ritenuto i Cavallotti “socialmente pericolosi” e hanno applicato loro anche la misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza per due anni. La legge distingue il procedimento di prevenzione dall'esito del processo penale, quindi la misura personale e patrimoniale può essere applicata in presenza di indizi di pericolosità sociale anche se il soggetto è stato assolto.  I Cavallotti erano stati arrestati nel 1998, nell'ambito dell'operazione Grande oriente, ed assolti nel 2001. Successivamente, la Corte d'appello aveva ribaltato la decisione e condannato i Cavallotti a pene comprese fra quattro anni e quattro anni e due mesi. La Cassazione aveva poi annullato la sentenza con rinvio, ordinando un nuovo processo. Quindi sono stati assolti nel dicembre 2010 dall'accusa di concorso in associazione mafiosa. L'accusa contro di loro era basata anche sulla lettura dei 'pizzini' del boss Bernardo Provenzano, consegnati dal confidente Luigi Ilardo, e sosteneva che i Cavallotti fossero stati complici dei boss e che avessero ottenuto appalti e commesse grazie al loro essere titolari di un'impresa di mafia. Il giudice che li scagionò in primo grado invece accolse la tesi difensiva secondo la quale i tre fratelli sarebbero stati citati nei pizzini di Provenzano perchè vittime del racket. Mentre nella seconda assoluzione in appello si sostenne che nei biglietti di Provenzano si parlava genericamente dei Cavallotti e non era stato possibile accertare le responsabilità individuali.

«Sono soggetti di pericolosità sociale, inseriti nell'ambito dell'imprenditoria colluso-mafiosa», scrive “La Repubblica” palesemente giustizialista e faziosa. Il tribunale, sezione misure di prevenzione, dispone la confisca di beni per 20 milioni e l'obbligo di soggiorno per due anni nel comune di residenza per i fratelli Salvatore Vito, Vincenzo e Gaetano Cavallotti, i re del metano di Belmonte Mezzagno. La confisca riguarda le quote di Comest e Imet, la Eurocostruzioni, la Siciliana Servizi di Belmonte Mezzagno, auto e diversi appezzamenti di terreni sparsi in Sicilia.I fratelli di Belmonte sono passati indenni attraverso il processo Grande Oriente per associazione mafiosa, dopo l'arresto nel 1998, e poi assolti definitivamente nel 2010 dalla corte d'Appello, decidendo su rinvio della Cassazione. La loro assoluzione in primo grado, nel 2001, aveva fatto esplodere la polemica. I Cavallotti vennero giudicati vittime di Cosa nostra per essere stati costretti a pagare la "messa a posto". Dopo l'arresto, invece, erano accusati di avere turbato le gare di mezza Sicilia con minacce e violenze. Dalle indagini era anche emerso che boss del calibro di Benedetto Spera e Bernardo Provenzano avrebbero assicurato l'aggiudicazione dei lavori e l'apertura di cantieri in territori controllati da diverse famiglie mafiose. Furono anche studiati alcuni pizzini di Provenzano, consegnati alla Procura dal confidente Luigi Ilardo, in cui il boss si mostrava interessato alle imprese dei Cavallotti. Dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Angelo Siino i magistrati rilevarono anche che Vito Cavallotti, dall'86 al '91, «a Belmonte Mezzagno era personaggio di rilievo e aveva fatto regolarmente parte dell'accordo provincia pagando direttamente, aggiudicandosi dei lavori e facendo delle cortesie» Si evince da quest’articolo che la piega data è fuorviante.

Di taglio diverso, invece è quest’altro articolo. Giusto per dimostrare come si può influenzare il giudizio del lettore. Confiscati i beni dei Cavallotti, "Le loro aziende erano al servizio di Cosa nostra", scrive “La Gazzetta di Sicilia” il 19 ottobre 2011. Nonostante l'assoluzione dei tre "prevenuti" nel processo penale, il patrimonio dei fratelli Salvatore Vito, Gaetano e Vincenzo Cavallotti è stato confiscato dalla sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Si tratta di imprenditori di Belmonte Mezzagno, paese a pochi chilometri dal capoluogo dell'Isola: furono assistiti, all'inizio della loro vicenda penale, da un loro concittadino, l'avvocato Saverio Romano, attuale ministro delle Politiche agricole. Passano così allo Stato beni per circa 20 milioni: i giudici hanno ritenuto i Cavallotti e le loro aziende, la Comest in particolare, al servizio di Cosa nostra e del boss Bernardo Provenzano. La misura di prevenzione è stata applicata nonostante l'assoluzione, perché il procedimento ha presupposti diversi, in particolare la "pericolosità sociale": e per questo motivo ai Cavallotti è stata imposta anche la sorveglianza speciale per due anni. I Cavallotti furono coinvolti, nel 1998, nell'operazione Grande Oriente, contro i fiancheggiatori dell'allora latitante Provenzano: fu in questo ambito che venne fuori - secondo le dichiarazioni del colonnello Michele Riccio - che Provenzano si sarebbe potuto catturare già nel 1995; la circostanza è oggi oggetto del processo Mori. Gli elementi contro i tre fratelli furono individuati grazie ai pizzini di Provenzano, consegnati a Riccio dal confidente Luigi Ilardo, l'uomo che aveva dato indicazioni sulla presenza del superlatitante a un summit tenuto a Mezzojuso (Palermo) il 31 ottobre di sedici anni fa. Ma il blitz che sarebbe stato sollecitato da Riccio non venne organizzato dal Ros del generale Mario Mori e del colonnello Mauro Obinu, oggi entrambi imputati, per questo motivo, di favoreggiamento aggravato. I Cavallotti in primo grado furono assolti; la Corte d'appello invece li condannò, con l'accusa di concorso in associazione mafiosa, e la Cassazione annullò tutto, ordinando un quarto processo, concluso l'anno scorso con l'assoluzione, non più impugnata dalla Procura generale di Palermo e dunque divenuta definitiva. La Comest, come la Gas di cui era socio occulto Vito Ciancimino, si occupò negli anni '80 e '90 della metanizzazione di molti Comuni siciliani. Da imputati i Cavallotti si sono sempre difesi sostenendo di essere vittime del racket. Ora sono divenuti "prevenuti" e contro di loro potrebbe giocare il fatto che, al di là dell'incertezza degli elementi probatori sulla loro responsabilità, l'ultima sentenza assolutoria ha tenuto conto del fatto che non era possibile individuare con certezza a quale dei Cavallotti si riferissero i pentiti. Il collaboratore di giustizia Francesco Campanella, in particolare, aveva fatto confusione e, nel corso di una "ricognizione personale" fatta nel corso di un'udienza, in videoconferenza, aveva indicato come personaggio in rapporti con i boss, sbagliandone il nome di battesimo, un quarto fratello Cavallotti, in realtà non coinvolto nel processo.

Ma non finisce qui: assolti e confiscati? No, la storia continua. La seconda parte parla ancora di arresti, sequestri e confische. Per tutta la stampa avevano costituito una ditta fantasma per occultare 14 milioni di beni e sottrarli alla confisca e soprattutto rimanere in attività. Con queste accuse i tre fratelli Cavallotti, i re del metano di Belmonte Mezzagno, sono stati arrestati per la seconda volta. Considerati vicino al boss Bernardo Provenzano erano stati processati e assolti su rinvio della Cassazione. Avevano però subito la confisca dell'azienda e del patrimonio.

Nuovo arresto per i re del metano ditta ombra per sfuggire alle confische, scrive faziosamente “La Repubblica” il 25 febbraio 2012. Finiscono agli arresti domiciliari i tre fratelli Vincenzo, Gaetano e Giovanni Cavallotti, i re del metano di Belmonte Mezzagno. I finanzieri del nucleo di polizia tributaria della Finanza li hanno raggiunti ieri nelle loro case per notificargli l'ordinanza emessa dal gip del tribunale di Termini Imerese. Un provvedimento, quello contro i tre fratelli ritenuti in passato anche vicini al capo di Cosa nostra Bernardo Provenzano, che ha disposto anche un maxi sequestro di beni. I sigilli sono stati messi alla società "Enoimpianti plus" di Milazzo, che si occupa della realizzazione di impianti di metanizzazione, ma anche a un complesso aziendale. L' accusa è di trasferimento fraudolento di valori per 14 milioni di euro. Vincenzo, Gaetano, Giovanni Cavallotti, di 56, 53 e 47 anni, già nello scorso ottobre avevano subito una pesante confisca. Il tribunale, sezione misure di prevenzione, aveva disposto la confisca di beni per 20 milioni e l' obbligo di soggiorno per due anni nel comune di residenza peri fratelli. «Sono soggetti di pericolosità sociale, inseriti nell' ambito dell' imprenditoria colluso-mafiosa», hanno scritto i magistrati. La confisca colpì le quote di Comest e Imet, la Eurocostruzioni, la Siciliana Servizi di Belmonte Mezzagno, auto e diversi appezzamenti di terreni sparsi in Sicilia. Le indagini delle fiamme gialle, adesso, avrebbero accertato che i tre, dopo la misura di prevenzione e per proseguire la loro attività imprenditoriale negli stessi settori, hanno provveduto a costituire una nuova società, questa volta nella provincia di Messina, intestandola fittiziamente a propri familiari ma gestendola direttamente. Per questo sono stati anche denunciati cinque parenti dei Cavallotti per concorso nello stesso reato. Si tratta dei due figli di Vincenzo, dei due figli di Gaetano, e la moglie di Giovanni. Trai beni sequestrati anche 12 terreni a Milazzo, 16 macchine e 37 autocarri. «Siamo dei perseguitati dalla giustizia», si sono limitati a dire ai finanzieri i tre fratelli che sono stati raggiunti a Belmonte e in Campania, dove si trovava Giovanni. I fratelli di Belmonte erano passati indenni attraverso il processo Grande Oriente per associazione mafiosa, dopo l' arresto nel 1998, e poi assolti definitivamente nel 2010 dalla corte d' Appello, che aveva deciso su rinvio della Cassazione. La loro assoluzione in primo grado, nel 2001, aveva fatto esplodere la polemica. I Cavallotti vennero giudicati vittime di Cosa nostra per essere stati costretti a pagare la "messa a posto". Dopo l' arresto, invece, erano accusati di avere turbato le gare di mezza Sicilia con minacce e violenze. Dalle indagini era anche emerso che boss del calibro di Benedetto Spera e Bernardo Provenzano avrebbero assicurato l' aggiudicazione dei lavori e l' apertura di cantieri in territori controllati da diverse famiglie mafiose. Furono anche studiati alcuni pizzini di Provenzano, consegnati alla Procura dal confidente Luigi Ilardo, in cui il boss si mostrava interessato alle imprese dei Cavallotti. Dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Angelo Siino i magistrati rilevarono anche che Vito Cavallotti, dall' 86 al ' 91, «a Belmonte Mezzagno era personaggio di rilievo e aveva fatto regolarmente parte dell' accordo provincia pagando direttamente, aggiudicandosi dei lavori e facendo delle cortesie».

Dopo il sequestro, scattano gli arresti per i fratelli Cavallotti, gli imprenditori palermitani attivi anche in provincia di Messina, in particolare a Milazzo dove lo scorso 13 gennaio 2012 la Guardia di Finanza ha messo i sigilli alla Euroimpianti, scrive “Oggi Milazzo” il 24 febbraio 2012. Oggi le fiamme gialle hanno posto sotto sequestro l'intero patrimonio della famiglia e posto ai domiciliari tre persone e denunciate altre cinque. Il provvedimento è stato emesso dal gip di Termini Imerese, su richiesta del sostituto procuratore Francesco Gualtieri. I Cavallotti sono accusati di trasferimento fraudolento di valori. Le Fiamme gialle, nel corso dell'operazione, hanno messo i sigilli anche a una società operante nel settore della realizzazione di impianti di metanizzazione. Nell'ambito dello stesso provvedimento è scattato il sequestro anche per i beni già sotto sigilli dal mese scorso. Sotto chiave quindi la Euroimpianti, con sede a Milazzo specializzata nelle imprese pubbliche per il trasporto di gas, 12 terreni ricadenti nel comune mamertino, 16 autoveicoli e 37 autocarri. Sottoposta a sequestro patrimoniale anche la Imest, mentre già nell'ottobre dello scorso anno era stata confiscata la Comest. Si tratta di sigle attive in tutta la Sicilia, ma anche in Calabria ed Abruzzo, vincitrici di parecchie commesse pubbliche per la metanizzazione dei comuni. Beni riconducibili, secondo gli investigatori, ai fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno, paese d'origine del politico Saverio Romani.  I fratelli Salvatore Vito, Gaetano e Francesco. Cavallotti sono, secondo gli inquirenti, legati alla criminalità organizzata facente capo a boss del calibro di Spera e Provenzano. Arrestati poi prosciolti nell'operazione Grande Oriente del 1998, nell'ottobre 2011 viene loro confiscato il patrimonio da 20 milioni di euro. Ora il nuovo sequestro: secondo gli investigatori infatti dopo la confisca avevano avviato nuove imprese, intestate ai figli, che malgrado il modesto avviamento commerciale riuscivano ad aggiudicarsi importanti commesse pubbliche pressoché immediatamente.  A Milazzo la Euroimpianti ha partecipato nel 2009 alla gara di ammodernamento della rete del metano, insieme alla Eurovega dell'orlandino Mangano.

Da notare che a proposito della mafiosità dei Cavallotti vi è sempre una sentenza definitiva di assoluzione, mentre gli articoli parlano di atti adottati dai magistrati inquirenti. Negli articoli, altresì, come sempre sulle notizie di cronaca, manca la voce della difesa.

Altro esempio di cattiva pratica giornalistica è l’articolo che segue: Così la mafia sbarca a Novara. Per loro: puttana per i pubblici ministeri; puttana per tutti….e puttana per sempre. Fa niente se si parla di gente assolta e, comunque, non ancora condannata dai magistrati. Ma da qualcuno preventivamente condannata …e come!

Il caso dell'impresa dei fratelli Cavallotti: vicini a Provenzano, lavoravano in città, scritto da Alessandro Barbaglia. Articolo tratto da Tribuna Novarese. «E adesso dire che siamo un’isola felice in cui la mafia non riesce ad arrivare sarà quantomeno complesso. E già perché la Euro Impianti Plus, la ditta di Milazzo che su Novara (e in mezza Italia) nel settembre 2011 vinse l’appalto per la manutenzione degli impianti dell’Italgas da gennaio è stata posta in amministrazione giudiziaria per sequestro antimafia. Ma dove? A Novara di Sicilia? No no, a Novara casa nostra. Una cosa non da poco visto che agli imprenditori titolari della Euro Impianti Plus, i fratelli Gaetano e Vincenzo Cavallotti (già processati e assolti nel 2010 dall’accusa di concorso in associazione mafiosa perché ritenuti vicini al boss Bernardo Provenzano), la sezione di prevenzione del tribunale di Palermo ha confiscato complessivamente un patrimonio da 20 milioni di euro. Un sequestro che ha portato l’intera ditta ad essere posta in amministrazione giudiziaria, organizzata e gestita, per conto dello Stato, da uno studio legale di Palermo con clamorosi sviluppi che hanno avuto risvolti anche su Novara. Ma la Euro Impianti Plus dei fratelli Cavallotti, che cos’è e come arriva a Novara? Costituita nel 2006 dalle ceneri di altre ditte finite sotto la lente degli investigatori, la Euro Impianti Plus arriva a Novara nel settembre 2011 quando, come detto, vince l’appalto di manutenzione di Italgas. I titolari sono i fratelli Cavallotti: arrestati nel 1998 nell’ambito dell’operazione Grande Oriente con cui venne colpita la cosca dell’allora latitante Bernardo Provenzano vennero assolti in primo grado, condannati in secondo per finire rimandati ad altro giudizio terminato con una seconda assoluzione nel 2010. Un processo strano: i nomi dei fratelli Cavallotti comparivano oggettivamente sui pizzini di Provenzano; secondo l’accusa quei pizzini dimostravano che i Cavallotti erano complici di Provenzano per conto del quale ottenevano commesse e appalti in Sicilia forti del loro essere titolari di un’impresa di mafia, secondo il giudice però i Cavallotti venivano citati nei pizzini genericamente, e senza che se ne potessero accertare responsabilità, al limite solo in quanto vittime di racket. Fatto sta che nel 2011 i Cavallotti con la Euro Impianti Plus vincono l’appalto a Novara per la manutenzione Italgas. Il primo lavoro di grande visibilità di cui devono occuparsi sulla città è l’allaccio all’Inps per installare una caldaia a metano in viale Manzoni. Un lavoro grosso: bisogna chiudere un pezzo di viale Manzoni e modificare la viabilità. Non solo, in contemporanea, analoghi interventi, dovevano essere fatti dalla Euro Impianti Plus in largo Don Minzoni e via Gnifetti. Ed è allora, a marzo, che si scopre quello che è successo a gennaio in Sicilia e che solo oggi è palese anche a Novara: la Euro Impianti Plus non può eseguire i lavori direttamente, li fa fare a una ditta del territorio autorizzata e controllata dall’amministrazione giudiziaria che ha, di fatto, rilevato il Cda della ditta siciliana. Dopo i sequestri di gennaio e il passaggio dei beni allo Stato le opzioni erano due: far saltare la Euro Impianti Plus e tutti gli appalti vinti o assumere la guida della ditta ricollocando i lavori a imprenditori “puliti” che operavano già sui territori per conto della Euro  Impianti Plus. Su Novara l’amministrazione giudiziaria opta per questa ipotesi e così la ditta che affittava i capannoni come base per le Euro Impianti Plus a San Pietro Mosezzo, Edil Penta’s di Carmine Penta, viene vagliata e considerata idonea (dopo consegna di tutta la documentazione necessaria e di certificazioni antimafia) per lavorare come ramo sano nel novarese. Ecco perché i lavori in viale Manzoni proprio dagli uomini della ditta di Penta vennero eseguiti. Ed ecco che si scopre come una ditta poi finita in amministrazione giudiziaria per sequestro di antimafia avesse vinto appalti per lavorare a Novara. Le indagini delle Fiamme Gialle che hanno portato al sequestro della Euro Impianti Plus nel gennaio scorso sono partite dall’ennesimo, sospetto, aumento di capitale (il terzo in poco tempo). L’accusa per i titolari è stata di trasferimento fraudolento di valori. Da lì è scattato il sequestro. Resta una considerazione: è questa un’altra dimostrazione di come la nostra città sappia reagire e scovare le ditte in odore di malavita e sostituirle con altre sane del territorio? No: a Novara nessuno si è accorto di nulla, né dello sbarco della ditta dei fratelli Cavallotti né della loro sostituzione dopo il sequestro antimafia. L’intera operazione è stata gestita da chi, evidentemente, queste dinamiche le ha viste, le forze dell’ordine siciliane, e ha sentito una forte puzza. Di gas, ovviamente. Ma a Milazzo cosa dicono? La Euro Impianti Plus conferma tutta la ricostruzione dei fatti? E’ effettivamente in amministrazione giudiziaria per ragioni di antimafia? Se si chiamano gli uffici dell’impresa, dei fratelli Cavallotti si parla senza alcun problema. “Confermo  quello che dice lei : la Euro Impianti Plus è da gennaio in regime di amministrazione giudiziaria per un sequestro di beni che ha coinvolto il precedente comitato di amministrazione”. Quello guidato da Vito e Gaetano Cavallotti? “Esattamente”. Sequestro avvenuto per ragioni di antimafia. “Io sul tema non posso dire nulla. L’amministrazione giudiziaria ha rinnovato interamente il Cda di Euro Impianti Plus e il nuovo corso sta lavorando sui territori tempestivamente e in maniera eccellente”. Sui territori? Perché oltre a Novara dove opera la “nuova” Euro Impianti plus dell’amministrazione giudiziaria? “Novara, San Remo, Chiavari, Carrara, Napoli, Caltanissetta ed Enna”. Tutti appalti vinti dalla “vecchia” Euro Impianti Plus. Insomma, tutti appalti vinti dai fratelli Cavallotti. “E’ così”. E non è strano? Non è strano che una ditta che poi finisce sotto sequestro vinca con Italgas appalti di manutenzione in tutta Italia? “Io non ci vedo nulla di strano, per vincere quelle gare bisogna rispettare requisiti e consegnare documentazioni che vengono vagliate attentamente. Evidentemente se quegli appalti sono stati vinti è perché c’erano i requisiti”. Poi però il sequestro di gennaio cambia questa prospettiva. “Del sequestro, ripeto, non sono autorizzato a parlare. Posso dire che l’intervento dell’amministrazione giudiziaria ha permesso di portare avanti i cantieri in maniera corretta e tempestiva nonostante le vicende giudiziarie”. Senta, l’appalto di Novara quanto vale? “Non posso dirglielo, non sono notizie pubbliche”. Cioè, importo, numero e la durata di validità del contratto sono notizie che non possiamo avere? “Non sono notizie di dominio pubblico. Posso solo dire che questi contratti durano, solitamente un paio di anni”. E a Novara sono iniziati a settembre 2011? “Questo lo dice lei. Diciamo che l’aggiudicazione è sicuramente recente”.»

Detto questo: da Bari abbiamo iniziato ed a Bari finiamo l’inchiesta. La Corte di Appello di Bari ha revocato la confisca delle case di proprietà delle figlie di Antonio di Cosola, il boss barese capo dell’omonimo clan da alcuni mesi sottoposto al regime del 41 bis. Accogliendo il ricorso proposto dal difensore delle ragazze, l’avvocato Giuseppe Giulitto, contro la sentenza emessa dal Tribunale di Bari (sezione misure di prevenzione) nel gennaio 2012, i giudici del secondo grado hanno ordinato la restituzione dei beni alle figlie del boss, mai state coinvolte in indagini sulla criminalità organizzata. Si tratta di due appartamenti in via Regina Margherita a Ceglie del Campo, alla periferia di Bari. La Corte di Appello ha infatti ritenuto che una delle due figlie, oggi 30enne, "sia stata sempre estranea al nucleo famigliare di suo padre". Soltanto dopo il 2008, quando è stata confiscata la casa del boss, Antonio Di Cosola con la moglie e un altro figlio hanno abitato nell’appartamento di proprietà della giovane. L'altra figlia, di 27 anni, con "reddito lecito e dichiarato da lavoro dipendente", "nel 2006 si è allontanata dal suo nucleo famigliare e, dopo essere andata ad abitare con i nonni materni, ha acquistato da costoro (nel 2007, ndr) l’immobile" mediante un mutuo bancario. "Non si rilevano – concludono i giudici – indizi sufficienti che possano far ritenere che i beni oggetto di confisca siano in tutto o in parte frutto di attività illecite e ne costituiscano il reimpiego». Del resto, osserva la Corte di Appello richiamando sentenze della Cassazione, "la disciplina delle misure di prevenzione non ha e non può avere la finalità di sanzionare i terzi, tantomeno retroattivamente".

Questo a Bari. A Palermo le colpe dei padri, se di colpe si tratta, ricadono sempre sui figli.

MAI DIRE ANTIMAFIA. ROSY CANALE E GLI ALTRI.

La Mafia siamo noi, se non accondiscendenti con il potere, mentre l’Antimafia è solo lo Stato (Sic!).

Chi tocca i pm dell'antimafia finisce rovinato. Mentre Caselli, Ingroia, Woodcock e Di Matteo vengono osannati dalla stampa amica, il giornalista Jannuzzi per i suoi articoli è stato condannato e umiliato con il carcere, scrive Vittorio Sgarbi su “Il Giornale”. Viste le mille polemiche sulle minacce rivelate e diversamente valutate al pubblico ministero Nino Di Matteo, rifletto sulle limitazioni della parola e sulle intimidazioni di chi non voglia accettare di avere bisogno di eroi. C'è qualcosa che ricorda terribilmente le mode. Non molto tempo fa, «l'eroe» era Antonio Ingroia; è stato rapidamente dimenticato e messo da parte perché ha fatto l'errore di uscire dall'hortus conclusus di tutte le perfezioni - la magistratura - per entrare nell'inferno della politica, che lo ha travolto e cancellato. Per lui, allora, al di là della verità dei fatti, si sarebbe messo in piedi il «teatro degli affetti» che, immancabilmente, mette in scena il Fatto Quotidiano. Ecco pronto, infatti, il 12 gennaio, a Palermo, al cinema teatro Golden, con il titolo suggestivo «A che punto sono la mafia e l'antimafia», il sottotitolo «Noi stiamo con il pm Nino Di Matteo e con tutti i magistrati minacciati», gli attori Antonio Padellaro e Marco Travaglio, con la partecipazione speciale di Roberto Scarpinato, un po' fuori moda, ma di cui non si può dimenticare la memorabile fotografia di Letizia Battaglia, sulla copertina di un magazine, circondato da tre uomini di scorta con le pistole spianate. Può essere letta in due modi: come la rappresentazione del pericolo o come l'esibizione del rischio, ma so che, solo ipotizzandolo, sarò oggetto di insulti (letteralmente) e insinuazioni che hanno il solo obiettivo d'impormi di tacere o di piegarmi al «pensiero unico». Anch'io sono stato pesantemente minacciato, e sono stato sotto scorta, per avere denunciato, e questo nessuno può negarlo, gli sporchi interessi della mafia nella grottesca e criminale vicenda della falsa «energia pulita». Non conta che i fatti mi abbiano dato ragione, e non conta che mi siano arrivati teste di maiale, cani morti e lettere anonime. Io resto uno «stronzo» e non sono un magistrato. Per di più, non si sa perché, mi hanno costretto a dimettermi e hanno sciolto il Comune di cui ero sindaco senza il minimo indizio di «infiltrazioni della criminalità organizzata», sulla base di una vecchia inchiesta sulla sanità locale che riguarda una sola persona, e che meritava un processo individuale, peraltro in corso, con incerto esito. Io dovevo essere bloccato e infamato. E, per di più, non difeso. Eppure nessun sindaco in Sicilia ha fatto, ed è documentato, senza mezzi e senza solidarietà teatrali, quello che ho fatto io. In ogni caso, le minacce valgono solo se riguardano quelli che stanno dalla parte giusta, gli altri restano, con un procedimento mentale di stampo singolarmente mafioso, «infami». Così mi viene in mente un grande e controverso giornalista, dimenticato, vituperato, umiliato. Fuori dal coro, dalla parte sbagliata: Lino Jannuzzi, più o meno coetaneo di Caselli. Penso alle loro vite parallele. Caselli è arrivato alla pensione (con una liquidazione di 400mila euro e un appannaggio mensile di 8mila), onorato, celebrato, gratificato, in una lunga carriera nella quale non ha mai pagato per i suoi errori, trovando sempre qualcuno pronto a giustificarlo. Caselli santo, con la bianca aureola. E chi lo attacca è un nemico dello Stato, un complice della mafia o di un non meglio definito «potere», stranamente sempre destinato alla sconfitta. E Jannuzzi, pluricondannato, anche arrestato, solo per aver parlato. E, oggi isolato, costretto a cambiare casa per i debiti. Da un'altra parte gli incriticabili e intoccabili (pensiamo agli innumerevoli errori non solo di Caselli, ma di Di Pietro, Ingroia, Woodcock, De Magistris, tutte star, grazie a giornalisti compiacenti) che non hanno mai pagato per gli errori compiuti, talvolta gravissimi, come il letterale sequestro di persona, con carcerazioni ingiuste per valutazioni sbagliate. Il magistrato non paga l'errore, diretto e riconoscibile contro la persona. Il giornalista paga le critiche come per lesa maestà. Nella manipolazione dei fatti, un collega di Caselli, Lombardini, che si suicida dopo la visita a domicilio di Caselli e di altri quattro magistrati (con volo di Stato e scorte pagate), prima di morire lo ringrazia per la «correttezza dell'interrogatorio». Non c'è speranza. E c'è diffamazione per chi critica Caselli o Di Matteo, mentre c'è approvazione per chi, come Salvatore Borsellino, dietro il sangue del fratello morto, dichiara ripetutamente, insistentemente, che Napolitano è il garante dell'innominabile patto Stato-Mafia, anzi, della trattativa: «Abbiamo un capo dello Stato che da più di 20 anni copre la congiura del silenzio sui patti scellerati tra Cosa Nostra e le istituzioni». Per Borsellino, per Travaglio e per i pm antimafia, il presidente della Repubblica non è una istituzione che va rispettata, ma può essere insultato, considerato garante dell'intesa Stato-mafia. Caselli no. Non si può nominare se non per lodarlo. Per intanto Jannuzzi sta in una piccola casa di periferia avendo, dopo 60 anni di attività, «complice delle peggiori nefandezze compiute dal potere», appena i soldi per pagarsi l'affitto. Demonizzato, dimenticato, costretto a pagare centinaia di migliaia di euro per le sue responsabilità giornalistiche, con una sentenza definitiva di arresto, scontata tra carcere e arresti domiciliari fino all'estrema grazia del «complice» Napolitano. Qual è la sua colpa, punita dallo Stato? Avere criticato Caselli e tentato di difendere Andreotti. Questa è la libertà giornalistica in Italia.

E' tornata in libertà e ha parlato al Tg della Calabria, Rosy Canale, la fondatrice dell'associazione antimafia "Movimento delle donne di San Luca" arrestata nei giorni scorsi nell'ambito di un'inchiesta della Dda di Reggio Calabria, per malversazione e truffa (non per reati mafiosi). «A tutta questa grande montatura non c'è un riscontro oggettivo», ha detto Rosy, tornata in libertà il 31 dicembre scorso e intervistata dopo che il tribunale del riesame ha revocato l'ordinanza di custodia cautelare agli arresti domiciliari.«Non c'è un documento in sette faldoni e migliaia di pagine - ha detto la donna - e non c'è un documento che sia di riscontro a quelle che sono le accuse. Non esiste una minicar, non esiste una settimana bianca, non esistono i vestiti che loro dicono. Voglio le carte che riscontrano le loro accuse, queste carte non esistono». In merito ad una frase intercettata dagli investigatori mentre parla con la madre, Rosy Canale ha detto: «mia madre, in quella intercettazione, anche riassunta, non fa alcun riferimento al denaro del Movimento delle donne di San Luca. Se mia madre mi dice 'non spendere tanti soldi', questa è la frase, viene interpretato che sono quei soldi ma dove è scritto, dove è il riscontro». «Rosy Canale - ha proseguito - lo è tutt'oggi, è un personaggio scomodo perchè San Luca è quello che interessa che rimanga» come ora, «perchè fa comodo a tanti. Difendere San Luca significa toccare i fili e chi tocca i fili muore. Da una parte e dall'altra». «Alle donne di San Luca - ha concluso - dico di non credere ad una parola di quello che hanno letto».

Con tempismo non voluto, ieri avevo fatto questo post su uno spettacolo di Rosy Canale di cui mi era arrivata notizia ma oggi c’è un’altra notizia ben più grave: Rosy Canale è stata arrestata. Motivazione: ipotesi di truffa aggravata e peculato (non aggravate dalla condotta mafiosa), scrive Anna Bandettini su "La Repubblica". Un’accusa pesantissima e orrenda per una donna che era diventata bandiera della lotta delle donne contro la n’drangheta. Il recital di Rosy Canale si intitola Malaluna. Storie di ordinaria resistenza nella terra di nessuno il recital di e con Rosy Canale (diretta da Guglielmo Ferro) e racconta la sua vita, ovviamente a modo suo. Nata a Reggio Calabria, 40 anni, nel recital la Canale ripercorre quella che lei definisce la sua lotta contro la ‘ndrangheta. Nello spettacolo dice questo: che quando gestiva la discoteca Malaluna aveva ricevuto minacce, pestaggi (le rompono denti, un braccio, una mano, tre costole, il femore) per aver impedito di spacciare droga nel locale. I fatti risalgono al 2004. E’ obbligata a anni di riabilitazione, poi si trasferisce a New York. Nel 2007, dopo la strage di Duisburg in Germania – sei morti per una faida tra due cosche di San Luca – Rosy Canale decide di tornare in Calabria: lavora come volontaria nella scuola, “capisco che è da lì che le cose devono cambiare, dai bambini già vittime dell’ignoranza, dalle insegnanti remissive, dalla madri educate all’obbedienza”, dice in scena. E fonda il Movimento delle Donne di San Luca, esperienza che si chiude per mancanza di sotegno economico. Nel 2008 Rosy Canale ha vinto perfino il Premio per la Legalità del Comune di Locri e poco dopo decide di raccontare la sua storia a teatro. Ad ottobre il Progetto contro le Mafie organizzato da Andrée Ruth Shammah al Franco Parenti di Milano ospita il debutto del suo spettacolo Malaluna Storie di ordinaria resistenza nella terra di nessuno .Lo spettacolo era in tournèe in Italia; ieri al Teatro Morelli Cosenza, sarebbe dovuto andare anche a Bologna, Torino. Oggi l’arresto per ipotesi di truffa.

Rosy Canale, classe 72. Un metro e sessanta scarso di tenacia e di buona volontà è la fondatrice del Movimento donne San Luca e della Locride, è scritto sul suo portale. Rosy è la madre di Micol, una dolce brunetta di 18 anni, compagna di avventure. Rosy è una di quelle persone che non ce ne stanno più tante in giro. Una mosca bianca, una sognatrice, una credente!!! Lei lo sa bene e ci ride sopra…alcuni giorni di più di altri. Rosy è una che crede nelle regole, nei valori di una vita sana e cristiana. Crede che chiunque lavori meriti una ricompensa, un salario equo ai propri sforzi, e che forse gli spazzini dovrebbero guadagnare di più' degli avvocati. Senza forse…Crede che la politica debba essere al servizio del cittadino e non che il cittadino debba mantenere i porci della politica. Crede che la ndrangheta, la mafia, la camorra, la malavita tutta sia una conseguenza spesso e non la causa. Crede che i colpevoli debbano essere puniti e gli innocenti non più' perseguitati, criminalizzati, emarginati. Crede che la Calabria non uscirà dall'emergenza bisogno fin quando la gente non si organizzerà autonomamente sputando in faccia a chi li ha derubati e resi schiavi, che non sempre è la malavita. Non quella riconosciuta. Quella con i colletti bianchi, quelli della fascia grigia…Crede che quello è accaduto a San Luca con il movimento donne sia un'esperienza replicabile in tutti quei piccoli centri in cui la vita deve necessariamente ritornare ad essere vita e non più sopravvivenza. Crede nella forza unica delle donne. Crede nella minaccia dell'ignoranza e della superstizione. Crede che la madre dei cretini è sempre incinta, ma a questo mondo c'è spazio per tutti...Crede che è meglio trattare con uno ndranghetista che con un giornalista. Il secondo è molto più' spietato e delinquente del primo. Crede che la vera rivoluzione sia quella del bene. La vera vendetta quella dell'amore. La più grande punizione il silenzio. La più saggia risposta, talvolta, è quella che non si da. "Sono nata in un giorno di maggio a Reggio Calabria, il luogo al quale ero stata destinata, dove sarei dovuta crescere come mia madre, le mie nonne, le zie e tutte le altre donne della mia famiglia. Forse era scritto che lì sarei dovuta anche morire. Mia madre Lidia aveva trentasei anni: un parto tar- divo per una donna del Sud nei primi anni Settanta. Le sue sorelle e le cugine più giovani erano già sposate e madri da un pezzo, ma lei aveva inizialmente scelto il cammino della preghiera e della meditazione. Lidia era nata a Fiumara di Muro, un paese di campagna poco distante da Villa San Giovanni, la cittadina portuale dove ci s’imbarca verso la Sicilia. Penultima di sette figli, terza di tre sorelle, era quella più legata alla famiglia. Una donna esile, di piccola statura, con capelli lunghissimi che le scivolavano intrecciati lungo i fianchi. Ubbidiente, rispettosa e laboriosa. Di lei si diceva: «Bucca avi e parola no». Parla poco, ma al momento giusto. Lidia pregava, ricamava e nei pomeriggi della bella stagione passeggiava con le cugine fino al tabernacolo della Madonnina di fronte alla posta del paese. Sono ancora tra le sue foto più care quelle dove lei ragazza sorride poggiata al muretto di cinta, con in mano i fiori di lavanda e le roselline che portava in chiesa all’ora della funzione. Sfogliava la sua esistenza tra il convento delle suore e l’ultima stanza a sinistra oltre il salone con il pavimento in pietra, nella grande casa in via Tobruk. Finché incontrò mio padre. Sua madre, nonna Maria, era cresciuta con una zia senza figli. Un tempo era consuetudine: se in famiglia c’era una sorella sterile, uno dei nipoti avrebbe abitato con lei. Un’adozione all’interno dello stesso nucleo di parenti, senza carte né tribunali, che rafforzava i legami. Così accadde che una zia portò Maria a vivere con sé a Bovalino, sul mare, appena sotto San Luca. E lei divenne adulta alle pendici dell’Aspromonte. Lì imparò a pregare, a ricamare e a cucinare, come tutte le donne di quei luoghi. Conosceva il santuario di Polsi, mia nonna. Era così devota alla Madonna della Montagna che non perdeva occasione per invocarla e rivolgerle ringraziamenti. Mi faceva sedere sugli scaloni tra i due ingressi, dove l’aria era più fresca, per raccontarmi che ogni anno, da quando ne avesse memoria, i primi di settembre partiva a piedi di notte, il pane legato in un fazzoletto, e andava dalla « Vergine bella » con una comare di San Luca che l’aveva cresimata. Fin da piccola Maria aveva il compito di tenere in mano la torcia, nulla più che un ramo di limone con in cima una pezza di iuta legata stretta e im- bevuta nel catrame. Lo zio le camminava al fianco, ma era lei a guidare il gruppo, a segnalare le pietre grandi, i ruscelli freschi e le radici. « Dda puzza l’aiu ancora nto nasu », mi diceva. Le pareva di sentire ancora nelle narici l’odore urtante del catrame bruciato. Conosceva il cammino tra le rocce come la sua casa, e ridendo mi confessava a bassa voce che persino bendata avrebbe trovato la giusta direzione verso Polsi. Quel cammino si dipanava dentro di lei, prima che nei boschi dell’Aspromonte. Descriveva il rivolo di fiaccole in movimento nel nero fitto dei lecci che, come lucciole, si muovevano vibranti. I canti e le preghiere intonati lungo la strada dalle donne al bagliore leggero della luna. Molte facevano voto di camminare scalze fino al santuario, per poi raggiungere l’altare in ginocchio piangendo e pregando. Alcune strisciavano persino la lingua dall’ingresso della chiesa fino alla teca che custodisce la Santa Madre. Era la prima metà del Novecento." "IN QUESTO PERIODO STORICO PARTICOLARE E' UN ONORE ESSERE SULLE PRIME PAGINE DEI GIORNALI E, GRAZIE A DIO, SENZA AVER NE RUBATO NE UCCISO NESSUNO..." Rosy Canale

La popolare rivista svedese Dagens Nyheter, lunedì 31 ottobre 2011, ha dedicato la copertina ed un reportage di 16 pagine a Rosy Canale, alla sua storia personale, al suo impegno per l'affermazione della cultura della legalità e all'esperienza del Movimento donne San Luca. L'articolo è stato scritto magistralmente dal giornalista Peter Loewe, il quale era stato in visita a San Luca e a Polsi la scorsa estate, partecipando anche alla splendida festa della Madonna della Montagna del primo settembre. Una storia, quella documentata, decisamente fuori dagli schemi culturali del popolo svedese, così attento alle regole e al rispetto della vita in ogni senso. Purtroppo una realtà deprimente quella della malavita, uno status a cui ormai i calabresi ma anche gli italiani, tutti, non fanno più caso. Siamo assuefatti all'orrore, alla prevaricazione, al sopruso e all'illegalità diffusa. Viviamo nella normalità dell'orrido. E Corrado Alvaro profeticamente aveva colto, molti anni fa, lo stato d'animo che quelle dinamiche maligne e contorte avrebbero causato: la convinzione che vivere onestamente sia del tutto inutile! La Svezia si indigna, si meraviglia, si interroga di fronte ad una storia che per noi, italiani meridionali, è di normale amministrazione quotidiana. Noi, tiriamo a campare, o meglio a “compare”, alla ricerca di quale “amico” a cui votarci per poi esserne riconoscenti a vita per grazia ricevuta. - “Non sono le copertine dei giornali che cambiano la storia, ne ho avute altre, e purtroppo non è cambiato nulla. Certo è una grande soddisfazione essere nella prima pagina di un giornale internazionale e non per aver rubato, come molti, ma per aver cercato di costruire opportunità in questa terra dimenticata - dichiara Rosy Canale - . “Siamo disorientati e privi di riferimenti credibili. Molte istituzioni a cui ci siamo appellati più volte per ottenere delle risposte, sono proprio quelle che vivono in uno stato di collusione morale con ambienti malavitosi, divenendone anche il più delle volte “soci in affari”. La legalità è un tema attualissimo, ma del tutto controcorrente, scomodo, e non interessa a nessuno. Siamo in pieno Festival degli Orrori. Siparietti, ingiustizie, e danni contro la collettività sono stati ormai legittimati sotto gli occhi di intere popolazioni che invece di ribellarsi a tutto questo continuo dilapidare umano, morale ed economico, si sono messi in fila per entrare nei palazzi e poter bere anche loro dalla coppa della vita...” Continua Rosy Canale “ La lotta alla criminalità parte principalmente dalla costruzione di modelli di vita alternativi legati a formazione e lavoro specie nel mondo giovanile, oltre al fattore culturale, che spesso viene ridotto ad aria fritta nei vari convegni di pura propaganda. Anche la gente deve fare la sua parte, ma il sacrificio non è gradito a tutti. Stiamo lavorando con molti giovani, in diverse cooperative nella Locride. Intagliano il legno e producono oggettistica molto particolare e commerciale. Si potrebbe fare molto di più ma la politica non ci aiuta. Per quanto mi riguarda non vedo distinzione tra destra e sinistra, in quanto a qualità, trasparenza e appartenenza. In Calabria poi, consiglierei il “ chi è senza peccato...scagli la prima pietra...”

Rosy Canale e le telefonate che imbarazzano il Pd. Nelle carte la Finocchiaro, De Sena e Serra, scrive Luca Rocca su “Il Tempo”. L’«eroina antimafia» e il suo «mentore politico». Rosy Canale, simbolo della lotta alle cosche calabresi col suo movimento «Donne di San Luca», accusata di spendere per sé i soldi destinati alle attività antimafia e arrestata pochi giorni fa con l’accusa di truffa e peculato, aveva una guida politica di tutto rispetto: Luigi De Sena, ex vicecapo della polizia di Stato, poi superprefetto a Reggio Calabria, senatore del Partito democratico e infine, nella legislatura 2008-2013, vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia. Dell’indiscussa vicinanza di De Sena all’ormai ex eroina antimafia si parla nell’ordinanza di arresto firmata dal gip Domenico Santoro. In alcuni dialoghi intercettati dal 19 ottobre 2009 in poi, emergono i contatti continui fra la Canale e De Sena, per il tramite del suo staff. «Non si tratta – scrive il gip - di un contatto sporadico ma (…) di un supporto che si concretizza in un aiuto a 360 gradi». Anche se dalle intercettazioni emerge un buon rapporto con Achille Serra, ex prefetto di Roma, transitato in Forza Italia, poi senatore del Pd e infine approdato all’Udc, è con lo staff di De Sena che c’è familiarità. Tanto che per il gip i rapporti «si dimostreranno granitici al punto che il senatore assumerà la veste di vero e proprio “mentore” e consigliere della Canale per ogni tipo di decisione che la stessa prenderà, compresa la candidatura alle elezioni regionali del 2010» poi non concretizzatasi. Si candiderà invece con il Pd al consiglio comunale di Reggio Calabria e prima ancora alle primarie di coalizione del centrosinistra coi Socialisti uniti. Nell’ordinanza si parla anche dell’impegno della Canale per l’apertura di una ludoteca all’interno di un bene sequestrato alla famiglia Pelle e mai entrata in funzione. Sottolinea il gip: «La segreteria del senatore De Sena dispensa consigli e supporta la Canale in tutte le operazioni di organizzazione logistica della ludoteca». In una seconda conversazione telefonica, si sottolinea nell’ordinanza, Maria Damiano dice alla Canale che «la villa è già stata destinataria di un contributo del Pon Sicurezza», per poi concludere: «Così De Sena è contento». Poco tempo prima dell’inaugurazione della ludoteca, la Canale contatta politici locali e nazionali per dare risalto all’inaugurazione. Anche in questo caso «la valutazione dei soggetti a cui rivolgere l’invito – scrive il gip – viene gestita dalla segreteria di De Sena». I politici che non parteciperanno saranno bersagliati dalla Canale e dallo staff di De Sena. Fra questi l’allora ministro della Gioventù Giorgia Meloni, apostrofata così dalla Canale al telefono con lo staff di De Sena: «Quella grande puttanazza della Meloni mi ha mandato un’email per dirmi che non viene. Volevo parlare col senatore per dirgli come comportarmi…questa deficiente animale». La Damiano «accorda»: «Quelli fanno schifo tutti quanti». Nell’ordinanza si fa poi riferimento a una lettera che la Canale scrive alla Meloni. Missiva vergata dallo staff di De Sena ma, scrive il gip «rivista dal senatore». La Canale ce l’ha anche con Alessandra Mussolini, assente all’iniziativa, definita «brutta cessa». Quando i soldi sono pochi, sa come muoversi. Scrive ancora il gip: «Rosy Canale, dopo aver appreso della carenza dei fondi, dice che si rivolgerà al senatore De Sena». In un’altra conversazione telefonica l’eroina, non più tale, dirà che anche il partito di Di Pietro è interessato a lei. Il gip evidenzia ancora che parlando col padre la Canale afferma che «l’ha chiamata De Sena che la vuole incontrare perché lei avrebbe fatto un’ottima impressione alla senatrice Finocchiaro. Rosy si affida completamente ai consigli che le darà De Sena anche per la sua candidatura». E in effetti, scrive ancora il gip, «Rosy informa il padre di aver incontrato sia la Finocchiaro che De Sena e che entrambi puntano su di lei». La donna «valuta altre opportunità nelle file del Pd», ma intanto «aveva inviato a Maria Damiano il suo curriculum che De Sena avrebbe sottoposto alla Finocchiaro». Questa la versione di De Sena: «Ho conosciuto la Canale quando ero già parlamentare. Era venuta in segreteria a chiedermi un aiuto per alcune iniziative. Compatibilmente con il ruolo che rivestivo ho fatto qualche telefonata, ma mai per chiedere finanziamenti o sponsorizzazioni. Deciderò se tutelarmi legalmente. La presentai anche a Veltroni come una giovane speranza per la Calabria. Che ne potevo sapere io?».

Rosy Canale e don Ciotti: fine dei miti dei paladini dell’antimafia di sinistra, scrive Riccardo Ghezzi. Entrambi forse se la caveranno, dal punto di vista giudiziario: uno si è visto ritirare la denuncia a suo carico, l’altra è stata scarcerata dopo che il Tribunale del riesame ha accolto il ricorso del suo avvocato. Sono giorni difficili, però, per due paladini dell’antimafia nonché icone della sinistra. I destini di don Ciotti, fondatore dell’associazione Libera, e di Rosy Canale, pasionaria del movimento “Donne di san Luca” in lotta contro la ndrangheta, si sono spiacevolmente incrociati. Nonostante la scarcerazione, dopo tre settimane di arresti domiciliari, a carico di Rosy Canale restano infatti le accuse di truffa e peculato, contestategli dalla Procura di Reggio Calabria. Una brutta storia di finanziamenti per allestire sedi e completare progetti che la paladina dell’antimafia Rosy Canale avrebbe invece utilizzato per scopi privati, acquistando una minicar, le hoogan per la figlia, borse Louis Vuitton, persino una Fiat 500. E di intercettazioni scottanti, che imbarazzano anche il Pd. Ne fa un buon riassunto Il Tempo, in un articolo pubblicato lo scorso 17 dicembre che ben illustra i rapporti tra Rosy Canale e la sua “guida politica” Luigi De Sena, ex senatore del Pd nonché vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia. Un De Sena che, secondo Il Tempo, avrebbe avuto un ruolo determinante nel proporre la candidatura della stessa Canale alle regionali del 2010. Non se ne farà nulla, ma la stessa Rosy Canale si candiderà poi, sempre con il Pd, alle elezioni comunali di Reggio Calabria oltre che alle primarie di coalizione del centrosinistra coi Socialisti uniti. Nel mirino della magistratura anche l’apertura di una ludoteca, all’interno di un locale sequestrato alla famiglia Pelle, mai entrata in funzione. Secondo il gip Domenico Santoro: “La segreteria del senatore De Sena dispensa consigli e supporta la Canale in tutte le operazioni di organizzazione logistica della ludoteca”. Ecco come Il Tempo ricostruisce la vicenda: Poco tempo prima dell’inaugurazione della ludoteca, la Canale contatta politici locali e nazionali per dare risalto all’inaugurazione. Anche in questo caso «la valutazione dei soggetti a cui rivolgere l’invito – scrive il gip – viene gestita dalla segreteria di De Sena». I politici che non parteciperanno saranno bersagliati dalla Canale e dallo staff di De Sena. Fra questi l’allora ministro della Gioventù Giorgia Meloni, apostrofata così dalla Canale al telefono con lo staff di De Sena: «Quella grande puttanazza della Meloni mi ha mandato un’email per dirmi che non viene. Volevo parlare col senatore per dirgli come comportarmi…questa deficiente animale». La Damiano «accorda»: «Quelli fanno schifo tutti quanti». Nell’ordinanza si fa poi riferimento a una lettera che la Canale scrive alla Meloni. Missiva vergata dallo staff di De Sena ma, scrive il gip «rivista dal senatore». La Canale ce l’ha anche con Alessandra Mussolini, assente all’iniziativa, definita «brutta cessa». Quando i soldi sono pochi, sa come muoversi. Scrive ancora il gip: «Rosy Canale, dopo aver appreso della carenza dei fondi, dice che si rivolgerà al senatore De Sena». In un’altra conversazione telefonica l’eroina, non più tale, dirà che anche il partito di Di Pietro è interessato a lei. Il gip evidenzia ancora che parlando col padre la Canale afferma che «l’ha chiamata De Sena che la vuole incontrare perché lei avrebbe fatto un’ottima impressione alla senatrice Finocchiaro. Rosy si affida completamente ai consigli che le darà De Sena anche per la sua candidatura». E in effetti, scrive ancora il gip, «Rosy informa il padre di aver incontrato sia la Finocchiaro che De Sena e che entrambi puntano su di lei». La donna «valuta altre opportunità nelle file del Pd», ma intanto «aveva inviato a Maria Damiano il suo curriculum che De Sena avrebbe sottoposto alla Finocchiaro». Certo, l’immagine dell’ex paladina di San Luca ne resta compromessa. Stessa sorte per Don Ciotti, fondatore di Libera. Una vicenda risalente al 2011 è stata resa pubblica solo in questi giorni. Una brutta storia di assunzioni in nero e addirittura percosse ad un dipendente. Ecco come la racconta Libero Quotidiano in un articolo a firma Antonio Amorosi. Tra le scelte improprie e i comportamenti discutibili attribuiti ad esponenti dell’associazione «Libera» emerge in questi giorni un episodio sconcertante e rimasto finora sconosciuto. È la storia raccontata a Libero da Filippo Lazzara, un lavoratore siciliano impegnato nell’associazionismo che ha presentato denuncia ai carabinieri (la quale, per la cronaca, è stata successivamente ritirata) proprio contro il fondatore di Libera, don Luigi Ciotti. Lazzara aveva depositato l’esposto nel 2011, ma lo ha reso pubblico solo qualche giorno fa pubblicando la notizia sulla propria bacheca Facebook. I fatti: ancora nel 2010, Filippo lavorava con un contratto a tempo indeterminato in un supermercato a Partinico, in provincia di Palermo. È uno di quelli che non ama l’omertà mafiosa – caratteristica preziosa e rara da quelle parti – e si impegna nel sociale con dedizione. Conosce don Ciotti e dopo un confronto col prete si convince a denunciare per infiltrazioni mafiose l’impresa per cui lavora, pesantemente collusa con alcune cupole. È un gesto di per sè coraggioso, addirittura incredibile se si pensa che un contratto di lavoro a tempo indeterminato, per di più in Sicilia e di questi tempi, è una fortuna della quale ben pochi sarebbero in grado di privarsi. Eppure Lazzara si espone, anche perché una promessa di don Ciotti lo ha convinto che può esserci anche per lui un altro tipo di futuro. La proposta è trasferirsi in Piemonte e lavorare per don Ciotti stesso. L’uomo denuncia il malaffare e nel settembre 2010 si trasferisce al nord. «Don Ciotti mi fa lavorare per alcuni mesi presso la Certosa», scrive nella denuncia e «precisamente presso l’associazione 15-15». Di seguito viene trasferito all’associazione «Filo d’erba» del gruppo Abele, che fa sempre capo a don Ciotti. Non è in regola e tenta ripetutamente di incontrare il fondatore di Libera per avere un contratto ed essere finalmente a norma come promesso. Nel marzo del 2011, nella sede del gruppo Abele di Torino, dopo tanti tentativi riesce a ottenere un confronto diretto, ma lo scambio verbale presto degenera. Don Ciotti passa alle mani e – stando alla ricostruzione dello stesso Lazzara – lo colpisce con pugni e calci. Il ragazzo, rimasto basito, viene poi allontanato dalla scorta del prete. Finisce però al pronto soccorso con una prognosi di 10 giorni. Lazzara, a dimostrazione di quanto è accaduto, posta in rete una lettera privata, firmata proprio da don Ciotti (e datata marzo 2011), nella quale il sacerdote fa riferimento a delle percosse: si scusa per le «sberle», le «pedate» e «i nervi saltati, un po’ per la stanchezza e un po’ per il tuo modo di fare». Scrive di pedate, il sacerdote, e tenta di fare ammenda: «Quelle pedate le merito io». Lazzara al telefono conferma la propria versione: «Oltre a essere stato picchiato, mi hanno fatto terreno bruciato intorno. Non avevo un lavoro e non sapevo dove sbattere la testa. Lui è un intoccabile». L’uomo cerca di spiegarsi: «Denunciare lui è come denunciare Nelson Mandela. Chi mi crede? Chi starà dalla mia parte? Per me tutte le porte si sono chiuse. Per il peso che ha, in certi ambienti, don Ciotti è come il Papa. Ma ricevere dei cazzotti dal Papa è una cosa che ti lascia scosso. Se questa è l’antimafia…». Dopo Saviano condannato prima per plagio e poi per diffamazione e la Capacchione a processo per calunnia, altre due icone anti-mafia osannate dalla sinistra finiscono in guai mediatico-giudiziari.

“L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…). Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti. «L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!». Va giù duro il presidente Antonio Giangrande. « Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D’altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!» Continua Antonio Giangrande. «Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

L'azione della DDA di Reggio Calabria non si ferma e torna a colpire la 'ndrangheta a San Luca, scrive il presidente de ”La Casa della Legalità”. Agli arresti con STRANGIO Francesco alias Ciccio “Boutique” e NIRTA Antonio alias “Terribile” sono finiti l'ex Sindaco di San Luca, GIORGIO Sebastiano e l'Assessore all'Ambiente MURDACA Francesco. Questi, secondo gli elementi raccolti nell'indagine, hanno favorito, con le proprie condotte amministrative, le cosche. Agli arresti anche COSMO Giuseppe, che con la sua impresa edile era aggiudicatario di rilevanti appalti pubblici.
Questa è una storia che si ripete, in quel Comune già sciolto per condizionamento e infiltrazione della 'ndrangheta. Ma questa nuova operazione, “Operazione INGANNO”, ha posto nuovamente l'attenzione sulla vergogna di certa “antimafia”. Infatti agli arresti è finita anche la promotrice del “MOVIMENTO DELLE DONNE DI SAN LUCA”, Rosy CANALE...Questa signora aveva ottenuto l'assegnazione di un bene confiscato per farci una ludoteca. Aveva ottenuto i finanziamenti pubblici (Stato e Regione) e da Fondazioni per realizzarla. Ma quel bene confiscato è rimasto chiuso, la ludoteca mai vista, i soldi assegnati per quel progetto sono stati usati per comprare autovetture, vestiti e mobili per soli fini personali. Non ci voleva tanto per vedere che nonostante l'assegnazione del bene confiscato ed i finanziamenti ottenuti non era stato fatto nulla dalla CANALE e dal suo “MOVIMENTO DELLE DONNE DI SAN LUCA”... eppure in troppi non hanno voluto vedere quel caso molto concreto, palpabile. In troppi, ancora una volta, nel nome delle dichiarazioni antimafia della signora e del suo movimento hanno portato la stessa CANALE ad essere considerata “icona” dell'antimafia. Da poco era stata insignita del “Premio Paolo Borsellino” (premio ora, immediatamente, ritirato, come deciso dagli organizzatori dello stesso). L'associazione di Don Ciotti e Nando dalla Chiesa, “Libera”, ha portato la CANALE come esempio in giro per l'Italia. A Genova, come in Emilia... persino a Milano al “FESTIVAL DEI BENI CONFISCATI”. Noi siamo stanchi di ripetere ciò che diciamo dall'inizio del nostro cammino nel fare antimafia (isolati e maciullati). Noi da sempre sosteniamo che la vera antimafia si deve fare concretamente, senza finanziamenti pubblici o grandi sponsor privati. Prima di tutto perché si deve essere liberi e indipendenti e non piegati da condizionamenti derivanti dalla necessità di tenersi buoni i “finanziatori”. Ed allo stesso modo noi sosteniamo da sempre che la vera antimafia deve avere gli adeguati anticorpi per evitare di “farsi usare” da personaggi come la CANALE, o da politici ed amministratori pubblici che, magari addirittura contigui o complici di cosche mafiose, ricercano un “patentino antimafia” per presentarsi bene. Purtroppo nel mondo dell'antimafia siamo isolati, noi e chi la pensa come noi. Veniamo anche insultati, derisi o considerati nemici, per questa nostra linea, tacciata di essere “intransigente”, da “integralisti”. Noi non smettiamo di ripeterlo. All'antimafia non servono “icone”, così come non può essere suo ruolo il fornire “paravento” a quella o questa amministrazione pubblica o impresa con ombre, se non peggio, da nascondere. L'antimafia deve essere vissuta e praticamente come SERVIZIO e non come BUSINESS. E' un lavoro quotidiano di servizio alla comunità, di sostegno alle vittime, di meticoloso lavoro per individuare e denunciare le storture nella gestione delle Pubbliche Amministrazioni, le infiltrazioni, i condizionamenti, le complicità e collusioni che distraggono la gestione delle Amministrazioni Pubbliche, così come del territorio e dei fondi pubblici, per foraggiare e agevolare faccendieri, amici, parenti e cosche. E' collaborare con i reparti dello Stato e la Magistratura, per fornire elementi utili alle indagini e per spingere chi è testimone come chi è vittima a denunciare. E' fare anche informazione, raccontando i fatti, i volti, le storie... facendo i nomi e cognomi per incrinare la cappa di omertà e distruggere quel “consenso sociale” delle mafie, facendo sentire il disprezzo e l'isolamento sociale per i mafiosi e per chi con queste ha contiguità, collusioni, complicità. E' agire quotidianamente, ognuno nel proprio ambito, facendo il proprio dovere di cittadini. Se l'antimafia civile, o sociale se si preferisce questo termine, non fa questo ma diventa una professione per fare business, che deve pensare a come ripagare i politici o imprenditori che la sovvenzionano, allora è un'antimafia che ha fallito dall'inizio e non potrà portare nulla di buono. Ed indicare queste storture, chidere che vengano superate, non è, ancora una volta, compito della magistratura, ma lo è prima di tutto dei cittadini stessi, di ciascuno di noi, anche al costo di essere tacciati di "lesa maestà". Se si tacciono le storture, se le si nascondono sotto il tappeto o le si nega nel nome di questo o quel "simbolo", si diventa complici di queste, non le si affronta e non le si risolve. Ne abbiamo riparlato recentemente in occasione dell'arresto della GIRASOLE a Isola Capo Rizzuto, ne avevamo parlato più volte, prendendoci noi una querela da “Libera” per aver osato porre il problema e che al nostro invito per un “bagno d'umiltà”, per sedersi ad un tavolo tutti, in un confronto netto volto a trovare insieme gli anticorpi ed una “svolta” necessaria nel mondo dell'antimafia civile, non ha mai risposto, se non perpetuando il nostro isolamento. Non si possono dare delusioni a chi è già stato disilluso per tanto, troppo tempo. Non possiamo permettere che accada ed ognuno deve fare la propria parte. Anche da qui passa la credibilità dell'antimafia e la fiducia in un cambiamento possibile. L'ipocrisia di certa antimafia è un danno che rischia di essere irreversibile. E' un atteggiamento intollerabile che non solo rischia di far screditare tutti e quindi rendere difficile l'azione seria che in molti promuovono, ma rischia di tramutarsi anche in una plateale presa in giro.  Come vedere, infatti, le dichiarazioni di "dissociazione" o sul modello del "io l'avevo detto", da parte di coloro che, ad esempio, nel caso della CANALE, l'avevano invitata al 1° FESTIVAL DEI BENI CONFISCATI promosso da LIBERA con anche il COMUNE DI MILANO, se non come una ulteriore presa in giro di chi crede e vuole credere nell'antimafia civile? Dire si è sbagliato, cambiamo rotta, si è stati effettivamente superficiali e siamo pronti a confrontarci con chi ci metteva un guardia sui rischi di essere "troppo permeabili", dovrebbe essere, secondo noi, la risposta da sentire e che invece continuiamo a non sentire e non leggere. Così come ancora non si vuole aprire una discussione seria sulla necessità di una riforma radicale in merito ai sequestri ed alla gestione dei beni confiscati che, da lungo tempo, diciamo inascoltati, non funziona e che non può essere piegata, come prevalentemente è oggi, ad una logica clientelare e monopolistica. Ci confortano oggi le parole del Procuratore Federico Cafiero de Raho, a capo della Procura di Reggio Calabria, che afferma: “Servono manifestazioni e associazioni forti". Ci confortano le parole del Procuratore aggiunto Nicola Gratteri della DDA di Reggio Calabria che afferma: “Attenzione a chi si erge a paladino antimafia senza avere dietro una storia. C'è gente che è morta per questo e non possiamo tollerare come magistrati, come giornalisti, come cittadini che ci sia gente che lucra e che dell'antimafia fa un mestiere" ed ancora "Ci sono condotte che non hanno rilievo penale ma sono moralmente riprovevoli". E sulla lotta alla mafia "bisogna essere seri, non ci sono ma e non ci sono se. Dobbiamo essere intransigenti." e “fare attenzione all'antimafia delle parole, manca la coerenza tra ciò che si dice e ciò che si fa".

"Non lavoro più in nero per te" e Don Ciotti lo prende a ceffoni. Voleva un impiego regolare. Il prete lo prende a sberle e pedate, poi colto dal rimorso gli scrive e confessa di averlo picchiato. Leggi la lettera, scrive di Antonio Amorosi su “Libero Quotidiano”. Tra le scelte improprie e i comportamenti discutibili attribuiti ad esponenti dell’associazione «Libera» emerge in questi giorni un episodio sconcertante e rimasto finora sconosciuto. È la storia raccontata a Libero da Filippo Lazzara, un lavoratore siciliano impegnato nell’associazionismo che ha presentato denuncia ai carabinieri (la quale, per la cronaca, è   stata successivamente ritirata) proprio contro il fondatore di Libera, don Luigi Ciotti. Lazzara aveva depositato l’esposto nel 2011, ma lo ha reso pubblico solo qualche giorno fa pubblicando la notizia sulla propria bacheca Facebook. I fatti: ancora nel 2010, Filippo  lavorava con un contratto a tempo indeterminato in un supermercato a Partinico, in provincia di Palermo. È uno di quelli che non ama l’omertà mafiosa - caratteristica preziosa e rara da quelle parti - e si impegna nel sociale con dedizione. Conosce don Ciotti e dopo un confronto col prete si convince a denunciare per infiltrazioni mafiose l’impresa per cui lavora, pesantemente collusa con alcune cupole. È un gesto di per sè coraggioso, addirittura incredibile se si pensa che un contratto di lavoro a tempo indeterminato, per di più in Sicilia  e di questi tempi,  è una fortuna della quale ben pochi sarebbero in grado di privarsi. Eppure Lazzara si espone, anche perché una promessa di don Ciotti lo ha convinto che può esserci anche per lui un altro tipo di futuro. La proposta è trasferirsi in Piemonte e lavorare per don Ciotti stesso. L’uomo denuncia il malaffare e nel settembre 2010 si trasferisce al nord. «Don Ciotti mi fa lavorare per alcuni mesi presso la Certosa», scrive nella denuncia e «precisamente presso l’associazione 15-15». Di seguito viene trasferito all’associazione «Filo d’erba» del gruppo Abele, che fa sempre capo a don Ciotti. Non è in regola e tenta ripetutamente di incontrare il fondatore di Libera per avere un contratto ed essere finalmente a norma come promesso. Nel marzo del 2011, nella sede del gruppo Abele di Torino, dopo tanti tentativi riesce a ottenere un confronto diretto, ma lo scambio verbale presto degenera. Don Ciotti passa alle mani e - stando alla ricostruzione dello stesso Lazzara - lo colpisce con pugni e calci. Il ragazzo, rimasto basito, viene poi allontanato dalla scorta del prete. Finisce però al pronto soccorso con una prognosi di 10 giorni. Lazzara, a dimostrazione di quanto è accaduto, posta in rete una lettera privata, firmata proprio da don Ciotti (e datata marzo 2011), nella quale  il sacerdote fa riferimento a delle percosse: si scusa per le «sberle», le «pedate» e «i nervi saltati, un po’ per la stanchezza e un po’ per il tuo modo di fare». Scrive di pedate, il sacerdote, e tenta di fare ammenda: «Quelle pedate le merito io». Lazzara al telefono  conferma la propria versione: «Oltre a essere stato picchiato, mi hanno fatto terreno bruciato intorno. Non avevo un lavoro e non sapevo dove sbattere la testa. Lui è un intoccabile». L’uomo cerca di spiegarsi: «Denunciare lui è come denunciare Nelson Mandela. Chi mi crede? Chi starà dalla mia parte? Per me tutte le porte si sono chiuse. Per il peso che ha, in certi ambienti, don Ciotti è come il Papa. Ma ricevere dei cazzotti dal Papa è una cosa che ti lascia scosso. Se questa è l'antimafia...».

Benvenuti al circo dell’antimafia. E allora facciamolo scoppiare, il bubbone, scrive Nando Dalla Chiesa. E parliamo del variopinto circo che vorrebbe prendere le bandiere dell’antimafia. La Calabria ci ha offerto di recente due casi inquietanti. Quello del sindaco antimafia di Isola di Capo Rizzuto Carolina Girasole, accusata dai magistrati di rapporti (da definire) con il potente clan degli Arena. E quello di Rosy Canale, scrittrice e attrice teatrale, rappresentante delle “donne di San Luca”, che avrebbe intascato per privatissime finalità fondi pubblici ottenuti per contrastare la cultura mafiosa a San Luca. Ed è appunto da questo secondo caso che vorrei partire. Rosy Canale è stata infatti di recente ospite del teatro Franco Parenti di Milano, storicamente impegnato contro la mafia, sin da quando (allora si chiamava Pier Lombardo) lo dirigeva Franco Parenti. Vi ha portato uno spettacolo autobiografico musicato da Battiato, che apriva un ciclo di tre serate – ‘ndrangheta, camorra, mafia – a ciascuna delle quali mi era stato richiesto di intervenire. Non la conoscevo. Mi bastavano la serietà del teatro e quel che di lei si diceva. Poiché il movimento antimafia ha ancora una sua serietà, amici calabresi mi avevano tuttavia avvisato all’ultimo momento dei dubbi che avevano sulla persona. Per questo ho evitato di spendere anche una sola parola su di lei, riservandomi di giudicare sul campo. Non c’è voluto molto. Al dibattito che precedeva lo spettacolo Malaluna ci siamo trovati la sociologa Ombretta Ingrascì, Gianni Barbacetto e io. Sono bastati pochi minuti per guardarci negli occhi con imbarazzo e poi per replicare: i bersagli di Rosy Canale erano solo lo Stato (tutto) e il movimento antimafia (tutto). Quanto allo spettacolo, aveva una sua forza suggestiva (Battiato…); ma anche una grande carica equivoca, per chi masticasse qualcosa della materia. Per chi ne masticasse, appunto. Così il pubblico milanese (benché non novizio) quella sera si è convinto di trovarsi davanti a un’eroina dell’antimafia. Perché se qualcuno viene accreditato, senza mai un controllo, da un intero circuito di giornalisti, premi, artisti o associazioni, la gente alla fine è pronta a farne un’icona. E a farsi compartecipe di una truffa. Pochi giorni dopo la stessa Rosy Canale avrebbe ricevuto il premio Borsellino (non promosso dalla famiglia o da un’istituzione) alla presenza di alte autorità dell’antimafia. E arrivo al salto di qualità. Che è avvenuto sulla rete. Dove qualche giorno dopo è stato segnalato che l’indagata si era esibita al Parenti con il sottoscritto (solo io…), omettendo il contesto. E siccome qualcuno ha precisato, qualcun altro è intervenuto per ammonire, testualmente, “le cose si raccontano tutte e bene, andrebbe detto a un certo signor  Nando”. E qui si apre l’ulteriore, e più grottesco, capitolo. Chi è infatti questo censore? È un killer pluriomicida, ex boss di ‘ndrangheta, diventato sette anni fa collaboratore di giustizia, di nome Luigi Bonaventura. Per spiegare che cosa intenda un mafioso quando dice “signor Nando”, e quanto questo sia tipico del linguaggio della delegittimazione mafiosa, basta rileggersi il Falcone di Cose di Cosa nostra. Ma il fatto è un altro. Questo boss che da me pretende chiarimenti, da un lato protesta ovunque per non essere protetto dallo Stato (che lo lascerebbe in pericolo) dall’altro gira l’Italia a far dibattiti sulla mafia, invitato da ineffabili associazioni antimafia (come se ai tempi si fosse invitato Buscetta o Contorno). Ed è pure lo stesso che ha raccontato non ai magistrati ma a un giornale telematico che la ‘ndrangheta aveva deciso di uccidere Giulio Cavalli. Una rivelazione decisamente anomala, se solo si riflette sulle date. Il primo spettacolo antimafia di Cavalli è infatti dell’autunno 2008, mentre Bonaventura si pente nel 2007. Ora, fra tante centinaia di “pentiti”, non se ne è mai visto uno, uno solo, che invece di fuggire rigorosamente dai clan che ha tradito, ne riceva poi informazioni confidenziali sui delitti in cantiere. Informazioni anomale su progetti omicidi rocamboleschi (camion che investono, overdose di droga) acquisite in modo altrettanto rocambolesco (vennero in cinque nel 2011 offrendomi denaro per raccontare…) che dovrebbero fare rizzare le antenne proprio come quando si sente parlare Rosy Canale. Morale: il pentito sparge rivelazioni sui rischi mortali che corre Cavalli e Cavalli dichiara ovunque che il pentito è credibilissimo. Uno riceve la scorta e l’altro viene invitato ai dibattiti e scrive perfino editoriali. Che cosa sta succedendo? Qualcosa di ampio e di inquietante. Il movimento antimafia si è infatti per fortuna molto allargato.  Vi sono entrate persone generose ma sprovviste di un accettabile metro di misura, di un alfabeto culturale. Laddove negli anni più duri la formazione antimafia ce la si faceva sul campo (e costava), ora ce la si fa molto spesso nel mondo virtuale e la propria battaglia diventa un “mi piace”. Il successo di Saviano, mentre dava un forte impulso al contrasto della camorra, ha purtroppo incoraggiato anche una mitologia/martirologia della lotta alla mafia che è l’esatto contrario di ciò per cui si sono battuti gli eroi (veri) dell’antimafia, sempre attenti a tenere un bassissimo profilo sui rischi che correvano, a rassicurare i cittadini, a marcare una distanza tra il proprio mondo e quello mafioso, anche quando raccoglievano le confessioni dei pentiti più affidabili. I riflettori che essi invocavano avevano – come oggi per Di Matteo – la funzione di “difendere”, non di “promuovere”. Qui tutto si rovescia invece in un tripudio di soubrette e saltimbanchi, narcisi e veterani senza storia (o dalla storia taroccata). Senza più alcuna remora morale. Al punto che il pluriassassino trasformato in antimafioso doc esorta sprezzante il figlio della vittima di mafia a dire la verità. Quando invece è arrivato il momento di dire basta. (tratto dal Fatto Quotidiano del 21/12/2013).

Troppa retorica e poca legalità, scrive Ernesto Galli Della Loggia su “Il Corriere della Sera”. Credo che sia stato uno sbaglio da parte della stampa e dell’opinione pubblica non avere prestato la necessaria attenzione ai casi di Carolina Girasole e di Rosy Canale: famose entrambe per la loro attività contro la criminalità organizzata in Calabria ma nei giorni scorsi indagate in due inchieste della magistratura. La prima, infatti, come sindaco di Isola Capo Rizzuto fingeva a gran voce di combattere la ‘ndrangheta ma secondo l’accusa in realtà era stata eletta con i voti prestatile dal clan ‘ndranghetista Arena, che ha poi favorito consentendo che i malavitosi continuassero a utilizzare indisturbati i terreni agricoli confiscati loro. La seconda, Rosy Canale - fondatrice del movimento «Donne di San Luca», promotrice instancabile di iniziative a pro della legalità, scrittrice, attrice, collezionatrice di premi, comunemente descritta come «un’icona della lotta alla criminalità organizzata» - aveva per questo percepito cospicui finanziamenti dalle più impensabili fonti, che però - come è stato rivelato dalle intercettazioni telefoniche - ha impiegato regolarmente per uso personale: riempiendo armadi di borsette e vestiti, acquistando per se stessa e i suoi cari automobili, vasche da idromassaggi e spassi vari. Pur nella loro ovvia patologia queste vicende non nascono però dal nulla. Esse sono rivelatrici di quel modo sterile e illusorio di fronteggiare la malavita e di gestirne ideologicamente il contrasto sociale, che da noi imperversa ormai da anni sotto il nome di «cultura della legalità». La quale, al dunque, si sostanzia in niente altro che in convegni e in tavole rotonde, in oceani di chiacchiere di Autorità varie giunte con voli di Stato su Punta Raisi per viaggi lampo in giornata, in compunte cronache dei tg regionali e in scolaresche precettate d’imperio ad ascoltare gli sproloqui di sindaci e assessori, ovvero ospitate in costose carnevalate come la «Nave della Legalità» organizzata dal ministero dell’Istruzione sulla rotta Napoli-Palermo. Tutte cose destinate a furoreggiare perché mettono insieme due tratti qui da noi sempre in auge. Da un lato la precettistica buonista - di nessun effetto pratico, naturalmente, ma che permette a chiunque di esibire il proprio impegno politicamente corretto (vedi i soldi che sulla suddetta abilissima Canale piovevano dalla Fondazione «Enel cuore», dal ministero della Gioventù, dal Consiglio regionale della Calabria, dalla Prefettura e da chissà quanti ancora); e dall’altro l’eterna retorica, il «discorso», l’«intervento», i «saluti», la parola alata (e ovviamente vuota), che ancora tanto successo, ahimè, sembrano riscuotere specialmente nel Mezzogiorno. Le cui speranze invece - se ancora ce ne sono - stanno sicuramente altrove. E cioè nella pura e semplice applicazione della legge. Per esempio nell’azione di uomini come quel pugno di carabinieri della Compagnia di Scalea (è giusto che il Paese conosca almeno i nomi dei loro ufficiali - il capitano Vincenzo Falce e il colonnello Francesco Ferace - nonché quello del magistrato che li ha coordinati, il procuratore della Repubblica Giuseppe Borrelli), i quali pochi giorni fa, dopo anni di indagini, hanno smantellato la rete di dominio assoluto che la ‘ndrangheta aveva steso da tempo su quella cittadina del Cosentino. Dapprima facendo eleggere sindaco direttamente un proprio affiliato e quindi avendo mano libera per rubare su ogni appalto, taglieggiare chiunque, trafficare su qualunque cosa. Nel discorso pubblico, alle tante parole dei professionisti della legalità va anteposta l’enfasi sull’azione della legge. E non è vero che perché questa abbia successo è necessaria l’esistenza di quelle. L’azione della legge, rapida, efficace, massiccia, è di per sé la maggiore fonte di cultura della legalità. Certamente la più convincente. La lotta alla criminalità organizzata - criminalità che insieme alla disoccupazione è la prima emergenza italiana - non ha bisogno di premi all’«antimafioso dell’anno» o dell’ennesimo comizio del Leoluca Orlando di turno. Ha bisogno di un maggior numero di magistrati bravi e coraggiosi, di più commissariati di polizia e di più stazioni di carabinieri, le quali non siano però nelle condizioni in cui si trova quella di Scalea, che i giornali descrivono stipata al primo piano di un vecchio condominio, la segnaletica «carabinieri» nascosta dietro un albero, con le porte sfasciate e riparate alla meglio dagli stessi militari nel tempo libero. Ha bisogno soprattutto che i ministri della Giustizia e dell’Interno invece di recarsi in pompa magna ai convegni a Palazzo dei Normanni, o a Ballarò o dove che sia, girino per la Calabria, per la Campania, per la Sicilia, vedendo di persona; parlando con le persone. Facendo sentire a tutti che lo Stato è presente. E - se non è dire troppo - pronto a colpire.

No, proprio la scuola no, risponde Nando Dalla Chiesa. Partendo dagli stessi due esempi - Carolina Girasole e Rosy Canale – da cui era partito il sottoscritto per denunciare sabato scorso il “Circo dell’antimafia”, domenica Ernesto Galli della Loggia ha sferrato un duro attacco dalla prima pagina del Corriere contro l’azione svolta dalla scuola italiana nell’educazione alla legalità. Un’azione retorica, ha scritto, fondata sulla precettazione “buonista” degli alunni e del tutto inefficace nella lotta alla criminalità organizzata (che si combatte con magistratura e forze dell’ordine efficienti e inflessibili). E infine costosa. Culmine e sintesi di questa galleria di vizi sarebbe la “carnevalata” della nave della legalità, ossia la nave che, piena di studenti, parte da Civitavecchia e da Napoli per ricordare ogni 23 maggio a Palermo, con la strage di Capaci, i giudici simbolo della lotta alla mafia, Falcone e Borsellino. Qui bisogna esser chiari. Il circo dell’antimafia esiste. La retorica di certe forme celebrative pure. Gli alunni in più occasioni servono a riempire sale ufficiali altrimenti vuote. E qualche inutile soldo gira, sempre a favore di esperti immaginari o di improbabili percorsi formativi, dalla Sicilia alla Lombardia. Ma alla scuola, e al suo ormai trentennale impegno sul fronte della lotta per legalità, il paese deve solo fare un monumento. Pur tra mille difficoltà, con tagli crescenti, a volte battendosi contro le diffidenze ambientali, la scuola pubblica italiana ha fatto quel che non hanno fatto l’impresa, la politica, gli intellettuali, le professioni e l’informazione. Si può anzi dire che se il paese ha retto di fronte all’offensiva criminale lo deve a due pilastri: da una parte magistratura e forze dell’ordine, dall’altra la scuola. Decine di migliaia di insegnanti hanno dedicato tempo, passione, studi aggiuntivi per fronteggiare un fenomeno che il paese ufficiale non vedeva. Hanno accreditato nella cultura delle nuove generazioni magistrati e poliziotti, invitandoli anche tra ragazzi abituati a chiamarli sbirri. Hanno fatto sentire ai rappresentanti dello Stato in trincea il consenso negato dall’alto. Nella scuola si sono così formate generazioni più consapevoli delle precedenti. E forse anche a questo si deve se oggi leve di giovani consiglieri comunali, al sud come al nord, stanno finalmente modificando l’atteggiamento di molti enti locali di fronte alla mafia. O se all’università si trovano studenti eticamente motivati a fare il commissario di polizia o il concorso per maresciallo dei carabinieri. Dirò di più. E’ perfino commovente tornare in una scuola venti o trent’anni dopo e ritrovare la professoressa conosciuta ancora giovane, ormaivicina alla pensione, e che tuttora continua a organizzare corsi, giornalini, teatro contro la mafia. Gratis. Senza gloria. E sarebbe bello che proprio queste persone, regolarmente neglette, venissero finalmente e ufficialmente ringraziate dal presidente della Repubblica nel suo discorso di fine anno. Ecco. La Nave della legalità è ogni anno il punto d’arrivo (gioioso e faticosissimo) di questo immenso lavoro. E ha il pregio di indurre chi vi partecipa a dire, come ho sentito dire dai miei studenti, “mi ha cambiato la vita”. E’ forse più efficace puntare solo sulle forze dell’ordine e sui magistrati? Certo l’applicazione costante e rigorosa della legge incoraggia lo spirito della legalità . Ma è anche vero che quest’ultimo si radica (lo insegnava Tocqueville…) nei costumi civili. Ed è soprattutto vero che se in Italia la legge non viene applicata come vorrebbe (giustamente) Galli della Loggia, è perché l’indolenza delle classi dirigenti, i calcoli elettorali, le complicità politiche e giudiziarie lo impediscono. Da qui la necessità di unire tutte le forze legalitarie per cambiare uno Stato che dovrebbe funzionare in un certo modo ma che in quel modo, disgraziatamente, non funziona. Ci sarà pure una ragione se i magistrati in prima linea hanno sempre assegnato alla scuola, con i suoi tanti ragazzi senza diritto di voto, una funzione fondamentale o se perfino un generale diventato prefetto, uomo per antonomasia della repressione, sentì d’istinto il bisogno e l’utilità di andare a parlare nei licei palermitani. Se esiste il circo dell’antimafia, la scuola ne è in genere la negazione; per questo mette sempre più al bando spettacolarità e assemblee oceaniche per approfondire valori e conoscenze, e scongiurare il clima da applauso facile. Insomma, più che essere il bersaglio delle polemiche, oggi la scuola -sì, la famigerata scuola- dovrebbe essere il modello di tutti. Magari l’Italia ne fosse all’altezza.

Ammetto i miei limiti: non riesco proprio a capire quale «lavoro didattico» che impegni «lunghi mesi di lavoro serio in classe», «anni» addirittura, serva—come scrivono gli autori della lettera pubblicata ieri sul Corriere in risposta al mio editoriale di domenica sulla «cultura dell’antimafia» — per «formare giovani generazioni di adulti più consapevoli e attrezzati a scegliere tra giustizia e illegalità » (forse volevano dire tra legalità e illegalità: la giustizia è un’altra cosa, anche se forse il lapsus non è casuale…), scrive Ernesto Galli Della Loggia su “Il Corriere della Sera”. Essi sostengono che tale lavoro di mesi e anni serve a «imparare a conoscere storie e persone della battaglia contro le mafie e a comprendere i mille modi in cui sa esprimersi e ferire una cultura criminale». Cioè? Che cosa significano in concreto queste parole? Di che cosa parla, in concreto, chi è chiamato a insegnare «cultura della legalità»? Spiega forse che cosa è il «pizzo» o un appalto truccato? Che cosa è un «pusher»? Ma davvero è immaginabile —mi chiedo— che un ragazzo palermitano o napoletano abbia bisogno che gli si spieghino queste cose? Che cos’altro gli viene insegnato allora? che queste cose sono proibite dalla legge, che costituiscono un reato e che non bisogna commettere reati? Ma di nuovo: c’è forse qualcuno che lo ignora? Per carità, sono umanamente più che comprensibili «le tante voci dei familiari delle vittime—come essi stessi dicono— che chiedono di ricordare e di far ricordare », ma dopo tanti anni d’insegnamento della cultura della legalità il vero, decisivo, argomento che i rappresentanti dell’ «associazionismo antimafioso» (vedo che esiste addirittura una tale categoria: un po’ come l’associazionismo sportivo o quello della «caccia e pesca») dovrebbero adoperare, se mai potessero, è quello dei fatti: cioè dell’eventuale diminuzione non dico dei reati e del giro d’affari riconducibili alla malavita organizzata (che invece, secondo i nostri Servizi e la Commissione antimafia sono in aumento), ma almeno del numero degli affiliati (ciò che appare altrettanto dubbio). A che servono se no i loro sforzi? In mancanza di quanto ora detto, se ne facciano una ragione, tutto diventa materia opinabile. Anche se naturalmente non sono così sciocco da non capire che mentre dalla parte della «cultura della legalità» stanno il politicamente corretto, l’opportunità e la convenienza sociale, i buoni sentimenti e un facile consenso, dalla parte di chi la critica, invece, c’è solo modo di ricevere commenti indignati e rimbrotti. Ciò nonostante mi ostino a credere che così come si insegna ad amare l’Italia leggendo Leopardi e De Sanctis e non già impartendo lezioni sulla bontà del patriottismo; che così come si insegna a essere dei buoni cittadini apprestando istituzioni efficienti e avendo una classe politica onesta e non già concionando sulla Costituzione «più bella del mondo»; allo stesso modo si insegna davvero la legalità assicurando che chiunque la violi venga processato e condannato sempre e nel più breve tempo possibile, non già organizzando corsi, flotte e convegni vari. È forse un mio limite, ma io la penso così.

Antimafia, che passione! Pubblichiamo la risposta di Davide Mattiello all’articolo di Ernesto Galli della Loggia pubblicato il 22 dicembre. Antimafia, che passione! … riflettendo sulle parole di Ernesto Galli Della Loggia. (Corriere della Sera del 24 Dicembre, 2013).

L’antimafia ha bisogno di più concretezza e di meno retorica? Si, certo. Mi sono convinto negli anni che la migliore lezione di “legalità” e quindi di “antimafia” sia far funzionare la Repubblica e poi raccontarlo. Tanto meglio funziona, tanto meno c’è bisogno di mafia: noi sconfiggeremo le mafie, quando le avremo rese inutili. L’innesco di questa convinzione sono state le parole del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa che a Bocca disse: “Lo Stato batterà la mafia quando assicurerà come diritti, ciò che i mafiosi elargiscono come favori”. Sull’altra sponda, quella dei mafiosi, fanno eco a queste parole quelle di un boss, Pietro Aglieri, che disse ad un magistrato: “Vede dottore, quando voi andate nelle scuole e parlate ai nostri ragazzi, quelli vi ascoltano. Ma quando poi escono e cercano un lavoro, a chi trovano? A voi o a noi?”. Comincio da qui per sottolineare che il bisogno di concretezza, cioè la sfida di battere le mafie sul terreno della convenienza e di una convenienza che passa attraverso il rispetto delle regole, è sentito e condiviso: anche per questo uno come me, dopo vent’anni passati a fare movimento, sociale e culturale, nell’associazionismo è approdato in Parlamento e oggi sta nella Commissione Antimafia. Ciò posto, perché quando chiesero a Giovanni Falcone cosa ne pensasse dell’esercito in Sicilia, questi rispose: “Certo che lo voglio l’esercito in Sicilia, voglio un esercito di insegnanti, perché la mafia teme la cultura”? Intanto perché un giovane formato e colto è più libero, diventa più capace di auto determinarsi e questo a prescindere da qualunque “corso antimafia”. Evviva quindi Leopardi e De Santis! Evviva la grammatica e la matematica! Evviva la filosofia e la storia! Però avremmo capito molto poco di questo Paese, se non avessimo compreso che la forza specifica delle mafie, intese come organizzazioni criminali, sta fuori dalle mafie e sta in particolare in un humus culturale, non aggredendo il quale, non si contrasta efficacemente il fenomeno. In Italia è radicata una estetica della mafia, della mafiosità, che ha reso e rende “sexy” il mafioso. Il mafioso visto come quinta essenza di un certo modo di intendere le relazioni tout court e le relazioni di potere in particolare. Uno che sa far succedere le cose che vuole. Che comanda perché è il più forte e fintanto che è il più forte. Uno che sa proteggere chi ubbidisce e liquidare l’infame che tradisce l’omertà del branco. C’è una poetica del clan, mortalmente radicata in Italia: tanto che parliamo di familismo, di clientelismo. Gustavo Zagrebelsky parla dei “giri giusti” e non ricordo più chi ha parlato dell’Italia come del Paese “delle conoscenze” e non “della conoscenza”. Un’Italia limacciosa, che fa dell’appartenenza al gruppo un valore intrecciato e avvelenato dalla avidità e dalla violenza. Mutuando le parole di Padre Alex Zanotelli: “Dobbiamo decolonizzare l’immaginario”. Cioè, dobbiamo invertire il paradigma estetico, per consolidare quello etico. Insomma, come direbbe Peppino Impastato, dobbiamo sentire il puzzo di quella “montagna di merda” e di contro imparare ad assaporare quello che per Borsellino era “il fresco profumo di libertà”. Dove si può ragionare di tutto questo? A scuola! Ragionare, riflettere, discutere, approfondire, ascoltando testimoni, famigliari delle vittime innocenti, magistrati e agenti delle forze dell’ordine. Serve eccome. Anzi la cosa più concreta che un essere umano possa fare è pensare, che se poi lo fa insieme ad altri, inizia a diventare realtà. Serve a smontare stereotipi: un immaginario grossolano e parziale, funzionale a non riconoscere i problemi. Serve eccome spiegare che cosa è il racket, come funziona il narco traffico, come e perché le mafie si sono estese all’Italia intera e poi al Mondo. Serve, perché sono cose che il più delle volte si sanno poco, senza una adeguata capacità di connessione. Serve a tutti. Non soltanto ai ragazzi delle scuole che a suo dire saprebbero già tutto quel che c’è da sapere, se si pensa che soltanto qualche anno fa il Prefetto di Milano negava che la mafia fosse in città. Poi sono arrivate le operazioni Crimine, Infinito, Minotauro, Albachiara, Colpo di coda. Poi sono stati sciolti i Comuni di Leinì, Rivarolo Canavese, Bordighera, Ventimiglia, Sedriano. No, non si sanno abbastanza queste cose, se in Piemonte, dove trent’anni (30) anni fa l’ndrangheta uccideva il Capo della Procura di Torino Bruno Caccia, ci fu una levata di scudi istituzionale, alla relazione finale della Commissione Antimafia presieduta dall’On. Forgione nel 2008, che aveva denunciato l’infiltrazione mafiosa nel territorio piemontese. O forse per certi adulti è più comodo far finta di non sapere: anche per questo è importante che se ne parli nelle scuole. Per formare anticorpi in grado di smontare la favola brutta ma rassicurante che vorrebbe i mafiosi una banda di gangster, terroni e folkloristici. I “corsi anti-mafia” questo a mio avviso dovrebbero essere e per quel che ho conosciuto, sono: un mix di saperi puntuali e di ragionamenti ad ampio spettro su quale sia il modo migliore per stare al mondo in Italia, di ragionamenti su ciò che anima il nostro desiderio. Tante volte, negli scorsi anni, mi è capitato nelle scuole con gli studenti e le studentesse di riflettere per esempio su quanto ci sia di comune tra la cultura mafiosa e i terribili episodi di violenza sulle donne. Infine, ha colto bene che il “lapsus” non è un errore: si, l’obiettivo del ragionamento è quello di rintracciare nella discussione con i ragazzi, volta, volta, la linea di confine tra illegalità e giustizia. Non semplicemente tra illegalità e legalità. Perché troppo spesso i sistemi di potere, diciamo così, complessi hanno fatto ingiustizia con la legge. Non serve evocare il nazismo, basta pensare al reato di clandestinità. La sfida è la giustizia attraverso la legge, non la legge per se stessa. Per questo mi hanno sempre profondamente commosso e convinto le parole del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, sbirro con la “s” maiuscola come ama dire Gian Carlo Caselli, campione cioè del momento repressivo dello Stato. Quando risponde a Bocca non gli dice, come avrebbe potuto, “Lo Stato sconfiggerà la mafia quando farà rispettare l’ordine della legge”, ma, appunto: “Lo Stato sconfiggerà la mafia quando assicurerà come diritti, ciò che i mafiosi danno come favori”: il lavoro, la casa, la cura, la sicurezza… La giustizia sociale, insomma. Quella di cui all’art. 3 com 2 della nostra Costituzione, la più bella del Mondo! On. Davide Mattiello, Membro della Commissione Antimafia.

Nando, la "primadonna" dell'antimafia, scrive l’Ufficio di Presidenza della “Casa della Legalità”. Il profondo rispetto per Carlo Alberto Dalla Chiesa ed il suo sacrificio non può essere scudo per chi, erede di quel cognome, ha assunto un atteggiamento assai discutibile. Sempre più discutibile. Conseguenza di una convinzione distorta, secondo cui solo lui, Nando Dalla Chiesa, fa bene e solo lui è incarnazione della lotta alla mafia, gli altri non devono esistere e tantomeno devono osare apparire rischiando di "oscurarlo". Questo è l'atteggiamento che già criticammo molto tempo fa, nel silenzio dei tanti, anche di coloro che oggi se ne accorgono, sentendo sulla propria pelle le “ferite” prodotte da quell'atteggiamento di Nando Dalla Chiesa...Nando, considerandosi “icona” dell'altare antimafia, sferra un attacco in piena regola a Giulio Cavalli e ad un collaboratore di giustizia, Luigi Bonaventura. Lo fa su “Il fatto quotidiano” di Travaglio che, se vogliamo andare a vedere, con un lavoro capillare di mistificazione dei fatti, è riuscito ad accreditare, invece, un riciclatore mafioso, millantatore e bugiardo patentato, quale Ciancimino Massimo, quale “bocca di verità”, eretto a “simbolo” di certa antimafia cialtrona. Ops, è vero, anche Nando Dalla Chiesa crede in Ciancimino jr (scriveva infatti il 4 febbraio 2010 sul suo blog "io a quel che dice Ciancimino jr ci credo"). Quella di Nando Dalla Chiesa non è una critica, magari anche aspra, su posizioni o azioni, che sarebbe più che legittima... è un puro e semplice attacco frontale. Un attacco che si inquadra nell'atteggiamento del “Nando primadonna” che non tollera che ci siano “altri”, con altri metodi, dettati dalla propria storia, che possano essere promotori di un azione di contrasto alle mafie. Quel ruolo ed il palcoscenico dell'antimafia lui lo considera cosa sua e dei suoi. Nessuno deve osare fare qualcosa che possa renderlo protagonista di quella battaglia, perché lui, il Nando, non sarebbe più l'unico attore su quel palcoscenico. Questo è per il narcisista inaccettabile e per questo, di nuovo, sui nuovi bersagli sputa veleno. Un brutto gesto quello di Nando Dalla Chiesa. Pessimo. Prima di tutto perché lo screditare un collaboratore di Giustizia, ritenuto attendibile dallo Stato perché la magistratura ha riscontrato quanto da questi verbalizzato, fa comprendere che a Nando Dalla Chiesa non piaccia quello strumento essenziale nella lotta alle organizzazioni mafiose che è proprio quello dei collaboratori di Giustizia. Inoltre, sempre pessimo, perché Nando Dalla Chiesa dimostra la stortura propria di certa antimafia – non solo sua, quindi, sia ben inteso - che vede “collaboratori buoni” ed “collaboratori cattivi”, non sulla base dell'attendibilità verificata da Procure e Tribunali, ma classificati in una o nell'altra categoria su base prettamente “politica”, di convenienza. Sono “buoni” se quanto dichiarano è gradito alla propria parte o alla propria teoria e “cattivi” se invece quanto denunciano “non gradito” e smonta certi teoremi. Un brutto gesto quello di Nando Dalla Chiesa. Ingiusto e vile anche nei confronti di Giulio Cavalli che, con ciò che sa fare, cioè l'attore, ha promosso un impegno civile di contrasto culturale oltre che di denuncia civile contro le mafie. Può piacere o meno il suo lavoro e la sua scelta, lo strumento usato per promuovere il contrasto alle mafie, ma merita rispetto. Non tutti usiamo gli stessi strumenti, non tutti abbiamo identici metodi di lavoro, operativi, nel promuovere l'azione di contrasto alle mafie, ma quando si è in buona fede, si possono promuovere critiche, non si delegittima e non si aggredisce. Giulio Cavalli è stato minacciato di morte. Non lo dice solo Bonaventura ma anche altri collaboratori. Lo hanno evidenziato diversi elementi valutati dalla magistratura e dalle autorità competenti. Giulio Cavalli merita rispetto e tutela. Nando Dalla Chiesa, inoltre, sa bene che portare avanti l'azione antimafia, di denuncia e contrasto culturale, attraverso il teatro è un importante tassello da promuovere. Dovrebbe anche sapere per l'insegnamento concreto di Peppino Impastato, che i mafiosi, risultano insofferenti e indeboliti, dall'uso dell'ironia e dello sbeffeggio. Anche da questa pratica passa l'esorcizzazione della forza di intimidazione delle mafie, del loro “alone” di potere intoccabile. Lo sa bene, Nando Dalla Chiesa, e lo ha usato anche lui questo strumento. Scrivendo e promuovendo, anche con Libera, con diversi attori e palcoscenici, spettacoli teatrali. Vuole il monopolio? Vuole essere l'unico, per il nome che porta, ad avere il palcoscenico ed il pubblico a disposizione? Anche questo è esclusiva di “Libera”? No, Nando Dalla Chiesa, se pensa questo si sbaglia di grosso. E si sbaglia di grosso anche perché non ha personalmente, come non lo ha Libera, come non lo ha nessuno, il “MONOPOLIO” dell'antimafia. Lo abbiamo già detto e ripetuto (invano) conquistandoci la tua querela e quella di Pio Ciotti... Quando non è “la primadonna”, Nando Dalla Chiesa, non critica in modo serrato, anche duro, parte con l'insulto. Noi, a differenza sua, non abbiamo scelto di portarlo in Tribunale, con le querele che avremmo potuto presentare, perché, a differenza sua, abbiamo la convinzione che le diversità e le divergenze, anche le più pesanti, si debbano affrontare “politicamente”, con il confronto. Ed è proprio questa diversa impostazione che segna la differenza di chi è pronto a mettersi in discussione e chi invece si considera “insindacabile”, tra chi critica l'altro e chi invece sputa veleno contro l'altro, tra chi accetta di non essere il solo a promuovere un impegno civile e chi invece vuole affermarsi come l'unica icona intoccabile. Il professionismo dell'antimafia, con la sete di “monopolio” e business è un cancro che divora l'antimafia. Lo denunciammo da tempo, inascoltati, sia noi che altri. Oggi, purtroppo, sono diversi i casi che ci hanno dato ragione. E, attenzione, questo tipo di “professionismo” distorto, nell'antimafia, devasta la credibilità e l'efficacia di azione anche di chi è in buona fede ed opera in modo pulito. Il cercare di svilire gli “altri”, quelli che con fatica portano avanti il proprio lavoro quotidiano, perché solo alcuni pochi “eletti”, legati alla politica, avrebbero “diritto” di farlo, è una pratica che deve finire. E poi, Nando Dalla Chiesa dovrebbe avere il coraggio di guardasi indietro. Riflettere sul percorso che ha fatto prima di diventare “professore dell'antimafia”. Se lo facesse noterebbe le contraddizioni pesanti che caratterizzano quel percorso. Quando era “garante” della MARGHERITA in Liguria non ricorda che non aveva mosso un dito per mettere fuori certi pessimi soggetti che, la pratica politica, ha evidenziato essere indegni? Non ricordi davvero quell'assalto alla Margherita da parte degli ex teardiani savonesi a cui ha assistito, da “garante”, muto e immobile? Non ricorda che quella Margherita ha spianato la strada alle carriere dei Tiezzi, dei Monteleone, dei Paldini, del Romolo Benvenuto e via discorrendo? Perché, lui che si dice puro e coerente, accettò il compromesso in quel pantano di partito? Ed un esame critico sul proprio lavoro al fianco di Marta Vincenzi – prima a pagamento e poi gratuito – in cui si occupava di costruire occasioni da “paravento” antimafia a quell'amministrazione che – lo dicono le risultanze delle inchieste – era piegata ad assecondare gli appetiti dei MAMONE, individuati dalla Guardia di Finanza, come punto di contatto tra cosche, politica ed imprese, perché Nando Dalla Chiesta non lo vuole fare? Non lo abbiamo sentito indignarsi e denunciare gli appalti e lavori di somma urgenza assegnati ai MAMONE (anche soggetti, con la ECO-GE, ad un interdizione atipica antimafia) o al FURFARO, per citarti due casi, che venivano assegnati (direttamente o con le società partecipate) proprio da quell'amministrazione di cui curava la campagna “Genova città dei Diritti”. Come lo spiega, questo punto, Nando Dalla Chiesa? La mafia, le contiguità e le collusioni, le si vede e denuncia solo quando ad amministrare sono “gli altri”? Solo quando è l'altra parte politica che ha contiguità e connivenze? Anche sulla questione che tanto lo trova ora in prima linea, quella delle critiche a Rosy Canale, dovrebbe vederlo parlare con un pizzico di onestà intellettuale. Chi l'ha invitata in giro per l'Italia, Rosy Canale, come “icona” dell'antimafia? Non è forse Libera, ad esempio, che l'ha portata a Genova, come in Emilia-Romagna ed altrove? Non è forse Libera con il Comune di Milano che l'ha invitata al “I° Festival dei Beni Confiscati”? E Nando Dalla Chiesa non è forse il presidente onorario di Libera? L'avete invitata, l'avete promossa a “icona” e poi Nando Dalla Chiesa dice, ora, dopo l'indagine, che si sentivi in imbarazzo a parlare negli stessi eventi con Rosi Canale? E perché non lo ha detto prima? Perché non è intervenuto, in quelle occasioni, per dire ciò che ora – dopo – afferma e scrive? Nando Dalla Chiesa, criticare gli altri è legittimo. Usare anche toni aspri nel confronto è legittimo. L'atteggiamento da primadonna, che non tollera gli “altri”, che sferra attacchi volti puramente a delegittimare, è invece intollerabile. E' un atteggiamento intollerabile che rischia di inquinare e scoraggiare anche chi opera in buona fede, ad esempio, in Libera. Guardare i problemi, considerare che si sia una moltitudine nel promuovere e compiere una certa battaglia, confrontarsi tra diversi, è lo spirito necessario. Nascondere i problemi, le diversità, il diritto di cittadinanza di chi opera diversamente, in modo indipendente, è intollerabile ed assoluto controsenso ai principi della Legalità che si dichiara di voler affermare. Ancora una volta, come abbiamo già fatto, gli lanciamo l'invito ad un bagno di umiltà. Si assuma che esistono forme diverse e autonome e indipendenti di promozione della lotta alle mafie. Si assuma che serve un confronto serio per superare i limiti – anche rispetto alla gestione dei beni confiscati – tra tutti i soggetti che fanno antimafia in buona fede. Si assuma che nessuno può essere e considerarsi una “primadonna”, nemmeno se porta un cognome importante che, proprio per quello che rappresenta, dovrebbe anche saper rispettare e non, quindi, sfruttare.

… c'è da segnalare un episodio che ha visto il dottor Paolo Borsellino scavalcare, nell'assegnazione al posto di procuratore della repubblica di Marsala, un altro concorrente più anziano, perché questi non era stato mai incaricato di processi contro la mafia...Anche nel sistema democratico può avvenire che qualcuno tragga profitto personale dalla lotta alla delinquenza organizzata - Uomini pubblici che esibiscono a parole il loro impegno contro le cosche e trascurano i propri doveri amministrativi. L. Sciascia, Corriere della Sera, 10 agosto 1987.

Antimafia: è sempre più scontro tra “primedonne” e “professori”, scrive Matilde Geraci. Necessario, invece, un confronto umile tra tutti i soggetti che, in buona fede e con gli strumenti che hanno a disposizione, si battono quotidianamente nella promozione della lotta alla criminalità organizzata. Descrizione: dallachiesa-cavalli“I professionisti dell’antimafia”: titolava così il famoso articolo di Leonardo Sciascia apparso sulle pagine del Corriere della Sera il 10 gennaio 1987, in cui lo scrittore di Racalmuto, commentando l’opera dello storico inglese Christopher Duggan, dedicata all’analisi del fenomeno mafioso nel periodo fascista, osservava come la lotta alla mafia fu, in quell’epoca, strumento di una fazione, interna al fascismo stesso, volta al raggiungimento di un potere incontrastabile. «Insomma, l’antimafia come strumento di potere. Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e critica mancando. E ne abbiamo qualche sintomo, qualche avvisaglia. Eccone uno attuale ed effettuale», scriveva Sciascia, il cui bersaglio principale era Paolo Borsellino, che qualche mese prima era diventato procuratore della Repubblica di Marsala, e più in generale il comportamento di alcuni magistrati palermitani del pool antimafia, i quali a suo dire avevano utilizzato la battaglia al sistema mafioso, come strumento per fare carriera. Borsellino finì sotto la lente incauta dello scrittore, perché aveva vinto il concorso per l’assegnazione di quel prestigioso posto. Posto che sarebbe dovuto spettare ad un collega “più anziano”, ma che si guadagnò di diritto per le specifiche competenze professionali maturate sul campo e riconosciute dal Csm. Inutile dire che quell’articolo scatenò una serie di aspre polemiche e Sciascia fu a poco, a poco sempre più isolato dal panorama politico-culturale dell’epoca. Colui che certamente aveva più diritto degli altri a prendersela, non lo fece. Anzi, quando i due si incontrarono proprio a Marsala, un anno esatto dopo la pubblicazione del pezzo, la querelle montata ad arte da chi evidentemente aveva interesse nel farlo, si concluse con un pranzo sul lungomare della cittadina trapanese. «Sembravano due vecchi amici che si rivedevano dopo tanti anni», ricordò la moglie del giudice poco tempo fa, la quale, in un’intervista rilasciata ad Attilio Bolzoni per la Repubblica, dichiarò: «Leonardo Sciascia vent’anni fa aveva capito tutto prima degli altri». Un gigantesco fraintendimento, quindi, di cui rimase vittima lo stesso autore del celebre j’accuse. La cui tesi di fondo, non solo cercava giustamente di mettere in guardia da chi sfruttava la lotta alla mafia per un tornaconto personale, ma torna attuale più che mai. Un esempio per tutti: il caso di Rosy Canale, presidente del Movimento Donne di San Luca, accusata di truffa aggravata e peculato per essersi indebitamente appropriata dei finanziamenti erogati dal Ministero della Gioventù, dalla Presidenza del Consiglio regionale della Calabria, dall’Ufficio territoriale del governo di Reggio Calabria e dalla Fondazione “Enel Cuore”. Una vicenda sulla quale il procuratore aggiunto della Repubblica di Reggio Calabria Nicola Gratteri ha speso parole durissime, ma giuste: «Da tanti anni metto in guardia da chi si erge a paladino dell’antimafia senza avere una storia alle spalle. Non solo da magistrati, da investigatori, da giornalisti, ma da cittadini non possiamo tollerare che ci sia gente che ne abbia fatto un mestiere. Abbiamo tutti l’obbligo di essere vigili nei confronti di queste condotte che non solo sono penalmente rilevanti, ma anche eticamente riprovevoli e inaccettabili». Gratteri prende spunto dalla vicenda della Canale per lanciare pesanti accuse a quella che lui stesso definisce «antimafia delle parole». Troppo spesso, afferma, «manca la coerenza fra ciò che si dice e ciò che si fa». Un singolo episodio vergognoso non può e non deve andare a scapito della “buona antimafia”. Quella vera, che parecchie associazioni e tantissimi cittadini riescono a portare avanti ogni giorno, lontani dai riflettori e dalla corsa a premi e medaglie. L’antimafia è uno strumento necessario e importantissimo per una società che si definisce civile, e non capirlo, pensando che un esempio negativo possa spegnere la luce di quelli positivi, fortunatamente ben più numerosi, è un errore in cui non dobbiamo cadere. Ci è caduto invece, ahimè, Nando dalla Chiesa. Nell’articolo titolato “Benvenuti al circo antimafia”, pubblicato sabato 21 dicembre su Il Fatto Quotidiano, dalla Chiesa, parla di «bubbone da far scoppiare», riferendosi «al variopinto circo che vorrebbe prendere le bandiere dell’antimafia» e citando proprio il caso di Rosy Canale, eletta «eroina dell’antimafia». «Perché – si legge ancora – se qualcuno viene accreditato, senza mai un controllo, da un intero circuito di giornalisti, premi, artisti o associazioni, la gente alla fine è pronta a farne un’icona. E a farsi compartecipe di una truffa». Critica più che mai legittima, la sua, che però poi, scorrendo l’articolo, diventa un attacco esplicito a chi in realtà è ben lontano da quell’antimafia fatta solo di parole e in cerca di consenso prima di tutto politico. Accuse dirette, di cui risulta difficile capirne le motivazioni, certamente incaute come lo furono quelle che spinsero ventisei anni prima Sciascia ad attaccare Borsellino. Dalla Chiesa scrive che qualcuno «è intervenuto per ammonire, testualmente, “le cose si raccontano tutte e bene, andrebbe detto a un certo signor  Nando”. E qui si apre l’ulteriore, e più grottesco, capitolo. Chi è infatti questo censore?». Il giornalista parla di Luigi Bonaventura, ex boss di ‘ndrangheta, che sette anni fa è diventato collaboratore di giustizia. «Per spiegare che cosa intenda un mafioso quando dice “signor Nando”, e quanto questo sia tipico del linguaggio della delegittimazione mafiosa – spiega il giornalista – basta rileggersi il Falcone di “Cose di Cosa nostra”. Ma il fatto è un altro. Questo boss che da me pretende chiarimenti, da un lato protesta ovunque per non essere protetto dallo Stato (che lo lascerebbe in pericolo) dall’altro gira l’Italia a far dibattiti sulla mafia, invitato da ineffabili associazioni antimafia (come se ai tempi si fosse invitato Buscetta o Contorno). Ed è pure lo stesso che ha raccontato non ai magistrati ma a un giornale telematico che la ‘ndrangheta aveva deciso di uccidere Giulio Cavalli. […] Morale: il pentito sparge rivelazioni sui rischi mortali che corre Cavalli e Cavalli dichiara ovunque che il pentito è credibilissimo. Uno riceve la scorta e l’altro viene invitato ai dibattiti e scrive perfino editoriali». E prosegue, tra esempi (Saviano) e paragoni (Canale), per concludere: «Qui tutto si rovescia invece in un tripudio di soubrette e saltimbanchi, narcisi e veterani senza storia (o dalla storia taroccata). Senza più alcuna remora morale. Al punto che il pluriassassino trasformato in antimafioso doc esorta sprezzante il figlio della vittima di mafia a dire la verità. Quando invece è arrivato il momento di dire basta». Lo stupore nel leggere questo attacco è tanto. Ancor più che le parole provengono da un intellettuale, familiare di vittima di mafia. Stupiscono perché con queste accuse si scredita la figura del collaboratore di giustizia Bonaventura, ritenuta invece attendibile dallo Stato, visto che ha collaborato e collabora con decine di Procure, aiutando la magistratura ad arrestare pericolosi ‘ndranghetisti e a fare luce sulla trattativa che pezzi deviati delle Istituzioni avviarono con la ‘ndrangheta (“non contenti” di dialogare soltanto con Cosa nostra). Forse dalla Chiesa non gradisce i collaboratori di giustizia, quali strumento nella lotta alla criminalità organizzata? Eppure il loro contributo, è innegabile, è fondamentale tanto quanto quello dei testimoni di giustizia. Lo avevano capito Falcone e Borsellino e lo aveva compreso ancora prima proprio Carlo Alberto dalla Chiesa. Il generale, infatti, fu un importante innovatore nelle tecniche di investigazione sul terrorismo e sul crimine organizzato con l’uso dei pentiti e degli infiltrati, creando negli anni Settanta il Nucleo Speciale Antiterrorismo, dalle cui ceneri nacque vent’anni dopo il Ros. Se da un lato Nando dalla Chiesa smonta il lavoro della magistratura, dall’altro, parallelamente, sminuisce anche il lavoro di Giulio Cavalli. Attore che dell’impegno civile, quale forma di contrasto alle mafie, ne ha fatto una ragione di lavoro e di vita. Tanto da dover vivere oggi sotto scorta, a causa delle sue denunce e in seguito alle concrete minacce di morte. E nel caso qualcuno se lo stesse chiedendo, è lo stesso Cavalli a scrivere sul proprio profilo Facebook: «A proposito, tanto per sorridere insieme: il mio compenso per la serata al Teatro Biondo di Palermo è stato 0. Zero». Se questo Stato non è in grado di garantire tutela ad ogni suo singolo cittadino (figliol prodigo o meno che sia), che almeno ci sia il rispetto per chi promuove, davanti a una Corte o ad una platea poco importa, la lotta alle mafie. Diversamente, c’è di fondo qualcosa che non va e che dovrebbe preoccuparci: un pregiudizio dell’antimafia nell’antimafia. È vero che ultimamente la lotta alla criminalità organizzata è diventata per molti un business. Troppi libri e film, per non parlare dei convegni che da Nord a Sud si organizzano attorno al tema, durante i quali si fanno i soliti discorsi, ma di azioni concrete nemmeno l’ombra. E non possono che tornare di nuovo alla mente le parole del procuratore Gratteri: «La vera antimafia si fa senza sovvenzioni pubbliche». Finanziamenti di cui invece Libera beneficia largamente, così come di un saldo legame con un ben determinato gruppo politico. Tutto lecito, per carità. Però, forse dalla Chiesa, presidente onorario dell’associazione, dovrebbe pensare anche a questo, prima di lanciare anatemi e procedere a condanne aprioristiche.

Rosy Canale e Sebastiano Giorgi: i simboli antimafia arrestati a San Luca, scrive Alberto Sofia su “Giornalettismo”. Sei fermati in un'operazione contro la 'ndrangheta nel comune in provincia di Reggio Calabria. In manette anche l'ex sindaco. Così come la nota attivista, per truffa aggravata e peculato, ma senza aggravante dalla condotta mafiosa

Sei persone, compresi due boss, una attivista antimafia, un ex sindaco e un ex assessore di San Luca, in provincia di Reggio Calabria, sono state arrestate dai carabinieri con le accuse, a vario titolo, di associazione a delinquere di tipo mafioso, intestazione fittizia di beni e reati contro la pubblica amministrazione. Secondo gli inquirenti, avrebbero agevolato la ‘ndrangheta nella sua articolazione territoriale. Tra i fermati c’è anche Rosy Canale, già conosciuta per il suo impegno antimafia: coordinatrice del “Movimento delle donne di San Luca” (un’associazione che si occupa di sostegno sociale), sulla donna pesa l’accusa di truffa aggravata e peculato (ma senza aggravante dalla condotta mafiosa). Il Tribunale di Reggio Calabria su richiesta della Dda coordinata dal Procuratore Federico Cafiero de Raho ha disposto sei misure cautelari, cinque in carcere e una agli arresti domiciliari. Nell’inchiesta ribattezzata “Inganno”, spiccano i nomi di quelle che erano considerate due icone antimafia, ovvero l’ex sindaco Sebastiano Giorgi, di 48 anni, ma soprattutto Rosy Canale, 41enne, coordinatrice del “Movimento delle donne di San Luca”. In carica dal 2009 fino ai primi mesi del 2013, Giorgi era noto per aver partecipato a diverse manifestazioni di denuncia contro la ‘ndrangheta, offrendo un’immagine anti-mafia alla sua Amministrazione. Eppure, nel maggio 2013, era stato deciso lo scioglimento del Comune per infiltrazioni mafiose. Un provvedimento disposto allora dal prefetto di Reggio Calabria, Vittorio Piscitelli, su delega del Ministro dell’Interno. Di fronte alla decisione, l’allora sindaco si era detto “amareggiato e sorpreso”, difendendosi e spiegando di aver sempre operato nel segno della legalità e della trasparenza, come si spiega su Mnews.it. In realtà, secondo gli inquirenti che hanno condotto l’indagine che ha portato al suo arresto, la sua elezione sarebbe stata favorita dalle cosche Pelle e Nirta. Tutto in cambio del loro controllo sugli appalti gestiti dal Comune. Tra questi, quello per la metanizzazione del paese di San Luca, l’appalto più importante gestito dal Comune, oltre a vari lavori di minore importo. Un controllo totale delle attività comunali, secondo quanto ricostruito dagli inquirenti. Per Rosy Canale, invece, che si trova agli arresti domiciliari, non c’è alcuna accusa di reati mafiosi, ma di peculato e truffa.

CHI E’ ROSY CANALE – La coordinatrice del Movimento delle donne di San Luca avrebbe utilizzato per l’acquisto di beni personali i finanziamenti che dovevano invece essere destinati a finalità sociali. Risorse che, secondo una prima stima fatta dagli investigatori, ammonterebbero a circa 100 mila euro. La donna, conosciuta per il suo impegno antimafia, è nata e cresciuta a Reggio Calabria: la sua giovinezza – ha raccontato – è stata “scandita dai morti ammazzati della seconda guerra di ‘ndrangheta in riva allo stretto”. Diventata un’imprenditrice di successo nel settore della ristorazione e dell’intrattenimento, era nota per essersi opposta allo spaccio di cocaina nella sua discoteca, imposto dalle ‘ndrine di Reggio. Per questo motivo aveva subito un violento pestaggio, con i malavitosi che le avevano rotto denti, un braccio, una mano, tre costole, il femore. Era riuscita però a salvarsi e, dopo otto mesi di ricovero e tre anni di riabilitazione, decide di trasferirsi proprio a San Luca, il paese aspromontano considerato la capitale della ‘ndrangheta mondiale. Decisiva per la scelta - si spiega sul suo profilo su Facebook –  era stata «la strage di Duisburg del ferragosto del 2007, spartiacque della sua esistenza». Considerata come «una mattanza senza precedenti, pianificata a pochi chilometri dalla sua Reggio e consumatasi in Germania. L’ennesimo orrore della lunga faida tra le cosche di San Luca». Canale aveva deciso di avviare a San Luca una «rivoluzione pacifica fatta di legalità e condanna della violenza». Si spiega: Lavora come volontaria nella scuola media e fonda il Movimento delle Donne di San Luca dove si ritrovano le madri, le sorelle, le mogli e le figlie di tante famiglie toccati da lutti di ‘Ndrangheta. La mission dell’associazione è quello di creare opportunità formative, lavorative e culturali in un territorio ad altissima penetrazione mafiosa. «La violenza ha cambiato la mia vita in maniera drastica. Il mio nome poteva essere nella lista delle vittime della ‘ndrangheta, ma io non sono morta». Tanto da aver deciso di raccontare la sua storia nei teatri italiani con un evento intitolato “Malaluna – storie di ordinaria resistenza nella terra di nessuno”, con regia di Guglielmo Ferro e musiche di Franco Battiato. In pratica, un simbolo della lotta contro la ‘ndrangheta. In manette sono finiti anche due boss della ‘ndrangheta, Antonio Nirta, 57 anni, e Francesco Strangio, di 59 anni. Allo stesso modo come Francesco Murdaca, assessore comunale della Giunta che aveva come sindaco proprio Sebastiano Giorgi. Il reato contestato è di associazione mafiosa.

Rosy Canale, l'imprenditrice anti 'ndrangheta arrestata per truffa. Con i soldi dell'antimafia comprava macchine e vestiti. La Dda di Reggio Calabria ha eseguito l'arresto nell'ambito dell'operazione "Inganno". E' accusata di utilizzare i fondi a "fini personali". Il procuratore Gratteri: "No ad 'antimafia delle parole'", scrive Giuseppe Baldessaro su “La Repubblica”. Con i soldi dell'antimafia si comprava macchine, i mobili per la casa e i vestiti. Non si faceva mancare nulla Rosy Canale, viaggi compresi. Beni e vizi pagati con i contributi assegnati all'associazione “Donne di San Luca”. Denaro che doveva servire a sostenere attività per la legalità e che invece sono stati “distratti a fini personali”. Stamattina la Dda di Reggio Calabria ha fatto arrestare un'altra icona della lotta alla 'ndrangheta. Una donna che, come Carolina Girasole (l'ex sindaco di Isola Capo Rizzuto arrestata la scorsa settimana) era considerata un punto di riferimento, una faccia pulita della Calabria onesta. Non a caso l'indagine coordinata dal Procuratore aggiunto Nicola Gratteri e condotta dai carabinieri è stata chiamata “Inganno”. La Distrettuale antimafia ha infatti scoperto che i soldi del Ministero della Gioventù, del Consiglio Regionale, della Prefettura e della Fondazione “Enel Cuore”, da utilizzare per la gestione di un bene confiscato alla famiglia Pelle sono stati invece usati a “fini personali”. Per questo che la ludoteca per i bambini di San Luca, inaugurata nel 2009, in realtà non è mai entrata in funzione. "Attenzione a chi si erge a paladino antimafia senza avere dietro una storia. C'è gente che è morta per questo e non possiamo tollerare come magistrati, come giornalisti, come cittadini che ci sia gente che lucra e che dell'antimafia fa un mestiere", ha detto il procuratore aggiunto di Reggio Calabriasulla vicenda. "Ci sono condotte che non hanno rilievo penale ma sono moralmente riprovevoli", ha aggiunto Gratteri riferendosi alle "promesse fatte alle donne di San Luca, anche a quelle colpite da forti lutti". Nella lotta alla mafia "bisogna essere seri, non ci sono ma e non ci sono se. Dobbiamo essere intransigenti", ha sottolineato. Le donne di San Luca "non hanno mai visto quei soldi". Il monito del procuratore aggiunto della Dda reggina è di "fare attenzione all'antimafia delle parole, manca la coerenza tra ciò che si dice e ciò che si fa". Rosy Canale, 40 anni, è accusata di truffa aggravata e peculato. Il suo curriculum la racconta come imprenditrice reggina che si è ribellata alla 'ndrangheta a cui impedì di spacciare droga nel suo pub-discoteca. Nel 2007, dopo la strage di Duisburg, si trasferì per un periodo ai piedi dell'Aspromonte e fondò il “Movimento delle donne di San Luca”. Un'associazione che aveva tra le sue finalità quella di lavorare per i bambini del paese. Un progetto che poi non andò avanti. Nel frattempo Rosy Canale ha continuato la sua attività pubblicando un libro “La mia 'ndrangheta” per le Edizioni Paoline, e  portando in giro per i teatri italiani lo spettacolo “Malaluna - Storie di ordinaria resistenza nella terra di nessuno”, con le musiche Franco Battiato, già andato in scena in alcune realtà. Nei giorni scorsi aveva ricevuto a Roma il premio “Paolo Borsellino”, e proprio in quell'occasione aveva invitato Papa Francesco ad andare a San Luca. Pur non essendo indagata per reati di mafia, Rosy Canale è finita in un'inchiesta che ha portato all'arresto di altre cinque persone accusate di reati di 'ndrangheta. La Procura guidata da Federico Cafiero de Raho ha ottenuto la custodia cautelare per l'ex sindaco di San Luca (oggi sciolto per mafia), Sebastiano Giorgi, e per l'ex assessore all'urbanistica, Francesco Murdaca. I due amministratori avrebbero in più occasioni favorito le cosche. In particolare è stato rilevato che Francesco Strangio, alias “Ciccio Boutique”, era riuscito ad accaparrasi la gestione del mercato del Comune e della zona di Polsi. Nelle fascicolo ci sono poi storie di appalti e di intestazioni fittizie, dietro le quali ci sarebbero stati i boss della “Mamma”, la “società di 'ndrangheta” di San Luca, riconosciuta come la più “antica, potente e autorevole della Calabria”.

I ruoli dei due personaggi più noti coinvolti nell'operazione "Inganno" sono stati chiariti dalle attività investigative che hanno permesso di ricostruire ogni passaggio, scrive “Il Quotidiano della Calabria”. L'aspetto più eclatante è legato a Rosy Canale, che è agli arresti domiciliari. Non è accusata di reati mafiosi, ma di peculato e truffa. Secondo quanto è emerso dalle indagini, avrebbe utilizzato per l'acquisto di beni personali i finanziamenti, che avrebbero dovuto essere destinati a finalità sociali, erogati al "Movimento delle donne di San Luca". Finanziamenti che, secondo una prima stima fatta dagli investigatori, ammonterebbero a circa 100 mila euro, ma che potrebbero essere, sulla base di un calcolo definitivo, anche più consistenti.  E le intercettazioni e le indagini mettono a nudo le condizioni in cui venivano utilizzati i fondi. Rosy Canale avrebbe usato i finanziamenti dell'associazione per acquistare accessori e abiti firmati alla figlia, quindi i vestiti al padre e beni di lusso. Ma è davanti ai richiami della madre di Rosy Canale che emerge lo spaccato più difficile da accettare. Le spese folli di Rosy Canale fanno scattare, infatti, i richiami, ai quali però lei replica: "Me ne fotto". Dunque, secondo gli inquirenti, ci sarebbe stata una piena consapevolezza dei reati compiuti, e anche una certa sfrontatezza. Nel dettaglio Rosy Canale è accusata di aver «indotto in errore dapprima la prefettura e poi la fondazione Enel Cuore sulla serietà ed affidabilità delle motivazioni del Movimento». Con particolare riferimento ad primo un finanziamento di 160 mila euro utilizzati «per finalità esclusivamente private (ovvero l'acquisto di mobili ed arredamento per la propria abitazione, di abbigliamento e di una minicar per la figlia, di abbigliamento per sé e il padre, di una settimana bianca per sè e la figlia). A questo si sono aggiunti altri finanziamenti minori utilizzati sempre, secondo la ricostruzione degli inquirenti, per finalità private come «l'acquisto di una autovettura Fiat 500, sì intestata al Movimento ma di fatto utilizzata esclusivamente per le sue esigenze personali».  Per quanto riguarda l'ex sindaco Sebastiano Giorgi, in carica dal 2009 ai primi mesi di quest’anno, aveva partecipato ad innumerevoli manifestazioni contro la 'ndrangheta accreditando alla sua Amministrazione un forte impegno contro le cosche. Immagine scalfita dal successivo scioglimento del Comune per infiltrazioni mafiose.  Dall’indagine condotta dai carabinieri che ha portato al suo arresto è emerso, invece, che in realtà l’elezione di Giorgi a sindaco sarebbe stata favorita dalle cosche Pelle e Nirta in cambio del loro controllo sugli appalti gestiti dal Comune. In particolare, le due cosche, grazie alla Giunta presieduta da Giorgi, avrebbero ottenuto l’appalto per la metanizzazione di San Luca, il più importante gestito dal Comune, oltre a vari lavori di minore importo. In ogni caso, il controllo da parte delle cosche sull'attività del Comune sarebbe stato totale.

Rosy Canale, l'antimafia con troppe ombre. Arrestata con l'accusa di truffa e peculato dopo un'indagine che ha dimostrato come la 'ndrangheta riesca a infiltrarsi ovunque. In primo luogo nell'anti-ndrangheta. Eppure la costruzione del curriculum antimafioso di Rosy Canale lasciava parecchi dubbi, scrive Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”.

Metti una serata al teatro Parenti di Milano con la 'ndrangheta. Autrice e protagonista del monologo, presentato in prima il 18 ottobre 2013, era Rosy Canale, arrestata questa mattina con l'accusa di truffa e peculato insieme ad altre cinque persone accusate anche di associazione mafiosa. L'indagine si chiama "Inganno" e il nome è quanto mai azzeccato per dimostrare come la 'ndrangheta riesca a infiltrarsi ovunque. E in primo luogo nell'anti-ndrangheta. Soltanto pochi giorni fa Rosy Canale aveva ricevuto il premio Borsellino, dedicato a un martire della lotta al crimine organizzato. Ma gli spin doctors dei clan sanno che il modo migliore per svilire un eroe è metterlo in cattiva compagnia. Eppure la costruzione del curriculum antimafioso di Rosy Canale lasciava parecchi dubbi. Ecco quello che lei stessa racconta nel monologo, presentato come una storia di vita vera. L'autrice viene da una famiglia originaria di Fiumara di Muro, roccaforte di uno dei protagonisti della seconda guerra di 'ndrangheta, Nino "Nano feroce" Imerti. Rosy, nata nel 1972, è un'adolescente quando la guerra inizia (1985). I morti, alla fine, saranno oltre 700. In questo scenario di bombe e sangue, appena maggiorenne decide di andare negli Stati Uniti per tentare la carriera di cantante. Per mantenersi fa la cameriera in un ristorante a New York dove tenta, con un certo successo, le prime esibizioni. Poi decide di tornare in Italia per trascorrere il Natale ma sull'aereo incontra un concittadino. È il colpo di fulmine. Nel giro di due anni, Rosy si sposa, ha una figlia e divorzia. Dopo la separazione, con una bambina piccola da mantenere, cerca lavoro a Reggio. Siamo all'inizio dell'era Scopelliti (2002) e la città sta facendo rotta verso la movida, le notti bianche e il panem et circenses a spese pubbliche. Qualcuno - non è chiaro chi - procura a Rosy un lavoro come direttrice artistica della discoteca Malaluna, in pieno centro, a due passi dal teatro comunale Cilea. In brevissimo tempo, Rosy ristruttura il locale e lo trasforma nel punto di riferimento della vita notturna con incassi quotidiani enormi: 7mila euro. Su base annuale sono oltre 2 milioni di euro. Sei mesi dopo, Rosy va talmente forte che con un takeover non ostile si compra la gallina dalle uova d'oro. Non dice a quanto. Non dice dove ha preso i soldi. Lo compra, però, e ci lavora duramente finché una sera nota un ragazzo che traffica con palline di stagnola. Lei chiama un buttafuori e gli fa prelevare il ragazzo. La stagnola contiene cocaina. Rosy, invece di chiamare i carabinieri, la sequestra. Il fatto si ripete più volte finché interviene un conoscente di Rosy che la prega bonariamente di lasciare lavorare il ragazzo. Rosy rifiuta e continua a sequestrare la droga anche quando il vecchio spacciatore viene sostituito da altri. Lì incominciano le minacce, i piccoli danneggiamenti, i furti che vengono denunciati invano alle autorità. In una città come Reggio, dove il racket delle estorsioni controlla persino le foglie che cadono dagli alberi, ci si aspetterebbe che la 'ndrangheta mandasse qualche esattore a riscuotere in un locale che incassa migliaia di euro a serata. Ma no, nello spettacolo non si fa menzione di questo. Così una notte Rosy chiude il locale - sono circa le quattro - e si mette in macchina verso casa. Presto si accorge di essere seguita da una moto. Lei accelera e la moto accelera. Rallenta e la moto rallenta. Invece di chiamare il 113 con il cellulare, Rosy continua a guidare. È terrorizzata ma ciò non le impedisce di fermarsi a un distributore automatico per comprare le sigarette. Quando riparte, la moto è sempre là. Poco dopo, però, si affianca. Rosy si vede una pistola puntata in faccia. Sterza, travolge la moto ma anche la sua macchina sbanda e lei finisce contro altre automobili parcheggiate. Gli aggressori si rimettono in piedi senza danno e si avvicinano a lei. Per qualche motivo, decidono di non sparare. Invece la tirano fuori dalla macchina e la picchiano selvaggiamente. Seguono mesi di ospedale e riabilitazione. Rosy perde il locale ma non la voglia di ribellarsi. Dopo la strage di Duisburg del Ferragosto 2007, parte per San Luca e si impegna nel processo di pacificazione con le donne del paese devastate dai lutti di una faida, quella tra i Pelle-Vottari e i Nirta-Strangio, che dura da oltre quindici anni. Dal palco dello storico teatro milanese diretto da Andrée Ruth Shammah, Rosy chiude la pièce raccontando di come ha aperto una ludoteca a San Luca in un immobile confiscato. Poi l'ha chiusa perché non riceveva più fondi pubblici per le sue iniziative. Gli stessi fondi per i quali è stata arrestata stamattina. La serata del teatro Parenti, preceduta da un dibattito fra Rosy e Nando Dalla Chiesa, si conclude con un trionfo. Metà della sala piange. Tutti applaudono. L'onda emotiva ha travolto le incongruenze del racconto. Un racconto che, peraltro, è già stato espurgato da particolari imbarazzanti che si trovano nel libro La mia 'ndrangheta che Rosy Canale ha pubblicato per le Edizioni Paoline. Lì il ritratto dell'autrice da giovane rivela qualche particolare imbarazzante. Rosy stessa racconta del suo flirt da diciannovenne, quindi in piena guerra, con un "ragazzo dagli occhi dolci". Incomincia a frequentarlo e conosce i suoi amici. Fra questi, un certo Giuseppe, simpatico e spiritoso, che invita la comitiva a casa sua, ad Archi. Uno strano luogo pieno di telecamere di sorveglianza. Con grande stupore Rosy scopre di essere a casa di Peppe De Stefano, figlio di Paolo boss di Archi ucciso dai Condello-Imerti nel 1985, ed erede del padre con la carica di Capocrimine. Il "ragazzo dagli occhi dolci" fa parte del gruppo di fuoco dei destefaniani in guerra. Forse questo circuito di conoscenze potrebbe spiegare perché il Malaluna ha avuto problemi con la coca ma non con il pizzo. Del resto, il Malaluna non è mai stato di Rosy Canale. Lei si limitava a presiedere un'associazione senza scopo di lucro che gestiva uno dei locali più ricchi di Reggio in un contesto di grande rilassatezza fiscale. Men che meno è di Rosy Canale l'immobile, che adesso ospita una sala di videolotterie e poker elettronico. Lo stabile appartiene a tale Gaetano Tramontano, un gagliardo reggino nato nel 1904 che l'anno prossimo festeggerà i suoi 110 anni, salvo che qualcuno si ricordi di dichiararlo morto e magari riveli al catasto il reale proprietario. Dopo la sera del Parenti, la tournée di Rosy è andata avanti con lo stesso successo della serata di Milano e un accompagnamento di recensioni entusiastiche. Adesso il giro dei teatri registrerà una pausa ma il danno è fatto. Chi ha pianto in teatro la prossima volta non ci andrà più in teatro e la 'ndrangheta avrà trovato un mezzo molto più efficace della censura per tornare sotto traccia: creare un finto martire e aspettare che si screditi da solo.

L'antimafia dello Stato è anche quella che lascia da soli i giornalisti liberi.

Beppe Alfano, Pippo Fava e Mario Francese: l’inchiostro ed il sangue Beppe Alfano è stato un giornalista coraggioso e scomodo; intuì prima di tutti, e raccontò puntualmente, gli affari sporchi e la pericolosità nella provincia di Messina di una zona grigia abitata da boss mafiosi, massoni e colletti bianchi da sempre sottovalutata. Per questo venne assassinato Alfano e per questo, a distanza di 21 anni, la sua morte è ancora avvolta da misteri. Lo dice Fabrizio Ferrandelli, deputato regionale del Pd e vicepresidente della Commissione Antimafia, in occasione del ventunesimo anniversario dell'agguato in cui fu ucciso il giornalista di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina). A Sonia, Chicco e Fulvio, che non hanno mai smesso di lottare per arrivare a verità e giustizia, - aggiunge - va la mia vicinanza e l'auspicio che il loro impegno nelle istituzioni, ma anche attraverso l'associazione nazionale delle vittime della mafia, possa non solo alimentare la memoria di Beppe ma soprattutto contribuire a costruire una società finalmente libera dalla mafia.

Ci sono luoghi in cui essere cittadini onesti significa sacrificare tutto e chi impugna una penna per professione o per passione non può sottrarsi all’esercizio anche e soprattutto con essa della propria onestà, scrive Anna Foti. La Sicilia è tra questi luoghi meravigliosi e al contempo maledetti. Sono stati troppi i suoi intellettuali fermati dalla ferocia di Cosa Nostra e dall’indifferenza delle istituzioni. Ricordiamo, tra i tanti, tre momenti di questa mattanza che macchiano gennaio di rosso sangue: il 5 gennaio 1984 quando a Catania cinque proiettili calibro 7.65 raggiungono fatalmente la nuca dello scrittore giornalista Giuseppe Fava, considerato il primo intellettuale ucciso da Cosa Nostra; l’8 gennaio 1993 a Barcellona Pozzo di Gotto in provincia di Messina con l’assassinio di Beppe Alfano, raggiunto da tre proiettili calibro 22; il 26 gennaio 1979 quando davanti alla sua casa a Palermo viene assassinato il giornalista Mario Francese. Giuseppe Aldo Felice Alfano, conosciuto come Beppe, con la penna denunciò quello stesso malaffare di Barcellona Pozzo di Gotto e pagò con la vita la sua determinazione. Una coraggiosa lotta alla mafia. Nessuna verità definitiva. Una famiglia che difende la memoria. L’indifferenza, a volte degenerata anche in infamia, che batte sempre sul tempo la giustizia e punisce doppiamente le vittime ancora prima che i tribunali condannino i responsabili. La storia purtroppo si ripete. Sono trascorsi ventuno anni da quella sera dell’8 gennaio 1993, quando via Marconi di Barcellona Pozzo di Gotto, cittadina di quarantamila abitanti nella provincia di Messina, diventa teatro di morte. Quando nella sua Renault 9, il professore con la passione per il giornalismo, Beppe Alfano, militante di destra prima in Ordine Nuovo e poi nel Movimento Sociale Italiano, collaboratore dell’emittente radiofonica locale Radio Tele Mediterranea, corrispondente per il quotidiano catanese La Sicilia che neanche si costituirà parte civile nel processo, viene freddato da tre colpi di pistola. Si dovettero attendere anni prima dell’individuazione della pista del delitto mafioso, dopo i tentativi di infamare la memoria la sua memoria, ostinatamente difesa da Sonia Alfano, con le ipotesi di delitto passionale e assassinio per debiti di gioco. Invece Beppe aveva scoperto dove si nascondeva il boss di Cosa Nostra Nitto Santapaola, detto “u licantropo”, latitante dal 1982, conosciuto a Barcellona Pozzo di Gotto come zio Filippo e aveva uno dei suoi covi al numero 75 di via Trento, la stessa via dove Beppe viveva con la famiglia la numero 42. Nitto Santapaola, tra i principali indagati  per la strage di via Carini del 3 settembre 1982 in cui furono uccisi il prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa con la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo, viene arrestato pochi mesi dopo e condannato per la strage di Capaci, per quella di via D’Amelio, per l’omicidio del sindaco Vito Lipari e per quello del giornalista Giuseppe Fava. Il contesto in cui matura l’omicidio porta già i segni drammatici dell’omicidio di Graziella Campagna a Villafranca Tirrena nel dicembre del 1985 e di altro sangue innocente versato*. I processi sono quattro e vengono celebrati tra le due sponde dello Stretto, tra Reggio Calabria e Messina. Un collaboratore, Maurizio Bonaceto, diceva di aver visto e poi ritratta. Un mandante viene condannato a 30 anni di reclusione dalla Cassazione nel 1999, dopo l’assoluzione in primo grado: è il boss Giuseppe Gullotti; è colui che consegnò a Giovanni Brusca il telecomando per la strage di Capaci e uomo di fiducia dell’allora latitante Santapaola. Poi una pioggia di assoluzioni tra cui quella dell’altro presunto mandante Antonino Mostaccio, presidente dell’Associazione Assistenza ai Disabili (Aias) sul cui dubbio patrimonio, Alfano aveva scritto per denunciare. Condannato in via definitiva nel 2006 anche l’esecutore materiale Antonino Merlino, il cui processo è stato caratterizzato da un’altalena con due sentenze di condanna in primo e secondo grado poi seguite da due annullamenti in Cassazione e due nuovi giudizi sfociati in una condanna definitiva nel 2006. Intanto le dichiarazioni del pentito Maurizio Avola, ex sicario di Cosa Nostra che confessò agli inquirenti oltre ottanta omicidi  tra cui quello dello stesso direttore de I Siciliani Pippo Fava, gettano luce su altra zona d’ombra nell’ambito della quale la penna di Beppe Alfano aveva cercato di fare chiarezza. Accanto allo scandalo Aias, infatti le inchieste giornalistiche di Alfano avevano spaziato anche sul commercio di agrumi sul litorale tirrenico messinese in cui erano implicati interessi economici dei Santapaola e di alcuni imprenditori legati alla massoneria. Se dunque questa nuova pista sembrava escludere lo scandalo Aias, su cui si erano orientate le indagini dei pm messinesi Gianclaudio Mango e Olindo Canali, non la stessa indulgenza poteva riservarsi all’estraneità di Cosa Nostra dalla mente e dalla mano del delitto. E’ proprio Avola a fornire ai sostituti procuratori catanesi Amedeo Bertone e Nicolò Marino il nome di Giovanni Sindoni, potente massone in affari con il clan Santapaola per un traffico di arance che frodava, prassi illegale consolidata nel Mezzogiorno, le sovvenzioni agroalimentari dell’Unione Europea. Quattro processi, due condanne definitive per l’omicidio di Beppe Alfano ed ancora molti misteri. Una vicenda complessa perché profondamente radicata al Sud dove dietro un’apparente stasi si celano in realtà attività di spessore criminale notevole. Attività che Alfano, arrivato anche a denunciare il commercio di uranio impoverito e traffici di armi, cercava di portare alla luce. Il tutto mentre si ostinava a sottolineare che la provincia messinese era solo impropriamente definita “babba” (libera dalla presenza mafiosa nel gergo di Cosa Nostra), poiché era invece zona franca per latitanti e traffici consolidatisi grazie a quell’artefatto silenzio. Nel gennaio di qualche anno prima un altro siciliano coraggioso avrebbe pagato con la vita la denuncia di verità scomode. Anche la penna coraggiosa di Giuseppe Fava, noto come Pippo, è stata fermata dal crimine di Cosa Nostra. Ciò accadeva trenta anni fa, il 5 gennaio del 1984, a Catania. Pippo Fava aveva diretto il Giornale del Sud e fondato I Siciliani, secondo giornale antimafia dell’isola. Saggista e sceneggiatore, intellettuale di spicco nella Sicilia del secondo Dopoguerra. Fece della scrittura per il teatro, ma non solo, e del giornalismo le sue principali attività, trasponendo sulla scena molti dei suoi scritti e collaborando con numerose testate nazionali. Denunciò già nel 1981 il traffico di droga gestito nel capoluogo etneo da Cosa Nostra perché sapeva che oppio fosse la mafia nella sua terra e perchè non avrebbe potuto essere complice di un’indifferenza che uccideva libertà e giustizia, come scrisse nel suo famoso editoriale “Lo spirito di un giornale” sul Giornale del Sud. “ Io ho un concetto etico del giornalismo. Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente allerta le forze dell'ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo “ - Pippo Fava. “Lo spirito di un giornale” 11 ottobre 1981. La verità sul suo omicidio condanna nel 1998 il boss Nitto Santapaola, Aldo Ercolano, ritenuti i mandanti del delitto, Maurizio Avola, pentito chiave nel processo per il delitto Alfano, quale esecutore materiale. L’ultimo processo chiude i battenti nel 2003 con la conferma dell’ergastolo per Santapaola, Ercolano e la condanna a sette anni patteggiati per Avola e dopo l’assoluzione nel 2001 di Marcello D’Agata e Franco Giammuso, condannati in primo grado all’ergastolo. Il 28 dicembre 1938, nell’ultima intervista ad Enzo Biagi (trasmissione Filmstory su Rai Uno) Giuseppe Fava illustrava il fenomeno mafioso, ancora sconosciuto ai più, e la sua implicazione con il potere politico ed economico: « Mi rendo conto che c'è un'enorme confusione sul problema della mafia. I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione. Non si può definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e ti impone la taglia sulla tua piccola attività commerciale, questa è roba da piccola criminalità, che credo abiti in tutte le città italiane, in tutte le città europee. Il fenomeno della mafia è molto più tragico ed importante… ». Il cognome non mente, come il sangue. Così Claudio, suo figlio, raccoglie il testimone della battaglia indifferibile e coraggiosa del padre Giuseppe non solo nella redazione de ‘I siciliani’ ma anche nella scrittura per il teatro e per il cinema. Deputato europeo e coordinatore nazionale di Sinistra Democratica, Claudio Fava, giornalista professionista, dal quel 5 gennaio 1984, quando suo padre Giuseppe venne ucciso, ha assunto la direzione de "I Siciliani" trasformando questa rivista in un laboratorio di nuova cultura della legalità e dell’impegno antimafioso. Una scrittura impegnata come era quella del padre Giuseppe, noto come Pippo, di cui in scena, grazie anche a compagnie calabresi giovani e promettenti come Il Carro di Tespi nel 2010, vanno ancora opere come ‘La violenza’. La storia, ambientata in Sicilia, si snoda attorno all’assassinio di un giovane sindacalista per approdare alla contrapposizione tra la figura della madre e degli uccisori del figlio in un contesto di mafia rurale. Uomini e donne combattono quel male che lui più volte aveva denunciato in altri scritti per il teatro, come nei suoi articoli. Uomini che la Sicilia ha sacrificato sull’altare di una lotta, ancora oggi impari, consegnandoli alla memoria collettiva. Sono tanti e tra questi Placido Rizzotto, Pio La Torre, Giuseppe Impastato, Rosario Livatino, Rocco Chinnici, Gaetano Costa, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Mario Francese, Mauro De Mauro, Beppe Alfano e Pippo Fava. La scrittura di Giuseppe Fava non si scindeva mai, come avrebbe potuto, dal suo impegno perché “La mafia è solo un pretesto teatrale, una macchina di scena per raccontare la tragedia delle creature umane nel nostro tempo: la violenza ovunque nel mondo, in tutte le sue forme: la sopraffazione, l’odio, l’ignoranza, la paura, il dolore, la corruzione Legato ai destini di Pippo Fava e Beppe Alfano, all’integrità della coscienza prima che la brutalità di Cosa Nostra, c’è anche un altro cronista siciliano: Mario Francese ucciso davanti alla sua casa a Palermo il 26 gennaio 1979. Acuto e coraggioso, le sue inchieste andavano a fondo nelle vicende di mafia degli anni Settanta in Sicilia. Si occupò delle famiglie e dei capi di Corleone come Luciano Liggio e Totò Riina, condannato per il suo omicidio con Leoluca Bagarella, esecutore materiale del delitto, Raffaele Gangi, Francesco Madonia, Michele Greco e Bernardo Provenzano. Dopo avere iniziato come telescriventista dell’Ansa, scrive per il quotidiano La Sicilia e poi viene assunto nell’ufficio stampa dell’assessorato ai Lavori Pubblici della Regione Siciliana. Lascia questo incarico per dedicarsi a tutto campo al mestiere di cronista che intanto aveva nuovamente intrapreso sulle colonne de Il Giornale di Sicilia. Approda alle vicende di mafia, occupandosi di cronaca giudiziaria e non si sottrae, va a fondo. Evidentemente troppo a fondo. Suo figlio Giuseppe, bimbo all’epoca dell’omicidio del padre, eredita la sua passione per il giornalismo e porta avanti la causa di giustizia.  Mario Francese, ucciso da Cosa Nostra all’età di 54 anni sarebbe stato raggiunto del figlio soltanto trentaseienne che nel 2002 si suicida in casa.  Grazie al suo archivio di articoli ed inchieste del padre, il processo per la morte del padre, nel cui ricordo aveva vissuto, arriva a sentenza.

Da L’Unità del 3 marzo 2003, Tratto da un articolo di Carlo Lucarelli. Nel 1986, a Terme Vigliatore, vicino a Barcellona, torna Pino Chiofalo, detto “u' seccu”. “U' seccu” si è fatto tanti anni di galera, ma adesso è uscito e vuole la sua parte. Pino Chiofalo fa parte della piccola mafia che vuole emergere, fuori dalle regole e dal controllo di Cosa Nostra e quello che compie con i suoi 200 mila uomini, a Barcellona, è un vero e proprio bagno di sangue. Girolamo Petretta, storico referente delle famiglie palermitane, ammazzato nel novembre dell'87, Franco Emilio Iannello in marzo, Carmelo Pagano in luglio, Francesco Ghitto in dicembre. Quindici giorni dopo la morte di Francesco Ghitto c'è un blitz della polizia. Pino Chiofalo è a Pellaro, in provincia di Reggio Calabria , impegnato in un summit con i suoi luogotenenti, praticamente tutto lo stato maggiore della sua “famiglia”. La polizia arriva, a colpo sicuro, e li arresta tutti. “U' seccu” finisce dentro di nuovo, si prende l'ergastolo e resta in carcere fino al '95, quando comincia a collaborare con la giustizia. Ammette la responsabilità di tutti gli omicidi di quella sanguinosa guerra di mafia, ma accusa alcuni magistrati e alcuni esponenti delle forze dell'ordine di essere d'accordo con la cosca avversaria, sostenuta direttamente dal boss catanese Nitto Santapaola, che li avrebbe usati per toglierlo di mezzo in maniera pulita. Tolto di mezzo Chiofalo, la situazione si normalizza. Molti dei suoi passano con lo schieramento vincente e arrivano gli appoggi della cosca di Santapaola. Il capo dell'ala militare, l'uomo forte di Barcellona, il referente di Nitto Santapaola, diventa un giovane di buona famiglia, Giuseppe Gullotti.

Pippo Fava, un giornalista scomodo, scrive Articolo 3". Era il 5 gennaio 1984, ancora un giornalista ucciso, questa volta  a Catania, Giuseppe Fava, per tutti Pippo, una genialità eclettica: scrittore brillante, drammaturgo, saggista e sceneggiatore, ma soprattutto cronista coraggioso. Pippo Fava qualcosa di più di un semplice cronista, è un intellettuale dotato di eccezionale carisma e di altrettanta determinazione, che gli consente  di reagire agli innumerevoli tentativi del potere mafioso e paramafioso di impedirgli di denunciare quanto di marcio ci sia nella classe dirigente, in modo particolare quella catanese. Fava evidenzia le commistioni della classe dirigente con esponenti di spicco dei clan malavitosi che ne orientano le scelte. Di lui si ricorda la professionalità esemplare e la sua genuinità, lontana da qualsiasi compromesso con i potenti, ma soprattutto si ricorda il  coraggioso impegno nella lotta al crimine organizzato, prima come direttore responsabile del Giornale del Sud e poi da fondatore de I Siciliani, madre di tutte le pubblicazioni antimafia in Sicilia. A dimostrazione della sua poliedricità e della sua genialità è necessario ricordare il film Palermo or Wolfsburg, di cui Fava cura la sceneggiatura, opera che vince l’Orso d’oro al festival del cinema di Berlino 1980. Ma Cosa Nostra non può sopportare le puntuali, precise e continue accuse scagliate da un uomo così intellettualmente libero, la cui voce raggiunge non solo gli ambienti  più colti, ma è perfettamente compresa anche da quelli più popolari. Pippo Fava viene assunto dall’Espresso Sera nel 1956, giornale di cui diventa caporedattore fino al 1980. La sua cultura e la sua curiosità gli consente di occuparsi degli argomenti più disparati, dal cinema al calcio, ma i risultati più significativi  li ottiene con una serie di interviste ad alcuni boss di Cosa Nostra, tra cui Calogero Vizzini e Giuseppe Genco Russo. L’esperienza, la stima dei colleghi e gli ottimi risultati editoriali conseguiti, dovrebbero legittimare la nomina di Fava a direttore del secondo quotidiano catanese ma, contro ogni logica, l’editore Mario Ciancio Sanfilippo gli preferisce un altro giornalista, più accomodante: Pippo Fava non è facilmente controllabile. Comunque trasforma il Giornale del Sud in un quotidiano di denuncia. Desta scalpore ed indignazione il suo articolo intitolato “Lo spirito di un giornale”. Qualcosa di più che un semplice articolo, un vero e proprio manifesto ideologico, nel quale Fava proclama i principi imprescindibili per l’esercizio della professione giornalistica: ricercare la verità, senza alcuna distorsione, per “realizzare giustizia e difendere la libertà”. Non a caso in quel periodo emergono le principali attività di Cosa Nostra nel capoluogo etneo, specialmente nell’ambito del traffico di stupefacenti. Iniziano gli atti intimidatori contro Fava e la sua linea editoriale. Viene organizzato un attentato con una bomba contenente un chilo di tritolo, a cui il giornalista scampa per puro caso. Il Giornale del Sud continua comunque la sua missione sociale per oltre un anno, fino a quando le “alte sfere” decidono che la gestione Fava è giunta al capolinea. Sono infatti ritenute intollerabili, eccessive ed incompatibili con l’ordine delle cose, le prese di posizione del giornalista, avverse all’installazione della base missilistica statunitense di Comiso e quelle favorevoli all’arresto del capomafia Alfio Ferlito. La prima pagina del Giornale del Sud che denuncia alcune attività poco trasparenti di Ferlito, è sequestrata prima di andare in stampa e censurata. Salvatore Lo Turco, Gaetano Graci, Giuseppe Greppo e Salvatore Costa,  i nuovi editori,  prendono la decisione di allontanare Fava, successivamente si scopre che Lo Turco frequenta il boss Nitto Santapaola e che Graci ci va a caccia insieme. Pippo Fava è licenziato, un provvedimento palesemente ingiusto, spiegato solamente come un tentativo di mettere a tacere una voce scomoda, per far rientrare il quotidiano nei ranghi.  La redazione reagisce con forza, i locali sono occupati dai giornalisti, ma la solidarietà è quasi nulla e la protesta  non serve a smuovere le coscienze di chi ha comunque deciso. Poco tempo dopo, per volontà degli stessi editori, il Giornale del Sud chiude i battenti. Rimasto disoccupato, Pippo Fava decide di portare avanti la sua battaglia di legalità, dando vita ad una cooperativa, la Radar, per poter finanziare un nuovo progetto editoriale. Parte da due sole macchine da scrivere usate, acquistate di seconda mano e facendo ricorso a cambiali. Quel gruppo di splendidi disperati guidati da Fava, riesce, non si sa come,  a pubblicare il primo numero della nuova rivista, I Siciliani, nel novembre del 1982. Uno splendido e toccante articolo della redazione de I Siciliani, saluta il  direttore, appena ucciso da Cosa Nostra. “Chi è disposto ad investire alcune centinaia di milioni su due lettera 22 scassate, dieci matti tra i venticinque ed i trentacinque anni, più un matto di sessanta?  Nessuno, ovviamente, Allora si mette su una bella cooperativa e si firma una montagna di cambiali. Così arrivano due bellissime Roland di seconda mano e due offset bicolori settanta/cento. Fava se le cova con lo sguardo che se invece di essere offset, fossero due turiste svedesi, lo denuncerebbero per stupro.…Il primo numero del giornale arriva nelle edicole alle nove del mattino, a mezzogiorno non ce n’è più. …Qualche volta mi devi spiegare, perdio, chi ce lo fa fare. Tanto sai come finisce una volta o l’altra: mezzo milione ad un ragazzetto qualsiasi e quello ti aspetta sotto casa. Forse mezzo milione, forse di più: il tizio era là ad aspettare, ha alzato la 7,65 ed ha sparato. …Adesso dobbiamo ricominciare a lavorare. Mica possiamo tirarci indietro con la scusa che è morto uno di noi. Se qualcuno vuole dare una mano, va bene, altrimenti facciamo da soli, tanto per cambiare. Va bene così, direttore?”. Ogni inchiesta della rivista è caratterizzata da una forza e da un’incisività tali da farne un caso sociale o politico, un tipo di giornalismo sempre al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica e degli altri mezzi di informazione. Il primo articolo a firma Pippo Fava, si intitola “I quattro cavalieri dell’apocalisse”, un’inchiesta- denuncia che racconta le gesta e le attività illecite di quattro imprenditori catanesi, Carmelo Costanzo, Gaetano Geraci, Mario Rendo e Francesco Finocchiaro, oltre ad altri personaggi, tra i quali Michele Sindona. Fava collega senza perifrasi gli esimi cavalieri del lavoro con il clan del boss Nitto Santapaola. L’anno successivo, Rendo, Salvo, Andò e Geraci si adoperano invano per acquisire il controllo de I Siciliani, in modo da neutralizzare la carica della rivista. Fava prosegue nella sua attività che consiste nel mostrare foto imbarazzanti di Santapaola, politici ed imprenditori e nello scrivere su di loro senza remore. Il 28 dicembre 1983 Pippo rilascia un’ intervista-testamento ad Enzo Biagi “Mi rendo conto che c’è un enorme confusione sul problema della mafia. I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che stanno al vertice della nazione.  Non mi riesce di definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e ti impone la taglia sulla tua attività commerciale, questa è roba da piccola criminalità, che credo abiti in tutte le città europee. Il fenomeno della mafia è molto più tragico ed importante…”. Un tassello in più nel mosaico dell’eliminazione di Pippo Fava, improcrastinabile agli occhi di Cosa Nostra, dei suoi complici e dei suoi fiancheggiatori. Ma nell’estate dell’ottantaquattro accade di peggio, il ricordo è di Claudio Fava  “C’è un pentito, si chiama Luciano Grasso, ha intenzione di vuotare il sacco, vuole parlare del delitto Fava e di un giornalista de La Sicilia che avrebbe commissionato per conto d’altri l’uccisione di mio padre. Grasso non se l’era sentita, aveva intascato il denaro e se l’era svignata. Un anno dopo stava in carcere a Belluno per una rapina ed aveva saputo della morte di mio padre. Forse per timore che in qualche modo potesse essere coinvolto, decise di parlare. Il 17 luglio partiva dalla Sicilia per il Veneto il sostituto Giuseppe Torresi, si trattava di una missione riservata, solo altri due giudici ne erano, almeno ufficialmente, a conoscenza. Occorreva agire in fretta e discrezione, Grasso avrebbe potuto ripensarci e rifiutarsi di parlare. Quando il mattino successivo Torresi entrò in carcere, Luciano Grasso aveva già ricevuto un copia de La Sicilia, fresca di stampa. C’era la sua foto, quattro colonne di articolo ed un titolo che non lasciava dubbi “Un detenuto pentito svelerà i nomi degli uccisori di Fava”. Per la prima volta in Italia un quotidiano brucia sul tempo lo stesso magistrato che deve raccogliere quelle deposizioni. Nell’articolo viene indicato il carcere dove Grasso è detenuto nonchè l’indirizzo della sua famiglia. Alle 22:00 del 5 gennaio 1984 Giuseppe Fava è a Catania, in via dello Stadio, sta andando a prendere la nipote che recita in “Pensaci Giacomino!”al teatro Verga. Ha appena lasciato la redazione de I Siciliani. Non ha il tempo di scendere dalla sua Renault 5, freddato da cinque proiettili calibro 7,65, che lo raggiungono alla nuca, un lavoro fatto bene. Paradossale il tentativo di confondere le acque tentando di spacciare quello che chiaramente è un omicidio di stampo mafioso, come un delitto passionale, movente ricorrente, tesi supportata dalla stampa e dagli inquirenti. Si dice che la rivoltella utilizzata non rientri in quelle solitamente impiegate nei delitti di mafia. Anche le istituzioni si distinguono per lo zelo: il sindaco di Catania, il democristiano Angelo Munzone, sostiene in maniera convinta che l’omicidio sia da ricondurre alle difficoltà economiche in cui versa la rivista fondata e diretta da Pippo Fava.  Il sindaco rifiuta di indire una cerimonia pubblica per i funerali del giornalista assassinato, negando una qualsiasi presenza di Cosa Nostra nella città dell’Etna “Scrivetelo, io Munzone, sindaco di Catania, la scorta non ce l’ho. A differenza di quella donna che è sindaco di Palermo”. Altrettanto sconcertanti le esternazioni dell’onorevole Nino Drago, capo della Dc catanese. Sollecita una rapida chiusura delle indagini perché “altrimenti i cavalieri potrebbero decidere di trasferire le loro fabbriche al Nord”. Certamente Drago non è un amico di  quel Pippo Fava che suggerisce di sospettare dei politici che in Sicilia ottengono più di centomila voti,  appunto il caso del proconsole andreottiano. Fortunatamente voci autorevoli si mostrano contrarie ad avallare questo tentativo maldestro di insabbiamento, l’Alto Commissario Emanuele De Francesco conferma “Sono certo che la mafia sia arrivata anche a Catania”. Anche il questore Agostino Conigliaro sostiene la pista del delitto di mafia. I funerali si celebrano nella piccola chiesa di Santa Maria della Guardia in Ognina alla presenza di pochi amici, i suoi redattori, giovani ed operai che accompagnano la bara di chi per loro è stato un eroe. Il funerale di Pippo Fava è disertato da quasi tutti i rappresentanti delle istituzioni, ad eccezione del questore, di alcuni membri del Pci e del presidente della Regione siciliana, Santi Nicita. Successivamente, almeno in parte cambia il clima politico, culturale e sociale, le accuse di Pippo Fava sulle collusioni tra Cosa Nostra ed i cavalieri del lavoro catanesi vengono prese in considerazione e rivalutate dalla magistratura. Nel 1988 si conclude a Catania il processo “Orsa maggiore 3” nel quale, per l’omicidio di Giuseppe Fava sono condannati all’ergastolo il boss Nitto Santapaola, ritenuto il mandante, Marcello D’Agata e Francesco Giammuso, quali organizzatori, Aldo Ercolano, come esecutore materiale, insieme al pentito Maurizio Avola. Condanne confermate anche negli altri gradi di giudizio. Due i pentiti protagonisti del processo: Luciano Grasso, di cui si è già parlato e Maurizio Avola entrambi presi di mira da La Sicilia. Grasso come si è visto, Avola invece è attaccato da un altro giornalista di Ciancio, Tony Zermo, che tenta di screditare la tesi secondo la quale Santapaola ha organizzato l’omicidio per conto di alcuni imprenditori catanesi e di Luciano Liggio. Il figlio Claudio ha raccolto l’eredità di Pippo, un personaggio scomodo anche lui, addirittura per i suoi stessi compagni di partito, tanto da essere stato relegato al ruolo di eurodeputato a Bruxelles, racconta “Cavalieri, giudici, mafiosi e politici catanesi, non avrebbero potuto tessere le trame di interessi e complicità, se non fossero stati coperti da La Sicilia, il giornale di Mario Ciancio, dalla sua capacità di intorbidire la verità”.

LEZIONE DI MAFIA.

La lezione fascista: battere la mafia si può, basta appoggiare chi la combatte, scrive Antonio Pannullo su “Il Secolo D’Italia”. Su Cesare Mori, di cui ricorre l’anniversario della morte (5 luglio 1942), quel prefetto di ferro che sconfisse la mafia durante il fascismo, è stato detto e scritto praticamente tutto: su di lui sono disponibili una ventina di libri, vari film, alcuni sceneggiati, tra cui l’ultimo, una miniserie tv in due puntate, Cesare Mori – Il prefetto di ferro, è stato trasmesso nel 2012, a riprova della grande attualità dell’opera di questo servitore dello Stato che dimostrò che se una cosa si vuole fare, la si fa. Lui riuscì dove in seguito fallì l’Italia repubblicana, con gli assassinii di Carlo Alberto Dalla Chiesa, altro prefetto di ferro, dei giudici Falcone e Borsellino e di altre centinaia di uomini assassinati dalla criminalità organizzata siciliana. Su Mori oramai si sa tutto. Quello che è interessante oggi è capire come fece a debellare la mafia, come mai in seguito la mafia tornò, e quale debba essere il ruolo e il limite dello Stato nell’affrontare un’emergenza di questo tipo, emergenza che oggi, nel mondo occidentale, è presente solo nel nostro Paese, almeno a questo livello di organizzazione e di aggressività. Una delle linee-guida del fascismo era che nessun potere dovesse esserci al di fuori dello Stato, e certamente non un potere criminale. Il caso del Mezzogiorno d’Italia, dove il potere delle cosche strozzava l’economia delle regioni e dove pertanto la rivoluzione fascista non poteva convenientemente realizzarsi, convinse Benito Mussolini e i suoi collaboratori ad affrontare il problema. Sappiamo che nei primi mesi del 1924 Mussolini aveva compiuto un viaggio in Sicilia, dove alcuni fedelissimi lo avevano messo al corrente della situazione, situazione che sembrava veramente non risolvibile, in quanto il sistema mafioso era incancrenito e cristallizzato. Probabilmente Mussolini si rese conto che la credibilità del fascismo avrebbe subito un dito colpo se non avesse risolto il problema della mafia, e prese il toro per le corna. In quello stesso anno, nel corso di pochi mesi, inviò in Sicilia Cesare Mori – che prima del fascismo aveva già prestato servizio nell’isola e che quindi la conosceva bene – e il giudice Luigi Giampietro come procuratore generale e il delegato calabrese Francesco Spanò. Ecco il testo del telegramma di Mussolini al Mori: «Vostra Eccellenza ha carta bianca, l’autorità dello Stato deve essere assolutamente, ripeto assolutamente, ristabilita in Sicilia. Se le leggi attualmente in vigore la ostacoleranno, non costituirà problema, noi faremo nuove leggi». La mafia per alcuni anni fu costretta a chinare il capo di fronte al governo italiano. Il fascismo voleva veramente risolvere una volta per tutte il problema della mafia in Sicilia, e lo fece, non esitando a coinvolgere e ad arrestare anche esponenti, grandi e piccoli, del fascismo locale. Mussolini in quella circostanza non guardò in faccia a nessuno. Dapprima Mori fu mandato come prefetto a Trapani, dove aveva dato già buona prova di sé qualche anno prima, e iniziò revocando tutti i porto d’armi, e istituendo una commissione per il controllo dei nullaosta relativi ai permessi di campieraggio e guardiania, attività legate a cosa nostra. L’anno successivo Mori fu nominato prefetto di Palermo, con competenza su tutto il territorio regionale e con ampi poteri, dove iniziò sul serio la battaglia. Battaglia che fu durissima, a tutti ii livelli: sradicò abitudini, consuetudini, arrestò signori e signorotti locali, latifondisti, impiegati pubblici, banditi, briganti, fascisti. I risultati furono straordinari già nei primi anni: nella sola provincia di Palermo gli omicidi scesero da 268 nel 1925 a 77 nel 1926, le rapine da 298 a 46, e anche altri crimini diminuirono drasticamente. Intraprese varie iniziative, ma lui andava particolarmente fiero dell’aver arrestato e fatto condannare Vito Cascio Ferro, pezzo da novanta della mafia italo-americana, che nel 1909 aveva assassinato sulla Marina di Palermo Joe Petrosino. La sua azione più famosa, perché spettacolare, fu il celebre assedio di Gangi, considerata allora una delle roccheforti dei mafiosi. Con un ingente numero di militi delle forze dell’ordine, Mori rastrellò il paese casa per casa, prendendo in ostaggio familiari di mafiosi per costringerli ad arrendersi, e riuscendo a catturare decine di mafiosi, banditi, criminali e latitanti. Probabilmente allora, per la durezza dei metodi, si guadagnò il soprannome col quale è ricordato. Oggi a Gangi c’è una targa che la popolazione grata gli ha dedicato per la sua opera meritoria. Per colpire la mafia Mori non esitò a indagare negli ambienti fascisti. Contemporaneamente Mori colpì i circoli politico-affaristici e perseguì Alfredo Cucco, il numero uno del fascismo siciliano, nonché membro del Gran Consiglio del fascismo, il quale venne rinviato a processo e addirittura espulso dal Pnf. Cucco però fu assolto, e ci sono sospetti che per lui, medico stimatissimo, si fosse trattato di una trappola, in quanto molti vicino a Roberto Farinacci, che come è noto non era molto amato da Mussolini. Tuttavia la mafia era stata decapitata, ridotta all’impotenza, al silenzio: i suoi esponenti che non vennero arrestati dovettero fuggire negli ospitali Stati Uniti, da dove poi nel 1945 ritorneranno a cavallo dei cannoni dei carri armati americani, che riportarono la mafia in auge un Sicilia, dando anche ai capi mafiosi locali incarichi amministrativi importanti, come dimostra la storiografia del dopoguerra. Va anche sottolineato che dopo gli arresti e le incriminazioni, i processi si facevano, le condanne arrivavano. Insomma, la magistratura collaborava con lo Stato nella lotta senza quartiere alla criminalità organizzata. Il metodo di Mori era semplicissimo nella sua efficienza: innanzitutto riaffermò in modo vigoroso l’autorità e la presenza dello Stato; coinvolse e convinse la popolazione a ribellarsi ai soprusi della mafia; d’accordo con le istituzioni, avviò una battaglia culturale contro l’omertà, il crimine, la mentalità mafiosa, soprattutto nei confronti dei giovani; colpì cosa nostra nei suoi interessi economici; fece tramontare la leggenda dell’impunità, facendo condannare a pene durissime i capomafia; fece un uso disinvolto del confino, dove mandò i maggiori capicosche. Nel 1929 Mori fu messo a riposo (era del 1871) e per molti anni la mafia dovette chinare il capo di fronte a questa Italia nuova e moderna, che frattanto aveva anche cercato di riavviare sotto il controllo militare le attività agricole e produttive della regione. In definitiva, perché Mori sconfisse la mafia? Perché il governo italiano lo appoggiò lealmente, al contrario di quanto accadde ad altri servitori dell’Italia repubblicana.

Questo è quel che si vorrebbe far credere. Ma esiste un'altra verità.

Libri: La mafia alla sbarra, I processi fascisti a Palermo, scrive “L’Ansa”. Il Volume attinge da documentazione conservata all'Archivio Stato. Indaga sulle radici della mafia, da quelle geografiche dell'hinterland palermitano, uno dei luoghi di genesi del fenomeno, a quelle storiche: è il libro "La mafia alla sbarra - I processi fascisti a Palermo" (260 pagine, 15 euro) scritto da Manoela Patti e pubblicato dalla casa editrice Istituto Poligrafico Europeo, con una prefazione dello storico Salvatore Lupo. Il lavoro si basa sull'immensa documentazione conservata all'Archivio di Stato di Palermo e scava all'interno della retorica della repressione fascista degli anni Venti, facendo anche piazza pulita della legittimazione storica basata su paradigmi e stereotipi che nella percezione comune hanno portato a credere, negli anni, a una mafia "buona" e non sanguinaria. "Il versante giudiziario dell'antimafia fascista - scrive l'autrice - ebbe esiti di gran lunga inferiori alle forze messe in campo. La portata effettiva dell'operazione Mori si rivelò meno incisiva di quanto propagandato dal regime. Eppure, l'imponente opera di propaganda fascista sfruttò l'intera popolazione per ottenere in Sicilia quel consenso che ancora nell'Isola mancava al regime". Dal "L'Inchiesta in Sicilia" del 1876 di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino alle difese che hanno smentito l'esistenza della mafia come associazione, puntando piuttosto a definirla come "un modo di essere e di sentire". Come quella di Giuseppe Pitrè, che diede dignità scientifica al concetto di una "mafia originaria benigna, sinonimo di spavalderia e coraggio degenerata solo in alcuni individui in delinquenza". Tesi adoperata per difendere l'Isola dagli "attacchi del governo centrale ogni volta che la questione mafiosa tornava all'attenzione dell'opinione pubblica nazionale". La tesi di Pitrè verrà codificata ufficialmente nel 1901 durante il processo al l'onorevole Raffaele Palizzolo, accusato di essere il mandante dell'assassinio dell'ex sindaco di Palermo e direttore del banco di Sicilia, Emanuele Notarbartolo. "Accade spesso che le dinamiche sociali si incarichino di smentire gli scienziati sociali e la storia di smentire gli storici - scrive lo storico Lupo nella prefazione - La smentita fu particolarmente bruciante nella Sicilia dell'assaggio tra gli anni 70 e 80. La mafia si palesò in tutta la sua nuova pericolosità mentre era impegnata in modernissime forme di business. Quella mafia lì non somigliava per niente a una vaga metafora". Il libro sarà presentato all'Istituto Gramsci di Palermo. A discuterne con l'autrice saranno Salvatore Lupo, professore di Storia contemporanea all'Università di Palermo, Francesco Forgione, presidente della Fondazione Federico II e Matteo Di Figlia, ricercatore di Storia contemporanea all'Università di Palermo.

I maxiprocessi ai boss al tempo del fascismo molto rumore per nulla. Il libro di Manoela Patti ricostruisce la vicenda giudiziaria del Ventennio A fronte di migliaia di arresti e indagini le condanne furono minime, scrive Amelia Crisantino su “La Repubblica”. La campagna antimafia voluta dal fascismo, inaugurata nell'ottobre 1925 con l'invio del prefetto Cesare Mori a Palermo, è ancora ben presente nella memoria collettiva. L'inedito spiegamento di forze e i modi spesso teatrali con cui il prefetto Mori condusse le operazioni comprendevano assedi di borgate e paesi, arresti di massa, processi a centinaia di imputati, l'arresto per i familiari dei latitanti, brutalità varie anche a carico dei testimoni. Il fascismo accompagnò l'aspetto militare con un'imponente opera di propaganda, mentre da più parti si tentavano analisi: per molti mesi si continuò a dibattere se la mafia fosse un fenomeno delinquenziale, una variabile etnico-antropologica o l'indesiderato prodotto di una società arretrata. Si cercava cioè di definire la natura del fenomeno mafioso, con argomenti destinati a ciclicamente ripresentarsi nei decenni a venire. Il versante più in ombra rimase quello giudiziario. Che fu spesso deludente. Le pene inflitte nei numerosi maxiprocessi che si susseguirono sino al 1932 furono minime, di gran lunga inferiori alle forze in campo. La documentazione allora prodotta permette però di osservare la storia dell'organizzazione mafiosa in una prospettiva di lungo periodo, e adesso uno studio di Manoela Patti, "La mafia alla sbarra. I processi fascisti a Palermo" (Istituto poligrafico europeo, 260 pagine, 15 euro), analizza uno spaccato territoriale e temporale seguendo le vicende di molteplici personaggi che riservano non poche sorprese. La prima impressione, a leggere queste pagine così fitte di nomi ed episodi, è di trovarsi di fronte a un reticolo i cui molteplici intrecci richiedono molta cautela. Subito dopo, mentre l'attenzione del lettore è assorbita dalla ricchezza delle fonti, arriva una sorta di sgomento di fronte ai numeri. Leggiamo che dal 1913 al 1919 a Bagheria avvengono 55 omicidi, che nel 1928 gli arrestati nella provincia di Palermo sono cinquemila, che dal 1926 al 1932 vengono giudicati settemila imputati distribuiti in 105 processi organizzati su base territoriale, che il 25 novembre 1930 si apre il processo all'associazione della borgata Santa Maria di Gesù: sono 228 detenuti presenti nella chiesa di Santa Cita usata come tribunale, con gli stucchi del Serpotta che osservano muti le grandi gabbie affollate di imputati, i 62 avvocati, i 200 testimoni a discolpa. Nella sola provincia di Palermo vengono celebrati 56 processi e la vasta documentazione su cui si sorreggono permette di ricostruire comportamenti, struttura e attività delle cosche mafiose: non solo i rapporti interni all'organizzazione, ma anche i legami con il vasto universo "non criminale" con cui interagivano. La linea scelta nei processi fu quella di condannare gli imputati per la semplice "associazione a delinquere", anche senza valutare la responsabilità per i singoli reati; ma non di rado la magistratura giudicante si mantenne su posizioni garantiste, accogliendo le richieste della difesa. E – al di là delle accuse e della posizione dei magistrati – viene in primo piano un dato di fatto, sintetizzato dal capitano dei carabinieri al giudice che stava istruendo il processo di Bagheria: "quello era un tempo in cui tutti avevano relazioni con la mafia". Il fascismo ebbe gioco facile nel puntare il dito contro l'odiosa commistione fra cosa pubblica e violenza mafiosa, che specie nei paesi era stata favorita dall'allargamento del suffragio. I processi dimostrarono gli stretti legami fra le associazioni delle borgate palermitane e i comuni dell'hinterland, con alcuni casi esemplari come Villabate a testimoniare la capacità della mafia di infiltrarsi nell'amministrazione. Fra gli affiliati alla cosca di Villabate c'erano anche i venti componenti del consiglio comunale, e molti dei nomi ritornano negli atti della Commissione antimafia del 1972, del Maxiprocesso del 1986, nell'operazione Perseo del 2008 e Senza Frontiere del 2009. La continuità sembra essere la principale caratteristica delle cosche che dominano la Conca d'oro, i casi più emblematici li ritroviamo nella borgata di Santa Maria di Gesù dove si collocano alcune delle più antiche e potenti dinastie mafiose palermitane come i Bontate e i Greco, che attraversano età liberale, fascismo ed età repubblicana mantenendo l'egemonia. I metodi con cui viene conservato il potere, le connivenze e le strategie molto ci raccontano della storia della mafia. Che per tanti versi coincide con la storia della Sicilia.

Lucia Borsellino, Viminale mette sotto scorta ex assessore alla Salute della Sicilia. Il Viminale ha disposto per la figlia di Paolo Borsellino l'utilizzo dell’auto blindata scortata da due agenti per gli spostamenti. Ex assessore alla Salute di Crocetta, si era dimessa in polemica dopo l'arresto del medico del governatore. Che in un'intercettazione pubblicata dall'Espresso, poi smentita da quattro procure, l'avrebbe pesantemente minacciata, scrive F.Q il 17 agosto 2015 su “Il Fatto Quotidiano”. Lucia Borsellino è a rischio. La figlia del magistrato assassinato in via d’Amelio il 19 luglio del 1992 è stata infatti messa sotto scorta: a deciderlo il comitato per l’ordine e la sicurezza del Ministero dell’Interno. Il Viminale ha disposto per la figlia di Paolo Borsellino l’utilizzo dell’auto blindata scortata da due agenti per gli spostamenti. La decisione è stata presa nel giorno di ferragosto su proposta diretta del prefetto di Palermo Francesca Cannizzo e sarebbe collegata all’attività svolta in questi ultimi anni dall’ex assessore nel campo della sanità regionale. Nei mesi scorsi Lucia Borsellino aveva presentato diversi esposti ed è stata ascoltata dal procuratore aggiunto Leonardo Agueci e dal pm Luca Battinieri in merito alle indagini sul primario della Chirurgia Plastica Matteo Tutino, finito agli arresti domiciliari. Fino a due settimane fa, però la procura di Palermo non valutava l’incolumità dell’ex assessore a rischio. “Benché sollecitati, ribadiamo la ferma volontà di non rilasciare dichiarazioni. Non intendiamo tantomeno commentare o esprimere valutazioni sui tempi e sulla opportunità del dispositivo di protezione adottato dalle autorità competenti”, dicono i familiari dell’ex assessore. In assenza di una spiegazione ufficiale, la decisione viene messa in relazione a una generica indicazione di rischi che sarebbe stata fatta da una “fonte” riservata. L’eventuale pericolo troverebbe un riscontro indiretto nelle parole del fratello di Lucia, Manfredi Borsellino, che un mese fa durante un incontro con il capo dello Stato ha parlato delle “ostilità” e delle “offese” rivolte alla sorella da un anno a questa parte. Nominata assessore da Rosario Crocetta subito dopo aver vinto le elezioni, Borsellino si era dimessa tra le polemiche il 2 luglio. “Prevalenti ragioni di ordine etico e morale e quindi personale, – scriveva nella sua lettera di dimissioni – sempre più inconciliabili con la prosecuzione del mio mandato, mi spingono a questa decisione anche in considerazione del mio percorso professionale di oltre vent’anni in seno all’Amministrazione regionale della Salute”. Appena 48 ore prima Tutino, era finito agli arresti domiciliari per truffa, falso peculato e abuso d’ufficio. Ed è proprio dall’inchiesta su Tutino che emerge il tentativo del medico di condizionare le scelte negli affari della sanità di Lucia Borsellino. Ma non solo: perché è sempre il medico di Crocetta che, secondo il settimane L’Espresso, avrebbe pronunciato pesanti offese nei confronti dell’ex assessore alla Salute. “Lucia Borsellino va fatta fuori come suo padre”, avrebbe detto Tutino intercettato, mentre dall’altra parte del telefono il governatore non avrebbe replicato in alcun modo. Un’intercettazione che ha rischiato di far cadere il governo Crocetta, ma che poi si è trasformata in un rebus: ben quattro procure siciliane ne hanno smentito totalmente l’esistenza, e a Palermo il procuratore Francesco Lo Voi ha iscritto nel registro degli indagati i due cronisti autori della presunta rivelazione dell’Espresso accusandoli di pubblicazione di notizie false e calunnia. E in attesa che gli inquirenti palermitani ricostruiscano ogni dettaglio su quella intercettazione mai confermata, il Viminale ha deciso di mettere sotto scorta Lucia Borsellino.

Perché adesso la scorta a Lucia Borsellino? Scrive “Il Journal”. La famiglia dell’ex assessore regionale alla Salute della Sicilia si chiede il motivo per cui questa decisione arrivi ora che la signora non ha più incarichi politici. Il comitato per l’ordine e la sicurezza del ministero dell’Interno ha disposto la scorta per Lucia Borsellino, l’ex assessore regionale alla Salute, figlia del giudice Paolo Borsellino ucciso dalla mafia il 19 luglio 1992. All’ex assessore è stata assegnata un’auto blindata con due agenti di scorta. La decisione sarebbe legata alle indagini in corso sulla sanità siciliana. La famiglia di Lucia Borsellino ha accolto però con sorpresa l’assegnazione della scorta e dell’auto blindata all’ex assessore regionale alla Salute. Si tratta di una decisione che, a giudizio dei familiari, avrebbe avuto senso quando Lucia Borsellino era in carica. In assenza di una spiegazione ufficiale, la decisione viene messa in relazione a una generica indicazione di rischi che sarebbe stata fatta da una «fonte» riservata. L’eventuale pericolo troverebbe un riscontro indiretto nelle parole del fratello di Lucia, Manfredi Borsellino, che un mese fa durante un incontro con il capo dello Stato ha parlato delle «ostilità» e delle «offese» rivolte alla sorella da un anno a questa parte. L’assegnazione di un dispositivo di protezione sta facendo rivivere alla famiglia dell’ex assessore, che non ne fa mistero, un clima di emergenza che sembrava chiuso 23 anni fa.

Scrive Virginia Piccolillo per “Corriere della Sera”. È sorpresa, ma accetterà la scorta, Lucia Borsellino. È quanto trapela dalla famiglia della figlia di Paolo, il magistrato ucciso dalla mafia nel 1992, 57 giorni dopo Giovanni Falcone. Non sa esattamente perché le sia stata assegnata. Ma le sarebbe stato detto che ci sono nuovi elementi, emersi a ridosso del comitato nazionale di sicurezza, che hanno giustificato questa misura precauzionale, solitamente presa su segnalazione del comitato di sicurezza provinciale. Questa volta la scelta della tutela, di livello 3, medio-basso, sarebbe avvenuta sempre su segnalazione del prefetto, ma informalmente condivisa e auspicata da Roma. Una scelta comunque ponderata ad altissimo livello politico, filtra da ambienti del Viminale. Ma restano un po' avvolti nel mistero gli elementi di una simile decisione. Perché? E perché ora? Davvero è giunta una segnalazione di pericolo o si è preferito mettere sotto tutela la protagonista di un caso politico che ha scosso la Sicilia? Il Viminale si trincera dietro la consueta riservatezza. E dalla Procura di Palermo filtrano reazioni un po' stupite. Lo stesso stupore di Lucia Borsellino. Era in pizzeria, quando ha ricevuto la notizia. Il comitato nazionale per l'ordine e per la sicurezza le ha assegnato la scorta. Non come quella di suo padre, Paolo, di livello 1. Ma di terzo livello: auto blindata guidata da un poliziotto, a cui se ne può affiancare un altro. Una misura che è stata comunicata prima a suo fratello Manfredi, commissario di polizia a Cefalù. E che ha lasciato di stucco entrambi. Mai avuto segnalazioni di pericolo. Mai ricevuto minacce di morte. Mai nulla di simile. Solo quella intercettazione «fantasma», pubblicata dall'Espresso, ma smentita dai magistrati, dagli interessati e dalla stessa fonte indicata dal giornalista. La frase relativa all' auspicio che Lucia facesse la stessa fine di suo padre, attribuita, per ora senza riscontri, al medico personale di Crocetta e consulente della Regione per alcune scelte sulla Sanità, Matteo Tutino. La cosa ebbe molta eco perché Lucia Borsellino aveva abbandonato il suo posto di assessore alla Salute in aperta polemica con Crocetta, cui imputava di averla esclusa dalla cabina di regia delle decisioni sulla sanità. La pubblicazione poi era avvenuta a ridosso dell'anniversario della morte di Paolo Borsellino. In quella occasione, suo fratello Manfredi lamentò di rivivere un clima simile a quello di quei drammatici giorni dell'attentato. Ieri era dapprima trapelata sull' Ansa la notizia che l'eventuale pericolo troverebbe un riscontro indiretto proprio nelle sue parole: durante l'incontro con il capo dello Stato aveva parlato delle «ostilità» e delle «offese» rivolte alla sorella da un anno a questa parte. E si aggiungeva che i familiari avrebbero trovato più motivato tale provvedimento quando Lucia era assessore in carica. Più tardi una nota della famiglia. «Benché sollecitati, ribadiamo - si legge - la ferma volontà di non rilasciare dichiarazioni. Non intendiamo tantomeno commentare o esprimere valutazioni sui tempi e sulla opportunità del dispositivo di protezione adottato dalle autorità competenti».

In seguito all’omicidio di Marco Biagi la norma sulla scorta è diventata legge, scrive Gaja Barillari. Il 27 giugno 2002 il Parlamento italiano ha, infatti, istituito l’Ufficio centrale per la sicurezza personale, ovvero l’Ucis, chiamato a gestire in modo più efficace le scorte alle persone potenzialmente obiettivi di minacce o attentati. Biagi, esperto di diritto del lavoro, consulente del governo Berlusconi, insegnante in diverse università italiane, era privo di scorta: venne ucciso dalle nuove Brigate Rosse due anni prima a Bologna, sotto casa sua, mentre era in bici, era il 19 marzo 2000. Fu promotore di una riforma del mercato del lavoro emanata dal governo Berlusconi II, sotto la supervisione del ministro Maroni, ovvero la legge n. 30 del 14 febbraio 2003 “Delega al Governo in materia di occupazione e mercato del lavoro”, più nota come Legge Biagi che introdusse il concetto di “flessibilità contrattuale”. Ma a chi spetta la scorta in Italia e perché? Come si articolano i costi della sicurezza tra blindati e personale? Quanto è sottile il filo tra uso e abuso, necessità reale e status symbol? In Italia tra il 2012 e il 2013 vi erano 600 persone sotto scorta fra politici, magistrati e giornalisti. Quel numero nel 2014 è sceso vertiginosamente a 200. Frutto della spending review. I costi, però sono sempre altissimi: circa 250 milioni di euro l’anno. Quasi 3 mila uomini tra carabinieri, polizia, guardia di finanza, corpo forestale affiancano quotidianamente ministri, magistrati, giornalisti, collaboratori di giustizia. Ma sono tutti potenzialmente a rischio? Tralasciando le più alte cariche dello Stato, sottoposte a tutela obbligatoria durante il mandato e per ulteriori 12 o 24 mesi dalla fine, e i ministri con portafoglio, la lista degli scortati è probabilmente più lunga del necessario. Numerose le critiche verso chi ne usufruisce ancora come Gianfranco Fini, Pier Ferdinando Casini e Renato Schifani, ex presidenti della Camera (i primi due) e del Senato. Due guardaspalle seguono ancora l’ex sindaco di Roma Alemanno, due Angela Finocchiaro e due Lorenzo Cesa. Scorta anche per l’ex segretario del Pd Guglielo Epifani, per l’ex premier Massimo D’Alema e per il già presidente del consiglio ed ex parlamentare, Ciriaco De Mita. C’è chi va e c’è chi viene. A non usufruire più della scorta ‘ il “Capitano Ultimo”, il colonnello Sergio De Caprio, l’ufficiale dei carabinieri che arrestò il capo della mafia Toto Riina il 15 gennaio del 1993. Mentre è appena rientrata in un programma di protezione Lucia Borsellino, figlia del magistrato ucciso dalla mafia. Cosa accade negli altri Paesi? Negli Usa hanno diritto ad una scorta permanente presidente e vicepresidente. In Germania il capo dello Stato, il presidente del Bundestag, ovvero il parlamento federale tedesco, e i ministri. In Francia il Presidente dell’assemblea nazionale e quello del Senato.

PARLIAMO DI MAFIA ED INFORMAZIONE.

Grosso guaio per «l'Espresso». A processo sul caso Crocetta. Chiesto il giudizio immediato per i due cronisti: secondo i pm l'audio choc contro la Borsellino non esiste. Il direttore: «C'è, ma non abbiamo il file», scrive Mariateresa Conti martedì 6 ottobre 2015 “Il Giornale”. L o scoop dell'estate diventa un boomerang per l'Espresso. La Procura di Palermo ha chiesto il giudizio immediato per i due giornalisti che nel luglio scorso hanno firmato l'articolo sull'intercettazione choc tra il governatore di Sicilia Rosario Crocetta e il suo medico Matteo Tutino. Per i pm il colloquio raccontato dal settimanale, quello in cui il chirurgo plastico arrestato a fine giugno avrebbe detto al governatore che l'allora assessore alla Sanità Lucia Borsellino doveva essere «fatta fuori come suo padre», non c'è, non esiste, non è mai esistito, è una bufala. Le prove agli atti, per l'accusa - la richiesta di giudizio immediato è stata firmata direttamente dal procuratore capo, Francesco Lo Voi, dall'aggiunto Leonardo Agueci e dal pm Claudio Camilleri – sono più che sufficienti. Di qui la richiesta al gip di saltare l'udienza preliminare e di processare subito, senza acquisire nuove prove, i due giornalisti, Piero Messina e Maurizio Zoppi, accusati entrambi di calunnia (all'ex capo dei Nas della Sicilia occidentale Mansueto Cosentino indicato come fonte, ndr ) e divulgazione di notizie false. Un brutto colpo per il settimanale, cui Crocetta ha chiesto (lo ha annunciato nei mesi scorsi) dieci milioni di euro come risarcimento. L'Espresso ha sempre confermato la notizia, sostenendo che l'intercettazione esiste, che è stata ascoltata dai due giornalisti e che è stata riscontrata attraverso il confronto incrociato con varie fonti investigative. Lo ha ribadito anche recentemente in un'intervista a ItaliaOggi il direttore, Luigi Vicinanza, che ha però ammesso che il giornale non è in possesso dell'audio incriminato. Non a caso la difesa ha presentato una richiesta di incidente probatorio, in modo da costringere gli inquirenti a tirar fuori tutti gli atti, anche quelli confluiti in procedimenti diversi, scaturiti da quello che a giugno ha portato all'arresto di Tutino. La richiesta dei legali dell'Espresso risale a metà agosto. Ma sinora è caduta nel vuoto. E adesso l'accelerazione della procura con la richiesta di giudizio immediato sembra voler bypassare quell'approfondimento, evitando che spuntino ulteriori atti imbarazzanti. «Prendo atto – dice l'avvocato Fabio Bognanni, che con il professor Carlo Federico Grosso assiste i due cronisti dell'Espresso – della richiesta di giudizio immediato. Può essere di buon auspicio visto che il gip assegnatario si è disfatto del caso perché tra poco andrà in pensione. La richiesta di giudizio immediato non stravolge alcunché. E comunque – sottolinea – nulla cambia rispetto alla nostra richiesta di incidente probatorio. Mi auguro che i tempi siano brevi». E i tempi dovrebbero essere brevissimi, visto che, almeno in teoria, il gip dovrà pronunciarsi entro cinque giorni. Brutta batosta, per l'Espresso. Anche perché quell'articolo fece traballare, a luglio, il governatore di Sicilia, scatenando un putiferio. Il tam tam su una intercettazione imbarazzante c'era da settimane. E il quotidiano La Sicilia aveva pubblicato la vicenda prima dell'Espresso, senza però il virgolettato. Crocetta si è sempre difeso smentendo l'esistenza di quel colloquio. E ha contrattaccato insinuando che uno degli autori dell'articolo, Piero Messina, avesse motivi di risentimento nei suoi confronti visto che era uno dei 21 giornalisti dell'ufficio stampa licenziati da lui nel 2012. Circostanza smentita dal cronista. Una brutta batosta il processo, e una brutta batosta la richiesta di processo immediato anche per la credibilità del giornale. Le acque politiche, nel frattempo, si sono calmate. Crocetta ha superato la bufera di luglio ed è saldamente sulla sua poltrona, rafforzata dall'alleanza con Ncd. Sulla graticola è rimasto ormai solo L'Espresso. E se il gip dirà sì al giudizio immediato, se ne vedranno delle belle. La procura di Palermo smentisce l'esistenza dell'intercettazione, e smentiscono anche le altre procure siciliane. I giornalisti Piero Messina e Maurizio Zoppi vengono indagati. Il 17 luglio «l'Espresso» rivela: c'è un'intercettazione che imbarazza Crocetta. Il suo medico avrebbe detto: «Lucia Borsellino va fatta fuori come suo padre». E Crocetta non replica. Le accuse per i cronisti sono calunnia e diffusione di notizie false. «l'Espresso» conferma l'esistenza di quel colloquio, ascoltato dai cronisti, ma ammette di non poterlo produrre.

I due cronisti hanno sempre ribadito di aver ascoltato l'intercettazione in cui il Governatore e il suo medico Tutino parlavano di Lucia Borsellino. L'avvocato ha richiesto una perizia su tutte le intercettazioni dell'inchiesta, scrive R.I. su "L'Espresso". La procura di Palermo chiede al gip il giudizio immediato per i giornalisti Piero Messina e Maurizio Zoppi, autori dell'articolo sull'intercettazione tra il Governatore siciliano Rosario Crocetta e il suo medico Matteo Tutino in cui si parla dell'allora assessore regionale alla Salute, Lucia Borsellino. Il medico, accusato di falso, truffa e peculato, secondo quanto ricostruito dai due giornalisti, avrebbe detto a Crocetta che «Lucia Borsellino va fatta fuori. Come il padre». L’intercettazione, pubblicata da l'Espresso, è stata smentita dalla procura di Palermo che ha così indagato Messina e Zoppi per calunnia e pubblicazione di notizie false e esagerate. I due giornalisti hanno sempre ribadito di aver ascoltato la registrazione. Secondo il codice di procedura penale il gip dovrebbe decidere entro cinque giorni, ma su questa indagine pende ancora un'altra richiesta, fatta al gip dai due indagati, e cioè l'incidente probatorio con il quale veniva chiesta una perizia su tutti gli audio dell'inchiesta, anche su quelli che la procura ha indicato come non utilizzabili, ma che per la difesa, invece, potrebbe contenere una frase «dello stesso tenore di quella riportata dai giornalisti». A questa richiesta la procura, però, ha espresso parere negativo. I pm non vogliono far ascoltare ai periti tutte le intercettazioni. Ma la decisione spetta al gip. Secondo l'avvocato Fabio Bognanni la richiesta di giudizio immediato per i due giornalisti «potrebbe essere un auspicio per avere finalmente un gip assegnatario del fascicolo...». Il difensore di Messina e Zoppi spiega infatti che a distanza di due mesi sembra che questa richiesta non trovi ancora un giudice che la voglia trattare: «Già prima dell'estate avevamo chiesto un incidente probatorio, ma il gip assegnatario, Agostino Gristina, si era spogliato del fascicolo. E questo non è stato più assegnato a nessun altro gip». L'avvocato Fabio Bognanni spiega di avere presentato lo scorso 10 agosto la memoria difensiva per i due giornalisti, e di avere chiesto al gip il 18 agosto l'incidente probatorio. Ma il giudice assegnatario, Agostino Gristina, «si era spogliato del fascicolo», spiega Bognanni. E da allora il fascicolo «non è stato assegnato a nessun altro Gip». Senza attendere questa decisione del giudice, la procura adesso decide di accelerare e saltare l'udienza preliminare chiedendo al gip di emettere un decreto di giudizio immediato. Una scelta precisa, possibile quando l'accusa ritiene "evidente" la prova del reato. Insieme alla richiesta di giudizio immediato i pm hanno depositato una breve memoria in cui si ricostruisce il caso, i verbali di interrogatorio dei testimoni sentiti - circa una decina tra cui l'ex assessore Lucia Borsellino - un giornalista de La Sicilia e carabinieri del Nas. Agli atti del gip anche alcune intercettazioni di conversazioni dei due indagati e le relazioni dei carabinieri che hanno indagato sulla vicenda. Ma perché la contestazione della calunnia? Il primo ad essere iscritto per questo reato è stato Messina. Secondo l'accusa il giornalista, dopo le polemiche suscitate dalla pubblicazione della notizia e, soprattutto, dopo la smentita della Procura, sarebbe andato da un ufficiale del comando provinciale dei carabinieri di Palermo al quale avrebbe rivelato che a parlargli dell'intercettazione era stato l'ex capo del Nas, Mansueto Cosentino, ora in servizio in Lombardia. L'ufficiale fece immediatamente una relazione di servizio ai pm. Cosentino, subito dopo, è stato interrogato ed ha negato di avere mai rivelato la notizia a Messina. Da qui l'accusa di calunnia e rivelazione di notizie false. Zoppi, invece è stato indagato per calunnia a conclusione di un interrogatorio al quale è stato sottoposto, in cui avrebbe parlato di Cosentino.

Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: Trova le differenze. Due cronisti dell'Espresso rischiano un processo per aver diffuso «notizie false, esagerate o tendenziose» circa un'intercettazione che a quanto pare non esiste: quella in cui Rosario Crocetta e il suo medico personale - ricorderete - sparlavano pesantemente dell'ex assessore Lucia Borsellino e di suo padre Paolo. L'intercettazione non esiste e questo disse lo stesso procuratore capo di Palermo che ora ha chiesto l'incriminazione dei due cronisti, cui auguriamo tutta la fortuna possibile. Ci sfugge solo una cosa: che differenza c' è con la volta in cui Il Fatto Quotidiano diffuse la notizia di un'intercettazione in cui Berlusconi definiva la Merkel «culona inchiavabile»? Una differenza la anticipiamo noi: la non-intercettazione di Crocetta ha causato imbarazzi politici e umani, quella di Berlusconi (che non esiste a sua volta) invece ha sputtanato l'Italia nel mondo e ha causato un danno politico-economico spaventoso. Quando lo chiamammo in causa, Marco Travaglio rispose che Il Fatto non aveva mai scritto «che quella intercettazione esistesse, ma che nell'entourage di Berlusconi se ne parlava». Una balla, visto che Il Fatto aveva indicato anche «un punto preciso dei verbali redatti dalla Guardia di Finanza» nonché la data e l'ora dell'intercettazione inesistente: «Le 11,53 del 5 ottobre 2008». Da capo: che differenza passa tra i cronisti dell'Espresso e quelli del Fatto Quotidiano? Questa: i primi andranno a processo, i secondi no. 

La difesa dei cronisti chiede tutte le intercettazioni, i pm si oppongono, scrive Lirio Abbate su "L'Espresso". La procura della Repubblica di Palermo dice no all’incidente probatorio richiesto dai giornalisti Piero Messina e Maurizio Zoppi, indagati dopo la pubblicazione da parte de “l’Espresso” dell’intercettazione riguardante un colloquio tra il presidente della Regione Sicilia, Rosario Crocetta, e il suo medico personale, il primario di Chirurgia plastica Matteo Tutino, agli arresti domiciliari per falso, truffa e peculato. Il medico, secondo quanto ricostruito dai due giornalisti, avrebbe detto a Crocetta che «Lucia Borsellino va fatta fuori. Come il padre». L’intercettazione è stata smentita dalla Procura di Palermo mentre Messina e Zoppi sono stati indagati per diffusione di notizie false e tendenziose, e Messina anche per calunnia. Per l’avvocato Carlo Federico Grosso «i giornalisti Messina e Zoppi hanno ascoltato l’intercettazione e per questo siamo sicuri che esiste. Noi, sulla base di questa assoluta certezza, per contribuire all’accertamento della verità abbiamo richiesto al giudice ciò che sembrava assolutamente ovvio e cioè l’ascolto di tutti gli audio dell’inchiesta su Tutino da parte di un perito, il quale può essere in grado di trovare fra le centinaia di ore di conversazione, la registrazione della conversazione pubblicata». Secondo il difensore dei giornalisti «la richiesta dell’incidente probatorio punta a dimostrare la verità di quanto asserito da “l’Espresso”». Nella nota inviata al giudice, depositata dall’avvocato Fabio Bognanni, difensore anche lui dei giornalisti, viene evidenziato che le intercettazioni sono tante, divise in tre procedimenti e vanno acquisite prima di essere destinate alla distruzione. Adesso spetta al gip decidere sulla richiesta.

Mafia e informazione, ecco la relazione: “Non solo minacce, così i giornali sono contigui alla criminalità organizzata”. Dai licenziamenti in tronco agli attentati in chiaro scuro, dagli endorsement editoriali targati Camorra ai reporter rimproverati in redazione da boss di Cosa nostra, dagli editori indagati per concorso esterno agli amici dei padrini: ecco il documento esclusivo della commissione Antimafia sulle testate contigue e compiacenti a mafia, 'ndrangheta e camorra, scrive Giuseppe Pipitone il 5 agosto 2015 su “Il Fatto Quotidiano”. Sangue e inchiostro, notizie censurate e rimproveri che in redazione arrivano dalla viva voce di Cosa nostra, licenziamenti in tronco e attentati in chiaro scuro, endorsement editoriali targati Camorra e giornalisti pagati per non lavorare, basta che mettano il cappuccio alla penna. Non ci sono solo le minacce contro i giornalisti, non ci sono solo i tentativi di mettere a repentaglio l’incolumità dei reporter pur di bloccare l’uscita di una notizia, di un’inchiesta, di uno scoop. C’è, infatti, un’altra faccia dell’informazione nostrana ancora a grandi tratti sconosciuta, un aspetto finora mai raccontato sui giornali, perché è proprio dentro le redazioni che va in onda: un fenomeno rimasto per troppo tempo nell’ombra e che da sempre influisce direttamente sulla 73esima posizione occupata dall’Italia nella classifica della libertà di stampa. L’hanno battezzata “informazione contigua, compiacente o persino collusa con le mafie”, ed è l’oggetto della relazione approvata pochi minuti fa dalla commissione parlamentare antimafia. Decine di audizioni per ascoltare a palazzo San Macuto giornalisti, direttori di testata e magistrati, centinaia di pagine di verbali giudiziari, articoli di quotidiani, pezzi di storia nera dell’informazione italiana raccontati dai protagonisti superstiti per arrivare a dire che “esiste un reticolo di interessi criminali che ha trovato in alcuni mezzi d’informazione e in alcuni editori un punto di saldatura e di reciproca tutela”. È questo l’oggetto sul quale lavorano da più di dodici mesi un pugno di parlamentari dell’Antimafia guidati da Claudio Fava, vicepresidente di palazzo San Macuto, figlio di Giuseppe, giornalista ucciso da Cosa nostra nel 1984. Ottanta pagine di relazione finale, che ilfattoquotidiano.it ha potuto consultare in anteprima, per ripercorrere i due macro insiemi che pesano come un macigno sull’informazione italiana: da una parte le decine di cronisti minacciati ogni anno nei modi più diversi (dalle querele temerarie, agli avvertimenti, alle lesioni personali), dall’altra i giornali collusi con le associazioni criminali. “In entrambi i casi – scrive Fava nella sua relazione finale – a patirne le conseguenze è la libertà dell’informazione: chi intimidisce un giornale o corrompe un giornalista procura un immediato e rilevante danno sociale all’intera comunità civile”. Se l’Italia è il Paese con il più alto numero di reporter minacciati e sotto scorta del mondo occidentale, ha probabilmente battuto ogni record per quanto riguarda gli episodi di opacità che legano i giornali alla criminalità organizzata. Il gruppo parlamentare guidato da Fava ha messo nero su bianco un elenco di casi, in cui non occorre che mafia, ‘ndrangheta e camorra si attivino per minacciare i cronisti scomodi: è direttamente l’editore o il direttore a mettere loro il bavaglio.

Il caso Castaldo: pagato per non scrivere. È la terra che ha versato il contributo di sangue maggiore alla libertà d’informazione, con otto cronisti su nove assassinati perché facevano il loro lavoro. Ma dopo gli assassini di Mauro De Mauro e Mario Francese, dopo le minacce a Lirio Abbate, in Sicilia è calata la pax: non si spara più. Al massimo per far tacere un cronista lo si paga per non lavorare. È quello che è successo a Franco Castaldo: il quotidiano La Sicilia di Mario Ciancio gli paga regolarmente lo stipendio, dopo decine di cause, ma lui non lavora, e Ciancio gli impedisce di entrare nella redazione di Agrigento, dove risiede. Il motivo? Nel 1995 Castaldo ha raccontato le accuse di contiguità alla mafia mosse dalla magistratura a Filippo Salamone, l’imprenditore poi condannato definitivamente a sei anni e mezzo di carcere. “In seguito a un incontro tra Ciancio e il Salamone, ricevetti una letterina di tre righe: intendendo avvalerci della sua alta professionalità, la trasferiamo a Catania al settore cronache. Trasferito a Catania mi hanno messo in uno sgabuzzino. Ricordo che non avevo una scrivania né un telefono, mi sedevo nel posto del collega che quel giorno era di corta”, racconta lui davanti alla commissione antimafia. “Dopo effetto del mio primo articolo Salamone ha querelato e citato per danni me e il mio editore, ma prima ancora di arrivare al processo scoprii che Salamone aveva rinunciato ad ogni attività risarcitoria e ritirato le querele nei confronti di Ciancio”. Risultato? “Dal 1996 ad oggi sono diciotto anni che percepisco lo stipendio e ogni due anni un risarcimento del danno ma non ho più messo piede in redazione ad Agrigento”. Dopo aver perso una serie di cause Ciancio si è arreso: paga Castaldo basta che non scriva un rigo sul suo quotidiano.

Il caso Telecolor: una redazione epurata. E se Castaldo è pagato per non lavorare, licenziati in tronco (salvo cause vinte davanti al giudice del lavoro) sono stati invece i dipendenti della televisione catanese Telecolor. La loro colpa? “Eravamo un gruppo di giornalisti che non dovevano dire grazie a nessuno e quindi lavoravamo in maniera assolutamente autonoma”, spiega a palazzo San Macuto uno degli epurati, Domenico Valter Rizzo, raccontando anche le tappe della “normalizzazione” dell’emittente. “Ciancio crea un’agenzia, che si chiama Asi, diretta dalla figlia Angela: convoca i rappresentanti sindacali della redazione, il comitato di redazione e il direttore e dice in maniera molto chiara che l’agenzia avrebbe dovuto occuparsi totalmente dell’informazione, sarebbe stata una sorta di redazione parallela che avrebbe seguito i casi più sensibili, mentre noi ci saremmo occupati della parte residuale. La risposta è stata categorica: non se ne parla. Quindi vengono eseguiti i primi due licenziamenti: il direttore Nino Milazzo si è rifiutato e si è dimesso per protesta. A quel punto Ciancio convoca una redattrice, Michela Giuffrida (oggi europarlamentare del Pd ndr) che doveva essere anche lei licenziata, e la nomina direttore. Noi non votiamo la fiducia nei confronti di questa persona e sono scattati i licenziamenti per gli altri colleghi che rimanevano”. L’agenzia di stampa Asi chiuderà i battenti poco dopo.

Il caso Ciancio: deus dell’informazione sotto inchiesta per mafia. Il patron de la Sicilia Ciancio, con partecipazioni azionarie nel Giornale di Sicilia e nella Gazzetta del Mezzogiorno, già presidente Fieg e vicepresidente di Ansa, è attualmente indagato dalla procura di Catania per concorso esterno a Cosa nostra: recentemente gli inquirenti hanno rintracciato 52 milioni di euro nelle sue disponibilità depositati su conti svizzeri, 12 di questi sono stati sequestrati. Nella sua relazione Fava si occupa del caso Ciancio in maniera molto approfondita: dall’arrivo in redazione di Pippo Ercolano per rimproverare il giornalista Concetto Mannisi, reo di averlo definito un boss mafioso, con l’editore del giornale a fare gli onori di casa, alla lettera del boss Vincenzo Santapaola, recluso in regime di 41 bis, pubblicata integrale senza tagli o commenti, fino al necrologio del commissario Beppe Montana, assassinato da Cosa nostra, che invece viene respinto. Il motivo? “Il testo parlava di un delitto di mafia dagli alti mandanti”, spiegherà il giornale. “Anni dopo – dice la commissione – La Sicilia non mostrerà gli stessi scrupoli quando – il 30 luglio 2012, il giorno dopo la morte del capomafia Giuseppe Ercolano (lo stesso ricevuto da Ciancio nel suo ufficio in occasione della reprimenda verso il suo cronista) – il giornale pubblicherà ben tre necrologi di amici e parenti che ricordano l’Ercolano”.

Il caso del Giornale di Sicilia. Ma non c’è solo il caso Ciancio in Sicilia. “L’editore del Giornale di Sicilia era amico di Michele Greco, che in quel momento era il capo di Cosa nostra palermitana, e alcuni giornalisti erano amici di mafiosi. Stefano Bontate e Mimmo Teresi frequentavano spesso la redazione”, è uno dei passaggi della deposizione davanti la commissione di Lirio Abbate, ex collaboratore del principale quotidiano palermitano, poi giornalista dell’Ansa e oggi inviato dell’Espresso, oggetto di pesanti minacce di morte. “Come si vedrà – continua Abbate – e come si è visto da alcune indagini, a loro questi giornalisti rivelavano notizie e retroscena su alcuni fatti, in modo da tenere aggiornata e informata Cosa nostra. La mentalità mafiosa di mettere mano all’informazione fino a pochi anni fa, almeno fino a quando sono rimasto a lavorare a Palermo, non è cambiata”. Sono gli anni ’80, Palermo è scossa dalla guerra di mafia, dagli assassini di Carlo Alberto Dalla Chiesa e altre decine di servitori dello Stato, e Federico Ardizzone, patron del Giornale di Sicilia, decide di “normalizzare” il quotidiano. “Viene consegnata la lettera di licenziamento al direttore Fausto De Luca, mentre è in ospedale per fare la chemioterapia per un cancro ai polmoni. Lo licenziano in ospedale. Cambia di nuovo il consiglio di amministrazione, Ardizzone dice: “Abbiamo scherzato. Prima di dire mafioso a uno, voglio la foto”, racconta Francesco La Licata, firma storica de La Stampa, ex cronista de L’Ora e del Giornale di Sicilia, dove viene considerato cronista ingestibile, a causa di un problema: è l’unico che porta notizie al giornale. “Mi ricordo che se parlavi di un imputato mafioso te lo trovavi in redazione. Cassina veniva di persona, Lima pure… Le carte del maxi processo furono mandate per fax alle esattorie di Palermo. Nasce così la filosofia del presunto e l’interprete per eccellenza è stato Pepi, che è ancora lì”. Il riferimento è per Giovanni Pepi, il direttore più longevo d’Italia, in sella da 33 anni. “Lo vidi in occasione del matrimonio della figlia di Lipari, Pino Lipari, che lo salutò affettuosamente e mi disse che era un amico”, metterà a verbale il pentito Angelo Siino. “La Lipari – si giustificherà Pepi – era una collaboratrice del giornale, ed era la figlia. Per questa ragione mi trovavo a quel matrimonio. Mi presentò suo padre e lo salutai”. “In occasione di un altro mio colloquio con il Lipari questi mi disse che il Pepi avrebbe dovuto fare un’intervista al latitante Riina, concordata con il Lipari. Poi, però, non se ne fece nulla per l’opposizione di Antonio Ardizzone, che si preoccupava dei possibili riflessi negativi sul giornale” è un’altra delle accuse lanciata da Siino, molto simile a quella di un altro pentito, Vincenzo Sinacori. “Riina parlando di un suo possibile arresto aveva fatto riferimento alla necessità di proseguire con la linea dura che, qualora arrestato, egli avrebbe potuto rilasciare un’intervista solo al Pepi che riteneva l’unico giornalista serio”. Identica la reazione alle due contestazioni da parte di Pepi davanti la commissione antimafia. “Ne vengo a conoscenza solo adesso”. Il direttore del Giornale di Sicilia ha poi ricordato che il suo giornale ha appoggiato il movimento Addio Pizzo, ed ha intervistato l’imprenditore Libero Grassi, poi assassinato per essersi opposto al racket delle estorsioni. “Per completezza – annota la relazione – bisogna anche dar conto che, sotto il periodo della condirezione di Pepi, il Giornale di Sicilia ha dato spazio alle notizie su Cosa Nostra, in tempi più remoti pubblicando le inchieste di Mario Francese su argomenti che altri giornali non toccavano o, come già riferito dallo stesso Pepi, pubblicando i resoconti integrali del maxiprocesso che hanno fatto conoscere gli orrori di Cosa Nostra attraverso il racconto dei mafiosi divenuti collaboratori di giustizia”.

In Campania la pubblicità ai giornali la fa la Camorra. Dalla Sicilia si passa alla Campania, dove i rapporti tra giornali e associazioni criminali sono, secondo l’Antimafia, più evidenti. Nella terra che ha dato i natali a Giancarlo Siani e a Roberto Saviano capita anche che i boss della Camorra facciano endorsement pubblici in favore di un giornale. “In un caso, la Gazzetta di Caserta pubblicò la lettera che gli era stata spedita da Francesco Schiavone, all’epoca capo del clan dei Casalesi, che si congratulava con il direttore per quanto fosse bello quel giornale, lettera pubblicata in prima pagina, con l’indicazione che quel giornale gli piaceva più dell’altro, cioè del Corriere di Caserta, e che quindi avrebbe detto a tutti i suoi amici di cambiare giornale. In effetti, la Dda accertò che da un giorno all’altro ci fu un passaggio di 2.000 copie da una testata all’altra”, ha spiegato la senatrice del Pd Rosaria Capacchione, giornalista del quotidiano Il Mattino, finita sotto scorta.

Giornalisti minacciati in Calabria. Sansonetti: “Mica facevo il poliziotto”. “Il pentito Moio diceva: la ‘ndrangheta a Reggio vota a destra. E il giorno dopo mi ritrovo l’articolo con il virgolettato: la ‘ndrangheta a Reggio vota a destra perché è la parte politica che governa, altrimenti voterebbe a sinistra”, è uno dei passaggi messi a verbale a san Macuto da Lucio Musolino, ex giornalista di Calabria Ora, oggi collaboratore de ilfattoquotidiano.it. Musolino è stato destinatario di pesanti minacce da parte della ‘ndrangheta proprio negli stessi giorni in cui il suo ex giornale cambia direttore: dopo Paolo Policchieni arriva Piero Sansonetti. È con Sansonetti che si propone a Musolino il trasferimento da Reggio Calabria a Lamezia Terme, ed è sempre sotto la sua direzione che Musolino viene licenziato.”Ma la preoccupazione per le sorti personali, la salute fisica, l’incolumità di Musolino, è stata mai presente?” chiede la commissione Antimafia a Sansonetti. Che risponde: “Sono andato a fare il direttore lì, non il poliziotto”. La gestione di Sansonetti del quotidiano Calabria Ora è finita sotto la lente della commissione soprattutto per un altro motivo: le posizioni della testata sui collaboratori di giustizia. “Maria Concetta Cacciola apparteneva a una famiglia di ‘ndrangheta di Rosarno, ci parla di una serie di omicidi e viene messa sotto protezione. Succede però che i familiari riescono a rimettersi in contatto con lei, la costringono a tornare a Rosarno, la costringono a registrare una ritrattazione delle dichiarazioni che aveva reso a noi e poi la trovano morta per aver ingerito acido muriatico, che purtroppo è anche un gesto evocativo, cioè una fine che viene riservata ai collaboratori di giustizia, a chi parla troppo”, racconta all’antimafia Giovanni Musarò, sostituto procuratore a Roma, ex pm a Reggio Calabria. “Qualche giorno dopo – continua il pm – partì una campagna stampa molto pesante su un quotidiano, L’Ora della Calabria. Erano degli articoli in esclusiva fatti per giorni e il titolo era: Cronaca di un suicidio annunciato. Veniva attaccata pesantemente la Dda di Reggio Calabria, il modo in cui era stata gestita”. Una situazione simile si verifica con il pentimento, poi ritrattato di Giuseppina Pesce, dell’omonima famiglia di ‘ndrangheta: L’Ora della Calabria da ampio risalto alla sua ritrattazione e attacca i pm pubblicando la lettera della pentita. Solo che in questo caso, Pesce fa di nuovamente marcia indietro, torna a collaborare e racconta agli inquirenti quello che era successo. “La lettera – spiega il pm Musarò – con la sua ritrattazione sarebbe stata data a Sansonetti perché l’avvocato diceva che era l’unico disposto a pubblicargliela e a sposare la loro causa”. Come si giustifica Sansonetti a San Macuto davanti a queste accuse? Con una semplice opinione: “Penso che spesso i pentiti siano indotti a parlare e che non sempre siano credibili”. Più o meno la stessa sensazione che viene fuori dopo aver letto il resoconto fatto dall’Antimafia sugli ultimi trent’anni di stampa italiana.

Sono più di duemila i giornalisti finiti nel mirino della mafia. L’Antimafia svela il dramma dei cronisti di frontiera. Sono giovani, senza contratto. Vittime di intimidazioni - anche al Nord - undici sono già morti, scrive Marco Sarti su “L’Inkiesta”. «Sono spesso corrispondenti, vivono in piccoli centri nei quali rappresentano l’unica voce informativa. Le ostilità solo all’ordine del giorno: gli sguardi maligni, le mezze parole, gli incontri per strada. Il termine “infame”, quello con il quale vengono apostrofati questi giornalisti, dice chiaramente della schizofrenia ambientale cui sono costretti: abitano quel territorio, ne sono parte integrante per cultura e abitudini, eppure sono considerati, per il lavoro che fanno, un corpo estraneo, qualcosa da espellere, un cancro». Ascoltato dalla commissione Antimafia, il giornalista Roberto Rossi ha descritto così la condizione di tanti cronisti calabresi. È un argomento che conosce bene, con la collega Roberta Mani ha pubblicato un libro su questa realtà. Si intitola Avamposto, nella Calabria dei giornalisti infami. Racconta l’isolamento che tanti colleghi sono costretti a vivere insieme alle loro famiglie, colpevoli solo del mestiere che hanno scelto. Sono professionisti di frontiera, spesso giovanissimi. In molti casi lavorano per pochi euro ad articolo, senza tutele contrattuali né legali. Ma la Calabria non c’entra. Quello dei giornalisti minacciati dalla criminalità organizzata è un fenomeno diffuso in tutta Italia. Anche nell’insospettabile Nord. Adesso, per la prima volta, la commissione parlamentare Antimafia solleva l’attenzione su queste vicende. Al termine di un’indagine durata oltre un anno – con 34 audizioni e numerosi atti giudiziari raccolti - è stata approvata all’unanimità una lunga relazione. Il risultato è a tratti sorprendente. Negli ultimi otto anni sono stati denunciati oltre duemila atti di ostilità nei confronti di giornalisti italiani. Storie di violenza e intimidazione in costante crescita. Solo nel 2014, i cronisti vittime di minacce sono stati almeno cinquecento. Ormai si registrano tre casi ogni due giorni. Episodi gravi, che quasi sempre restano impuniti. Senza considerare gli oltre trenta giornalisti già sottoposti a misure di tutela dal Viminale. Sono professionisti di frontiera, spesso giovanissimi. In molti casi lavorano per pochi euro ad articolo, senza tutele contrattuali né legali. I risultati dell’indagine sono preoccupanti. In un Paese che ha già assistito all’assassinio di undici cronisti, si continua a sottovalutare il problema dell’influenza mafiosa sull’informazione. Chi si aspetta di leggere solo storie di giornalisti siciliani e calabresi rischia di rimanere deluso. In Italia non ci sono zone immuni dalla criminalità organizzata, né dai suoi tentativi di condizionare la libera informazione. Lo dicono i dati: lo scorso anno solo in Valle d’Aosta e Molise non si sono registrate intimidazioni nei confronti della stampa. L’area più pericolosa è il Lazio. Dall’inizio del 2015 qui sono stati denunciati 26 episodi di violenza. Seguono la Campania e la Lombardia. Due tra i casi più recenti riguardano proprio il Nord Italia. L’attentato sventato al giornalista Giovanni Tizian, che aveva raccontato le infiltrazioni mafiose nell’economia emiliana, ad esempio. E le minacce, ripetute, nei confronti della giovane giornalista Ester Castano in Lombardia. Salvo qualche eccezione, nella relazione non ci sono nomi di giornalisti famosi (era stato chiesto l’intervento di Roberto Saviano, che non ha dato la sua disponibilità ad essere ascoltato). Il fenomeno riguarda quasi sempre anonimi cronisti di provincia. «Sono professionisti poco conosciuti - spiega il vicepresidente della commissione Fava – Schivi, generosi, determinati. Raramente li incontreremo sulle ribalte mediatiche, ma leggeremo o ascolteremo spesso i loro racconti sul sistema di potere mafioso e i suoi innominabili amici». Professionisti giovani, spesso sotto i trent’anni. E quasi sempre impegnati in prima linea, nelle periferie d’Italia. Davanti alla commissione Enrico Bellavia, giornalista di Repubblica, ha raccontato bene la realtà siciliana. «Io ho avuto la grande fortuna di lavorare in una grande città, Palermo, il che consente comunque un certo anonimato nel privato. Cosa diversa è per chi lavora in un piccolo centro. In un posto piccolo il boss lo incontri al bar. Lui sa quanti cannoli comprerai per andare a pranzo dalla suocera, dove vanno a scuola i tuoi figli, che percorso fanno, chi frequentano….». In un Paese che ha già assistito all’assassinio di undici cronisti, si continua a sottovalutare il problema dell’influenza mafiosa sull’informazione. Proiettili inviati per posta, telefonate minatorie, vere e proprie aggressioni fisiche. Alle violenze tradizionali si è recentemente aggiunta un’altra forma di pressione. «Un uso spregiudicato e intimidatorio di alcuni strumenti del diritto». Sono le querele temerarie, azioni civili per danni. Interventi legali che non hanno tanto l’obiettivo di far valere i propri diritti, quanto di mettere a tacere i cronisti più scomodi, per spaventarli e indurli ad autocensurarsi. Esemplare il caso di Milena Gabanelli, volto noto della Rai e responsabile del programma di inchieste Report. «Al momento ho sessanta cause aperte» ha raccontato in commissione. «Buona parte senza presupposti». La sua è una vicenda paradossale. Negli anni la trasmissione ha ricevuto richieste di risarcimento per una cifra complessiva superiore ai 250 milioni di euro. «Ma ne abbiamo persa solo una in appello, per 30mila euro». L’effetto è evidentemente più perverso quando a ricevere la richiesta danni è un giornalista di un piccolo giornale locale. O, peggio, un freelance senza tutele legali. La commissione ha incontrato Pino Maniaci, direttore della siciliana Telejato. A suo dire la testata ha il primato delle querele ricevute: più di trecento. «Le abbiamo vinte tutte (…) molte archiviate (…) ne abbiamo ancora una in sospeso. Io non me ne occupo più, perché ho delegato un avvocato che segue le 314 querele». A volte basta un avvocato per censurare una notizia. «In Italia si può mettere a tacere un giornale e un giornalista senza ricorrere alla violenza» dice l’ultimo rapporto elaborato da “Ossigeno per l’informazione”, acquisito dalla commissione Antimafia. «Si possono usare strumenti legali potenti ed efficaci come le querele per diffamazione, come le citazioni per danni che – anche quando vengono attivate senza fondato motivo – riescono a determinare forti condizionamenti. Veri e propri abusi del diritto, consentiti da leggi anacronistiche e punitive nei confronti dell’informazione giornalistica e di chi la produce e la diffonde». Le prime vittime sono i giornalisti contrattualmente più deboli. Freelance e blogger che lavorano in prima linea. Spesso per pochi euro ad articolo, «con editori raramente disponibili ad andare oltre una solidarietà di penna e di facciata». Nel settore rappresentano una realtà tutt’altro che secondaria. Stando ai dati dell’Antimafia su 60mila operatori dell’informazione, solo 15.891 sono i giornalisti con contratto di lavoro stabile. «A ciò va aggiunta una complessiva e crescente contrazione delle retribuzioni dei giornalisti non coperti da contratto» si legge nella relazione. Professionisti pagati tre o quattro euro ad articolo, compensi riconosciuti a mesi di distanza. Come nel caso di Ester Castano, che con i suoi articoli ha contribuito allo scioglimento per mafia del comune di Sedriano, il primo in Lombardia. Vittima di gravi intimidazioni e costretta a «lavorare fino a tutta la primavera del 2015 in un fast food, non riuscendo a mantenersi con il ricavato delle proprie collaborazioni». Anche per questo la relazione dell’Antimafia propone di intervenire sul contratto nazionale. «Siamo l’unico Paese in cui la figura del freelance è considerata marginale – racconta Fava – anche dal punto di vista economico e delle tutele. Una figura che è di fatto l’ossatura dell’intero sistema informativo italiano». In Italia non ci sono zone immuni dal fenomeno delle intimidazioni mafiose ai giornalisti. Stando alle denunce l’area più pericolosa è il Lazio. Seguono Campania e Lombardia. A fronte di tanti cronisti coraggiosi, altri si adeguano alle minacce. Il lavoro della commissione si occupa anche di loro. «L’informazione contigua, compiacente, persino collusa con le mafie». Professionisti che censurano e si autocensurano, nascondono le notizie. E, di conseguenza, colleghi costretti a subire una seconda forma di violenza. Più subdola delle intimidazioni. «Molte testimonianze raccolte – si legge nella relazione – raccontano di un clima difficile in alcune redazioni, di giornalisti isolati, allontanati o persino licenziati anche quando queste decisioni li ponevano oggettivamente in una condizione di maggior rischio». Di questo argomento ha parlato il cronista di Repubblica Carlo Bonini, ascoltato dalla commissione: «Quasi sempre la minaccia produce un effetto perverso, perché il collega minacciato, intorno al quale immediatamente si stringe una qualche forma di solidarietà, passati un mese, due mesi o tre mesi, diventa un problema per la sua redazione e per gli altri colleghi. Normalmente, quindi, diventa due volte vittima. È vittima prima di chi lo minaccia, e poi di un clima di sostanziale fastidio, indifferenza o addirittura isolamento nel suo stesso contesto di lavoro». Nonostante tutto, la relazione si conclude con un dato positivo. Un segnale di speranza «che non era scontato all’inizio di questa indagine». Il testo riconosce «la determinazione con cui una nuova generazione di giornalisti ritiene che la funzione etica del loro mestiere non possa essere svilita da condizioni di lavoro a volte umilianti. E che ha scelto di non piegare la schiena pur sapendo che quella scelta li espone ai morsi del pericolo e della precarietà». Claudio Fava insiste molto su questo tema. «Degli undici giornalisti uccisi da mafie e terrorismo in Italia, questa silenziosa e tenace comunità di giovani cronisti è l’eredità più autentica. Certamente la più preziosa».

Contro di me una macchina del fango che si chiama antimafia, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Contiguo alla mafia. Una commissione parlamentare ha solennemente deciso così: il giornale che ho diretto per più di tre anni in Calabria, e che si chiamava “Calabria Ora”, era “contiguo alla mafia”. Contiguo, dice il dizionario, significa vicino, molto vicino, quasi “appiccicato”. Due cose contigue sono così vicine che si toccano. Il numero 1, per esempio – in matematica – è contiguo al numero 2. Se il mio giornale era “appiccicato” alla mafia evidentemente anch’io, che lo dirigevo, ero appiccicato alla mafia. E, ragionevolmente, lo erano anche altri giornalisti che lavoravano sotto la mia direzione. Su che basi mi si rivolge questa accusa sconvolgente? Su nessuna base. L’accusa si concretizza applicando il seguente sillogismo: Le Procure combattono la mafia; “Calabria Ora” (e il suo direttore in particolare) criticava le Procure; dunque “Calabria Ora” (e in particolare il suo direttore) era contigua alla mafia. Si capisce, di conseguenza, che “Calabria Ora” e il suo direttore criticavano le Procure per conto della mafia, o per favorire la mafia, o addirittura su mandato della mafia. Naturalmente ho chiesto al mio avvocato di procedere contro i calunniatori. In particolare contro l’edizione on line del “Fatto Quotidiano” che ha dato grande risalto a queste calunnie condendole con proprie considerazioni. Mi sarà più difficile procedere contro la commissione antimafia perché è un organismo parlamentare e tutti i suoi componenti sono coperti dall’immunità parlamentare completa (il famoso articolo 68 della Costituzione prevede che le opinioni espresse nel corso dell’attività parlamentare siano insindacabili e impunibili: un parlamentare può dire quel che vuole anche di un privato cittadino, può dire che è un assassino, mentendo – più o meno quel che ha fatto con me – senza che questo cittadino possa denunciare per calunnia). Decideranno i giudici se ho ragione o torto e cioè se è possibile o no criticare le Procure anche senza necessariamente essere affiliati alla ‘ndrangheta o giù di lì. Io però vorrei raccontarvi ben bene quali sono le tre ragioni per le quali il mio giornale è stato giudicato contiguo alla mafia, sulla base di informazioni, molto approssimative  – alcune del tutto errate, ma questo è un dettaglio persino di scarsa importanza – fornite all’antimafia dai suoi consulenti che, quasi tutti, sono o giornalisti o magistrati che hanno sempre dichiarato la loro ostilità verso “Calabria Ora” ( e ora la dichiarano verso il “Garantista”). La prima si chiama questione Cacciola. La seconda si chiama questione Pesce. La terza si chiama affare-Musolino. Poi ci sono moltissime altre questioni che davvero riguardano il problema del rapporto tra giornali e lotta alla mafia, delle quali la commissione non ha voluto nemmeno occuparsi (per esempio la guerra furiosa tra magistrati all’interno della Procura di Reggio, o intorno alla Procura, che forse è ancora in corso e della quale la commissione antimafia si è infischiata, probabilmente anche perché è all’oscuro di tutto).

Capitolo Cacciola. Il motivo dello scontro tra “Calabria Ora” e la Procura, al quale accenna, se ho capito bene, uno dei magistrati interrogati dalla Commissione, è il seguente: alla signora Cacciola (testimone antimafia che poi ritrattò e poi tornò ad accusare) , dopo la ritrattazione fu levata la “protezione” che le era stata garantita dallo Stato. Successivamente fu trovata morta perché aveva bevuto acido muriatico (forse suicida, forse assassinata, forse costretta al suicidio). Noi siamo stati l’unico giornale che ha chiesto con insistenza perché le fu tolta la protezione. Nessuno ci ha risposto, e la Commissione antimafia che, trovatasi di fronte a questo problema avrebbe fatto bene ad indagare sul tema, visto che la Procura non aveva indagato, se ne è fregata. Non indagare su un suicidio sospetto o, meglio, su un possibile omicidio di ‘ndrangheta non è una bella cosa, no? E se un giornale denuncia, fa una azione antindrangheta, credo. Poi ci si accusa per avere dato conto della famosa cassetta inviata dalla Cacciola ai giornali nella quale ritrattava le sue accuse alla propria famiglia. Mi auguro che il sindacato dei giornalisti, come ha fatto altre volte, intervenga per spiegare che se si entra in possesso di una cassetta con grande interesse per l’informazione, come è successo in questo caso, i giornali sono obbligati a informare e a pubblicare. Anche se la pubblicazione danneggia o comunque non piace a una Procura.

Caso Pesce. Analogo, ma per fortuna meno tragico. La signora Pesce si pente e accusa la sua famiglia. Poi scrive una lettera nella quale accusa invece la Procura di averla costretta a pentirsi, mentre era in prigione, portandola in un carcere nel quale le era impossibile vedere i suoi figli. Noi entriamo in possesso di questa lettera e del verbale di interrogatorio nel quale la signora dice: “riavvicinatemi ai bambini e dirò tutto quello che volete”. Pubblichiamo l’una e l’altro (e pubblichiamo anche la risposta della Pm che replica correttamente: “lei non deve dirci quel che vogliamo, deve dirci la verità”). Successivamente la signora ritratta la ritrattazione e torna a collaborare. Ma questo non vuol dire che la lettera fosse falsa o che fosse falso il verbale (tipo caso-Crocetta). La lettera e il verbale erano autentici. Di cosa ci si accusa? Di avere ricevuto lettera e verbale dall’avvocato della signora (che è uno dei più famosi penalisti italiani). Non ho capito che male c’è: ricevere materiale da un magistrato è consentito, riceverlo da un avvocato no? Cioè, l’avvocato è considerato più o meno un complice? Roba da Cile di Pinochet…(Comunque nella ricostruzione dell’antimafia c’è anche una imprecisione, dovuta alla scarsa attendibilità degli informatori della commissione. Io, personalmente, non ho mai incontrato l’avvocato né ho mai avuto contatti con lui. Non che ci sarebbe stato niente di male se l’avessi fatto: preciso questo dettaglio solo per dire che gli informatori sono un po’ approssimativi e poco informati).

Capitolo Musolino.  Lucio Musolino, quando io sono arrivato a “Calabria Ora” nell’estate del 2010, è un giornalista del quotidiano. Si occupa di giudiziaria a Reggio Calabria. E’ un bravo giornalista di giudiziaria, credo, nel senso che possiede molte informazioni che vengono dalla Procura, anche se all’epoca dei fatti – mi pare di aver capito – non ha rapporti idilliaci con la Procura di Reggio, cioè non è molto simpatico al Procuratore. Anche perché Musolino conduce una campagna battente contro il governatore Scopelliti, accusandolo delle peggiori malefatte, ma soprattutto (cosa che scrive spessissimo) di aver partecipato non ricordo più bene se a un battesimo o a un pranzo dove c’era un mafioso. Musolino non ha buoni rapporti con il resto della redazione di Reggio. Anzi, pessimi. Nella prima proposta di riorganizzazione del giornale, nella quale si prevedono vari spostamenti (resi necessari dal fatto che prima che io arrivassi si erano dimessi dieci redattori del giornale) propongo a Musolino di trasferirsi da Reggio, sia per via dei cattivi rapporti che aveva con la redazione di Reggio, sia perché avevamo deciso di rafforzare le redazioni di Catanzaro e Lamezia (cosa che poi non facemmo). Lui mi risponde con durezza, dicendomi che non intendeva lasciare Reggio e accusandomi di dire le stesse cose che dice la ‘ndrangheta. Mi incazzai come un ape, naturalmente, e gli chiusi il telefono in faccia, ma siccome sono una persona pacifica e che non ama i conflitti, e siccome ero appena arrivato in Calabria e non ero in grado di capire tutto, decisi immediatamente di rinunciare al trasferimento, e comunicai questa decisione sia all’editore, che fu contrariato, sia al comitato di redazione. Quando presentai il piano di riorganizzazione, il trasferimento di Musolino non c’era. Non c’è mai stato il suo trasferimento. Qualche giorno dopo Musolino dichiarò all’Ansa che sarebbe stato trasferito, per motivi politici, provocando una polemica politica accesa, e poi andò in Tv a dichiararsi perseguitato dal giornale. L’editore andò su tutte le furie e licenziò Musolino perché aveva danneggiato con le sue dichiarazioni l’immagine e gli interessi dell’azienda. Io mi rifiutai di firmare il licenziamento. E siccome il contratto dei giornalisti prevede che i licenziamenti li faccia il direttore, quel licenziamento fu annullato dal tribunale. Io però non lasciai sotto silenzio le accuse di Musolino e lo querelai. Un paio d’anni fa, attraverso un amico comune, Musolino mi chiese, gentilmente, di ritirare la querela (e insistette molto perché io la ritirassi dicendomi che gli procurava un sacco di guai) , cosa che io – che ormai non avevo più niente contro di lui – feci di buon grado. Andammo insieme dai carabinieri di Reggio, lui, io e l’amico comune, e procedemmo al ritiro. (Quando Musolino era ancora al giornale, un giorno andai a intervistare Scopelliti, e lo feci di fronte a molti testimoni. Nel corso dell’intervista Scopelliti attaccò Musolino dicendo che scriveva balle. Io mi infuriai, gli dissi che Musolino era un ottimo giornalista e che il Presidente della Regione non doveva attaccare i giornalisti. Lui accettò il rimprovero. E il giorno dopo riferii dello scontro sul giornale). Posso finire qui, il racconto, ma voglio aggiungere una cosa, visto che si è insinuato che il motivo del mio scontro con Musolino era una mia amicizia con Scopelliti. Vi racconto come si è conclusa la mia esperienza a “Calabria Ora”. Sono stato licenziato perché mi ero rifiutato di esautorare un redattore di Reggio Calabria che non piaceva a Scopelliti. Vi dico anche il nome del redattore: Consolato Minniti, capo della redazione di Reggio. Scopelliti allora chiese al mio editore di mandare via me visto che io non rimuovevo Minniti, e lui lo fece (anche se portò come motivo ufficiale del mio licenziamento il mio rifiuto a licenziare una quarantina di giornalisti per ridurre il deficit del giornale). Non mi stupii né mi indignai. Ho sempre saputo del peso che hanno i politici nei giornali, e anche in passato mi era capitato di essere allontanato da un incarico di direzione, in altri giornali, su richiesta di leader politici. E infatti, nonostante l’ingiustizia subita ho mantenuto buoni rapporti umani sia con Scopelliti (che ho difeso quando è stato cacciato dai giudici dalla Presidenza della Regione) sia con il mio editore. Ora mi chiedo se nel Parlamento italiano debba esistere una commissione che non ha mai disturbato la mafia, non ha mai neppure in modo impercettibile contribuito alla lotta alla mafia, è composta in gran parte da parlamentari che ignorano il fenomeno mafioso e non se ne sono mai occupati, e che ha il solo scopo di gettare fango dove i famosi professionisti dell’antimafia (amatissimi, per altro, dalla mafia) chiedono che sia gettato.

I documenti del ministero dell’Interno che riportano il tentativo da parte del suo direttore di ostacolare le indagini; il «confino» al quale fu destinato quando i vertici del suo giornale lo spostarono inspiegabilmente dalla cronaca allo sport; i diari della figlia che denunciano l’indifferenza della direzione del quotidiano comunista “L’Ora” dopo la sua scomparsa; il ruolo oscuro, a margine del rapimento, di personaggi vicini al Pci e di avvocati di apparato. Tante ombre, sospetti, tradimenti. Sull’omicidio di mafia di Mauro De Mauro, cronista de «L’Ora» di Palermo, «icona» della sinistra antimafia militante, vittima il 16 settembre 1970 di «lupara bianca», si addensano oggi nuovi e ingombranti sospetti. Proprio sul comportamento di colleghi, proprietari ed entourage di quel giornale «democratico e antifascista», come lo definiva il suo direttore, Vittorio Nisticò, si sviluppa il bel libro «Mauro De Mauro, la verità scomoda» (Aliberti editore) scritto con coraggio da Francesco Viviano, inviato di Repubblica. Scavando nelle carte e nelle vecchie raccolte del giornale, Viviano si è imbattuto in una notizia destinata a fare rumore e riaprire le indagini: all’atto del sequestro, poco prima di essere ammazzato, De Mauro fu portato a casa di una persona che conosceva bene. E che molto probabilmente gli chiese conto di cose che solo il cronista conosceva. Chi interrogò De Mauro prima di ucciderlo? Chi fece da «talpa» per il sequestro? Dopo aver esplorato i possibili moventi del rapimento(a cominciare dal golpe Borghese attraverso un documento inedito rinvenuto da Viviano nel quale De Mauro parlava appunto di «colpo di stato») Viviano si sofferma a lungo sul giornale de «l’Ora» e sulle accuse a «Mister X», il potente avvocato siciliano Vito Guarrasi, fondamentale amico dei comunisti siciliani ed ex consigliere d’amministrazione del quotidiano, che il giudice Rocco Chinnici aveva definito «la testa pensante della mafia in Sicilia». L'inviato di «Repubblica» spulcia ogni indizio, ogni testimonianza che possa dare concretezza a quelle che sono molto più che semplici teorie. «In quei giorni - scrive Viviano - pur sapendo che De Mauro stava lavorando a uno scoop sensazionale, il direttore lo aveva spostato allo sport». Sospetto sempre respinto da Nisticò, che in un articolo vergato tre anni dopo la scomparsa del suo cronista, prima spiega come quella scelta avesse alla base il semplice tentativo di rilanciare la cronaca sportiva, poi però getta ombre sullo stesso De Mauro, sottolineando i suoi rapporti con alcuni democristiani «personaggi-chiave di quel sistema clientelare impastato di mafia e politica (...)». Nello stesso articolo Nisticò si lamenta del fatto che mai nessuno gli ha chiesto nulla sulla personalità di De Mauro. Da qui i dubbi di Viviano: perché mai il direttore e i colleghi del cronista ucciso si sono lamentati solo dopo anni? Perché, se avevano in mano qualcosa di utile, non si sono mai recati dagli inquirenti? L’autore del libro racconta anche di come il coinvolgimento di Guarrasi nell’«affaire» De Mauro, anche se non giudiziario, porti al deterioramento dei rapporti tra il direttore dell’«Ora» e la famiglia del cronista sparito nel nulla il 16 settembre 1970. Accade il giorno in cui Tullio De Mauro, il linguista fratello di Mauro, riceve una telefonata da un amico che lo mette in guardia proprio su Guarrasi. I De Mauro raccontano tutto ai due poliziotti che stavano seguendo il caso, Boris Giuliano e Bruno Contrada. Nisticò pare non prenderla bene: «Ancora oggi per me restano indefinibili i reali motivi che indussero i De Mauro ad affidarsi pienamente ed esclusivamente alla polizia». Inquietanti le pagine del diario della figlia di De Mauro pubblicati nel libro: «A partire dal terzo giorno del sequestro (...) il giornale aveva cominciato a tenere un contegno tra il prudente e (a parer mio) l’indifferente. Nessuno dell'“Ora”, sebbene casa nostra brulicasse di inviati e corrispondenti, era più venuto da noi; e gli articoli su un fatto tanto clamoroso e che toccava direttamente il giornale di mio padre erano affidati alle giovani leve del quotidiano (...)». Sulla scena compare poi improvvisamente anche un «inquietante personaggio», come lo definisce Viviano. Si tratta di un commercialista palermitano amico di Guarrasi, che quando ancora nessuno sa del rapimento di De Mauro, telefona a casa sua tentando di indirizzare le indagini su una pista che non avrebbe portato a nulla. Il commercialista finì agli arresti, poi venne rimesso in libertà: gli indizi a suo carico caddero.

LA PUZZA SOTTO IL NASO DELLA POLITICA NAIF. ELEZIONI: GLI IMPRESENTABILI.

Voti in cambio di incarichi e posti di lavoro. Ai domiciliari i deputati Dina e Clemente. "Corruzione elettorale durante la campagna elettorale per le Regionali 2012". Blitz della polizia valutaria, coinvolto anche Franco Mineo, non eletto al parlamento siciliano, e l'ex candidato al Comune Giuseppe Bevilacqua risultato in contatto con i boss. Pure un finanziere ai domiciliari, scrive Salvo Palazzolo su “La Repubblica” L'ultima campagna elettorale per l'Assemblea regionale siciliana è stata un grande mercato dei voti. I finanzieri del nucleo speciale di polizia valutaria hanno intercettato candidati che promettevano incarichi e posti di lavoro, ma anche soldi e finanziamenti. Dopo una lunga indagine, questa mattina, due deputati regionali e un candidato non eletto sono finiti agli arresti domiciliari con l'accusa di corruzione elettorale. I provvedimenti riguardano: Nino Dina, eletto nelle file dell'Udc, oggi presidente della commissione Bilancio del parlamento siciliano; Roberto Clemente, eletto alla Regione con Pid-Cantiere popolare, è anche consigliere comunale; Franco Mineo, già deputato regionale, che nel 2012 si candidò con Grande Sud ma non raggiunse il numero necessario di voti per Sala d'Ercole. Ai domiciliari è finito anche Giuseppe Bevilacqua, un altro esponente politico di Pid-Cantiere popolare, che alle elezioni comunali 2012 risultò il primo dei non eletti. Il quinto provvedimento è stato notificato a un militare della Guardia di finanza che avrebbe fatto dei favori a Bevilacqua, è accusato di corruzione. Ecco, l'ultima inchiesta della procura distrettuale antimafia diretta da Francesco Lo Voi. Le indagini hanno fatto emergere un quadro inquietante di rapporti fra Bevilacqua, ufficialmente solo un dipendente dell'azienda trasporti di Palermo, con diversi esponenti mafiosi. Era Bevilacqua il ras dei voti, che avrebbe messo offerto il suo pacchetto di preferenze ad alcuni politici amici. In cambio di sostanziose promesse, tutte finite nelle intercettazioni della polizia valutaria di Palermo, diretta dal tenente colonnello Calogero Scibetta. L'inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto Vittorio Teresi e dai sostituti Amelia Luise, Francesco Del Bene, Annamaria Picozzi e Dario Scaletta, aveva già fatto scattare un avviso di garanzia per Bevilacqua nell'ottobre 2013, per malversazione, appropriazione indebita ed usura. Secondo la procura, Bevilacqua avrebbe utilizzato per la sua campagna elettorale per le comunali 2012 anche i generi alimentari del "Banco opere di carità" destinate alle famiglie povere di Palermo. Naturalmente all'insaputa dei volontari. Bevilacqua regalava pacchi di pasta, oppure li vendeva a prezzi stracciati. Quei generi alimentari sarebbero diventati un vero e proprio business per il candidato al consiglio comunale, che gestisce una serie di associazioni. Due anni fa, i finanzieri sequestrarono merce per 60 chili: 48 pacchi di pasta, 10 pacchi di fette biscottate, 170 confezioni di marmellata, 50 pacchi di formaggi, 18 barattoli di legumi. Tutta merce con marchio "Aiuti Ue - prodotto non commercializzabile". Merce che poi su disposizione della procura venne data in beneficenza alla Missione "Speranza e carità" di Biagio Conte. Ora, l'inchiesta coinvolge anche due deputati regionali in carica. Nino Dina ha alle spalle un'archiviazione per concorso esterno in associazione mafiosa, per alcune frequentazioni non proprio cristalline. Clemente, invece, era stato sorpreso alcuni mesi fa ad un incontro con il capomafia Filippo Bisconti, pedinato dai carabinieri nell'ambito di un'indagine sulla cosca del paese di Misilmeri. Adesso, le indagini della polizia valutaria sono una nuova bufera sull'assemblea regionale siciliana.

Quei campioni del voto cresciuti fra Cuffaro e Micciché. Nino Dina, Roberto Clemente, Franco Mineo: chi sono i tre politici arrestati stamattina dalla polizia valutaria per corruzione elettorale, scrive Emanuele Lauria su “La Repubblica”. Tre campioni del voto che,  specie negli anni del centrodestra pigliatutto,  hanno frequentato con assiduità le stanze del potere. I politici arrestati stamattina, due deputati e un ex, sono volti noti della vecchia (e nuova) Udc e della Forza Italia che faceva il pieno di consensi a Palermo. La figura più conosciuta è quella di Nino Dina, presidente della commissione Bilancio dell’Ars, da molti considerata la seconda carica della Regione. Medico cinquantasettenne, deputato da 13 anni, Dina era e rimane un cuffariano convinto. Fu l'ex governatore a spingerlo verso l'Assemblea, dove fu eletto per la prima volta nel 2001, fu lo stesso Cuffaro a volerlo capogruppo dell'Udc tre anni dopo, e fu a causa di Dina che nel 2008 si ruppe il solido legame fra Totò e Raffaele Lombardo. Accade quando quest'ultimo si rifiutò di nominare il radiologo di Vicari assessore alla Sanità. E al suo posto scelse nientedimeno che un magistrato antimafia, Massimo Russo. Dall’Udc cuffariana Dina passò nel 2010 nel Pid di Saverio Romano, salvo poi tornare sotto le insegne del “nuovo” Scudocrociato di D’Alia. Dina, in questi anni, è entrato e uscito senza scomporsi da diverse inchieste giudiziarie. Il suo nome spuntò anche sull'inchiesta "Talpe in procura": dagli atti risultò che Dina aveva in tasca il tariffario che il re della Sanità Michele Aiello, prestanome di Provenzano, doveva far pervenire a Cuffaro. Ma non fu accertato alcun reato. Più di recente, nel 2009, il coinvolgimento nell'inchiesta che ha messo nei guai il grande rivale interno Antinoro: Nino Dina è stato indagato e prosciolto per concorso esterno in associazione mafiosa, accusa che gli derivò dalla visita ricevuta, nella sua segreteria elettorale, dall'ambasciatore del clan di Resuttana Nino Caruso. Poi l'accusa di aver preso i voti dei clan nell'hinterland palermitano. «Risulta dalle indagini che Cosa nostra ha indirizzato i suoi consensi verso Nino Dina, poi eletto all'Ars con moltissime preferenze proprio nella zona di competenza del clan», disse a settembre il procuratore aggiunto di Palermo Leonardo Agueci. «Non può riferirsi a me - replicò Dina - io a Palazzo Adriano ho preso 52 voti, a Corleone 130 a fronte di una popolazione di 12 mila votanti». Ancora una volta era stato solo sfiorato dai sospetti. Fino all’arresto di oggi. Una strada più lontana dai riflettori, e anche dai guai giudiziari, ha invece fatto Roberto Clemente, 52 anni, alla prima legislatura, eletto nella lista Cantiere popolare. Anche lui cresciuto nella “vecchia” Udc, è stato consigliere e assessore comunale nella giunta Cammarata. Vicino all’ex eurodeputato Antonello Antinoro, Clemente è passato nel 2010 nel Pid di Saverio Romano. Nel 2012 è sbarcato all’Assemblea con 7.267 voti, superando d’un soffio l’ex deputata Marianna Caronia per la quale ora si riaprono le porte di Sala d’Ercole. Per Franco Mineo,  verace ex parlamentare dell’Arenella, il cammino politIco si è intrecciato negli ultimi anni con le vicissitudini giudiziarie. Già fedelissimo di Gianfranco Micciché,  Mineo (56 anni) è passato da Forza Italia al Pdl quindi in Grande Sud, traslocando da Palazzo delle Aquile a Palazzo dei Normanni nella scorsa legislatura. In passato è stato anche assessore comunale nella giunta Cammarata. Nel giugno scorso Mineo è stato condannato a 8 anni e sei mesi per peculato e intestazione fittizia dei beni aggravata dall’aver favorito Cosa Nostra: avrebbe comprato degli immobili per conto di Angelo Galatolo, che fa parte dell’omonima famiglia mafiosa dell’Acquasanta. La sua candidatura per Grande Sud, nell’autunno del 2012, fu oggetto di aspre polemiche, perché Mineo era già sotto processo. Si fermò – si fa per dire – a 3.304 voti, terzo dietro Savona e Tamajo. Poi, sostanzialmente, il ritiro dalla scena. E persino il “divorzio” da Micciché.

Elezioni, gli impresentabili al Sud. Le elezioni amministrative in Italia, dalla Campania alla Puglia: quando la realtà supera la fantasia, scrive Sabino Labia su Panorama. Il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha invitato gli elettori della Campania a non votare i cosiddetti impresentabili presenti, numerosi, nelle liste apparentate al candidato del Pd alle Regionali, Vincenzo De Luca. Un invito che in molti stentano a capire dal momento che il Pd campano, Vincenzo De Luca stesso e il Pd della Nazione, guidato sempre da Renzi, hanno comunque avallato quei nomi prima di depositare le firme. Un po' di storia, in questo, caso, serve. A soli dieci anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, e dopo appena tre tornate elettorali, il 25 gennaio 1955 l’allora ministro dell’Interno, Mario Scelba, presentò un progetto di legge il cui titolo riportava Norme per la disciplina della propaganda elettorale. La motivazione era che bisognava porre un freno al dilagare di ogni genere di esagerazione economica e, soprattutto, di decenza e cattivo gusto durante le campagne elettorali. Naturalmente quella proposta rimase tale e non divenne mai legge. Questo curioso precedente, sta a dimostrare che in Italia, da sempre, il lungo ed estenuante periodo che precede il voto rappresenta una sorta di fiera paesana, o ancora di più, un’orgia carnevalesca dove i candidati sono le maschere che vi partecipano. Il Principe della risata, il grande Totò, con il film Onorevoli fu il primo a portare, sul grande schermo, tutti i vizi, per usare un eufemismo, della politica italica di quegli anni. Il candidato dal nome improponibile, Antonio La Trippa, chiuso in un bagno urlava il proprio nome da un imbuto. Naturalmente con il passare degli anni, la politica si è evoluta e nel Terzo Millennio è arrivato lo straordinario Antonio Albanese che con il suo Cetto La Qualunque, qui il cognome è di per se un vero programma, ha cercato in tutti i modi di estremizzare quella che rappresenta l’evoluzione della specie del candidato. Il prossimo 31 maggio 2015 si svolgerà in Italia una tornata elettorale di rilievo per il numero di amministrazioni locali interessate e che prevedibilmente e, immarcescibilmente, rappresenterà l’ennesimo banco di prova per Matteo Renzi e l’azione del governo. Tuttavia, nei comuni grandi e piccoli della Penisola, il voto viene visto, come dicevamo, più come una fiera paesana dove mettere in mostra ogni genere di specie e sottospecie di candidato. Uno degli esempi più evidenti di questo Carnevale si svolge in Puglia e per la precisione a Cerignola. Per la cronaca stiamo parlando di un paesone di quasi 60mila abitanti che ha dato i natali, tra gli altri, a Nicola Zingarelli, l’autore del dizionario; Giuseppe Di Vittorio, il più grande sindacalista italiano e Giuseppe Tatarella, il ministro dell’armonia. Ebbene, la campagna elettorale del Terzo Millennio in Capitanata è già partita con largo anticipo rispetto alle date canoniche. I candidati alla carica di consigliere sono oltre 400, distribuiti in 18 liste; praticamente ogni famiglia, che si sa al sud sono numerose, ha un parente in lista e la battuta che circola in Paese è che per il compleanno, i genitori regalano un 6x3 al proprio erede, il riferimento è al manifesto elettorale. Poi ci sono, naturalmente, i pezzi grossi, i cosiddetti big che concorrono alla carica più importante, quella di sindaco. In tutto sono sette in rappresentanza di ogni genere di partito e movimento. Tra questi, c’è colui che, però, sta rubando la scena agli avversari sin dalle battute iniziali. I suoi video su youtube sono diventati realmente contagiosi, o come si dice adesso virali. La prima uscita pubblica ha visto l’arrivo del candidato in un ristorante con tanto di limousine bianca, codazzo al seguito e, come musica di sottofondo, la colonna sonora di Rocky. Per l’occasione è stato illustrato il programma, dove il punto di forza è quello di fare uscire dal carcere tutti. Ma, quello che è diventato un vero e proprio must della Rete, è la cena elettorale finita in rissa con il suo tesoriere preso a schiaffi, calci e sedia sulla schiena. Il suo motto è la libera traduzione di quello che Barack Obama utilizzò durante la sua prima elezione, e Yes we can è diventato C la puteim fall in idioma locale. Altro che Antonio La Trippa e Cetto La Qualunque, in Italia la realtà ha superato di gran lunga la fantasia.

Elezioni, i candidati «impresentabili» al vaglio dell’Antimafia. Iniziativa di Rosy Bindi: i «curricula» di inquisiti, fascisti, presunti amici di «Gomorra» valutati dalla commissione parlamentare. I risultati prima del 31 maggio, scrive Monica Guerzoni su  “Il Corriere della Sera”. Gli «impresentabili» al setaccio dell’Antimafia. Sul tavolo di Rosy Bindi c’è un fascicolo alto così, con i nomi dei candidati che negli ultimi giorni hanno riempito le pagine politiche dei giornali. I curricula di inquisiti, fascisti, presunti amici di «Gomorra», trasformisti e via sobbalzando verranno valutati dalla commissione parlamentare. Un organismo che tra i suoi compiti costitutivi annovera quello di «indagare sul rapporto tra mafia e politica, con particolare riferimento alla selezione dei gruppi dirigenti e delle candidature per le assemblee elettive». Sulla base di questo principio la presidente Bindi ha avviato un’inchiesta interna, i cui risultati saranno resi noti prima delle regionali del 31 maggio. La scrematura delle liste sarà fatta attenendosi ai dettami del codice di autoregolamentazione, che l’Antimafia ha approvato all’unanimità il 23 settembre 2014. L’intento non è certo quello di condizionare il voto, ma di fornire agli elettori un vademecum che consenta di tracciare una linea netta tra i candidati puliti e gli altri, i cui nomi non andrebbero scritti sulla scheda. Dal punto di vista della legge Severino sono tutti in regola, anche quelli spuntati nelle liste di Vincenzo De Luca in Campania e che tanto scandalo hanno suscitato. Il punto, per Bindi, è l’opportunità politica di infilare, nelle liste civiche che appoggiano l’aspirante presidente, persone che non sono affatto al di sopra di ogni sospetto. E che magari, pur senza essere direttamente coinvolte in affari criminosi, hanno legami con famiglie della malavita. «L’etica della politica non è misurabile solo con gli atti giudiziari» va ripetendo Bindi, che ieri alla presentazione della Enciclopedia delle Mafie al Senato ha detto «il garantismo è un grande valore, ma la politica deve essere molto più rigorosa e darsi un codice di comportamento più stringente, che non faccia riferimento agli atti giudiziari». Per la ex presidente del Pd, insomma, la politica deve arrivare prima della magistratura: «Se si dice che nelle liste ci sono impresentabili si deve anche dire ai cittadini che gli impresentabili non vanno votati». Il presidente Pietro Grasso ha parlato della «dimensione clientelare della politica» e del rapporto di scambio con l’elettorato, «sovrapposizione» che non consente al nostro Paese «un progresso visibile sul piano della lotta alla criminalità organizzata». Il Pd è in allarme. Il presidente della Toscana Enrico Rossi ha dichiarato a Repubblica che il Pd avrebbe dovuto intervenire da Roma per «bloccare ed espellere, evitare presenze imbarazzanti e insignificanti». I senatori Capacchione, Cuomo e Saggese hanno chiesto al Nazareno di «fare pubblicamente i nomi degli impresentabili da non votare» e ora si dolgono di non essere stati ascoltati: «C’è un problema politico che la segreteria regionale del Pd non è riuscita a risolvere...». Ma Lorenzo Guerini assicura che le liste del Pd «sono pulite, di qualità e rispettano il codice etico interno». Certo, ammette il vicesegretario, alcuni casi «creano amarezza». Un «supplemento di vigilanza» sarebbe stato utile e bisognerà al più presto aprire una riflessione su quelle liste civiche che sono diventate «puri collettori di voti». Eppure De Luca si sente a posto con la coscienza e, senza imbarazzo, chiede a Renzi di «correggere» la legge Severino che potrebbe impedirgli di governare. Al Corriere Nichi Vendola ha detto di vedere «sinistre somiglianze» tra Renzi e Berlusconi, il quale aveva «confidenza con la mafia». Ma ieri il leader di Sel ha aggiustato il tiro: «Non penso affatto e non ho mai detto che Renzi abbia confidenza con la mafia. Trovo semplicemente imbarazzante il suo silenzio alle parole di Saviano sulla presenza di Gomorra nelle liste associate al candidato Pd della Campania».

Impresentabili e voltagabbana. Quanti sono gli impresentabili, ovvero gli inquisiti o, peggio ancora, i condannati? E i voltagabbana che nel giro di pochi mesi hanno cambiato schieramento saltando sul carro del probabile (almeno così pensano loro) vincitore? Ecco un primo «album» con tanto di foto, di nome e cognome, scrive Nino Femiani su “Il Corriere della Sera”.

1. Vincenzo De Luca. Vincenzo De Luca, candidato presidente del centrosinistra condannato un anno di reclusione (pena sospesa) per aver promosso «in totale assenza di motivazione» il suo braccio destro Alberto Di Lorenzo. Al momento della sentenza l’allora sindaco di Salerno commentò: «Condanna demenziale, per aver usato l’espressione project manager invece di coordinatore».

2. Vincenzo De Leo. È l’«uomo nero» di Casal di Principe e sostiene De Luca. Simpatizza per il Fronte nazionale ma dice: «Non sono di destra, sono entrato nel movimento perché appoggiava le mie battaglie contro i termovalorizzatori e quelle per la Terra dei fuochi». Ecco cosa ha raccontato in un’intervista a Gianluca Abate e pubblicata sul Corriere del Mezzogiorno.

Vincenzo De Leo da Casal di Principe, l’«uomo nero» che sostiene il candidato del Pd Vincenzo De Luca...

«Questo è fango».

Perché, dire che uno è di destra è un’offesa?

«No, ma io non lo sono. E definire uomo nero uno che ha un figlio piccolo è folle».

Guardi che è lei che sta nel Fronte nazionale.

«Vero. Ma insisto: non sono di destra».

Adriano Tilgher, il presidente del suo movimento, l’uomo che fondò Avanguardia nazionale con Stefano Delle Chiaie, si definisce «il più rosso tra i neri». Dunque lei deve essere uno dei neri.

«No, io sono entrato nel movimento perché appoggiava le mie battaglie contro i termovalorizzatori e quelle per la Terra dei fuochi. E, soprattutto, mi hanno sempre detto che non è uno schieramento di destra».

Cosa pensa che sia, allora?

«I dirigenti con me si sono sempre espressi in termini movimentisti. E, anzi, hanno sempre sottolineato — così come ha fatto il presidente — che destra e sinistra non esistono più, sono categorie di un secolo passato».

Questa è una storia buona per i comizi.

«Allora mi spiego meglio. Ho sempre saputo di far parte di un movimento schierato dalla parte del popolo e contro le banche. Se poi qualcuno s’è nascosto dietro un velo dicendo di non essere di estrema destra e invece lo è, be’ in quel caso sono prontissimo a lasciare il Fronte nazionale».

Lo stesso Tilgher — in un’intervista rilasciata a Fabrizio Roncone e pubblicata ieri sul Corriere della Sera — dice di sapere bene che il tono del Fronte nazionale è «vagamente mussoliniano». E definisce «attualissimi» quei discorsi. È d’accordo?

«Ho letto. E Adriano mi ha anche chiamato per chiedermi scusa, dice che non è stato compreso».

Già, la vecchia storia delle frasi travisate. Ma sulle sue dichiarazioni non mi ha ancora risposto...

«Mi hanno turbato. Io vengo da un’esperienza universitaria di sinistra, sono stato cinque anni con il Movimento 5 Stelle che ho lasciato quando mi hanno abbandonato, ho le foto di Che Guevara su Facebook. Accostare il mio nome a quello di Mussolini è una cosa che mi fa tremare. E se per Tilgher è pubblicità gratuita, io ne pago le conseguenze. E le pene».

Lei che ne pensa di Benito Mussolini?

«Quello che ha fatto in Italia storicamente è stato un errore. Ciò detto, non sono preparato sulla sua figura».

Un altro candidato nello schieramento di De Luca, Carlo Aveta, spesso si reca a Predappio. Lei ci va?

«Predappio sarebbe quel posto dove c’è la tomba di Mussolini, vero?».

Sì.

«Neppure so in quale regione si trovi. Insisto, accostare la mia persona a quella di un estremista di destra è sbagliato. Io del Fronte nazionale non ho neppure la tessera».

Però è il segretario a Casal di Principe. Strano, no?

«Sì, in effetti c’è questa cosa strana. Ma serviva un ruolo formale per poter utilizzare il timbro e fare le denunce».

Quello che lei usa è il timbro di un movimento secondo il quale «Renzi ha dichiarato guerra agli italiani». Eppure lei sostiene il candidato del Pd. Strano anche questo, no?

«Renzi, se si propone come parla, mi piace. Ha la mentalità giusta. E Tilgher mi chiamò anche quando vide una mia foto con lui, disse che era scosso».

Il Fronte nazionale sostiene anche che Mattarella «piace agli Usa ma non a noi». Come farà se lo incontrerà da consigliere regionale?

«Non sono d’accordo con loro. Mattarella è una figura istituzionale, va rispettata».

Scusi, ma se è così mi spiega lei che ci sta a fare in quel movimento?

«Visto quel che sta accadendo mi inizio a porre qualche interrogativo, e ne parlerò con Tilgher. Se il Fronte nazionale metterà nero su bianco che non c’entra nulla con l’estrema destra e con i riferimenti a Mussolini bene, altrimenti sono pronto a uscire. Subito».

3. Carlo Aveta. Ex consigliere regionale de «La Destra» è stato folgorato da De Luca tanto da sostenerne anche la sua campagna per le primarie. È finito in una aspra polemica sui gay. «Si può ancora dire in un paese libero e democratico che questi mi fanno schifo?», scrisse sulla sua pagina Facebook riferendosi a tre omosessuali, che si tenevano per mano e si baciavano a un gay pride. Poi la rettifica ma gli imbarazzi restano nel campo che sostiene de Luca visto che Aveta è con la lista «Campania in rete» che sostiene l’ex sindaco.

4. Enrico Maria Natale. «Ho lasciato da tempo le file di Forza Italia, perché ritengo che ormai di tale coalizione sia rimasto solo il nome». Ma non è solo e non è tanto questo, ovvero i trascorsi politici, ciò che fa storcere il naso a mezzo Pd riguardo la candidatura di Enricomaria (si scrive tutto attaccato) Natale nella lista «Campania in rete» collegata al candidato governatore Vincenzo De Luca. Il fatto è che il 30enne di Casal di Principe, rampollo di una famiglia di imprenditori dagli interessi diversificati, con una «laurea» finalmente conquistata in un ateneo estero dopo alterne fortune a Lettere della Federico II, ha su di sé il peso di un cognome «scomodo» per le tante vicende giudiziarie che per 15 anni hanno interessato il padre Mario. Che ne sarà anche venuto fuori dopo due arresti ed altrettante scarcerazioni per le accuse di interposizione di beni fittizi (in pratica: di «prestanome») con l’aggravante del favoreggiamento camorristico, e si sarà anche visto riconoscere indennizzi dallo Stato per «ingiusta detenzione» e restituiti i beni sottratti, ma resta sempre — agli occhi dell’opinione pubblica (e non solo) — una persona chiacchierata.«Non posso pagare la colpa d’essere nato a Casal di Principe» si è difeso in questi giorni Enricomaria. Ma di essere figlio di Mario, evidentemente, sì. Ora tutti lo vorrebbero fuori da quella lista. A partire dal sindaco della sua città, Renato Natale, esponente storico prima dei Ds, oggi del Pd, icona anti-camorra locale e contro il quale si misurò per la corsa a sindaco quand’era ancora un esponente forzista.

5. Gennaro Castiello. Le 35 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare agli arresti domiciliari che hanno incastrato il consigliere comunale di Napoli Gennaro Castiello (ex Pdl, oggi in «Noi Sud», una lista pro-Caldoro) e i suoi tre collaboratori, sono dettagliate. L’accusa di voto di scambio è stata confermata dal gip di Napoli Tommaso Miranda. «Voti acquistati a pacchetti. Voti comprati a 20-30 euro a cranio. Voti cercati – scrisse il gip – nei quartieri più degradati della città, connotati da elevata povertà ove la ricerca del consenso dietro corresponsione di denaro è, evidentemente, più agevole».

6. Diego Manna. Figlio di Angelo Manna, deputato missino e almirantiano doc. È in campo con «Lista Sud» che sostiene Vincenzo De Luca.

7. Luciano Passariello. Risultava tra i 17 indagati nell’inchiesta dello scorso ottobre della Dda di Cagliari sul riciclaggio in Sardegna del denaro dei Casalesi. Passariello avrebbe pagato - secondo i pm - una prima tranche per l’ingresso, decidendo poi di non completare l’operazione. Al passaggio societario nelle mani dei Casalesi, il consigliere regionale sarebbe stato rimborsato dai clan, così come avvenuto per gli altri tre soci sardi, l’europarlamentare Salvatore Cicu (Fi), l’ex sindaco di Sestu Luciano Taccori (Fi) e il consigliere comunale Paolo Cau (Fi). Secondo le indagini della Guardia di Finanza, il giro di denaro per l’uscita dei quattro soci ammontava a 400 mila euro in contanti, di cui 130 mila a Passariello e 270 mila complessivi agli altri tre. In totale l’operazione di subentro dei Casalesi nella Tu.ri.cost è costata un milione e 30 mila euro, contro un investimento iniziale di 600 mila euro. Tutto questo, per la Dda, configurava il reato di riciclaggio contestato ai 17 indagati. Anche Passariello è candidato con Fratelli d’Italia a sostegno di Caldoro.

8. Gennaro Cinque. Ex sindaco di Vico Equense condannato in primo grado (a nove mesi) per tentato abuso d’ufficio (e siccome il reato era solo tentato, non è stata applicata la legge Severino), si è fatto «decadere» attraverso l’escamotage del ricorso a un irregolarità edilizia e ha lasciato il Comune al vice sindaco facente funzioni. Oggi in campo per Caldoro con Forza Italia.

9. Gennaro Salvatore. Era consigliere regionale e fondatore della lista «Caldoro presidente» con la quale si presenta anche oggi. Fu arrestato perché, scrisse il gip di Napoli Roberto D’Auria, furono rinvenuto «scontrini e altri titoli di spesa univocamente connessi alla vita privata dell’indagato». Tra le «pezze d’appoggio» palesemente incongruenti alle finalità istituzionali di un consigliere regionale, c’era anche lo scontrino da 23 euro e 30 centesimi per la bombola del gas della casa al mare di San Marco di Castellabate (Salerno), dove trascorreva le vacanze. Apparvero anche alcuni scontrini di tinture per capelli. Peccato che l’indagato sia calvo.

10. Franco Malvano. Ex senatore di Forza Italia ed ex questore di Napoli. Fu l’avversario di Rosa Russo Iervolino nella sfida a sindaco di Napoli. Oggi sostiene De Luca ed è candidato nella lista «De Luca presidente» per la circoscrizione di Napoli.

11. Marco Nonno. L’allora vicepresidente del consiglio comunale di Napoli fu condannato dal Tribunale di Napoli a otto anni e mezzo di reclusione al termine del processo per le proteste e gli incidenti nel quartiere di Pianura nel gennaio del 2008, quando si parlava di riaprire la discarica. Nonno fu riconosciuto colpevole del reato di devastazione. È in campo con Fratelli d’Italia e sostiene Caldoro.

12. Massimo Ianniciello. Per ottenere rimborsi non dovuti il politico campano avrebbe utilizzato fatture per operazioni inesistenti tramite una inesistente società di Bacoli con oggetto il commercio all’ingrosso di rottami, amministrata da due svedesi irreperibili e intestata a un pluripregiudicato per droga e ricettazione. Con quest’accusa militari del Nucleo Tributario della Guarda di Finanza di Napoli arrestarono nel 2012 il consigliere regionale campano Pdl Massimo Ianniciello e gli sequestrarono la casa, a copertura di un presunto danno erariale di circa 65mila euro. Truffa aggravata e peculato, le ipotesi di reato. È candidato in Forza Italia e sostiene Caldoro.

13. Pietro Foglia. Fino a pochi mesi fa era indagato solo per peculato, nell’ambito dell’inchiesta sui fondi che il consiglio regionale destina ai propri gruppi. A gennaio la posizione di Pietro Foglia, presidente Ncd del consiglio regionale si aggravò: il procuratore aggiunto Alfonso D’Avino e il pm Giancarlo Novelli gli contestano anche il falso materiale. Si era scoperto infatti che le ricevute del distributore di carburante da lui depositate per giustificare la spesa di 32.183 euro erano contraffatte. È candidato di Ncd e sostiene Caldoro.

14. Rosa Criscuolo. Era legata da amicizia con l’ex ministro di Forza Italia, Claudio Scajola, con il quale cenò poco prima dell’arresto del politico. È candidata con Centro Democratico che sostiene De Luca. “Non mi voglio candidare con Caldoro e nella coalizione in cui ci sono i Cesaro. Insomma mi candido con De Luca per esclusione” disse Rosa al , che fa parte del comitato nazionale dei radicali. Si professa garantista e difese in passato anche Nicola Cosentino. Con la sua associazione, la «Grande Napoli», fa - come riporta Oggi. it - «visite ispettive nelle carceri».

15. Tommaso Barbato. Ex parlamentare mastelliano fu noto alle cronache perché sputò in Parlamento addosso al collega di partito Nuccio Cusumano che aveva negato la fiducia al governo Prodi bis. A gennaio di un anno fa venne indagato nell’ambito di un’inchiesta per voto di scambio a Napoli. Insieme a lui l’ex deputato del Psi Geppino Demitry, un passato da sottosegretario. Secondo la Procura Demitry, in cambio di appoggio elettorale al figlio Antonio, candidato alle politiche del 2013 per “3L – Lista Lavoro e Libertà” (quella di Giulio Tremonti), promise un posto di lavoro al figlio di Barbato, Francesco.

16. Antonio Amente. A Melito milita ancora in Forza Italia e si oppone al sindaco Venanzio Carpentieri, segretario provinciale del Pd. Alle regionali invece è con «Campania in rete» che sostiene il centrosinistra di De Luca.

17. Alberico Gambino. Rapporti tra politica e camorra a Pagani: è l’accusa contestata al consigliere regionale uscente Alberico Gambino. Fissata per il 13 maggio l’udienza davanti ai giudici della Corte di Cassazione che si pronunceranno sull’ordinanza in carcere disposta dal Riesame di Salerno per dieci degli indagati coinvolti nella maxi inchiesta dell’Antimafia, ribattezzata «Criniera». Tra i nomi, appunto quello dell’ex sindaco di Pagani e attuale candidato con Fratelli d’Italia.

18. Paolo Romano. L’allora presidente del Consiglio regionale della Campania, Paolo Romano, fu arrestato per tentata concussione dai finanzieri del Comando provinciale di Caserta. A Romano, che finì ai domiciliari alla vigilia della campagna per le Europee, vennero contestate pressioni per far nominare persone a lui vicine come direttore sanitario e amministrativo dell’Asl di Caserta. È candidato per Ncd nel collegio di Caserta.

LA VERITA’, OLTRAGGIATA, MINACCIATA E SOTTO SCORTA.

L'oltraggio alla verità.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che fossimo.

Il saluto romano di un bimbo scatena "Repubblica". Sulla vicenda avvenuta a Cantù difficile dire se è più grottesco l'episodio in sé o il resoconto che ne dà La Repubblica, scrive Paolo Granzotto su “Il Giornale”. In italiano, chiamasi grottesca la sensazione prodotta da ciò che è paradossale, sproporzionato. Squilibrato. Bene, su un episodio avvenuto in quel di Cantù - e del quale daremo subito conto - difficile dire se è più grottesco l'episodio in sé o il resoconto che ne dà La Repubblica . I fatti: la quiete e l'ordine di una scuola materna del canturino sarebbero stati turbati dalla presenza di un bimbo (quattro anni) che saluta i suoi amichetti e pare anche il bidello «col braccio proteso in avanti» e cioè, annota indignato il cronista Paolo Berizzi, «come Mussolini, come Hitler». Gesto che al bimbo (ripeto: quattro anni) avrebbe insegnato a fare il padre: un «nostalgico», come si dice. Anche scomodando Hitler e Mussolini, il saluto del «Baby Balilla» (così il Berizzi) altro non parrebbe che un inconsapevole e giocoso uzzolo infantile. Ma non a Cantù, dove diventa - e questo perché la vigilanza antifascista non dorme mai - un abominio democratico. La cui sinistra eco giunge alle orecchie dei repubblicones che ci si buttano sopra in maniera forsennata: un'intera pagina, con un richiamo in prima. Dividendo lo spazio fra la deprecazione del bambino (insisto: quattro anni) che fa il saluto romano e l'encomio per la ferma risposta della scuola materna alle provocatorie gesta del marmocchio. Stando al cronista, la prima reazione fu quella di inviare un'informativa al Provveditorato agli studi, cosa che si fa quando in normale svolgimento della attività didattica è seriamente minacciato. Ma alla fine, forse per non smentire lo spirito politicamente corretto che anima l'istituto, hanno ripiegato sullo strumento del dialogo&confronto: convocati i genitori, è stato loro fatto presente che «quel saluto è vietato dalla legge italiana». Pertanto «delle due l'una: o il bimbo (devo ripetermi: quattro anni) la smette di salutare come il Duce oppure non può più frequentare la scuola materna». In verità, reati non se ne vedono perché il saluto romano è sì vietato dalla legge del giugno 1993, ma «solo qualora compiuto con intento di rivolgere la sua attività alla esaltazione di esponenti, princìpi, fatti e metodi propri del carattere fascista». Intenzioni che sarebbe arduo attribuire ad un quattrenne e di conseguenza determinarne l'espulsione dall'asilo, naturalmente ove non cessi di salutare come a lui piace. Obiezione di nessun conto per Paolo Berizzi il quale sfodera ben altro e più solido argomento a favore dell'allontanamento: essendo l'asilo scuola pubblica, esso «si riconosce, come è ovvio, nei valori sanciti dalla Costituzione italiana il cui carattere è rigorosamente antifascista». Per cui, Carta più bella del mondo alla mano, niente asilo per il «camerata in erba» (così il Berizzi). A meno che non faccia autocritica e come un Dario Franceschini non giuri in piazza sulla Costituzione di non salutare più col «braccio destro proteso in avanti». Il sinistro andrebbe bene. E anche il destro, purché flesso. È nei dettagli che l'antifascismo vive e lotta con noi.

L’orribile “fascismo” degli antifascisti, scrive “Francesco Maria del Vigo”. “Correggere”. Un parola che già mette i brividi. Se poi la “correzione” – la rieducazione – riguarda un bambino di quattro anni le tinte diventano ancora più fosche. Partiamo dal principio. Repubblica di oggi racconta, con un certo compiacimento, una storia delirante. A Cantù un bambino di quattro anni si presenta all’asilo salutando tutti, maestre e compagni, con il braccio teso. I responsabili della scuola materna convocano i genitori del microbalilla, i quali – senza indugi – ammettono di avergli insegnato il saluto fascista: “Vogliamo dargli un’educazione rigorosa”. Non pago il padre arrotola la manica della camicia (non è dato sapere se fosse nera) e mostra una svastica tatuata sull’avambraccio. Il primo colloquio finisce in un nulla di fatto e le maestre passano al contrattacco: i genitori devono “correggere” il bambino. Correggere, come si fa con gli errori. O smette di salutare romanamente o lo sbattono fuori dall’asilo. Ora, è evidente che imporre il saluto romano a un bambino di quattro anni è demenziale. Ma anche creare un caso e “rieducare” è un comportamento da colonia penale, più che da scuola per l’infanzia. La famiglia ha sbagliato, lo Stato anche. Ed è ancora più grave. Ma questa non è solo la storia di un’educazione sui generis, è la cartella clinica di un Paese ancora diviso dal muro dell’odio. Un Paese in balìa di una tensione antifascista costante. Quando l’antifascismo dovrebbe essere morto e sepolto per evidente mancanza di fascismo. A eccezione di qualche caso marginale come la famiglia di sopra, che non costituisce certamente un pericolo politico per la gloriosa repubblica italiana. Invece, specialmente in questo settantesimo anniversario della Liberazione, l’antifascismo è tornato. Arrogante. Totalitario. E scleroticamente conservatore. Con la sua ridicola retorica, le sue bandiere rosse, le sue Belle Ciao, e le tirate moralizzatrici delle Boldrini. Fascismo è tornato a essere l’insulto più quotato. Basta prendere in mano un qualsiasi quotidiano e sembra di sfogliare un numero del Popolo d’Italia del 34. Improvvisamente sono tutti fascisti. Berlusconi lo è per definizione, Renzi anche, Salvini figuriamoci. I poveri di parole hanno sempre un “fascista” in tasca da lanciare sul muso del primo che osi superare lo stop del politicamente corretto. Il termine “fascista” è il cartellino rosso. La squalifica. Il confino intellettuale e politico, giusto per non spostarci dal Ventennio. Perché il paradosso è proprio questo: secondo i loro parametri – quelli degli antifascisti che vedono ovunque camicie nere – loro stessi sono dei fascisti. Degli squadristi culturali che mettono all’indice il dissenso e ora si prendono la briga di “correggere” i bambini di quattro anni. Come nelle dittature. Come in Unione Sovietica. Ché poi – alla fine – il problema è sempre quello.

"Saluto fascista del bimbo? Una bufala di Repubblica", scrive di Francesco Borgonovo su “Libero Quotidiano”. C’è del «nero» che si insinua nella tranquilla Cantù, turbando i sonni dei sinceri democratici? Mah. Per ora c’è un piccolo giallo che è interessante raccontare, riguardante un fascista in miniatura, un bambino con la passione per il Duce di cui molto si è discusso nei giorni scorsi. Martedì su Repubblica, con evidente richiamo in prima pagina, l'inviato Paolo Berizzi ha scritto che in una scuola materna pubblica di Cantù ci sarebbe un bambino di quattro anni con l’abitudine di fare il saluto romano. Lo maestre, indignate, avrebbero minacciato di cacciarlo dall’asilo se i genitori non fossero intervenuti. A cosa si deve tanta indignazione per il presunto Balilla? Al fatto che, suggeriva Repubblica, questo piccino è l’abominevole figlio di una «provincia “nera”». Ma perché Cantù sarebbe «provincia nera»? Lo ha scritto Berizzi: «Da due anni la cittadina in provincia di Como ospita il Festival Boreal, un raduno di ispirazione neonazista organizzato da Forza Nuova. (…) A scatenare polemiche sul raduno è stata l’autorizzazione - sorprendente - concessa dal sindaco di Cantù, Claudio Bizzozero. Il quale - in nome del “tutti hanno diritto di parola, anche i fascisti, da amministratore devo garantire questo principio democratico” - non solo ha dato il benestare all’evento (…) ma lo scorso anno si è addirittura presentato, in veste ufficiale, all’apertura del raduno per un saluto ai camerati». Capito che succede se un sindaco dà diritto di parola o di aggregazione ai fascisti? Poi il morbo si diffonde. Da genitori con le «svastiche tatuate» nascono dei bambini a loro volta fascisti, che sfoggiano il manganello al posto del ciuccio. La smentita del sindaco - C’è però un particolare che confligge con questa lettura della realtà fornita dal giornale di Ezio Mauro. Il sindaco di Cantù sostiene che, nella sua città, del bambino fascista non ci sia traccia. «Dopo che Repubblica ha pubblicato questa bufala», spiega a Libero, «ho fatto sentire tutti gli istituti e le scuole materne. E le dico che quel bambino di sicuro non frequenta una scuola di Cantù. Me lo hanno confermato i direttori e le direttrici delle scuole, che ho contattato uno per uno e che sono tenuti a dirmi le cose come stanno». Bizzozero dunque sostiene che Repubblica abbia scritto il falso: se davvero c’è un bambino che ama i saluti romani, di certo non è a Cantù. Motivo per cui il sindaco querelerà il giornale. «Ho il dovere di farlo», dice. «La bufala che ha pubblicato è allucinante». Anche al Provveditorato di Como sono sopresi. Rosa Siporso, sentita dalla Provincia di Como come referente dell’ufficio scolastico, ha spiegato: «Non abbiamo mai ricevuto segnalazioni simili». E ha aggiunto: «È strano, un dirigente scolastico di un qualsiasi nostro istituto comprensivo, a fronte di una storia del genere, quanto meno si sarebbe preoccupato di avvertire».  Dal canto suo, Paolo Berizzi conferma tutto: «È una notizia straverificata», ha ripetuto ieri a Libero. Spiega che non ha intenzione di dire di più per tutelare la sua fonte, e si professa certissimo di quanto ha pubblicato. Però non rivela quale sia la scuola. Ma come nasce questa strana vicenda? L’ha ricostruita un giornalista della Provincia, Christian Galimberti. Venerdì scorso, Paolo Berizzi si trovava a Como a presentare un suo libro. A moderare l’incontro c’era Barbara Rizzi di Ecoinformazioni, che ha raccontato: «Una maestra si è avvicinata prima dell’incontro a me e a Berizzi e ha raccontato quanto le è accaduto. Non so di quale scuola sia e di quale paese. Detta così potrebbe sembrare anche inventata? Può darsi, io non lo so». Dunque la fonte sarebbe questa signora apparsa alla presentazione del libro di Berizzi. Ed è qui che il sindaco di Cantù va su tutte le furie: «Ma non era il caso di verificare? Di chiamare il Provveditorato, per esempio? Adesso voglio proprio sapere, se questo bambino davvero c’è, che scuola frequenta, da che Comune viene. Se si trattasse di un Comune guidato dal Pd, Repubblica dirà che dove governa il Pd ci sono i bambini che fanno il saluto romano?». È una questione interessante. Perché se davvero il bambino c’è, ma non è di Cantù, la teoria della «Provincia “nera”» fa un po’ sorridere. C’è anche una curiosa coincidenza. Il libro che Berizzi è andato a presentare venerdì si intitola Bande Nere. Come vivono, chi sono, chi protegge, i nuovi nazisfascisti, e risale a qualche anno fa. Quando uscì, l’editore Bompiani fu costretto a ritirarlo. Come mai? Conteneva una foto, presentata come un documento esplosivo, che ritraeva Ignazio La Russa in compagnia di quello che veniva indicato come un uomo della ’ndrangheta. Peccato che il signore in questione fosse in realtà un carabiniere: dunque il libro dovette essere ristampato. A Repubblica i «fascisti» non portano molta fortuna.

La minaccia può venire dai magistrati.

La pubblicazione della notizia relativa alla presentazione di una denuncia penale e alla sua iscrizione nel registro delle notizie di reato costituisce lecito esercizio del diritto di cronaca. La pubblicazione della notizia relativa alla presentazione di una denuncia penale e alla sua iscrizione nel registro delle notizie di reato, oltre a non essere idonea di per sé a configurare una violazione del segreto istruttorio o del divieto di pubblicazione di atti processuali, costituisce lecito esercizio del diritto di cronaca ed estrinsecazione della libertà di pensiero previste dall'art 21 Costituzione e dall'art 10 Convenzione europea dei diritti dell'uomo, anche se in conflitto con diritti e interessi della persona, qualora si accompagni ai parametri dell'utilità sociale alla diffusione della notizia, della verità oggettiva o putativa, della continenza del fatto narrato o rappresentato. (Corte di Cassazione, Sezione 3 Civile, Sentenza del 22 febbraio 2008, n. 4603)

L’avv. Santo De Prezzo, in data 06 novembre 2006, denuncia e querela il dr. Antonio Giangrande per violazione della Privacy per aver pubblicato sul sito web della Associazione Contro Tutte le Mafie il suo nome, nonostante il nome dell’avv. Santo De Prezzo fosse già di dominio pubblico in quanto inserito negli elenchi telefonici, anche web, e nell’elenco degli avvocati del consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Brindisi, anche web.

La dr.ssa Adele Ferraro, sostituto procuratore presso il Tribunale di Brindisi apre il proc. n. 9429/06 RGNR, non espleta indagini a favore dell’indagato, ai sensi dell’art. 358 c.p.p., ed il 1° ottobre 2007 (un anno dopo la querela) decreta il sequestro preventivo dell’intero sito web della Associazione Contro Tutte le Mafie, arrecando immane danno di immagine. Il Decreto è nullo perché non convalidato dal GIP ed emesso il 19 ottobre 2007, successivamente al sequestro. Il decreto è rinnovato il 09/11/ 2007 e non convalidato dal giudice Katia Pinto. Poi ancora rinnovato il 28/12/2007 e convalidato da Katia Pinto il 26/02/2008, ma non notificato.

La dr.ssa Katia Pinto apre il proc. n. 1004/07 RGDT e il 19/09/2008, dopo quasi un anno dal sequestro del sito web con atti illegittimi dichiara la sua incompetenza territoriale e trasmette gli atti a Taranto, ma non dissequestra il sito web.

In questo procedimento non risulta esserci il fatto penale contestato eppure si oscura un sito web di una associazione antimafia e si persegue penalmente il suo presidente, Antonio Giangrande.

Insomma: il fatto non sussiste. Pur mancando la prova della violazione della privacy, quindi del reato commesso, comunque inizia il calvario per il dr. Antonio Giangrande.

Il Dr. Remo Epifani sostituto procuratore presso il Tribunale di Taranto apre il fascicolo n. 8483/08 RGNR, non espleta indagini a favore dell’indagato, ai sensi dell’art. 358 c.p.p., e decreta il rinvio a giudizio per ben due volte: il 23/06/2009 e difetta la notifica e il 28/09/2010, rinnovando  il sequestro preventivo del sito web, mai revocato.

Il Dr. Martino Rosati, Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di Taranto  apre il proc. n. 6383/08 GIP e senza indagini a favore dell’indagato, ai sensi dell’art. 358 c.p.p., dispone con proprio autonomo decreto il 14/10/2008 il sequestro preventivo del sito web.

Il processo a carico di Antonio Giangrande contraddistinto con il n. 10329/09 RGDT, si apre il 03/11/2009, ma viene chiuso per irregolarità degli atti. Il nuovo processo contraddistinto con il n. 10018/11 RGDT si apre il 01/02/2011.

Solo in data 12 luglio 2012 lo stesso Pm dr. Gioacchino Argentino chiede l’assoluzione perché il fatto non sussiste ed in pari data il giudice dr.ssa Frida Mazzuti non ha potuto non acclarare l’assoluzione di Antonio Giangrande perché il fatto non sussiste. Il Dissequestro del sito web www.associazionecontrotuttelemafie.org non è mai avvenuto e l’oscuramento del sito web è ancora vigente.

Declaratoria di ASSOLUZIONE PERCHE’ IL FATTO NON SUSSISTE. Dopo 6 anni, due pubblici Ministeri, un Giudice per l’Udienza Preliminare, tre Giudici monocratici, di cui una, dr.ssa Rita Romano, estromessa con istanza di ricusazione perchè denunciata da Antonio Giangrande, sostituita dalla dr.ssa Frida Mazzuti. L’inimicizia dei magistrati di Taranto nei confronti di Antonio Giangrande è da ricondurre al fatto che lo stesso ha denunciato alcuni magistrati del foro tarantino, anche perché uno di loro, il sostituto procuratore Salvatore Cosentino, ha archiviato una denuncia contro il suo ufficio, anziché inviarlo alla Procura di Potenza, Foro competente. (Esposto inviato a più Autorità Competenti. Lettera Morta)

I casi analoghi sono migliaia...

Dal pm di Messina, Brunelli, per un articolo del professionista Michele Schinella. Blog di giornalista oscurato dopo una querela. Oscurato il blog di informazione del giornalista professionista Michele Schinella, collaboratore di “Centonove” e “Corriere.it”, dopo una querela da parte del sindaco di Saponara (Messina), Nicola Venuto, seguita a un articolo del 2 ottobre scorso. L’oscuramento dell’intero blog – e non dell’articolo in questione – l’ha disposto il pm di Messina, Margherita Brunelli. “Il provvedimento – spiegano i legali di Schinella, Diego Lanza e Ciccio Rizzo – è abnorme e incomprensibile. Il provvedimento non ha un rigo di motivazione e oscure rimangono le ragioni di fatto e di diritto per cui il pm abbia ritenuto di adottare questa misura. Se il pm ha ritenuto che l’articolo fosse diffamatorio, sarebbe stato sufficiente oscurare il pezzo e non l’intero blog”. (Ansa).

La minaccia può venire, addirittura dagli stessi giornalisti...

Edicole online gratis, operazione per tutela diritti d’autore: 19 siti oscurati, scrive il 28 aprile 2015 “Il Fatto Quotidiano”. L'inchiesta "Black Press Review" delle Unità speciali delle Fiamme gialle contro i siti che ogni mattina mettono a disposizione dei navigatori i contenuti dei quotidiani. È stata denominata “Black Press Review” e nel mirino dell’operazione della Guardia di Finanza sono finite le edicole online, che consentono agli internauti di avere a disposizione interi contenuti di quotidiani e periodici, già dalle prime ore della giornata, senza corrispondere compensi agli editori. I finanzieri delle Unità Speciali stanno procedendo, su tutto il territorio nazionale, al sequestro e oscuramento di 19 siti e alle perquisizioni nei confronti dei presunti responsabili. Sarebbero per ora cinque le persone denunciate. I finanzieri delle Unità speciali, su delega della Procura della Repubblica di Roma, stanno eseguendo una complessa operazione in materia di tutela del diritto d’autore sul web, colpendo “edicole pirata” posizionate su server nazionali ed esteri (Repubblica Ceca, Russia, Moldavia, Svizzera e Stati Uniti). Con la collaborazione della Federazione italiana editori giornali (Fieg), la Guardia di Finanza ha identificato alcuni hacker che acquisivano indebitamente la copia digitale dei giornali e la pubblicavano su edicole online illegali. Le Fiamme Gialle hanno dichiarato che anche “una società che realizza servizi di rassegna stampa risulta interessata”. La Guardia di Finanza ha commentato: “Il fenomeno ha indubbi effetti negativi sul settore dell’editoria, che perde così ingenti risorse, con ricadute occupazionali, frustrando il lavoro, spesso pericoloso e duro degli operatori dell’informazione, che si vedono sottrarre, con un semplice click, il frutto del proprio impegno quotidiano sul campo da soggetti che operano illegalmente e senza fatica, nel web”.

La minaccia può venire dalla politica...

Nuovo attacco di Grillo ai giornalisti. La libertà d’informazione è… il suo blog, scrive Sandro Forte su “Il Secolo D’Italia”. Un fatto è certo: Grillo ce l’ha con i giornalisti. In nome della libertà d’informazione, il cui cavallo di battaglia è il suo blog, l’ex comico convertitosi alla politica attacca la libertà d’informazione la quale, seppure a volte propensa alla calunnia e al pettegolezzo, proprio perché tale non è passibile di censure politiche. «Taci, il giornalista ti ascolta! Si nascondono ovunque. L’unica difesa è il silenzio, il linguaggio dei segni – così scrive Grillo sul suo blog – I giornalisti non possono infestare Camera e Senato e muoversi a loro piacimento: vanno disciplinati in spazi appositi, esterni al Palazzo. Per un’intervista chiedano un appuntamento, non bracchino i parlamentari per le scale o al cesso. All’ingresso di Montecitorio e di Palazzo Madama va posto un cartello “No gossip. Il Parlamento non è un bordello. Il Parlamento è il luogo più sacro, di una sacralità profana, della Repubblica italiana, ma è sconsacrato ogni secondo, ogni minuto, frequentato impunemente, spesso senza segni di riconoscimento, da folle di gossipari e pennivendoli dei quotidiani alla ricerca della parola sbagliata, del titolo scandalistico, del sussurro captato dietro a una porta chiusa. Qualche deputato li scambia talvolta per colleghi e parla, parla per ritrovare sul giornale quella che credeva una conversazione privata. Mercanti di parole rubate». Poi, dopo aver citato la cacciata dei mercanti dal tempio, Grillo “inventa” lo sfogo di un parlamentare che si lamenta perché «nel Parlamento romano, all’ingresso o in ascensore, anche all’urinatoio con il microfono nel taschino c’è sempre un giornalista senza tesserino». A parte taluni eccessi, certamente condannabili più sotto il profilo della deontologia professionale che per la violazione della privacy (i politici sono comunque personaggi pubblici), resta il fatto che il leader del Movimento Cinque Stelle non digerisce la stampa libera e comunque vorrebbe che l’attività dei giornalisti fosse confinata in regole ben precise, a rischio della completezza dell’informazione (per il suo blog, “libero” di scrivere qualsiasi cosa, invece nessuna restrizione). La notizia di questo ennesimo attacco alla stampa è esplosa nel bel mezzo della conferenza stampa del M5S a Montecitorio: i deputati Laura Castelli, Mattia Fantinato e Carla Ruocco stavano illustrando le loro proposte in campo fiscale ma le parole al vetriolo di Grillo non potevano certo essere ignorate. Ne è scaturito un lungo “botta e risposta” tra i cronisti e i parlamentari “pentastellati”. Alla richiesta dei giornalisti di un commento sull’idea di Grillo di cacciare i giornalisti da Montecitorio e da Palazzo Madama è sorto un vero e proprio parapiglia. Per i parlamentari del M5S si trattava di «domande fatte per oscurare il lavoro svolto in Parlamento»: «Dovreste chiederci qualcosa sul fisco», ha sbottato Carla Ruocco. I cronisti hanno rivendicato la possibilità di scegliere le domande e hanno insistito sulla «difesa della libertà di stampa», chiedendo se i deputati presenti fossero d’accordo con Grillo. Ha risposto Laura Castelli: «Grillo, come noi, chiede che i giornalisti stiano nei luoghi deputati a fare informazione e non a origliare dietro le porte dei bagni. Tutte le volte che ci siamo sentiti in imbarazzo di fronte ai vostri comportamenti ci siamo rivolti agli organi che organizzano il vostro lavoro». Un dialogo apparentemente impossibile. «Ma non temete che venga danneggiata la libertà di stampa? Il post di Grillo prima definisce “mercanti del tempio” i giornalisti e poi chiude con un doppio “vaffanculo”», ha sottolineato un cronista. La replica non si è fatta attendere: «Siamo nati con il “vaffanculo”, non vi sconcerterete adesso?». Lo scontro è poi continuato a telecamere spente. I deputati si sono sfogati dicendo che alcuni giornalisti li avevano offesi; i cronisti hanno sottolineato che «soltanto durante il fascismo veniva impedito alla stampa di assistere ai lavori parlamentari». Una deputata ha sottolineato che «negli anni Cinquanta i cronisti non potevano entrare in Transatlantico». Un cronista le ha risposto: «Certo, perché i politici dell’epoca non volevano che i giornalisti scrivessero quello che accadeva nel “Palazzo”. Allora, torniamo alla mezzadria». «Meglio la mezzadria, funzionava meglio», è stata la risposta della deputata che ha poi posto fine al “dibattito”.

La minaccia...ai giornalisti.

Giornalisti minacciati, Lazio da record. Aggressioni, intimidazioni, querele pretestuose e vari danneggiamenti. Ecco come cercano di fermare i cronisti «colpevoli» di raccontare scomode verità, scrive Luca Rocca su “Il Tempo”. Minacciati, aggrediti, intimiditi. Gli incendiano casa e gli fanno esplodere l’auto; tentano di metterli spalle al muro spedendogli proiettili o ricorrendo a telefonate minatorie. Ma li "attaccano" anche per vie legali, con querele che poggiano sul nulla. È la vita del giornalista descritta dai dati di "Ossigeno per l’informazione", l’Osservatorio sui cronisti minacciati in Italia, promosso dalla Federazione nazionale della stampa italiana e dall’Ordine dei giornalisti. Del cronista impavido che rischia fisicamente, e di quello che non arretra di fronte a una denuncia. "Penne" coraggiose che anno dopo anno rischiano la rovina e a volte la vita, come accaduto in passato.

LE INTIMIDAZIONI. I numeri rivelati da "Ossigeno" sono impressionanti. Nel 2014 i giornalisti minacciati, o in qualche modo frenati, nel nostro Paese sono stati 421, dato aggiornato al 31 ottobre scorso. Nel 2013, nello stesso arco di tempo, erano 316. Dal 2006, anno in cui è stato dato inizio al monitoraggio, ad oggi, le "penne" intimidite sono state 2085. Ma, come segnala lo stesso Osservatorio, «dietro ogni intimidazione documentata, almeno altre dieci restano ignote perché le vittime non hanno la forza di renderle pubbliche». Ma quali sono i metodi attraverso i quali i giornalisti vengono attaccati?

MINACCE E QUERELE. Si va dalla "querela per diffamazione ritenuta pretestuosa" (129 casi nel 2014 e 324 documentati dal 2011 ad oggi) all’insulto (35 quest’anno, 174 dal 2011); dall’aggressione lieve (38 quest’anno e 129 dal 2011) all’abuso del diritto (50 e 128); dalla lettera con proiettili attivi (3 e 69) alle minacce personali (17 e 83); dalle intimidazioni con striscioni e scritte (9 e 74) alla discriminazione ed esclusione arbitraria (16 e 52). Seguono intimidazioni con esplosivo (nessun caso nel 2014 ma 40 dal 2011), lettere minatorie (11 e 51), citazione in giudizio per danni considerata strumentale (20 e 47), minacce di morte (8 e 33), spari (zero e 22), danneggiamento (12 e 36), avvertimenti (11 e 30), incendio dell’auto o dell’abitazione (7 e 27). Ci sono anche le minacce via Facebook o attraverso altri social network (4 e 16) e le querele pretestuose da parte del magistrato (11 e 23). Seguono aggressioni gravi, perquisizioni invasive, furti, stalking, avvisi di garanzia per reti legati alla pubblicazione delle notizie, sequestri giudiziari di documenti e archivi, telefonate minatorie, bossoli esplosi, ecc.

AGGRESSIONI E AVVERTIMENTI. Il giornalista, in buona sostanza, si sente spesso "circondato". E le intimidazioni appaiono ancora più chiare se si analizzano per macrocategorie: le aggressioni fisiche sono passate dalle 50 del 2011 alle 43 del 2014, con un balzo fino a 63 nel 2013. Gli avvertimenti sono stati 156 nel 2011, 181 l’anno dopo, 148 nel 2013 e 121 quest’anno. I danneggiamenti nel 2014 sono stati 19 (erano 11 tre anni prima). Le denunce e le azioni legali contro giornalisti sono state 109 nel 2011, salite a 220 nell’anno in corso. Infine, gli ostacoli alla libertà d’informazione, che erano zero nel 2011, sono arrivati a 18 nel 2014. Nel "mirino" finiscono soprattutto i giornalisti della carta stampata, con 262 casi dal 2011 ad oggi, poi quelli della tv (91 casi in totale), e del web (76).

IL LAZIO PRIMEGGIA. Dal monitoraggio di "Ossigeno" emerge che nel 2014 la regione che ha registrato il numero maggiore di intimidazioni, in tutte le varie forme, è il Lazio, con 82 casi (257 dal 2011 ad oggi). A ruota seguono: Campania con 50 casi (262 dal 2011), Sicilia 43 (162 dal 2011), 42 Lombardia (230), Basilicata 34 (42), Puglia 33 (69), Veneto 33 (63), Calabria 30 (94). E ancora: 25 Emilia Romagna (60), 16 Toscana (47), 14 Piemonte (50), 11 Friuli Venezia Giulia (20), 10 Abruzzo (29), 9 Liguria (22), 5 Sardegna (14), 5 Marche (13), 2 Umbria (8), 1 Molise (13), 1 Trentino Alto Adige (4). L’unica "isola felice" è la Valle d’Aosta.

L’INCHINO E LA SCORTA. In qualche caso il nome del giornalista minacciato è noto, in altri no. Non tutti, infatti, si atteggiano a vittima e oracolo. Michele Albanese, ad esempio, del Quotidiano della Calabria , vive sotto scorta da quando ha scritto dell’"inchino" della statua della Madonna davanti casa di un boss a Oppido Mamertina, in provincia di Reggio Calabria. Oppure Guido Scarpino, de Il Garantista, al quale hanno incendiato l’auto sotto casa. Ma l’elenco è lungo, troppo lungo per una Paese libero e democratico.

GIORNALISTI OSCURATI E NOTIZIE SOTTO SCORTA di Alberto Spampinato. Nella libera Italia sono numerosi i giornalisti che rischiano la vita, subiscono minacce, intimidazioni, ritorsioni, finiscono sotto scorta e sono costretti a una vita blindata per avere pubblicato notizie sgradite a mafiosi, camorristi, clan della ‘ndrangheta. Lo conferma la vicenda di Giovanni Tizian, che dal 22 dicembre vive protetto dalla polizia 24 ore su 24 ed è il quinto giornalista minacciato in Italia dall’inizio del 2012. Altre conferme vengono dalle storie degli altri giornalisti costretti a vivere sotto scorta. Vivono così, dal 2007, Lirio Abbate, Rosaria Capacchione e Roberto Saviano e un’altra diecina di giornalisti meno noti. Altre diecine (impossibile sapere esattamente quanti siano) sono sottoposti a protezioni di polizia più blande. Molti di loro hanno pubblicato in esclusiva notizie e inchieste sgradite ai boss della mafia. Pubblicare notizie approfondite sull’attività della mafia aiuta a combattere la mafia, ma è rischioso: per questo motivo in passato in Italia sono stati uccisi nove giornalisti, l’ultimo, Beppe Alfano, l’8 gennaio 1993 in Sicilia. Da allora la mafia non ha ucciso altri giornalisti, ma non ha rinunciato a fare piani per uccidere i giornalisti più irriducibili. Non ci sono stati altri omicidi perché i boss privilegiano altri mezzi, più subdoli, per condizionare l’informazione giornalistica e anche perché, per fortuna, nel frattempo, gli inquirenti hanno sviluppato strumenti di indagine più raffinati, e così hanno sventato numerosi attentati. Sono tantissimi in Italia i giornalisti minacciati dalla mafia. Ma molti di più sono i giornalisti che subiscono intimidazioni e censure violente di altra matrice: tantissime sono, ad esempio,  le querele pretestuose e le citazioni in giudizio per danni da parte di imprenditori, uomini politici, amministratori pubblici al puro fine di mettere in difficoltà il giornalista e rendere più difficile la pubblicazione di notizie sfavorevoli. Nel 2011, in Italia,  secondo i dati dettagliati di Ossigeno per l’Informazione, i giornalisti minacciati sono stati 324. L’osservatorio è stato creato ad hoc nel 2008 dalla FNSI insieme all’Ordine nazionale dei giornalisti, proprio per accertare la natura e la dimensione di questo triste fenomeno. I risultati saranno presentati nel Rapporto 2011-2012 di imminente pubblicazione e sono riassunti nelle tabelle allegate e sul sito dell’Osservatorio e in questa cifra totale: tra il 2006 e il 2011, l’osservatorio ha accertato 230 intimidazioni con 925 giornalisti coinvolti. Questa è la parte visibile di un fenomeno che rimane in gran parte sommerso e che, secondo le stime di Ossigeno è dieci volte più grande. Le dimensioni del fenomeno sono dunque grandi e non è più possibile trascurare il problema. Non è solo questione di garantire la sicurezza e la  libertà personale di centinaia di giornalisti, ma di garantire la libertà di stampa e il diritto dei cittadini di essere informati, perché per ogni giornalista intimidito c’è l’oscuramento di un grappolo di informazioni di grande interesse pubblico. Non a caso il gran numero di giornalisti minacciati allarma le istituzioni internazionali e continua di anno in anno a fare perdere posizioni all’Italia nella graduatoria internazionale sulla libertà di stampa: l’ultimo declassamento è arrivato nei giorni scorsi da Reporters Sans Frontieres, ed è stato uno scivolone in basso di altre 12 posizioni. E’ dunque necessario affrontare il problema con maggiore attenzione e in modo diverso, sia prendendo provvedimenti di maggior garanzia in materia di organizzazione del lavoro giornalistico, sia sul piano politico e legislativo, per adeguare una normativa arcaica e inadeguata che rende fin troppo facile trascinare pretestuosamente in giudizio un giornalista, intimidirlo, ostacolare palesemente il suo lavoro di informatore dei cittadini. Occorre certamente modificare la legge sulla diffamazione, occorre proteggere più attivamente il diritto alla segretezza delle fonti confidenziali, occorre impedire l’abuso sistematico di alcune norme del diritto. Bisogna sciogliere questi nodi per restituire al giornalismo italiano la sua autonomia ed indipendenza. Ma intanto bisogna aiutare concretamente quei giornalisti che prendono il fuoco con le mani. Quelli che accettano il rischio. Quelli che si espongono di più e perciò subiscono intimidazioni, minacce e ritorsioni. E’ evidente che i giornalisti minacciati che corrono i pericoli più gravi devono essere difesi dalle forze dell’ordine e dalla magistratura. Ma gli altri giornalisti e i cittadini non possono restare a guardare: devono difenderli mettendosi al loro fianco, devono proteggerli, circondandoli di solidarietà, facendo vedere che non sono soli, dimostrando che le intimidazioni non spengono la voce del giornalista preso di mira, ma anzi la amplificano, la moltiplicano per cento, per mille, e quindi le minacce sono vane e controproducenti. Ossigeno – Bologna, 29 gennaio 2012. Alberto Spampinato, consigliere della FNSI, direttore di Ossigeno per l’Informazione.

L’ossigeno che racconta i giornalisti minacciati, scritto da Marco Miggiano. Quanti sono i giornalisti minacciati? Quanti vivono sotto scorta? Quanti di loro hanno subito querele ed intimidazioni di ogni genere? Quanti hanno perso la vita o sono stati ammazzati perché erano divenuti scomodi o perché seguivano da vicino guerre o scontri di piazza? Un mondo ancora poco conosciuto, o meglio sottovalutato, in Italia quello dei giornalisti minacciati dalla mafie e non solo che deve assolutamente entrare nel dibattito, sia politico che culturale. Un primo serio tentativo di ridare dignità e visibilità a quanti rischiano ogni giorno la propria incolumità per cercare la notizia, arriva da Ossigeno per l’informazione, un osservatorio sui giornalisti minacciati in Italia promosso da FNSI e Ordine nazionale dei giornalisti. Un progetto a cui partecipano e danno il loro contributo decine di giornalisti e giornaliste con il solo intento di approfondire questo triste aspetto del mondo dell’informazione italiana e far conoscere tante storie di coraggio e capacità professionale. Alcuni dati sono davvero allarmanti. Dal 2006 sono circa 1451 i giornalisti che hanno subito minacce, attentati, auto bruciate, proiettili recapitati a casa, agguati, percosse e violenze fisiche. Solo in questa metà del 2013 sono esattamente 204 i giornalisti che hanno subito violenze. 26 invece coloro che sono stati uccisi. Una lista che parte dal 1960, con l’uccisione di Cosimo Cristina a Termini Imerese (Palermo) fino ad arrivare al 15 aprile 2011 quanto a Gaza, dopo un breve rapimento, venne ucciso il giornalista e cooperante Vittorio Arrigoni. Da qualche tempo è stata scelta la data del 3 maggio come giornata della memoria e tutti coloro che hanno perso la vita durante il loro lavoro, vengono ricordati in una cerimonia pubblica a Perugia. Ossigeno per l’informazione si pone, quindi, l’obiettivo di sostenere e dare voce a quei tanti uomini e donne che praticano un giornalismo vero, quel giornalismo serio, sano, fatto sul campo, nelle strade, nei vicoli delle città, professionisti che senza paura affrontano chiunque pur di trovare la verità e fare informazione. Inoltre, l’Osservatorio analizza e approfondisce anche le nuove modalità di aggressione al mondo dell’informazione. Oggi, infatti, i meccanismi per intimidire sono molteplici e vanno oltre alle classiche e vigliacche violenze fisiche. Oggi la mafia, ma non solo, è cambiata, ha studiato come muoversi nella finanza, negli appalti, nelle aule di tribunale ed anche per quanto riguarda le intimidazioni nei confronti dei giornalisti ha mutato il suo modus operandi. Paradossalmente, per alcuni aspetti, le nuove minacce per i giornalisti non arrivano più dalla canna di una pistola ma dalla penna di un avvocato. Quello che fa più paura ad un giornalista oggi giorno è ricevere una querela ed affrontare il processo che ne segue. Uno strumento giuridico legale utilizzato per cercare di tappare la bocca a chi fa solo il proprio mestiere. Querele pretestuose, inutili, spesso infondate ma che tolgono serenità al giornalista, così come è successo a Michele Inserra che ha ricevuto ben tredici querele consecutive dalla stessa persona, per di più da un magistrato. Si è formato un vero e proprio sistema che distrugge in maniera scientifica e ragionata soprattutto i free lance, chi viene pagato a pezzo per pochi euro, ma anche chi fortunatamente ha un contratto e lavora con grandi quotidiani nazionali. Il meccanismo è il medesimo, ma con qualche tutela in più grazie agli uffici legali preposti a risolvere tali questioni. Ricevere una querela fa scattare un meccanismo di auto difesa inconscia nella mente del giornalista che porta ad auto censurarsi, a ragionare più e più volte sull’opportunità di pubblicare o meno quella notizia. Ogni querela, ogni intimidazione corrisponde ad una notizia non data o consegnata alla cronaca in maniera approssimativa. Scatta l’ansia, la paura di perdere un processo in corso e dover risarcire per migliaia di euro la controparte e ciò significa, spesso, smettere di lavorare. E’ una partita che si gioca ad armi impari ed occorre trovare dei meccanismi legislativi che riescano a tutelare il mondo del giornalismo italiano. E’ questa, infatti, una delle tante richieste portate avanti da Ossigeno per l’Informazione che è riuscita, in particolare, a presentare le proprie proposte alla Commissione Parlamentare Anti Mafia, che per la prima volta ha dedicato un’indagine specifica rivolta ai giornalisti minacciati, focalizzando l’attenzione su ciò che avviene al sud, soprattutto in Calabria, Sicilia e Campania, quest’ultima la regione con il più alto numero di giornalisti minacciati. Un’indagine iniziata già nel 2012 durante la scorsa legislatura, interrotta per la fine anticipata della stessa, ma ripresa dopo l’ultima elezione dello scorso febbraio.  Così la Commissione Antimafia, dopo aver raccolto opinioni e proposte, ha formulato una serie di richieste al Governo e al Parlamento italiano, al fine di assicurare una maggiore protezione al mondo del giornalismo nella sua totalità. Ne è nato un dossier, dal titolo “Taci o sparo” scaricabile gratuitamente dal sito ossigenoinformazione.it, che riassume nel dettaglio tutte i problemi individuati e le proposte formulate dall’Osservatorio. Il testo presentato è a cura di  Alberto Spampinato, Dario Barà, Matteo Finco, Lorenzo Di Pietro, che si sono avvalsi anche della preziosa collaborazione di alcuni di quei giornalisti minacciati in prima persona, come Giovanni Tizian ed Arnaldo Capezzuto, oltre della professionalità e competenza di Lirio Abbate  ed Angelo Agostini. Occorre aggiornare le norme relative a questo settore e parlare, raccontare, scrivere e far conoscere le storie dei giornalisti minacciati in modo che queste non siano più singole storie, singoli uomini e donne lasciati soli ad affrontare paure e processi.

Quando il cronista finisce sotto scorta. Volti noti come Sandro Ruotolo, ma anche reporter di provincia come Michele Albanese. Sono tra i 30 e i 50 i giornalisti italiani costretti a vivere sotto scorta perché ritenuti in pericolo di vita, anche se i numeri ufficiali non vengono resi noti dal ministero dell'Interno. A questi vanno aggiunti gli oltre 2300 minacciati dal 2006 ad oggi con attentati incendiari, lettere con proiettili, telefonate intimidatorie in piena notte e le più subdole cause milionarie. "Abbiamo solo fatto il nostro lavoro per come va fatto, senza nascondere nulla, senza mezze frasi, senza allusioni, ma con le notizie". L'inchiesta di Giuseppe Baldessarro e Daniele Mastrogiacomo su “La Repubblica”.

"Costretti a sentirsi un pericolo ambulante", scrive Daniele Mastrogiacomo. "Lo sai la cosa che fa più male?", si chiede ad un certo punto, la voce stretta da un groppo alla gola, Michele Albanese, cronista giudiziario del Quotidiano del Sud, da dieci mesi sotto scorta. "Fa male sentirti come un estraneo, un pericolo ambulante, essere trattato come un vero appestato". Dall'altra parte del telefono senti solo l'affanno di un collega ferito. Nell'animo e nella mente. "Il contesto culturale che ti circonda", aggiunge, "alla fine ti isola, fa terra bruciata. I conoscenti, gli amici, le stesse fonti a cui ti rivolgevi per lavoro, ti evitano. Hanno paura, temono ritorsioni. Cambia tutta la tua vita. Cambia perfino il tuo modo di pensare. A volte penso: vivo sotto scorta per quello che ho scritto. Ma siamo in Italia, nel 2015. In un paese che si vanta di essere una democrazia compiuta". Tutto è iniziato con Roberto Saviano, scrittore e commentatore, con il suo "Gomorra". Un libro impressionante. Pochi, all'inizio, ci avevano fatto caso: per le cose che raccontava sembrava quasi un romanzo di fantascienza. Fu una denuncia vera. Dettagliata e attendibile. Svelava i traffici di clan dominanti nel Casertano e a Napoli e i loro intrecci con il mondo affaristico, industriale, politico. I Casalesi reagirono e decisero di minacciarlo di morte pubblicamente. Vive sotto protezione da 9 anni. Non si conosce il numero esatto dei giornalisti scortati. Il ministero degli Interni si rifiuta di indicarlo. Ma secondo stime attendibili sarebbero almeno tra i 30 e i 50. Il sito dell'osservatorio Ossigeno curato da Alberto Spampinato, fratello di un giornalista ucciso dalla mafia nel 1972, ha addirittura un contatore che aggiorna in tempo reale le minacce e le aggressioni subite dai cronisti. Nei primi sei mesi di quest'anno sono già 156, che diventano 2.300 dal 2006. Da Palermo a Torino. Incendi dolosi a macchine e portoni di casa, lettere con proiettili, telefonate intimidatorie in piena notte, linciaggi sulle pagine di Facebook, querele milionarie, intimidazioni, aggressioni fisiche, veri pestaggi. A guardare la mappa nera dell'informazione cade anche un diffusa convinzione: la Calabria conta solo 7 minacce mentre il Lazio con 26, la Sicilia con 23, la Campania con 20, la Puglia e la Lombardia con 18 restano in testa alla lista dei proscritti. E' accaduto spesso. Anche negli Anni 80 del secolo scorso. All'epoca il pericolo arrivava dal terrorismo. Agguati mortali, azzoppamenti, sparatorie. Chi si occupava della galassia armata di destra e di sinistra rischiava in prima persona. Il clima era pesante e cupo. Prima di uscire di casa, sorretti dall'istinto di sopravvivenza, molti attendevano di ascoltare alla radio la notizia dell'ennesimo attentato. Altri giravano con la pistola. Erano cronisti giudiziari, di nera. Ma anche firme di punta dei quotidiani: basta pensare a Carlo Casalegno, vicedirettore de La Stampa, colpito da un commando delle Br nel novembre del 1977 e morto dopo 13 giorni di agonia; così accadde a Walter Tobagi, inviato del Corriere della Sera, assassinato nel maggio del 1980. Le scorte si contavano sulle dita di una mano. Oggi è diverso. Forse peggio. I mandanti delle minacce e delle aggressioni non si conoscono. Perché il pericolo si annida nel business della corruzione e nella zona grigia dove si muovono le cerniere di collegamento con la politica. "E' il denaro", conferma Lirio Abbate, anche lui storico cronista giudiziario, oggi inviato de L'Espresso, da 8 anni sotto scorta "a far scattare le minacce più pesanti. Quando scavi e scrivi sugli appalti, sveli i personaggi che si muovono nell'ombra, i famosi colletti bianchi, finisci per toccare interessi che devono restare segreti. Per motivi di lavoro ho cambiato spesso città. Ma mi sono reso conto che non era tanto il contesto, la singola organizzazione criminale, a provocare la violenta reazione degli intoccabili. Erano i temi. Così è successo per Cosa nostra, così per la 'Ndrangheta e la Camorra. Così per l'inchiesta Mafia Capitale, con Massimo Carminati che si accanisce sulla mia persona". Lirio Abbate non ha una vita normale. Anche lui, come Giovanni Tizian de L'Espresso e Federica Angeli de La Repubblica, cerca una spiegazione ad una realtà che non si sarebbe mai aspettato. Ha fatto solo il suo lavoro. Ha raccolto voci, informazioni, le ha verificate. Le ha scritte. Magdi Cristiano Allam, editorialista de Il Giornale, si muove da anni circondato da 4 auto blindate. Ha raccontato il tenore dei sermoni che gli imam tenevano nelle diverse moschee italiane. Di origini egiziane, conosce l'arabo. E ha spiegato, in epoca non sospetta, che nei discorsi della preghiera del venerdì si usavano spesso parole di fuoco e di incitazione alla jihad contro gli infedeli. Lo hanno minacciato di morte. Sandro Ruotolo, da sempre inviato della trasmissione di Michele Santoro, oggi a Servizio Pubblico, è l'ultimo ad essere entrato nella lista dei giornalisti sotto scorta. E' stato pesantemente minacciato dal boss dei Casalesi Michele Zagaria. Anche lui di morte. Lo ha detto ad una delle donne che era andata a parlargli in carcere. "Ero convinto", ragiona Ruotolo, "che con l'arresto di Zagaria e Iovine la Camorra fosse stata azzoppata. Ho scoperto che tra il 2008 e il 2013 erano stati catturati 5000 camorristi. Ma anche che 300 di questi sono tornati liberi, che non è stato individuato l'arsenale, che tutti quelli che non sono accusati di fatti di sangue presto lasceranno il carcere. Eppure il ministro Alfano la settimana scorsa ha fornito in Commissione alla Camera delle cifre ufficiali su Napoli. Ci sono 78 clan, 32 dei quali in città; 4000 affiliati, di cui 1600 in città. Ma questo non era mai stato raccontato ai giornalisti. I quali, evidentemente, non lo sanno. Vuol dire che abbiamo fatto un pessimo lavoro. Ma anche che il governo ci ha mentito o tenuta nascosta una realtà drammatica".

Un'intercettazione e la vita cambia per sempre, scrive Giuseppe Baldessarro. Vive sotto scorta dal 17 luglio dello scorso anno. Una data che non potrà mai dimenticare. Prima la telefonata dalla questura di Reggio Calabria: "Deve presentarsi urgentemente presso i nostri uffici per delle comunicazioni importanti". Poi l'incontro con il Prefetto, Claudio Sammartino, e con il Procuratore, Federico Cafiero de Raho: "Abbiamo buone ragioni per ritenere che la sua sicurezza personale sia a rischio. E' necessario assegnarle una scorta, ci creda non se ne può fare a meno". In pochi minuti la vita di Michele è cambiata. La sua esistenza di cronista del Quotidiano del Sud è stata travolta. Tutto diverso: la quotidianità, gli incontri con le fonti, le giornate passate in giro a caccia di notizie e storie da raccontare ai lettori. Tutto spazzato via. Qualche ora prima le cimici della Polizia avevano registrato quella frase: "A questo lo fanno zumpare (saltare) con tutta la macchina". Una frase, una sola. Detta però tra interlocutori che sapevano bene come la 'ndrangheta non avesse digerito alcuni suoi articoli. Gente che bazzica certi ambienti, che ascolta, che raccoglie umori, che sa di cosa parla. Da quella frase, da quel giorno, Michele Albanse vive blindato. C'è la scorta che va a prenderlo sotto casa ogni volta che la chiama è c'è la vigilanza che controlla ogni segnale "strano". Non può mai uscire da solo, né gli è consentito spostarsi autonomamente. Quanto basta per portarlo a vivere le giornate quasi sempre chiuso nel suo studio: le chiama "quelle quattro mura". Il suo lavoro è radicalmente cambiato. Non ci sono più notizie da scrivere, o meglio ce ne sono molte meno. Le fonti non lo incontrano più. Non davanti ai due poliziotti che lo seguono ovunque. Non si fidano, non tanto di Albanse che le ha sempre tutelate e protette, quanto, più semplicemente, di quegli uomini che lo accompagnano, "sempre poliziotti sono". Se è vero che ovunque le notizie più interessanti viaggiano sui binari della garanzia dell'anonimato, questo vale ancora di più a Cinquefrondi, paese in cui vive Albanese, e soprattutto città della Piana di Gioia Tauro. Così il cronista che da sempre si occupa dei clan dell'area tirrenica della provincia di Reggio Calabria ora è per certi versi azzoppato. I suoi articoli sono oggi il frutto di tanta esperienza accumulata, dell'archivio sterminato che possiede, di fonti aperte come i comunicati ufficiali e di pochissimo altro. Come dice lui stesso "manca la strada". Manca cioè la possibilità di andare in giro liberamente. Quella condizione che in altri termini consente di fare il lavoro come va fatto, completo. Albanese è poi una persona che ha grande rispetto delle istituzioni e "piuttosto che andarmene ovunque con l'auto blindata, per essere giudicato come quello che ne approfitta per fare il professionista dell'antimafia", se ne sta a casa, a fare "quel che si può, ma non è la stessa cosa". Certi messaggi da queste parti valgono doppi, e lui vuole essere percepito come il giornalista che è sempre stato: umiltà e olio di gomito. Non si sente un eroe, sottolinea come "ha fatto soltanto il suo lavoro per come va fatto, senza nascondere nulla, senza mezze frasi, senza allusioni, ma con le notizie". Per questo, ripete, "non c'è niente da rimproverarsi". Per questo rifarebbe tutto quello che ha fatto. Michele Albanese non è isolato. Gli amici hanno continuato a frequentarlo come sempre, i colleghi hanno fatto quadrato attorno a lui, ma "la libertà non te la può dare nessuno, la libertà non c'è più". Albanese lo dice quasi a denti stretti: "Se l'obiettivo era quello di farmi smettere di scrivere, temo che ci siano riusciti", e infine "spero che finisca presto, spero di poter tornare a fare il mio lavoro cercando di essere utile alla terra bellissima e maledetta in cui sono nato. Spero di tornare presto a essere libero".

A proposito di scorte...

«Sono Scajola, mostro perfetto. Non negai la scorta a Biagi», scrive Errico Novi su “Il Garantista”. Nel calcio si chiama fallo di confusione. Nella procedura penale non è previsto. Ma la Procura di Bologna è quasi riuscita a riscrivere il codice e introdurre la particolare fattispecie. Ha chiesto alla locale sezione del Tribunale dei ministri di interrogare Claudio Scajola e Gianni De Gennaro nell’ambito della nuova inchiesta sulla morte di Marco Biagi, con una postilla: domandate, hanno suggerito ai giudici il pm Gustapane e il capo dell’ufficio D’Alfonso, se intendono rinunciare alla prescrizione; se i due indagati decidono di avvalersene, hanno aggiunto i pubblici ministeri, eccovi già pronta la nostra richiesta di archiviare l’indagine. Mai visto nulla di simile. Né nel codice né nella prassi. E infatti i difensori di Scajola, Giorgio Perroni ed Elisabetta Busuito, devono farci un comunicato sopra: «Il processo che si è svolto a Bologna rappresenta qualcosa di assolutamente surreale, è noto a tutti che l’indagato non può rinunciare alla prescrizione». E infatti la corte speciale che si forma nei tribunali quando c’è di mezzo qualcuno che ha fatto o fa parte del governo – dicesi Tribunale dei ministri – ha dichiarato l’intervenuta prescrizione senza mai aver ascoltato Scajola, e neppure De Gennaro. Di una cosa si può star certi, però: il fallo di confusione fischiato dalla Procura di Bologna annulla tutto il resto e decreterà, seppur involontariamente, quanto segue: Scajola se l’è scansata perché è un vigliacco. Non è in atti ufficiali ma tutti diranno così. «Sono il mostro, il depositario di tutte le nefandezze», dice l’ex ministro dell’Interno. Con inevitabile sarcasmo.

E perché, onorevole Scajola? Perché le appioppano sempre la maschera del mostro?

«Credo per due motivi. Uno è che oggettivamente la vicenda della casa al Colosseo, così come è stata presentata, e anche con l’ingenuità con cui ho provato a spiegarla, ha creato in qualche modo il mostro».

Quella casa che, per citare la storica frase, fu pagata a sua insaputa. Se tornasse indietro lo direbbe ancora?

«Non la direi così. Ma se avesse la pazienza di leggere con attenzione la sentenza del Tribunale di Roma, verificherebbe che i giudici hanno stabilito come le cose fossero andate proprio in quel modo. Lo hanno detto dopo un’inchiesta e un processo».

E però quell’espressione le ha nuociuto, lei dice. L’altra ragione che crea il mostro Scajola?

«Ero molto impegnato politicamente, avevo un buon seguito parlamentare e locale, ero un boccone ghiotto per i nemici. E soprattutto per gli amici».

Chi doveva capire avrà capito. Il Tribunale ha appena archiviato l’accusa ipotizzata nella nuova inchiesta sull’assassinio di Marco Biagi: omicidio volontario. Eravate indagati in due: lei e De Gennaro.

«Come hanno detto i miei avvocati questa indagine non doveva neanche cominciare. Si è gettato fumo negli occhi delle persone, è stata indotta molta confusione. Ho saputo della nuova inchiesta mentre ero in cella a Reggio Calabria, dopo essere stato ingiustamente arrestato per una vicenda, quella di Matacena, a cui ero totalmente estraneo. Poi c’è stata una passerella continua di testimoni alla Procura di Bologna. Hanno sfilato tutti tranne il sottoscritto. Non ero indagato ma mi hanno messo nella condizione di chi si sente depositario di tutte le nefandezze».

Perché non l’hanno chiamata?

«Se l’avessero fatto avrebbero dovuto iscrivermi a registro degli indagati».

E lei non lo era. Altrimenti i pm bolognesi avrebbero dovuto passare le carte al Tribunale dei ministri. Non l’hanno indagata per non perdere l’inchiesta?

«Evidentemente contava far nascere il caso. Poi hanno iscritto il mio nome e quello di De Gennaro. Non avrebbero mai potuto chiedere il nostro rinvio a giudizio per omicidio volontario. Hanno contestato la cooperazione colposa in omicidio colposo. Che era prescritta da 5 anni».

Ma intanto il caso, e il mostro, erano serviti.

«Esatto. E poi cos’ha detto la Procura? Se vuole fare chiarezza sulla vicenda rinunci alla prescrizione, come se io fossi depositario di chissà quali segreti. Ma io non potevo disporre della prescrizione, è stata dichiarata d’ufficio».

Possibile che i pm ritenessero invece l’estinzione del reato a disposizione di voi indagati?

«Sono persone che si occupano di diritto per mestiere. E l’indagine che è archiviata, non la mia posizione. Che motivo c’era di fare un pandemonio simile, per un anno? Avrebbero dovuto evitarlo per il rispetto che si deve a Biagi e alla sua famiglia. Pensiamo di aver fatto del bene, alla famiglia Biagi?»

Lei non sapeva dei rischi che correva Biagi?

«Sono uno che crede in Dio. Alla fine di questa vicenda, nel prossimo week end, avremo i confessionali pieni di cattolici che hanno creato per via mediatica l’idea di una mia responsabilità. Hanno cercato di far passare che non ho voluto dare la scorta a Biagi. Eppure c’era già stata un’indagine quand’ero ministro dell’Interno. Avevo promosso un decreto legge approvato all’unanimità in Parlamento per riformare il sistema delle scorte. Solo dopo la morte di Biagi, purtroppo, ci si è resi conto che lo scambio di informazioni tra prefetture e servizi segreti non funzionava. Non fu neanche sfiorata l’ipotesi che il ministro avesse la competenza di mettere o togliere scorte. Lo dice la legge. E cosa succede? Che a 13 anni dalla morte di Biagi, e a 12 dalla chiusura della prima indagine, lo stesso pm riapre il caso per omicidio volontario, senza indagati».

Le voci secondo cui le sarebbero stati segnalati pericoli per Biagi?

«Non era competenza del ministro dare o revocare scorte, ma certo se Maroni o altri avessero avuto percezione che c’era pericolo per Biagi e mi avessero detto oh guarda potrebbero colpirlo, avrei fatto quanto meno una segnalazione agli organi preposti».

E non ha mai avuto segnalazioni di quel tipo.

«Dagli atti mi risulta, e ne ho ampie testimonianze, che nessuno abbia detto di avermi segnalato che Biagi era una persona a rischio, meritevole di particolare attenzione. Poi c’è la lettera di Luciano Zocchi».

Il suo segretario di allora.

«All’inizio di questa seconda indagine si è detto che questo appunto lo vidi e che c’era la mia sigla, il mio visto. Non è vero, non c’è alcuna mia sigla. L’appunto era stato preparato alla vigilia della mia partenza per Washington, ed era stato lasciato in segreteria, non l’avevo con me. Quand’ero negli Stati Uniti arrivò la notizia dell’assassinio di Marco Biagi».

E la segnalazione di Casini?

«Non me ne aveva mai parlato».

Come sono finite queste voci nelle carte della Procura?

«Se i pm mi avessero chiamato avrei deposto volentieri. Non lo hanno fatto. Hanno sentito Maroni, Prodi, Casini, la mia segretaria di allora. Non me».

E’ uno di quei casi in cui, come ha denunciato Armando Spataro, si cerca il titolo sui giornali più che il processo?

«Mi sono dimesso senza aver ricevuto un avviso di garanzia, sono stato indagato 12 volte, sono passato per il più grande trafficone della storia repubblicana. Cosa resta? Assolto con formula piena a Roma per la storia della casa, archiviazione per l’inchiesta di Woodcock su Finmeccanica e per altri 8 processi. Ora arriva il nulla di fatto su questo. Resta il caso di Reggio Calabria su Matacena: lì risulto essere il primo arrestato della storia per procurata inosservanza di pena, è stato chiesto il processo immediato, ci sono state 5 udienze da ottobre e non abbiamo ancora finito di sentire il primo testimone, e questo perché c’erano prove schiaccianti. A proposito della sua domanda, le dice niente il mio curriculum? Ogni volta ho avuto titoli sui giornali, poi i processi finiscono come le ho detto».

L’avvocato della famiglia Biagi ha detto: Scajola e De Gennaro non faranno i conti con il tribunale, ma con la loro coscienza sì. Cosa risponde?

«Le ho già detto nel merito che non sento di avere responsabilità per quell’assassinio. Forse qualcuno avrà detto alla famiglia Biagi che mi era stata segnalata l’esigenza della scorta e che io l’avevo negata. Se fosse così avrebbero ragione a fare quel richiamo. Io sono convinto che la famiglia Biagi sia in buonafede. Ma che qualche pelandrone ha riferito loro che mi aveva chiesto di dare la scorta. Siccome non lo ha fatto, avrà detto che ero stato io a negarla».

Ha in mente l’identikit del soggetto?

«Aspetto di leggere le carte. Finora sono arrivate solo manine, veline, sussurri».

Ha smesso con la politica, vero?

«Voglio acquisire la piena verginità giudiziaria. Ma già domenica sono venute un centinaio di persone a casa mia ad Imperia. In Liguria faremo un buon risultato, come centrodestra. Poi si vedrà. Non mi piace lo scenario politico che si prefigura, mi piacerebbe che moderati e riformisti potessero disegnarne uno migliore».

Al giornalista Sandro Ruotolo, stretto collaboratore di Michele Santoro nella trasmissione di La7 «Servizio Pubblico», è stata assegnata una scorta. La decisione è stata presa dal prefetto di Roma, Franco Gabrielli, a seguito delle minacce di morte che il giornalista ha ricevuto da parte del capo del clan dei casalesi, Michele Zagaria, scrive “Il Mattino”. La decisione è stata presa in attesa della riunione del comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza. A darne conferma è, in un tweet, la stessa redazione di «Servizio Pubblico». «Il nostro giornalista Sandro Ruotolo - si legge sul social network - è sotto scorta». Le minacce di morte al giornalista televisivo sono arrivate dal capo del clan dei Casalesi, Michele Zagaria, che, intercettato in carcere, ha detto: «'O vogl' squartat' viv'». All'origine delle minacce, un reportage di Servizio pubblico sulla Terra dei Fuochi, recentemente andato in onda su La7, che conteneva un'intervista di Ruotolo a Carmine Schiavone. «Ci sono tracce recenti di rapporti tra Zagaria, quando era latitante, e i servizi segreti. Ma parliamo degli anni Duemila», dice il giornalista in uno dei passaggi. «Non ti posso dire più niente. Lo saprai al momento opportuno», è la risposta di Schiavone, pentito del clan, morto lo scorso febbraio 2016. Messaggi di solidarietà sono subito giunti al giornalista de La7. «La camorra è più che mai attiva e vuole colpire le persone che denunciano la sua attività, un copione vecchio e che conosco bene». Così Rosaria Capacchione, senatrice del Pd e componente della commissione Antimafia, commenta la notizia che il giornalista Sandro Ruotolo è stato messo sotto scorta ,sulla base di minacce alla sua persona estrapolate da alcune intercettazioni. «La forza dello Stato - aggiunge Capacchione - si misura anche sulla base della sua capacità di proteggere chi è impegnato in prima linea non solo nelle indagini, ma anche chi ha denunciato e denuncia pubblicamente i crimini e l'illegalità. La scorta è una misura difensiva; in Campania, soprattutto nella Terra dei Fuochi, è forse ora di fare qualcosa di più contro Zagaria e gli altri clan». Su Twitter il senatore del Pd Nicola Latorre scrive: «Vicini a Sandro Ruotolo, da sempre impegnato in prima linea nelle inchieste più difficili. Con lui sempre più determinati contro i poteri criminali». Soldiarietà è stata espressa anche da Emanuele Fiano, deputato pd e responsabile Sicurezza della segreteria nazionale del Pd «Ci affidiamo alla competenza delle forze dell'ordine affinché venga salvaguardata anche in questo caso nel nostro Paese la libertà di cronaca e di inchiesta contro chi opera per inquinare la nostra democrazia». Infine sempre su Twitter il capogruppo dei deputati di Sel Arturo Scotto «Solidale con Sandro Ruotolo, grande giornalista minacciato dalla camorra. Caro Sandro, questi bastardi non fermeranno mai il tuo coraggio».

Camorra, scorta al giornalista Sandro Ruotolo Minacciato di morte dal boss Zagaria. Il braccio destro di Michele Santoro a Servizio Pubblico nel mirino del capomafia per l'inchiesta sulla Terra dei Fuochi. Dopo le intercettazioni, provvedimento d'urgenza adottato da prefetto Gabrielli, scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”. Ancora una volta quando l'Informazione è fatta bene, dimostra che può dare fastidio ai mafiosi. A tenerli sulla corda, a innervosirli, perché non sempre sono abituati a essere maltrattati dalla stampa. E si agitano, i boss, anche quando sono detenuti e sottoposti al 41 bis, il duro regime carcerario. Questa volta ad andare su tutte le furie è stato il boss camorrista Michele Zagaria, che ha puntato il dito contro Sandro Ruotolo, giornalista di grande esperienza, colonna portante di Servizio Pubblico al fianco di Michele Santoro. A Zagaria “capastorta” sembra non essere andato giù, e forse gli è rimasta sulla pancia, un'inchiesta giornalistica che Sandro ha mandato in onda nelle scorse settimane sulla terra dei fuochi, dove il boss ha messo le mani e fatto illegalmente tanti affari speculando sulla pelle dei campani. Dopo questa lunga inchiesta giornalistica i magistrati della Procura antimafia di Napoli hanno registrato le minacce di Zagaria contro Sandro Ruotolo. E pure contro i pm Catello Maresca e Cesare Sirignano. Il boss è andato in escandescenza, ha inveito contro il giornalista, fino a minacciarlo di morte: «O vogl' squartat' vivo». Per questo motivo investigatori e magistrati hanno subito ravvisato un grave pericolo per Ruotolo. Un pericolo che il prefetto di Roma, Franco Gabrielli, competente per il territorio in cui lavora il giornalista, ha subito valutato, provvedendo ad assicurare a Sandro protezione, assegnandogli un servizio di scorta che sarò svolto dai carabinieri. Sulla vicenda il pool di magistrati anticamorra di Napoli sono già a lavoro per fare luce su queste minacce. Da quanto si apprende da ambienti giudiziari, Zagaria da diversi mesi appare in cella molto nervoso, forse perché è messo sotto pressione dalle numerose inchieste che lo riguardano. In particolare, come aveva già raccontato la giornalista Rosaria Capacchione sul Mattino, oggi senatrice Pd, Zagaria potrebbe essere coinvolto in una possibile trattativa sui rifiuti. Capacchione ha documentato incontri segreti, tra il 2007 e il 2009, tra il potente boss, allora latitante, Michele Zagaria o un suo emissario, uomini dei servizi segreti deviati, e delegati del commissariato. Vertici che sarebbero stati finalizzati a subappalti in cambio del silenzio per la realizzazione di siti di smaltimento. Domande e circostanze ancora senza risposta a cui anche Sandro Ruotolo ha tentato di dare una lettura di questi fatti con un servizio mandato in onda proprio da Servizio Pubblico. Ancora una volta ci ritroviamo davanti ad un giornalista minacciato solo perché ha fatto bene il suo lavoro, mettendo in crisi un mafioso. E come tutti i mafiosi l'unico modo che conoscono è quello di reagire, o almeno tentare di farlo, con la forza e la violenza. Per comprendere quanto questo boss è sensibile a quello che scrivono i giornalisti, durante la latitanza Zagaria ha telefonato ad un cronista per “rimproverarlo” di ciò che aveva scritto su di lui. E lo aveva fatto senza aver paura di essere intercettato, ma solo per il gusto, a senso suo, di minacciare il giornalista e far notare la sua potenza e presenza sul territorio. Zagaria poi è stato arrestato, come capita prima o poi a tutti i latitanti, e adesso dubito che possa uscire presto dal carcere in cui è rinchiuso. Sono certo però che Sandro Ruotolo non si tirerà indietro e continuerà a raccontare le mafie e il loro malaffare come ha fatto fino adesso, tenendo la schiena dritta e raccontando quello che agli altri, e per gli altri intendiamo i criminali, appare scomodo.

Sandro Ruotolo, la vicinanza di Grasso: “Giornalisti liberi illuminano professione”, scrive “Il Fatto Quotidiano”. Alla presentazione del premio "Giustizia e verità - Franco Giustolisi" il presidente del Senato spiega che "in Italia i giornalisti veri corrono dei rischi quotidianamente: ci sono regioni in cui chi cerca di descrivere la realtà senza veli rischia la vita". Giornalisti che finiscono sotto scorta, come Sandro Ruotolo bersaglio del boss Michele Zagaria, cronisti minacciati, reporter a cui vengono bruciate le auto o hanno già letto il loro necrologio. Sarà a questi che pensa il presidente del Senato, Pietro Grasso, quando dice: “Parafrasando Longanesi potremmo dire che non è la libertà di stampa che manca in Italia, pur con i problemi che sappiamo: mancano i giornalisti liberi. Ma quelli che ci sono, e non sono pochi, illuminano una professione fondamentale se vogliamo nutrire ancora la speranza di migliorare il nostro Paese”.  Alla presentazione del premio di giornalismo di inchiesta “Giustizia e verità – Franco Giustolisi”. – Grasso spiega che “in Italia i giornalisti veri corrono dei rischi quotidianamente: ci sono regioni in cui chi cerca di descrivere la realtà senza veli rischia la vita, in cui si combatte una battaglia quotidiana tra il dovere dell’informazione e la pretesa del silenzio, in cui si arriva a minacce, intimidazioni, querele temerarie“. E in particolare l’ex procuratore antimafia manifesta “vicinanza” proprio a Ruotolo. “Il lavoro del giornalista, quando non è asservito al potere o al potente di turno, è un lavoro prezioso per la democrazia, per l’opinione pubblica, per i cittadini”, puntualizza Grasso che indica in Franco Giustolisi un esempio, evidenziandone “il coraggio, la passione, la determinazione, lo scrupolo della verifica, il non piegarsi anche quando si sa di pagare un prezzo o correre un rischio, il non avere timore né dei padroni né dei padrini”. E ripercorrendo il percorso umano di Franco Giustolisi, autore delle inchieste sull'”Armadio della vergogna“, Grasso sottolinea: “Era un giornalista vero, scomodo, che ha dedicato la sua vita a scoprire il lato oscuro del potere e della società attraverso le sue inchieste, iniziando su Paese Sera, poi a L’Ora di Palermo, un giornale eretico che tra le sue firme ha visto ben tre giornalisti uccisi dalla mafia: Cosimo Cristina, Mauro de Mauro e Giovanni Spampinato. Andò poi a Il Giorno, da lì alla Rai, dove fu impegnato nei primi approfondimenti televisivi con inchieste dure di informazione e di denuncia, poi all’Espresso, dove ha lavorato per più di 30 anni”.

Il nostalgico Ruotolo non stringe la mano al candidato “fascista”…, scrive Valerio Goletti su “Il Secolo D’Italia”. Siamo nel 2013? A giudicare da certi atteggiamenti sembrerebbe proprio di no. Accade infatti che, alla tribuna elettorale del Tgr Lazio, il giornalista Sandro Ruotolo, candidato di Rivoluzione civile e già inviato Rai per Michele Santoro, abbia rifiutato di stringere la mano al candidato di Casapound Simone Di Stefano con la seguente motivazione: “Sono orgogliosamente antifascista”. Quindi ha fatto riferimento alle accuse omofobe comparse su Facebook contro Nichi Vendola, ha dato la colpa al movimento di Iannone (lo stesso che in passato organizzò dibattiti con la deputata Pd paladina dei diritti gay Paola Concia) e ne ha tratto le conseguenze per lui ovvie, come se fosse la cosa più naturale del mondo: “E allora io dico, non ti stringo la mano”. Di Stefano ha replicato: “Ruotolo è antifascista? Problema suo. Però Zingaretti me l’ha stretta la mano”. Atteggiamenti di discriminazione che ricordano le tribune politiche in cui i giornalisti si alzavano e se ne andavano per protesta contro la partecipazione di Giorgio Almirante o, ancora, la mancata stretta di mano tra il primo ministro belga Di Rupo e Pinuccio Tatarella che da post-missino si introduceva con timidezza nel consesso istituzionale europeo.

I giornalisti liberi? Sono solo quelli di sinistra. Così dice Pietro Grasso…, scrive Annamaria Gravino su “Il Secolo D’Italia”. Contrordine compagni: in Italia non manca la libertà di stampa, mancano giornalisti liberi. A sostenerlo è stato il presidente del Senato Pietro Grasso, intervenendo alla presentazione del premio di giornalismo d’inchiesta “Giustizia e verità – Franco Giusolisi”. Le parole di Grasso. «Parafrasando Longanesi potremmo dire che non è la libertà di stampa che manca in Italia, pur con i problemi che sappiamo: mancano i giornalisti liberi», ha detto Grasso, aggiungendo che però «quelli che ci sono, e non sono pochi, illuminano una professione fondamentale se vogliamo nutrire ancora la speranza di migliorare il nostro Paese». Grasso quindi ha ricordato i rischi corsi dai «giornalisti veri» in Italia, dove ci sono «regioni in cui chi cerca di descrivere la realtà senza veli rischia la vita», e ha espresso la sua vicinanza a Sandro Ruotolo, di recente finito sotto scorta per le minacce ricevute dal boss Zagaria. «Il lavoro del giornalista, quando non è asservito al potere o al potente di turno, è un lavoro prezioso per la democrazia, per l’opinione pubblica, per i cittadini», ha aggiunto Grasso, portando l’esempio positivo di Franco Giustolisi.

L'intervista del poliziotto sul Magazine del Corriere: "Saviano non doveva avere la scorta". Il titolo che i lettori del Corriere troveranno a pagina 78 del Magazine, a introdurre «L’intervista » di Vittorio Zincone, è: «Saviano non doveva avere la scorta». Nell’occhiello c’è il nome e cognome di chi sostiene questa tesi: Vittorio Pisani, capo della Squadra Mobile di Napoli. Pisani è un funzionario di grande spessore e sicuramente di grande futuro. Un patrimonio della Polizia, se a nemmeno quarant’anni (oggi ne ha 42) gli fu affidato il comando di uno degli uffici investigativi più importanti d’Italia. È un calabrese taciturno e poco avvezzo alla ribalta mediatica, ma nell’intervista a Magazine sceglie di incamminarsi su un terreno che inevitabilmente proprio su quella ribalta lo espone. Andare contro­corrente sul tema Saviano è impegnativo. Però Pisani non parla per sentito dire. Spiega: «A noi della Mobile fu data la delega per riscontrare quel che Saviano aveva raccontato a proposito delle minacce ricevute. Dopo gli accertamenti demmo parere negativo sull’assegnazione della scorta». E in tre anni non sembra aver cambiato idea: «Resto perplesso quando vedo scortare persone che hanno fatto meno di tantissimi poliziotti, magistrati e giornalisti che combattono la camorra da anni». Nemmeno di Gomorra pare entusiasta: «Ha avuto un peso mediatico eccessivo rispetto al valore che ha per noi addetti ai lavori». È la prima volta che un uomo dello Stato mette in discussione il fenomeno Saviano, sia per quanto avrebbe inciso con il suo libro nella lotta alla camorra, sia per i rischi ai quali quel libro lo avrebbe esposto. Ma Pisani rischia di rimanere solo. Saviano, contattato dal Corriere per una replica, sceglie ufficialmente il silenzio, ma è chiaro che l’ha presa malissimo. E comunque ci tiene a far sapere di avere avuto in questi anni conferme di essere stato condannato a morte dai casalesi, anche da persone in passato vicine al clan capeggiato da Francesco «Sandokan» Schiavone e dai superlatitanti Mario Iovine e Michele Zagaria. Non risponde direttamente a Pisani, ma prende chiaramente le distanze, invece, il procuratore di Salerno Franco Roberti, fino a pochi mesi fa capo della Direzione distrettuale antimafia di Napoli. «Non commento l’opinione personale del dottor Pisani — dice — ma vorrei ricordare che il comitato presieduto dal prefetto che assegnò la scorta a Saviano lo fece sulla base di una serie di informazioni anche confidenziali e tutte convergenti. E quindi non ho dubbi che lo siamo di fronte a un soggetto da proteggere assolutamente». Del resto la decisione di assegnare o meno la scorta a qualcuno viene presa anche considerando un contesto ambientale che può non avere riscontri certi dal punto di vista giudiziario. Per esempio non sono mai stati individuati gli autori delle scritte contro Saviano sui muri di Casal di Principe, né dei volantini trovati nella buca delle lettere dei genitori dello scrittore. Ma quegli episodi rappresentano una minaccia. Come fu una minaccia il proclama in aula durante il processo Spartacus contro Saviano, il giudice Raffaele Cantone e la giornalista Rosaria Capacchione. Per quell’episodio, però, un risvolto giudiziario c’è e c’è un’inchiesta che vede imputati Iovine e l’altro boss dei casalesi Francesco Bidognetti. Archiviata, invece, l’indagine sulla preparazione di un attentato con autobomba per uccidere lo scrittore. Se ne parlò come della confidenza di un pentito, ma in realtà non era vero niente. Non solo l’organizzazione dell’attentato ma nemmeno la confidenza del pentito.

La parlamentare Pd: «A che serve la scorta a Saviano se non ci sono minacce dei boss?» Sulla pagina della deputata democrat Giovanna Palma appare un post urticante. Poi cancellato dopo le prime furiose polemiche. Lei: non l’ho scritto né lo condivido, scrive “Il Corriere della Sera”. Un post apparso sulla pagina Fb di una parlamentare Pd e riguardante il processo per le minacce a Roberto Saviano è divenuto un piccolo «caso» politico. Protagonista Giovanna Palma, avvocato e parlamentare Pd originaria di Giugliano in Campania. Sulla sua pagina Fb, per alcuni minuti, è apparso il seguente post: «Ieri un tribunale ha assolto il boss Bidognetti dall’accusa di aver minacciato Saviano condannando un avvocato…Un flop direi, dopo che per anni ci hanno fatto credere che lo scrittore era nel mirino dei clan più sanguinari». Poi l’affondo finale che non mancherà di provocare polemiche: «In assenza di minacce di un boss a che può servire la scorta?». Va detto che il post è scomparso (forse cancellato?) dopo pochi minuti, ma sta continuando a “rimbalzare” sul web. La stessa parlamentare interpellata da un lettore sul social network dice: «Non l’ho nè scritto né lo condivido». Lasciando così intendere - anche attraverso le parole del portavoce - che si è trattato di un «fake» o di un’intrusione non autorizzata sulla sua pagina Facebook. Si attende ora una denuncia alla polizia postale per l’hackeraggio della pagina della parlamentare. Ad agosto scorso quando era stata emessa un’ordinanza di arresto nei confronti di Luigi Cesaro aveva commentato: «Il garantismo è un metodo e va applicato agli amici di partito e agli avversari. La vicenda Cesaro andava affrontata con doveroso rispetto umano da parte della politica e la doverosa terzietà da parte dei magistrati. E così è stato. Non conosco i fatti dei quali Cesaro è accusato e quindi mi astengo da ogni commento ma si tratta di una notizia positiva perché riconferma la terzietà della magistratura dimostrando che non può esistere nessuna persecuzione giudiziaria in mancanza di indizi». Parole che non erano piaciute all’interno del Pd. Palma era stata criticata sia da Luisa Bossa che da Rosaria Capacchione: «Non ho espresso alcuna solidarietà a Cesaro - aveva – sottolineato lei – ma ho posto una questione di carattere generale. Qualcuno ha strumentalizzato le mie dichiarazioni”. Trentotto anni, originaria di Giugliano, avvocato, sposata e con figli. È stata eletta per la prima volta alla Camera nel 2012. È componente della Commissione Agricoltura e della Commissione d’Inchiesta sui rifiuti.

Minacce a Roberto Saviano: boss assolti, ma lui insiste con la scorta, scrive "Imola Oggi". I boss dei Casalesi Antonio Iovine e Francesco Bidognetti sono stati assolti nel processo per le minacce allo scrittore Roberto Saviano e alla giornalista, ora senatrice del Pd Rosaria Capacchione. I pm avevano chiesto alla terza sezione penale del tribunale di Napoli la condanna a un anno e sei mesi per Bidognetti e l’assoluzione per Iovine, che ora è collaboratore di giustizia. Condannato invece l’avvocato del boss Bidognetti, Michele Santonastaso a un anno di reclusione, con pena sospesa, per le minacce a Saviano lette durante un processo. “Spero che questa sentenza sia un primo passo verso la libertà, spero ci sia per me una nuova vita” dice a Napoli Saviano, “Sono un po’ frastornato – ribadisce Saviano – tutte le forze civili, la società civile, sono riuscite a creare un corto circuito e a sollevare l’attenzione. Dare la scorta a chi scrive, significa garantire un diritto costituzionale“. (agi)

E poi "Imola Oggi" acclude vari articoli che riguardano Saviano.

Plagio in Gomorra: Roberto Saviano condannato a pagare 60mila euro. La Corte d’Appello di Napoli, sezione specializzata in materia di proprietà industriale e intellettuale, ha condannato lo scrittore Roberto Saviano e la casa editrice Mondadori per plagio. Ovvero «illecita riproduzione» di tre articoli, pubblicati dai quotidiani locali “Cronache di Napoli” e “Corriere di Caserta”, all’interno del libro “Gomorra”, il best seller sulla camorra che ha consacrato lo scrittore campano. Saviano e Mondadori sono stati condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila euro più parte delle spese legali. In più, nelle edizioni di “Gomorra” dovrà essere indicato il nome dell’autore degli articoli, dell’editore – la Libra Editrice scarl, difesa dall’avvocato Barbara Taglialatela – e della testata da cui sono stati tratti. Lo scrittore ha già annunciato pubblicamente che ricorrerà in Cassazione contro la sentenza d’Appello. Il primo grado era stato favorevole per lui e per Mondadori. (fanpage.it)

Gip di Roma: imputazione coatta per Roberto Saviano, Mauro e Viviano. Il gip di Roma Stefano Aprile ha disposto l’imputazione coatta nei confronti del giornalista di ‘Repubblica’ Francesco Viviano, del direttore del quotidiano, Ezio Mauro e dello scrittore Roberto Saviano per diffamazione nei confronti di Umberto Marconi, ex presidente della Corte d’Appello di Salerno e oggi consigliere della Corte d’Appello di Napoli. La vicenda risale al 2010 ed è relativa all’inchiesta sul dossier preparato, secondo l’accusa, dall’ex sottosegretario del Pdl Nicola Cosentino per screditare Stefano Caldoro e ottenere al suo posto la candidatura a presidente della Regione Campania. Il gip ha ravvisato gli estremi del reato di diffamazione in due articoli a firma di Viviano e Saviano pubblicati il 16 e il 17 luglio del 2010; il 16 luglio, in particolare, il sommario del titolo di apertura di prima pagina recitava: Nell’ufficio di un magistrato fabbricato il dossier anti-Caldoro. Il pm Erminio Amelio aveva invece chiesto l’archiviazione. (ansa)

Roberto Saviano accusato di plagio, richiamato da Rossi con una lettera-denuncia. Stavolta Saviano, non nuovo ad accuse di plagio, per la realizzazione del monologo sul caso Eternit mandato in onda nell’ultima puntata di “Quello che non ho“, avrebbe preso spunto dai lavori di Giampiero Rossi senza citare l’autore. Dalle pagine del loro quotidiano, Antonio Padellaro e Peter Gomez, fanno notare che, se si confrontano le parole scritte da Rossi nel suo libro “La lana della salamandra” pubblicato nel 2008 e il monologo sull’amianto di Saviano si scopre che alcune parti sono addirittura coincidenti. Nella sua lettera denuncia Giampiero Rossi scrive: “Ho trovato assai meno piacevole una certa mancanza di riconoscimento per chi quel lavoro lo ha realizzato. Tu lo sai bene, fare un’inchiesta, una ricostruzione storica, un racconto completo di vicende complicate ed enormi, come questa, comporta davvero tanta pazienza, volontà, tempo, passione. Perché, dunque, non riconoscere a chi ha investito tanto, almeno la paternità di quel suo lavoro? Eppure non sono pochi i particolari che hai scelto di utilizzare nel tuo racconto e che, guarda caso, sono tutti presenti in quei due libri (nel primo soprattutto) e non altrove, perché si tratta di racconti, confidenze, piccole sfumature emerse dalla mia lunga frequentazione della gente di Casale“. Roberto Saviano non ha ancora risposto e per ora non si è pronunciato sulle accuse. Saviano fu accusato di plagio anche dal giornalista Alket Aliu, direttore del settimanale Investigim, che  lanciò  pesanti accuse allo scrittore italiano, proprio all’interno del suo editoriale, asserendo: “Saviano riconosce il diritto d’autore solo quando si tratta di firmare contratti milionari con aziende di Berlusconi. Mentre il diritto d’autore non si applica ai giornalisti albanesi”. Aggiunge ancora: “Le imprecisioni sono molte e sono conseguenza della tipica arroganza di chi pensa di saper tutto e parla di tutto ed è stato raccomandato per prendere in giro spudoratamente gli albanesi. E’ un insulto al giornalismo e agli albanesi. Se c’è un modo per fare soldi è parlando della mafia, Saviano lo ha trovato. Conviene non solo a lui, ma anche a chi paga questo spettacolo, chi vuole spostare l’attenzione sulla criminalità di strada, sulla mafia di basso profilo, mentre la vera mafia passa attraverso le banche”. (Imola Oggi)

Gomorra, Saviano condannato per diffamazione nei confronti di Boccolato. Gomorra, confermata condanna per diffamazione a Roberto Saviano. Confermata una condanna per diffamazione a Roberto Saviano. Il risarcimento da versare è di 30mila euro. C’è infatti una persona che si sente diffamata da Gomorra, il best seller di Saviano. Si tratta di Vincenzo Boccolato, al quale nel libro veniva attribuita l’appartenenza al Clan camorristico dei La Torre e con questi coinvolto, “con un ruolo non marginale, in relazione al traffico internazionale di cocaina”. Gli avvocati Santoro e Salvigni difensori del signor Vicenzo Boccolato comunicano che con sentenza n 1977/14 del 28-05-2014 la II sezione civile della Corte d’Appello di Milano, presieduta dal dr. De Ruggiero Luigi, relatrice la dott.ssa Interlandi Caterina, ha confermato la sentenza di condanna per diffamazione di Roberto Saviano, in solido con la Mondadori S.p.A. in danno del signor Vincenzo Boccolato, nel celebre libro “Gomorra”. Come scrive nottecriminale: La sentenza della I sezione civile del Tribunale di Milano aveva accertato sussistere la portata lesiva per la reputazione e l’onore di Vincenzo Boccolato per quanto scritto dal Saviano nel capitolo “Aberdeen Mondragone”, nel quale veniva attribuita al signor Vincenzo Boccolato l’appartenenza al Clan camorristico dei La Torre e con questi coinvolto, “con un ruolo non marginale, in relazione al traffico internazionale di cocaina”.I legali poi aggiungono: In realtà il signor Vincenzo Boccolato che vive da diversi anni in Venezuela, risulta incensurato e soprattutto estraneo a qualsiasi attività camorristica. L’avv. Alessandro Santoro, difensore del signor Vincenzo Boccolato, preso atto che Saviano e la Mondadori, noncuranti delle due sentenze di condanna già intervenute, reiterano la diffamazione del signor Vincenzo Boccolato attraverso continue ristampe del celebre libro “Gomorra”, senza provvedere alla cancellazione delle frasi “accertate come diffamatorie” dal Tribunale di Milano il 28.10.13 e confermate dalla Corte di Appello e, senza neanche citare nelle ristampe la sentenza di condanna per diffamazione già intervenuta, se non altro per una più puntuale informazione “della verità” per i nuovi lettori, rende noto di aver ricevuto regolare mandato per chiedere un nuovo risarcimento dei danni subiti e subendi per la reiterata diffamazione in danno di Vincenzo Boccolato (today.it)

Un’altra condanna per Saviano, stavolta per diffamazione in Gomorra. Lo scrittore Roberto Saviano è stato condannato per diffamazione a risarcire con 30mila euro una persona citata nel suo best seller Gomorra. Lo ha deciso il Tribunale di Milano al termine di una causa civile intentata da Enzo Boccolato, assistito dall’avvocato Alessandro Santoro. Il giudice della prima sezione civile, Orietta Miccichè, ha infatti «accertato – come si legge nel dispositivo della sentenza – il contenuto diffamatorio in danno di Enzo Boccolato della frase contenuta a pagina 291 del libro intitolato Gomorra», nella parte in cui «l’autore prospetta che Enzo Boccolato insieme ad Antonio La Torre si preparavano anche a tessere una grande rete di traffico di cocaina». Il giudice ha quindi condannato «Saviano e Arnoldo Mondadori Editore Spa (editore del libro, ndr) in via tra loro solidale al risarcimento del danno subito da Enzo Boccolato e a corrispondergli la somma di 30mila euro». Il giudice ha anche ordinato «la pubblicazione dell’intestazione e del dispositivo della presente sentenza a cura e spese dei convenuti una volta a caratteri doppi del normale sul quotidiano La Repubblica entro 30 giorni della notifica in forma esecutiva della presente sentenza». A carico dei «convenuti» anche le spese legali del procedimento. «Nel libro Gomorra Saviano – ha spiegato l’avvocato Santoro – aveva infatti descritto il Boccolato, che è incensurato e che da vari anni vive in Venezuela conducendo una florida attività nel campo ittico e del tutto estraneo ad ogni attività camorristica, come collegato ai La Torre in relazione al traffico internazionale di cocaina, sostenendo che questo, unitamente ai La Torre si preparava anche a tessere una grande rete di traffico di cocaina».

Ecc…ecc…ecc…

San Roberto dalla Campania. Note sulla fenomenologia di un eroe contemporaneo. La costruzione mediatica del personaggio ero’ Roberto Saviano di Davide Pinardi(Paginauno n. 16, febbraio - marzo 2010). Lo sguardo è penetrante, l’espressione sofferta. È chiaro, con la vita che fa, con quella scorta che ha tolto ogni rifugio alla sua esistenza, che gli impedisce il nido di una casa, il calore di una famiglia...L’estetica fotografica con la quale viene ritratto è barocca e sempre uguale: il volto ha tratti caravaggeschi ed è illuminato da una luce che giunge da lontano, che sottolinea la barba lunga, soffertamente impegnata, del nostro eroe e gli dà rilievo nel mezzo di un oceano di ombre. Sì, lui è il Cavaliere della Bellezza – illuminato da una Grazia superiore – che lotta contro il buio del Male. Il suo sito internet è ricco, ben curato, con versioni in tedesco, francese, inglese e spagnolo. La sua agenzia editoriale è la più alla moda del Paese. Ma tutto ciò è necessario: Roberto Saviano – di lui stiamo parlando – non è più un personaggio di cronaca locale ma un fenomeno globale, un vero protagonista del nostro tempo, e rappresenta la storia edificante ed esemplare di un giovanotto che, pur nato nell’infame, immonda, zozza provincia campana, sa levarsi animato da una superiore caratura etica, sa riscattarsi con le proprie forze dalle colpe della sua terra, sa ergersi a coscienza etica del mondo...Giovanni Di Lorenzo, il direttore del settimanale tedesco Die Zeit, nella sua laudatio per il premio Fratelli Scholl – assegnato nel 2007 ad Anna Politkovskaja, senza scorta e assassinata – sostiene che “al momento non c’è nessuno in Italia con una storia che mi commuova e mi indigni quanto quella di Roberto Saviano. […] Si ritrova, lui che ha ancora trent’anni, a portare due fardelli, di quelli che uno solo basterebbe a schiacciare un uomo”. Pur avendo nome e cognome italiano, il direttore conosce poco e soprattutto male il nostro Paese. In poche ore trascorse non nei salotti ma per le strade, il bravo giornalista potrebbe raccogliere mille e mille storie italiane molto più commoventi e degne di indignazione. Storie di persone con fardelli che schiaccerebbero non uno ma cento uomini. Storie di extracomunitari annegati, di rom perseguitati, di piccoli commercianti taglieggiati, di precari disperati, di prostitute massacrate, di detenuti dimenticati...Storie di poveretti infelici, microscopici e sfigati, che, purtroppo per loro, non sono sostenuti dalla più grande industria editoriale nazionale di proprietà del capo di governo, non sono idolatrati da grandi giornali di opposizione (opposizione?), non sono ospitati sulle reti pubbliche in prima serata da trasmissioni nazionali e portati in scena con complesse scenografie teatrali. Roberto Saviano dice di odiare il suo libro Gomorra perché (se anche lo ha reso ricco) gli ha rovinato la vita: “Lo detesto. Quando lo vedo nella vetrina di una libreria guardo subito dall’altra parte”. C’è da domandarsi quanti siano i testimoni in processi al crimine organizzato che odiano il giorno in cui hanno accettato di denunciare ed esporsi, in cui hanno dovuto cambiare nome, sparire dalla circolazione, abbandonare luoghi, radici, parenti e amicizie: e che non ricevono né plausi, né nobili inviti, né ammirazione (quasi) generale ma si ritrovano invece nella solitudine (e nella povertà). Saviano è amato da quasi tutti. Va bene come merce da esportazione: ‘ah, meno male che c’è anche un’Italia pulita...’; va bene all’opposizione ufficiale, che supplisce alla propria inesistenza (o connivenza) politica con il plauso ebete alle icone comiche, culturali e televisive (con le quali bisognerebbe solidarizzare perché perseguitate dal Presidente/Imperatore); va bene a coloro che, con un click telematico al giorno a favore di testi di cui forse non capiscono bene il senso, si sentono sinceramente convinti di contribuire a migliorare il Paese; va bene alla fondazione FareFuturo che lo trova “un grande pensatore di destra”; va bene perfino ai leghisti, perché si erge come l’esule schifato di una cultura meridionale corrotta e inetta (purché non dica che Milano è una città del Sud!). Va bene infine a chi è al governo, perché esprime un’alata testimonianza ‘di coscienza’ che vola alta, altissima, e non si abbassa mai a una concreta contrapposizione ai veri rapporti di potere – dopo l’appello lanciato su Repubblica contro la legge sul processo breve, il ministro Bondi affettuosamente lo invita a “non abbandonare il suo impegno civile e culturale tanto più limpido e ascoltato quanto più alieno da pregiudizi ideologici”; Saviano risponde ringraziando, apprezzando “il tono rispettoso e dialogante”, affermando che “certe questioni non possono né devono essere considerate appannaggio di una parte politica” e che “schierarsi non significa ideologicamente”.  Bisogna riconoscerlo, Saviano sa scegliere con cura le cause per le quali ergersi commosso: apertamente a favore di quelle potenzialmente molto ‘popolari’, sparisce in un silenzio di tomba rispetto a quelle impopolari (simile in questo all’altro pezzo di quarzo Nanni Moretti, che si indigna soltanto quando sta per uscire un suo film da ‘promozionare’). Saviano con caschetto da pompiere e molto ben accolto dalla Protezione civile denuncia le vergogne collegate al terremoto in Abruzzo: chi può non essere d’accordo? (Anche se poi si fa prendere la mano e aggiunge generiche considerazioni sulla presenza storica della mafia in quella regione che lasciano basiti molti abruzzesi: tutti conniventi con la criminalità organizzata?) Qualcuno l’ha sentito invece in occasione del quasi pogrom contro i rom di Ponticelli? Qualcuno lo ha sentito dire che lo sfruttamento neo-schiavista degli extracomunitari è dovuto a un sistema economico che in Italia è fisiologico e non patologico? Qualcuno lo ha sentito denunciare la tragedia del precariato? Preferisce una puntatina a Barcellona per una toccante intervista al calciatore Lionel Messi, Pallone d’Oro 2009...In televisione cita Varlam Salamov e Ken Saro-Wiwa (e si legittima implicitamente come eroico ‘scrittore civile’). Piccolo particolare: Varlam Salamov ha fatto diciotto anni di gulag sotto Stalin, Saro-Wiwa è stato impiccato in Nigeria dopo un processo farsa. Nessuno di loro ha avuto la scorta dal ministero degli Interni. Settimane fa il comune di Milano – tra Ambrogini d’oro che premiano Marina Berlusconi e i nuclei di vigili che danno la caccia ai clandestini (si badi, gente che viene presa a caso sui tram e messa in gabbia senza aver commesso alcun reato) – ha votato all’unanimità per offrirgli la cittadinanza onoraria: l’offerta non è stata respinta con sdegno. Pochi criticano Saviano. L’ha fatto Vittorio Pisani, capo della Squadra mobile di Napoli, che afferma di aver dato parere negativo alla concessione allo scrittore della scorta: “Ho arrestato centinaia di delinquenti. Ho scritto, testimoniato e giro per la città con mia moglie e con i miei figli senza scorta. Non sono mai stato minacciato. […] Resto perplesso quando vedo scortate persone che hanno fatto meno di tantissimi poliziotti, carabinieri, magistrati e giornalisti che combattono la Camorra da anni”. L’ha osato fare anche Nicola Tanzi, segretario generale del Sap, Sindacato autonomo di polizia: Saviano “non è un eroe, al contrario dei poliziotti che stanno tutti i giorni in prima linea sul campo. […] La lotta alla Camorra non si fa col varietà, con le luci abbaglianti degli studi televisivi e le paillettes di prima serata, né l’impegno antimafia ha bisogno di showman. La vera lotta si svolge in trincea ed è sostenuta giorno per giorno da migliaia di poliziotti e di appartenenti alle forze dell’ordine che sul campo contrastano il crimine organizzato”. Qualcuno ha avuto dei dubbi davanti a queste dichiarazioni? Neanche per sogno. In compenso i due poliziotti sono stati quasi additati come complici, più o meno coscienti, della Camorra. Saviano ha denunciato di sentire l’inizio di un abbandono, di un isolamento, di uno sgretolarsi di quella compattezza istituzionale e civile che fino ad allora l’aveva protetto, ricordando che Peppino Impastato, Giuseppe Fava e Giancarlo Siani “hanno pagato con la vita la loro solitudine”; subito si sono mossi opinione pubblica, giornali, capo della Polizia...Ma se Saviano è così spaventosamente pericoloso, per la Camorra, perché questa – impossibilitata dalla scorta a colpire lui – non minaccia il presentatore Fabio Fazio, l’indifesa agenzia letteraria, il regista Matteo Garrone (che, anzi, ha avuto via libera per tutte le riprese a Scampia), l’ufficio commerciale di Mondadori, le librerie che espongono il suo libro, eccetera? Perché non minaccia le redazioni di Repubblica e de L’Espresso che pubblicano i suoi preziosi articoli? Perché non intimidisce chi lo propone come candidato alla presidenza della Regione Campania? Quando lui cercava casa a Napoli (al Vomero, il quartiere bene della città), dopo aver visto sei appartamenti (alcuni dei quali non andavano bene a lui...) ne ha scelto uno che però gli sarebbe stato rifiutato dalla proprietaria perché i vicini le avevano detto che “nella via si sarebbe persa la pace”. Saviano, indignato per il rifiuto, avrebbe interrotto la ricerca dichiarando di voler espatriare, andarsene via per sempre. Non l’ha fatto. Ma intanto era subito scattata una grande solidarietà nei suoi confronti. Gennaro Capodanno, presidente del Comitato valori collinari di Napoli, si era dichiarato amareggiato e deluso offrendosi per una collaborazione alla ricerca di una casa se Saviano avesse cambiato idea. Il sindaco di Giffoni Valle Piana aveva offerto a titolo gratuito un antico casale ristrutturato, immerso tra gli ulivi secolari del borgo medioevale di Terravecchia e di proprietà del comune, “da cui si gode il paesaggio mozzafiato e il castello federiciano. Siamo certi che in quest’oasi di pace e tranquillità Saviano ritroverà nuovi stimoli per poterci consegnare altri capolavori. Lo invitiamo, pertanto, fin da ora a partecipare alla prossima edizione del Giffoni Film Festival...”. E la Camorra a loro non dice niente? Ma che cosa possono pensare i tanti senzacasa napoletani, o quelli che soltanto con abusi edilizi si sono messi un tetto sulla testa? Loro sono gli infami, gli zozzi, gli ignoranti. Loro non meritano una casa regolare. Tanto più un casale gratis, un’oasi di pace... no. Loro meritano l’Inferno in cui vivono. Il caso di Saviano – a mio avviso – è esemplare dell’ipocrisia di quest’epoca, dei suoi precipitosi innamoramenti mediatici, della sua incapacità di analizzare senza schemi precostituiti, della sistematica mancanza di approfondimento critico in tanti operatori dell’informazione, della rapidità nella costruzione di miti ‘facili’ per distrarre dai veri tragici disastri politici, sociali ed economici del presente.

Roberto Saviano e la produzione del sapere ai tempi del consumismo di Walter G. Pozzi(2 luglio 2010, poi pubblicato su Paginauno n. 19, ottobre - novembre 2010). Come ricorda un vecchio adagio, è sempre meglio lasciar stare i santi. Di quanto ciò sia vero ha avuto modo di accorgersene chiunque abbia tentato di sollevare dubbi sulla veracità della figura mediatica di Roberto Saviano, per veracità intendendo i molteplici aspetti, le mille ambiguità inevitabilmente nascoste dietro un successo planetario come quello dello scrittore napoletano. Il sociologo Alessandro Dal Lago ne ha affrontato in un saggio – piuttosto claudicante quando entra nel merito dell’analisi di Gomorra (come documentato dalla redazione di Carmilla) – la funzione sociale e politica. Su PaginaUno Davide Pinardi ha criticato la sapiente oculatezza con la quale sembra scegliersi le cause da sposare – solo quelle potenzialmente molto popolari – e ha sollevato alcuni dubbi sin dalla radice del meccanismo creativo del personaggio Saviano. Si è chiesto come mai la minaccia non si sia mai estesa oltre lo scrittore, allargandosi a coloro che gli garantiscono visibilità come la redazione di Repubblica o il presentatore Fabio Fazio; come mai nemmeno un mattone sia stato lanciato contro la vetrina di una libreria napoletana che ne espone i libri. Marco Clementi, dal sito della casa editrice Odradek (che ha aperto una piattaforma di discussione), si è spinto anche oltre, entrando nel merito dei suoi testi e delle sue parole, sollevando dubbi sull’attendibilità di alcune affermazioni. Come era prevedibile, tuttavia, il dibattito sulla funzione politica e culturale che la società ha finito per riconoscere a Saviano – investitura a cui egli non si è sottratto – ha immediatamente incontrato un forte contraddittorio, non sempre impostato sulla confutazione degli argomenti, nella ferrea pretesa che ogni critica mossa a Saviano altro non possa essere che uno sterile bizantinismo. Naturale che la polemica finisse per arenarsi trasformandosi in una sorta di aut aut – tra chi è pro e chi è contro Saviano – inevitabilmente mettendo fuori fuoco un problema, tipicamente moderno, che da una trentina d’anni costringe la letteratura, e la narrativa in particolare, a una drammatica impasse. Un problema che coinvolge profondamente la cultura e la sua impotenza di fronte a quel complesso di forze, strumento invisibile manovrato dal potere, che Horkheimer e Adorno definivano industria culturale. Parlare di Saviano in termini critici, quindi, può servire a patto di assumerlo come esempio di una realtà più ampia. Anche perché resta difficile stabilire la colpa di un individuo che perde il controllo della propria immagine nel momento in cui entra a far parte del polifonico e fagocitatorio sistema mediatico, diventando una star; sia che ciò avvenga per la difficoltà di sottrarsene, sia perché il successo è un giochino che premia i suoi prescelti ripagandoli abbondantemente, lasciando al beneficato l’illusione (che si trasforma in un facile alibi) che comunque le idee e i concetti siano in grado di mantenere una loro purezza, malgrado il medium; che il messaggio arrivi pulito così come magari era partito. A questa stregua, se c’è qualcosa che si possa imputare a Saviano, è il fatto di esserci cascato, permettendo al sistema di trasformarlo, a lungo andare, in un simbolo vuoto, condannato a reiterare un se stesso sempre più simile a un qualunque prodotto di consumo da grande distribuzione. Strumento di compensazione del malcontento sociale, fino a diventare addirittura utile al potere. Di quanto complicato sia il rapporto moderno che inevitabilmente lega la produzione del sapere e il sistema consumistico aveva parlato anche Pier Paolo Pasolini agli inizi degli anni Settanta: “La televisione è un medium di massa e come tale non può che mercificarci e alienarci”. Aveva compreso, Pasolini, che per capire una società occorre capire quali merci vengono prodotte e come vengono distribuite. Nel caso specifico, la merce non è il pensiero di Saviano, bensì Saviano stesso con tutto il portato emotivo che la sua storia è ormai in grado di evocare. Storia di martire, quindi di santo virtuale. Intorno a Saviano girano ormai molti soldi, e sebbene sia sbagliato contestargli i lauti compensi, il suo essere per il sistema una gallina dalle uova d’oro rende, per ragioni che di seguito vedremo, inevitabilmente ambiguo ogni suo intervento in scena. Troppo stretta la commistione tra la struttura etica e morale dei suoi discorsi e la moneta che circola intorno alle sue parole e alla sua presenza. Il dubbio, insomma, che, per qualcuno, più di affari si tratti che non di alti valori, inevitabilmente sorge. E dato che gli esempi valgono più di mille parole – a dimostrazione di come il potere fagociti la cultura per trasformarla in merce, disinnescandone i contenuti – può essere interessante rivisitare la querelle tra lo scrittore e il suo editore Berlusconi dello scorso 16 aprile, venerdì. Una polemica che ha occupato le pagine di Repubblica per quattro giorni. La bomba esplode nella sala stampa di palazzo Chigi, quando Berlusconi rilancia un evergreen del suo vasto repertorio, secondo cui la mafia avrebbe goduto di “un supporto promozionale che l’ha portata a essere un fattore di giudizio molto negativo per il nostro Paese. Ricordiamoci le otto serie della Piovra, programmate dalle televisioni di centosessanta Paesi nel mondo, e tutto il resto, tutta la letteratura, il supporto culturale, Gomorra e tutto il resto”. Un sempreverde che contiene, però, una novità: per la prima volta include Gomorra tra le opere nefaste per l’italianità all’estero. Un’aggiunta che riguarda da vicino la questione affrontata in queste righe. Infatti, la prima cosa che colpisce, da parte del presidente del Consiglio, è l’innocenza: come se egli nulla avesse a che fare con il marchio Mondadori, quello che a Saviano garantisce asilo letterario e che a fine marzo, proprio poco tempo prima della zuffa verbale, ha pubblicato – edizioni Einaudi, sempre Berlusconi quindi – la nuova fatica dello scrittore napoletano: una bella confezione libro + dvd. Una stupidata? Una gaffe? Forse è qualcosa di molto peggio e di più grave, che potrebbe non riguardare solo lui. Alle parole del premier, com’era da attendersi, apriti cielo. Saviano si indigna e sabato 17 prontamente ribatte dalle pagine di Repubblica. Seguendo il filo dei suoi argomenti, ricorda le vittime di mafia, quanto sia importante denunciare (e qui cita la sua ultima opera appena uscita per Einaudi…) ed esterna il dubbio se per lui valga ancora la pena pubblicare con la casa editrice del presidente del Consiglio. Parole bellissime, importanti e cariche di pathos, capaci di smuovere la sensibilità di altri scrittori, da Starnone giù giù fino all’innocuo Ammaniti, qui e là su stampa varia. Dimostrando grande fiuto (cos’altro?) e disobbedendo ai dettami suggeriti il giorno prima dal loro datore di lavoro, gli addetti al marketing del gruppo Mondadori rincarano la dose e comprano sulla prima pagina di Repubblica – con cui lo scrittore collabora attivamente – lo spazio pubblicitario più costoso, per picchiarvi impunemente la pubblicità dell’ultimo nato di Saviano. Nel frattempo, recitato il proprio ruolo di battitore, Berlusconi esce di scena con stile e lascia spazio alla figlia, che della Mondadori è ufficiale responsabile. Il giorno seguente, domenica 18, gli uomini della Mondadori raddoppiano la puntata, e comprano spazi per pubblicizzare Gomorra sia sulla prima pagina di Repubblica che su quella del Corsera, dimostrando quanto il loro araldo sia sempre un buon affare. Ancora una volta l’ufficio marketing di Segrate dimostra doti di lungimiranza se non di preveggenza. Come poteva sapere che il proprio presidente Marina Berlusconi avrebbe scritto, in risposta a Saviano, una lettera in difesa del padre e della libertà di critica che sempre Mondadori ha riconosciuto ai propri scrittori? E anche considerando che gli uffici di una casa editrice non sono compartimenti stagni, come potevano sapere a Segrate che Saviano avrebbe risposto nella stessa pagina lo stesso giorno, approfittando della disponibilità di Repubblica (ideologicamente coinvolta dall’importanza degli alti valori in gioco), per ribadire il proprio ruolo di difensore della libertà? A rinforzare il sospetto di stare assistendo a una farsa, più che a un dibattito sulla libertà di opinione (in cui ognuno afferma di essere un campione di democrazia), intervengono i tempi tecnici per prenotare uno spazio pubblicitario in prima pagina. La Manzoni, agenzia pubblicitaria a cui si affida il gruppo L’Espresso, apre le prenotazioni degli spazi pubblicitari nel periodo di novembre/dicembre dell’anno precedente. In prima pagina il box a disposizione riservato alla pubblicità culturale (scusate l’ossimoro) è uno solo e occorre precipitarsi ad acquistarlo con largo anticipo. Ora: pur ammettendo che una grande azienda come il Gruppo Mondadori sia solita prenotare un buon numero di spazi per poi riempirli a seconda delle esigenze e delle occasioni, occorre riconoscere l’immensa fortuna degli uomini marketing di Segrate, nonché immaginare la loro gioia insperata, nel momento in cui hanno sentito alla televisione il loro padrone in pectore attaccare Saviano proprio in coincidenza della campagna pubblicitaria dell'ultimo libro dello scrittore. Ancora di più quando si sono accorti che Repubblica aveva deciso di seguire passo dopo passo l’intera polemica lanciata da Berlusconi contro il loro autore (sì, autore un po’ dell’uno e un po’ dell’altro); compreso il carteggio tra lui e Marina Berlusconi. La statura morale di Saviano impone di pensare che egli fosse all’oscuro di tutto, e di ammirare piuttosto il suo impegno nel momento in cui, con grande velocità si è messo sotto a rispondere a Marina, con il poco tempo rimastogli dal momento dell’arrivo della lettera del suo editore a Repubblica, della decisione dei redattori di Repubblica di girargliela, e l’ora di chiusura del giornale. A meno che Marina non sia stata così premurosa da inserire lo scrittore direttamente in copia nella sua mail indirizzata alla redazione del quotidiano diretto da Ezio Mauro. E se anche si fosse trattato di semplice marketing – il che naturalmente non è, visti gli alti contenuti – bisognerebbe rendere onore anche alla formidabile larghezza di vedute del nostro premier, nonché alla sua natura di uomo profondamente liberale, nel momento in cui, pur di permettere a uno dei maggiori scrittori della sua scuderia di lanciare un importante appello ai valori democratici, addirittura accetta di figurare come bersaglio ideale dell’attacco, mosso proprio dalle pagine dell’odiato quotidiano, suo più feroce oppositore politico. Questo detto, ça va sans dire, senza voler mettere in dubbio nemmeno la buona fede di Repubblica, il cui palcoscenico è talmente ampio e liberale da ospitare, il giorno dopo ancora, lunedì 19, il direttore generale Libri Trade Mondadori, Ricky Cavallero, pronto a chiedere a Saviano di non lasciare una casa editrice che sempre gli ha garantito supporto e riconosciuto grande libertà di espressione; e contemporaneamente conservare un angolino libero per lo scrittore Sebastiano Vassalli, uno dei pochi di vero valore del panorama italiano. Non sfugge tuttavia la coincidenza, non essendo, il suddetto, figura usa a venir chiamata su giornali e televisioni. Scontata e doverosa la difesa di Saviano da parte di uno scrittore tanto importante, un po’ meno la notizia, annunciata dal giornalista, dell’imminente uscita del nuovo romanzo di Vassalli, pubblicato proprio da Einaudi. Quest’esempio potrebbe bastare – il giorno dopo, martedì, leggere l’articolo di Sofri, il più dotto, indurrà quasi a tenerezza, considerato il contesto in cui si va a inserire – ma manca ancora un tocco di classe. E il colpo di tacco, puntuale, persino beffardo, arriva con un corposo articolo al centro della pagina che ricorda il gran numero di mail, arrivate dai fan di Saviano, i quali non hanno mancato di dimostragli tutto il loro affetto. Al punto che, ricorda l’estensore del testo, le vendite dei suoi libri negli ultimi tre giorni sono sensibilmente aumentate. E infatti (secondo i dati forniti dall’inserto Tuttolibri de La Stampa) il 26 aprile finalmente, sembra niente dirlo, anche l’ultimo parto dello scrittore entra in classifica. Torna alla mente il film di Elio Petri: Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Anche quando l’assassino si toglie la maschera e si rivela, nessuno ha interesse a riconoscerlo.

Semel in anno savianico licet insanire. Narrazione savianica: tra fatti, informazioni, verità e verosimiglianza, tra costruzione del senso e descrizione pornografica della società di Massimiliano Monaco (Paginauno n. 22, aprile - maggio 2011). Accidenti, ieri un elicottero dell’esercito, parcheggiato dentro il parco, lo ha inquinato mezzo facendo ruotare le sue pale per diversi minuti, e le mie per molto di più, prima di tornare da dove era venuto. Per fortuna stavo correndo e sono scappato nella metà libera dai fumi. Una volta lì però mi sono dovuto rassegnare all’evidenza olfattiva che nel frattempo mi ha raggiunto e ho deciso di prendere la via verso casa, dove mi stavano aspettando il mio cane e i suoi bisogni. Cosa stessi facendo prima di prendere quella decisione è chiaro soltanto in parte, sì stavo correndo, scappando, ma soprattutto pensando a questo articolo, confermo scappando, già iniziato, la cui sostanza era smangiucchiata qua e là. Molte pretese, poca sostanza. Il pensiero era, ed è, su come affrontare il savianesimo provando a liberarmi dal pregiudizio che Saviano sia un santo, e del conseguente senso di colpa per averlo pensato. Ahimè non sono un suo ammiratore, men che meno di chi lo santifica, ma non sono nemmeno un ammiratore di chi lo impallina con motivazioni che definisco del sospetto, delle quali però condivido la sostanza degli argomenti che utilizzano. Insomma un pasticcio principalmente emotivo dal quale non è semplice venire fuori. Come dice qualcuno di cui non ricordo il nome, anche il cuore ha i suoi pregiudizi, e il mio ne è zeppo. A complicare la situazione ci sono stati gli straordinari interventi di Benigni e Abbado alla trasmissione Vieni via con me, dopo i quali è diventato ancora più difficile accettare di avere un pensiero, seppur piccolo, non pro Saviano. Lemme lemme dico le cose che mi sono rimaste impresse di Vieni via con me: il grande sforzo di Abbado, Benigni che da del tu a Sandokan mentre Saviano, valletto muto, non è in grado di rompere la timidezza per cantare la sua terra e si esprime solo grazie alla retorica non essendo all’altezza del ruolo di narratore (lo dico alla faccia del lemme lemme e di quel ragazzo che potrebbe imparare qualcosa da Minoli), inoltre il rifiuto di Benigni a rimanere sul palco, credo consapevolmente, mentre Fazio farà l’ennesima uscita sentimental popolare, e infine una performance di teatro danza magistrale quanto la regia televisiva che ne è stata fatta. A margine di questo c’è l’establishment politico, di entrambe le parti, che alimenta la mitologia attraverso la moderna figura dell’eroe, sostituendo la fede laica a quella religiosa, c’è chi, tra i comuni mortali, altresì detti popolo, che pensa a Saviano come una vittima del sistema della comunicazione, sfruttato e sovraesposto, e per finire un articolo di Aldo Grasso, il quale, paternalisticamente, cerca di non stroncare il fenomeno sociale Saviano, aggrappandosi al fatto che, tutto sommato, i contenuti del programma sono stati buoni rispetto alla media della televisione italiana. Penso che al peggio del berlusconismo non ci sia fine e non mi butto giù dalla finestra soltanto perché voglio finire questo articolo, poi vedremo. A conti fatti i fatti sono ciò che conta e quando si vuole raccontare un accadimento si usa raccogliere le informazioni che lo riguardano, la somma delle quali descrive ciò che è accaduto. Senza nemmeno accorgermi sono passato dai fatti alle informazioni che, normalmente, chiamiamo fatti, ma che fatti non sono perché le informazioni, relative a un fatto, non sono il fatto in sé, bensì la sua rappresentazione. Se questo è vero allora implicitamente è vero anche che esiste una distanza tra ciò che accade, il fatto, e gli elementi di narrazione di un accadimento, le informazioni, che a loro volta sono un insieme di dettagli. La distanza tra un accadimento e la sua narrazione non è solo evidente di per sé, se non altro per una questione temporale, ma è anche qualcosa che si amplifica insinuandosi tra i dettagli e tra gli elementi del racconto stesso. Infatti, nel riportare un fatto, cerchiamo di ridurre questa distanza utilizzando l’elenco, presunto strumento di imparzialità, di ciò che lo compone, per poter restituire a un potenziale lettore il quadro di quanto è realmente accaduto. Al posto di quello che sto per dire prima c’era un pezzo molto più lungo e noioso sulla relazione tra accadimento, soggetto e racconto, dettagli, elementi e il loro ordine o la costruzione sfruttando la distanza fra questi, che vi risparmio perché non ho la pretesa di svolgere un compitino logico ma dinamico, quindi salto alla battuta finale: questione di difetti dei fatti. Difatti, siccome ne sto parlando nella dimensione del racconto, usare la parola fatti è inappropriato quanto comune. A questo punto chiamo a testimoniare le parole descrivere ed elencare chiedendogli che senso abbiano in ambito letterario se utilizzate con uno stile cronistico o simil tale? Penso per esempio alla Divina Commedia di Dante che inizia dicendo (Canto I): “Ahi quanto a dir qual era è cosa dura / esta selva selvaggia e aspra e forte / che nel pensier rinova la paura!”. Come a dire, sì questa selva esiste perché altrimenti non potrei dire che è selvaggia, aspra e dura, ma attenzione a voler passare per fessi dandone una spiegazione oggettiva, quanto a dir qual era è cosa dura. Eppoi: “Tant’è amara che poco è più morte; / ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai, dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte”. Per trattare il bene che ho trovato devo parlare di altro, delle cose che ho scorto, e aggiungo che Dante ancora una volta rifugge una posizione assolutistica sapendo che scorgere significa distinguere con l’occhio o con la mente e in questo caso sono i suoi. “Io non so ben ridir com’i’ v’intrai, / tant’era pien di sonno a quel punto / che la verace via abbandonai”. La verace via abbandonai, verace da vero significa che ha in sé verità, che è fonte di verità o meglio che è in realtà ciò che si afferma quindi non falso, non immaginario, non ingannevole. Come è possibile che voglia essere preso sul serio e allo stesso tempo abbandona la verace via? Da non studioso di Dante azzardo che significa non farò il cronista, non collezionerò fatti, tanto che questa opera è una macro allegoria fatta da sciami di metafore come dice Sermonti, e quindi non vi so dire, o vi dico che non vi so dire, come ci sono entrato. Proseguendo (Canto II): “Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno / toglieva li animali che sono in terra / da le fatiche loro; e io sol uno / m’apparecchiava a sostener la guerra / sì del cammino e sì del la pietate / che ritrarrà la mente che non erra”. Apparecchiato, preparato a sostener la guerra che ritrarrà la mente che non erra, e dove va la sua? Dove vuole andare? Intanto, subito a chiamare aiuto: “O muse, o alto ingegno, or m’aiutate” perché riportare ciò che ha visto non basta per esprimere quello che vorrebbe; “o mente che scrivesti ciò ch’io vidi, / qui si parrà la tua nobilitate”. E in fine: “Sì che ‘l piè fermo sempre era ‘l più basso” perché come per camminare ci vuole sia un piede sulla terra che uno per aria, così anche per creare un’opera, ed è fondamentale che il piede a terra regga quello in alto. Credo che la descrizione di un personaggio sia una cosa estremamente complessa perché per funzionare non deve avere solo una relazione intima con il personaggio ma più ancora con il mondo. Di Quinn, personaggio scritto da Paul Auster, sappiamo che “non serve dilungarsi su di lui. Chi fosse, da dove venisse e cosa facesse non ha molta importanza”. Come se nel suo tempo non esistesse una verità comune a tutti in grado di cristallizzarlo ma “sappiamo, per esempio che aveva trentacinque anni”, l’età di Dante della Divina Commedia, ma questo è solo un caso, credo; “sappiamo che un tempo era stato sposato, che era stato padre, e che ora la moglie e il figlio erano morti. Sappiamo anche che scriveva dei libri. Per essere esatti, scriveva romanzi gialli”. Sappiamo cose delle quali ne capiremo il senso molto dopo, come Quinn: “Molto tempo dopo, quando fu in grado di pensare a ciò che gli era accaduto, avrebbe concluso che nulla è reale tranne il caso”, e la Trilogia di New York è una raccolta di tre racconti polizieschi, a carattere psicologico, che immediatamente si mette in contatto con le ‘turbe’ mentali di milioni di persone incluse le mie. Quanti fatti reali sono contenuti in questo pezzettino di verità del personaggio? Forse nessuno perché “come la maggior parte della gente, Quinn non sapeva nulla del mondo del crimine. Non aveva mai assassinato nessuno, mai rubato niente, e non conosceva nessuno che lo avesse fatto [...]. Questo per altro non gli sembrava una menomazione. Nelle storie che scriveva, a importargli non era il rapporto con il mondo, ma il rapporto con le altre storie”. E ancora Auster ci dice che scrittore e investigatore sono intercambiabili: “Il lettore vede il mondo con gli occhi dell’investigatore [...]. Si è ridestato alle cose che lo circondano quasi che gli potessero parlare, quasi che, in virtù dell’attenzione che ora riserva loro, assumessero un significato altro dal mero dato della loro esistenza”. Il mero dato che tanto fa per rendere più ricco il resoconto di un fatto di cronaca. Forse qualcuno di quelli nascosti nella figura dell’avaro a partire dal primigenio vecchiaccio di Plauto che Molière travasa in Harpagon contestualizzando un tipo umano nella sua società dove la staticità di una pentola avrebbe detto, della spilorceria, meno di quanto potesse fare la spinta all’accumulo grazie all’usura. Oppure quelli nel personaggio del duca di Guermantes che Proust ci presenta così : “Si, aussi avare que fastueux, il lui refusait le plus léger argent pour des charités, pour le domestiques, il exigeait qu’elle eût les toilettes les plus magnifiques et les plus beaux attelages”. Forse tanti quanti sono gli episodi ne La ca’ dei cani di Tenca, “perché gli episodi sono pur necessari, anzi costituiscono la parte principale di un racconto storico, vi abbiamo introdotto la esecuzione di cento cittadini impiccati sulla pubblica piazza, quella di due frati abbruciati vivi, l’apparizione d’una cometa, tutte descrizioni che valgono per quelle di cento tornei, e che hanno il pregio di sviare più che mai la mente del lettore dal fatto principale”. (Queste sono per altro le righe introduttive dell’ultimo libro di Eco Il cimitero di Praga). Tenca ritiene la storia “primitiva sorgente di vero” e di questo “conservatrice eterna”, non può essere per l’invenzione mero supporto, o camicia di forza, né è lecito “spogliarla, saccheggiarla, rafforzarla”, diventando un puro pretesto di romanzesco (da un testo di Marinella Colummi Camerino). Cos’è la socialità se non un guardarsi l’un l’altro, come la domenica sul sagrato di una chiesa, con un come che in nessun modo può mascherare o inverare l’atto del guardarsi. L’individuo guarda, ricambiato, l’indistinto del mondo prossimo, dentro o fuori di sé, che l’artista, sottoinsieme derivato della categoria individuo, anch’esso guarda e ne descrive le trasparenze. Il lettore, individuo pure lui, guarda e consuma le trasparenze descritte dall’artista trapassato, attraverso la sua finestra, dal mondo dentro o fuori di sé, dell’individuo, e quindi del lettore allo specchio. Le finestre di ciascuno rispecchiano l’individuo anche per un loro stile proprio. Quello più in voga oggi è quello della rappresentazione della realtà attraverso descrizioni di dettagli, una strana forma di anatomia della società. Cercando pornografìa sul portale della Treccani, che esprime tutta se stessa con “il sapere parte da qui”, si ottiene questo risultato: “s. f. [dal fr. pornographie, der. di pornographe ‘pornografo’] – 1. Trattazione o rappresentazione (attraverso scritti, disegni, fotografie, film, spettacoli, ecc.) di soggetti o immagini ritenuti osceni, fatta con lo scopo di stimolare eroticamente il lettore o lo spettatore: fare della p.; è un film che contiene solo p.; una campagna moralizzatrice contro la p.; un’opera in bilico tra raffinato erotismo e triviale pornografia – 2. ant. scritto che riguarda le prostitute o la prostituzione”. Faccio attenzione a “dal fr. pornographie, der. di pornographe ‘pornografo’”. Se la mia conoscenza delle abbreviazioni non mi inganna, ‘der. di’ dovrebbe significare derivato di, quindi quella frase diventa “dal fr. pornographie, derivato di pornographe ‘pornografo’”. A questo punto dantescamente chiedo aiuto alla linguistica secondo la quale derivato significa, sempre Treccani alla mano (per modo di dire), che trae origini da una forma preesistente, e chiedo aiuto alla logica per concludere che se pornographie è derivato di pornographe significa che, nel mondo impalpabile, la sequenzialità temporale tra queste due parole ricade in quello palpabile dove il pornografo è esistito prima della pornografia. Ma se il pornografo è esistito prima della pornografia significa che faceva un’attività diversa da quella di produrre soggetti o immagini con lo scopo di stimolare eroticamente il lettore o lo spettatore. Cosa faceva allora il pornografo prima di fare pornografia? Qui facciamo entrare in gioco ‘ant.’, il significato più lontano nel tempo, secondo il quale anticamente pornografia significava “scritto che riguarda le prostitute o la prostituzione”. Scritto che riguarda le prostitute è un po’ vago, tanto che non si capisce come lo facesse. Ho cercato del materiale a riguardo ma sono stato poco fortunato. Allora mi verrebbe da pensare che se l’intento non fosse quello di stimolare, potrebbe essere stato quello di lasciare documentazione scritta a testimonianza della loro esistenza. Se così fosse, e arrivo alla conclusione di questo breve ragionamento, abbiamo capito che un pornografo è uno scrittore, il cui stile narrativo è descrittivo, oggi si direbbe che parla di fatti e per questo forse è stato una variante specializzata del cronista. “[...] il tessile ha parecchie categorie merceologiche, e basta un tratto di penna sulla bolletta d’accompagnamento per abbattere radicalmente i costi e l’iva” (da Gomorra, Roberto Saviano). L’avessi scritto in un tema al liceo la professoressa mi avrebbe dato due per quanto era puntigliosa quella stronza. È vero che il mondo degli scambi internazionali è fatto di categorie merceologiche, più suggestivo chiamarle voci doganali, secondo le quali è stabilito il valore commerciale della merce e, di conseguenza, gli oneri a esso attribuiti per legge. Non so se sia vero che basta un colpo di penna, e nemmeno che lo si debba fare sulla bolla di accompagnamento, considerando che una pratica doganale vive di fatture, quindi semmai sono queste a dover essere contraffatte per abbattere gli oneri, e quindi eventualmente sfregiate con un colpo di penna, ma colgo il senso generale di quella frase e lo condivido perché è vero che dando alla merce una voce simile ma non uguale si ottengono risultati peggiori che a sbagliare la voce di un doppiatore. Però i dettagli fanno la differenza e a questo proposito va menzionato il fatto che quando parliamo di merci che viaggiano da un capo all’altro del mondo possiamo parlare di meccanismi che stanno sopra le singole voci, trasformando queste ultime in voci di corridoio. Le grandi compagnie di trasporto e sdoganamento, quelle che fanno il door to door per intenderci, beneficiano di due cose; la prima è di avere un ufficio di funzionari statali ospitato all’interno dei propri uffici, capisciammè, e la seconda è una cosa che si chiama procedura semplificata. Cos’è una procedura semplificata? In breve è una procedura grazie alla quale la merce che arriva sul territorio di destinazione può venire consegnata al destinatario finale prima che la documentazione relativa a essa, necessaria per lo sdoganamento, venga presentata ai funzionari. A voi lascio immaginare il resto e il perché una voce doganale diventa una voce di corridoio – per precisione aggiungo che alcuni cambiamenti sulle regole di interscambio dovrebbero aver avuto effetto a partire da gennaio 2011 e che quindi oggi la procedura semplificata potrebbe non esserci più. A questo punto mi chiedo perché sono diventato tanto puntiglioso quanto la mia prof. del liceo. In fondo quella frase di Gomorra probabilmente ci voleva semplicemente dare l’idea della truffa e del suo essere una cosa reale e quotidiana. Ma allora perché usare un registro narrativo di verità se basta poco per scoprire che è soltanto verosimile. Verosimile come tutta la merce avariata che il governo Berlusconi ci propina? ‘ndo sta la differenza tra lui e loro? ‘ndo sta la letteratura che usa i fatti per elevarli a metafora del presente in un romanzo, come Saviano definisce Gomorra, che incipia con pressapochismo su un dettaglio anatomico di scarso interesse per capire il mondo in cui viviamo? Comunque grazie! Saviano, la verità è che sono invidioso nonostante la mia galera sia più dolce della tua.

Impresentat’arm, scrive Filippo Facci su Libero. Gli impresentabili sono: 1) Quelli condannati in giudicato; 2) No, quelli condannati in Appello; 3) No, quelli condannati in primo grado; 4) Basta che siano rinviati a giudizio; 5) Basta che siano indagati; 6) Sono impresentabili anche gli assolti per prescrizione; 7) Anche gli assolti e basta, ma "coinvolti" (segue stralcio di una sentenza); 8) Sono quelli che sarebbero anche gigli di campo, ma sono amici-parenti-sodali di un impresentabile; 9) Sono quelli che, in mancanza d'altro, sono nominati in un'intercettazione anche se priva di rilevanza penale; 10) gli impresentabili sono quelli che i probiviri del partito e lo statuto del partito e il codice etico del partito e il comitato dei garanti (del partito) fanno risultare impresentabili, cioè che non piacciono al segretario; 11) Sono quelli a cui allude vagamente Saviano; 12) Sono quelli - sempre innominati, sempre generici - che i giornali definiscono "nostalgici del Duce, professionisti del voto di scambio in odore di camorra"; 13) Sono quelli - sempre innominati, sempre generici - di cui parlano anche il commissario Cantone e la senatrice Capacchione, e ne parlano pure i candidati che invece si giudicano presentabili, i quali dicono di non votare gli impresentabili; 13) Gli impresentabili sono quelli menzionati da qualche giornale, che però sono diversi da quelli nominati da altri giornali; 14) Sono i voltagabbana; 15) Gli impresentabili sono quelli che sono impresentabili: secondo me.

Un modo diverso di raccontare la mafia, scrive “Il Post”. Giuseppe Rizzo critica su Internazionale il modo in cui giornalisti e magistrati sfruttano la carica emotiva dei fatti di mafia per il proprio tornaconto, raccontando però solo un pezzo della storia. Lo scrittore Giuseppe Rizzo ha pubblicato sul sito di Internazionale un lungo articolo nel quale critica il modo con cui si è discusso di mafia negli ultimi anni, invitando a «raccontare le stragi ma ripetere fino allo sfinimento cosa è successo dopo», cioè quello che lui definisce il “secondo tempo”. Rizzo intende dire che i dati sulle attività della mafia pubblicati negli ultimi anni raccontano una situazione in lento miglioramento. Secondo Rizzo il problema rimane il modo di raccontare le vicende di mafia da parte di alcuni magistrati, politici e giornalisti, che spesso mirano solamente a sfruttarne la forte carica emotiva – innescata da popolari film e libri sulla mafia – per un proprio tornaconto. Scrive Rizzo: «La frase “c’è ancora molto da fare” ha senso solo se si accompagna all’idea che la mafia non ha vinto. […] Non mi piace pensare di aver desiderato il carcere per una persona; l’odio per la mafia non è paragonabile al risentimento per i professionisti dell’antimafia, ma non mi piace pensare di aver creduto ai teoremi sulle trattative tra stato e mafia».

La Sicilia è una guerra in due atti di Giuseppe Rizzo, giornalista di Internazionale. Mi è capitato di stare dalla parte sbagliata. In Sicilia significa che ho conosciuto e frequentato gente che poi è stata arrestata per associazione di stampo mafioso. Con alcune di queste persone ho avuto rapporti diretti, con altre ci siamo incrociate, con altre ancora ho legami di parentela. La forza dell’impatto di questi incontri va dall’indifferenza al disastro. Tutto questo mi serve per fare un discorso sulla codardia e la complessità che arriva tra poco, prima devo parlare di Ernest Hemingway e di Francis Scott Fitzgerald. Ernest Hemingway diceva che ogni generazione è segnata da un evento, e che questo evento forma l’immaginario e i racconti di quella generazione, e cioè il modo di vedere e leggere il mondo. Per la sua generazione, spiegava, quell’evento era stato la prima guerra mondiale. Per chi è nato in Sicilia negli anni settanta, o negli ottanta come me, quell’evento è l’esplosione delle bombe che hanno ucciso Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e gli uomini che scortavano i due giudici. Significativamente, le stragi di Capaci e via d’Amelio entrano nella letteratura italiana in opere pubblicate in questi ultimi cinque anni. Significativamente, tutti gli autori sono nati a Palermo, e nel 1992 avevano dai quattordici ai venti anni. Pif è nato nel 1972 e ci ha girato un film. Alessandro D’Avenia nel 1977, Corrado Fortuna nel 1978 e Davide Enia nel 1974: tutti e tre ci hanno scritto sopra romanzi e racconti. Un racconto di Enia è ripubblicato in questi giorni in La guerra. Una storia siciliana, libro che raccoglie il lavoro del fotografo Tony Gentile tra il 1989 e il 1996 – tutte le immagini di questa pagina sono tratte da quel volume, e non sono che un assaggio di un lavoro onesto e a tratti disarmante. Per come la vedo io, i romanzi e i film di questi autori si legano inconsapevolmente tra loro per dire due cose: che la Sicilia è una guerra; e che, come per gli americani raccontati da Fitzgerald, nella vita dei siciliani sembra non esserci un secondo atto. Quest’ultimo punto finisce per avere conseguenze sull’Italia intera, ma ci arrivo tra un attimo, prima ho bisogno di tornare dalla parte sbagliata. Per me stare dalla parte sbagliata ha significato anche avere conosciuto e frequentato salvatori della patria che si sono poi rivelati abbagli ideologici e fregature straccione. Nello specifico ha voluto dire che mi sono innamorato di progetti civili fallimentari, di promesse di salvezza sceneggiate dalla politica e smontate dalla realtà, di rivoluzioni che al più erano contestazioni quando non teatrini. Ancora più nello specifico tutto questo si è tradotto in tessere di associazioni contro le mafie, entusiasmi per treni e cortei della legalità, litigate in difesa di Rosario Crocetta prima che diventasse governatore dell’isola, crociate affinché Totò Cuffaro fosse sbattuto in galera. Molti dei furori che hanno preceduto queste scelte sono stati degli errori, e un po’ anche certe scelte, anche se in misura differente. Il disprezzo per la politica clientelare di Cuffaro non è niente al confronto della delusione che è seguita all’insignificanza di certa sinistra, ma non mi piace pensare di aver desiderato il carcere per una persona; l’odio per la mafia non è paragonabile al risentimento per i professionisti dell’antimafia, ma non mi piace pensare di aver creduto ai teoremi sulle trattative tra stato e mafia. Julian Barnes in Metroland: “Quando muoiono le teorie? E perché? Dite pure quel che vi pare, ma finiscono eccome, e per la maggior parte di noi. È un unico avvenimento decisivo a ucciderle? Forse per qualcuno. Ma di solito muoiono d’usura, lentamente e sull’onda delle circostanze”. Giovanni Falcone al funerale del giudice Rosario Livatino, 1990. “La foto è davvero spietata: sono tutti soli dentro lo scatto, e questa solitudine senza consolazione spiega più di mille parole il perché della forza della mafia”. (Davide Enia) Tony Gentile, Postcart edizioni. L’onda delle circostanze sulle spiagge siciliane è tutta una risacca di storie che vengono dal passato, e queste storie sono fatte proprie non solo da narratori e registi quarantenni, ma anche da magistrati imprenditori ed eroi dell’antimafia che negli anni si sono trasformati in maestri dell’emergenza. Tutti raccontano il primo tempo siciliano: chi lo fa al cinema o nei romanzi lo fa perché quel primo tempo è ricco degli eventi che l’hanno segnato, appunto; gli altri perché senza non potrebbero giustificare carriere cattedre e palcoscenici. C’è un rischio: il racconto degli anni novanta fatto nei romanzi e nei film usciti di recente carica inconsapevolmente l’arma di cui hanno bisogno i maestri dell’emergenza per tenere sotto scacco l’isola, e con l’isola il paese. Quest’arma è l’emotività, i suoi proiettili sono le emozioni, e rientrano in quello che Giovanni De Luna definisce come “paradigma vittimario”, ovvero quel diffuso bisogno di risarcimento morale provocato dalle stragi. Pif, Enia e gli altri raccontano anni drammatici, in cui magistrati saltavano in aria e giornalisti venivano sparati e bambini erano sciolti nell’acido. Riempiono il campo di emozioni a cui nessuno può sottrarsi: la rabbia, l’amarezza, la paura, lo sconforto, la disperazione. Queste stesse emozioni sono usate e manipolate dai maestri dell’emergenza per farne un ricatto: chi può metterle in discussione senza apparire come un mostro di cinismo che sputa sul cadavere dei morti? È bene che lo dica subito: non c’è alcun legame diretto tra le azioni degli uni e quelle degli altri, non credo che narratori e registi abbiano delle responsabilità nella manipolazione operata dai maestri dell’emergenza. Penso a un cortocircuito casuale. Penso che La mafia uccide solo d’estate di Pif o Un giorno sarai un posto bellissimo di Corrado Fortuna raccontino onestamente non tanto gli anni delle stragi, quanto le teste di alcuni ragazzini negli anni delle stragi. Penso che Ciò che inferno non è di Alessandro D’Avenia e Mio padre non ha mai avuto un cane di Davide Enia facciano i conti con una Palermo che tra gli ottanta e i novanta aveva divorato l’intera Sicilia. Tutte e quattro le opere condividono il medesimo punto di vista: la ferocia della mafia vista dagli occhi di un ragazzino. In tutte e quattro questo ragazzino si confronta con il mondo adulto, che è terrorizzato da cosa nostra quando non colpevole di fiancheggiamento. Questo ragazzino spesso si innamora di una ragazza che lo aiuta a sciogliere il nodo di emozioni che gli spezza il fiato in gola. Queste emozioni spesso emergono dal racconto dettagliato delle morti per mafia: è qui che per me nasce il cortocircuito. Nessuno sano di mente potrebbe mettersi a concionare sull’assassinio di Piersanti Mattarella o sulla strage di Portella della Ginestra, su Falcone Borsellino Fava Impastato Puglisi Dalla Chiesa. Questo primo tempo della recente storia siciliana è una bolla emozionale potentissima. Solo che dentro questa bolla soffiano anche i maestri dell’emergenza, con il loro carico di aliti pesanti. Provo a spiegare meglio chi sono i maestri dell’emergenza. Sono gli eredi dei professionisti dell’antimafia raccontati da Leonardo Sciascia. Sono intellettuali, giornalisti, magistrati e politici che hanno diviso l’isola in due: di là il male e di qua il bene; di là la menzogna e di qua la verità; di là i criminali, i mascariati, i collusi e di qua i giusti, i coraggiosi, noi. Stare dalla parte sbagliata, la provincia e Sciascia mi hanno insegnato il valore del dubbio e riparato dal fascino e dalla paura delle loro condanne. In provincia l’assolutismo è impossibile, perché ci conosciamo tutti e può capitare, come è capitato nel mio piccolo paese in provincia di Agrigento, che una mattina ci si svegli con qualcuno che si conosce o con qualche parente dietro le sbarre. Ma conseguentemente succede anche che ci si possa fare domande del genere: cosa spinge un ragazzo che è cresciuto in una famiglia per bene a chiedere il pizzo? Se arrestano tuo padre, tuo fratello o la persona che ami significa che sei complice, lo sei stato o lo sarai se non lo condanni? Cucire dei bottoni sugli accappatoi perché quelli con la cintura di stoffa in carcere non sono ammessi fa di te un mostro? Se nel tuo paese non si è mai pronunciata la parola mafia vuol dire che sono tutti codardi? I tuoi genitori hanno avuto diritto di avere paura? Per anni mi sono chiesto: posso o non posso scrivere una lettera a X, finito in carcere con l’accusa di omicidio? Ognuno affronta queste domande come sa e può, e arriva a risposte differenti: io ho provato a scrivere quella lettera, e molte notti rotte e molti tentativi: e mi sento un cane per non esserci riuscito, specie dopo l’assoluzione di X. Ma appunto, ognuno ha mille risposte, tutte diverse tranne una, che è uguale per tutti: queste domande i cretini non se le fanno e sono pronti a condannarti per molto meno. Più che la lezione sui professionisti dell’antimafia, di Sciascia mi porto dietro un’altra intuizione, è dentro Nero su nero, fa così: Intorno al 1963 si è verificato in Italia un evento insospettabile e forse ancora, se non da pochi, sospettato. Nasceva e cominciava ad ascendere il cretino di sinistra: ma mimetizzato nel discorso intelligente, nel discorso problematico e capillare. Si credeva che i cretini nascessero soltanto a destra, e perciò l’evento non ha trovato registrazione. Tra non molto, forse, saremo costretti a celebrarne l’Epifania. Ci sono tre storie che aiutano a capire meglio quanto questa epifania abbia raggiunto il suo apice oggi, scavalcando le casacche politiche, e trovando nei maestri dell’emergenza dei rappresentanti cerimoniosi e insidiosi e pericolosi. Le prime due si incrociano e hanno per protagonisti Massimo Ciancimino e Antonio Ingroia. Massimo Ciancimino è il figlio di Vito, ex sindaco di Palermo condannato in via definitiva per associazione mafiosa. Al padre si deve lo sventramento del capoluogo siciliano quando fu assessore ai lavori pubblici del comune: quattromila licenze edilizie rilasciate, 1.600 intestate a tre prestanome, tra cui un venditore di carbone e un fabbro. Al figlio i magistrati di Caltanissetta contestano di aver fornito un documento in cui risulterebbe che l’ex capo della polizia Gianni De Gennaro sarebbe stato una persona avvicinabile dal padre Vito Ciancimino. Sui giornali per giorni si è anche letto che Vito Ciancimino avrebbe “indicato De Gennaro come personaggio dell’ambiente del signor Franco”. E cioè l’uomo dei servizi segreti che avrebbe avuto un ruolo chiave nella cosiddetta trattativa tra lo stato e la mafia. La quale trattativa è bene riassumere: all’indomani delle condanne inflitte nel maxiprocesso ai boss mafiosi, iniziano stragi e omicidi per convincere la politica che aveva voltato le spalle a Riina a stipulare un nuovo patto di non belligeranza, il cui tramite sarebbe stato Vito Ciancimino. Il figlio è uno dei testimoni chiave del processo e per mesi ogni sua dichiarazione conquista le prime pagine dei giornali. Dà lezioni di antimafia e ispira libri come Il quarto livello di Maurizio Torrealta, con la prefazione firmata da Antonio Ingroia. Il magistrato all’epoca guidava le indagini sulla presunta trattativa, e nel libro Il labirinto degli dèi scriveva: “Dal primo incontro ho capito che Ciancimino jr era fatto di tutt’altra pasta. Tanto il padre era ombroso, tanto il figlio Massimo è gioviale (…) uomo dei media e per i media, nel bene e nel male. E per una metamorfosi mediatica, oggi il figlio di Ciancimino è arrivato a diventare quasi un’icona dell’antimafia”. L’icona dell’antimafia nel 2011 è stata arrestata mentre se ne andava a Saint-Tropez per Pasqua. A rinviarlo a giudizio è stato l’uomo che l’ha definito “quasi un’icona dell’antimafia”. Non sarebbe stata la prima capriola di Ingroia, questa, e nemmeno l’ultima. Il magistrato, dopo aver costruito l’impianto accusatorio e aver affascinato moltissime tribune con le sue tesi, ha mollato tutto per andare in Sudamerica a combattere il narcotraffico per le Nazioni Unite, ha scritto i Diari dal Guatemala per Il Fatto Quotidiano, e da Santoro ha dichiarato: “Il mio libro si chiama ‘Io so’ e il sottotitolo potrebbe essere ‘perché ho le prove’, ho ricostruito con sufficiente solidità, sulla base dei fatti emersi, una trama criminale che ha pesantemente condizionato la prima e la seconda repubblica”. In Guatemala ci è rimasto meno di due mesi, poi è tornato in Italia e ha fondato Rivoluzione civile, il movimento con cui ha cercato di conquistare la pancia emotiva degli elettori e con cui però è riuscito a raggranellare solo l’1,8 per cento al senato e il 2,2 alla camera. Fuori del parlamento ha provato a rientrare in magistratura, ha rifiutato un posto ad Aosta ed è finito ad amministrare Sicilia e-Servizi per volere del governatore Rosario Crocetta. Oggi sono entrambi indagati per decine di assunzioni che secondo l’accusa sarebbero state fatte violando la legge. La terza storia è quella di Roberto Helg. Il presidente della camera di commercio di Palermo è stato un campione della lotta contro il pizzo, prima di essere arrestato per pizzo. Il cavaliere del lavoro e commendatore è stato un protagonista della scena dei convegni antimafia e un maestro dell’emotività e dell’emergenza prima di essere arrestato per aver intascato una mazzetta da centomila euro da un commerciante che chiedeva il rinnovo dell’affitto del locale all’aeroporto di Palermo dove vendeva i suoi prodotti. La dico facile, che si capisce subito: la guerra alla mafia la fanno gli sbirri e i magistrati. Chi scrive, pensa ed elabora idee può accompagnare questa lotta, e il modo più sensato è provare ad andare oltre l’emergenza, far capire a chi la mattina si alza per andare in banca in chiesa o in strada a raccogliere l’immondizia che c’è un secondo tempo nella vita dei siciliani e che questo secondo tempo è cominciato da un po’. Provando a spiegarlo a un amico di Roma, mi sono sentito rispondere che in lui la percezione della minaccia mafiosa negli ultimi anni era cresciuta. È anche un problema di racconto della realtà, da cui restano fuori alcuni dati fondamentali. Provo a riassumerli:

- La commissione parlamentare antimafia dice per esempio che dal 1993 al 2003 in Sicilia sono state denunciate per estorsione 6.613 persone. E negli ultimi dieci anni moltissime altre sono finite sotto indagine, i ragazzi di Addiopizzo hanno scosso Palermo e creato una rete di commercianti contro il pizzo (gli aderenti sono 960), e perfino nel feudo di Riina ci sono stati i primi arresti.

- Le ordinanze di custodia cautelare nei confronti di boss e picciotti delle famiglie criminali siciliane sono state 2.055. I capi si trovano tutti in carcere e la cupola non si riunisce dagli inizi degli anni novanta. Negli ultimi tempi l’organizzazione ha provato a ricostruire la sua trama, ma decine di nuovi arresti hanno ricacciato la testa del serpente nella fossa.

- Gli omicidi commessi da cosa nostra nel 1992 sono stati 152, nel 2007 sono nove.

- I beni sequestrati alla criminalità organizzata siciliana dal 1992 al 2014 ammontano a più di nove miliardi, mentre quelli confiscati a più di quattro. Per rendersi conto di quanto questo possa pesare nella mente di un mafioso basta leggere l’intercettazione al punto successivo.

- Per più di cent’anni Palermo e New York sono state collegate da una solida tratta del malaffare. Nel 2008 l’operazione Old bridge ha portato all’arresto di 90 persone tra l’Italia e gli Stati Uniti, soffocando anche il piano di rinascita della famiglia Inzerillo. In questa intercettazione è Francesco Inzerillo a parlare con i nipoti: “Qua c’è solo da andare via, andarsene dall’Europa, non dall’Italia. Se bastasse solo la Sicilia, te ne andresti al nord, appena però ti metti in contatto con una telefonata, pure con tua madre o con tua sorella, o con tuo fratello, tua nipote, già sei sempre sotto controllo, te ne devi andare proprio tu, perché ormai è tutta una catena e catinella, te ne devi andare in Sud America, Centro America, e basta. Anche se hai ottant’anni, se ti devono confiscare le cose lo fanno, cosa più brutta della confisca dei beni non c’è”. A questi dati vanno aggiunte due cose, al netto delle mille che fanno ogni giorno le persone per bene. Gli sforzi degli insegnanti che fanno l’unica cosa che serve in terre depresse come la Sicilia, e cioè insegnano, e insegnando ficcano nella testa dei ragazzi la curiosità e l’intelligenza e l’onestà; e l’aria nuova che respirano molti ragazzi che se ne vanno in giro per l’Europa e il mondo senza complessi di colpa per aver abbandonato la propria terra (è un’accusa che lanciano spesso i maestri dell’emergenza) e che tornano, quando tornano e se tornano, con sguardi nuovi che anche in maniera indiretta scrostano vecchi problemi. Il racconto di questi dati e di queste storie sembra faticare a superare lo stretto di Messina, e perciò continuiamo a “vivere nella dimensione nevrotica di un passato che non passa”, scrive lo storico Salvatore Lupo in La mafia non ha vinto, “come se le istituzioni nate in un clima di straordinarietà rifiutassero di adattarsi a una qualche ordinarietà”. In questa ordinarietà naturalmente ci sono ancora crimini e violenza, corruzione e omertà, la memoria ancora viva dei morti e le paure dei vivi, ma quando da giornalisti narratori e intellettuali parliamo della Sicilia abbiamo il dovere di raccontarne anche il secondo tempo, raccontare le stragi ma ripetere fino allo sfinimento cosa è successo dopo. La frase “c’è ancora molto da fare” ha senso solo se si accompagna all’idea che la mafia non ha vinto, come recita il saggio che Lupo ha scritto insieme al giurista Giovanni Fiandaca, un libro che fa a pezzi in maniera chirurgica e disarmante anche il fantoccio dell’antimafia circense. Altrimenti daremo l’impressione che più che la mafia, ad aver vinto saranno i cretini, i maestri dell’emergenza, che come gli asini di Sciascia hanno bisogno delle bastonate per giustificare la propria esistenza: “L’asino aveva una sensibilissima anima, trovava persino dei versi. Ma quando il padrone morì, confidava: ‘Gli volevo bene: ogni sua bastonata mi creava una rima’”.

MAFIA. SCARANTINO. TORTURATO PER MENTIRE.

"Io torturato e costretto a mentire". Ecco lo scoop censurato su Borsellino. L'intervista ritrovata del falso pentito Scarantino. Uno scoop avrebbe potuto fermare il gigantesco depistaggio attorno all’eccidio di via d’Amelio. Il 26 luglio 1995, tre anni dopo la morte di Paolo Borsellino, Vincenzo Scarantino telefonò alla redazione di Studio Aperto e denunciò di essere un falso pentito, di essersi inventato tutto sulla strage Borsellino dopo le torture subite. Ma poche ore dopo la messa in onda di quello scoop, durante il telegiornale di Italia Uno, la polizia sequestrò tutte le cassette in cui era contenuta l’intervista. E lo scoop scomparve. Adesso, il documento è stato ritrovato casualmente negli archivi di Studio Aperto. Rispunta l’intervista a Scarantino che nel ’95 svelò i depistaggi. Il falso pentito parlò a Studio Aperto. Ma il video fu sequestrato e distrutto. Repubblica è entrata in possesso di una copia dell'intervista, scrive Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. Vincenzo Scarantino. Uno scoop soffocato, un’indagine contorta che si rivelerà poi un gigantesco depistaggio, un pentito che si pente di essersi pentito e una sua intervista cancellata per seppellire ogni prova. Anche così hanno deviato l’inchiesta sull’uccisione del procuratore Paolo Borsellino. E per “legge” l’hanno incanalata su una falsa pista. I misteri sulla strage di via D’Amelio non finiscono mai. E adesso si scopre che diciotto anni fa la magistratura aveva ordinato di far sparire una registrazione televisiva — con un provvedimento di sequestro — sulla prima ritrattazione del famigerato Vincenzo Scarantino, il finto collaboratore di giustizia che si era autoccusato del massacro offrendo un’ingannatrice ricostruzione del massacro e indicando come suoi complici sette innocenti. Tutto su suggerimento di uomini di apparati dello Stato. Dopo le sue confessioni, Vincenzo Scarantino aveva subito fatto marcia indietro affidando alle telecamere di Studio Aperto la sua verità. La procura di Caltanissetta ha deciso nel 1995 che quella verità non poteva diventare pubblica e, subito dopo la messa in onda dell’intervista, ne ha imposto la distruzione dagli archivi e perfino dai server. Quell’intervista Descrizione: http://imageceu1.247realmedia.com/0/default/empty.gif

non doveva più esistere. E così è stato, almeno ufficialmente. Perché qualcuno, probabilmente un tecnico disubbidiente, ne ha conservato una copia — invano cercata dai pm, che oggi indagano sulle indagini e che hanno smascherato il depistaggio della vecchia inchiesta — di cui Repubblica è entrata in possesso.

Io, torturato e costretto a mentire" ecco lo scoop censurato su Borsellino, scritto da Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo su “La Repubblica” di Domenica 22 Settembre 2013.

Rispunta l'intervista a Scarantino che nel '95 svelò i depistaggi.

Uno scoop soffocato, un'indagine contorta che si rivelerà poi un gigantesco depistaggio, un pentito che si pente di essersi pentito e una sua intervista cancellata per seppellire ogni prova. Anche così hanno deviato l'inchiesta sull'uccisione del procuratore Paolo Borsellino. E per "legge" l'hanno incanalata su una falsa pista. I misteri sulla strage di via D'Amelio non finiscono mai. E adesso si scopre che diciotto anni fa la magistratura aveva ordinato di far sparire una registrazione televisiva — con un provvedimento di sequestro — sulla prima ritrattazione del famigerato Vincenzo Scarantino, il finto collaboratore di giustizia che si era autoccusato del massacro offrendo un'ingannatrice ricostruzione del massacro e indicando come suoi complici sette innocenti. Tutto su suggerimento di uomini di apparati dello Stato. Dopo le sue confessioni, Vincenzo Scarantino aveva subito fatto marcia indietro affidando alle telecamere di Studio Aperto la sua verità. La procura di Caltanissetta ha deciso nel 1995 che quella verità non poteva diventare pubblica e, subito dopo la messa in onda dell'intervista, ne ha imposto la distruzione dagli archivi e perfino dai server. Quell'intervista non doveva più esistere. E così è stato, almeno ufficialmente. Perché qualcuno, probabilmente un tecnico disubbidiente, ne ha conservato una copia — invano cercata dai pm, che oggi indagano sulle indagini e che hanno smascherato il depistaggio della vecchia inchiesta — di cui Repubblica è entrata in possesso. Basta ascoltare la voce di Scarantino per capire che lui aveva già detto tutto, tutto quello che si sarebbe scoperto quasi vent'anni dopo. Ma nulla si doveva sapere allora, c'era solo una verità da far emergere: Vincenzo Scarantino colpevole. I pm di Caltanissetta di oggi stanno ancora indagando su ciò che è accaduto — chi ha taroccato l'inchiesta fin dai primi passi, perché — ma nei loro archivi non hanno trovato neanche il fascicolo originale del sequestro di quella video- cassetta. Scomparso anche quello. Adesso vi raccontiamo nei dettagli questa vicenda, precisandovi che la video cassetta recuperata (e che

potete trovare su Repubblica.it) contiene solo una parte dell'intervista concessa da Scarantino. È lunga quasi tre minuti. La versione integrale non esiste più. Ma in quei tre minuti trasmessi vent'anni fa e mai più riproposti il falso pentito dice tutto. E tutto è cominciato il 26 luglio 1995, tre anni dopo la morte di Paolo Borsellino. Il mafioso che si era autoaccusato della strage telefona alla redazione di Studio Aperto a Palermo. Per la prima volta ammette di essersi inventato ogni dettaglio sull'autobomba, di avere fatto nomi di uomini innocenti dopo le torture subite nel supercarcere di Pianosa. Passano poche ore e, negli studi della redazione di Italia Uno, arriva la polizia e sequestra tutte le cassette con l'intervista di Scarantino. Il provvedimento è firmato dalla procura di Caltanissetta. L'ordine è quello di cancellarla da tutti i computer, a Palermo e a Milano. Il falso pentito — subito dopo il servizio televisivo — viene raggiunto dai magistrati di Caltanissetta che lo convincono a ritrattare la ritrattazione. È la svolta dell'inchiesta sulla strage di via Mariano D'Amelio. La procura, il capo è Giovanni Tinebra, mette il sigillo sull'autenticità delle rivelazioni false di Scarantino. Per più di quindici anni il "caso" viene dimenticato, fino a quando appare sulla scena un nuovo pentito — Gaspare Spatuzza — che smentisce Scarantino e racconta che ad organizzare la strage era stato lui e non l'altro. Nell'autunno del 2010 la revisione del processo e la scarcerazione di sette imputati, ingiustamente condannati

all'ergastolo. Poi, qualche giorno fa, anche la registrazione dell'intervista a Scarantino è ricomparsa. Ecco cosa diceva il 26 luglio del 1995 al giornalista Angelo Mangano: «Ho deciso di dire tutta la verità e di non collaborare più perché ho detto tutte bugie. Io sono innocente...Non è vero niente, sono tutti articoli che ho letto sui giornali, e ho inventato tutte queste cose. Il giornalista gli chiede se gli uomini che lui ha accusato sono innocenti, Scarantino risponde: «Tutti, tutti,

tutti...». Poi, in una seconda parte dell'intervista — uno spezzone andato in onda il giorno dopo, il 27 luglio — il falso pentito comincia a parlare delle torture subite in carcere: ««A me a Pianosa mi fanno urinare sangue. A me facevano delle punture di penicillina, mi stavano facendo morire a Pianosa... ma voglio tornare in carcere... mi fanno morire in carcere, però morirò con la coscienza a posto». Scarantino fa anche un nome nell'intervista (che però non è andato in onda) e lo rivela oggi Angelo Mangano: «Gli chiesi: "Chi le ha fatto urinare sangue? Mi rispose: il dottore La Barbera"». Arnaldo La Barbera, il capo della squadra mobile di Palermo che l'attuale procura di Caltanissetta considera il principale responsabile della gigantesca montatura che è stata l'inchiesta sulla strage di via D'Amelio. I retroscena di quell'intervista ce li racconta Mangano: «Nacque in modo del tutto casuale. La mattina del 26 luglio 1995 si era avuta notizia da ambienti giudiziari di una ritrattazione di Scarantino, decisi dunque di andare a casa della madre, alla Guadagna. La signora mi fece sentire una registrazione in cui il figlio ritirava le accuse, una registrazione che si sentiva male. Diedi allora il mio numero alla signora, e neanche un'ora dopo fu Vincenzo Scarantino a chiamarmi». Qualche mese prima si era già concluso il primo processo per la strage Borsellino, con la condanna del falso testimone a 18 anni e con l'ergastolo per i complici che aveva indicato. Due giorni dopo l'intervista e il sequestro della cassetta, Scarantino decise di fare il pentito in un verbale firmato davanti al sostituto procuratore di Caltanissetta Carmelo Petralia. Poi le indagini proseguirono su una falsa pista. E la procura di Caltanissetta aprì addirittura un'inchiesta «per accertare eventuali comportamenti illeciti per convincere Scarantino a ritrattare ». Seguì una nota ufficiale dei pm per definire «grave il comportamento della madre di Scarantino e di quanti hanno strumentalizzato un comprensibile desiderio d'affetto per fini processuali». Il «colpevole» era stato trovato, non ce ne dovevano essere altri. Quella era la verità sull'uccisione del procuratore Paolo Borsellino. Ufficiale e falsa…..e con innocenti in carcere.

LE COLLUSIONI CHE NON TI ASPETTI. AFFINITA' ELETTIVE.

Ottavio Ragone, "La Repubblica", 15 giugno 1994. Ai tavoli verdi di Saint Vincent, Nicola Boccassini era un volto conosciuto. Tra un poker e uno chemin de fer, il procuratore della Repubblica di Vallo della Lucania, grosso centro del Salernitano, trascorreva intere notti al casinò. Amava giocare d'azzardo Boccassini, ma era un perdente, sperperava milioni, accumulava debiti su debiti. Per pagarli - sostiene l'accusa - il giudice vendeva i processi, garantiva assoluzioni a archiviazioni al miglior offerente. Oppure chiedeva un posto di lavoro per le figlie. Ieri Boccassini è stato arrestato in casa, a Salerno, in un'operazione che ha portato in carcere altre sei persone. I detective della Dia gli hanno mostrato un ordine di custodia cautelare per corruzione, concussione, abuso d'ufficio, favoreggiamento. Si è scoperto che quel giudice sempre elegante, frequentatore dei salotti buoni di Salerno, era stato per dieci anni il temutissimo ras della procura di Vallo della Lucania. "Boccassini andava al casinò e io dovevo pagargli la stanza d' albergo", ha raccontato l'industriale Elio Graziano, ex presidente dell' Avellino calcio, che dopo l'arresto di tre mesi fa ha scelto di collaborare. "Una sera gli consegnai un milione, lo perse in mezz' ora con puntate sballate". Boccassini apriva inchieste a suo piacimento, le usava come armi di ricatto per rastrellare denaro. E assegnava perizie d'ufficio al suo futuro genero Attilio Roscia pagandogli di persona le consulenze, affinché mettesse qualcosa da parte in vista del matrimonio con la figlia. Mesi fa, dopo le prime accuse dei pentiti tra cui il camorrista Mario Pepe, il Csm aveva sospeso Boccassini dalle funzioni e dallo stipendio, ordinando il trasferimento d'ufficio. Cionostante il giudice frequentava ancora loschi personaggi, come provano le foto scattate dalla Dia. Ma i sospetti investono pure un'altra toga di Vallo della Lucania, il sostituto procuratore Anacleto Dolce, fratello di Romano Dolce, il magistrato di Como arrestato settimane fa nell'inchiesta su un traffico di armi e scorie nucleari. Dolce ha ricevuto un'informazione di garanzia per abuso d'ufficio: anche lui avrebbe affidato perizie a Roscia e liquidato le parcelle. Si parla di un terzo giudice inquisito, ma sul nome c'è riserbo. Oltre a Boccassini, che oggi sarà interrogato dal gip Luigi Esposito, la procura di Napoli ha arrestato l'avvocato Marco Siniscalco, ex consigliere comunale psi a Salerno, amico e "socio" di Boccassini con cui spendeva un patrimonio al casinò; Angelo Criscuolo, presidente della Comunità Montana Lambro e Mingardo e sindaco di Ascea, nel Cilento; i faccendieri Franco Ferolla e Antonio Sabia; le sorelle Laura e Liliana Clarizia, titolari della "First Agency" di cui era socia una figlia di Boccassini e dove si vedeva spesso anche la moglie del giudice. Si è scoperto che la "First Agency" ottenne un lucroso appalto dalla Comunità Montana, la fornitura di 20 mila depliant turistici, un "omaggio" del presidente Criscuolo ai familiari di Boccassini. Ferolla e Sabia chiesero venti milioni ad una coppia per "aggiustare" un processo nel tribunale di Vallo, si sospetta con la regìa del procuratore. L' avvocato Siniscalco faceva parte della commissione comunale per il condono edilizio, di cui era membro pure Boccassini. Si misero d' accordo e dietro compenso fecero in modo che non fosse demolita la villa abusiva di Elio Graziano, imprenditore, anni fa coinvolto nello scandalo delle "lenzuola d' oro" delle Ferrovie. Proprio Graziano ha raccontato i segreti di Boccassini. I due si conobbero quando il giudice era sostituto procuratore generale a Salerno. Graziano, condannato per omicidio colposo per la morte sul lavoro di un suo operaio, fu assolto in appello grazie all' intervento del magistrato. Dopo la sentenza Boccassini avvicinò l'imprenditore: "Mia figlia cerca lavoro", disse. E Graziano, pronto: "Eccellenza, sono a disposizione". La ragazza fu assunta ma secondo l' industriale intascava lo stipendio senza presentarsi in ufficio: "In pratica le pagavo gli studi", ha spiegato l'ex presidente dell'Avellino, aggiungendo che Siniscalco e Boccassini pretesero un mutuo di settanta milioni per l'acquisto di una casa. Il giudice volle un altro prestito di trenta milioni dalla Cassa rurale di Omignano Scalo, presieduta fa Fernando Cioffi: l' istituto era sotto inchiesta, ma il solerte Boccassini chiese l'archiviazione del fascicolo.

Luca Fazzo, "La Repubblica", 14 novembre 1993. Il magistrato Alberto Nobili è uno dei quattro pm sui quali, secondo le dichiarazioni del pentito, i giudici fiorentini starebbero indagando. Sarebbe accusato di non aver arrestato Giovanni Salesi in occasione dell'inchiesta sulla morte di un pregiudicato gelese. Nobili coordinò la recente operazione. "Nord-sud" che coinvolse il generale dei carabinieri Delfino. Tre paginette di verbale, dettate da un mafioso catanese, mettono una contro l'altra due tra le Procure più importanti d'Italia, quella di Milano e quella di Firenze, portando in piazza storie vere o inventate di giudici corrotti, di inchieste nascoste, di contatti inconfessabili tra gli uomini dello Stato e i suoi nemici. Otto giorni fa, il 6 novembre, il "pentito" catanese - sconvolto, quasi in lacrime - si presenta dai giudici lombardi con cui collabora da tempo e dice: mi hanno chiamato i giudici di Firenze Pierluigi Vigna e Giuseppe Nicolosi, quelli che indagano sull'autoparco milanese in mano alla mafia. Loro, e i loro amici della Guardia di finanza, mi hanno detto che sanno che i giudici di Milano sono corrotti. Mi hanno chiesto conferme, altre rivelazioni, particolari. Non hanno messo niente a verbale. Ma mi hanno fatto dei nomi: Antonio Di Pietro, Armando Spataro, Alberto Nobili, Francesco Di Maggio. Scoppia il finimondo Ieri le affermazioni del pentito vengono riportate dal Corriere e dal Giornale. E scoppia il finimondo. Francesco Saverio Borrelli, il capo della Procura, parla a nome di tutti: "Reagiremo - dice - con la massima fermezza. Da sempre, e in particolare da qualche anno, la Procura di Milano è impegnata su più fronti nell' accertamento di fatti gravissimi di criminalità mafiosa, la recente brillante operazione guidata da Alberto Nobili ne è la riprova, e nel campo della pubblica amministrazione. Essendo questo impegno evidente, ed essendo evidente anche l'esistenza di interessi assai cospicui che vengono posti a repentaglio dall'attività dei magistrati di Milano, era prevedibile ma non perciò meno deplorevole che si sarebbero infittiti i tentativi di gettare discredito. Noi contro questo tentativo, che non sappiamo ancora da quale direzione provenga, reagiremo con la massima fermezza ma anche con la massima serenità perché siamo certi, graniticamente certi, della nostra assoluta trasparenza e aggiungo, quale responsabile dell' ufficio, che ben conosco la professionalità altissima dei miei aggiunti e dei miei sostituti. In questa situazione, come sempre, i miei sostituti avranno da me la massima copertura". Del pentito che ha incontrato i giudici di Firenze dice: "E' un collaboratore della Procura e non si discute la sua credibilità verso quello che dice a noi nell' ambito delle nostre indagini. Questa vicenda invece è tutta da accertare". Borrelli conferma di avere partecipato personalmente all' interrogatorio del pentito e di avere chiesto per iscritto chiarimenti al collega Pierluigi Vigna: una lettera rimasta, finora, senza risposta. Passano le ore, senza che si riesca ad afferrare il bandolo della vicenda. I contatti tra i magistrati intanto continuano frenetici. Ma l'impressione è che un tentativo di chiarimento sia in corso. Alle otto di sera, al termine di questa giornata campale, Francesco Saverio Borrelli appare più rilassato che durante il briefing di mezzogiorno. Signor procuratore, molte cose non quadrano. Lei ha spiegato di avere scritto a Vigna per chiedere spiegazioni, il suo collega di Firenze dice invece di avere appreso delle rivelazioni del pentito solo dai giornali. "Ho parlato al telefono con Pierluigi Vigna all'inizio del pomeriggio. Mi ha detto di non avere ancora ricevuto la mia lettera, e questo è comprensibile visti i tempi delle poste italiane. Mi ha confermato che mi risponderà immediatamente. Io attendo per martedì o mercoledì prossimi i chiarimenti che gli abbiamo chiesto nello spirito di correttezza che contraddistingue i nostri rapporti". Le affermazioni del pentito, per la verità, non descrivono un quadro di grande correttezza. "Nel merito di queste dichiarazioni preferirei non entrare. Voi pretendete valutazioni immediate, invece vi sono delle circostanze in cui è necessario approfondire". Però lei stamane ha rivendicato l' attendibilità di questo personaggio. "Attenzione, io ho semplicemente fatto presente che il contributo dato da questo collaboratore alle inchieste della Procura di Milano si è rivelato n contributo serio. Non ho detto, né potevo dire, che questo signore dice la verità qualunque argomento tratti. Voglio dirle anche che io penso da sempre che la comunicazione è qualcosa di complicato, a volte le parole invece che veicolare il pensiero lo confondono. Vi è stato un incontro, e bisogna capire chi ha detto e cosa ha detto, e l' altro come ha recepito questo messaggio. E' difficile, ed anche per questo io non vorrei drammatizzare". Stamane lei sembrava molto preoccupato. "Certo, perché in un passaggio periglioso per le istituzioni, in cui la magistratura, e non solo quella milanese, ha assunto tanta importanza bisogna tenere gli occhi bene aperti per evitare di cadere in trappola. Bisogna però anche evitare ogni precipitazione, perché potrebbe essere segno di debolezza mentre noi siamo molto tranquilli". Vigna le scriverà, spiegherà cosa è accaduto quel giorno durante l' interrogatorio. Ma se alla fine, come è possibile, la situazione fosse del tipo: la parola del pentito contro la parola di Vigna, voi a chi credete? "Mi sembra un paragone improponibile. E' chiaro che non possono esistere dubbi". Il clima creato nel tribunale milanese dall' esplodere della vicenda è molto pesante, anche perché i nomi che compaiono nei verbali sono quattro dei nomi più noti e rispettati del palazzaccio di corso di Porta Vittoria. Uno, Francesco Di Maggio, è diventato quest' anno vicedirettore generale delle carceri. Gli altri tre sono ancora in Procura: Antonio Di Pietro è il simbolo dell' Italia che cambia, Alberto Nobili e Armando Spataro sono due tra i magistrati di punta della Direzione distrettuale antimafia, autori delle più importanti inchieste degli ultimi tempi contro il crimine organizzato in Lombardia. Dall' ufficio del procuratore capo Saverio Borrelli partono telefonate a raffica verso tutti i protagonisti della vicenda. Ma, con il passare delle ore, la situazione invece di chiarirsi si complica sempre di più. Giulio Catelani, procuratore generale a Milano, durante un convegno conferma integralmente le anticipazioni dei due quotidiani. "Mi scappa da ridere", dice (ma senza nemmeno l' ombra di un sorriso) Armando Spataro. "Mi aspettavo il tritolo o le calunnie - commenta Alberto Nobili - e per adesso sono arrivate le calunnie". Antonio Di Pietro e Francesco Di Maggio si chiudono nel silenzio. Ma ormai anche le forme, che di solito racchiudono le polemiche tra giudici, sono saltate. Molto preciso I magistrati di Milano fanno sapere che il racconto del "pentito" sul suo incontro con i giudici fiorentini è preciso in modo impressionante, che la sua attendibilità è considerata altissima, e accusano senza mezzi termini i colleghi fiorentini di indagare su di loro in modo clandestino, fuori da ogni regola del codice e con ipotesi di reato gravissime. Si viene a sapere che uno dei magistrati chiamati in causa ha chiesto al procuratore Borrelli che l' interrogatorio del "pentito" sia trasmesso subito alla procura di Bologna, competente per i reati commessi dai giudici di Firenze: l' ipotesi di reato sarebbe, nel migliore dei casi, quella di abuso d' ufficio, per avere interrogato il catanese senza metterne a verbale le dichiarazioni. I fiorentini ribattono facendo capire che è in corso una manovra per screditarli, per togliere attendibilità alle scoperte compiute in questi mesi dal Pm Nicolosi sulla penetrazione della mafia a Milano e sui suoi contatti - attraverso una loggia massonica - con gli apparati dello Stato. E' l' inchiesta sull' autoparco milanese di via Salomone, la stessa che ha portato poche settimane fa Vigna e Nicolosi a fare arrestare cinque poliziotti milanesi tra cui un vicequestore, Carlo Iacovelli, indagato per associazione mafiosa.

Cinzia Sasso, "La Repubblica" del 16 novembre 1996. Ruota intorno al costruttore Antonio D'Adamo, ai rapporti con il suo difensore Giuseppe Lucibello e con il cliente più famoso di quest' ultimo, Francesco Pacini Battaglia, l'ultima trincea dell' inchiesta su Antonio Di Pietro. I magistrati di Brescia avevano già ricevuto dai colleghi di La Spezia i pacchi di intercettazioni telefoniche, i rapporti del Gico e pure i riscontri dei rapporti patrimoniali fra il banchiere e D'Adamo. Rapporti di denaro, molto denaro, transitato estero su estero, da società di Pacini a società di D'Adamo. E D'Adamo è, dai vecchi tempi, un buon amico di Di Pietro. Tanto amico da aver dato in uso a Susanna Mazzoleni, moglie dell'ex pm, un telefono cellulare nell'epoca in cui il portatile era uno status symbol per pochi. Ma a Brescia è stata riaperta nei giorni scorsi anche un'altra vicenda che rischia di provocare un nuovo terremoto: quella sull' Autoparco di via Salamone a Milano, l' autoparco della mafia scoperto dal Gico di Firenze e all' origine del rancore tra la Procura di quella città e quella di Milano. Da Bologna, dov' era finito protocollato a modello 45, è arrivato a Brescia il nuovo rapporto del colonnello Giuseppe Autuori (sollevato dall'incarico di comandante del gruppo Gico di Firenze e trasferito a Bologna), compilato nel '95 e incentrato sui sospetti di coperture da parte degli ambienti investigativi e giudiziari milanesi a quella che è stata ritenuta una base della mafia al nord. Sono passati due anni dalla chiusura di un' altra inchiesta, a Brescia, su alcuni aspetti di quella vicenda. Un pentito aveva accusato - e poi ritrattato le accuse - un pm al di sopra di ogni sospetto, Alberto Nobili, della Dda milanese. L'indagine si era chiusa con un'archiviazione per Nobili e l'apertura di un procedimento per calunnia contro il pentito che l' aveva accusato. Ma nel rapporto di Autuori non si parla solo di Nobili: si parla anche di Di Pietro, ai tempi commissario al quarto distretto di polizia, nella competenza del quale rientrava l'Autoparco, e di altri magistrati e investigatori milanesi. Per Giancarlo Tarquini, da poco arrivato a dirigere la Procura di Brescia, i grattacapi non finiscono qui: i primi giorni di ottobre, dal gip di Roma Maurizio Pacioni, è arrivata una relazione su presunte irregolarità compiute dal pool milanese di Mani pulite quasi al completo più l'ex gip Italo Ghitti a proposito di un' inchiesta - cominciata a Milano e finita a Roma con un'archiviazione - su un appartamento-tangente dato dalla Fiat al senatore democristiano Giorgio Moschetti. A Roma era stato il pm Francesco Misiani a occuparsene e aveva avuto non poche difficoltà a ottenere le carte dai colleghi di Milano. In questo caso i magistrati di Milano sono stati iscritti al registro degli indagati per abuso d' ufficio. La vicenda è molto complessa e riguarda anche Filippo Dinacci, figlio dell'ex capo degli ispettori ministeriali Ugo Dinacci (sotto processo a Brescia per la presunta concussione ai danni di Di Pietro). Quell'appartamento della Fiat - valore 2 miliardi e 400 milioni - sarebbe poi stato messo a disposizione, secondo il dirigente della Fiat Ugo Montevecchi che denunciò il caso, del figlio di Dinacci (che ha sempre smentito). Oggi, a Brescia, si ricomincia. "Il confronto con i colleghi di La Spezia - ha detto alle 20.15 il procuratore Tarquini rientrato in Procura - è stato utile, come lo sono sempre i confronti con i colleghi". E si ricomincia da Antonio D' Adamo, dal suo ruolo che a Brescia era già stato al centro dell' attenzione. Già secondo il pm Fabio Salamone c'era D'Adamo dietro molti misteri del caso Di Pietro. Le carte di La Spezia pare gli stiano dando ragione.

Scritto da Fabio Repici e Marco Bertelli. Da qualunque parte si prenda, questa storia sembra il prodotto malato della mente di uno sceneggiatore horror. Una storia così inverosimile che risulterebbe irricevibile per qualunque produttore cinematografico che si rispetti. Una storia all’apparenza del tutto inventata, se solo non fosse fondata su fatti e documenti mai smentiti, anzi puntualmente riscontrati ogni volta che sono stati sottoposti a verifica. Allora è doveroso raccontarla, avvertendo i lettori che è una storia che non ha ancora trovato la sua conclusione, se mai la troverà, e che si intreccia con la stagione che cambiò per sempre la nostra vita, il biennio stragista 1992/93. E conviene raccontarla partendo dagli spunti di cronaca.

1993, l'anno delle bombe e delle prime revoche del 41-bis.

Da un paio d’anni – più o meno da quando il braccio destro dei fratelli Graviano, Gaspare Spatuzza, ha iniziato a collaborare con la giustizia – le Direzioni distrettuali antimafia di Caltanissetta e Palermo stanno cercando di capire quali apparati dello Stato abbiano condiviso con Cosa Nostra la strategia eversiva a suon di bombe che ha spalancato le porte alla cosiddetta Seconda Repubblica e quali siano stati i tempi e gli strumenti che hanno permesso l’insana interlocuzione, più correttamente chiamata ‘Trattativa’, fra Stato e antiStato. Con imperdonabile ritardo, sulla scia delle rivelazioni di Spatuzza e del figlio minore di don Vito Ciancimino, numerosi personaggi istituzionali hanno avuto riverberi di memoria su due snodi decisivi della Trattativa. Il primo: lo sciagurato dialogo a partire dal mese di giugno 1992 fra il Ros dei Carabinieri (nelle persone degli ufficiali Mario Mori e Giuseppe De Donno, con la copertura del generale Antonio Subranni) e Vito Ciancimino, che ha visto dall’estate 2009 la resurrezione della memoria di Luciano Violante, Claudio Martelli e Liliana Ferraro. Il secondo: i provvedimenti di revoca o mancata proroga susseguitisi nel 1993, in favore di uomini di Cosa Nostra, del regime detentivo speciale previsto dall’art 41-bis dell’ordinamento penitenziario, sui quali i ricordi a scoppio ritardato sono stati soprattutto quelli dell’allora ministro di grazia e giustizia Giovanni Conso, che il 12 febbraio 1993 sostituì il dimissionario Claudio Martelli nel primo governo di Giuliano Amato e che fu confermato il 28 aprile 1993 nel successivo governo di Carlo Azeglio Ciampi. Conso ha rivelato l’undici novembre 2010 agli attoniti membri della Commissione parlamentare antimafia di avere assunto il 5 novembre 1993 in completa solitudine la decisione di venire incontro alle esigenze di detenuti mafiosi, per fornire un segnale di pace all’ala provenzaniana di Cosa Nostra, che in quel momento aveva adottato una linea strategica contraria a quella stragista sostenuta da Leoluca Bagarella: “Nel 1993 non rinnovai il 41 bis per 140 detenuti del carcere palermitano dell’Ucciardone ed evitai altre stragi... La decisione non era un’offerta di tregua o per aprire una trattativa, non voleva essere vista in un’ottica di pacificazione, ma per vedere di fermare la minaccia di altre stragi. Dopo le bombe del maggio ’93 a Firenze, quelle del luglio ’93 a Milano e Roma, Cosa nostra taceva. Cosa era cambiato? Toto’ Riina era stato arrestato, il suo successore, Bernardo Provenzano era contrario alla politica delle stragi, pensava piu’ agli affari, a fare impresa; dunque la mafia adottò una nuova strategia, non stragista”. Come l’algido giurista sabaudo avesse avuto contezza dell’esistenza di due tendenze contrapposte all’interno di Cosa Nostra, circostanza che gli investigatori avrebbero scoperto molto tempo dopo l’intuizione di Conso, rimane tuttora un mistero. Gli inquirenti titolari dell’inchiesta palermitana sulla Trattativa tra 'pezzi' dello Stato e 'pezzi' dell'antiStato hanno accertato che in realtà Conso in quell’occasione non rinnovò altri 194 provvedimenti di regime carcerario 41-bis, per un totale di 334 detenuti ai quali non fu prorogato il carcere duro. Testimoniando il 15 febbraio davanti ai giudici della Corte d’assise di Firenze nel processo a carico del boss Francesco Tagliavia, Conso ha perfino peggiorato la sua indifendibile posizione: “A me di intese (tra pezzi dello Stato e pezzi della mafia) non risulta assolutamente nulla, anche perché ero chiuso nel mio bunker. L’idea di una vicinanza mafiosa mi offende nel profondo. Dopo tutta una vita dedicata al diritto, sentirmi sospettato di aver trattato… Ma nemmeno lontanamente, abbiate pazienza!”. Ha poi incredibilmente aggiunto con tono sibillino: “A me non risulta che ci fossero dei mediatori, ma certo non posso escludere che fra due funzionari, magari una sera a cena, si possa aver detto ‘facciamo un ponte’”. Parole dal sen fuggite, quelle sull’intesa “fra due funzionari una sera a cena” o un preciso messaggio? Se di messaggio si è trattato sembrerebbe il riferimento a uomini d’apparato piuttosto che a politici. Ma chi potevano essere i funzionari che si incontravano a cena per “fare un ponte”? Forse le parole di Conso sono più velenose di quanto possa sembrare a prima vista. Velenose come le parole di coda nella deposizione dell’ex ministro: “Al momento non siamo ancora in grado di dire nulla di sicuro, magari col tempo, piano piano, pezzo dopo pezzo arriveremo alla verità”. Come se ci fosse un informale segreto di Stato, per far cadere il quale occorre tempo. Peraltro, le affermazioni di Conso in merito alla mancata proroga dei provvedimenti di carcere duro ai primi di novembre del 1993, oltre a lasciare perplessi pressoché tutti gli osservatori, hanno trovato un’autorevole smentita nell’ex direttore del Dap (Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria) Nicolò Amato. Quest’ultimo era stato sostituito alla guida del Dap il 4 giugno 1993 dal magistrato Adalberto Capriotti, cui fu abbinato come vicedirettore Francesco Di Maggio, magistrato di punta alla Procura di Milano per quasi tutti gli anni Ottanta, poi passato all’Alto commissariato antimafia a coadiuvare Domenico Sica e infine, dietro segnalazione governativa, finito a Vienna a dirigere l’agenzia antidroga delle Nazioni Unite, incarico lasciato per insediarsi al Dap. In un’intervista rilasciata a Rainews24, Nicolò Amato ha rivelato il proprio fermo convincimento che la paternità del mancato rinnovo dei 41-bis del 5 novembre 1993 vada attribuita proprio a Francesco Di Maggio, che era il vero dominus del Dap, alle spalle del ruolo meramente formale assegnato a Capriotti. Amato nulla ha saputo (o voluto o potuto) dire, però, su un documento, da lui redatto nel marzo 1993, nel quale veniva sollecitata la messa in mora della normativa sul carcere duro per i mafiosi. Quella nota dell’ex capo del Dap faceva riferimento ad orientamenti già emersi il 12 febbraio 1993, lo stesso giorno dell’insediamento di Conso al posto di Martelli in via Arenula, nel corso di una seduta del comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica: in quell’occasione – scrive Amato - era stato il capo della Polizia Vincenzo Parisi, storico mentore di Bruno Contrada, a manifestare contrarietà al mantenimento del regime detentivo previsto dall’art. 41-bis. Nei verbali di quel comitato, però, che Parisi abbia manifestato questo atteggiamento non risulta; risulta invece che fu lo stesso Nicolò Amato a sollecitare un alleggerimento del 41-bis. È un fatto che il 15 maggio 1993, il giorno successivo al fallito attentato a Maurizio Costanzo in via Fauro a Roma, il regime carcerario del 41-bis fu revocato per 140 detenuti. Di questi, solo 17 erano divenuti collaboratori di giustizia, e per loro erano stati gli stessi magistrati a sollecitare l'alleggerimento del trattamento in cella. Per tutti gli altri fu una scelta autonoma del governo. I provvedimenti di revoca del 41-bis furono firmati dal vice-direttore del Dap Edoardo Fazioli. Si diceva di Francesco Di Maggio. Si tratta del personaggio più controverso fra gli attori di quello squilibrato frangente istituzionale, nel quale il capo del governo Ciampi arrivò a temere un colpo di Stato di marca tardo-piduista. Personaggio controverso, Di Maggio, soprattutto per la statura indiscussa di molti suoi estimatori, fra i quali esponenti tra i migliori della storia giudiziaria milanese: da Piercamillo Davigo ad Armando Spataro a Ilda Boccassini. Senza dimenticare un dato di fatto da non trascurare: Francesco Di Maggio era stato uno dei magistrati antimafia più intimi con Giovanni Falcone.

Le indagini del pubblico ministero Gabriele Chelazzi sulle stragi del ‘93.

E allora quali sono le ragioni che impongono di riflettere sull’eventuale ruolo di Di Maggio nella Trattativa? La prima è insuperabile: poco prima di morire, fu proprio il compianto pubblico ministero Gabriele Chelazzi – indubbiamente il magistrato che con maggiore sagacia e con indiscussa rettitudine cercò di venire a capo dei misteri di Stato della Trattativa – a mettere nel fuoco della sua attenzione investigativa l’operato di Di Maggio quale vicecapo del DAP nel 1993. Quando Chelazzi virò le indagini su di lui, in realtà Di Maggio era già morto, stroncato il 7 ottobre 1996 a soli 48 anni per una grave forma di epatite degenerata in cirrosi epatica. Ma ad insospettire il Pm fiorentino, oltre al ruolo formale di Di Maggio al Dap, era stata un’inspiegabile annotazione trovata nell’agenda dell’allora colonnello Mario Mori, esattamente nella pagina dedicata al 27 luglio 1993. Si tratta di una data drammatica per l’Italia: nella notte successiva tre auto riempite di esplosivo (una a Milano nei pressi del padiglione di arte contemporanea, una a Roma a San Giovanni in Laterano e un’altra sempre a Roma davanti alla chiesa di San Giorgio al Velabro) avrebbero insanguinato il centro cittadino di Milano e provocato terrore nell’area di due famosi edifici religiosi della capitale, intestati, curiosamente, a santi omonimi dei Presidenti dei due rami del Parlamento, Giovanni Spadolini e Giorgio Napolitano. Ecco, proprio in quella data, sull’agenda di Mario Mori risultò annotato un appuntamento dell’ufficiale del Ros con Francesco Di Maggio, con una causale davvero strana: “per prob. detenuti mafiosi”. Strana, anzi inspiegabile, perché non risulta che fra i campi d’intervento del Ros ci fosse il controllo del trattamento penitenziario dei mafiosi. Chelazzi dovette saltare sulla sedia dalla sorpresa, nel leggere quell’appunto sull’agenda di Mori. Si consideri che le bombe di Milano e Roma scoppiarono all’indomani del rinnovo, deliberato il 16 luglio, di 325 decreti che imponevano il 41-bis ad altrettanti mafiosi, quelli varati subito dopo la strage di via D’Amelio a Palermo. E un altro balzo Chelazzi dovette fare quando scoprì che il 22 ottobre 1993 Di Maggio e Mori si erano nuovamente incontrati, questa volta alla presenza anche dell’allora colonnello Giampaolo Ganzer, l’attuale comandante del Ros, condannato il 12 luglio 2010 dal Tribunale di Milano a quattordici anni di reclusione per gravissime imputazioni, a partire dal traffico di droga. Occhio alla data, 22 ottobre 1993: pochi giorni dopo, il 5 novembre 1993, 334 detenuti non si videro prorogato il regime restrittivo del 41-bis. Tra questi Conso decise di non rinnovare il carcere duro per 140 mafiosi rinchiusi all’Ucciardone nonostante Capriotti avesse chiesto un parere alla Procura di Palermo e quest’ultima avesse risposto che era inopportuno modificare il regime carcerario dei detenuti in questione, esprimendo parere favorevole alla proroga. Il parere della Procura di Palermo recava la firma degli allora procuratori aggiunti Vittorio Aliquò e Luigi Croce. Fu all’esito di queste scoperte che Gabriele Chelazzi si decise a sentire come testimone Mario Mori. L’incontro fra il magistrato fiorentino e colui che il primo ottobre 2001 era diventato, su designazione del secondo governo Berlusconi, direttore del Sisde avvenne nel pomeriggio dell’11 aprile 2003 e Chelazzi non ne rimase per nulla soddisfatto: secondo lui, Mori si era trincerato dietro troppi inescusabili “non ricordo”. E per questo, come ricorda il magistrato Alfonso Sabella, in quel momento collega di Chelazzi alla Procura di Firenze, il P.m. che indagava sulla Trattativa si era determinato a iscrivere l’ex generale del Ros sul registro degli indagati: “L’ipotesi di Gabriele in quel periodo è che ci fosse stato un tentativo da parte degli organi dello Stato di dare un segnale di ‘apertura’ a Cosa Nostra in maniera da impedire che altre stragi si portassero avanti. Questo segnale di ‘apertura’ era collegato all’alleggerimento del 41-bis o quantomeno al ridurre il numero dei detenuti al 41-bis. Perché Gabriele faceva questa ipotesi? Perché – non ricordo in quale agenda o da qualche parte – aveva saputo di un incontro tra il generale Mori e Francesco di Maggio, all’epoca vicecapo del Dap, che sembrava collegato da un appunto alla vicenda del 41-bis. Nello stesso periodo si era registrata anche la revoca di parecchi decreti 41-bis. Questa era l’ipotesi che aveva Gabriele.... Gabriele iscrisse Mori nel registro degli indagati per favoreggiamento in relazione alla vicenda della fase della trattativa che doveva portare alla revoca di alcuni 41-bis alla vigilia delle stragi in contemporanea con il fallito attentato all’Olimpico (stadio Olimpico di Roma – ottobre 1993/gennaio 1994). L'aspetto tecnico (e non solo tecnico) di iscrivere Mario Mori per favoreggiamento verteva su una domanda specifica: l’avrebbe fatto per favorire la mafia o l’avrebbe fatto sostanzialmente per favorire la pacificazione nello Stato? Gabriele giustamente sosteneva di volerlo appurare da Mori e a tal proposito ribadiva: ‘Mi venga a dire perché l’avrebbe fatto oppure invochi il segreto di Stato, e in questo caso che venga un Presidente del Consiglio a porre il segreto di Stato’”. Sabella non si dovette sorprendere dei sospetti di Chelazzi, se sul Ros, da P.m. della D.d.a. di Palermo negli anni del Procuratore Giancarlo Caselli, si era fatta un’idea per nulla positiva proprio sulle ricerche dell’allora latitante Bernardo Provenzano, tema centrale del processo oggi pendente a Palermo a carico di Mario Mori e del colonnello Mauro Obinu: “A noi sembrava – così si è espresso Sabella a Palermo davanti ai giudici della quarta sezione penale del Tribunale – che il Ros agisse in un’altra direzione, per acquisire informazioni non come forza di polizia ma per altri motivi, a noi sconosciuti”. Se si legge il verbale delle dichiarazioni rese da Mori ai pubblici ministeri Chelazzi e Giuseppe Nicolosi si comprende appieno la sensazione che Sabella ebbe della delusione del collega. Se ne ricavano, fra l’altro, alcune impressioni nette: intanto, la metodicità e lo scrupolo minuzioso con cui Chelazzi – che durante quel verbale, nelle premesse alle domande poste a Mori, spiega in dettaglio l’obiettivo delle sue indagini – aveva ricostruito in punto di fatto il susseguirsi di ogni anche minuscolo evento susseguitosi nel biennio 1992-93; poi il “buon rapporto” che intercorreva fra Mario Mori e Nicolò Amato, il quale, cessata la sua permanenza al Dap e intrapresa l’attività di avvocato, secondo Massimo Ciancimino sarebbe stato nominato quale difensore da Vito Ciancimino su consiglio proprio di Mori; ancora, il sospetto che Mori in quell’incontro del 27 luglio 1993 avesse potuto riportare a Di Maggio le confidenze che il pentito Salvatore Cancemi, consegnatosi ai carabinieri il 22 luglio precedente con l’intenzione di iniziare da subito a collaborare con la giustizia, gli avesse potuto rivolgere circa il forte malumore serpeggiante in Cosa Nostra per le modalità applicative del 41-bis; i tentennamenti manifestati al riguardo da Mori, che ricordava come subito dopo la sua costituzione Cancemi fosse stato alloggiato a Verona sotto il controllo del maggiore Mauro Obinu e, del tutto inspiegabilmente, del maresciallo Giuseppe Scibilia, a quel tempo in servizio al Ros di Messina (e dalla domanda del P.m. Nicolosi, se si trattasse proprio di quel maresciallo Scibilia in servizio a Messina, emerge la sorpresa pure dei magistrati); il rapporto di grande solidarietà fra Mori e Di Maggio, che erano “veramente amici” e che, al di là delle due annotazioni risultanti sull’agenda del generale Mori, si incontravano spesso anche a cena (sic!); i buoni rapporti di frequentazione fra Mori e l’allora direttore del Giornale di Sicilia Giovanni Pepi, che aveva ricevuto pubblico encomio niente di meno che da Totò Riina in un’esternazione dalla gabbia davanti alla Corte di assise di Roma il 29 aprile 1993: “Pepi è una persona seria che sa quello che scrive e quello che dice”; la prima visita che una giornalista, Liana Milella (allora a Panorama), riuscì a fare il 10 agosto 1993 al supercarcere di Pianosa per uno scoop che provocò le ire del Prefetto di Livorno, tenuto all’oscuro della sortita avvenuta con la copertura di Di Maggio, e avvenuta poco dopo un incontro che, il 30 luglio di quell’anno, la Milella aveva avuto con Mario Mori. Di tutti i temi e i nomi emersi da quel lungo verbale, è qui il caso di soffermarsi su quello meno conosciuto, il maresciallo Giuseppe Scibilia. Sì, perché non si riesce a capire a quale titolo a un sottufficiale del Ros di Messina fosse stata assegnata la responsabilità di gestire l’avvio della collaborazione con la giustizia di Salvatore Cancemi nel luglio 1993. Peraltro, ciò avveniva pochissimo tempo dopo un eclatante ed inescusabile passo falso che il Ros di Messina, guidato per l’appunto da Scibilia, aveva fatto con l’omessa cattura nel barcellonese del boss allora latitante Nitto Santapaola: il capomafia catanese frequentava stabilmente dei locali nei quali erano attive intercettazioni ambientali gestite dal Ros di Messina nell’ambito dell’indagine sull’omicidio del giornalista Beppe Alfano; anziché andare con tutta calma ad ammanettare Santapaola, il Ros aveva fatto intervenire la squadra del capitano Ultimo, che anziché acciuffare il latitante si era data ad inseguire un diciannovenne della zona, che per un soffio non fu ucciso dalle pistolettate esplosegli dietro da Sergio De Caprio. Ne venne fuori perfino un procedimento penale a carico di Ultimo, archiviato con una motivazione abbastanza infamante per l’ufficiale. Se Scibilia aveva ricevuto quell’incarico delicato ed estraneo alle funzioni che ricopriva in quel momento, ciò era dovuto agli antichi rapporti di fiducia che legavano il sottufficiale al generale Antonio Subranni, che nella seconda metà degli anni Settanta era stato in servizio a Palermo e aveva avuto ai suoi ordini il giovane maresciallo Giuseppe Scibilia. Proprio in quegli anni Scibilia, insieme ad altri subordinati di Subranni, fu impegnato nelle indagini sull’uccisione di due carabinieri della stazione di Alcamo Marittima, Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta. In un processo di revisione attualmente in corso presso la Corte di appello di Reggio Calabria, è emerso il forte sospetto che Scibilia ed altri si sarebbero resi responsabili di torture per costringere alcuni giovani del trapanese a confessare di essere i responsabili dell’eccidio. Ne è scaturito un procedimento a carico di Scibilia e altri tre sottufficiali presso la Procura di Trapani, per calunnia e altro, archiviato per prescrizione dei reati. Sullo sfondo delle torture, i depistaggi nelle indagini sul duplice omicidio, dietro il quale si è sospettata la presenza di trame nere e di deviazioni istituzionali. Negli anni Novanta, però, Scibilia era in servizio a Messina. Eppure, veniva usato dai vertici del Ros come un fidato globe-trotter per casi di particolare delicatezza. Cosa che avvenne pure nelle vicende che avvolsero il suicidio del maresciallo (anch’egli del Ros) Antonino Lombardo. La sera del 23 febbraio 1995, nel corso della trasmissione “Tempo reale” condotta da Michele Santoro, Leoluca Orlando e Manlio Mele (allora sindaco di Terrasini) avevano rivolto al maresciallo Lombardo accuse di contiguità mafiosa. Lombardo in quel periodo era da tempo impegnato in trasferte per gli Stati Uniti, ove si recava con il maggiore Obinu per svolgere colloqui investigativi con il boss Gaetano Badalamenti. Si disse che Badalamenti stesse per essere convinto a tornare in Italia per rendere alla magistratura dichiarazioni con le quali avrebbe messo in crisi i processi fondati sulle rivelazioni di Tommaso Buscetta: stravagante progetto di collaborazione con la giustizia a beneficio di imputati eccellenti. La sopravvenuta esposizione mediatica di Lombardo determinò i vertici del Ros a revocargli l’incarico per una partenza già programmata per il 26 febbraio. Vistosi abbandonato e in pericolo, Lombardo si tolse la vita il 4 marzo 1995, lasciando ai suoi familiari una lettera nella quale spiegava che “la chiave della mia delegittimazione sta nei viaggi americani”. Il 16 marzo 1995 Mario Mori venne sentito dai pubblici ministeri di Palermo sul suicidio del maresciallo Lombardo e si espresse in questi termini circa la revoca dell’incarico a Lombardo per la nuova trasferta americana: “Il 24 avendo saputo che il sottufficiale avrebbe sporto querela contro le persone che lo avevano accusato, discussi della cosa con il maggiore Obinu. Questi segnalò l’inopportunità di esporre in quel momento il sottufficiale ad eventuali ulteriori polemiche, che potevano derivare dalla diffusione della notizia del suo incarico di portare Badalamenti in Italia e preso atto di tali osservazioni, parlai con il generale Nunzella (allora comandante del Ros, n.d.a.) ed insieme stabilimmo di mandare negli USA il maresciallo Scibilia, al posto di Lombardo”. Insomma, in quegli anni, ed anche in quelli a venire, il maresciallo Giuseppe Scibilia era uno dei più fidati ambasciatori degli uomini di vertice del Ros. Ufficiali del Ros, e Mario Mori per primo, come rappresentanti dello Stato che si muovevano per ragioni apparentemente estranee ai propri compiti d’ufficio: questo, quindi, fu il filone investigativo coltivato dal P.m. Chelazzi negli ultimi giorni di vita. Lo sfortunato magistrato fiorentino, però, nella mattina del 17 aprile 2003 fu colto da un improvviso malore che ne provocò la morte.

L’eredità scomoda di Gabriele Chelazzi.

A proseguire su quell’indirizzo d’indagine furono i suoi colleghi della D.d.a. di Firenze, che a poche settimane dalla morte di Chelazzi raccolsero imprevedibili riscontri sulle anomalie nei contatti fra Francesco Di Maggio e Mario Mori. Ne parlò nel giugno 2008 il battagliero mensile d’inchiesta La Voce delle Voci, in seno all’articolo a firma di Andrea Cinquegrani e Rita Pennarola dal titolo “L’infiltrato speciale”, dedicato a “Servizi segreti e inquinamento delle istituzioni”. I due autori riportarono stralci di un sofferto verbale di dichiarazioni rese il 13 maggio 2003 ai pubblici ministeri fiorentini Alessandro Crini e Giuseppe Nicolosi dall’ispettore del Dap Nicola Cristella, fedelissimo collaboratore di Di Maggio nei mesi caldi del 1993. Così aveva raccontato Cristella: “Quanto alle frequentazioni che il consigliere Di Maggio aveva in quel periodo anche in relazione al suo ruolo istituzionale, rammento che frequentava il maggiore Bonaventura del Sisde, l’attuale comandante del Ros generale Ganzer, il colonnello Ragosa della Polizia penitenziaria con cui erano molto amici. La abituale frequentazione con Bonaventura era accompagnata anche dalla presenza di un’altra persona con cui si vedevano spesso a cena tutte e tre, quasi tutte le sere; questa persona veniva all’appuntamento in motorino e se non ricordo male si tratta di un civile all’epoca anch’egli nei servizi segreti … Un’altra persona con cui il consigliere aveva una qualche frequentazione era il giornalista di Famiglia Cristiana Sasinini”. Il verbale dell’ispettore Cristella si concludeva con una precisazione: “In sede di rilettura l’ispettore Cristella precisa che la persona indicata precedentemente come commensale abituale del consigliere Di Maggio e del maggiore Bonaventura era il colonnello Mori del Ros. L’ispettore precisa che a questo punto è un po’ più incerto sul fatto di chi dei due, se cioè Bonaventura o Mori, venisse all’appuntamento in motorino”. Dunque i rapporti fra Di Maggio e Mori erano ben più frequenti della singola annotazione dell’agenda del generale del Ros. Ma quel che più appare significativo è l’intero ventaglio delle relazioni personali praticate dal vicecapo del Dap: oltre agli ufficiali del Ros Mori e Ganzer, un altro ufficiale dell’Arma come Umberto Bonaventura che in quel momento era un dirigente del Sismi, il giornalista Guglielmo Sasinini oggi imputato nel processo per gli spionaggi Telecom che ha coinvolto anche Luciano Tavaroli e Marco Mancini (lo scandalo sullo spionaggio Telecom scoppiò nel settembre 2006), e infine l’ufficiale della Polizia penitenziaria e oggi dirigente del Dap Enrico Ragosa. Certo, persone molto diverse fra loro ma tutte a modo loro significative. Per Umberto Bonaventura si potrebbe ripetere quanto detto per Di Maggio: figlio del capocentro del Sifar a Palermo fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, Bonaventura fu sicuramente, a partire dalla fine degli anni Settanta, uno dei giovani ufficiali più fedeli a Carlo Alberto Dalla Chiesa; fu il capo del Nucleo antiterrorismo e poi della Sezione anticrimine a Milano; passò dunque, al seguito di Di Maggio, all’Alto commissariato antimafia per poi, negli anni Novanta, entrare al Sismi, dove rimase fino alla sua morte improvvisa, avvenuta nel 2002. Fra i suoi subordinati a Milano ci furono due giovani sottufficiali destinati a diventare famosi: proprio Luciano Tavaroli e Marco Mancini, coinvolti nello scandalo Telecom insieme al giornalista Guglielmo Sasinini. Il quale Guglielmo Sasinini, oltre ad essere imputato a Milano nel processo per gli spionaggi Telecom, è stato un giornalista che spesso si è interessato di vicende di mafia. Ancora oggi Vincenzo Calcara, il pentito di Castelvetrano che iniziò a collaborare con Paolo Borsellino nel 1991, ricorda un po’ stranito l’intervista che Sasinini, dietro accreditamento dell’Alto commissariato antimafia, gli fece dopo la strage di via D’Amelio e che venne pubblicata da Famiglia Cristiana il 5 agosto 1992. Il pezzo giornalistico più sconvolgente su questioni di mafia, però, l’ex vicedirettore di Famiglia Cristiana lo scrisse quando era più impegnato nelle traversie giudiziarie che non nel mestiere di cronista. Comparve sulle colonne di Libero il 3 aprile 2008 con il titolo “Lo Stato mortifica chi lotta sul serio contro la mafia” ed era un’accorata difesa del Ros di Mori. Ma soprattutto conteneva una rivelazione sconvolgente che non avrebbe mai trovato smentita. Sasinini, infatti, sostenne di aver condiviso con Mori e con l’allora capitano Sergio De Caprio (meglio noto con lo pseudonimo di Ultimo) i giorni che precedettero la cattura di Riina. Tutto scritto nero su bianco e occultato dalla più inspiegabile distrazione generalizzata (tranne i già citati Cinquegrani e Pennarola e lo scrittore Alfio Caruso, nel suo “Milano ordina uccidete Borsellino”, ed. Longanesi): “Dopo mesi di lavoro investigativo puro gli ‘indiani’ scovarono e catturarono il capo dei macellai corleonesi: Totò Riina. Io conoscevo bene quel gruppo di guerrieri e condivisi molte giornate con loro e soprattutto con Mario Mori, in particolare l’estenuante attesa della vigilia quando ‘il pacco’ stava per essere consegnato. Poi tutta l’Italia si emozionò per la più famosa delle catture”. Certo, la cattura di Riina raccontata come un “pacco” che viene consegnato sembra la ricopiatura della tesi, ritenuta infamante dal Ros ma ritenuta molto più che verosimile da molti osservatori e da molti investigatori, secondo cui Riina fu consegnato nelle mani del Ros, per iniziativa di Bernardo Provenzano. Solo che stavolta a sostenere questa teoria fu non un avversatore del Ros ma una persona strettamente legata agli esponenti di vertice dell’organismo d’investigazione d’eccellenza dell’Arma dei carabinieri. Senza trascurare la domanda più banale: ma che ci azzeccava il giornalista Guglielmo Sasinini con Mori e De Caprio in attesa della cattura di Riina? Dalle parole di Cristella emerge un altro nome della cerchia ristretta dei fedelissimi di Di Maggio, il “colonnello Ragosa della Polizia penitenziaria”. Si tratta di Enrico Ragosa (ancora oggi dirigente del Dap), che nel 1986 era stato impegnato al carcere palermitano dell’Ucciardone, per il maxiprocesso celebratosi nell’aula bunker, e che nel 1997 per due anni sarebbe transitato al Sisde. Giusto il 6 luglio 1993 (sotto la gestione Capriotti-Di Maggio) Ragosa era stato nominato responsabile del Servizio di coordinamento operativo (dedito specificamente ai detenuti di mafia) del Dap. E certo non dovette essere un caso se il 4 dicembre 1996 su Famiglia Cristiana comparve un’intervista esclusiva del generale Ragosa al giornalista Guglielmo Sasinini. In premessa alle risposte di Ragosa, l’intervistatore segnalava, con invidiabile arguzia, che “le bombe di Roma, Firenze, Milano avevano lo scopo di indurre il potere politico a eliminare il regime 41-bis’”. Poi però tuonava convinto: “invece così non è stato”. E le 334 revoche del 5 novembre 1993? Distrazioni di un giornalista. Il quale proseguiva notando che “alle spalle della sua scrivania il generale Ragosa tiene in bella evidenza le fotografie di Carlo Alberto Dalla Chiesa, di Giovanni Falcone, di Francesco Di Maggio che diresse (sic!) il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria”.

Barcellona Pozzo di Gotto, uno snodo cruciale dei rapporti mafia-potere.

Si torna, dunque, a Di Maggio e a quei sospetti che Chelazzi stava cercando di verificare, di fare diventare ipotesi processuali. Non sappiamo se Chelazzi, in quei giorni, avesse letto (o riletto), una vecchia informativa del Gico della Guardia di Finanza di Firenze, trasmessa il 3 aprile 1996 (Nr. 109/U.G. di prot.) ai pubblici ministeri di La Spezia che in quel periodo stavano indagando su traffici d’armi all’ombra di una possibile nuova P2, in un’inchiesta che avrebbe portato in carcere il 16 settembre 1996, tra gli altri, Pierfrancesco Pacini Battaglia e Lorenzo Necci. Quell’informativa del 3 aprile 1996, però, era dedicata a un altro personaggio, Rosario Pio Cattafi, nato a Barcellona Pozzo di Gotto il 6 gennaio 1952. Si tratta della stessa persona che negli anni Novanta venne indagata (e poi archiviata) sia nella famosa inchiesta “Sistemi criminali” della D.d.a. di Palermo sia nell’inchiesta di Caltanissetta sui mandanti occulti delle stragi di Capaci e di via D’Amelio. La cronaca giudiziaria messinese degli anni Settanta testimonia che Cattafi era stato compagno d’armi, all’università di Messina, niente di meno che di Pietro Rampulla, l’artificiere della strage di Capaci. Cattafi successivamente era stato anche il mentore, oltre che il testimone di nozze, del boss barcellonese Giuseppe Gullotti. Quello stesso Gullotti che, secondo Giovanni Brusca, su richiesta di Rampulla, aveva personalmente recapitato agli stragisti di Capaci il telecomando utilizzato proprio da Brusca il 23 maggio 1992. Beh, se Chelazzi negli ultimi tempi lesse quell’informativa dovette strabuzzare gli occhi. Perché vi era riportata un’intercettazione in cui era proprio Cattafi a parlare dei propri rapporti con Di Maggio. A questo punto, però, è meglio fare un passo indietro. Cattafi, dopo i burrascosi anni di militanza neofascista all’università di Messina, che gli avevano fruttato due condanne definitive (una per una goliardica sventagliata con un mitra Sten all’interno della Casa dello studente; l’altra, insieme a Pietro Rampulla, per l’aggressione ad un gruppo di studenti sospetti di simpatie sinistrorse), si era trasferito dalla fine del 1973 a Milano dove aveva impiantato affari nel campo farmaceutico. Era però finito, anche all’ombra della Madonnina, in guai giudiziari. In un’occasione era stato pure arrestato, in un’indagine per il sequestro dell’industriale Giuseppe Agrati, che nel gennaio 1975 aveva fruttato ai rapitori il riscatto di addirittura due miliardi e mezzo di lire. Le prove sembravano solide, c’era perfino una testimone oculare che aveva visto Cattafi ed un complice, con le borse piene dei soldi del riscatto, partire per la Svizzera. Sennonché, su richiesta proprio del pubblico ministero Francesco Di Maggio, Cattafi era stato prosciolto in istruttoria con una sentenza emessa nel 1986 dal giudice istruttore milanese Paolo Arbasino. Cattafi, però, era rimasto coinvolto anche nelle rivelazioni che il pentito milanese (di origine catanese) Angelo Epaminonda, detto “il Tebano”, aveva reso proprio al dr. Di Maggio, a partire dal novembre 1984. Epaminonda aveva accusato Cattafi di essere l’emissario del boss catanese Nitto Santapaola negli affari dei casinò e di essere uno degli uomini più importanti del sodalizio mafioso insediatosi nell’autoparco di via Salomone a Milano. Una storia da prendere con le pinze, quella dell’indagine sull’autoparco della mafia, perché era rimasta senza esito a Milano fin dal 1984 e quando era stata tirata fuori nel 1992 dalla Procura di Firenze ne era nata una violenta polemica, strumentalizzata da chi aveva tentato di brandirla, in difesa dei tangentisti di regime, come arma contro il pool Mani Pulite di Milano. Di quell’inchiesta, nel 1984 a Milano, era stato titolare per l’appunto Francesco Di Maggio, che da un lato aveva raccolto le dichiarazioni di Epaminonda sui mafiosi dell’autoparco e dall’altro aveva ricevuto le informative dei carabinieri sulla stessa vicenda. Ma nulla ne era sortito. Non solo: nel maxiprocesso derivato dalle confessioni di Epaminonda fra gli imputati non era comparso Rosario Cattafi (per lui le accuse di Epaminonda erano state stralciate e inserite nel fascicolo per il sequestro Agrati). Anzi, nel “processo Epaminonda” il P.m. Di Maggio aveva fatto svolgere a Cattafi il ruolo di testimone dell’accusa. Francesco Di Maggio – non lo avevamo ancora detto – era cresciuto a Barcellona Pozzo di Gotto, figlio di un sottufficiale dell’Arma che prestava servizio lì. Solo dopo la licenza liceale si era trasferito in Brianza, a Desio, dove, prima di entrare in magistratura, aveva fatto in tempo a dedicarsi alla politica come consigliere comunale. Torniamo all’intercettazione di Cattafi riportata nell’informativa del Gico di Firenze. Nella notte del 16 settembre 1992 gli investigatori del Gico, con un’ambientale piazzata negli uffici dell’autoparco di via Salomone, avevano intercettato una lunghissima conversazione fra Rosario Cattafi, Ambrogio Crescente e Vincenzo Caccamo. Il discorso ad un certo punto era andato sul pentito Angelo Epaminonda, che aveva rivelato a Di Maggio un incontro che Cattafi gli aveva chiesto, per conto di Nitto Santapola, per entrare in società al casinò di Saint Vincent.

Eccone il testo: “CATTAFI: ‘Io non lo conoscevo (Angelo Epaminonda) … e maledetto il momento che l’ho conosciuto … perché io ero … sono stato arrestato in Svizzera … sono venuto in Italia, scendo per chiedere e chiarire … mandato di cattura in Italia … eh potevo uscire dopo altri tre mesi … ad un certo punto … neanche il tempo di fare accertamenti e interrogatori … si è pentito sto cazzo in brodo … eh … diciamo il dottor DI MAGGIO … il P.M. non lo sai ci sono andato a scuola…’. CRESCENTE: ‘… inc. … DI MAGGIO era un avvocato fallito a Monza … inc. … DI MAGGIO era un caruso … un … inc. … fallito…’. CATTAFI: ‘Questo era il figlio del maresciallo dei Carabinieri al mio paese (incomp.) … questo dice … ti manda come cassiere della mafia internazionale … questo … inc. … ehh … lui DI MAGGIO … inc. … dice non appartiene a … non è uno … eh dice però … DI MAGGIO si sente dire … ma c’ero pure io con – inc. – a questo punto … quello ci disse sappi che per me è uomo di SANTAPAOLA … eh … avvicinato…’”.

Chiunque può farsi un’idea: la più adesiva al tenore delle parole è che Cattafi ammettesse di aver effettivamente incontrato Epaminonda, il quale poi si era pentito con un P.m., Di Maggio, al quale Cattafi era legato da antichi rapporti risalenti ai tempi della scuola a Barcellona Pozzo di Gotto; e non sembra potersi mettere in dubbio che Cattafi riferisca la reazione di sorpresa che Di Maggio aveva avuto all’indirizzo di Epaminonda quando il pentito aveva legato il nome di Cattafi alla mafia e in particolare al boss Santapaola. Certo è che, fra le rivelazioni di Epaminonda e quell’intercettazione, Cattafi con Di Maggio per forza di cosa aveva avuto contatti, non foss’altro che per il fatto che il pubblico ministero aveva chiamato Cattafi come teste d’accusa per la posizione dell’imputato Salvatore Cuscunà nel processo nato dalla collaborazione di Epaminonda. È, quindi, abbastanza fondato il sospetto che Cattafi in quella conversazione intercettata ripetesse un discorso fattogli personalmente dal suo vecchio conoscente Francesco Di Maggio. Ecco, quindi, come in quell’incredibile gioco di specchi che sembra fare da scenario alla Trattativa si passa da Di Maggio ad un personaggio di alta valenza criminale come Cattafi, il quale nel decreto emesso dal Tribunale di Messina con il quale nel luglio 2000 gli venne irrogata la misure di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno venne sospettato di essere una sorta di trait d’union fra la mafia barcellonese, la mafia catanese e i servizi segreti. E così si entra nel gioco grande del progetto politico-eversivo che fece, almeno in parte, da propulsore alle stragi mafiose. In questo quadro, occorre ricordare, allora, che due collaboratori di giustizia siciliani (uno catanese, Maurizio Avola, e uno messinese, Luigi Sparacio) hanno reiteratamente dichiarato che Rosario Cattafi nei primi anni Novanta avrebbe partecipato ad alcuni summit, tenutisi in provincia di Messina, prodromici alle stragi del 1992, alla presenza, fra emissari della mafia e di apparati deviati, anche di Marcello Dell’Utri. Quelle dichiarazioni non trovarono seguito ma nemmeno smentita. Di quelle riunioni potrebbe tornare a parlarsi nel processo di revisione che si preannuncia per la strage di via D’Amelio. Infatti a breve la D.d.a. di Caltanissetta proporrà alla Procura generale di Caltanissetta le risultanze finali delle indagini avviate con la collaborazione di Gaspare Spatuzza, che hanno spazzato via i depistaggi di Stato che avevano accompagnato il “pentimento” di Vincenzo Scarantino ed una parte dei processi che si erano celebrati fra Caltanissetta, la Corte di cassazione e Catania. Secondo le regole sulla competenza per i processi di revisione, così, ad occuparsi della revisione sulla strage del 19 luglio 1992 sarà la Procura generale di Messina, guidata dal magistrato barcellonese Antonio Franco Cassata. Anche di lui e dei suoi legami con Cattafi si parla in quella informativa del Gico di Firenze. Al momento dell’arresto furono trovati nell’agenda di Cattafi tutti i recapiti telefonici del magistrato, compreso quello di casa. Chissà perché li teneva in agenda. Viene anche ricordata la militanza di Cattafi in un particolarissimo circolo culturale barcellonese il cui nome dice già abbastanza: Corda Fratres (cuori fratelli). Ne era socio, quando organizzava l’omicidio del giornalista Beppe Alfano o quando – secondo il racconto di Brusca – procurava il telecomando per la strage di Capaci, anche il boss Gullotti. Il dominus di quel circolo culturale era ed è proprio il magistrato, Antonio Franco Cassata, cui arriveranno gli atti per la revisione del processo su via D’Amelio. Sulle pareti della sede di Corda Fratres, che si trova nella piazza centrale di Barcellona P.G., campeggiano ancora le vecchie locandine attestanti la partecipazione di Di Maggio a conferenze indette dal circolo cui erano iscritti Rosario Cattafi e Giuseppe Gullotti.

La Trattativa e quel che ne è derivato come una persecuzione del destino: un passato oscuro che non vuole passare.

L'ASSASSINIO DI MORO (1978) - Il "mistero dei misteri", dopo le ultime dichiarazioni fatte da politici autorevoli, presenta risvolti inquietanti. Dietro la morte del dirigente DC uno spietato gioco delle parti, scrive Giuseppe Dell’Acqua. Lo "slogan" che nell'Aprile del 1978 echeggiava in Italia tuona ancora forte nella mente di chi, il 9 Maggio 1978, ha assistito in diretta tv alla prima vera "morte della Repubblica". Simbolo di uno Stato che crolla è il corpo senza vita dell'onorevole Aldo Moro nel bagagliaio di una Renault 4 rossa, parcheggiata in Via Caetani a Roma. Perchè durante i 55 giorni di prigionia dello statista, la frase "nè con lo stato nè con le BR'' era sulla bocca di tutti? Com'è possibile che gli italiani arrivino a mettere in dubbio l'appartenenza ad uno Stato, ad una società; arrivino a mettere in dubbio se stessi. Il 16 marzo scorso è ricorso il 28° anniversario della strage di Via Fani (16 marzo 1978) ed è passato ancora una volta nel silenzio di tutti; quotidiani, riviste, TG, programmi TV, nessuno ha nemmeno accennato alla morte dei cinque agenti di scorta. A distanza di tempo è bene ricordare che il mistero del sequestro Moro non è ancora stato svelato e soprattutto che la dichiarazione rilasciata il 5 luglio 2005 dall'onorevole Galloni (vice segretario vicario della DC nel 1978) inerente la "certa" presenza della CIA e del MOSSAD all'interno delle BR, ha alzato un grosso polverone che nel giro di pochi giorni, come per incanto, si è dissolto in un semplice ricordo. Le dichiarazioni di Galloni, Andreotti e addirittura della Santa Sede, i documenti del "Dossier e dell'Archivio Mitrokhin", devono obbligatoriamente portare la coscienza di "qualcuno" a pensare che forse sia giunto il momento di parlare per far conoscere all'Italia, la verità.

16 marzo 1978, Via Fani ore 9.05: " ...un nucleo armato delle Brigate Rosse ha catturato e rinchiuso in un carcere del popolo Aldo Moro, presidente della DC. La sua scorta armata, composta da cinque agenti...è stata completamente annientata..."

Con questo comunicato le Brigate Rosse, il 17 marzo, rivendicano il sequestro del presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro e l'uccisione del maresciallo dei carabinieri Oreste Leopardi, dell'appuntato Domenico Ricci, del brigadiere Francesco Izzi e degli agenti Raffaele Iozzino e Giulio Rivera. Il 16 marzo 1978 la Camera dei Deputati è pronta a votare la fiducia al 4° governo Andreotti che nasce dopo una crisi lunga e difficile, durata quasi 8 settimane. A rendere particolare quest'evento è che, per la prima volta negli ultimi 30 anni, fanno parte del governo anche esponenti del Partito Comunista Italiano, avvicinati alla Maggioranza dal nuovo progetto politico, denominato "compromesso storico"; artefice della cosiddetta "svolta a sinistra" è proprio l'onorevole Aldo Moro. D'origini pugliesi Moro è stato capo del governo in cinque diverse occasioni dal 1963 (I governo) al 1976 (V governo) e ad oggi, è considerato come uno dei più grandi statisti italiani perché è riuscito a comprendere prima di tutti l'ondata di innovazione che stava colpendo la politica italiana. Moro dal 16 marzo al 9 maggio 1979 resterà per tutto il periodo chiuso nella "prigione del popolo" delle Brigate Rosse. Chi erano le BR e soprattutto qual era il loro principale obiettivo? Le BR "nascono" in un convegno dei militanti del Comitato Politico Metropolitano (CPM) a Chiavari, in Liguria nell'autunno del 1970. Il CPM era una "Struttura Articolata di Lavoro in cui i militanti realizzano da una parte le condizioni per una riflessione politica.e dall'altra consentono una crescita politica omogenea della lotta."; erano gruppi di studenti ed operai che si riunivano in "assemblee" per discutere di politica e per cercare di "risolvere" i problemi della società attraverso "lotte e volantini". In questo convegno è sostenuta la necessità di intraprendere una lotta armata, della guerriglia e quindi, della clandestinità: "Non è con le armi della critica e della chiarificazione che s'intaccano la corazza del potere capitalistico e le croste della falsa coscienza delle masse. Che la lotta di classe nel suo procedere incontri la violenza del sistema, è inutile ripetercelo. Il problema della violenza non è separabile dall'illegalità. lo scontro violento è una necessità intrinseca necessaria nello scontro di classe.".  La parola d'ordine negli anni '70 è "lotta di classe", ed è proprio questo lo scopo principale delle "neonate" BR che, infatti, si autodefinirono "combattenti del proletariato". I loro punti di riferimento erano "il marxismo-leninismo, la rivoluzione culturale cinese e l'esperienza in atto dei movimenti guerriglieri metropolitani, non accettando gli schemi che hanno guidato i partiti comunisti europei nella fase rivoluzionaria della loro storia." Le BR avevano intenzione di realizzare quello che Lenin riuscì a fare in Russia nel 1917: una "rivoluzione comunista", ma allo stesso tempo rinnegavano il modo con il quale i partiti comunisti europei hanno affrontato la "politica rivoluzionaria" fino a quel momento. L'obiettivo principale quindi era la lotta di classe che doveva portare il "proletariato", il "solo, unico, autentico, comunismo rivoluzionario" al potere. Secondo il parere di molti storici, il vero obiettivo delle Brigate Rosse era quello di essere riconosciute politicamente ed il discorso fino a qui fatto rafforza l'idea di BR come partito politico, pronto a guidare la nazione. Un esponente di spicco del partito armato però, nega questa tesi: Mario Moretti. Capo indiscusso delle BR, ideatore del sequestro Moro e quindi punto massimo delle ideologie brigatiste, nel suo libro "Mario Moretti, Brigate Rosse, Una storia italiana" alla domanda di Carla Mosca e Rossana Rossanda sulla trattativa che le BR stavano avendo con il Governo per la liberazione di Aldo Moro, risponde: ".Dire "trattativa" mi fa rabbrividire. E' diventata sinonimo di "cedimento". Noi non volevamo ne trattavamo nessun riconoscimento istituzionale. Come potevamo chiedere una patente di legittimità allo stato che stavamo combattendo?" Le BR volevano solo l'"ammissione di uno stato di fatto" che valeva a dire " qualcuno dello Stato ammettesse: si, in Italia ci sono dei detenuti politici, dunque c'è un soggetto politico con il quale dobbiamo interloquire". Non gli serviva essere riconosciute politicamente o istituzionalmente, a loro bastava solo essere "riconosciute" come avversario, come nemico da battere. Il linguaggio, leggermente "conflittuale", è appropriato nel descrivere "gli anni di piombo" ed in particolare il sequestro Moro che ha rappresentato, per la società italiana, una vera e propria "guerra civile" dove non ci sono due ideologie politico-sociale a lottare tra loro, ma tre istituzioni: lo "Stato" rappresentato dal Governo, l'"Anti-Stato" rappresentato dalle Brigate Rosse e la "Nazione" rappresentata dal popolo italiano. E' proprio questo terzo elemento che rende l'"Affaire Moro" un macigno, ancora oggi, che grava insopportabile sulla Repubblica Italiana; per la prima volta si è messa in dubbio l'appartenenza ad uno Stato, "né con lo Stato né con le BR" è lo slogan del 1978 e questo significa che non solo, un popolo non riconosce più l'avversario nel "cattivo" ma addirittura, non riesce a capire chi è veramente il "nemico" da battere. Si colloca quindi in una posizione intermedia, al centro dei due "fuochi". Questo comporta la distruzione di un'identità che mai l'Italia Repubblicana proverà ancora.

Il mistero Moro è una delle più grandi "ombre" dello Stato italiano; ha rappresentato il culmine di una "stagione di piombo" che si è protratta dal dicembre del 1969 all'agosto del 1980 in corrispondenza di due avvenimenti che hanno sconvolto la nazione: le stragi rispettivamente di Piazza Fontana (12 dicembre 1969) e della stazione centrale di Bologna (2 agosto 1980). In quest'intervallo di tempo, denominato "Anni di Piombo", l'Italia intera fu colpita da gravi atti terroristici "neri" e "rossi". I colori purtroppo distinguono il terrorismo di stampo fascista o più semplicemente quello di "estrema Destra" (Nero) da quello di marchio comunista o di "estrema Sinistra"(Rosso). E' solo una coincidenza che i due attentati "spartiacque" si tingono di "nero" non solo per l'alone di mistero che tuttora li circonda, ma anche per le dirette responsabilità dell'azione. E' bene ricordare che dopo la strage alla stazione di Bologna, gli attentati continueranno, anche se, avranno volti nuovi e del tutto diversi quali la mafia, la camorra e la ndrangheta, per non parlare poi del terrorismo moderno; ma questo è un altro discorso. Come ogni "dopoguerra" che si rispetta, anche la "stagione di piombo" ha il suo bilancio, un bilancio che come ricorda un gran maestro del giornalismo Sergio Zavoli "...non potrà mai essere a misura delle vite distrutte, delle ferite ancora aperte; ma occorre farlo, perché quanto detto si possa tradursi, alla fine, anche in qualcosa di assolutamente incontestabile come la fredda oggettività dei numeri.". 429 vittime, 2000 feriti, 199 morti e 782 feriti in 10 stragi, 144 vittime rivendicate dal terrorismo "rosso" 86 delle quali solo da parte delle Brigate Rosse e 36 vittime rivendicate dal terrorismo "nero", sono solo alcuni dei "numeri", tragici, che il terrorismo porta con se. È subito evidente che ben 86 delle 144 vittime rivendicate, appartengono alle BR, sintomo che sia stata la più grande "organizzazione terroristica italiana" della storia repubblicana. La domanda a cui sarà impossibile dare una risposta, è se le BR sono un "frutto" concimato, raccolto e mangiato esclusivamente da "contadini" italiani o se invece "qualcuno", di più grande, le ha "usate" per raggiungere i suoi obiettivi? E' questo il capitolo più difficile della storia del sequestro Moro e delle BR; la possibile influenza, nelle BR d'organizzazioni più grandi e più segrete, non appartenenti allo stato italiano, è da anni un punto cruciale su cui storiografi e critici s'interrogano.

Le ultime dichiarazioni dell'onorevole Galloni, rilasciate martedì 5 luglio 2005 alla rete televisiva "RAINews24", sembrano confermare l'ipotesi di una "collaborazione" tra le BR e i servizi segreti stranieri. Galloni, vice segretario della DC all'epoca del sequestro Moro disse: "Moro mi disse che sapeva per certo che i servizi segreti sia americani sia israeliani avevano degli infiltrati all'interno delle Brigate Rosse. Però non erano stati avvertiti di questo". La possibile presenza della CIA e del MOSSAD all'interno delle BR, apre nuovi ed inquietanti scenari sul caso Moro, chiudendo definitivamente le porte alla "pista russa" che fino ad oggi ha ipotizzato che a "decidere" la sorte dell'onorevole Aldo Moro sia stato il KGB russo. Nel raccontare la "Storia contemporanea" bisogna tener conto che esistono due "binari" che viaggiano nella stessa direzione e velocità e che però "trasportano" due "versioni dei fatti" distinte e separate. Il binario è quello del "conosciuto", della storia scritta sui libri, raccontata dai nonni o semplicemente vista in TV; il secondo invece porta con se una "storia" misteriosa, non conosciuta e che nessun libro di storia, nessun documentario TV e "forse" nessun nonno potrà mai raccontare: è la "Storia" scritta dai Servizi Segreti. I contatti tra le BR e i servizi segreti stranieri non sono molto documentati e quindi sono esclusivamente frutto d'ipotesi o d'invenzioni fantapolitiche che a volte hanno anche un fondamento. Nell'"Archivio Mitrokhin" - la raccolta di documenti segreti che Vasilij Mitrokhin, capoarchivista del KGB, consegnò agli inglesi del MI6 nel 1992 e che nel 1999 fu pubblicata con la partecipazione di Christopher Andrew, massimo esperto storico del KGB - ci sono due dichiarazioni molto importanti per la politica italiana: "nell'estate del 1967, Giorgio Amendola, a nome della Direzione del PCI, chiede formalmente l'assistenza sovietica per preparare il partito alla sopravvivenza come movimento illegale e clandestino nel caso di un colpo di Stato. Fino al 1976 i trasferimenti di fondi al Partito comunista sono stati molto più semplici a Roma che negli Stati Uniti, dal momento che i capi del PCI visitano regolarmente l'ambasciata sovietica, è possibile evitare la trafila di contatti clandestini e nascondigli segreti. Aiuti finanziari aggiuntivi arrivano da Mosca anche attraverso contratti lucrosi con società controllate dal PCI". La prima indiscrezione ci rivela che il PCI è finanziato direttamente dal KGB, mentre la seconda ci ricorda che: "Il PCI si preoccupava in particolar modo del sostegno che le Brigate Rosse ricevono dai servizi segreti cecoslovacchi, quando le BR assaltano nel centro di Roma l'automobile del presidente della DC, l'onorevole Aldo Moro, le preoccupazioni dei leader del PCI raggiungono l'apice, teme una fuoriuscita di notizie sul sostegno dato dai servizi segreti cecoslovacchi (StB) alle BR. Una delegazione del PCI a Praga è stata messa a tacere quando ha cercato di sollevare la questione dell'aiuto alle BR, alcuni esponenti delle quali sono stati invitati in Cecoslovacchia." Riassumendo, ci rendiamo conto che il PCI prelevava soldi dal KGB ed era a conoscenza che i servizi segreti cecoslovacchi "aiutavano" in qualche modo le BR, ma aveva paura che ciò si venisse a sapere. Perché? Forse perché in questo modo anche la collaborazione tra PCI e KGB sarebbe stata scoperta e soprattutto perché il PCI sarebbe stato accusato di aiutare indirettamente, attraverso gli amici cecoslovacchi (StB), le Brigate Rosse. In un momento caldo come quello dell'immediato "dopo-Moro", ciò avrebbe suscitato forti polemiche che avrebbero sancito il definitivo "crollo" del PCI proprio nel momento in cui si stava - per la prima volta nella sua storia - avvicinando al governo. Che il PCI ricevette finanziamenti dai servizi segreti Russi è accertato dall'Archivio Mitrokhin mentre la "collaborazione" tra BR e StB non è mai stata confermata. Nel "Dossier Mitrokhin" - la raccolta di documenti che gli Inglesi tra il 1995 ed il 1999 hanno inviato ai servizi segreti italiani - c'è il "Rapporto Impedian numero 143" che dice: ".Nel dicembre del '75 Yuriy Andropov notificò quanto segue al Comitato Centrale del PCUS. Il Ministro degli Affari Interni Cecoslovacco, OBZINA, aveva informato il rappresentante del KGB sovietico a Praga di un incontro avvenuto il 16 settembre 1975. L'incontro era stato tra Antonin VAVRUS, Capo del Dipartimento Internazionale del Comitato centrale del Partito Comunista Cecoslovacco e Salvatore CACCIAPUOTI, vice presidente della Commissione Centrale di Controllo del Partito Comunista Italiano (PCI). CACCIAPUOTI affermò di essere stato autorizzato dalla dirigenza del PCI a informare il Comitato centrale del Partito Comunista Cecoslovacco che le agenzie ufficiali italiane erano in possesso di alcuni documenti.che confermavano che una delle basi dell'organizzazione terroristica italiana "Brigate Rosse" era ubicata in Cecoslovacchia e che le agenzie di sicurezza cecoslovacche stavano cooperando con essa." Ancora più dirette sono le accuse che nel settembre del '74 il capitano dei carabinieri Gustavo Pignoro del nucleo antiterrorismo del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa fa ad Alberto Franceschini - uno dei fondatori delle BR - affermando che al momento della sua cattura, era appena arrivato da Praga. Dopo soli 6 mesi (marzo 1975) a conferma di quanto detto, gli appunti dei servizi segreti italiani rivelano che Franceschini soggiornò in Cecoslovacchia dal giugno '73 al giugno '74 frequentando il campo di addestramento di Karlovy Vary. A distanza di 30 anni arriva l'inattesa quanto impensata smentita. Un articolo, scritto sull'"Espresso" del 27 maggio 2005, risolve tutti gli equivoci e spegne l'incendio fin qui alimentato. Nell'ottobre del '99 il SISMI - l'apparato dei servizi segreti italiani - ha chiesto ai servizi segreti dell'ex unione sovietica tutta la documentazione riguardante i possibili appoggi della StB alle BR. Da questi documenti è venuto fuori che Franceschini e Curcio - capo storico delle BR - sono veramente stati a Praga, ma non si trattava dei fondatori delle BR. Uno è l'avvocato Renato Curcio, nato a Catanzaro l'1/3/1931, presente in Cecoslovacchia il 7 ed 8 agosto 1972. L'altro è un commerciante di Foiano (Arezzo), Sergio Franceschini nato nel 1917, presente a Karlovy Vary agli inizi degli anni '70. Grazie a Nicola Biondo, consulente della Commissione Mitrokhin che per primo ha letto e studiato i documenti provenienti dall'Unione Sovietica, un primo gran mistero è stato svelato e soprattutto, ritornando alle dichiarazioni di Galloni sulla presunta collaborazione BR-USA, possiamo analizzare da un diverso punto di vista l'intero "Affaire Moro". Il rapporto USA - Moro è sempre stato in primo piano fin da quel drammatico 16 marzo del 1978. Aldo Moro era stato più volte minacciato di morte nel caso in cui non avrebbe abbandonato immediatamente la carriera politica. Di fronte alla Commissione Parlamentare d'inchiesta, Eleonora Moro - moglie dello statista ucciso - ricordando il viaggio negli USA che il marito fece nel 1974 come ministro degli Esteri insieme al Presidente della Repubblica Leone, dice: "È una delle pochissime volte in cui mio marito mi ha riferito con precisione che cosa gli avevano detto, senza svelarmi il nome della persona... adesso provo a ripeterla come la ricordo: "Onorevole, lei deve smettere di perseguire il suo piano politico per portare tutte le forze del suo Paese a collaborare direttamente. Qui, o lei smette di fare questa cosa, o lei la pagherà cara. Veda lei come la vuole intendere."." Secondo alcuni collaboratori dell'onorevole Moro "il presidente fu molto scosso dall'incontro avuto con il segretario di Stato, Henry Kissinger, tanto è vero che il giorno dopo nella Chiesa di S. Patrick si sentì male e disse di voler interrompere per molto tempo l'attività politica". Il segretario di Stato USA, Kissinger, era molto ostile a Moro tanto che arrivò ad affermare che non credendo nei dogmi, non potesse credere nella sua impostazione politica e per questo lo riteneva un elemento "fortemente negativo". Sulle minacce che il presidente della DC subì prima del sequestro, è importante ricordare che tanti avvenimenti fecero presagire ad un triste epilogo. In principio fu il caso della macchina blindata che doveva essere pronta per il dicembre del 1977 e che invece non arrivò mai. Andreotti che Cossiga hanno sempre smentito che Moro fece richiesta di un'auto blindata. Il maresciallo Leonardi, responsabile della scorta, fece raddoppiare la dotazione abituale di proiettili della sua pistola e quella degli agenti di scorta. Altri eventi, fecero capire che nell'entourage di Moro c'era uno stato d'animo preoccupato. Solo negli ultimi anni è giunta la notizia che il 15 marzo 1978 - il giorno prima della strage - il capo della Polizia ha visitato Moro nel suo ufficio, tranquillizzandolo sull'eventualità d'attentati nei suoi confronti. A Moro fu assicurato che i servizi segreti avevano la situazione sotto controllo e che non correva nessun pericolo immediato. "Ironia della sorte", il giorno dopo Moro fu rapito. Nella prima metà degli anni '50 la CIA chiese la collaborazione del SIFAR, il Servizio Informazioni Forze Armate. A capo dei servizi segreti italiani nel 1962 era Giovanni De Lorenzo che sottoscrisse un patto con la CIA: "deve [De Lorenzo] impegnarsi a rispettare gli obiettivi di un piano permanente d'offensiva anti-comunista chiamato in codice << Demagnetize >>. Il piano consiste in una serie di operazioni politiche, paramilitari e psicologiche, atte a ridurre la presenza, la forza, le risorse materiali e non ultimo l'influenza nel governo del Partito comunista in Italia.Del piano Demagnetize il governo italiano NON deve essere a conoscenza essendo evidente che esso può interferire con la loro rispettiva sovranità nazionale". Al primo arruolamento di Gladio partecipò un colonnello del SIFAR, Renzo Rocca che "per i primi sei mesi del '63, su preciso mandato del generale della CIA Walters, s'impegnò nella campagna volta a impedire la formazione del primo centro sinistro organico preseduto da Moro". Il 27 giugno 1968, Rocca fu trovato morto in un ufficio al sesto piano di un palazzo di via Barberini 86 a Roma. Rocca aveva il compito di commerciare armi con i paesi Africani e soprattutto, doveva instaurare rapporti con i servizi segreti israeliani e palestinesi. Altro "007" che ebbe il compito di allacciare rapporti con i palestinesi fu il colonnello Stefano Giovannone. Un comunicato Ansa del 10 maggio 2002 dice: "Il colonnello, nel 1984, nell'inchiesta a Venezia su un traffico d'armi BR-Olp, avrebbe parlato di un proprio interessamento presso i palestinesi, e in particolare, presso il leader Arafat, per cercare aiuti per ottenere la liberazione di Aldo Moro, dopo il suo sequestro. I contatti tra i palestinesi e le BR.sarebbero avvenuti, ma non ebbero esito positivo perché Arafat fece una dichiarazione pubblica, proprio contro le BR". Il nome di Giovandone lo fece anche Aldo Moro durante i giorni di prigionia, indicandolo come "personalità in grado di intervenire" per cercare di ottenere la sua liberazione. Lo stesso Mario Moretti, capo delle BR, prese contatti con la guerriglia palestinese che arrivò a fornirgli delle armi. Tutto ciò avvenne un anno prima del sequestro Moro. Da queste testimonianze, ci rendiamo conto che CIA, SISMI, MOSSAD, OLP e BR erano in contatto tra loro e che almeno tre di loro erano legati da un'alleanza forte e ben radicata. Probabilmente sarà proprio quest'alleanza a decidere le sorti del presidente della DC. Nella vicenda Moro sono implicate tutte le più importanti istituzioni militari, a porre l'accento ancora una volta sul fatto che il 9 Maggio 1978 - giorno del ritrovamento del cadavere di Moro - ha rappresentato la fine di una "guerra civile" e l'inizio di un costante declino di un partito che è stato alla guida del paese dal primo giorno della Repubblica. Politici, industriali, operai, studenti, casalinghe; tutto il Paese è stato, per cinquantacinque giorni, coinvolto in un drammatico evento che ha scosso l'immaginario collettivo, facendo venire meno quei punti di riferimento che la società si era data: Stato, Nazione, Chiesa. La certezza che Moro non si sarebbe salvato era molto alta, al punto di giungere ad affermare che Moro non è morto il 9 maggio 1978 ucciso dai colpi della pistola di Mario Moretti; Aldo Moro "è morto" il 22 aprile, quando il Santo Padre Paolo VI, decise di rivolgersi alle BR: "Ed in questo nome supremo di Cristo, che io mi rivolgo a voi che certamente non lo ignorate, a voi, ignoti e implacabili avversari di questo uomo degno e innocente; e vi prego in ginocchio, liberate l'onorevole Aldo Moro, semplicemente, senza condizioni." La lettera che Paolo VI scrisse agli "uomini delle Brigate Rosse" fu pubblicata sull'Osservatore Romano e, stando alle testimonianze dei brigatisti, segnò fortemente l'animo del Presidente. Anna Laura Braghetti - l'unica donna del gruppo brigatista che ha vissuto nella stessa casa dove lo statista fu tenuto prigioniero - racconta che ".fu il papa a far precipitare ulteriormente la situazione. Moro gli aveva scritto tempo prima, supplicandolo di intervenire. Ma il papa non lo ascoltò.per Moro segnò il momento peggiore di quei 55 giorni, Fra tutte le cattive notizie che Mario [Moretti] gli portò, nessuna lo scosse come il documento del Papa. Capi che il cerchio si era saldato nel punto esatto in cui lui aveva confidato - e calcolato - che si spezzasse." Il messaggio era solo l'ultimo dei tanti appelli umanitari che le BR ricevettero durante i giorni di prigionia. Questa lettera però conteneva qualcosa di diverso; il Papa si era già rivolto ai sequestratori e non aveva mai chiuso la porta del dialogo. Quel giorno però, l'appello di Paolo VI, mise la parola "fine" alle trattative. Fu la presenza di due parole, "Senza Condizioni", che fece cadere nel vuoto le ultime speranze di liberazione. Su queste "quindici lettere" si potrebbero scrivere volumi interi; C'è chi in questa frase indica la presenza dei Servizi Segreti di mezzo mondo, chi invece è certo che fu aggiunta a posteriori sotto suggerimento di Giulio Andreotti, capo di quella DC, che aveva sul piatto della bilancia la legge sull'Aborto tanto cara alla Chiesa. Come giusto che sia è stupido, e poco professionale, cercare di seguire l'una o l'altra tesi. Sono i documenti che "parlano" e in questo caso sono tutti a favore della chiarezza del Pontefice. Da nessuna parte, su nessun foglio, in nessun interrogatorio, ci sono prove che confermano quanto ipotizzato; l'unica cosa certa è che Moro era un fedele credente e praticante assiduo. Ogni domenica, infatti, seguiva la Santa Messa nella chiesa di Santa Chiara tanto che i Brigatisti pensarono di sequestrarlo proprio durane la funzione religiosa, salvo poi rinunciare per le troppe difficoltà "militari". Per Moro la religione veniva subito dopo la famiglia, a cui tanto era legato e di cui tanto andava fiero.

Alla famiglia è rivolta l'ultima drammatica lettera che Moro scrisse prima di morire.

"Mia dolcissima Noretta [Eleonora Moro], dopo un momento di esilissimo ottimismo, siamo ormai, credo, al momento conclusivo. Vorrei restasse ben chiara la piena responsabilità della DC.Uniti nel mio ricordo vivete insieme. Mi parrà di essere tra voi, bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile. Vorrei capire con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce sarebbe bellissimo. Tutto è inutile, quando non si vuole aprire la porta. Il Papa ha fatto pochino: forse ne avrà scrupolo." Dopo aver attribuito le responsabilità della sua mancata liberazione alla DC, si rivolge alla famiglia in un tono affettuoso, ma allo stesso tempo autoritario di chi fondamentalmente è ancora "il capo di famiglia". Moro infine - e solo alla fine - si rivolge a quella Chiesa o meglio a quel Papa, che "ha fatto pochino" per salvarlo e per riportarlo tra le braccia dei propri cari. Il mistero è proprio qui. Moro sostenne che "tutto è inutile, quando non si vuole aprire la porta" ma perché? Era forse a conoscenza che la Chiesa ebbe qualche possibilità di salvarlo? Effettivamente la Santa Sede aveva pronto un "piano" per liberare lo statista attraverso il pagamento di un riscatto. Già durante i 55 giorni di prigionia si era a conoscenza dell'intenzione della Chiesa di aprire una trattativa con le BR; Andreotti ricorda: " Il Papa aveva fatto prendere delle iniziative, vi era stata la disponibilità a pagare anche una cifra molto forte, se fosse stato questo il mezzo per poter salvare Moro, avevano cercato in tutti i modi di avere contatti". A distanza di quasi 27 anni lo stesso Andreotti conferma quella voce, in un intervento al Senato del 9 Marzo 2005: ".E però è vero che con pieno consenso, anzi con nostro grato animo, fu fatto a nome del Santo Padre Paolo VI un tentativo di riscatto. Purtroppo il loro tramite si dimostrò inefficace o addirittura millantatore." A confermare ufficialmente le intenzioni della Santa Sede è mons. Fabio Fabbri, stretto collaboratore di mons. Cesare Curioni - ispettore centrale dei cappellani carcerari italiani - all'epoca del sequestro. La dichiarazione fatta a Vladimiro Satta - giornalista del periodico "Nuova Storia Contemporanea" - indica in dieci miliardi di lire la somma che il Vaticano era pronto a pagare per la liberazione d'Aldo Moro; una cifra elevatissima per il tempo e soprattutto per la causa. Liberare Moro sarebbe stato un colpo durissimo per la DC e soprattutto per la Santa Sede: "Moro vivo sarebbe molto più pericoloso di un Moro morto" è il pensiero che circolava, durante i cinquantacinque giorni di prigionia, nelle menti degli uomini politici più importanti per il paese. Moro libero poteva essere una mina vagante nella politica italiana, andando contro quei "compagni di partito" che avevano dimostrato d'essere tutto, tranne che amici. Era chi aveva rivelato alle BR le linee guida della politica democristiana e quindi, forse, aveva "detto" cose che era meglio non sapere. Proprio per questo il SISMI si era preparato un piano denominato "Victor", da mettere in atto nel caso in cui Moro fosse stato liberato. Il progetto era quello di trasferire Moro in un centro clinico, immediatamente e prima d'ogni incontro con familiari e colleghi di partito. L'azione era assegnata al reparto medico degli incursori di Marina, sede principale di Gladio. Sia per la DC sia per la Chiesa quindi, la liberazione di Moro doveva essere evitata assolutamente. Le trattative tra Chiesa e BR fallirono proprio la mattina del ritrovamento del cadavere di Moro. Molti storici indicano nel "contatto", un personaggio noto alla cronaca per un altro tragico evento di quei 55 giorni: il falso comunicato n°7, quello del Lago della Duchessa. L'autore di quel comunicato fu un falsario legato alla "Banda della Magliana" (gruppo criminale romano) ed ai Servizi Segreti Americani: un certo Tony Ciccarelli. Era lui, secondo le testimonianze, il tramite tra la Chiesa e le BR. Ancora una volta entrano in scena i Servizi Segreti e questa volta però lasciano indelebilmente le tracce del loro passaggio.

Il 16 marzo 1978 alle ore 9.00 i Servizi Segreti Italiani erano presenti in Via Fani.

Il colonnello del SISMI Camillo Gugliemi, specializzato in "addestramento a scopo di imboscata" delle unità di combattimento "stay behind" alla base Nato in Sardegna, quella mattina era in Via Stresa a soli 200 metri dall'incrocio con via Fani. Guglielmi la mattina del 16 marzo avrebbe ricevuto una telefonata dal generale Musameci (P2): "Corri a via Fani a vedere cosa sta succedendo. Un informatore mi ha detto che le BR vogliono rapire Moro". Il militare non ha mai smentito la sua presenza in Via Fani, giustificandola però in un modo un po' "particolare". Egli dichiarò che "doveva andare a pranzo da un amico". In tutte le famiglie "normali" di solito, l'ora di pranzo è intorno alle 13.00 - 13.30 e non alle nove di mattina quando invece si è appena finiti di fare colazione. Mettendo da parte l'ironia, è strano che ci si presenti così di buon'ora a casa di un amico solo per pranzare. Questo stesso amico ha confermato che quella mattina Guglielmi aveva bussato alla porta della sua casa, ma ha sempre riferito che non era mai stato programmato un pranzo insieme. Fatto più inquietante è però che a poco più di 200 metri da un colonnello del SISMI furono sparati più di 90 proiettili, ci fu un tamponamento e fu rapito un grande esponente della politica italiana. Come mai un agente dei Servizi Segreti non ha avuto nemmeno l'idea di intervenire per vedere semplicemente quello che stava accadendo? Guglielmi ha sempre nascosto la sua presenza sul luogo della strage fino al 1991, quando un ex agente del SISMI, Pierluigi Ravasio, lo confidò all'Onorevole Cipriani. Ravasio disse anche che nelle BR era infiltrato uno "007". La spia era uno studente di giurisprudenza dell'università di Roma il cui nome di copertura era "Franco". Egli avvertì con mezz'ora d'anticipo che Aldo Moro quella mattina sarebbe stato rapito. Se mezz'ora non bastò per evitare la strage, il 16 febbraio 1978 - un mese prima dell'attentato - dal carcere di Matera, Salvatore Senatore disse: "è possibile che Moro sia rapito a breve". Altro preavviso giunse quindici giorni prima del sequestro. Renzo Rossellini, animatore di radio Città Futura, informò i dirigenti del PSI che Moro sarebbe stato rapito. Bettino Craxi, però, lo convocò solo a sequestro compiuto. Lo stesso Rossellini alle otto del mattino - un'ora prima del sequestro - in una trasmissione radiofonica, aprì con la notizia dell'avvenuto sequestro d'Aldo Moro. Le notizie, secondo il generale Santovito (P2), giunsero al SISMI centrale solamente dopo il 16 marzo. Purtroppo la registrazione della trasmissione radiofonica, così come le famose foto scattate da Gherardo Nucci pochi minuti dopo l'attentato, è scomparsa nel nulla. Nessuna prova, però, è più schiacciante di quella fornita da Antonino Arconte, nome in codice G.71. Arconte faceva parte di una struttura militare riservatissima: la "Gladio delle centurie" che operava fuori la nazione Italia al fine di evitare possibili colpi di Stato. Gladio fu istituito negli anni '50 con lo scopo di controllare e neutralizzare la capacità offensiva dei comunisti in caso di guerra civile. Naturalmente da quel momento si è evoluta e specializzata diventando un organo militare fondamentale per i Servizi Segreti italiani. "Il gran segreto" intorno al quale ruotavano gli interrogatori delle BR a Moro era proprio Gladio. L'argomento principale era la struttura di guerriglia e controguerriglia usata dal corpo speciale dei servizi segreti. Questa "seconda faccia" di Gladio doveva assolutamente restare segreto perché coinvolgeva i rapporti con gli USA e in particolare perché infrangeva le leggi della legislazione italiana. La legge 801/77, all'articolo 10, sancisce: "Nessuna attività, comunque idonea per l'informazione e la sicurezza, può essere svolta al di fuori degli strumenti, delle modalità, delle competenze e dei fini previsti dalla presente legge". La legge di riforma dei servizi segreti 801 del '77 impone, per quanto riguarda gli agenti dei servizi segreti, di svolgere solo operazioni di "intelligence" e non operazioni armate. Il compito degli 007 italiani era solo quello di raccogliere informazioni e non di attuare operazioni militari. Gladio invece era coinvolta in molte operazioni militari all'estero ed anche in Italia tanto che il Ministro Formica dichiarò che ".nell'Italia Repubblicana si è costituito un esercito assolutamente incompatibile con il nostro ordinamento; uno stato democratico può certamente avere dei piani segreti.ma non può avere assolutamente una milizia clandestina.". Gladio agiva in modo clandestino e quindi andava contro la legge. Ecco perché rappresentò il "gran segreto" con il quale le BR volevano minacciare lo Stato. Ad un certo punto del sequestro, infatti, ci si rese conto che le trattative non erano volte alla liberazione di Moro bensì alla consegna dei documenti raccolti dai terroristi; ma questo è un argomento che tratteremo più avanti. Ritornando ad Arconte, "il gladiatore" attraverso un sito internet prima, ed un libro poi, parlò di una sua missione in Medio Oriente che ebbe sviluppi importanti nel sequestro Moro". Partii dal porto della Spezia il 6 marzo 1978, a bordo del mercantile Jumbo Emme. Sulla carta era una missione molto semplice: avrei dovuto ricevere da un nostro uomo a Beirut dei passaporti che avrei poi dovuto consegnare ad Alessandria d'Egitto. Dovevo poi aiutare alcune persone a fuggire dal Libano in fiamme, nascondendole a bordo della nave. Ma c'era un livello più delicato e più segreto in quella missione. Dovevo infatti consegnare un plico a un nostro uomo a Beirut. In quella busta c'era l'ordine di contattare i terroristi islamici per aprire un canale con le BR, con l'obiettivo di favorire la liberazione di Aldo Moro". Il plico che contiene l'ordine di aprire un canale per la liberazione di Moro è autenticato dal notaio Pietro Ingozzi d'Oristano ed è firmato del Capitano di Vascello della Marina della X Divisione "Stay Behind". Il documento è datato 2 marzo 1978 e fu consegnato a Beirut il 13 marzo dello stesso anno. Moro sarà rapito il 16 di marzo, due settimane dopo la data d'emissione e ben diciotto giorni prima della "cartolina di mobilitazione" che giunse ad Arconte il 26 febbraio 1978. Arconte però non è l'unico testimone del viaggio. Un secondo "gladiatore" lo accompagnò in missione: Pierfrancesco Cangedda, nome in codice "Franz". Egli fu inviato tempo prima in Cecoslovacchia per raccogliere informazioni sull'addestramento delle BR; un tema di grande interesse per la Commissione Mitrokhin. "Franz" è a conoscenza dei legami tra il terrorismo tedesco dell'occidente e le BR. Cosa centra il terrorismo tedesco? Forse non tutti sanno che l'operazione di Via Fani è stata la perfetta copia dell'operazione della Baader-Meinhof - organizzazione terroristica nata nella Repubblica Federale Tedesca nel 1971 - del 5 settembre 1977, quando fu rapito l'industriale Hans Schleyer. La Procura di Roma tramite i NOS ha interrogato i due "gladiatori" nel novembre 2000, solo che, ad oggi, non si conoscono gli esiti. In tutta questa vicenda, l'unica certezza è che nei Servizi Segreti si sapeva con largo anticipo che Moro sarebbe stato sequestrato. Falco Accame, è stato presidente della Commissione difesa della Camera dal 1976; egli ha apertamente dichiarato che "nell'agguato di Via Fani Guglielmi incarnava la presenza di Gladio col compito di verificare che tutto andasse bene ". Falsa che sia questa ipotesi, Gladio era presente in Via Fani "sottoforma di proiettile"; è poco nota la vicenda che i bossoli rinvenuti sul luogo della strage - 92 sparati e ben 46 da una sola arma, una "mitraglietta Scorpion" di fabbricazione cecoslovacca - presentavano una particolare vernice che si usa normalmente contro la ruggine. Questa speciale vernice rende quasi certa la provenienza delle armi, poiché è la stessa usata da Gladio per preservare i proiettili nei depositi sotterranei. Perché pur sapendo in anticipo delle intenzioni dei brigatisti, non si è fatto niente di concreto per la liberazione di un uomo, prima che di un politico.

DIECI GIUDICI COLLUSI CON I CLAN'.

"Mi risulta che mio figlio avrebbe fatto i nomi di una decina di giudici; siccome io ho in corso otto processi vorrei che voi chiedeste a mio figlio di dire i nomi di questi giudici", scrive “La Repubblica”. La bomba scoppia alle 10,30 nell'aula bunker di Rebibbia dove la Corte di Assise di Caltanissetta si è trasferita per ascoltare i pentiti nel processo per la strage di Capaci. A parlare è Raffaele Ganci, boss della Noce, prima ancora che il figlio pentito, Calogero cominci a rispondere alle domande delle accuse e della difesa. Le parole del boss spiazzano tutti. E subito si scatena la caccia ai "nomi" degli insospettabili giudici che avrebbero favorito la mafia. Il tam-tam da Roma a Palermo è intenso. Circolano nomi di sei o sette giudici, nomi in libertà che nessuno, né i magistrati di Palermo né quelli di Caltanissetta, titolari per competenza, confermano. Il procuratore aggiunto di Caltanissetta Paolo Giordano, che assieme al collega Luca Tescaroli rappresenta l' accusa nel processo di Capaci, viene "accerchiato" dai giornalisti che gli chiedono notizie: "E' vero, è falso? Chi sono questi magistrati chiamati in causa da Calogero Ganci?". E il procuratore aggiunto Giordano, come al solito, dice poco o niente, si limita a dichiarare che "nel momento in cui dovessero emergere nel corso delle indagini i nomi di alcuni giudici l' ufficio del pubblico ministero automaticamente trasmetterà gli atti al Consiglio superiore della magistratura che li esamina e può decidere se aprire o no un' inchiesta. E questo proprio a garanzia degli imputati". Si controlla anche al Csm e alcune fonti affermano che da Caltanissetta non è giunto alcun fascicolo relativo alle presunte accuse del pentito contro giudici palermitani. Il giallo, dunque, resta. Ma il boss Raffaele Ganci, per fare quella richiesta così specifica al figlio pentito, qualcosa deve pur aver saputo. Ma quando Calogero Ganci, in teleconferenza (si scoprirà poi che si trovava all' interno di una stanza dell' aula bunker di Rebibbia e non in una località segreta), viene interrogato da accusa e difesa, l' argomento, non viene neppure sfiorato. Qualcuno si aspettava che alcuni difensori degli imputati ribadissero la richiesta del boss, ma non è stato così. Calogero Ganci dunque ha risposto alle domande attinenti al processo nel quale è anche imputato assieme al padre, al fratello Domenico e ad altri 39 boss e uomini d' onore. E in relazione ai presunti rapporti tra Cosa nostra e uomini delle istituzioni, il pentito ha ribadito che era il fratello Domenico che "si incontrava con persone vicine alle istituzioni e questo su incarico di mio padre Raffaele". Il figlio pentito del boss parla anche di un altro boss della Cupola, adesso pentito, Salvatore Cangemi che nelle sue dichiarazioni avrebbe "dimenticato" di avere partecipato ad alcuni omicidi eccellenti. Omicidi (come quelli del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e la partecipazione alla strage di via D' Amelio) che Ganci nelle precedenti dichiarazioni gli ha "ricordato". "E mio padre - ha affermato Ganci - era sollevato dal fatto che Cancemi non aveva ancora parlato della strage di via D' Amelio". Il pentito rispondendo ad altre domande ha detto che il boss Totò Riina poteva essere arrestato prima: "Bastava seguire me, che ero il suo contatto con gli altri boss, per arrivare a lui". E aggiunge anche di ricordare, per averlo saputo dalla moglie, dei lamenti di Antonietta Bagarella, moglie di Totò Riina, durante uno dei suoi parti in una clinica privata di Palermo dove era ricoverata con un falso nome. Sul 41-bis, il regime carcerario duro imposto ai boss, Ganci rivela che nonostante tutto i mafiosi riuscivano a comunicare tra di loro: "Comunicavamo liberamente e ci scambiavamo informazioni attraverso il bagno o le finestre delle nostre celle". L' interrogatorio di Ganci jr si è concluso nel tardo pomeriggio. Ha fatto o non ha fatto i nomi di giudici "avvicinabili"? Il mistero resta.

Poi c’è chi sbertuccia i magistrati e viene emarginato ed isolato.

PARLIAMO DEL GEN. C.A. CARLO ALBERTO DALLA CHIESA.

Nota Biografica dal sito dei carabinieri.it

Saluzzo, cittadina sabauda e piemontese sino al midollo, lo vede nascere il 27 settembre 1920. E' un figlio d'arte: il papà ufficiale dei Carabinieri (Romano), il fratello pure (Romolo). Il primo contatto con la vita militare è la dura guerra nel Montenegro come sottotenente nel 1941. Un anno dopo passa ai Carabinieri e viene assegnato alla tenenza di San Benedetto del Tronto dove resta fino al fatidico 8 settembre 1943. Passa nella provincia di Ascoli Piceno e un bel giorno viene affrontato da un partigiano comunista. I partigiani della zona temevano che lui fosse responsabile del blocco dei rifornimenti di armi che gli alleati di tanto in tanto riuscivano a spedire via mare. Alla domanda "Lei con chi sta, tenente, con l'Italia o la Germania?", Dalla Chiesa risponde offrendo la sua collaborazione e per un certo periodo le cose filano a meraviglia. Poi, purtroppo qualcuno fa la spia e per Dalla Chiesa è meglio cambiare aria e darsi alla macchia insieme agli altri patrioti: diventa un responsabile delle trasmissioni radio clandestine di informazioni per gli americani. La guerra si chiude per lui con una promozione e due croci al merito di guerra, tre campagne di guerra, una medaglia di benemerenza per i volontari della II GM, il distintivo della guerra di liberazione ed una laurea in giurisprudenza conseguita a Bari. In quella stessa università prenderà più tardi la laurea in scienze politiche. La Sicilia che lo vede arrivare giovane capitano è immersa nel regno di terrore della mafia agraria, quella di Don Calò Vizzini, di Genco Russo e di Luciano Leggio. E' una mafia che poi verrà rievocata con nostalgia quando emergeranno nuovi e ferocissimi boss, ma in realtà era solo più arcaica, non meno spietata. Cosa Nostra ha stretto un patto di ferro con i più retrivi latifondisti che temono le lotte e le rivendicazioni contadine guidate dai sindacalisti comunisti e socialisti.

Nei covi di Corleone. Per Lucianeddu Leggio (più conosciuto come Liggio), il segretario della Camera del Lavoro di Corleone, Placido Rizzotto rappresenta una spina nel fianco. Parla troppo, protesta troppo, intralcia troppo. Rizzotto, un semplice bracciante, cresciuto tra le insidie di una mafia occhiuta ed oppressiva, è un tipo prudente e cauto che non manca di prendere le sue precauzioni. Leggio affida il compito ai suoi giovani cagnazzi, "Binnu" e "Totò u' curtu". Calogero Bagarella, Bernardo Provenzano e Totò Riina sono picciotti fedelissimi, aggressivi, spavaldi, che si mostrano in paese arrancando con il caratteristico incedere mafioso. Sono furbi e si rendono conto che bisogna prendere Rizzotto per tradimento.

Un giuda si trova. Il 10 marzo 1948 il sindacalista viene caricato su una macchina, portato in luogo sicuro, torturato e suppliziato. Il suo cadavere viene gettato in una forra Lo trovano molto tempo dopo e riconoscono i resti da uno scarpone. Dalla Chiesa è chiamato dal colonnello Ugo Luca nel nuovissimo CFRB (Comando Forze Repressione Banditismo), che ha la missione di farla finita con Salvatore Giuliano, il re di Montelepre. A lui viene affidato il comando del gruppo squadriglie, basato a Corleone. Qui il piemontese ha primo impatto con questo tortuoso ambiente. E' un ufficiale abile, duro, inflessibile, gran lavoratore, non meno paziente dei suoi avversari corleonesi. A dispetto dell'omertà e della paura estremamente diffuse riesce insieme ai suoi colleghi a inchiodare tutti gli assassini di Rizzotto e a spedirli sotto processo, incluso Leggio.

Vittoria di Pirro. Il processo si conclude con una serie di assoluzioni per insufficienza di prove. Il giovane capitano viene opportunamente trasferito. Premio, siluramento, precauzione? Chissà. La Sicilia gli è rimasta dentro al cuore. Da ufficiale superiore è aiutante maggiore della legione e capo ufficio OAIO (Ordinamento Addestramento Informazioni Operazioni) della IV brigata di Roma e della legione di Torino. Poi regge i comandi del nucleo di polizia giudiziaria e del gruppo di Milano.

A caccia di battesimi e nozze. Negli anni Sessanta Carlo Alberto torna nell'isola del suo destino e per oltre 7 anni gli viene affidato come colonnello il Comando della Legione di Palermo (1966-1973). Qualcosa dallo scacco di quindici anni fa l'ha imparata. Bisogna conoscere a fondo la situazione e raccogliere quante più prove possibili, facendo i conti con la realtà del posto. Cosa Nostra non è stata con le mani in mano e si è adeguata rapidamente ai tempi nuovi. Ha progressivamente spostato i suoi interessi dal settore dell'agricoltura in cui aveva operato per oltre un secolo, a quelli industriale e commerciale, specialmente nel campo dell'edilizia e dei lavori pubblici. I tradizionali rapporti di "strusciamento con il potere" si rafforzano specialmente con le istituzioni amministrative e politiche in modo da influire sulle direttrici di sviluppo edilizio delle città, sull'ubicazione delle opere pubbliche, sulle destinazioni dei finanziamenti, sugli appalti. Lo scambio è sempre lo stesso: appoggio politico contro concessioni illegali di licenze e appalti. Il risultato è che gradualmente una serie di politici aiutano l'espandersi delle attività economiche mafiose, quando i rappresentanti mafiosi non sono direttamente inseriti nel tessuto politico ed amministrativo. Alla base dell'organizzazione c'è la "famiglia", rigidamente ancorata al territorio. In essa ci sono gli uomini d'onore o soldati, comandati dai capidecina, guidati da un capo famiglia o rappresentante coadiuvato da un vice e da uno o più consiglieri. Più famiglie sono rette dai capi mandamento che siedono nella cupola o commissione provinciale. Una struttura del genere è difficile da infiltrare, ma qualcosa si può sempre sapere ed è possibile conoscere la struttura attraverso il legame della famiglia. Sentiamo cosa diceva Dalla Chiesa alla commissione antimafia del 1962.

"Onorevole presidente, scoprirli [i capi mafiosi] non è difficile, in quanto i nomi sono sulle bocche di molti. (...) Vorrei mostrare (...) una scheda, che io ho preparato per la mia legione, per tutti i miei collaboratori, dedicata proprio ai mafiosi o indiziati tali.(...) attraverso le parentele e i comparati, che valgono più delle parentele, si può avere una visione organica della famiglia, della genealogia, più che un'anagrafe dei mafiosi. Quest'ultima è limitata al personaggio; la genealogia di ciascun mafioso ci porta invece a stabilire chi ha sposato il figlio del mafioso, con chi si è imparentato, chi ha tenuto a battesimo, chi lo ha avuto come compare di matrimonio; e tutto questo è mafia, è propaggine mafiosa (...) ... è molto più efficace seguire i mafiosi così, cioè non attraverso la scheda solita del ministero dell'Interno, ma da vicino, attraverso i figli, attraverso i coniugi dei figli, attraverso le provenienze, le zone dalle quali provengono, perché anche le zone d'influenza hanno la loro importanza".

Non è una trovata trascendentale, ma è il metodo e la costanza con cui ci si applica che danno i risultati. Nel 1966 un vero e proprio censimento degli uomini d'onore è stato finalmente realizzato e si conclude con l'arresto di 76 boss. Gente come Frank Coppola (Frank Tre dita) e Gerlando Alberti vengono arrestati e spediti al soggiorno obbligato.

Il trionfo sulle Brigate rosse. All'epoca Dalla Chiesa credeva moltissimo al soggiorno obbligato, più tardi si accorgerà che era a doppio taglio: allontanava i boss dalle loro zone e favoriva l'estendersi della piovra altrove. Poi i processi vanificheranno di nuovo la sua opera e un Dalla Chiesa più disilluso dichiarerà alla commissione antimafia riunita il 4 novembre 1970: "Siamo senza unghie, ecco; francamente, di fronte a questi personaggi, mentre nell'indagine normale, nella delinquenza, possiamo far fronte e abbiamo ottenuto anche dei risultati di rilievo, nei confronti del mafioso in quanto tale, in quanto inquadrato in un contesto particolare, è difficile per noi raggiungere le prove...".

Non c'è però tempo per i rimpianti. La lotta al terrorismo coinvolge presto Dalla Chiesa, ormai promosso generale. Dall'ottobre 1973 al marzo 1977 comanda la Brigata di Torino. Poi nel maggio 1977 assume l'incarico di coordinamento del servizio di sicurezza degli istituti di prevenzione e pena. Prima del suo arrivo le evasioni spettacolari avevano insinuato il sospetto che nelle carceri si potesse fare di tutto. Dopo la "cura" del generale vengono fuori le cosiddette supercarceri dalle quali la fuga è praticamente impossibile. Si tratta di un duro colpo sia per i terroristi che per i mafiosi, come ben sa Totò Riina finito proprio in uno di questi istituti di massima sicurezza. Successivamente (settembre 1978) assume anche le funzioni di coordinamento e di cooperazione tra Forze di Polizia nella lotta al terrorismo. Dallas, come lo soprannominano affettuosamente i suoi con una contrazione, è sempre un militare tutto d'un pezzo. Gira senza scorta perché crede che un ufficiale, all'assalto, non ci va con la scorta, ma sa benissimo coprirsi le spalle dalle insidie dei palazzi romani. Quando riceve i pieni poteri per la lotta alle Brigate Rosse una stampa faziosa lo dipinge come un futuro uomo forte della scena politica italiana. Lui non si muove prima di una discreta e attenta gestione delle pubbliche relazioni, che gli garantisce un segnale di via libera anche da parte delle opposizioni. Solo allora attua la sua controguerriglia urbana, conseguendo prestigiosi successi, celebrati dalla stampa nazionale ed internazionale, arrestando i capi storici delle Brigate Rosse e contribuendo validamente a debellare il fenomeno in Italia. "I nostri reparti dovevano vivere la stessa vita clandestina delle Brigate Rosse. Nessun uomo fece mai capo alle caserme: vennero affittati in modo poco ortodosso gli appartamenti di cui avevamo bisogno, usammo auto con targhe false, telefoni intestati a utenti fantasma, settori logistici ed operativi distanti tra loro. I nostri successi costarono allo Stato meno di 10 milioni al mese". Dal dicembre 1979 al dicembre 1981 comanda la prestigiosa Divisione Pastrengo a Milano per poi arrivare nel 1982 alla massima carica per un carabiniere: vice Comandante Generale dell'Arma. Con le promozioni arrivano altre decorazioni: croce d'oro per anzianità di servizio, medaglia d'oro di lungo comando, distintivo di ferita in servizio, una Medaglia d'Argento al Valor Militare, una di Bronzo al Valor Civile, 38 encomi solenni, una medaglia mauriziana. Al suo fianco compare, dopo la morte dell'amatissima moglie Dora Fabbo, una seconda moglie giovanissima e decisa: Emanuela Setti-Carraro. E' un periodo durissimo, però il futuro sembra sorridergli.

La grande guerra di mafia. Alla nomina a Prefetto di Palermo il ministro degli Interni, Virginio Rognoni, comincia a pensarci poco prima delle festività natalizie del 1981. L'escalation mafiosa è fortissima e l'austero generale sembra la persona giusta per arrestarla. Ne parla prima con l'allora presidente del Consiglio, Giovanni Spadolini, poi con i segretari dei cinque partiti di maggioranza ed infine sonda gli umori delle forze di opposizione. Da tutti un aperto consenso e nel marzo 1982, Rognoni, comunica a Dalla Chiesa la nuova nomina. Dallas non esita a manifestare perplessità, ma suadente Rognoni gli dice: "Caro generale, lei va a Palermo non come Prefetto ordinario ma con il compito di coordinare tutte le informazioni sull'universo mafioso". Il Ministro conta di dargli tutti i poteri in vigore per il suo compito; il generale, che sa quanto sia vana la parola "coordinamento", vuole poteri reali, uomini, mezzi e fondi (saranno concessi solo al suo successore). A maggio 1981, giunto a Villa Whitaker, trova una situazione pesante perché è scoppiata una gran guerra tra le cosche. Il conflitto si scatena a causa di un progetto, ideato da Don Stefano Bontade e Totò Inzerillo (il principe di Villagrazia), che prevedeva la creazione di una nuova Las Vegas ad Atlantic City. Il guadagno netto stimato si aggira intorno ai 130 miliardi di lire all'anno. La raccolta dei fondi per l'operazione si rivela un successo, ma un controllo dei contabili di Cosa Nostra scopre un ammanco di 20 miliardi. Nell'estate in cui c'è Dalla Chiesa a Palermo ci sono 52 morti e 20 lupare bianche.

Poi arriva la morte. Nella lotta a Cosa Nostra la morte è una costante con cui occorre fare sempre i conti. "Purtroppo in questa difficile battaglia gli errori si pagano. Quello che per noi è una professione, per gli uomini di Cosa Nostra è questione di vita o di morte: se i mafiosi commettono degli errori, li pagano; se li commettiamo noi, ce li fanno pagare. (...) Da tutto questo bisogna trarre una lezione. Chi rappresenta l'autorità dello Stato in territorio nemico, ha il dovere di essere invulnerabile. Almeno nei limiti della prevedibilità e della fattibilità". Sono parole del giudice Falcone, tuttora attuali e vere, anche se talvolta Cosa Nostra si è dimostrata più abile e forte: di Chinnici, di Borsellino, dello stesso Falcone. Gli uomini d'onore sanno benissimo di non essere invulnerabili e di doversi proteggere oltre la paranoia. Dalla Chiesa, seguito da cento occhi, ascoltato da cento orecchie, è immerso nei veleni di Palermo e circondato da molti onorevoli e notabili che mal nascondono una viva preoccupazione.

Operazione Carlo Alberto. Significativo uno scambio di battute a distanza sui giornali. Dalla Chiesa: "C'è una crescita della mafia, che va radicandosi anche come realtà politico-malavitosa". Martellucci: "Io ho la vista acuta, eppure non ho mai visto la mafia". Dalla Chiesa, alla commemorazione del Colonnello dei Carabinieri Russo ucciso dalla mafia: "Aveva tutti e cinque i sensi sviluppati, ma la mafia l'ha ammazzato". Il prefetto di Catania: "La mafia, qui da noi, non esiste". Il generale capisce che deve muoversi in fretta, prima che sia troppo tardi. Il primo giorno da Prefetto a Palermo si fa portare a Villa Whitaker da un tassista. Altre volte si fa vedere a sorpresa tra la gente, incontra gli allievi dei licei, gli operai nei cantieri. Vuole scuotere la paura e suscitare il consenso. Non si fa illusioni: "Certamente non sono venuto per sgominare la mafia, perché il fenomeno mafioso non lo si può sgominare in una battaglia campale, in una guerra lampo, un cosiddetto Blitz. Però vorrei riuscire a contenerlo, per poi sgominarlo". Infatti non rinuncia alla richiesta di poteri e mezzi. Quanto ai poteri, l'articolo 31 dello Statuto regionale della Sicilia sancisce che le Forze di Polizia sono sottoposte disciplinarmente, per l'impiego e l'utilizzo, al governo regionale. Come dire che se c'è un governo regionale mafioso, esso ha legalmente più potere del rappresentante dello Stato. Dalla Chiesa chiede fatti e poteri veri, ma a Roma si è restii a conferirgli poteri più significativi di quelli del ministro degli Interni. Anche così, tuttavia, Dalla Chiesa agisce. In due successivi blitz, interrompe con 10 arresti il summit dei vincitori corleonesi a Villagrazia, mentre in via Messina Marine scopre una raffineria di eroina con una produzione di 50 chilogrammi a settimana. Nel giugno 1982 invia il rapporto dei 162, una vera mappa del crimine organizzato. Al vertice ci sono i Greco di Ciaculli, con attività a Tangeri e in Sud America. Insieme ad essi i Corleonesi, il clan di Corso dei Mille. I perdenti Inzerillo, Badalamenti, Bontade, Buscetta sono stati invece massacrati. Per 20 giorni i magistrati tacciono poi spiccano 87 mandati di cattura e 18 arresti, ma restano latitanti una ventina dei più grossi tra cui Michele Greco, il Papa, braccio violento di suo zio Totò Greco detto l'ingegnere. Poi segue un rapporto della Guardia di Finanza sul mondo delle false fatture e dei contributi pubblici finiti nelle tasche di noti esponenti di Palermo e Catania. Inoltre il generale rispolvera l'efficace arma delle indagini su comparati, parentele e amicizie: avvia un'indagine sui registri di battesimo e nozze per vedere quali politici abbiano presenziato a eventi di famiglie mafiose. Riesamina anche vecchie voci di pranzi di ex-ministri con potenti boss e, con dodici agenti della Guardia di Finanza, fa setacciare ben 3.000 patrimoni. Cosa Nostra decide che è il momento di risolvere il problema. Il 3 settembre 1982 trenta pallottole di Kalashnikov falciano Dalla Chiesa e la moglie Emanuela Setti-Carraro mentre un altro killer liquida l'agente di scorta, Domenico Russo. Lui tenta di proteggere la moglie col suo corpo, ma il killer spara prima a lei.

Epilogo. Al funerale ci sono molte grida in favore della pena di morte. Solo Pertini ha potuto raggiungere indisturbato la sua auto mentre altre personalità sono state circondate, spintonate e colpite con monetine. Il 5 settembre arriva una telefonata anonima al quotidiano La Sicilia: "L'operazione Carlo Alberto è conclusa". Il Generale Dalla Chiesa siede tra gli eroi che l'Arma dei Carabinieri ha donato al Paese ed al Popolo italiano, ed anche quando si affievolisce il ricordo di lontani eroismi, resta indelebile la nuda, spartana virtù del dovere compiuto in nome di una società civile.

GENERALE PERCHE’ SI PENTE UN TERRORISTA?

E una delle tante domande poste da Enzo Biagi alle quali ha risposto l’alto ufficiale durante l’incontro avvenuto negli studi di Telemond e che sarà trasmesso il 7 marzo 1981 da 23 stazioni televisive. Come combatte le Br? Chi è un mafioso? Perché è stato ucciso Mauro De Mauro? È vero che non si fida dei giudici ? Chi ha contato di più nella sua vita?

Generale Dalla Chiesa, perché un giovane decide di diventare ufficiale dei carabinieri? 

«Perché crede e ha bisogno di continuare a credere.»

C’è qualche altro mestiere che le sarebbe piaciuto fare?

«Da piccolo il tranviere, poi mia madre voleva farmi intraprendere la carriera diplomatica, qualcuno mi suggeriva di fare il direttore d’orchestra.»

Quali sono i fatti che hanno contato di più nella sua vita?

«Almeno un paio: sotto il profilo militare quando ufficiale dell’Arma durante la resistenza, mi trovai alla testa di bande di patrioti e responsabile di intere popolazioni. Sotto il profilo umano, l’incontro con mia moglie.»

E suo padre, è per lei una figura che ha significato qualcosa?

«Certamente, è compreso tra i maestri ai quali mi sono ispirato.» 

Lei è religioso?

«Sì credo in Dio, nell’Immenso, anche se su questa terra forse perché siamo piccini piccini, qualche volta diventa difficile credere.»

È praticante?

«Anche. Nei limiti che posso.»

Ci sono stati momenti nei quali ha avuto paura?

«Sì. Sono stati forse più frequenti di quanto non si pensi: come quando ho dovuto impiegare dei collaboratori, sapendo che andavano a rischiare la vita; come quando sono in ufficio e, sentendo il suono del telefono, guardo il Cristo perché non so mai che cosa può arrivare.»

Paura per sé?

«No, direi più rassegnazione.»

Io l’ho vista girare un giorno in galleria a Milano, ed era, almeno mi pareva, da solo, perché?

«Giro da solo. Non vedo perché se ne meravigli. In definitiva la situazione me lo consente ho la coscienza di poterlo fare, penso che dia nello stesso tempo, a chi mi vede, la tranquillità, la sensazione che tutto è normale.»

Lei ha combattuto contro la mafia. Chi è un mafioso? Facciamo un ritrattino?

«Un mafioso è uno che lucra per avere prestigio e poi goderne in tutti i settori. E chi lucra è pure capace di uccidere. E, prima di uccidere, intendo assassinio anche come morte civile, è anche capace di usare delle espressioni come : “paternamente, affettuosamente ti consiglio…”»

Che cosa le è rimasto dentro di quella esperienza?

«È stata una grande esperienza, una soddisfazione, direi tutta interiore, per avere conosciuto da vicino risvolti, pieghe, di una società, di un mondo del quale è difficile, molto difficile dire “conosco”.»

Perché allora dichiarò “il nostro rapporto alla magistratura non aveva avuto fortuna. Noi tuttavia siamo radicati nella nostra convinzione”, quale convinzione?

«Lei certamente si riferisce alla scomparsa del povero Mauro De Mauro, il giornalista palermitano, quando cioè gli investigatori concentrarono i loro sforzi su due distinte strade di investigazione. Dissi: “Se avesse avuto più fortuna”. Non ricordo a chi lo dissi, ma certamente lo dissi di un nostro rapporto, perché ritengo ancora oggi che molte cose mi diano ragione. Se quel nostro rapporto avesse avuto più fortuna molto probabilmente le stesse vite del dottor Scaglione, Procuratore della Repubblica di Palermo di un bravo funzionario di PS e di un nostro ufficiale dell’Arma, non sarebbero state compromesse, in via definitiva, voglio dire che tra i primi nomi indicati nel rapporto, c’era quello del boss mafioso Gerlando Alberti che, unitamente ad altri troviamo poi nel famoso rapporto dei 114. Quasi tutti arrestati contemporaneamente in ogni parte d’Italia, mentre io ero al comando della Legione di Palermo.» 

Perché è morto Mauro De Mauro, secondo lei?

«Secondo me perché aveva appreso molto sui traffici della droga e si riprometteva di fare uno scoop giornalistico.»

Quante volte lei si è sentito sconfitto?

«Quando avevo ragione e ho dovuto sacrificarla.»

Dicono che le sue inchieste sono minuziose, precise, che lei si fiderebbe poco dei giudici. A proposito di una sentenza di Genova, lei ha detto “una giustizia che assolve!”

«Se minuzioso è inteso per scrupolo, sta bene. Bisogna essere scrupolosi e bisogna pretendere che lo siano anche gli ufficiali di polizia giudiziaria che lavorano alle tue dipendenze. Per raccogliere una messe di dati, di notizie che aiutino il magistrato e perché egli possa essere confortato laddove deve condannare e anche laddove deve assolvere per insufficienza di prove . Perché quando lo scrupolo si spinge a scartare le circostanze fortuite e esaltare le circostanze sintomatiche, si può sempre arrivare ad una insufficienza di prove. Per quanto riguarda la seconda parte della sua domanda le dirò che io ho sempre considerato la magistratura un altare. Come cittadino posso anche ammettere che il sacerdote sbagli la liturgia. Come comandante di uomini devo sempre considerare le fatiche, le amarezze, i sacrifici e i rischi che hanno affrontato.»

In un discorso, riferendosi alla battaglia che i carabinieri conducono contro il terrorismo, lei ha accennato, riferisco tra virgolette alla lotta con i denti, “alla rabbia del resistere alla gioia di dare, di donare senza chiedere, alla rinuncia per tutta la vita agli affetti più cari”.

«Lei si riferisce al discorso celebrativo che io tenni il 5 giugno scorso in occasione della festa dell’Arma. Lei non deve dimenticare che nei mesi precedenti erano stati barbaramente assassinati il maresciallo Battaglini e il carabiniere Tosa, il tenente colonnello Tuttobene, l’appuntato Casu e che erano stati feriti altrettanto barbaramente il tenente colonnello Ramundo, il maresciallo Bea. Io dopo questi gravissimi fatti non ho avvertito la minima flessione in nessun reparto e tantomeno in quelli più direttamente interessati. Non ho udito neanche un gemito uscire dalle sale operatorie. E ho visto esaltarsi la dignità sulla pelle delle vedove. Io ritengo che fosse doveroso in quella circostanza di fronte ad una prova così virile ed edificante, dare un riconoscimento a quegli uomini.»

Senta generale, lei ha mai incontrato Curcio o altri terroristi?

«Curcio non l’ho mai incontrato. Qualche altro sì.»

Veniamo all’argomento che preme, chi è un terrorista?

Io vorrei azzardare una distinzione iniziale tra terrorista ed eversore. Terrorista può essere anche un caso isolato, un anarchico. Certamente non iscritto in un processo che abbia alle sue spalle un retroterra culturale e davanti una strategia da condurre in porto. L’eversore invece lo vedo inserito non solo in una retroterra, chiamiamolo ideologico, ma anche innestato in una strategia che con la violenza, vuole affrontare, distruggere le istituzioni dello Stato.»

Chi sono i terroristi che ha incontrato?

«Ho conosciuto Peci e Barbone: perché mi hanno mandato a chiamare.»

Sono loro che hanno convocato lei?

«Non è che mi sia fatto convocare, ma la chiamata di Peci è stata certamente un fatto anomalo, un fatto assolutamente nuovo che mi ha spinto a soppesare per alcuni giorni la sua richiesta; poi, dietro alle insistenze…»

Si può fare una specie di radiografia dei terroristi per vedere se si tratta di figli del sottoproletariato, di delusi del ’68 , dei rampolli della borghesia o dei virgulti di una pseudocultura cattolico- marxista?

«Se si dovesse fare quella radiografia che lei chiede piccola o grande che sia verrebbero ad emergere più marcatamente delle ombre per quanto riguarda gli ultimi tre gruppi da lei indicati.»

Lei ha qualche dato, qualche statistica in proposito?

«Posso dire che ho compiuto un’analisi in questo senso, di carattere sociologico, nel periodo in cui fui a capo di quel particolare organismo preposto dal settembre ’68 al dicembre 1979 alla lotta contro il terrorismo.»

In quell’arco di tempo (una quindicina di mesi) vennero arrestati 197 eversori.

«Di questi 197 eversori soltanto 11 risultavano disoccupati. Oltre 70 erano docenti o studenti universitari. Poi c’erano 33 operai, 9 casalinghe, 19 impiegati, 5 laureati…Insomma un’immagine dell’eversione forse un po’ diversa da quella che normalmente uno si fa.»

Il ’68 è stato o no una fabbrica di terroristi ? Sono molti quelli che provengono dal mondo universitario?

«Ritengo che il ’68 non sia stato né una fabbrica né l’unica matrice del terrorismo. E certo però che molti docenti universitari degli anni successivi, sono nati, provenivano dal ’68 e indubbiamente abbiamo avuto dei docenti che hanno insegnato, hanno prodotto compendi imposti  ai loro studenti col consenso anche se tacito, della scala gerarchica. E in quelli si insegnava la guerriglia, si insegnava a rubare e mentre questo accadeva, le aule magna delle università di Stato venivano usate dagli apologeti della forza, della violenza ,per istigare contro le istituzioni dello Stato che concedeva le aule.»

La stampa ha delle responsabilità? Su questo tema?

«Penso di si. Penso di si senza voler fare il polemico a tutti i costi. Penso di si da un punto di vista professionale. Nel senso che, così come un corteo è preceduto da un megafono altrimenti dietro non sentirebbero, altrettanto l’eversore, i gruppi eversivi si propongono di ottenere dalla stampa quella cassa di risonanza che, da soli, per la loro organizzazione logistica e strutturale, non riuscirebbero ad ottenere sull’intero territorio del paese.»

Lei fece accerchiare l’università della Calabria. Ripeterebbe oggi quella operazione ? E quali risultati diede?

«Accerchiare per modo di dire perché se si considera che in poche ore si risolsero 25 perquisizioni che si riferivano all’abitato di Cosenza, all’abitato di Renda e all’intero complesso universitario, io credo che non si possa parlare di accerchiamento. Per quanto riguarda i risultati essi sono ancora al vaglio della magistratura che allora soppesò e diede l’autorizzazione preventiva per quelle 25 perquisizioni. Ripeterei l’operazione se la magistratura confermasse di essere d’accordo.»

Perché il terrorismo è così "italiano"?

«Non è italiano soltanto, perché lo hanno anche altri paesi. Noi aggiungiamo un condimento che è l’emotività: è una specie di droga che ci portiamo dentro, una droga leggera, ma c’è.»

Lei pensa che la centrale, il cervello del terrorismo sia l’estero?

«E’ un argomento che è stato sottoposto a valutazione ben più autorevoli della mia. E quindi mi astengo dal rispondere se non per dire che, quando esistono delle potenze o dei mondi contrapposti sarebbe assurdo pensare che i relativi servizi non siano impegnati nella ricerca di un teatro in cui determinate strategie economico e militare non abbiano da essere raggiunte.»

Si è parlato ad un certo momento e con insistenza del grande vecchio. Lei come lo immagina? 

«Potrebbe anche esistere, però io, con le conoscenze che ho acquisito, non sono in condizioni di farmene oggi un’immagine né di prestarne una a lei.»

C’è una figura misteriosa, inafferrabile: Mario Moretti. Ritiene davvero che sia il capo dell’eversione? E perché non ce la fate a prenderlo?

«È certamente un capo, del fronte esterno, ma oggi condizionato dal fronte interno (che sarebbe il carcerario) e della stessa accidentalità del terreno sul quale muove. Mi auguro che la fortuna qualche volta non l’assista!»

Perché qualcuno si "pente"? Come giudica questo fenomeno che si sta tanto intensificando?

«Ci sono le norme politico-legislative che hanno certamente contribuito molto a rendere più attuale il fenomeno del pentimento. Ma non dobbiamo dimenticare che sotto un profilo psicologico, tutto nacque con la confessione di Patrizio Peci. E ciò che più stupisce, ciò che più emerge in un contesto del genere, è quasi il riaffiorare di valori che sembra siano stati a lungo compromessi, contenuti. Fino a porre le forze dell’ordine - e la stessa giustizia - nelle condizioni di prevenire molti omicidi, molti ferimenti, molte altre rapine. E questo, credo, debba essere valutato nella misura più esatta.»

Lei pensa dunque che Peci abbia parlato per una “crisi di coscienza”?

«Una crisi di coscienza che lo ha visto di fronte ad una valutazione, direi onesta, di quello che in quel momento era la disarticolazione che noi avevamo creato in seno all’organizzazione eversiva.»

Senta generale, dicono che una delle sue qualità più spiccate è il segreto. È vero che neppure i suoi figli conoscono il suo numero di telefono diretto?

«È proprio così.»

E le pesa sapere i rischi che corrono i suoi famigliari?

«Molto.»

Lei crede che i brigatisti che confessano siano sinceri?

«Io non ho motivi né ho avuto motivi per pensare diversamente.»

C’è qualcuno di quelli che lei ha conosciuto che l’ha impressionata favorevolmente, da un punto di vista umano? Per esempio, Peci, che impressione le ha fatto?

«Entrambi quelli che ho avuto occasione di contattare, sia Peci, sia Barbone, mi hanno impressionato sotto il profilo umano.»

In che senso ? Per lealtà nel parlare…?

«Per una progressione nella liberazione di qualche cosa che dentro premeva. Questa gente parte con un volantinaggio, una volta reclutata. Parte andando a rilevare le targhe di qualche auto. Parte perché gli viene ordinato di fare l’inchiesta nei confronti di una persona. Tutti comportamenti che non costituiscono reato, se non inquadrati in un’associazione. Ma quando a uno, ad un certo momento, si richiede di fare l’autista per andare a compiere qualche cosa, ed assiste materialmente e funge da trasporto per queste persone, già è coinvolto. Allora lo si usa immediatamente per sparare. La seconda volta deve sparare e colpire. La terza finisce… Insomma è un progredire nel quale qualcuno, ad un certo momento, può desiderare di liberarsi. Di salvare. Di espiare. Di salvare altre vite umane che potrebbero essere coinvolte.»

Senta generale, non ne parliamo da un punto di vista processuale ma da un punto di vista psicologico: che differenza c’è fra un Curcio e un Toni Negri?

«Beh, Curcio andava. Negri invece mandava… ad espropriare. E nello stesso tempo cercava il finanziamento dal Centro nazionale delle ricerche!»

Che differenza c’è fra terrorismo di destra e terrorismo di sinistra?

«Per me nessuna differenza. C’è una differenza in questo senso: che, mentre nel terrorismo di destra noi troviamo un retroterra culturale quasi dai contenuti asmatici, non bene assimilato, tanto che porta a una pericolosità forse più avvertita, quella della estemporaneità e dell’immediatezza, in quello di sinistra c’è invece un filone ideologico. C’è un qualche cosa che viene coltivato, viene intensamente anche insegnato. E quindi si propone come strategia di usare la violenza contro le istituzioni dello Stato.»

Dicono di lei che è poco portato a collaborare. Che tende ad agire da solo. È vero?

«No. Non è vero. È vero nella misura, in cui preferisco lavorare con chi, da persona responsabile, ama il suo lavoro ed ama soprattutto il suo riserbo.»

Qual è stato il momento più difficile della sua carriera? 

«Quando ho visto pagare in silenzio, da parte della mia famiglia, quattro trasferimenti di sede in uno stesso anno.»

Come affronta la sconfitta?

«Quand’ero più giovane, con rabbia. Da qualche anno, invece, con maggiore serenità e anche andando ad analizzare gli errori compiuti. Però mi è capitato, mi capita talvolta, di mettermi tranquillo, in riva ad un fiume, ad attendere.»

Hanno scritto che quando considererà esaurito il fenomeno del terrorismo, lei se ne andrà?

«Prima di tutto non vedo il perché. Poi, me ne dovrei andare troppo presto. E poi perché? Non si vive di solo terrorismo, no?»

Ha dei rimpianti? C’è qualche cosa che avrebbe voluto fare e che non ha potuto fare?

«Non ho rimpianti. Avrei voluto soltanto che il mio lavoro non fosse costato tanto ai miei affetti.»

Chi sono i suoi amici?

«Personalmente amo i miei giovani. Li amo perché sono semplici, sono di pasta buona, hanno gli occhi puliti e ne sono spesso ricambiato. Ma amo anche i contadini di “terre lontane”, amo soprattutto i “miei” carabinieri! Di oggi, di ieri, di ogni ordine, di ogni grado, anche quelli che non sono più. E dico miei, nel senso usato nel suo testamento morale dall’amico generale Galvaligi.»

Ha mai provato ad immaginare la sua vita senza divisa? È una domanda che potrebbe apparire cattiva. Ma non ho queste intenzioni…

«Bene, io, in divisa, ho vissuto tutta la mia vita, con l’unico scopo di servire lo Stato, le sue istituzioni, la collettività che mi circonda. Penso però che non mi abbia mai fatto dimenticare di essere un cittadino come tutti gli altri.»

Ma, volevo dire, come può supporre la sua esistenza il giorno che non sarà più in servizio?

«Beh, potrò coltivare gli hobbies più tranquillamente e avrò anche tempo da destinare ad una lettura che fino ad oggi è stata un po’ frammentaria e soprattutto incentrata sull’attualità.»

Quali sono le accusa che l’hanno particolarmente ferita?

«Quelle che, nate da problemi contingenti, relativi al mio incarico o al mio lavoro, sono state poi strumentalizzate e sono scese così in basso da ledere la mia dignità di uomo, la mia dignità di soldato, la mia fede di vecchio democratico.»

Lei parlava di hobbies. Ne ha?

«Sì, quello dei francobolli e, quando ho tempo, quello dei campi, della terra.»

Quando ha un’ora libera, come la passa?

«Mi piace discorrere. Amo soprattutto essere un uomo come tutti gli altri.»

Si parla di un gruppo di 60 uomini (ma c’è chi dice 200) e lei fedelissimi, devotissimi, che vivono al di fuori delle caserme che si muovono in mezzo alla gente, direi quasi misteriosamente.

«In tema di devozione, arrivato al grado che rivesto, potrei presumere di più di 60 o di 200! Ma, a parte l’immodestia, lei si riferisce certamente ad un periodo che non è più. Cioè si riferisce al periodo che ho detto prima. Quando nacque quell’organismo, voluto dal ministero degli Interni nell’agosto-settembre 1978 per la lotta al terrorismo, ebbi effettivamente a disposizione 220-230 persone che venivano da ogni parte d’Italia. In mezzo a loro vi erano certamente alcune decine (20 o 30) provenienti dal famoso nucleo che era stato creato a Torino nel ’74-75 e alla cui esperienza e alla cui cultura attinsi a piene mani. Ma questi 220 elementi, tra i quali anche una quarantina di bravi appartenenti al corpo della Ps, ivi comprese delle validissime assistenti e ispettrici, direi anche coraggiose, vissero una parentesi talmente intensa, talmente inserita nella realtà, che, direi, non avevano una ragione geografica. Non avevano un affetto a cui dedicarsi. Non avevano un terreno a cui ancorarsi ed effettivamente li ho portati a vivere (così come ai tempi delle squadriglie in Sicilia si viveva accanto alla realtà del banditismo) la realtà dell’eversore, cioè mimetizzati, inseriti in modo diverso nella società. E questi uomini, questo gruppo di valorosi, perché tali sono stati hanno condotto a dei risultati che certamente erano nelle attese, soprattutto in un momento delicato, di transizione dei nostri servizi e di una opinione pubblica che non poteva non essere esasperata. Questi uomini si ritrovavano a Milano, magari provenienti da Bari o da Catanzaro; oppure quelli di Genova, di Torino dovevano catapultarsi a Roma o a Catania; questo amalgama è durato pochi mesi: ma già dai primi tempi ha dato la sensazione di essere un magma umano veramente efficiente, entusiasta. Non è che abbia speculato sul loro entusiasmo. Certamente l’ho usato molto. A loro sono molto grato e sono orgoglioso di averli avuti alle mie dipendenze. Quando i risultati venivano raggiunti, non ho mai dimenticato però che parte del merito andava sempre alla struttura dell’Arma. La struttura territoriale che effettivamente mi è stata sempre vicina dando un contributo del massimo rilievo; non soltanto quei 220, quindi, devono essere portati in superficie. È certo, tuttavia, che quando ci lasciammo, nel dicembre ’79, ci siamo sentiti uniti da una esperienza irripetibile; e da una medaglietta che io feci coniare per tutti, in metallo piuttosto vile.»

Lei crede che un terrorista pentito un giorno possa rientrare nella vita normalmente? 

«Io penso di sì. Soprattutto se lo Stato lo aiuta a dimenticare e a farsi dimenticare.»

La chiamano il “piemontese di ferro”. Perché?

«Se si tratta di attingere alla coerenza, all’amore per l’ordine e per lo Stato, io sono lieto di essere definito “piemontese”. Per quanto riguarda il “ferro”, sarei presuntuoso pensare ad un collegamento con un famoso duca del 1500. Però è anche vero che, di tanto in tanto, vengono in superficie la estemporaneità, l’impulsività, la fantasia, la trasparenza, anche un po’ di humour, che tradiscono le mie origini emiliane, alle quali sono molto attaccato.»

La capisco! C’è qualche definizione che le piace di più?

«Non è che mi piaccia…Mi chiamano “UFO”, ma non come una sigla che sta per “ufficiale fuori ordinanza”! Proprio come Ufo!»

Che cosa pensa di dovere ai suoi collaboratori?

«Tutto.»

Quando racconterà la sua vita ai suoi nipotini, che cosa dirà?

«Beh, ai bambini si raccontano le favole, le belle favole. E le racconterò anch’io ai miei nipotini. Ma se si riferisce alla mia vita, io penso che la mia vita non sia stata una favola! E se è, come è, una esperienza duramente vissuta, ambisco solo raccontarla ai giovani della mia Arma.»

E Dalla Chiesa disse... di GIORGIO BOCCA (La Repubblica-10 agosto 1982). La Mafia non fa vacanza, macina ogni giorno i suoi delitti; tre morti ammazzati giovedì 5 fra Bagheria, Casteldaccia e Altavilla Milicia, altri tre venerdì, un morto e un sequestrato sabato, ancora un omicidio domenica notte, sempre lì, alle porte di Palermo, mondo arcaico e feroce che ignora la Sicilia degli svaghi, del turismo internazionale, del "wind surf" nel mare azzurro di Mondello. Ma è soprattutto il modo che offende, il "segno" che esso dà al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e allo Stato: i killer girano su potenti motociclette, sparano nel centro degli abitati, uccidono come gli pare, a distanza di dieci minuti da un delitto all'altro. Dalla Chiesa è nero: "Da oggi la zona sarà presidiata, manu militari. Non spero certo di catturare gli assassini ad un posto di blocco, ma la presenza dello Stato deve essere visibile, l'arroganza mafiosa deve cessare».

Che arroganza generale?

«A un giornalista devo dirlo? uccidono in pieno giorno, trasportano i cadaveri, li mutilano, ce li posano fra questura e Regione, li bruciano alle tre del pomeriggio in una strada centrale di Palermo».

Questo Dalla Chiesa in doppio petto blu prefettizio vive con un certo disagio la sua trasformazione: dai bunker catafratti di Via Moscova, in Milano, guardati da carabinieri in armi, a questa villa Wittaker, un po' lasciata andare, un po' leziosa, fra alberi profumati, poliziotti assonnati, un vecchio segretario che arriva con le tazzine del caffè e sorride come a dire: ne ho visti io di prefetti che dovevano sconfiggere la Mafia.

Generale, vorrei farle una domanda pesante. Lei è qui per amore o per forza? Questa quasi impossibile scommessa contro la Mafia è sua o di qualcuno altro che vorrebbe bruciarla? Lei cosa è veramente, un proconsole o un prefetto nei guai?

«Beh, sono di certo nella storia italiana il primo generale dei carabinieri che ha detto chiaro e netto al governo: una prefettura come prefettura, anche se di prima classe, non mi interessa. Mi interessa la lotta contro la Mafia, mi possono interessare i mezzi e i poteri per vincerla nell'interesse dello Stato».

Credevo che il governo si fosse impegnato, se ricordo bene il Consiglio dei Ministri del 2 aprile scorso ha deciso che lei deve "coordinare sia sul piano nazionale che su quello locale" la lotta alla Mafia.

«Non mi risulta che questi impegni siano stati ancora codificati».

Vediamo un po' generale, lei forse vuol dirmi che stando alla legge il potere di un prefetto è identico a quello di un altro prefetto ed è la stessa cosa di quello di un questore. Ma è implicito che lei sia il sovrintendente, il coordinatore.

«Preferirei l'esplicito».

Se non ottiene l'investitura formale che farà? Rinuncerà alla missione?

«Vedremo a settembre. Sono venuto qui per dirigere la lotta alla Mafia, non per discutere di competenze e di precedenze. Ma non mi faccia dire di più».

No, parliamone, queste faccende all'italiana vanno chiarite. Lei cosa chiede? Una sorta di dittatura antimafia? I poteri speciali del prefetto Mori?

«Non chiedo leggi speciali, chiedo chiarezza. Mio padre al tempo di Mori comandava i carabinieri di Agrigento. Mori poteva servirsi di lui ad Agrigento e di altri a Trapani a Enna o anche Messina, dove occorresse. Chiunque pensasse di combattere la Mafia nel "pascolo" palermitano e non nel resto d'Italia non farebbe che perdere tempo».

Lei cosa chiede? L'autonomia e l'ubiquità di cui ha potuto disporre nella lotta al terrorismo?

«Ho idee chiare, ma capirà che non è il caso di parlarne in pubblico. Le dico solo che le ho già, e da tempo, convenientemente illustrate nella sede competente. Spero che si concretizzino al più presto. Altrimenti non si potranno attendere sviluppi positivi».

Ritorna con la Mafia il modulo antiterrorista? Nuclei fidati, coordinati in tutte le città calde?

Il generale fa un gesto con la mano, come a dire, non insista, disciplina giovinetto: questo singolare personaggio scaltro e ingenuo, maestro di diplomazie italiane ma con squarci di candori risorgimentali. Difficile da capire.

Generale, noi ci siamo conosciuti qui negli anni di Corleone e di Liggio, lei è stato qui fra il '66 e il '73 in funzione antimafia, il giovane ufficiale nordista de "Il giorno della civetta". Che cosa ha capito allora della Mafia e che cosa capisce oggi, 1982?

«Allora ho capito una cosa, soprattutto: che l'istituto del soggiorno obbligatorio era un boomerang, qualcosa superato dalla rivoluzione tecnologica, dalle informazioni, dai trasporti. Ricordo che i miei corleonesi, i Liggio, i Collura, i Criscione si sono tutti ritrovati stranamente a Venaria Reale, alle porte di Torino, a brevissima distanza da Liggio con il quale erano stati da me denunziati a Corleone per più omicidi nel 1949. Chiedevo notizie sul loro conto e mi veniva risposto: " Brave persone". Non disturbano. Firmano regolarmente. Nessuno si era accorto che in giornata magari erano venuti qui a Palermo o che tenevano ufficio a Milano o, chi sa, erano stati a Londra o a Parigi».

E oggi ?

«Oggi mi colpisce il policentrismo della Mafia, anche in Sicilia, e questa è davvero una svolta storica. E' finita la Mafia geograficamente definita della Sicilia occidentale. Oggi la Mafia è forte anche a Catania, anzi da Catania viene alla conquista di Palermo. Con il consenso della Mafia palermitana, le quattro maggiori imprese edili catanesi oggi lavorano a Palermo. Lei crede che potrebbero farlo se dietro non ci fosse una nuova mappa del potere mafioso?».

Scusi la curiosità, generale. Ma quel Ferlito mafioso, ucciso nell'agguato sull'autostrada, quando ammazzarono anche i carabinieri di scorta, non era il cugino dell'assessore ai lavori pubblici di Catania?

«Sì».

E come andiamo generale, con i piani regolatori delle grandi città? E' vero che sono sempre nel cassetto dell'assessore al territorio e all'ambiente?

«Così mi viene denunziato dai sindaci costretti da anni a tollerare l'abusivismo».

Senta generale, lei ed io abbiamo la stessa età e abbiamo visto, sia pure da ottiche diverse, le stesse vicende italiane, alcune prevedibili, altre assolutamente no. Per esempio che il figlio di Bernardo Mattarella venisse ucciso dalla Mafia. Mattarella junior è stato riempito di piombo mafioso. Cosa è successo, generale?

«E' accaduto questo: che il figlio, certamente consapevole di qualche ombra avanzata nei confronti del padre, tutto ha fatto perché la sua attività politica e l'impegno del suo lavoro come pubblico amministratore fossero esenti da qualsiasi riserva. E quando lui ha dato chiara dimostrazione di questo suo intento, ha trovato il piombo della Mafia. Ho fatto ricerche su questo fatto nuovo: la Mafia che uccide i potenti, che alza il mirino ai signori del "palazzo". Credo di aver capito la nuova regola del gioco: si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale, è diventato troppo pericoloso ma si può uccidere perché è isolato».

Mi spieghi meglio.

«Il caso di Mattarella è ancora oscuro, si procede per ipotesi. Forse aveva intuito che qualche potere locale tendeva a prevaricare la linearità dell'amministrazione. Anche nella DC aveva più di un nemico. Ma l'esempio più chiaro è quello del procuratore Costa, che potrebbe essere la copia conforme del caso Coco».

Lei dice che fra filosofia mafiosa e filosofia brigatista esistono affinità elettive?

«Direi di sì. Costa diventa troppo pericoloso quando decide, contro la maggioranza della procura, di rinviare a giudizio gli Inzerillo e gli Spatola. Ma è isolato, dunque può essere ucciso, cancellato come un corpo estraneo. Così è stato per Coco: magistratura, opinione pubblica e anche voi garantisti eravate favorevoli al cambio fra Sossi e quelli della XXII ottobre. Coco disse no. E fu ammazzato».

Generale, mi sbaglio o lei ha una idea piuttosto estesa dei mandanti morali e dei complici indiretti? No, non si arrabbi, mi dica piuttosto perché fu ucciso il comunista Pio La Torre.

«Per tutta la sua vita. Ma, decisiva, per la sua ultima proposta di legge, di mettere accanto alla "associazione a delinquere" la associazione mafiosa».

Non sono la stessa cosa? Come si può perseguire una associazione mafiosa se non si hanno le prove che sia anche a delinquere?

«E' materia da definire. Magistrati, sociologi, poliziotti, giuristi sanno benissimo che cosa è l'associazione mafiosa. La definiscono per il codice e sottraggono i giudizi alle opinioni personali».

Come si vede lei generale Dalla Chiesa di fronte al padrino del "Giorno della civetta"?

«Stiamo studiandoci, muovendo le prime pedine. La Mafia è cauta, lenta, ti misura, ti ascolta, ti verifica alla lontana. Un altro non se ne accorgerebbe, ma io questo mondo lo conosco».

Mi faccia un esempio.

«Certi inviti. Un amico con cui hai avuto un rapporto di affari, di ufficio, ti dice, come per combinazione: perché non andiamo a prendere il caffè dai tali. Il nome è illustre. Se io non so che in quella casa l'eroina corre a fiumi ci vado e servo da copertura. Ma se io ci vado sapendo, è il segno che potrei avallare con la sola presenza quanto accade».

Che mondo complicato. Forse era meglio l'antiterrorismo.

«In un certo senso sì, allora avevo dietro di me l'opinione pubblica, l'attenzione dell' Italia che conta. I gambizzati erano tanti e quasi tutti negli uffici alti, giornalisti, magistrati, uomini politici. Con la Mafia è diverso, salvo rare eccezioni la Mafia uccide i malavitosi, l'Italia per bene può disinteressarsene. E sbaglia».

Perché sbaglia, generale?

«La Mafia ormai sta nelle maggiori città italiane dove ha fatto grossi investimenti edilizi, o commerciali e magari industriali. Vede, a me interessa conoscere questa "accumulazione primitiva" del capitale mafioso, questa fase di riciclaggio del denaro sporco, queste lire rubate, estorte che architetti o grafici di chiara fama hanno trasformato in case moderne o alberghi e ristoranti a la page. Ma mi interessa ancora di più la rete mafiosa di controllo, che grazie a quelle case, a quelle imprese, a quei commerci magari passati a mani insospettabili, corrette, sta nei punti chiave, assicura i rifugi, procura le vie di riciclaggio, controlla il potere».

E deposita nelle banche coperte dal segreto bancario, no, generale?

«Il segreto bancario. La questione vera non è lì. Se ne parla da due anni e ormai i mafiosi hanno preso le loro precauzioni. E poi che segreto di Pulcinella è? Le banche sanno benissimo da anni chi sono i loro clienti mafiosi. La lotta alla Mafia non si fa nelle banche o a Bagheria o volta per volta, ma in modo globale».

Generale Dalla Chiesa, da dove nascono le sue grandissime ambizioni?

Mi guarda incuriosito.

Voglio dire, generale: questa lotta alla Mafia l'hanno persa tutti, da secoli, i Borboni come i Savoia, la dittatura fascista come le democrazie pre e post fasciste, Garibaldi e Petrosino, il prefetto Mori e il bandito Giuliano, l'ala socialista dell'Evis indipendente e la sinistra sindacale dei Rizzotto e dei Carnevale, la Commissione parlamentare di inchiesta e Danilo Dolci. Ma lei Carlo Alberto Dalla Chiesa si mette il doppio petto blu prefettizio e ci vuole riprovare.

«Ma sì, e con un certo ottimismo, sempre che venga al più presto definito il carattere della specifica investitura con la quale mi hanno fatto partire. Io, badi, non dico di vincere, di debellare, ma di contenere. Mi fido della mia professionalità, sono convinto che con un abile, paziente lavoro psicologico si può sottrarre alla Mafia il suo potere. Ho capito una cosa, molto semplice ma forse decisiva: gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi certamente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla Mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati».

Si va a pranzo in un ristorante della Marina con la signora Dalla Chiesa, oggetto misterioso della Palermo del potere. Milanese, giovane, bella. Mah! In apparenza non ci sono guardie, precauzioni. Il generale assicura che non c'erano neppure negli anni dell'antiterrorismo. Dice che è stata la fortuna a salvarlo le tre o quattro volte che cercarono di trasferirlo a un mondo migliore.

«Doveva uccidermi Piancone la sera che andai al convegno dei Lyons. Ma ci andai in borghese e mi vide troppo tardi. Peci, quando lo arrestai, aveva in tasca l'elenco completo di quelli che avevano firmato il necrologio per la mia prima moglie. Di tutti sapevano indirizzo, abitudini, orari. Nel caso mi fossi rifugiato da uno di loro, per precauzione. Ma io precauzioni non ne prendo. Non le ho prese neppure nei giorni in cui su "Rosso" appariva la mia faccia al centro del bersaglio da tirassegno, con il punteggio dieci, il massimo. Se non è istigazione ad uccidere questa?».

Generale, sinceramente, ma a lei i garantisti piacciono?

Dagli altri tavoli ci osservano in tralice. Quando usciamo qualcuno accenna un inchino e mormora: "Eccellenza".

MARIO MORI E LA MAGISTRATURA.

"Ad alto rischio" di Mario Mori e Giovanni Fasanella (ed. Mondadori). "Mario Mori, generale dei Carabinieri. All'opinione pubblica il mio nome probabilmente dirà qualcosa. Evocherà dei ricordi, vicende per certi aspetti anche spiacevoli di cui si è molto scritto sui giornali e parlato nelle aule giudiziarie. La mia, però, è una storia lunga. Da raccontare. E quella di un militare e dei suoi uomini che hanno combattuto per quarantanni terrorismo e mafia. Nei reparti d'eccellenza dell'Arma. E ai vertici dell'intelligence, quei Servizi segreti in Italia sempre così chiacchierati." Scritta con Giovanni Fasanella, questa è la straordinaria storia "professionale" di un uomo che è stato al centro di tutti i grandi eventi italiani. Ufficiale del controspionaggio al SID, il Servizio segreto militare nei primi anni Settanta, nei nuclei speciali comandati dal generale Dalla Chiesa dopo il delitto Moro, comandante della sezione Anticrimine a Roma durante gli anni di piombo, Mori è stato uno dei protagonisti della lotta al terrorismo. A metà degli anni Ottanta è a Palermo, con Falcone e Borsellino, a combattere la mafia; nel 1998 diventa comandante del ROS, il reparto speciale dei Carabinieri, che aveva contribuito a creare. Uscito dall'Arma, dirigerà infine il sisde, il Servizio segreto italiano, che ritrova un ruolo decisivo per la sicurezza nazionale dopo i fatti dell'll settembre. Nel corso della sua lunga carriera ha combattuto il terrorismo, arrestato Riina, messo a punto nuove tecniche d'investigazione, gestito infiltrati, ascoltato pentiti."

La paradossale condizione di un servitore dello Stato, che è riuscito ad arrestare il capo di Cosa Nostra, Totò Riina, che alla fine della carriera viene accusato da quello stesso Stato di essere sceso a patti con la mafia. È la storia del generale Mario Mori:

«Non mi arrendo di certo e voglio andare fino in fondo, abbiamo anche rinunciato alla prescrizione  perchè vogliamo essere giudicati e avere giustizia».

Presentando il libro “Ad alto rischio”, scritto a quattro mani con il giornalista Giovanni Fasanella, su "la vita e le operazioni dell’uomo che ha arrestato Toto’ Riina" (così recita il sottotitolo), il generale Mario Mori affida a poche parole il capitolo non ancora scritto della sua vita, quello che riguarda la vicenda giudiziaria ancora in corso che lo vede coinvolto.

«Ho scritto questo libro perchè io e il mio ex collaboratore Mauro Bino, imputato con me nel processo di Palermo sulla trattativa tra Stato e mafia, non usciremo mai da questa situazione, in quanto per una parte dell’opinione pubblica rimarremo personaggi ambigui: quindi lo dovevo a lui e a tutte le persone che hanno lavorato e rischiato con me», si limita a dire il generale presentando il volume nella sala del Refettorio di palazzo San Macuto: accanto a lui, oltre al coautore, ci sono giornalisti e politici che ne hanno seguito le gesta: Emanuele Macaluso, Giuliano Ferrara, Marco Minniti, Massimo Bordin, Stefano Folli.

Nel libro si ripercorre la storia del generale dei Carabinieri, tra i fondatori del Ros, dagli inizi al Sid fino ai vertici del Sisde, passando per i nuclei speciali del generale Dalla Chiesa dopo il delitto Moro, la sezione Anticrimine a Roma durante gli anni di piombo, le indagini con Falcone e Borsellino a metà degli anni ’80. Nel libro Mori scrive di non essere amareggiato, perchè «servire lealmente lo Stato colpendo interessi consolidati comporta dei rischi” e “si possono pagare dei prezzi anche molto alti. Ci si deve guardare dal nemico e, a volte, a presentarti il conto per i risultati che hai ottenuto sul campo può essere lo stesso Stato al quale hai dedicato una vita».

Crocevia di molti misteri italiani, il generale dei carabinieri Mario Mori ha scritto un libro autobiografico, che si legge come una spy story ma al quale ha affidato il suo grido d'innocenza contro i magistrati di Palermo che lo processano per favoreggiamento della mafia, accusandolo di non avere volutamente arrestato Bernardo Provenzano dopo avere messo le manette a Totò Riina. Del processo nel libro si tace; ma la tesi che attraversa le 149 pagine equivale a una linea di difesa: contro le grandi organizzazioni criminali è necessario adottare strategie «border line», a partire da spregiudicati contatti sotto copertura per indurre l'avversario a fidarsi, e scoprirsi. Strategie che però, con una magistratura non altrettanto flessibile, possono costar care agli uomini dello Stato che le adottano scrive Stefano Brusadelli su “Il Sole 24ore”. Pioniere in Italia di queste tecniche fondate sull'uso di infiltrati fu Carlo Alberto Dalla Chiesa, del quale Mori (nato a Postumia nel 1939, prima al Sid, poi numero uno del Ros e del Sisde), fu allievo. Narrate in prima persona con efficacia giornalistica, il lettore troverà la cronaca di alcune delle più brillanti operazioni compiute dalle forze dell'ordine italiane negli ultimi decenni. A cominciare da quella – e qui davvero pare di stare al cinema – durante la quale a Napoli un ufficiale del Ros, fingendosi un imprenditore corrotto, convoca in un lussuoso albergo esponenti delle ditte legate alla camorra e ai partiti per discutere – sotto l'occhio di una telecamera nascosta – come spartire la torta dei subappalti per la Tav. O l'operazione nella quale il mafioso Giovanni Bonomo, rifugiato a fare il mercante d'arte in Costa d'Avorio (senza trattato di estradizione con l'Italia), viene attirato con la prospettiva di un affare, e arrestato, nel vicino Senegal. E ci sono, naturalmente, gli episodi più controversi. La ricerca di un contatto con Vito Ciancimino per ottenere «informazioni di prima mano» sui piani della mafia, di cui Mori decide di tacere con la Procura nella grave convinzione che «non tutti i pm di Palermo fossero decisi a combattere Cosa nostra». O il rinvio della perquisizione di casa Riina dopo l'arresto del 1993 (oggetto di un altro processo e di un'assoluzione), deciso, sostiene, «perché se fosse avvenuta immediatamente tutte le persone che la frequentavano si sarebbero sentite bruciate». O la mancata cattura nel 2006 del super boss mafioso Matteo Messina Denaro, che il Sisde era riuscito ad agganciare tramite un doppiogiochista, a causa dell'intervento della Procura di Palermo che mette quest'ultimo sotto inchiesta in quanto «non si è fidata». Nelle ultime pagine, un'altra goccia di veleno indirizzata al comando generale del l'Arma: «Io, e credo anche molti altri carabinieri, avremmo gradito non una difesa delle singole persone, ma del Ros». Perché pure alla militaresca consegna del silenzio, evidentemente, c'è un limite.

Mario Mori: "Mi hanno assolto ma non mi basta".

Il generale, prosciolto dall'accusa di aver favorito la latitanza di Provenzano, racconta a Panorama 20 anni di persecuzione giudiziaria. Appena il tempo per una breve vacanza in montagna, ed eccolo di nuovo a Roma, a prepararsi per la «campagna d’autunno», quando a Palermo inizierà il processo sulla cosiddetta trattativa Stato-Cosa nostra. Ma è sereno, Mario Mori, generale dei carabinieri ed ex direttore del servizio segreto civile. Dopo aver già vinto una battaglia contro la Procura di Palermo nel 2006, alla fine del luglio scorso ha incassato una seconda assoluzione, insieme al colonnello Mauro Obinu. Se arriverà anche la terza, ovviamente nessuno può dirlo. Di sicuro, il fondatore del Ros, il Raggruppamento operativo speciale che è stato strumento d’eccellenza nella lotta alla mafia, da anni costretto a difendersi nelle aule di tribunale, è pronto a combattere. Intanto, eccolo nel suo nuovo ufficio con il cronista di Panorama, il giornale cui rilascia la sua unica intervista.

Generale, è ovvio che se lo augurasse. Ma, sinceramente, avrebbe scommesso su questa sentenza?

«Non avevo dubbi che sarebbe finita così, anche se in un processo di mafia c’è sempre un condizionamento ambientale che può indirizzare persino il giudice più corretto e asettico. Dopo più di cento udienze, è emersa tutta l’inconsistenza delle argomentazioni dell’accusa: sì, prevedevo l’assoluzione, ma non la formula».

È la migliore che lei potesse sperare?

«Attendo il deposito della motivazione per capire come i giudici sono arrivati alla sentenza».

Non è comunque privo di significato il fatto che il tribunale abbia disposto l’invio alla procura delle testimonianze dei suoi accusatori, Massimo Ciancimino e Michele Riccio.

«Certo, significa non solo che non li ha ritenuti attendibili, ma vuole che la procura valuti se ci sono anche gli estremi per un procedimento per calunnia nei loro confronti. Comunque, Mauro Obinu e io abbiamo già denunciato Michele Riccio per calunnia».

Tre lustri vissuti sotto tortura giudiziaria: ora come si sente?

«Sotto tortura, sì, è proprio il caso di dirlo. Il mio calvario giudiziario è iniziato formalmente nel 2006. Ma in realtà ero finito sotto tiro già nel 1994, un anno dopo la cattura di Totò Riina. Da allora, sono diventato mio malgrado un personaggio pubblico, criticato, meglio sarebbe dire bombardato, da una certa area ideologica. Siamo nel 2013, l’anno prossimo sarà il ventennale. Sarebbe una bugia se dicessi che non sono provato da questa esperienza. Ma, per carattere, non la do vinta a nessuno. Per assurdo direi che, se questa storia finisse, non saprei più che fare, talmente mi sono immedesimato nella parte. Una battaglia che Obinu e io abbiamo combattuto a viso aperto. Abbiamo rinunciato alla prescrizione, uno dei pochissimi casi nella storia giudiziaria italiana, probabilmente. Ma era doveroso farlo, per imputati di reati connessi all’esercizio della propria professione. Osservo a riguardo che anche questa correttezza istituzionale non ci è stata riconosciuta dai nostri detrattori».

Come ha cambiato la sua vita, questa battaglia?

«Dal punto di vista professionale non ha inciso granché: ero ormai a fine carriera. Quando cominciò il primo processo, nel 2006, avevo praticamente ultimato il mio incarico alla direzione del Sisde, l’allora servizio segreto civile. Sul piano personale mi ha aiutato invece la solidarietà che ho sentito intorno a me. Certo il limo mediatico, con il mio nome dato continuamente in pasto all’opinione pubblica senza la possibilità di poter replicare, ha pesato molto…»

E sul piano familiare?

«In famiglia ovviamente mi hanno sostenuto, mi sono stati tutti vicini».

E nel suo ambiente professionale, nell’Arma cui lei è molto legato, lei ha pagato qualche prezzo?

«Ho avuto la solidarietà ravvicinata di tanti colleghi e dipendenti che non mi hanno mai fatto mancare anche il loro contributo di idee alla mia difesa». 

Colleghi e dipendenti dell’Arma... E i vertici?

«Hanno assunto una posizione di prudente attesa. Che cosa vuole? Le istituzioni in quanto tali sono sempre un po’ «matrigne» nei confronti dei loro figli che incappano in qualche incidente di percorso».

Perché?

«Difesa dell’ufficio, della funzione. Ma lo capisco. Sono stato a capo di un'istituzione e in talune circostanze mi sono comportato in modo analogo».

Dopo la sua assoluzione, è cambiato l’atteggiamento?

«Non saprei… Sono una persona piuttosto spigolosa. Molti probabilmente hanno paura di telefonarmi perché sanno che li manderei a quel paese».

Ma c’è mai stato qualche momento in cui lei si è sentito completamente solo?

«Il rapporto tra la mia posizione e il mondo esterno è sempre stato molto lineare. C’erano i favorevoli e i contrari, come sempre avviene in Italia, il Paese delle tifoserie. Quello che però mi ha offeso profondamente è stato il pregiudizio. Gran parte dell’opinione a me contraria lo era in modo acritico: quanto fango lanciato senza conoscere i fatti!»

Ne è sorpreso?

«È stata una scoperta, sì. Mi ha profondamente offeso in particolare l’atteggiamento della stampa e della politica».

La stampa?

«La stampa, certo. Non ha seguito correttamente il processo, tranne rare eccezioni. I grandi quotidiani non inviavano quasi mai i loro cronisti. Ai dibattimenti c’erano costantemente solo i giornalisti delle agenzie. Poi, però, l’indomani leggevi resoconti molto dettagliati, soprattutto quando l’udienza sembrava più favorevole all’accusa. La gran parte dei giornali ha sposato acriticamente le tesi dell’accusa, senza quasi mai riportare quelle della difesa».

E la politica?

«Mi hanno offeso le posizioni assunte da persone che stimo e da cui non me lo sarei mai aspettato».

Qualche nome… Se la sente di farlo?

«L’onorevole Giuseppe Pisanu, per esempio. E Walter Veltroni. Da loro mi aspettavo giudizi più distaccati e sereni. Pisanu è stato presidente della commissione parlamentare Antimafia».

Si riferisce alla sua relazione finale, licenziata qualche mese prima della sentenza?

«Non posso accettarla, quella relazione! Ha scaricato su un semplice colonnello dei carabinieri, qual ero io all’epoca dei fatti, tutto il peso di una vicenda che, se fosse stata come da lui descritta, aveva aspetti penalmente rilevanti e non poteva non coinvolgere personalità che stavano più in alto, molto più in alto. Sia politiche che istituzionali».

C’è stato invece qualche gesto che l’ha sorpresa positivamente?

«Le telefonate di molti magistrati dopo la sentenza di assoluzione. Ma non le farò i nomi».

Un’indicazione geografica, almeno?

«Telefonate ricevute da ogni parte, dalla Sicilia alla Lombardia».

Piemonte?

«No, Piemonte no».

Torniamo al processo. Diceva dell’inconsistenza delle ipotesi accusatorie…

«L’accusa non è riuscita a prospettare ipotesi plausibili in relazione ai fatti accertati».

Favoreggiamento per il ritardato o il mancato arresto di Bernardo Provenzano. Di questo lei era accusato.

«Mi sono difeso contestando ogni accusa con i documenti. Solo una persona innocente può portare la propria difesa sui fatti, perché i fatti parlano da soli. Durante il dibattimento ho reso una serie di dichiarazioni spontanee che hanno documentato la mia innocenza». 

Ha capito perché lei e suoi ufficiali del Ros siete da 20 anni sotto attacco giudiziario?

«Considerazioni più ponderate potranno essere fatte solo tra qualche anno, quando certe situazioni si saranno decantate, e la vicenda sarà meno calda e sensibile».

Un’interpretazione, almeno, di quello che è accaduto?

«Questi processi sono conseguenza di una funzione della magistratura che si è enormemente dilatata, perché non è più limitata al campo specifico della attenta applicazione della norma, ma si inserisce nel contesto politico-sociale, spesso condizionandolo».

Secondo lei questa azione della magistratura avviene in buona fede?

«Bisogna riconoscere la buona fede a tutti. Mi correggo: quasi a tutti. E mi fermo qui, per ora».

La sua famosa inchiesta dei primi anni Novanta su mafia e appalti, quella che le aveva affidato Giovanni Falcone, è per caso all'origine delle sue disavventure giudiziarie?

«Diciamo che è stata una discriminante, per un certo tipo di contesto. Il conflitto che si è creato tra il Ros e una parte della magistratura palermitana e il danno che ne è derivato nell’attività investigativa sono stati certamente ben visti da una parte della società siciliana. Mi riferisco a quella zona grigia al confine tra politica, economia e mafia».

Col senno di poi, avrebbe attenuato certe sue posizioni critiche sulla Procura di Palermo?

«Io ho il carattere che ho. E anche certi magistrati hanno il loro caratteraccio. Se ci fossero state meno spigolosità, certe fratture forse si sarebbero sanate. Tuttavia, su un punto insisto: il metodo investigativo che attaccava il potere mafioso attraverso l’ambito economico, cui Falcone e il Ros si ispiravano, è ancora oggi il più efficace nella lotta a Cosa nostra: non ha alternative altrettanto valide».

Le accuse contro di lei si basavano in gran parte sulle dichiarazioni di Massimo Ciancimino. A che cosa puntava il figlio di don Vito?

«Voleva salvare il salvabile dei beni di famiglia, sfruttando documenti che gli aveva lasciato il padre adattandoli e interpretandoli a suo modo».

Eppure, Ciancimino jr era stato elevato addirittura a «icona dell’antimafia». Perché?

«Il personaggio è stato sfruttato senza valutarne il reale peso specifico, per pure ragioni strumentali o di cassetta. E lui è riuscito a cogliere gli interessi anche di tipo ideologico di settori dell’informazione, e li ha assecondati. Da un lato passava notizie finalizzate a colpire personalità istituzionali; e dall’altro forniva ai giornalisti argomenti che confermavano certi loro teoremi sul rapporto Stato-mafia. La verità è che Ciancimino jr e i suoi sostenitori si sono usati a vicenda».

L’effetto di quelle campagne, a parte le sue disavventure giudiziarie?

«Si è attenuata l’attività investigativa di uno dei reparti di eccellenza impegnati nella lotta alla mafia, il Ros. Questo è stato il risultato. E qualcuno, in Sicilia, ne è stato molto contento. Non mi riferisco alla magistratura, ovviamente. Ma alla zona grigia di cui ho parlato prima».

Lei è già stato assolto in due processi. Ma ora dovrà affrontarne un terzo, quello sulla trattativa Stato-mafia: peseranno le prime due sentenze, a lei favorevoli?

«Lo capiremo solo quando saranno depositate le motivazioni della sentenza. Tuttavia, il terzo processo, almeno per il 70 per cento, è stato costruito sulla documentazione del secondo. Io sono ritenuto l’anello di congiunzione tra mafia e politica nell’ambito della trattativa. E io sono stato assolto per ben due volte dalle accuse rivoltemi».

Restano tuttavia molte ombre su quello che accadde in Italia tra il 1992 e il 1993…

«È ancora troppo presto per dire cose concrete. Di sicuro, nel tempo, c’è stata una lunga correlazione tra la politica siciliana e la criminalità mafiosa, sin dal Risorgimento. Ma non necessariamente erano contatti diretti. C’era, diciamo così, una reciproca conoscenza tra le due parti: una sapeva qual era l’interesse dell’altra, e cercava in qualche modo di assecondarla».

Un rapporto storico, che andò in crisi dopo la fine della Guerra fredda. Ci fu una trattativa per rinegoziarlo?

«Non so se ci fu una trattativa: se ci fu, io non ne sono a conoscenza. Comunque, non credo che, se c’è stata, sia avvenuta intorno al famoso 41 bis (il regime penitenziario per i mafiosi, particolarmente severo): su 324 «ammorbidimenti» del carcere duro, poco più di una ventina riguardavano mafiosi e nessuno era un boss di rango. Se qualcosa è successo, è avvenuto a livelli altissimi».

Generale, mentre si prepara per il terzo processo, lei ora di che cosa si occupa?

«Con alcuni amici abbiamo avviato un’attività di tipo pubblicistico. Abbiamo aperto un portale informatico di geopolitica, economia e sicurezza, Lookout news , rivolto principalmente al campo internazionale. Facciamo analisi di situazioni, prepariamo report su aree di crisi e approfondimenti su temi specifici. Abbiamo già circa 12 mila visitatori che ci seguono costantemente da tutte le parti del mondo. E presto vorremmo realizzare il portale in una o più lingue».

Una volta lei disse: «Non finisce qui». Ha ancora qualche sassolino da togliersi dalle scarpe?

«Ci sto pensando, non è escluso che lo faccia. La vicenda Mori-Obinu è emblematica di un’Italia che non va bene. Per niente!»

IL VENTO DELLA SECESSIONE GRADITO A COSA NOSTRA ED ALLA MASSONERIA DEVIATA.

Secessione, ali stragiste di Cosa nostra e ‘ndrangheta: per paradosso con la massoneria deviata partner (non richiesti) di Bossi, scrive Roberto Galullo su “Il Sole 24 ore”. E’ scattato nuovamente l’allarme per possibili attentati contro obiettivi sensibili di Palermo: il Palazzo di Giustizia, la squadra mobile e magistrati e uomini delle Forze dell’Ordine e della società civile che negli ultimi hanno continuato con atti e fatti a togliere l’ossigeno a Cosa Nostra. Le informative raccontano quanto noto agli addetti ai lavori: l’ala stragista (ancora viva) vorrebbe ricavalcare l’onda di 18 anni fa e tornare a fare la voce grossa con attentati clamorosi. Nessuno mi toglierà dalla testa che se questo è, lo si deve a una duplice volontà della mafia siciliana: allontanare la verità da quelle stragi (su cui sta scavando tra mille difficoltà anche la Procura di Caltanissetta) ma soprattutto ricercare un nuovo equilibrio con la politica e con le Istituzioni. Con un obiettivo che a me pare chiarissimo: la secessione, che sarebbe benvenuta. Cosa Nostra fiuta ciò che gli altri neppure avvertono e per me ha fiutato non tanto le difficoltà di Sua Onnipotenza Psico-Fisica di Arcore (quelle son tutte da dimostrare) e dunque la necessità di prepararsi a nuovi equilibri politici, quanto il vento di secessione che la funesta e funerea Lega Nord continua a far spirare più forte di sempre, anche se si ammanta di una verginità federalista del tutto inesistente. Un vento che fa godere le mafie (giustamente dal loro punto di vista criminale) e che fa godere Bossi (che però sbaglia a godere). Ora molti di voi si chiederanno: ma che c’azzecca Cosa Nostra con la secessione? C’azzecca da sempre. Da sempre, cioè, l’ala indipendentista di Cosa Nostra ha ispirato (e ispira) modelli e movimenti politici che fanno dell’indipendenza dell’Isola un lungimirante cavallo di battaglia per meglio governare i propri traffici (ovviamente non mi riferisco all’indipendentismo politico storico, a esempio quello marchiato Andrea Finocchiaro Aprile, tanto per capirci, che aveva radici culturali e storiche di ben diversa valenza). Il 21 marzo 2001 la posizione di Licio Gelli, Stefano Menicacci, Stefano Dalle Chiaie, Rosario Cattafi, Filippo Battaglia, Salvatore Riina, Giuseppe e Filippo Graviano, Nitto Santapaola, Aldo Ercolano, Eugenio Galea, Giovanni Di Stefano, Paolo Romeo e Giuseppe Mandalari fu archiviata dalla Procura di Palermo. Tutti erano indagati (il pm che chiese l’archiviazione constatò che erano scaduti i termini per le indagini preliminari) per aver “promosso, costituito, organizzato, diretto e/o partecipato ad un’associazione, promossa e costituita in Palermo anche da esponenti di vertice di Cosa Nostra, ed avente ad oggetto il compimento di atti di violenza con fini di eversione dell’ordine costituzionale, allo scopo - tra l’altro - di determinare, mediante le predette attività, le condizioni per la secessione politica della Sicilia e di altre regioni meridionali dal resto d’Italia, anche al fine di agevolare l’attività dell’associazione mafiosa Cosa Nostra e di altre associazioni di tipo mafioso ad essa collegate sui territori delle regioni meridionali del Paese. Fatti commessi in Palermo (luogo di costituzione e centro operativo della associazione per delinquere denominata Cosa Nostra) ed altre località, in epoca anteriore e prossima al 1991 e successivamente”. Le posizioni di Gelli, Menicacci, Delle Chiaie, Cattafi, Battaglia, Di Stefano e Romeo, furono archiviate anche per quanto riguarda l’accusa di aver progettato ed eseguito un programma di eversione dell’ordine costituzionale, con lo stesso scopo sopra descritto.

L’ARCHIVIAZIONE DEL 2001

Sono andato a rileggermi gli atti di quell’archiviazione. A pagina 13 il pubblico ministero osservava che : “I nuovi soggetti politici, consistenti in varie leghe meridionali da aggregarsi poi in un’unica Lega meridionale, avrebbero dovuto agire in sinergia con la Lega Nord, movimento allora emergente e in grande crescita, che perseguiva da anni un autonomo progetto politico accentuatosi in quella fase storica in direzione del secessionismo di alcune regioni del settentrione. La creazione di uno Stato autonomo nel Sud con prerogative di sovranità avrebbe consentito di monopolizzare la gestione politica degli interessi economici leciti e illeciti, trasformando questa parte del paese in una sorta di zona franca, governata da soggetti espressione del sistema criminale. Per utilizzare le parole di uno dei collaboratori, venuto a conoscenza di parti significative di tale progetto, sono anni in cui Cosa Nostra e i suoi referenti progettano di “farsi Stato”, ritirando la delega per la tutela dei propri interessi a settori del mondo politico rivelatisi inaffidabili, con l’intenzione di gestirli direttamente, tramite proprie creature politiche”.

IL RUOLO DELLA MASSONERIA DEVIATA

Alle pagine 128 e 129 si legge che: “…la Lega delle Leghe del gruppo gelliano, dunque, non si presentava come movimento antagonistico della Lega del Nord ma, anzi, ne faceva proprio il programma e i contenuti ideologici, presentandosi come l’attore politico in grado di pilotare al Sud il programma di divisione dell’Italia in macroregioni. Il progetto finale, come si è accennato, era quello della divisione del paese in due o tre macroregioni, con statuti di Stati autonomi, in un Italia federata destinata a perdere la propria identità nazionale e ad essere attratta al Nord sotto l’influenza della Europa del Nord e al Sud sotto l’influenza dei paesi del Nord Africa (Libia). Ed è ben comprensibile che tale progetto facesse gola anche alle organizzazioni criminali. La frammentazione del paese in stati federali avrebbe consegnato il Sud all’egemonia del sistema criminale, e ciò anche grazie anche alla regionalizzazione del voto e all’introduzione del sistema uninominale che esaltavano le potenzialità di condizionamento delle votazioni da parte delle organizzazioni mafiose e delle lobbies  criminali”.

IL BENESTARE DEI CALABRESI

Gli accordi stipulati tra Cosa Nostra e ‘ndrangheta calabrese su un’analoga strategia avente obiettivi destabilizzanti al fine di realizzare la secessione della Sicilia e del Meridione dal resto d’Italia furono corroborate anche dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia calabresi Filippo Barreca e Pasquale Nucera. Barreca il 12 settembre 1996, nel corso di un interrogatorio, affermò che la regia di tale disegno era da ricercarsi a Milano dove era avvenuto un incontro tra i clan calabresi facenti capo ai Papalia ed esponenti di Cosa Nostra siciliana. Il tutto, ovviamente, con la benedizione della massoneria deviata. Anche il collaboratore calabrese Pasquale Nucera ha riferito di un “piano politico criminale” elaborato dalla criminalità organizzata nel 1991. In particolare, ha dichiarato che il 28 settembre 1991, in occasione della riunione annuale della ‘ndrangheta che si tiene presso il santuario di Polsi, alla quale era presente come rappresentante della famiglia Iamonte, avevano partecipato, oltre ai vari capi della ‘ndrangheta, anche alcuni rappresentanti di famiglie napoletane, esponenti mafiosi calabresi provenienti da varie parti del mondo (Canada, Australia, Francia), tale Rocco Zito, in rappresentanza di “Cosa nostra” americana e un personaggio di Milano, definito come “un colletto bianco” legato alla mafia siciliana e calabrese. Quest’ultimo, in particolare, dopo aver affermato che in Italia ci sarebbero stati degli “sconvolgimenti” (non meglio specificati), aveva rappresentato la necessità di una “pacificazione fra le cosche calabresi, perché i siciliani delle famiglie americane ci tenevano molto per poter meglio realizzare un progetto politico, consistente nella costituzione di un movimento politico di Cosa nostra definito partito degli amici”.

I GIORNI NOSTRI…

Attenzione: quell’inchiesta, nata a seguito della strategia della tensione politico-mafiosa degli anni ‘91/92/93 tramanda ai giorni nostri una fotografia che, nei fini, acquista nuovo vigore alla luce di quanto sta accadendo in Italia (o quel che ne resta). Sugli interessi di Cosa nostra a proseguire sulla strada della secessione non c’è dubbio alcuno. La Sicilia è “cosa loro” nonostante la ribellione di pezzi di società civile e imprenditoria. Così come non c’è dubbio alcuno che molti rantoli della politica siciliana che preme per la creazione di movimenti indipendentisti o largamente autonomisti sono di ispirazione mafiosa. Ma c’è di più, molto di più rispetto a 20 anni fa. Il radicamento affaristico-politico-mafioso di Cosa Nostra al centro e al Nord Italia è un dato di fatto. Così come dati di fatto sono altre due cose: l’equilibrio in tutta Italia con le altre mafie è ormai consolidato (da Fondi a Reggio Emilia, da Modena a Torino, da Genova a Padova, da Roma a Pavia) e si basa quasi sempre sul riconoscimento della supremazia delle cosche calabresi, a partire da quelle onnipotenti della provincia di Reggio. E’ a maggior ragione, dunque, è un dato di fatto incontrovertibile il consolidamento della ‘ndrangheta che non solo domina pressoché incontrastata ma del centro e del Nord Italia ha ormai fatto una roccaforte di affari e scambi di voto. Alla ‘ndrangheta dunque (e alla Camorra casertana) la secessione fa un baffo. Anzi rafforza e fortifica il disegno di un antistato che si fa Stato non solo al Sud ma anche nel resto d’Italia. Un antistato che si fa Stato ancor prima che lo Stato se ne possa accorgere. Quando se ne accorge è sempre (consapevolmente) troppo tardi.

IL RUOLO DELLA POLITICA

Ed ecco che veniamo alla terza, fondamentale componente del processo secessionistico: il ruolo della politica connivente. Se in Campania, Calabria e Sicilia si può in molti casi parlare di simbiosi totale, al Nord il processo di identificazione appare sempre più chiaro. Lasciamo perdere le timide e sconnesse inchieste degli anni Ottanta, Novanta in cui il voto di scambio (soprattutto in Piemonte) si affacciava nell’ignavia della società civile e della Politica (ancora ce n’erano sprazzi con la P maiuscola). Oggi l’inchiesta “Il Crimine”, solo per citare la più nota, testimonia che il connubio con la politica locale e nazionale è realtà. Anzi: Come ho anche scritto sul Sole-24 Ore e come logica vuole, non potremmo certo meravigliarci di scoprire un giorno che anche cellule politiche leghiste siano o siano state vicine alla criminalità organizzata e sono pronto a giocarmi la figurina di Bossi che indicazioni di votare a palate i candidati della Lega a ogni elezione possibile e immaginabile giungano dai boss e dai padrini-padroni di mezza Italia, a insaputa degli stessi candidati, sia chiaro. Così come sono strasicuro che affiliati alla criminalità organizzata frequentino con il fazzoletto verde al collo - a loro insaputa - le sedi dei nobili politici della Lega Nord e che magari in campagna elettorale il loro portafoglio votivo sia particolarmente generoso, senza che magari lo sappiano. Le mafie hanno chiarissimo in testa il fatto che con la Lega bisogna fare i conti e dunque la Lega diventa oggetto del desiderio contaminativo, di amore e blandizie. Il dramma è che anche la Lega Nord crede di poter regolare vittoriosamente i conti con le mafie e se si fa presente che qualche allegro filmino riprende magari per sbaglio supervotati consiglieri regionali lombardi (non indagati, per carità di Dio) in compagnia di “goodfellas” della ‘ndrangheta, fanno spallucce e ruttano improperi.

MILANO CAPITALE TRIPLA: PER LA LEGA, LE MAFIE E LA MASSONERIA DEVIATA

Il paradosso dunque non è più tale e Milano, la Milano di Bossi e della Lega (che non ho mai amato come movimento politico proprio perché ha alla base una miope dissoluzione dello Stato unitario sulle fondamenta di una cosa inesistente come la Padania) è oggi la capitale delle mafie. Non più la capitale di “riserva” rispetto a Caserta, Reggio Calabria o Palermo, ma la vera capitale affaristico-massonico-mafiosa di ‘ndrangheta, Cosa Nostra e Camorra. Oggi la famiglia Papalia (che guarda caso si ritrova in quell’inchiesta archiviata nel 2001 a Palermo) in Lombardia è tra quelle che dettano legge nonostante i colpi ricevuti. Tutte le famiglie delle mafie spingono oggi per la secessione, consapevoli che sarà più facile governare i propri traffici in un tessuto, quello settentrionale, ormai “calabresizzato” e privo di anticorpi. Un affare ancora più semplice se – e anche questo è acclarato, a esempio con i rapporti siciliani dell’89enne Licio Gelli che ha risposto con il silenzio alle domande dei pm Fernando Asaro e Paolo Guido della Dda di Palermo saliti appositamente lo scorso anno a Villa Wanda di Arezzo per interrogarlo -  la massoneria deviata è al fianco di questo progetto che non nasce per dividere l’Italia ma per raddoppiare gli affari. Bossi e compagnia questo lo sanno ma pur di portare a compimento il proprio progetto, sono pronti a correre il rischio. L’inesistente Padania vale il prezzo della mafia anche quando su quell’inesistente nazione di un popolo inesistente le mafie hanno già piazzato i propri uomini e le proprie bandiere? Ma non basta vedere quanto e come le mafie siano ormai transnazionali e se ne fottano dei confini geografici? Non insegna nulla la miopia dell’Europa falsamente unita che non ha una linea univoca di sbarramento alle mafie e neppure scandalosamente una legislazione comune che ad esempio riconosca ovunque l’associazione a delinquere di stampo mafioso o le stesse durissime norme contro il riciclaggio? Ma dove crede di andare Bossi con il “trota” a seguito e i pecoroni verdi a “belare dalle sue labbra”? E’ triste rilevare che l’unica strada percorribile – uno Stato unitario e federato anche nella lotta al crimine organizzato – sia avversata tanto al Sud quanto al Nord. Vuol proprio dire che le mafie sono a un passo dalla vittoria. Arrendiamoci, con o senza un fazzoletto verde al collo e prepariamoci all’eventuale colpo finale delle ali stragiste di Cosa Nostra e ‘ndrangheta, che faranno strame di ciò che resta dell’Italia, mandando all’aria l’attuale assetto politico, che seppur disgustoso è il frutto di un voto ancora democratico, tra un dito medio alzato di Bossi, un cappuccio indossato in una loggia deviata magari di Lamezia Terme e un rutto in un circolo lombardo dove si votano i capi della ‘ndrangheta.

REPUBBLICA DELLE MANETTE: MA NON PER TUTTI.

Csm contro Messineo: “Per colpa sua sfumò cattura di Messina Denaro”. Il magistrato rischia il trasferimento. Secondo il Consiglio superiore della magistratura, inoltre, il capo della Procura siciliana ha avuto rapporti privilegiati con Antonio Ingroia che lo avrebbe condizionato nelle sue decisioni. Una situazione che avrebbe determinato spaccature e incomprensioni negli uffici giudiziari, scrive “Il Fatto Quotidiano”, giornale notoriamente santificante i magistrati.

Mancata cattura di un boss ricercato senza tregua da anni. C’è anche questa “accusa” nella lista degli addebiti che il CSM imputa al procuratore capo di Palermo. Francesco Messineo non avrebbe favorito la circolazione delle informazioni all’interno dell’ufficio e “conseguenza di questo difetto di coordinamento sarebbe stata la mancata cattura del latitante Matteo Messina Denaro” scrive nell’atto di incolpazione, citando l’accusa del pm Leonardo Agueci. Nell’agosto scorso i carabinieri del Ros “interruppero” le indagini per cercare il mafioso trapanese proprio per le polemiche sorte all’interne della Procura di Palermo e dopo un blitz della Polizia, autorizzato proprio da Messineo. Il Ros poi smentì ribadendo che la cattura del padrino di Castelvetrano restava “un obiettivo primario del Ros che continua a svolgere le indagini delegate dalla procura di Palermo con lo stesso impegno”. La decisione di aprire la procedura di trasferimento è passata con il voto favorevole di tutti i componenti della Commissione, ad eccezione del laico del Pdl, Niccolò Zanon, che si è astenuto. Il procuratore di Palermo è stato convocato per il 2 luglio 2013 dalla Commissione: in questa audizione Messineo, con l’assistenza di un difensore, potrà difendersi dalle contestazioni che gli vengono mosse. La Prima commissione del Csm ha diffuso una nota nella quale spiega che la convocazione del magistrato “costituisce l’atto iniziale del procedimento, anche con finalità di garanzia, e ha lo scopo di consentire al magistrato di esporre le sue ragioni”.

“Condizionato da Ingroia che tenne nel cassetto intercettazione che riguardava il capo”. L’alto magistrato rischia il trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale. La prima commissione del Csm ha aperto la relativa procedura, contestandogli inoltre una gestione debole dell’ufficio che non garantirebbe la necessaria indipendenza. L’accusa che viene mossa nei confronti del procuratore di Palermo è anche quella di aver avuto rapporti privilegiati con Antonio Ingroia, già procuratore aggiunto nel capoluogo siciliano e leader di Azione Civile, che lo avrebbe condizionato nelle sue decisioni. Una situazione che avrebbe determinato spaccature e incomprensioni nella Procura palermitana. Dove c’era il “sospetto” che il capo “avesse perso piena indipendenza” nei confronti di Ingroia o che ci fosse comunque con lui un “rapporto privilegiato” (“peraltro successivamente ammesso” dal diretto interessato) che avrebbe determinato un suo “condizionamento”. In questo quadro inserisce anche il fatto che Ingroia tenne per cinque mesi le intercettazioni che riguardavano Messineo, prima di trasmetterle a Caltanissetta. Le intercettazioni in questione, che poi hanno dato luogo all’indagine della procura di Caltanissetta a carico di Messineo archiviata oggi dal gip, risalgono al giugno 2012 e furono “conosciute dal dott. Ingroia presumibilmente sin da allora”. Tuttavia la Procura di Caltanissetta venne “informata soltanto nel novembre 2012, ovvero soltanto pochi giorni prima” che Ingroia “lasciasse l’incarico di aggiunto presso la procura di Palermo”. Ma il magistrato nega: “E’ paradossale: non ho condizionato nessuno né ho tenuto nel cassetto alcunché, come dimostra il fatto che il cognato di Messineo è stato rinviato a giudizio proprio su mia richiesta. Non so se questa iniziativa del Csm mi faccia più preoccupare o sorridere – dice Ingroia all’Adnkronos – la verità è che si tratta di un sorriso amaro. Si profila un possibile trasferimento per incompatibilità di Messineo, la cui serenità sarebbe stata condizionata non dalla mafia ma dal pm antimafia che più a lungo, negli ultimi 20 anni, l’ha combattuta a Palermo. Una cosa davvero curiosa, frutto dei tempi…. Chissà – conclude – se è un caso che questo avvenga adesso nei confronti del procuratore aggiunto, coordinatore del pool che ha indagato sulla trattativa Stato-mafia e del procuratore Messineo che ora ha deciso di partecipare alle udienze di questo stesso processo”. Al procuratore di Palermo viene anche contestato un utilizzo non continuo dello strumento dell’astensione rispetto ad alcune inchieste, come quelle che hanno riguardato il cognato e il fratello dello stesso Messineo. La Commissione ha formulato le sue accuse dopo che nei mesi scorsi aveva ascoltato numerosi magistrati della Procura di Palermo. Dalle loro testimonianze sarebbe emerso anche un clima molto pesante all’interno della Procura legato all’inchiesta sulla trattativa tra Stato e Mafia. “Preferisco non commentare…” dice Messineo, interpellato dall’Adnkronos.

L’indagine di Caltanissetta archiviata, ma Csm contesta rapporto Messineo con indagato. Messineo era già finito nel mirino del Consiglio superiore della magistratura il 26 gennaio 2013 perché il magistrato risultava indagato dalla Procura di Caltanissetta per violazione del segreto istruttorio. Il capo dei pm palermitani era finito nel registro degli indagati per un’intercettazione indiretta. L’alto magistrato sarebbe stato captato mentre parlava al telefono con un dirigente di un importante istituto di credito, che avrebbe chiesto informazioni in merito ad un’indagine in corso. Ed è per questo che la conversazione era stata registrata dalla Dia, che dopo aver ascoltato hanno inviato tutti gli atti alla procura di Caltanissetta, quella competente per le indagini sui magistrati palermitani. La conversazione tra Messineo e il manager, l’ex direttore generale di Banca Nuova Francesco Maiolini, risale al 12 giugno 2012. Maioli, sotto controllo per un’altra indagine condotta dalla Dda, per riciclaggio aggravato, chiede a Messineo spiegazioni su un avviso di identificazione ricevuto e relativo a una indagine per usura. Il gip di Caltanissetta, accogliendo l’istanza della Procura, ha archiviato l’indagine su Messineo. Secondo il Csm la toga invitò il suo sostituto Verzera che indagava per usura bancaria a “soprassedere, in attesa di ulteriori acquisizioni” all’iscrizione nel registro degli indagati di Maiolini, a lui legato da “rapporti di amicizia”. Rapporti continuati anche durante l’indagine della procura di Palermo e così consolidati che Messineo in passato aveva chiesto e ottenuto da Maiolini “un posto di lavoro per suo figlio”.

Intanto la Procura generale della Corte di Cassazione ha convocato per interrogarlo sul "caso Di Matteo". Nei mesi scorsi è stato aperto un provvedimento disciplinare nei confronti del sostituto procuratore della Repubblica di Palermo, Antonino Di Matteo, il pm che rappresenta l’accusa nel processo per la trattativa tra Stato e mafia, per avere rilasciato un’intervista al quotidiano La Repubblica. Messineo e Di Matteo sono stati convocati per il prossimo 27 giugno in Cassazione, proprio lo stesso giorno in cui riprenderà davanti alla Corte d’Assise di Palermo, il processo per la trattativa. Di Matteo è difeso dal collega Sebastiano Ardita e Messineo dal pm Marcello Maddalena. Di Matteo è accusato di avere “ammesso nell’intervista l’esistenza delle telefonate tra l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino e il Capo dello Stato Giorgio Napolitano”. Di Matteo, per il procuratore generale, ha “mancato ai doveri di diligenza e riserbo” nel corso dell’intervista del 22 giugno 2012. In questo modo sarebbe stato leso “il diritto di riservatezza del capo dello Stato” sancito dalla Corte costituzionale dopo il ricorso del Quirinale sul conflitto di attribuzione con la Procura di Palermo. Ed ancora nel giro di poche ore del 12 giugno 2013, oltre alla archiviazione del procedimento a Caltanissetta; oltre all'apertura del procedimento al CSM; Oltre alla convocazione per il caso "Di Matteo, proprio contro Ingroia, considerato colui che ha condizionato il suo ex capo diretto, il pg della Cassazione ha avviato un’azione disciplinare nei confronti di Ingroia, “accusato” di aver proseguito la sua attività politica anche dopo il ritorno in ruolo nella magistratura dopo l’aspettativa per motivi elettorali. L’ex aggiunto, destinato ad Aosta dal Csm perché unica sede dove non era candidato nella sua lista, si era opposto al trasferimento in Valle d’Aosta ma il Tar aveva respinto il suo ricorso. Successivamente il procuratore capo di Aosta lo ha segnalato al Csm perché ancora impegnato in iniziative politiche.

Il burattinaio Ingroia tramava e i boss la facevano franca. Il Csm vuol trasferire il procuratore di Palermo Messineo e accusa: condizionato, il suo pm era il capo ombra. E nel caos è sfuggito il super ricercato Messina Denaro, scrive invece Anna Maria Greco su “Il Giornale”: e cioè quello che gli altri non dicono.

Alla Procura di Palermo, molto impegnata a scoprire trame politiche nella trattativa Stato-mafia degli anni '90 e a chiamare a testimoniare Giorgio Napolitano, per distrazione si sono fatti sfuggire uno dei più pericolosi boss della mafia: Matteo Messina Denaro. Lo dice il Csm, nell'atto di incolpazione con il quale avvia la procedura di trasferimento d'ufficio del procuratore capo Francesco Messineo, per incompatibilità ambientale. La prima Commissione l'ha deciso a larga maggioranza, con l'astensione del laico Pdl Nicolò Zanon. Il 2 luglio il magistrato dovrà difendersi e alla fine dell'istruttoria i commissari decideranno se archiviare la pratica o sottoporre al plenum la decisione finale. A Palazzo dei Marescialli la vicenda di Messina Denaro l'hanno raccontata alcuni pm siciliani, nelle audizioni dei mesi scorsi. In particolare, l'aggiunto Maria Teresa Principato (ex moglie del Pg di Palermo Roberto Scarpinato), con le sue accuse ha messo nei guai Messineo. Ha criticato il blitz di Agrigento, l'estate scorsa, dei poliziotti coordinati dall'aggiunto Vittorio Teresi, perché quell'operazione avrebbe «bruciato» la pista del Ros dei carabinieri per la cattura del superlatitante detto «Diabolik». Ma nelle audizioni è emerso molto di più: un fiume di veleni, spaccature e incomprensioni che dilaniano anche il pool che indagava sulla trattativa. In Procura, hanno detto i pm, il vero capo «ombra» era l'aggiunto Antonio Ingroia. Messineo sarebbe stato condizionato dall'aggiunto, appena finito sotto procedimento disciplinare perché continua a fare politica dopo il rientro in ruolo dovuto al flop alle elezioni. Il procuratore aveva un «rapporto privilegiato» con lui ed «era sorto all'interno della Procura il sospetto» che Messineo «avesse perso piena libertà ed indipendenza nei confronti del procuratore aggiunto Ingroia e del sostituto Sava». Così, la sua guida era «debole», non garantiva ai pm l'indipendenza, né favoriva la necessaria circolazione di informazioni. E proprio un «difetto di coordinamento» avrebbe determinato la mancata cattura di Mesina Denaro. Ingroia, poi, tenne per 5 mesi nel cassetto le intercettazioni che riguardavano Messineo, prima di trasmetterle a Caltanissetta solo poco prima di lasciare Palermo. A gennaio il procuratore è finito indagato per rivelazione di segreto d'ufficio e anche il Csm si è messo in moto. L'accusa era di aver fornito informazioni delicate a Francesco Maiolini, l'ex manager di Banca Nuova indagato per usura bancaria. Per Messineo era un amico, dal quale aveva ottenuto «un posto di lavoro per suo figlio» e si spese per lui, invitando il suo sostituto Verzera che indagava sull'usura bancaria a «soprassedere, in attesa di ulteriori acquisizioni» all'iscrizione di Maiolini nel registro degli indagati. Sembra una beffa, ma sempre ieri il gip nisseno ha archiviato la posizione del procuratore. Ma il Csm va avanti. «Alcune relazioni con soggetti titolari del potere economico e politico locale - scrive -, pur senza integrare forme di illecito, sembrano caratterizzate da modalità improprie o comunque inopportune per un procuratore della Repubblica». Pesa anche il fatto che Messineo non si sia sempre astenuto come doveva quando si trattava di atti che riguardavano procedimenti, tuttora pendenti, sul fratello, il cognato e Banca Nuova. Non ha seguito, per il Csm, «criteri coerenti» e il suo comportamento ha determinato «perplessità» tra gli stessi collaboratori.

Come una scheggia impazzita. Due colleghi di Panorama sono stati condannati al carcere per aver pubblicato un articolo in cui si raccontava la politicizzazione, in un clima di veleni, della procura di Palermo, quella di Ingroia per intenderci. Ora che la verità sta venendo a galla, come la mettiamo? Si chiede Alessandro Sallusti  su “Il Giornale”. Due colleghi di Panorama, il direttore Giorgio Mulè e Andrea Marcenaro, sono stati condannati al carcere per aver pubblicato un articolo in cui si raccontava la politicizzazione, in un clima di veleni, della procura di Palermo, quella di Ingroia per intenderci. Quel Pm e quel giudice che hanno chiesto e concesso le manette dovrebbero leggere, per poi ingoiarlo, chiedere scusa e dimettersi, il documento con cui il Csm ha messo ieri sotto accusa il procuratore di Palermo, Francesco Messineo. C'è da rabbrividire, in confronto l'inchiesta di Panorama è stata una carezza. Messineo, secondo i colleghi del Csm è uomo debole, succube del sottoposto Ingroia che lo manovrava a suo piacimento. Si parla di fughe di notizie pilotate, di intercettazioni imbarazzanti su Messineo che Ingroia ha imboscato, di tempo speso a inseguire teoremi politici a scapito della lotta alla mafia, tanto da fare fallire la cattura del nuovo capo dei capi Matteo Messina Denaro. È anni che noi del Giornale sosteniamo la tesi della giustizia politicizzata a Palermo (e non solo) e per questo siamo stati oggetto di ogni genere di angherie: campagne mediatiche per delegittimarci da parte della cricca di colleghi (Travaglio e soci) che ha tenuto bordone a questa sorta di associazione segreta e deviata, condanne a risarcimenti milionari e più di recente alla galera. Ora che la verità sta venendo a galla, come la mettiamo? Qualcuno ci restituirà soldi ed onore? C'era, e c'è tuttora, uno Stato nello Stato che non si capisce a chi risponde. A Palermo, come a Milano e Napoli, le procure e i tribunali sono fuori controllo, che è altra cosa da una sana indipendenza. Molti Pm hanno goduto, e godono, di protezioni politiche e mediatiche che li hanno fatti apparire come eroi del diritto e unici paladini della Costituzione quando in realtà si tratta solo di servitori dello Stato infedeli al servizio di chi, dentro e fuori il Paese, vuole sovvertire la volontà popolare. Di loro ci mettono solo megalomania e spocchia figlie di un'impunità totale che hanno ottenuto con il ricatto e l'inganno. Pensavano di mettere le mani pure sul Quirinale, coinvolgendo Napolitano in una delle tante patacche spacciate per verità giudiziarie. Hanno esagerato e ora pagano. Spero che questo da oggi accada anche di fronte ai loro soprusi nei confronti di comuni cittadini e di chi ha osato, come noi e i colleghi di Panorama, svelare i loro altarini e criticare il loro modesto lavoro.

Filippo Facci su “Libero Quotidiano” scrive: «Cominciamo col ricordare che i colleghi di Panorama Riccardo Arena e Andrea Marcenaro e Giorgio Mulè, pochi giorni fa, sono stati condannati al carcere (gli ultimi due senza sospensione della pena, come Sallusti) solo perché avevano evidenziato gli stessi snodi sui quali ora indaga nientemeno che il Csm: divisioni all’interno della procura di Palermo, una cattiva circolazione delle informazioni all’interno dell’ufficio, un’eccessiva e condizionante vicinanza tra il procuratore capo e Antonio Ingroia, un difetto di coordinamento che oltretutto avrebbe portato alla mancata cattura del latitante Matteo Messina Denaro. La prima commissione del Csm indaga su questo e altro: e per Francesco Messineo, il capo della procura ritenuto troppo sdraiato su Ingroia, si ipotizza perciò un trasferimento che suonerebbe beffardamente come una nemesi rispetto ai pasticci combinati alla procura di Palermo in tutti questi anni. Impossibile non notare, infatti, che il processo sulla trattativa pare ormai sgonfiato e amorfo mentre la morale «politica» è che l’uomo delle famose intercettazioni fantasma, Giorgio Napolitano, è nientemeno che al Quirinale, mentre il suo grande accusatore,  Ingroia, è finito ad Aosta, anzi: è a spasso, questo dopo una clamorosa scoppola elettorale e in attesa di un’azione disciplinare per aver proseguito l’attività politica da magistrato. Impossibile non notare, pure, come le accuse rivolte via via dalla procura a veri eroi dell’antimafia (quelle a Sergio De Caprio, alias Capitano Ultimo, e al generale Mario Mori, imputati d’aver favorito la fuga di celebri latitanti) in definitiva sia svaporata nel nulla mentre l’unica incolpazione rimasta in piedi, ora, è quella mossa dal Csm a Messineo: aver fatto sfumare la cattura del latitante numero uno, Messina Denaro. E questo per un «difetto di coordinamento all’interno dell’ufficio della procura», parole testuali del pm Leonardo Agueci. Il fatto risale all’agosto scorso: i carabinieri del Ros dovettero interrompere la ricerca di Messina Denaro dopo un blitz della Polizia autorizzato da Messineo. Ora il procuratore Capo dovrà fronteggiare accuse decisamente pesanti, benché - certo - la sua convocazione del 2 luglio 2013 al Csm «costituisce l’atto iniziale del procedimento, anche con finalità di garanzia». Si dice sempre così. Negli ultimi mesi la prima Commissione del Csm ha ascoltato numerosi magistrati della Procura di Palermo, dunque i fatti contestati sono tanti e circostanziati, alcuni rilevanti e altri meno. Dalle testimonianze emerge comunque un clima molto pesante  soprattutto in relazione alla solita inchiesta sulla presunta trattativa tra Stato e mafia, mentre tra i rilievi più rumorosi e al tempo stesso scontati c’è quello che riguarda rapporti privilegiati di Messineo col procuratore Ingroia che avrebbe sin troppo condizionato il procuratore capo nelle sue decisioni, soprattutto per quanto riguarda la discutibile (leggi: scandalosa) gestione del testimone Massimo Ciancimino. Nell’atto d’incolpazione, il che è più grave, si legge anche del «sospetto» che Messineo «avesse perso piena indipendenza» per via del fatto che Ingroia tenne con sé, per cinque mesi, alcune intercettazioni che riguardavano il procuratore capo; intercettazioni che, spedite con grande ritardo a Caltanissetta per competenza, sfociarono in un’indagine su Messineo archiviata solo ieri. Nel dettaglio: le intercettazioni risalgono al giugno 2012 e furono «conosciute dal dott. Ingroia presumibilmente sin da allora», scrive il Csm, tuttavia il medesimo le spedì a Caltanissetta solo nel novembre 2012 e cioè pochi giorni prima di lasciare l’ufficio per buttarsi in politica. Tempistica sospetta? L’autodifesa di Ingroia, ieri, denotava una discreta considerazione di se stesso: «La serenità di Messineo sarebbe stata condizionata non dalla mafia, ma dal pm antimafia che più a lungo, negli ultimi 20 anni, l’ha combattuta a Palermo». Cioè lui. Che non sarebbe lui, al solito, se non adombrasse anche possibili e inquietanti dietrologie dietro l’iniziativa del Csm: «Chissà se è un caso che questo avvenga adesso nei confronti del procuratore aggiunto, coordinatore del pool che ha indagato sulla trattativa Stato-mafia, e del procuratore Messineo che ha deciso di partecipare alle udienze del processo». No. Certo che non è un caso. O meglio: è il caso Ingroia-Messineo (e Procura di Palermo in generale, destinata quasi d’ufficio a non essere normale) ed è ciò che forse ha rappresentato un caso limite anche in seno alla magistratura: la classica goccia che ha fatto debordare un vaso che pure lo stesso Csm aveva acconsentito a riempire. Come se, ormai aliena ai moniti e ai condizionamenti della politica, la magistratura stesse infine facendo le pulizie di casa. Da sola.»

LE PRIMEDONNE DELL’ANTIMAFIA.

«Una persona che ha la coscienza pulita, a cosa può andare incontro? Io nell'insediarmi al Senato ho parlato di casa trasparente, e la mia nuova funzione istituzionale veniva sporcata, opacizzata da queste parole che è difficile contrastare nella loro genericità». Queste le parole pronunciate dal neo presidente del Senato, Pietro Grasso, durante la trasmissione «Piazzapulita» su La7 di lunedì 25 marzo 2013 interamente dedicata alle «risposte» di Grasso a Marco Travaglio. «Sentendo le parole di Travaglio ho capito che quello era l'inizio di qualcosa che sarebbe continuato - ha detto Grasso - Venivano strumentalizzate cose passate della mia carriera per attaccare il presidente del Senato, utilizzando tutto quello che da una vita mi sono sentito contestare». «Non si possono estrapolare fatti singoli per sporcare la credibilità di una persona - ha proseguito Grasso rispondendo alle domande del giornalista Corrado Formigli -. Nella Procura di Palermo si diceva ci fossero veleni, ma in realtà c'era una dialettica interna sulle indagini. Mi è stato contestato di aver archiviato l'indagine su Schifani, ma dagli atti si può vedere che un'indagine sulla stessa persona era stata archiviata anche da Caselli, così come è avvenuto nel 2012». Grasso ha risposto anche alle accuse di Travaglio di essere stato nominato procuratore sulla base di una legge incostituzionale fatta per affondare Giancarlo Caselli. «C'è stato un momento in cui il Csm avrebbe potuto deliberare prima che la legge Castelli fosse promulgata - ha detto Grasso - C'è una ricostruzione che ha bisogno di essere rivisitata ci sono due livelli: il primo è quello di una legge che ho sempre riconosciuto contro Caselli, fatta per bloccare Caselli, ma c'è stato un momento in cui il Csm avrebbe potuto deliberare sui vertici antimafia prima che l'ordinamento dell'allora Guardasigilli Castelli fosse promulgato». Tra le accuse di Travaglio a Grasso anche quella di non aver firmato l'appello per il processo Andreotti. «Io ero stato testimone in quel processo - ha detto Grasso - Ero stato sentito in istruttoria proprio da Scarpinato ed essendo diventato testimone la mia firma sull'appello avrebbe impedito la chiamata come testimone nel successivo grado di giudizio». «L'accusa di poter essere colluso con il potere, di cercare il contatto, di fare l'inciucio è la cosa che mi ha fatto più male ha detto ancora Grasso - Di aver ottenuto leggi a mio favore: io non ho mai richiesto niente a nessuno e nessuno ha chiesto mai niente a me». L'ex capo dell'Antimafia ha quindi parlato anche dei «processi gogna». «Lavorare in questo modo è tra l'altro incostituzionale - ha detto il presidente del Senato - Ci sono stati molti processi spettacolari che hanno portato ad assoluzioni. Ma non faccio nomi, non sarebbe elegante...». La polemica col vicedirettore del «Fatto» era nata durante il consueto intervento di Travaglio a «Servizio Pubblico» il giovedì precedente in cui aveva ricostruito le vicende relative alla nomina di Grasso a procuratore nazionale Antimafia, una nomina «segnata» - secondo Travaglio - da tre leggi votate dalla maggioranza di centrodestra che hanno fermato la candidatura a quell'incarico di Gian Carlo Caselli. L'ex procuratore nazionale antimafia ha spiegato anche di essersi deciso ad intervenire perché le parole usate dal vicedirettore del Fatto avevano avuto sulla moglie lo stesso effetto delle minacce ricevute negli anni '80 contro il figlio in occasione del maxiprocesso contro la mafia. «Sentendo le parole di Travaglio ho capito che quello era l'inizio di qualcosa che sarebbe continuato - ha spiegato Grasso - Venivano strumentalizzate cose passate della mia carriera per attaccare il presidente del Senato, utilizzando tutto quello che da una vita mi sono sentito contestare. Io non ho mai reagito perchè ho sempre voluto tenere unita la magistratura. Per me era quasi doveroso sopportare tutto senza reagire, non ho mai minacciato una querela, ma una cosa è la libertà di critica, un'altra è una comunicazione che non informa e sporca soltanto». L'ex procuratore nazionale antimafia ha risposto poi ad una domanda sulla condanna in secondo grado di Marcello Dell'Utri. «Una condanna di un imputato un magistrato non la può considerare una vittoria o una sconfitta – dice - Quello che deve fare riflettere - aggiunge - è che le indagini sono iniziate nel '94 e ancora non si ha una risposta definitiva della giustizia, è un fatto drammatico per il Paese. Io non credo che Dell'Utri scappi ma è precauzione elementare quella dell'arresto - ha precisato ancora Grasso, dicendosi però "meravigliato" - che la notizia sia stata diffusa dalle agenzie di stampa prima ancora dell'eventuale notifica all'imputato». Nel merito poi del suo ruolo all'antimafia, sui presunti contrasti con i Pm, sui cambiamenti fatti nel pool che si occupava della lotta alla mafia, Grasso è stato lapidario: «L'accusa che mi brucia di più è che io abbia fatto inciuci con il potere per avere delle leggi a mio favore». E ha ricordato che la rotazione dei Pm nelle direzioni investigative antimafia è una disposizione "insormontabile" del Csm. «Provai a chiedere una proroga per i pubblici ministeri che operavano a Palermo, ma ricevetti risposte negative dal Consiglio superiore della Magistratura. Chi è che non fa errori? - aggiunge Grasso - certo, ne ho fatti anche io, come quello di non aver preso posizione prima su cose di cui ora mi accusano. Ma non è che si possano imputare tutti gli errori al procuratore. Io mi prendo le mie responsabilità ma non è possibile. E' difficile che io mi imbestialisca - prosegue - ma l'accusa peggiore è quella di poter essere colluso con il potere. Io inciuci con il potere? E' stata terribile l'accusa di aver ottenuto delle leggi a mio favore - sottolinea Grasso - Questa è l'accusa che mi brucia di più. Io non ho ottenuto niente. Ottenere significa richiedere. Io non ho mai chiesto niente a nessuno e per questo nessuno ha mai potuto chiedere niente a me». Così ha commentato la normativa introdotta dal centrodestra che gli ha aperto la strada alla guida della Procura nazionale antimafia, eliminando dalla contesa Giancarlo Caselli. Per quanto riguarda la trattativa Stato-mafia, Grasso ha detto esplicitamente: «Io valuto i fatti. La cosa peggiore è avere delle intuizioni e non poterle provare. Ma sino a quando non ho le prove, io non parlo e non ne parlerò neanche stasera. La trattativa comporta una conclusione con un accordo. Questo forse deve essere ancora pienamente dimostrato. Sono convinto che bisogna cercare la verità, che dobbiamo fare di tutto per trovare la verità. Però forse ci sono ancora cose da scoprire più grosse che non una trattativa che ponga al centro il 41 bis. Forse ci sono ancora cose più gravi da scoprire». Grasso ha anche risposto all'accusa di Travaglio di aver "auspicato" una medaglia antimafia per Silvio Berlusconi. Il presidente del Senato ha ribadito che il governo Berlusconi, a cui partecipava anche Maroni come ministro dell'Interno, aveva fatto alcune cose positive per la lotta alle cosche. «Ma non tutte quelle che avevamo chiesto. Tant'è vero che appena entrato in Senato ho depositato proposte di legge sul conflitto d'interessi, sulla corruzione e sul falso in bilancio. Se qualcuno - come è avvenuto nella trasmissione La Zanzara - mi chiedeva se alcune cose positive per la lotta alla mafia erano state fatte dal governo Berlusconi, non potevo non rispondere che sì. Ho sempre avuto l'onestà intellettuale di riconoscere le azioni positive degli altri. Ma noi chiedevamo anche altre norme che il governo Berlusconi non ha fatto, come sull'antiriciclaggio. La medaglia l'hanno detta loro, riferendosi direttamente alle norme per il sequestro dei beni mafiosi. io ho solo aggiunto “per questa cosa, ma solo per questa”, sì, era giusto. Se si dice una cosa positiva su qualcuno che in questo momento non ha l'appoggio plebiscitario dell'opinione pubblica, - ha concluso Grasso - immediatamente c'è chi paventa un “inciucio". Quello di Grasso è stato un lungo confronto con il conduttore Corrado Formigli, ma non con Marco Travaglio che ha deciso di non andare, motivando la scelta con parole molto dure ed offensive. Piazzapulita, ha spiegato, è "una delle poche trasmissioni in cui io non metterei mai piede per ragioni igieniche".

E’ andato su tutte le furie, il Procuratore capo di Torino Giancarlo Caselli, per quello che definisce il «lunghissimo monologo» in tv del neo presidente del Senato Pietro Grasso, suo successore nel 1999 al vertice della Procura di Palermo. Secondo Caselli, l’ex collega «si è prodotto in allusioni suggestive, con il risultato di prospettare in maniera distorta vari fatti e circostanze afferenti la mia attività di magistrato». Insomma l’ennesima puntata dei veleni di Palermo, nella quale si ritaglia un ruolo anche Massimo Ciancimino, il figlio minore del famoso don Vito, a giudizio per calunnia nel processo sulla trattativa Stato-mafia: «Grasso? Ha beneficiato di tante situazioni, non ha mai toccato i poteri forti». Il comportamento di Grasso, spiega Caselli in una lettera al Csm (in cui chiede di essere «adeguatamente tutelato») è «profondamente lesivo dei miei diritti e della mia immagine, in particolare là dove si insinua che il mio operato sarebbe stato caratterizzato dalla tendenza a promuovere e gestire processi che diventano gogne pubbliche, ma restano senza esiti». «Mentre tutta la mia esperienza professionale — aggiunge il magistrato — si è sempre e soltanto ispirata all’osservanza della legge, al rispetto dei presupposti in fatto e in diritto necessari per poter intervenire e alla rigorosa valutazione della prova». «Segnalo — conclude Caselli — che il comportamento in oggetto risulta, sempre a mio giudizio, ancor più delegittimante nei miei confronti perché tenuto nel giorno stesso in cui veniva pronunziata dalla Corte d’appello di Palermo sentenza di condanna nei confronti di Marcello Dell’Utri, relativa a procedimento avviato dalla Procura quando il sottoscritto ne era a capo». Grasso si è soffermato in particolare su due momenti in cui la sua strada ha incrociato quella di Caselli. Per esempio nel 2005, quando l’attuale numero uno di Palazzo Madama fu nominato dal Csm procuratore nazionale antimafia. Con un emendamento del centrodestra alla riforma dell’ordinamento giudiziario, Caselli fu escluso dalla corsa alla Dna per superamento dei limiti di età. «Dicono che ho ottenuto delle leggi a mio favore: io non ho ottenuto niente — ha detto Grasso —. Ottenere significa richiedere. E io non ho mai chiesto niente a nessuno e per questo nessuno ha mai potuto chiedere niente a me. Caselli se la deve prendere con quei colleghi del Csm che hanno impedito che lui potesse essere nominato». L’altra vicenda risale al 1992, quando, ha ricordato Grasso, «si era creata una situazione pressoché simile» per la nomina a procuratore di Palermo. «Lui (Caselli) non aveva fatto un giorno da pm, aveva grande esperienza sul terrorismo, ma quasi nessuna sulla mafia. Diventa procuratore perché serviva qualcuno che venisse da fuori. Io non ho fatto nulla, pur avendo la possibilità di fare ricorso».

Caselli contro Grasso. La glaciazione dell'antimafia, scrive Gaetano Savatteri. Caselli contro Grasso. Travaglio contro Grasso. Grasso contro tutti. Gaetano Savatteri, inviato del Tg5, che ha raccontato molte volte l'incandescenza della Procura di Palermo, continua la collaborazione con Livesicilia. E ci svela tutto. L’ultima era dell’antimafia è quella della glaciazione. Una cappa di gelo, segnata da sospetti, accuse e polemiche, che anima i dibattiti televisivi e giornalistici, ma che finisce per ricacciare successi, vittorie e conquiste – giudiziarie e sociali – in un perenne l’altro ieri. L’ultimo episodio che vede Marco Travaglio contro Piero Grasso, Piero Grasso contro Marco Travaglio e ora Giancarlo Caselli contro Piero Grasso, segna l’accanimento senza fine sopra una ferita che non si è rimarginata, ma che è rimasta aperta, solo perché si è incancrenita alle basse temperature di uno scontro nato dentro la procura di Palermo e vecchio di quasi un ventennio. La ricostruzione di questo dissidio interno alla magistratura più impegnata nella battaglia a Cosa Nostra sarebbe lunga e difficile. Per riassumere, basta dire che la prima frattura si registra all’indomani delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, quando un gruppo di magistrati sigla una lettera contro l’allora procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco: gli elenchi di chi firmò quella lettera e di chi invece non la firmò evidenziano nel 1992 la spaccatura che già serpeggiava negli uffici giudiziari della procura più esposta d’Italia. Da allora in poi, nonostante le dichiarazioni pubbliche, i momenti di tregua – e un momento di tregua fu il passaggio di consegne tra Giancarlo Caselli e Piero Grasso alla guida della procura palermitana – la storia delle indagini, delle inchieste e della politica giudiziaria degli uffici inquirenti da allora è stata disseminata di scontri tra gruppi, cordate e fazioni. Scontri “metodologici”, si dice, ma dietro i quali ciascuno ha avuto il tempo di consolidare sospetti e avversità verso e contro i propri colleghi della porta a fianco. In questi ultimi giorni, dopo l’attacco a Piero Grasso di Marco Travaglio - il quale ha ripetuto nella trasmissione “Servizio pubblico” cose che già da tempo scrive e dice – e con la reazione forse un po’ troppo istintiva di Grasso di telefonare in diretta e chiedere un confronto televisivo, la ferita si è riaperta. Anzi, ha mostrato di non essere mai chiusa. E così si è svelata la glaciazione dell’antimafia. Sono riaffiorate nel dibattito pubblico, ad esempio, storie che risalgono al 1999 (l’appello contro la sentenza di assoluzione nel processo di primo grado a Giulio Andreotti), al 2005 (la nomina di Grasso alla procura nazionale antimafia, con l’esclusione di Giancarlo Caselli in seguito a leggi contra personam, poi dichiarate incostituzionali), in un rigurgito di memoria mai condivisa, mai pacificata, mai risolta. Ora, non c’è dubbio che la memoria sia un bene prezioso. E quindi i fatti non vanno accantonati né dimenticati. Ma qui siamo oltre la semplice esposizione dei fatti. Qui siamo di fronte a irriducibili e inconciliabili interpretazioni dei fatti, e per giunta di fatti spesso complessi che riguardano procedure, leggi, norme, regolamenti. Lo scontro Travaglio-Grasso, ad esempio, è difficile che abbia smosso qualcuno dei protagonisti dalla propria lettura dei fatti. E la lunga ricostruzione che i contendenti hanno esposto, (e di cui sono prevedibili nuove puntate), è difficile che abbia portato allo spettatore di “Servizio pubblico” e di “Piazza pulita” elementi tali da diradare del tutto i dubbi, a meno di non avere un approccio partigiano a questi argomenti. Semmai, lo sforzo di molti spettatori, compresi quelli che per mestiere o per passione hanno seguito in questi anni le dinamiche interne della procura di Palermo, è stato quello di non piombare dentro una vertigine che comprime i fatti, li riduce a slogan, li frantuma in una serie di sospetti e domande e interrogativi ai quali è complicato dare risposte definitive. L’elezione di Grasso a presidente del Senato ha dato più ampia platea a uno scontro interno alla procura che già era emerso con la contrapposizione tra le candidature di Antonio Ingroia e di Piero Grasso in due formazioni politiche antagoniste. Adesso, la ferita dell’antimafia, profonda e inguaribile, ha avuto ribalta nazionale come mai prima d’ora. Non è una polemica che può trovare approdo. E dopo la lettera di Giancarlo Caselli al Csm e la prossima replica annunciata di Marco Travaglio nel programma di Michele Santoro, si profilano nuovi sviluppi. Lo scenario che ne viene fuori, drammaticamente, continua ad essere quello di un’antimafia che in venti e più anni ha saputo scavare trincee profonde dentro il proprio stesso fronte. Un’antimafia asserragliata in uno scontro di posizione, nel quale un giorno qualcuno guadagna un metro per perderlo il giorno dopo. Nel frattempo, alcuni magistrati hanno scelto la politica, altri hanno lasciato Palermo, altri hanno lasciato la magistratura. Ma la glaciazione non tiene conto nemmeno di questo. Anzi, ripropone ciascun protagonista di ieri e dell’altro ieri immobilizzato nell’atteggiamento in cui è stato raffigurato o in quello in cui vuole raffigurarsi. L’ascesa di Grasso alla seconda carica dello Stato carica tutto questo di maggiore enfasi, di un’eco sempre maggiore. L’Italia è cambiata e sta cambiando; anche la Sicilia è cambiata e sta cambiando, soprattutto grazie agli ultimi vent’anni di antimafia. Ma il mondo dell’antimafia che appare in tv e sui giornali sembra rimasto sotto i ghiacci a parlare di un passato che torna sempre uguale. Come un’ossessione. Come una trappola del tempo.

Grasso-Caselli, zuffa tra primedonne, scrive Mariateresa Conti su “Il Giornale”. Amati no, non si sono mai amati, al di là dei sorrisi di facciata in occasione delle manifestazioni antimafia. Troppo prime donne, entrambi. Troppo simili come formazione, e infatti si sono contesi la Procura nazionale antimafia. Troppo diversi, nel profondo, come magistrati: l'uno, Gian Carlo Caselli, procuratore capo nella Palermo ferita del dopo stragi del '92, il padre dei processi per mafia alla politica, per tutti quello contro Giulio Andreotti, il processo del secolo finito in flop, imbastiti per lo più con le dichiarazioni dei pentiti; l'altro, Pietro Grasso, già giudice a latere del primo maxi processo a Cosa nostra, clamoroso quanto quello al divo Giulio, procuratore a Palermo subito dopo Caselli, prudente e legato alla scuola del vecchio amico Giovanni Falcone tutta riscontri e prove, che i pentiti servono sì, ma senza prove poi i processi si perdono e Grasso no, non ama perdere. Cova già da una quindicina d'anni lo scontro di oggi. E invece, con una virulenza che fa il paio solo con la guerra istituzionale divampata qualche mese fa tra il Quirinale e la procura di Palermo, la rissa esplode ora, a scoppio ritardato: Grasso non è più magistrato ma presidente del Senato; Caselli è procuratore, della sua Torino. Lo spettacolo che va in scena non è tra i migliori. Da un lato il neo presidente del Senato, che per difendersi dalle accuse di Marco Travaglio, in tv, a Piazza Pulita, spara sugli insuccessi della giustizia spettacolo dei processi politici. Dall'altro il procuratore di Torino, che si riconosce nell'identikit e denuncia la seconda carica dello Stato al Csm, chiedendo al vicepresidente Michele Vietti, di intervenire a sua tutela. Et voilà, lo scontro è servito. Oggi viaggia tra Roma e Torino ma virtualmente abita a Palermo, in quel Palazzo di Giustizia ribattezzato Palazzo dei Veleni sin dai tempi di Giovanni Falcone. A Palermo Grasso, dopo Caselli, non ha avuto vita facile. I «caselliani» non hanno mai potuto soffrire la sua prudenza, il suo «no» ai teoremi senza prove. Un esempio? La vicenda Cuffaro, nel 2004: Grasso fu attaccato perché non volle accusare l'allora governatore di concorso esterno in associazione mafiosa ma di favoreggiamento aggravato. Risultato pratico: dal «concorso esterno» Cuffaro è stato assolto, ma è in carcere a scontare la pena definitiva per favoreggiamento. È, in fondo, la filosofia che Grasso illustra in tv. «Questo tipo di processi, dice a proposito dei dibattimenti politici, citando uno dei suoi maestri, il padre del pool antimafia, Antonino Caponnetto, è sbagliato perché seppur spettacolari sono quelli che portano alle controriforme contro i magistrati, con ritorsioni che danneggiano il funzionamento della giustizia. Pensare a inchieste come una gogna pubblica, efficace perché distrugge una carriera politica, è una deviazione della funzione delle indagini. È anticostituzionale perché la Costituzione dà il potere al magistrato di indagare in funzione del processo». Processi da gogna pubblica? Quali sono, chiede Corrado Formigli. «Ci sono stati, replica Grasso, dei processi che hanno certamente portato all'arresto di imputati che poi sono finiti con assoluzioni. Ma non mi va di fare dei nomi che tra l'altro tutti sanno e conoscono. Non sarebbe elegante...». Il nome non viene fatto. Ma Caselli si riconosce, eccome se si riconosce. «Il presidente del Senato Pietro Grasso, denuncia al Csm, si è prodotto in un lunghissimo monologo contenente accuse e allusioni suggestive, con il risultato di prospettare in maniera distorta vari fatti e circostanze afferenti la mia attività di magistrato. Segnalo che il comportamento risulta ancor più delegittimante nei miei confronti per il fatto di essere stato tenuto nel giorno stesso in cui veniva pronunziata dalla Corte d'appello di Palermo sentenza di condanna nei confronti di Marcello Dell'Utri, sentenza relativa a procedimento avviato dalla procura di Palermo quando il sottoscritto ne era a capo». Di qui la richiesta «di essere adeguatamente tutelato». La lettera, fa sapere il Csm, non è ancora arrivata. Dovrà essere vagliata dal Comitato di presidenza e poi assegnata a una Commissione. Ma questa è la settimana di Pasqua, i lavori sono fermi. Se ne riparlerà ad aprile. E sarà una primavera calda, tra Palazzo Madama e Palazzo dei Marescialli.

Il «duello» Travaglio-Grasso, nel caso, sarebbe solo l’eco lontana di scontro vecchio e soprattutto risolto. L’ha già vinto Grasso, anni fa, ma non contro Travaglio che è solo un tardivo portavoce: contro le vedove caselliane che a partire dal 1999 sono state sconfessate nella politica e nei tribunali, scrive Filippo Facci. Si parla di un’area a cui Ottaviano Del Turco, da presidente dell’Antimafia, nel 2003, attribuì la velleità di «rileggere tutte le vicende del dopoguerra come un unico disegno criminale dentro a cui stanno bombe, terrorismo, brigate rosse, mafia, gladiatori, la Cia, e naturalmente, da ultimo, Berlusconi che si aggira con valigette piene di bombe al tritolo». Pietro Grasso, invece, in un’intervista sempre del 2003, parlò di «persone identificabili in una determinata area culturale e politica che si è sempre distinta per l’aggressività e il cinismo con cui attacca chi non condivide una certa visione della giustizia e dei problemi connessi. Neppure Giovanni Falcone si salvò da questi schizzi di fango». L’area culturale e politica, a Palermo e nei vari avamposti, è perlopiù quella di Magistratura democratica e della varia «antimafia piagnens». Di essa Marco Travaglio è divenuto notoriamente il doberman – non da solo – e perciò e ha sempre avversato colleghi più moderati come lo stesso Grasso o Giuseppe Pignatone, ora procuratore capo a Roma e altro nemico storico di Ingroia. Ora c’è un noto epilogo politico, diciamo: la scelta del Pd di respingere al mittente ogni avance politica di Antonio Ingroia, preferendogli Grasso, non è stata indolore; tantomeno lo è stata la decisione del Pd di difendere Giorgio Napolitano quando il contrasto procedurale tra la procura di Palermo e il Quirinale si fece dirompente. L’esito, per ora, è che Pietro Grasso (detto Piero) è stato eletto ed è già presidente del Senato, col rischio che diventasse addirittura premier; Ingroia, invece, non è neppure stato eletto, la sua Rivoluzione civile ha fatto un bagno, e lui rischia di trasferirsi ad Aosta a indagare sui clan della Fontina. Il veleno di Travaglio contro Grasso, dunque, è roba vecchia ma ridipinta di fresco rancore. È il fiele degli sconfitti, ma nondimeno – sprechiamo l’espressione – una resa dei conti culturale. Pietro Grasso è di Licata. A 14 anni giocò nella Bagicalupo allenata dal 17enne Marcello Dell’Utri e questo è il tratto più malizioso che lo riguarda. Era già magistrato a 24 anni (un «plasmoniano», si diceva all’epoca) e si ritrovò subito a rischiare la pelle nel giudicare il maxiprocesso a Cosa Nostra: 400 boss in un dibattimento istruito dal pool di Falcone e Borsellino. Lui scrisse le motivazioni (8000 pagine) aiutato da uno stormo di giovani uditori tra i quali c’era Antonio Ingroia. Fu consulente della commissione Antimafia e vicecapo agli Affari penali ancora con Falcone. Poi, dopo anni alla Procura nazionale antimafia con Pierluigi Vigna – periodo in cui progettarono di ucciderlo – nel 1999 fu nominato Procuratore capo a Palermo e andò a rappresentare una netta discontinuità con Giancarlo Caselli e i vari Ingroia di complemento. Secondo Travaglio, ciò coincise con una «normalizzazione» della procura. Il che è vero. Grasso, che era della corrente di Movimento per la giustizia (quella di Falcone) fece fuori i caselliani uno alla volta. Tra questi, fermandosi ai cognomi: Lo Forte, Scarpinato, Principato, Teresi, Imbergamo, Musso, Paci, Serra, Ingroia eccetera. Si parla di pm che gestirono processi anche fumosissimi (come il mitico «sistemi criminali», dedito a «massoneria, politica e imprenditoria deviate», affidato da Caselli a Scarpinato nel 1993, roba da far sembrare la «trattativa» un capolavoro di linearità) la maggior parte dei quali sarebbero tutti finiti in nulla. Grasso, in un’intervista dell’agosto 2000, parlò esplicitamente di processi caselliani «capaci di ottenere condanne solo sulla stampa». Altri, più di parte come il forzista Enzò Fragalà, citarono la «gestione strumentale dei pentiti, spese pazze e inutili, le enormi risorse pubbliche messe in campo al fine di costruire e portare avanti teoremi politico-giudiziari finiti come sappiamo, senza peraltro che i geometri abbiamo dovuto scontare alcunché per gli errori commessi». Ho citato un forzista ma è stata una visione condivisa anche a sinistra. Grasso, come suo vice, ripescò Giuseppe Pignatone, che a suo tempo aveva lasciato la procura all’arrivo di Caselli; un moderato anche lui (corrente Unicost) che tra i cronisti era popolare come poteva esserlo uno che aveva mandato ad arrestare i giornalisti Attilio Bolzoni e Saverio Lodato, con l’accusa di peculato. Due pentiti come Brusca e Cancemi lo chiamarono in causa tre volte, ma altrettante la sua posizione fu archiviata. Tuttavia per Travaglio (e Ingroia) ancor oggi è come nominare il demonio: e al tentativo di «mascariarlo», il vice-Ingroia ha dedicato pagine intere. Una grave colpa di Pignatone fu certamente quella di diventare vice di Grasso al posto dei vari caselliani Alfredo Morvillo, Anna Palma o Sergio Lari. Normalizzazione: nel senso che normale, prima, non era niente. Grasso lavorò con avocazioni, redistribuzioni, monitoraggi, non volle la responsabilità degli insuccessi di Caselli (Andreotti, Musotto, Canale, Di Caprio, Mori, Rostagno, Carnevale, Mannino, stragi, ecc.) e prese di mira certe toghe superstar: ma piano, sinuosamente, alla democristiana. Fece un fondo così ai magistrati che si lagnavano perché la scorta gli era stata ridotta, ad altri tolse la seconda auto o i piantoni fuori casa (roba che in Sicilia fa status) e alcuni li fece addirittura lavorare, fottendosene di gerarchie non scritte come quelle che volevano Lo Forte e Scarpinato come grandi pensatori. Torna in mente una proposta di Ingroia e Scarpinato da loro messa nero su bianco su Micromega del 2003: «Sospendere autoritativamente la democrazia aritmetica al fine di salvare la democrazia sostanziale… Nella nuova Costituzione europea bisogna porre il problema degli interventi politici e istituzionali, compreso, come estrema ratio, il commissariamento europeo nei confronti degli Stati membri». Ora saranno contenti, data l’aria che tira. Una circolare del Csm del 1993, comunque, prevedeva che i pm dalla Dda (Direzione Distrettuale Antimafia) scadessero dopo otto anni, ma Lo Forte e Scarpinato pretendevano che la faccenda non li riguardasse perché loro erano procuratori aggiunti. L’ebbe vinta Grasso. Anche Ingroia e Gioacchino Natoli, estromessi allo scadere degli otto anni, riformularono domanda dopo tre: ma Grasso, appigliandosi a un parere del Csm, riuscì a prolungare la loro esclusione per sei lunghi anni. Grasso ebbe la meglio su Scarpinato e Lo Forte – più Ingroia – anche nel suggerire che a Totò Cuffaro, anziché il solito concorso esterno in associazione mafiosa, fosse contestato il favoreggiamento: ed ebbe ragione lui, com’è noto. Si può immaginare, insomma, quanto Ingroia e company amassero e amino Grasso. I caselliani, già ai tempi, scatenarono l’apocalisse e Ingroia lo fece nel suo modo consueto: «Non è una lite tra primedonne», disse, «come non lo furono quelle tra Falcone e i suoi avversari negli anni Ottanta». Mentre Scarpinato, su Micromega, lamentava che stavano estromettendo «quei magistrati che nella procura di Caselli avevano condotto le inchieste più delicate su mafia e politica». Il problema è che Pietro Grasso aveva le regole dalla sua e poco gli importava della sacralità antimafia di questo o quello. Quando tolse a Lo Forte e Scarpinato le inchieste che stavano seguendo, nel luglio 2003, la decisione era già stata avallata dal Csm: ma i due sostituti, secondo Grasso, pretendevano che lui aggirasse la decisione: lo raccontò in un’intervista alla Stampa. Per il resto è vero: Grasso, nel 2000, non controfirmò l’Appello contro Andreotti, che era stato assolto: e non mise neppure il visto di presa visione. Lui naturalmente ha sempre spiegato di non aver sottoscritto il ricorso come conseguenza della «piena autonomia dei sostituti di udienza», e ha detto che la vera ragione è che lui sarebbe stato testimone nel processo d’Appello: ma sa di paraculata. Non ne voleva la responsabilità. Anche perché, in effetti, non era sua. È pure vero che nel 2002, Grasso, nascose ai caselliani la gestione del pentito Nino Giuffrè. Ne aveva diritto. Ascoltò il pentito per tre mesi e ciò portò ad arresti che stroncarono una malavita fattiva e reale nella zona delle Madonie: questo anziché accreditare, da subito, oscuri scenari sulla storia d’Italia. Grasso lo fece anche perché aveva bisogno di verificare l’affidabilità di Giuffrè e di garantire per la sua sicurezza familiare. La vicenda finì al Csm che deliberò così: «Come ha spiegato il dottor Grasso, si è verificata un’incomprensione dovuta alla mancata comunicazione al dott. Lo Forte delle ragioni di prudenza per le possibili fughe di notizie a causa delle costante e pressante presenza di giornalisti negli uffici della procura». In lingua italiana: i verbali di Giuffrè non erano stati mostrati a Lo Forte per evitare fughe di notizie. Un’accusa indiretta e beffarda. Grasso ribadì il concetto sul Corriere della Sera: se non ci sono state fughe di notizie – disse – è perché non ho mostrato i verbali ai pm né a nessuno. Travaglio invece la metterà così: «Muoiono così la filosofia e la prassi del pool, fondate sulla libera circolazione delle informazioni e sulla fiducia reciproca… cala una pietra tombale sulle conquiste di Falcone e Borselino». Erano calate solo le fughe di notizie. Dopodiché certo: Pietro Grasso, detto Piero, fu nominato procuratore nazionale antimafia. E Caselli no. Il terzo governo Berlusconi, con un emendamento, mise fuori gioco Caselli per sopraggiunti limiti di età. Non fece una legge apposita, ne fece tre: una delle quali – dopo che Grasso era già stato eletto – fu giudicata illegittima dalla Corte costituzionale. Tuttavia nessuno può dire che Caselli, senza quella legge, avrebbe vinto: in ogni caso gli sarebbe servito l’appoggio del Csm, che avrebbe potuto benissimo preferirgli Grasso. È quello che ha sostenuto in un’intervista all’Ansa, lunedì, il pm palermitano Giuseppe Fici, che all’epoca era al Csm e visse i fatti in prima persona: «Confermo il convincimento, mio e di tutto il consiglio, che Grasso avrebbe prevalso su Caselli anche senza l’intervento della maggioranza parlamentare. Convincimento fondato sulla proiezione dei voti espressi in Commissione: in favore di Grasso si erano pronunciati il laico di centrodestra e i togati di Unicost e Magistratura Indipendente, con una prospettiva di almeno 14 voti sicuri». Grasso peraltro ne ebbe 18, di voti, con cinque astensioni. Sull’ambiguità di Grasso come personaggio «politico», detto questo, si potrebbero scrivere pagine intere. Nel maggio 2010 dichiarò che la mafia aveva «inteso agevolare l’avvento di nuove realtà politiche che potessero poi esaudire le sue richieste»: e in molti vi lessero un riferimento a Forza Italia. Poco tempo dopo dichiarò che il centrodestra aveva introdotto leggi eccellenti sulla mafia e che il governo Berlusconi era da premio. Aggiunse pure che Ingroia «fa politica utilizzando la sua funzione. È sbagliato, ma per la politica è tagliato». Aveva ragione, ma figurarsi il Travaglio del giorno dopo: «Ingroia è uno dei pm che indagano sulle trattative Stato-mafia, che quando Grasso era procuratore a Palermo erano tabù, e che coinvolsero anche la Banda Berlusconi». Subdolo come suo solito. Persino Massimo Ciancimino, ex cocco di Ingroia e Travaglio, tentò di sputtanare Grasso: e in effetti mancava. Non c’è riuscito Ciancimino e non c’è riuscito nessuno. Non ci riuscirà Travaglio. Resta divertente è che un tratto di Grasso ritenuto imperdonabile, secondo quanto ha scritto Travaglio, è una sua sostanziale impunità nel dire le stesse cose di Ingroia senza suscitare vespai; si trovano dichiarazioni di Grasso contro le leggi governative in tema di giustizia, contro la riforma dei pentiti, contro ogni ipotesi di riforma giudiziaria e antimafia. «Grasso», ha scritto Travaglio, «gode di una straordinaria libertà di parola, può dire ciò che vuole senza che gli piova addosso non solo un’azione disciplinare, ma nemmeno un attacco dei pasdaran berlusconiani… ha il raro privilegio di potersi permettere qualsiasi critica alla politica, senza che nessuno batta ciglio». È vero. Si chiama autorevolezza, o qualcosa del genere. Se da magistrato non ce l’hai, tuttavia, puoi lagnartene in televisione a mezzo Travaglio.

A proposito di Dell’Utri. La condanna di Marcello Dell’Utri (Palermo, 1941) da parte della Corte di Appello di Palermo, dopo l’annullamento di una precedente condanna della Corte di Cassazione, coincide con il ritiro del più grande amico e compagno di avventura di Silvio Berlusconi dell’attività politica e parlamentare. Bisogna ricordare, infatti, che Dell’Utri, divenuto negli anni Ottanta presidente e amministratore prima di Publitalia, quindi amministratore delegato del gruppo Fininvest, è stato nel 1993 il fondatore di Forza Italia con l’imprenditore di Arcore e dal 1996 è deputato al parlamento nazionale, tre anni dopo è parlamentare europeo e, dal 2001 fino al 2013, senatore della repubblica del PDL. Una carriera politica di tutto rispetto “nobilitata” – si fa per dire – dall’attività di raccoglitore di libri antichi e bibliofilo (che l’ex direttore sportivo di piccole squadre, come quella del quartiere Tiburtino-Casal Bruciato del Centro internazionale per la gioventù lavoratrice gestito dall’Opus Dei) svolge con continuità nel ventennio populista a Milano e a Palermo presiedendo biblioteche e circoli culturali (come la commissione per la Biblioteca del Senato) e cercando di intervenire nei dibattiti nazionali. «Non sono contento, non posso esserlo - ha spiegato ancora Dell'Utri ai cronisti - ma sono tranquillo. Del resto le cose non le posso cambiare io. Aspetto le prossime puntate di questo romanzo criminale che non poteva finire qui. La vita va avanti, c'è la trattativa e il resto. Il romanzo continua». E già. Perché comunque si concluda in Cassazione questo processo, spiega Mariateresa Conti su “Il Giornale”, c'è un altro dibattimento, sempre a Palermo, che incombe (inizia a maggio 2013) e che muove i primi passi, quello sulla presunta trattativa Stato-mafia che vede l'ex senatore Pdl tra gli imputati. Tecnicamente, la sentenza, non ha fatto altro che ridefinire la condanna seguendo le indicazioni date dalla Cassazione, che aveva giudicato scarsamente motivata la condanna per il periodo compreso tra il 1978 e il 1982, quando Dell'Utri lasciò Berlusconi per andare a lavorare con Filippo Alberto Rapisarda. Non solo. Pur senza scardinare alla radice il castello accusatorio - così come era sembrato a caldo quando la Suprema corte aveva annullato, perché le considerazioni del pg sulla mancanza di prove e sul reato di concorso esterno erano state tranchant - la Cassazione, per il periodo dal 1982 al 1992, pur ritenendo dimostrati contatti tra Dell'Utri e i clan, aveva chiesto di dimostrare che ci fosse l'intenzione di aiutare la mafia. Si dovranno leggere le nuove motivazioni, ma vista la durezza della condanna - ai 7 anni si aggiunge il pagamento delle spese legali alle parti civili - è evidente che i giudici ritengano di aver trovato una soluzione. Del resto, sui rapporti con Vittorio Mangano (accusato di mafia e morto durante il processo di primo grado), il famoso «stalliere» portato da Dell'Utri ad Arcore per proteggere Silvio Berlusconi che temeva il sequestro di familiari, Dell'Utri non ha mai fatto marcia indietro. Ancora ieri, nelle dichiarazioni spontanee rese poco prima che i giudici si ritirassero in camera di consiglio ha ribadito: «Non ho mai aiutato la mafia ma ho aiutato soltanto a Milano Vittorio Mangano, che era una persona per bene».

TRATTATIVA STATO-MAFIA. PROCESSO ALLO STATO.

Trattativa Stato-Mafia: perché Calogero Mannino è stato assolto. Un'altra batosta per i pm di Palermo: l'ex ministro "non ha commesso il fatto", scrive Anna Germoni su “Panorama” il 4 novembre 2015. Altra batosta per i pm di Palermo: oggi il giudice Marina Pitruzzella ha chiuso il processo-stralcio abbreviato sulla presunta trattativa tra Stato e mafia che aveva come unico imputato l'ex ministro Dc Calogero Mannino, accusato di minaccia a corpo politico dello Stato. Gli altri imputati, ex ufficiali del Ros, politici e capi mafia, vengono invece processati con rito ordinario dalla Corte d'assise di Palermo. Era stato l’ex ministro democristiano a chiedere il processo abbreviato. L’assoluzione di Mannino, che la giudice Pitruzzella ha stabilito non aver commesso il fatto, arriva in realtà dopo ben 23 mesi di processo: secondo i pm (che avevano chiesto una condanna a 9 anni di reclusione) l’ex ministro, temendo per la sua incolumità, nel 1992avrebbe fatto pressioni sui carabinieri del Ros perché avviassero un "dialogo" con i clan. È dal 2006 che i pm palermitani conducono inchieste “matrioska” sui Ros dei carabinieri e sulla presunta trattativa tra boss mafiosi e uomini dello Stato. I giudici finora non hanno mai creduto alle loro accuse. La Procura ha inanellato una serie d’insuccessi: prima con l’assoluzione per il favoreggiamento mafioso per la mancata perquisizione del covo di Riina, a carico del prefetto Mario Mori e del capitano Sergio De Caprio, finita con un’assoluzione divenuta irrevocabile nel luglio 2006. Poi è venuta l’assoluzione in primo grado per gli ex ufficiali dell’Arma, Mario Mori e Mauro Obinu, accusati di favoreggiamento mafioso per la mancata cattura di Bernardo Provenzano, nell’ottobre del 1999 a Mezzojuso (ora il processo è davanti alla corte d’Appello del capoluogo siciliano). E proprio da quest’ultima inchiesta clone, è nato uno dei più grandi e controversi processi nella storia italiana (oltre un milione e mezzo di atti depositati nell’inchiesta), quella della presunta trattativa tra i capimafia e alcuni uomini di Stato, accusati di minaccia a un corpo politico dello Stato, per esser scesi a patti con Cosa nostra, in cambio di un alleggerimento del sistema carcerario duro (il cosiddetto 41 bis) durante la stagione delle bombe del 1992-93. Sul banco degli imputati, i boss sanguinari Salvatore Riina, Antonio Cinà, Leoluca Bagarella, insieme agli ex ministri, Nicola Mancino (accusato di falsa testimonianza ai pm) e Mannino, ai generali Mario Mori e Antonio Subranni, all’ex colonello dell’Arma Giuseppe De Donno, al senatore Marcello Dell’Utri e al superteste Massimo Ciancimino, che ha guai giudiziari in molti Palazzi di giustizia italiani. “I processi penali non sono i luoghi più adatti a ricostruire la Storia. Si fanno con i fatti e per accertare precise condotte penali”. Così si è espresso l’avvocato Nino Caleca, uno dei legali, assieme a Marcello Montalbano dell'ex ministro Mannino. “Andremo avanti, ci opporremo alla sentenza di assoluzione” ha commentando il pm Antonino Di Matteo, titolare dell’inchiesta. Più caute invece le parole del procuratore capo Francesco Lo Voi: “Valuteremo se impugnare la sentenza dopo averne letto le motivazioni”. Segno di una presa di posizione più avveduta, e forse di qualche dissenso all’interno della stessa Procura.

Mannino contro tutti. Dai pm al giornalista "guitto", scrive Riccardo Lo Verso Mercoledì 04 Novembre 2015 su “Live Sicilia”. Più che un'intervista è uno sfogo. Sono durissime le parole dell'ex ministro Dc subito dopo l'assoluzione al processo sulla presunta trattativa Stato-mafia. Mannino contro Di Matteo: "Ha fatto condannare innocenti". Calogero Mannino chiede un po' di tempo per riordinare le idee.Per metabolizzare la notizia dell'assoluzione. Poi, scende dalla sua abitazione e attacca a testa bassa. Ce l'ha con i pubblici ministeri. È chiaro fin da subito: “Io spero che sia stata scritta la parola fine. Certamente è stata scritta su questo atto con una decisione coraggiosa che conferma il mio convincimento. Ho sempre avuto fiducia nella giustizia, non nei pm che rappresentano l'accusa, molte volte in maniera ostinatamente pregiudiziale".

Sta dicendo che da parte della Procura ci sarebbe stato un accanimento nei suoi confronti?

"Non capisco perché lei parla di Procura della Repubblica, dovrebbe parlare di alcuni pubblici ministeri. Allora le dico di sì, c'è stato decisamente un accanimento. La tesi dell'accusa è fantasiosa, l'abbiamo dimostrato. Leggete l'atto di rinvio a giudizio del Gup, lo stesso Morosini (Piergiorgio Morosini, ndr) si poneva il problema delle prove e affidava ai pm l'incarico di dimostrarle. Non avevano prove, perché non ci sono fatti. In questa vicenda io sto da un'altra parte, ho sempre servito lo Stato e la Repubblica con lealtà. Senza la mia azione politica non ci sarebbero stati due fatti importantissimi: il sostegno politico all'iter complesso e travagliato del maxi processo e quello che ha portato Giovanni Falcone alla direzione generale degli Affari penali. Fu una scelta non personale ma di tutto il governo Andreotti, che fece propria la strategia di Falcone".

Cos'è stato allora, un processo politico?

"No, tranne Ingroia che poi è fuggito, questi pm non hanno una dimensione politica, hanno dimostrato di avere delle debolezze, qualcuno per altro è assuefatto alla ostinazione accusatoria. Di Matteo è il pm che ha fatto condannare persone innocenti a Caltanissetta. E nessuno gli chiede conto e ragione di ciò, forse con la sua ostinazione voleva ripetere l'errore. I pm si sono dimostrati privi del senso comune, pensare che potessi condizionare tutti è ridicolo".

Se accanimento c'è davvero stato, lei si sarà chiesto il perché?

"Questa domanda va rivolta ai pm. La funzione dell'accusa non è esercitarsi liberamente, ma valutare se sono state trovato prove o meno".

Lei è considerato l'ispiratore dei contatti fra ufficiali dei carabinieri e Cosa nostra. In pratica avrebbe dato il via alla Trattativa.

"È ridicolo. Chi conosce l'Arma dei carabinieri sa che è fedele nei secoli".

La sua assoluzione rischia di minare il processo ancora in corso in Corte d'assise?

"È una valutazione che non intendo fare. Per quel che mi riguarda sono stato assolto per non avere compiuto il fatto. Sono esterno ed estraneo ad ogni possibile Trattativa".

La Trattativa ci fu o no?

"Ne dubito. Ci sono stati carabinieri che hanno fatto il loro mestiere".

La Procura dice che impugnerà la sentenza?

"Male. In realtà non è la Procura ma un pm. Ha già annunciato che farà appello (il riferimento è ad Antonino Di Matteo, mentre il procuratore Francesco Lo Voi ha detto che prima bisognerà leggere le motivazioni per valutare cosa fare, ndr). È la prova dell'ostinazione che dovrebbe essere spiegata da questo pm (Di Matteo, contattato dall'Ansa, ha replicato che “non può rispondere alle dichiarazioni di un imputato).

Mannino si sente, dunque, vittima della giustizia?

"Non della giustizia, ma vittima di alcuni pm che continuano la seguire la linea politica a loto impartita a cavallo dagli anni Novanta".

Impartita da chi?

"In quella fase dalla convergenza di interesse fra una parte del Partito comunista e una parte della magistratura".

Nella vicenda Trattativa sono stati coinvolti diversi politici. C'è stata pure la deposizione in aula dell'allora capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Cosa ne pensa?

"È stato penoso. Si è portato Napolitano in un'aula giudiziaria senza avere riguardo per l'immagine dell'Italia nel mondo. Mantengo non pochi rapporti con rappresentanti di molti paesi e so benissimo che ha pesato negativamente. Ma questo non interessa a questi pm. A loro interessava lo spettacolo che un guitto ha fatto in alcune sale cinematografiche in cui impartiva loro gli indirizzi relativi al processo".

Scusi, chi sarebbe il guitto?

"Un suo collega, un giornalista. (Tra i cronisti c'è chi fa il nome di Marco Travaglio). Me lo sta dicendo lei, non confermo e non smentisco (sorride ndr)".

È pensabile che un processo così delicato sia stato impostato su quello che lei definisce un guitto?

"No, ci ha fatto qualche libro e ci ha guadagnato un po' di soldi".

In questi tre anni ha mantenuto la fiducia nella giustizia?

"Ero sicuro della mia innocenza e poi vi sono moltissimi giudici, i più, che sono limpidi e sereni".

Oggi come si sente?

"Sono contento soprattutto per mio figlio e per i mie nipoti. In questa vicenda non c'è spazio per un contributo dell'immaginazione. Nel 1991 l'esplosione della rabbia di Cosa nostra si è trovata coincidente con interessi politici interni al paese ed esterni che volevano la fine della Dc. È un dato di fatto, un obiettivo realizzato".

I 13 secondi di Marina Petruzzella. Il giudice che ha assolto Mannino. Chi è il magistrato che ha processato l'ex ministro Dc. Con la sentenza ha travolto anni di indagini sulla trattativa Stato-mafia. E dire che al processo dei processi è approdata per caso. Con la fama di castigatrice. Da Il Foglio del 6 novembre 2015 oggi in edicola. Le sono bastati tredici secondi per travolgere anni di indagini. Giusto il tempo necessario per leggere il dispositivo della sentenza con cui ha assolto Calogero Mannino. Poi, il giudice Marina Petruzzella ha abbandonato la scena. Non sarà mica stato per evitare le telecamere? Il dubbio è legittimo, visto che il giudice non era passata dalla sala trucco. E neppure dal parrucchiere. Non che la sua pettinatura fosse in disordine, per carità. Ma di certo la messa in piega non era fresca di giornata. Lei è fatta così, dice chi la conosce bene. Niente apparenza. Non ama i riflettori, ma scrive parecchio. Allora è davvero finita nel posto sbagliato. Perché quello sulla trattativa Stato-mafia, sia nella costola manniniana che nel troncone principale, è stato, è e continuerà ad essere roba da riflettori televisivi, libri, paginate di giornali e chi più ne ha più ne metta. Faceva quasi tenerezza - nel senso buono del termine - questo giudice minuto al suo ingresso in aula. Lei da sola, con il cancelliere accanto, e di fronte l'antimafia corazzata dei pubblici ministeri, gli occhi vigili delle scorte, gli obiettivi di fotografi e cineoperatori, i taccuini dei giornalisti e dei calligrafi, e i tenutari di agende rosse. Una piccola formica al cospetto di un branco di leoni. Dovrà farsene una ragione: da oggi, dopo 24 anni in magistratura, Marina Petruzzella sarà soprattutto il giudice che ha demolito il cuore dell'inchiesta sulla Trattativa. E dire che al processo dei processi è approdata per caso. Il titolare era il Gup Piergiorgio Morosini che, però, dopo avere rinviato a giudizio gli altri imputati chiese di astenersi dal giudicare Mannino perché, disse, aveva già fatto attività istruttoria. Dunque, era in qualche entrato nel merito delle accuse. Ottenne così l'astensione. Il fascicolo fu assegnato a Petruzzella che era stata designata giudice supplente qualora si fosse verificato un qualsiasi impedimento di Morosini. Siamo certi che Mannino, appresa la notizia, fece gli scongiuri per scacciare la cattiva sorte e i brutti pensieri. La Petruzzella ha fama di castigatrice. Di giudice dalla condanna facile secondo alcuni, di magistrato rigoroso secondo altri. Al Palazzo di giustizia di Palermo c'è arrivata nel 1996, dopo avere lavorato a Bergamo nei primi cinque anni di carriera. Dal 2004 è all'ufficio del giudice per le indagini preliminari. O meglio era, visto che il processo Mannino è l'ultimo che ha celebrato da Gup. Si è già insediata in Corte d'assise. Avrebbe dovuto coabitare con Silvana Saguto se quest'ultima non fosse stata sospesa dal Csm per la brutta, bruttissima storia della mala gestio delle misure di prevenzione palermitane. Slegata dagli interessi correntizi che zavorrano la magistratura, riservata e con la stanza piena di fascicoli e libri, Marina Petruzzella non ha perso occasione per dare dimostrazione di polso e fermezza. Ha bacchettato la Procura rispendendo al mittente richieste di archiviazione, imponendo proroghe di indagini e ordinando imputazioni coatte. È sui reati ambientali e contro la pubblica amministrazione che ha costruito una grande competenza. Quasi vent'anni vissuti a Palermo e manco una sua fotografia in archivio. Tranne uno scatto “rubato”, non ce ne voglia, in ufficio mentre ci dice, all'indomani dell'assoluzione di Mannino, che non ha nulla da dire e deve lavorare. Immaginiamo anche per scrivere, entro i 90 giorni di tempo che si è presa, le motivazioni della sentenza con cui ha travolto, più che un'impostazione accusatoria, un monumento dell'antimafia edificato dai pubblici ministeri e fortificato con le comparsate televisive, gli articoli sui giornali, le rassegne teatrali, le pellicole da cinematografo e le fiaccolate con cui si è tentato di marcare il confine fra i buoni e i cattivi, tra trattativisti e i negazionisti. Pensare che tutto ciò sia finito è pura illusione, nonostante l'assoluzione di Mannino sia un colpo mortale alla tesi dei pm Teresi, Di Matteo, Del Bene e Tartaglia poiché spazza via la parte fondante dell'impianto accusatorio. Secondo i pm, Mannino è stato l'iniziatore del presunto ma scelleratissimo patto fra boss e uomini delle Istituzioni. È stato Mannino, temendo per la sua vita dopo l'assassinio di Salvo Lima, a chiedere agli ufficiali dei carabinieri di trattare con Totò Riina per evitare che i boss gli facessero la pelle. È stato Mannino ad attirarsi la collera dei capimafia che da lui si sentirono traditi quando la Cassazione rese definitiva una sfilza di ergastoli. Ora il Gup Petruzzella ci dice che Mannino non ha commesso nulla di tutto ciò. Non è stato l'ispiratore della Trattativa. È finita? Manco per idea. Innanzitutto ci sono il processo principale ancora in piedi e l'inchiesta bis con la quale si ipotizza che il dialogo segreto con i mafiosi non sia stato condotto solo da politici e carabinieri, già sotto processo, ma pure da uomini dei servizi segreti in un contesto più generale di di attacco allo Stato. E poi c'è la formula con cui Mannino è stato assolto, quella del 530 prevista quando “la prova manca, è insufficiente o contraddittoria”. Uno spiraglio per tutti, per i pubblici ministeri che impugneranno la sentenza (Di Matteo è certo, il procuratore Lo Voi prima vuole leggere le motivazioni), per i salottieri delle tivvù e gli scrittori di libri.

Ventuno anni dopo il tritolo di Capaci e via D'Amelio, sul banco degli imputati, insieme alla politica e a vertici di Cosa nostra, c'è finito anche lo Stato. Processerà se stesso, a partire dal 27 maggio 2013, scrive Fabrizio Colarieti. Qualcuno lo ha paragonato al processo Andreotti, quando per la prima volta il sospetto che la politica, quella con la "p" maiuscola, fosse collusa con la mafia finì dentro un'aula di tribunale. Ventuno anni dopo il tritolo di Capaci e via D'Amelio, sul banco degli imputati, insieme alla politica e a vertici di Cosa nostra, c'è finito anche lo Stato. Processerà se stesso, a partire dal 27 maggio, il giorno in cui, secondo il gup Piergiorgio Morosini, quattro boss mafiosi, due politici, tre ufficiali dell'Arma dei carabinieri e un ambiguo testimone dovranno rispondere di fronte alla giustizia di aver preso parte, con ruoli differenti, alla presunta trattativa Stato-Mafia. E' uno dei capitoli più oscuri della storia del nostro Paese. Secondo i magistrati di Palermo - che dopo quattro anni di indagini hanno chiesto e ottenuto il rinvio a giudizio di tutti gli indagati oggi imputati in attesa di giudizio dinanzi alla prima Corte d'Assise di Palermo - per fermare le stragi, tra il 1992 e il 1994, lo Stato scese a patti con Cosa nostra. Facendo avvicinare i vertici della cupola palermitana dagli emissari del Ros dei carabinieri con in tasca il benestare della politica a trattare una resa militare, sedendosi a un tavolo che era già sporco di sangue. Quello del giudice Paolo Borsellino, che dello scellerato dialogo in corso tra i carabinieri e i colonnelli di Riina era venuto certamente a conoscenza poco prima della sua morte, e di Giovanni Falcone, il magistrato che aveva osato sfidare la piovra convincendo don Masino Buscetta a parlare e che da anni sosteneva l'esistenza di un "terzo livello". Questo, in estrema sintesi, è il teorema a cui ha creduto il gup Morosini rinviando a giudizio 10 dei 12 indagati dell'inchiesta avviata dai pm Antonio Ingroia, Lia Sava, Antonino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. I boss Salvatore Riina, Leoluca Bagarella, Antonino Cinà e Giovanni Brusca dovranno rispondere di violenza o minaccia a Corpo politico dello Stato. Stessa accusa anche per tre ufficiali dell'Arma dei carabinieri, i generali Mario Mori e Antonio Subranni, e il colonnello Giuseppe De Donno, e per il senatore del Pdl, Marcello Dell'Utri. Falsa testimonianza è invece l'accusa rivolta nei confronti dell'ex ministro dell'Interno, Nicola Mancino. Massimo Ciancimino, testimone chiave dell'inchiesta e figlio dell'ex sindaco di Palermo, Vito, dovrà rispondere di concorso in associazione mafiosa e calunnia nei confronti dell'ex capo della polizia di Stato, Gianni De Gennaro. Manca solo lui, Zu Binu Provenzano, la cui posizione è stata stralciata perché l'ex padrino di Corleone, secondo una perizia ordinata dal tribunale, non sarebbe più in grado di comparire in aula a causa di una grave demenza senile. Nelle 34 pagine del decreto di rinvio a giudizio firmato il 7 marzo dal giudice palermitano Piergiorgio Morosini c'è un sunto delle 300mila scritte dal pool di Palermo per riannodare i fili di una storia che parte dall'omicidio del leader della Dc siciliana, Salvo Lima (12 marzo 1992). Il delitto, da cui tutto ebbe inizio, che secondo i magistrati «fu la risposta di Cosa nostra allo Stato che, dopo la sentenza di Cassazione del maxiprocesso, aveva messo in crisi la credenza d'impunita  dei boss, condizione essenziale per la sopravvivenza dell'organizzazione stessa». Dunque la genesi della trattativa - scrivono i pm della procura di Palermo nell'ultima memoria trasmessa al gup il 5 novembre scorso - combacerebbe con la nascita del programma stragista con cui i corleonesi volevano «ristrutturare radicalmente ed in modo irreversibile e violento il rapporto con la politica». Prima di quel "papello", con le condizioni per fermare le stragi, che secondo gli inquirenti passò dalle mani di Totò u curtu a quelle degli uomini del Ros, la mafia subì colpi durissimi che la procura riassume in tre punti: «l'arresto di numerosissimi uomini d'onore; le prime collaborazioni con la giustizia di Tommaso Buscetta, Salvatore Contorno, Antonino Calderone e Francesco Marino Mannoia; il rinvio a giudizio prima, e la condanna in primo grado poi di tantissimi mafiosi, alla fine di un processo caricato di grande significato politico-simbolico». Tra le carte dell'inchiesta sulla trattativa ci sono, poi, due frasi, che per gli inquirenti assumono un importante valore simbolico. La prima la pronuncia Toto Riina, fare la guerra allo Stato per poi fare la pace». Per la procura di Palermo si tratta di «un modo rozzo di esprimere la ragione dello stragismo mafioso all'ombra dello spirito della trattativa». L'altra è pronunciata da un altro dei dieci imputati di questo processo, Leoluca Bagarella: «In futuro non dobbiamo piu  correre il rischio che i politici possano voltarci le spalle». Parole che rappresentano, sempre secondo gli inquirenti, l'obiettivo strategico di Cosa nostra e cioè «costruire le premesse per un nuovo rapporto con la politica, perché fosse Cosa Nostra ad esprimere direttamente le scelte politiche attraverso i suoi uomini, senza alcuna mediazione. Annullare la politica ed i politici tradizionali per favorire l'ingresso della mafia in politica, tout court». A gestire la trattativa, scrivono i pm del pool di Palermo nella memoria inviata al gup Morosini, per Cosa nostra fu Riina in persona, per lo Stato furono gli ufficiali del Ros (Subranni, Mori e De Donno) «a loro volta investiti dal livello politico (ed in particolare dal sen. Calogero Mannino, all'epoca Ministro in carica ed esponente politico siciliano di grande spicco), che contattarono Vito Ciancimino - a sua volta in rapporti con Salvatore Riina per il tramite di Antonino Cinà - nel 1992, nel pieno dispiegarsi della strategia stragista ». Una trattativa «unitaria, omogenea e coerente» che nel tempo - fino al 1994 - subi  «molteplici adattamenti», cambiò «interlocutori e attori da una parte e dall'altra », fino a quando «le ultime pressioni minacciose finalizzate ad acquisire benefici e assicurazioni hanno ottenuto le risposte attese». Cosa nostra avviò una vera e propria «campagna del terrore contro il ceto politico dirigente dell'epoca al fine di ottenere i benefici e i vantaggi che furono poco dopo specificati nel papello di richieste che Riina fece pervenire ai vertici governativi». La mafia, scrivono i magistrati di Palermo, arrivò a minacciare lo Stato attraverso uomini politici «cerniera, cinghie di trasmissione»: Calogero Mannino prima (che sarà giudicato con il rito abbreviato dal prossimo 20 marzo) e Marcello Dell'Utri dopo. Mannino e Dell'Utri, così come i tre alti ufficiali dell'Arma imputati in questo processo, per la procura, e per il gup che ne ha sposato l'impianto accusatorio, fornirono «un consapevole contributo alla realizzazione della minaccia, con condotte atipiche di sostegno alle condotte tipiche che si sono risolte nell'avere svolto il ruolo di consapevoli mediatori fra i mafiosi e la parte sottoposta a minaccia, quasi fossero gli intermediari di un'estorsione». Il "dialogo", scrive infine Morosini, «avrebbe avuto ad oggetto la disponibilità a trattare sulla concessione di benefìci penitenziari e sull'intervento penale in cambio della cessazione degli attentati». Manca all'appello chi agì nell'ombra. Il giudice Morosini, motivando il rinvio a giudizio, dedica un paragrafo all'analisi di uno scenario parallelo alla trattativa che contiene ancora molte zone d'ombra. E' il ruolo dell'intelligence deviata e il tentativo di destabilizzare il Paese da parte di «consorterie di diversa estrazione interessate a "sfruttare" la crisi politico-istituzionale italiana e ad acuirla con "azioni destabilizzanti"». «Dall'esame delle fonti - scrive il giudice - si ricavano elementi a sostegno di una ipotesi di esistenza di un progetto eversivo dell'ordine costituzionale, da perseguire attraverso una serie di attentati aventi per obiettivo vittime innocenti e alte cariche dello Stato, rivendicati dalla Falange Annata, compiuti con l'utilizzo di materiale bellico proveniente dai paesi dell'est dell'Europa». Una strategia del terrore nata dalla saldatura di Cosa nostra con entità di «diversa estrazione», favorita dalla mediazione di «uomini cerniera» tra crimine organizzato, eversione nera, ambienti deviati dei servizi di sicurezza e della massoneria.

Da aggiungere ancora, a proposito, che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sarà ascoltato come testimone nel nuovo processo per la strage di via D'Amelio in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta, scrive Sky tg24. Il Borsellino Quater, questo il nome del procedimento che riguarda un nuovo filone di inchiesta aperto in seguito alle rivelazioni di Spatuzza, si è aperto il 22 marzo 2013, davanti alla Corte d'Assise di Caltanissetta. I giudici siciliani, convocando il capo dello Stato, hanno dunque accolto la richiesta avanzata dall'avvocato Fabio Repici, legale di Salvatore Borsellino, il fratello del giudice, che si è costituito parte civile. Napolitano, però, come stabilito dalla Corte d'Assise, non potrà essere sentito sulle intercettazioni telefoniche registrate tra lui e l'ex presidente del Senato Nicola Mancino. Per la morte del magistrato e degli uomini di scorta sono già stati condannati con il rito abbreviato a 15, 10 e 12 anni Gaspare Spatuzza, Fabio Tranchina e Salvatore Candura. Imputati i boss Vittorio Tutino, Salvo Madonia e Calogero Pulci, Francesco Andriotta e Vincenzo Scarantino, i tre falsi pentiti autori del depistaggio costato l'ergastolo a sette innocenti. La Procura ha inoltre illustrato la sua lista testi che prevede l'esame di 300 tra pentiti, politici, investigatori e familiari delle vittime. Secondo l'avvocato Fabio Repici, Napolitano, che all'epoca della strage era presidente della Camera, proprio per il suo ruolo "era un osservatore privilegiato di quanto avveniva nei palazzi del potere". Per questo, sostiene il legale di Salvatore Borsellino, il presidente della Repubblica va sentito anche sulla base di quanto il capo dello Stato ha scritto in una lettera alla figlia dell'ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. "Il capo dello Stato - ha sottolineato l'avvocato - ha detto di avere accompagnato Scalfaro nei momenti decisivi nel tragico biennio delle stragi di mafia". Il capo dello Stato, in sintesi, verrà sentito su quanto a sua eventuale conoscenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, sulla sostituzione alla guida del ministero dell'Interno, nel 92, di Vincenzo Scotti con Nicola Mancino e sulle difficoltà che incontrò in Parlamento, nel '92, la conversione del decreto legge sul carcere duro. Sono diversi i nomi eccellenti fra politici, esponenti delle forze dell'ordine, uomini d'onore e collaboratori di giustizia di vecchio stampo, nella lista dei testi presentata dall'accusa nel nuovo processo, denominato Borsellino quater. La Procura ha presentato una lista composta da circa 300 testimoni. Altri testi di rilievo sono Carlo Azeglio Ciampi, Luciano Violante e lo stesso Nicola Mancino. La Procura ha chiesto di ascoltare anche il Generale dei Carabinieri Mario Mori, Giuseppe De Donno e l'avvocato Gioacchino Genchi. Fra i collaboratori di giustizia spiccano i nomi di Giovanni Brusca, Gaspare Spatuzza, Antonino Giuffré ma anche Ciro Vara, Leonardo Messina. In aula saranno chiamati anche Totò Riina e Massimo Ciancimino. "Con questo processo - ha dichiarato il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari - si vuole fare luce sulla strage di via D'Amelio. Borsellino venne ucciso per essersi opposto alla trattativa Stato-mafia e il progetto omicidiario subì un'accelerazione perché Borsellino si oppose. Sarà anche un processo impegnativo, che mira a svelare il giallo sull'agenda rossa che il magistrato teneva sempre con sè".

Ed ancora. Mario Mori e Mario Obinu sono i due carabinieri del Ros finiti a processo per “favoreggiamento aggravato alla mafia“, scrive “Blitz Quotidiano”. Il pm Nino Di Matteo ha parlato, durante la sua requisitoria, di “inaccettabili omissioni in nome di un’inconfessabile ragione di Stato”. Il pm Di Matteo ha anche accusato l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino di aver tentato di “inquinare le prove”. Il mancato arresto di Bernardo Provenzano nel fallito blitz a Mezzojuso, Palermo, del 31 ottobre del 1995 è per Di Matteo solo uno dei pezzi della complessa storia dei rapporti tra lo Stato e la mafia, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. Sullo sfondo della trattativa, il pm Di Matteo ha iniziato la requisitoria del processo ai carabinieri del Ros Mario Mori e Mauro Obinu, per favoreggiamento aggravato alla mafia, collocando i due militari tra coloro i quali ”obbedendo a indirizzi di politica criminale per contrastare la deriva stragista, hanno ritenuto di trovare un rimedio assecondando la prevalenza dell’ala moderata della mafia, quella refrattaria alla strategia di contrapposizione frontale allo Stato realizzata con omicidi eccellenti ed eclatanti. Era necessario per questo garantire la latitanza a Provenzano”. Cinque anni e oltre settanta udienze di un procedimento penale che lo stesso pm ha definito ”drammatico” hanno portato lo Stato a processare se stesso, a partire dalle dichiarazioni del colonnello Michele Riccio, che secondo l’accusa dimostrerebbero le responsabilità dei suoi superiori, Mori e Obinu, nel fallito blitz, fino a quelle di Massimo Ciancimino che hanno ”fatto tornare la memoria a tanti personaggi che quella storia l’hanno vissuta”. Non sono mancati, ha spiegato il pm, i ”tentativi di strumentale inquinamento della prova” a partire dalle telefonate tra l’ex ministro dell’interno Nicola Mancino e il consigliere del presidente della Repubblica Loris D’Ambrosio: ”Questo è il processo nel quale Mancino ha palesato di non tenere in conto l’autonomia del vostro giudizio, cercando conforto nelle più alte cariche dello Stato”. Tracciato il contesto, il pm è partito dai primi passi dell’indagine che ha portato al processo: le dichiarazioni del confidente Luigi Ilardo, mafioso della famiglia di Caltanissetta e confidente di Riccio, che indicò al colonnello il luogo di un incontro che sarebbe avvenuto a Mezzojuso con Binu Provenzano. Il pm ha spiegato: “Quella di Ilardo è una storia davvero unica nel panorama criminale del nostro Paese, per certi versi incredibile. Fu ucciso a maggio 1996, cinque giorni prima del suo interrogatorio formale davanti alle autorità giudiziarie che lo avrebbe fatto diventare collaboratore. Un epilogo tragico e avvolto nel mistero. In quel momento le sue rivelazioni avrebbero portato alla consacrazione dal punto di vista giudiziario di quei rapporti che vedevano protagonista anche Marcello Dell’Utri e la formazione del partito Forza Italia. Nel 1995 si poteva scardinare quel sistema provenzaniano che dominò invece incontrastato le strategie del potere mafioso in Sicilia. Si poteva aprire la porta alla verità. La chiave, invece, è stata gettata lontano”. In questo scenario, Mori ha giocato un ruolo da protagonista mettendo in pratica, secondo l’accusa, la ”strategia della confusione”, atta a ”intorbidire le acque e allontanare la magistratura dalla verità”.

AGENDA ROSSA DI BORSELLINO. PROCESSO ALLO STATO: IL PROCESSO MANCATO.

C’é stato il rinvio a giudizio del processo “attentato al corpo politico dello stato” – e qui si legge la testimonianza commovente di Salvatore Borsellino. «Sono da poco rientrato da Palermo. Devo ancora riprendermi dalla profonda emozione che ho provato ieri nel sentire leggere dal Gup Piergiorgio Morosini il dispositivo di rinvio a giudizio per i dieci imputati del processo per “attentato al corpo politico dello Stato”, quello che da ieri potremo chiamare, a pieno titolo, processo per la “trattativa Stato-mafia”. Non di tratta più di “fantomatica trattativa”, di “presunta trattativa” di “pretesa trattativa”. Da ora in poi c’è una sentenza di rinvio a giudizio che rende anacronistico, improprio, deviante, l’uso di questi aggettivi. Da ora in poi si potrà e si dovrà parlare soltanto di “trattativa Stato-mafia”, quella trattativa che è stata la causa scatenante dell’accelerazione dell’assassinio di Paolo Borsellino. Da ora in poi tutti avremo modo di seguire la fase dibattimentale di un processo che, secondo il dispositivo di rinvio a giudizio non si svolgerà davanti a un semplice tribunale ma davanti alla Corte D’Assise, ci saranno quindi dei giudici popolari che, in rappresentanza del popolo italiano, affiancheranno i due giudici togati. Ad essere giudicati, sedendo per la prima volta fianco a fianco sui banchi degli imputati, saranno 4 appartenenti alla mafia e 5 uomini delle Istituzioni oltre al figlio di un mafioso che compare nel processo nella doppia veste di testimone e di imputato. Lo Stato processa se stesso, diventa realtà quello che Leonardo Sciascia giudicava impossibile e il rapporto quantitativo è addirittura prevalente per gli uomini di Stato rispetto ai criminali mafiosi, anche se l’ex ministro Mancino è, per il momento, accusato soltanto di falsa testimonianza.

Da anni aspettavo questo momento, da quando leggendo sulla agenda grigia di Paolo, nel foglio relativo al 1° luglio, annotato il nome di Mancino e sapendo come Mancino avesse sempre negato di averlo incontrato, avevo cominciato a chiedermi quale potesse essere il motivo di una così incredibile amnesia. E avevo cominciato a pensare che potesse essere dovuto al fatto che in quell’incontro fosse avvenuto qualcosa di estremamente grave, l’ingiunzione a Paolo di fermare le sue indagini sull’assassinio di Giovanni Falcone perché lo Stato aveva deciso di trattare con l’antistato.

Da quel giorno cominciai pervicacemente a contestare a Mancino questa circostanza e questa prova testimoniale postuma di Paolo che certificava inequivocabilmente che quell’incontro negato era invece realmente avvenuto. La sola risposta di Mancino era stata la reiterata esibizione di un planning settimanale nel quale, nella colonna del 1° luglio, non c’era annotato alcun appuntamento con Paolo, come se questo potesse rappresentare una prova del fatto che l’incontro non fosse mai avvenuto. Peccato che in quel planning c’erano, per quella settimana, riempite soltanto due o tre righe, come se potesse essere credibile che l’attività di un ministro appena insediato nella sua carica potesse ridursi a due annotazioni in tutta una settimana. E poi di planning Mancino ne deve possedere una collezione, gelosamente custodite, come si è visto in una recente intervista televisiva, in un cassetto che ha aperto davanti all’operatore che lo riprendeva, se è vero che Giuseppe Ayala ha affermato prima di avere visto un’agenda di Mancino in cui quell’incontro era riportato per poi smentire se stesso il giorno dopo dicendo che nell’agenda a lui mostrata da Mancino non era annotato, per il 1° luglio, alcun appuntamento. A fronte delle mie reiterate contestazioni, soprattutto sul fatto che Mancino non poteva pretendere che fosse credibile cha al 1 luglio del ’92 potesse non conoscere, come asseriva, la fisionomia di Paolo Borsellino, ho sempre ricevuto da parte sua soltanto delle sprezzanti affermazioni come di chi crede di essere al di sopra di ogni sospetto e di ogni giudizio e ho appreso di recente, da quanto reso pubblico sulle intercettazioni cui è stato sottoposto in qualità di indagato in questo processo, che alla fine lo stesso si era determinato a presentare querela nei miei confronti e per questo chiedeva aiuto a chi potesse facilitargli questo compito. E’ forse per la tensione dovuta all’attesa di una sentenza che per me, per i pm, per la verità, per la giustizia, è insieme un punto di arrivo e un nuovo punto di partenza, per il pensiero che adesso potrà essere fatta giustizia anche delle definizioni di “pazzo”, di “caso umano”, di “esaltato” che mi sono state affibbiate in questi anni, che non ho sentito pronunciare dal Gup Morosini, tra i nomi dei rinviati a giudizio, il nome da me più atteso, il nome di Nicola Mancino. Quel Nicola Mancino, imputato in questo processo, del quale, nonostante lo abbia più volte incontrato nel corso delle udienze preliminari e gli sia stato seduto a pochi metri di distanza, sugli stessi banchi, nell’aula bunker del carcere dell’Ucciardone a Palermo, dove arrivava con la sua auto blu e con la sua scorta, non sono mai riuscito a incontrare lo sguardo. Ho dovuto risentire la registrazione dell’udienza per sentirlo finalmente quel nome, mescolato a quello dei mafiosi imputati per la “trattativa” e immediatamente dopo il nome di un condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Li elenco nell’ordine, uno dopo l’altro, come li ho ascoltati più e più volte, ogni volta con la stessa emozione: Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Massimo Ciancimino, Antonio Cinà, Giuseppe De Donno, Marcello Dell’Utri, Nicola Mancino, Mario Mori, Salvatore Riina, Antonio Subranni. Mancano due nomi, il nome di Calogero Mannino, perché ha scelto il rito abbreviato e sarà giudicato in uno stralcio di questo processo e quello di Bernardo Provenzano perché una perizia lo ha dichiarato in condizioni mentali che non gli consentono di partecipare, per il momento, a un processo. Spero non si tratti di un caso simile a quello di Bruno Contrada che venne dichiarato quasi in punto di morte, in uno stato incompatibile con quello della detenzione nel carcere militare dove avrebbe dovuto scontare la sua pena e che riacquistò invece improvvisamente la salute quando quella provvidenziale perizia gli permise di finire di scontare la sua condanna nella sua casa, a Palermo, a pochi passi dalla casa della mia sorella maggiore. Che invece, lei sì, è morta da pochi mesi a causa di un tumore, mentre Contrada ha riacquistato a tal punto le forze e la salute da permettergli di frequentare i salotti televisivi e di andare in giro per l’Italia a presentare il suo ultimo libro. C’era accanto a me, durante la lettura dell’udienza, unico imputato presente, Massimo Ciancimino. Pochi minuti prima mi aveva detto che era lì perché, caso anomalo per un imputato, sperava di ascoltare una sentenza di rinvio a giudizio, perché questo avrebbe significato che il processo poteva andare avanti. Dopo la lettura della sentenza l’ho visto li, vicino a me, esultava anche lui come dall’altro lato, vicino a me, gioiva Federica, una mia compagna del Movimento delle Agende Rosse, parte civile in questo processo, che aveva voluto venire apposta da Roma per starmi vicino in un momento così importante. Come gioivano intorno a me tanti altri che, come noi, vedevano in questa sentenza un grande passo avanti sulla strada della Giustizia e della Verità. Ho avuto l’istinto di abbracciarlo e lo ho fatto. Questo mio gesto mi è stato già contestato da alcuni organi di informazione, gli stessi che in altre occasioni hanno ospitato articoli di chi si dichiara sicuro che mio fratello, seppure da morto, sarebbe disgustato da certi miei comportamenti. Gli stessi che mi definiscono “di professione fratello di Paolo Borsellino”, peraltro non a torto dato che io stesso ho sempre sostenuto di fare ancora, a 70 anni non uno ma due lavori, il primo, quello di ingegnere elettronico, lo faccio per vivere, l’altro, quello che mi porta ad andare in tutta Italia per tenere viva la memoria di Paolo, per incontrare tanti giovani nei cui cuori sono custoditi i pezzi di mio fratello, lo faccio per non morire, E per non far morire la mia, la nostra speranza. Senza Massimo Ciancimino, senza che lui, per primo,dalla parte di chi l’aveva vissuto dall’interno come corriere del padre, parlasse della “trattativa”, del “papello”, questa sarebbe ancora “presunta”, ancora “fantomatica”.  Senza la sua collaborazione questo processo forse non sarebbe neppure iniziato. Io ho abbracciato Massimo Ciancimino testimone in questo processo, ho abbracciato il testimone Massimo Ciancimino che, se pure nella contraddittorietà della sua collaborazione, ha fatto sì che tanti uomini delle istituzioni che sono stati partecipi di una scellerata congiura del silenzio e che non siedono, ancora, sul banco degli imputati, riacquistassero, dopo venti anni, almeno una parte delle loro memorie sepolte e, forse, dei loro rimorsi.

Non ho abbracciato Massimo Ciancimino imputato.  Quello, se verrà ritenuto colpevole nel corso di un processo che finalmente, e in parte anche grazie a lui, potrà avere luogo, sarà la Giustizia a giudicarlo.»

Ecco la traduzione del mio articolo pubblicato il 16 febbraio 2013 nel Tagesanzeiger-Magazin in Svizzera, scrive Petra Reski che su Antimafia 2000 chiama Il processo italiano.

Perché Paolo Borsellino doveva morire? E come sparì la sua agenda? Venti anni dopo il massacro lo Stato e la Mafia si trovano per la prima volta in un’aula di tribunale. Il giorno, il suo giorno, è freddo e piovoso. Un vento temporalesco soffia forte sugli striscioni dei dimostranti, su “Ai vivi dobbiamo rispetto, ai morti solo la verità”, su “Uniti contro la Mafia”, sulle cravatte degli avvocati, i berretti dei poliziotti e la giacca blu scuro di Salvatore Borsellino – che assomiglia così tanto al suo fratello assassinato, che la gente di Palermo trasale quando lo vede. Salvatore Borsellino ha 70 anni. Vive a Milano, è ingegnere informatico in pensione e parte civile nel processo che dovrebbe fornire informazioni importanti sul retroscena dell’assassinio di suo fratello Paolo, il magistrato antimafia che fu assassinato dalla mafia il 19 luglio 1992, 57 giorni dopo il suo amico e collega Giovanni Falcone. “Lo stato processa sé stesso” titolano i giornali: in quel giorno, il 30 Ottobre 2012, lo stato italiano siede per la prima volta nella sua storia sul banco degli imputati insieme alla mafia. Durante quattro anni, cinque magistrati hanno indagato i retroscena della trattativa tra rappresentanti dello stato e la mafia: al fine di rinunciare ad ulteriori violenze, sarebbe stata garantita alla Mafia non soltanto la fine dei procedimenti penali, ma anche supporto politico. Tre politici italiani e tre carabinieri di alto grado sono accusati a Palermo di avere trattato con cinque boss mafiosi. I tre politici sono: il senatore Marcello Dell’Utri, già condannato in secondo grado per concorso esterno in associazione mafiosa, braccio destro, uomo di fiducia e figura chiave della ascesa politica di Silvio Berlusconi; l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, come anche l’ex ministro dell’interno Nicola Mancino. Numerosi indizi provano il fatto che Paolo Borsellino venne a conoscenza della trattativa in corso, ad essa si oppose e per questo dovette morire. Dov’è l’Agenda Rossa? Quando Salvatore Borsellino attraversa il parcheggio del carcere Pagliarelli e oltrepassa la porta d’acciaio del braccio di massima sicurezza, alcuni manifestanti scandiscono “Resistenza, resistenza” impugnando in alto quaderni rossi decorati con fiocchi nei colori nazionali italiani, sui quali c’e’ scritto “Paolo Borsellino. L’agenda rossa”. Questo giorno rappresenta una vittoria dell’Italia onesta, di quella Italia che vuole decifrare il passato per capire il presente, esclama Salvatore Borsellino ai microfoni dei giornalisti, finché viene spinto avanti verso l’aula bunker del tribunale. L’ex ministro Nicola Mancino, un uomo alto con un cappotto di trench, con la faccia arrossata si fa strada verso la sala del tribunale attraverso la calca dei giornalisti. Salvatore Borsellino cerca il suo sguardo. Vuole guardarlo negli occhi, almeno questo. Ma Mancino evita il contatto. I manifestanti davanti al carcere sono arrivati da ogni parte d’Italia per l’apertura del processo, alcuni sedendo anche dodici ore in un autobus, per stare qui in piedi sotto la pioggia a scandire “Fuori la mafia dallo stato”. Tutti appartengono al movimento antimafia chiamato “Agende Rosse”: l’agenda rossa di Paolo Borsellino è diventata il simbolo della lotta contro l’alleanza malefica tra mafia e politica, da quando il magistrato insieme con le sue cinque guardie del corpo è stato fatto saltare in aria per mezzo di un‘autobomba in Via D’Amelio a Palermo, davanti alla casa di sua madre. L’agenda rossa, dalla quale Paolo Borsellino non si separava mai e nella quale notava incontri ed osservazioni, è sparita dal giorno dell’attentato, sebbene la valigetta da lavoro sia stata ritrovata intatta sul sedile posteriore della sua auto, ed anche la batteria di riserva del suo telefonino è rimasta al suo interno perfettamente intatta.

Gli attivisti del movimento “Agende Rosse” non credono all‘idea romantica della forza guaritrice della cultura, come se si potesse sconfiggere la mafia come una debolezza di ortografia, ma cercano l’agenda rossa insieme a Salvatore Borsellino e con questa anche la verità. Condividono la consapevolezza che il segreto della sopravvivenza della mafia sta sopratutto nel rapporto di simbiosi con la politica. E’ stato Paolo Borsellino a dire: “Politica e mafia sono due poteri che controllano lo stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d’accordo”. Una dichiarazione che nemmeno oggi i partiti affermati sentono volentieri. Tanto più che le loro fondamenta cominciano a sgretolarsi: dietro le spalle dei politici è cresciuto in rete un ampio movimento di opposizione, il “Movimento 5 Stelle”, un movimento che lotta contro le polveri sottili come contro la presenza in parlamento dei condannati in via definitiva, contro la mafia e contro la privatizzazione dell’acqua. I sondaggi per e prossime elezioni lo danno ad una percentuale del 20 per cento – ragione per cui i partiti tradizionali scoprono tutti allo stesso momento appena prima delle elezioni la cosiddetta “questione morale”, e affermano di volere presentare solo candidati senza condanne penali. I giovani italiani sono disgustati dal cinismo della attuale classe politica – vogliono risposte. Per esempio da Giuseppe Ayala, un ex collega di Paolo Borsellino, che era andato in politica per il Partito Democratico. Quando Borsellino è stato ucciso, Ayala fu il primo ad arrivare sul luogo del delitto. Fece aprire con forza la porta dell’auto di Paolo Borsellino e prese la sua valigetta di lavoro. C’è perfino la foto di un carabiniere che ha in mano la valigetta, e la porta via dal rottame dell’auto ancora in fumo, per poi più tardi non voler più ricordarsi, a chi avrebbe dato la stessa valigetta. Il carabiniere più tardi dovrà rispondere della sue responsabilità di fronte alla giustizia, ma sarà assolto. Ayala fornisce sette versioni differenti sullo svolgimento dei fatti. Quando una giovane ragazza del movimento 5 stelle lo interroga sulle sue versioni contraddittorie, Ayala dice alludendo alla ricerca di verità di Salvatore Borsellino: “Anche Abele aveva un fratello”.

I retroscena mai chiariti della trattativa tra mafia e stato galleggiano da due decenni sull’Italia come una nuvola velenosa. L’esistenza della trattativa è stata già accertata da una sentenza a Firenze, ma la classe politica anche oggi non è interessata ad un chiarimento completo, che potrebbe costare in voti alle prossime elezioni. Molti italiani si indignano quando vengono a sapere che l’ex ministro dell’interno Nicola Mancino ha chiamato al telefono il Presidente della Repubblica italiana Giorgio Napolitano, per fare mettere in riga urgentemente i magistrati di Palermo. Mancino non vuole assolutamente essere interrogato dai magistrati a Palermo. Il consulente giuridico del Presidente tranquillizza Mancino: stia calmo perchè può essere sicuro che il Presidente si prenderà a cuore il suo problema e si impegnerà per lui. E sarebbe fatto di tutto affinché i magistrati palermitani non riescano a raggiungere nulla. Appena ciò viene reso pubblico, Salvatore Borsellino chiede al Presidente della Repubblica di rendere noto il contenuto delle sue telefonate. Questo però non è soltanto rigorosamente negato, ma diventa oggetto di una ulteriore querela: il Presidente in malafede (non il telefono di Napolitano era sotto controllo, bensì quello dell’ex inistro dell’interno) incolpa il magistrati di Palermo di averlo ascoltato illegalmente. I partiti cercano di salvare il salvabile e si esprimono contro il processo. Antonio Ingroia, procuratore aggiunto dell’indagine sulla trattativa stato-mafia, un ex discepolo di Paolo Borsellino, viene accusato di “antipolitica”. Finchè aveva portato avanti i processi contro il braccio destro di Berlusconi, Marcello Dell’Utri, Ingroia veniva celebrato come eroe dalla stampa di sinistra, ma da quando il Presidente Napolitano, l’ultimo stilita della sinistra è finito per puro caso nel mirino dei magistrati, regna buona armonia tra la stampa di sinistra e quella di Berlusconi: nel 95% dei media italiani si parla solo dei magistrati fanatici e pieni di sé. Ingroia verrà abbandonato persino da Magistratura Democratica. Per proteggere il processo, Ingroia decide di lasciare la responsabilità del processo, dopo la chiusura della fase delle indagini, e di andare in Guatemala, con un incarico antimafia affidatogli dalle Nazioni Unite. Ma a dicembre ci sarà un altra svolta sorprendente : Ingroia fonda un Partito che si chiama “Rivoluzione Civile”, ed entra in campagna elettorale. Secondo i sondaggi, il suo partito raggiungerà rapidamente il 5% dei consensi. Con stupore Salvatore Borsellino osserva come tanti politici, giornalisti e giudici improvvisamente si sentono chiamati a rappresentare l’eredità del suo fratello assassinato. Sopratutto per affermare che Paolo Borsellino sicuramente non avrebbe apprezzato nè l’impegno di suo fratello, nè quello dei magistrati. Dai parenti delle vittime di mafia ci si aspetta sempre che sopportino il loro dolore in silenzio e che non si oppongano nemmeno quando il loro nome viene usato da falsi amici. La vedova di Paolo Borsellino, Agnese, ed i suoi tre figli, sono stati a lungo in silenzio. Però hanno reagito con sdegno, quando l’ex-agente dei servizi segreti Bruno Contrada, condannato per concorso esterno per associazione mafiosa, affermava di essere stato un amico di Paolo Borsellino. In tribunale la vedova di Borsellino ripetè quello che suo marito le disse appena prima di essere ammazzato: “Ho capito tutto. Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno. Ma quelli che avranno voluto la mia morte, saranno altri”. Per dieci anni Salvatore Borsellino è rimasto in silenzio. Nei primi cinque anni dopo l’attentato si è anche impegnato per diffondere il messaggio di suo fratello: andò nelle scuole e nelle università, e provò con questo a consolarsi, a credere che suo fratello aveva dopotutto raggiunto qualcosa, anche se non da vivo, da morto. E’ stata la madre che ha spinto i fratelli, a fare di tutto per preservare l’eredità del figlio assassinato: “Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene” aveva sempre detto Paolo Borsellino. Era convinto che la mafia non poteva essere vinta solo attraverso la repressione. La lotta deve essere un movimento culturale e morale, portato avanti dai giovani italiani: “Generazioni che sono sensibili al profumo della libertà e disgustati dal puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza e di conseguenza, della complicità”. Ma quando nel 1997, la madre morí per Salvatore è come se si fosse dissolto un legame. Come se non ci fosse più corrente. Salvatore Borsellino non partecipa più né alle commemorazioni per suo fratello e per Giovanni Falcone, né alle discussioni dell’antimafia. Non mette più’ piede in Sicilia. E vede come tutto collimi al meglio. Per la mafia e per la politica. Sente i proclami di politici di destra come di sinistra, che bisogna finalmente smettere di tormentarsi con questi affari di mafia del passato. Non ci sono più né fiaccolate né lenzuoli bianchi, sui quali c’era scritto “Basta con la mafia”. La normalità, lodata da tanti politici, è il merito del padrino Bernardo Provenzano, che sà che Cosa Nostra può sopravvivere solo se non si mette contro lo stato, bensì se striscia di nuovo in esso. L’anno 1992 è stato un anno fatidico. Per la politica italiana. E per la mafia. Le consolidate certezze erano state spazzate via. Dopo la caduta del muro di Berlino la DC aveva perso lo spettro del comunismo ed i comunisti i soldi da Mosca. A Milano era in corso l’indagine Mani Pulite, che rase al suolo non soltanto i socialisti ed i democristiani, ma tutto il sistema dei partiti italiani. Numerosi politici ed industriali vennero arrestati. La mafia non aveva più un interlocutore politico. A gennaio 1992, le sentenze del maxiprocesso di Falcone e Borsellino vengono confermate in ultimo grado di giudizio, e non cancellate come la mafia avrebbe voluto. Per la prima volta il mito dell’invincibilità della mafia è distrutto. Venne raggiunto un punto di svolta. A marzo 1992 la mafia uccide per la prima volta uno dei suoi protettori: Salvo Lima, l’ex sindaco DC di Palermo, governatore in Sicilia e luogotenente del presidente del consiglio Andreotti. Lima fu colpito da due killer, davanti all’Hotel Palace di Mondello. L’assassinio avrebbe dovuto essere un promemoria per Andreotti: per decenni il sostegno della la mafia gli era stato ripagato con voti elettorali, ma questa volta era mancato al suo dovere, non riuscendo ad annullare le sentenze del maxiprocesso. Dopo l’assassinio di Salvo Lima, molti politici democristiani erano terrorizzati di finire come Lima e facevano di tutto per salvare la propria pelle. Già quattro anni dopo gli attentati alcuni pentiti rivelarono trattative tra i boss ed alti politici e funzionari italiani, e l’esistenza di una lista con dodici richieste, chiamata “papello”, attraverso il quale i mafiosi avrebbero offerto la fine degli atti terroristici e voti ai partiti. Le richieste andavano dalla revisione delle sentenze del maxiprocesso, la fine della confisca dei beni mafiosi, la fine del carcere duro al regime 41 bis e dell’utilizzo dei pentiti. Ed esse vennero, come qualsiasi attento lettore di giornale può testimoniare, tutte soddisfatte. Non solo dal governo Berlusconi, ma anche da quello di centrosinistra. Più avanti un giovane magistrato comincia ad indagare sui mandanti segreti degli attentati mafiosi , tra i quali Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, che vengono sospettati di “concorso in strage”. Le indagini vennero archiviate. Marcello Dell’Utri, fondatore di Forza Italia e braccio destro di Berlusconi, viene però condannato per concorso esterno in associazione mafiosa a sette anni di carcere. Il primo processo contro Marcello Dell’Utri non viene seguito però da alcuna televisione e da quasi nessun giornale. La mafia è scomparsa dalle notizie. Nell’anno 2007 Salvatore Borsellino compie un pellegrinaggio a Santiago de Compostela. Vuole fare la strada con suo fratello. Prima di partire, si fa rilasciare due credenziali: una per sé ed una per Paolo. Questa credenziale permette ad i pellegrini di pernottare e di ricevere il certificato dal pellegrinaggio. Quando Salvatore Borsellino presenta la sua credenziale assieme a quella del fratello morto, le persone attorno cominciarono a piangere. Dopo il suo ritorno, decide di rompere il suo silenzio. Adesso non è più la speranza che lo spinge. Ma la rabbia. Alle commemorazioni in Via D’Amelio il giorno della morte di suo fratello non sopporta più di vedere i politici. Per lui è come guardare in faccia gli assassini che tornano sul luogo del delitto per essere sicuri che la vittima è veramente morta. Quando vede che il segretario del partito di Berlusconi vuole deporre una corona di fiori, gli suggerisce di riprendersela e di metterla sulla tomba di Vittorio Mangano, il boss mafioso che visse nella villa di Berlusconi ed il quale viene descritto sia da Berlusconi che da Marcello Dell’Utri come “eroe” perché rimase in silenzio fino alla morte. Essendo un ingegnere informatico in pensione, Salvatore Borsellino vive nella rete. Ha letto gli atti investigativi, le dichiarazioni dei pentiti e degli ex-colleghi di Paolo, legge sentenze, articoli, protocolli che rafforzano i suoi sospetti che suo fratello era venuto a conoscenza dell’esistenza della trattativa tra lo stato e la mafia, alla quale si era opposto. Nell’anno 2007 esce il libro “L’agenda rossa di Paolo Borsellino”, nel quale due giornalisti siciliani dimostrano minuziosamente come la mafia compì l’attentato seguendo gli ordini dei servizi segreti deviati, ragione per cui l’agenda rossa doveva sparire. Poco dopo Salvatore Borsellino pubblica sul suo sito 19luglio1992.com una lettera aperta dal titolo “Un massacro di stato”: chiede, perché non ci fosse un divieto di sosta davanti alla casa della madre, nonostante si sapesse che Paolo Borsellino andava dalla madre tre volte a settimana. Chiede perché le inchieste sui mandati segreti degli attentati di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino vennero archiviate. Perchè le indagini attorno i servizi segreti sono state archiviate. Perché l’ex ministro degli interni Nicola Mancino non si vuole più ricordare di aver incontrato Paolo poco prima del suo assassinio. Perché lo ha chiamato due giorni prima della sua morte incoraggiandolo ad un incontro con due capi della polizia, uno dei quali un capo dei servizi segreti che verrà più tardi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa; un incontro che, come detto da un testimone, agitò Paolo Borsellino così tanto da non notare di aver acceso due sigarette nello stesso momento. “In questa intervista si trova sicuramente la chiave per la strage di Via D’Amelio” scrive Salvatore Borsellino. Il giorno della commemorazione del 2008 è diverso. Insieme a Salvatore Borsellino ci sono migliaia di giovani venuti da tutta Italia a Via D’Amelio a Palermo, per condividere la sua rabbia. Tengono in mano l’agenda rossa con il nome di Paolo Borsellino e fanno una marcia sul Monte Pellegrino, fino al Castel Utveggio, l’ex sede dei servizi segreti a Palermo. Tornano ogni anno e saranno sempre più numerosi. Lentamente la luce penetra l’oscurità. Nell’anno 2008 la Procura di Palermo comincia le indagini sulla “Trattativa”, il negoziato tra lo stato e la mafia. Grazie alle dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza, la sentenza contro gli stragisti mafiosi di Via d’Amelio deve essere rivista: alcuni pentiti mentivano e hanno fatto dichiarazioni false su pressione del Capo della Polizia. Parte la richiesta per la revisione del processo.

Il collaboratore di giustizia Spatuzza viene ascoltato nel processo di secondo grado contro il confidente di Berlusconi, Marcello Dell’Utri. Descrive quanto euforici erano stati i boss, dopo che attraverso Dell’Utri si erano assicurati un collegamento con Berlusconi: la trattativa tra Stato e Mafia sarebbe andata finalmente a buon fine, il paese intero sarebbe in mano loro, grazie ad un compaesano siciliano e “quello di Canale 5″, appunto, Berlusconi. Ed anche Massimo Ciancimino comincia a testimoniare. È il figlio del mafioso Don Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo. Massimo Ciancimino accompagnò il padre in tutte le sue azioni, fu il suo segretario e messaggero. Portava messaggi per suo padre, ai boss e alti funzionari dello stato, e testimonia ora riguardo i negoziati con carabinieri di altro rango al quale suo padre partecipò con la speranza di ricevere per il suo impegno uno sconto di pena per la condanna penale sovrastante. Don Vito aveva organizzato l’arresto del boss Toto Riina nel 1993. Riina era una specie di parafulmine per la trattativa tra stato e mafia, il suo arresto doveva tranquillizzare gli italiani: Vedete lo stato italiano non è ancora sconfitto! Subito dopo però fu arrestato anche Don Vito Ciancimino. Era diventato ormai superfluo, essendo democristiano incarnava il vecchio sistema dei partiti, rappresentava più il regno dei morti che il futuro. Ed è a questo punto che continua la strategia del terrore: nell’estate 1993 seguivano ulteriori attentati, Cosa Nostra mise bombe a Firenze in Via dei Georgofili, vicino agli Uffizi; a Roma, di fronte alla chiesa di San Giorgio al Velabro; a Milano in Via Palestro, non lontano dalla Galleria di Arte Moderna. Nello stesso momento comincia una nuova fase di trattativa con lo stato, con il braccio destro di Silvio Berlusconi e fondatore di Forza Italia, ed oggi Senatore Marcello Dell’Utri. Un siciliano. Sarebbe stato prescelto da Cosa Nostra, perché avrebbe già investito con successo soldi per il boss Stefano Bontade nelle società Fininvest, di proprietà di Silvio Berlusconi. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ebbero Dell’Utri già nel mirino delle indagini, come testa di ponte della mafia nel Nord-Italia. Nell’ultima intervista di Paolo Borsellino prima del suo assassinio parla di Vittorio Mangano, il mafioso, che viveva su raccomandazione di Marcello Dell’Utri nella villa di Berlusconi come cosiddetto stalliere. Una villa nella quale non c’erano cavalli, ma piuttosto tanti interessi da curare. Anche se a Massimo Ciancimino viene rinfacciato sempre di fornire dichiarazioni col contagocce e di mantenere il silenzio attorno ad alcuni importanti agenti segreti coinvolti, le sue dichiarazioni trovano riscontri con quelle dei pentiti, e spinge numerosi personaggi a rompere il loro decennale silenzio. Improvvisamente torna la memoria perfino all’ex presidente della commissione parlamentare antimafia, ad un‘alta funzionaria del ministero della giustizia ed al ministro della giustizia del tempo, Claudio Martelli, i quali ricordano di essere venuti a conoscenza dell’esistenza della trattativa subito dopo l’attentato a Giovanni Falcone. L’ex ministro della giustizia dichiara di aver mostrato le sue perplessità al ministro degli interni del tempo, Nicola Mancino, chiedendo come fosse stato possibile per un funzionario della polizia avere l’idea di trattare con la mafia senza informare la direzione nazionale antimafia.

L’ex ministro dell’interno Mancino nega però imperturbabilmente di aver saputo dell’esistenza della trattativa tra stato e mafia. Dopodiché viene accusato di falsa testimonianza dalla procura di Palermo, il suo telefono viene messo sotto controllo, perché sospettato di mettersi d’accordo sulle dichiarazioni da fare con altri sospettati. Attorno all’utilizzo delle dichiarazioni di Massimo Ciancimino si accende una guerra di religione. La Procura ed anche Salvatore Borsellino verranno duramente criticati. Paolo Borsellino si girerebbe nella tomba, se sapesse che suo fratello ha dato credito alle dichiarazioni del figlio di Don Vito Ciancimino, dice il figlio di un altro magistrato ucciso dalla mafia. “Purtroppo mio fratello non può girarsi nella tomba”, dice Salvatore Borsellino, “perché è stato fatto a pezzi”. Ogni volta che Salvatore Borsellino torna a Palermo, cerca di ritrovare la sua infanzia. La trova nei cubetti di porfido delle strade del centro storico, nel tufo dei palazzi e nella terra rossa di Palermo che profuma di Africa quando piove. Quando Salvatore Borsellino cammina nelle strade, la gente va da lui, gli stringe la mano e lo guarda, come se fosse un fantasma. I fratelli Borsellino sono cresciuti non lontani da piazza Magione, nel quartiere popolare chiamato Kalsa, dove giocavano in mezzo a tisici palazzi barocchi, decadute residenze nobili e rovine della guerra. Fino a poco tempo fa si poteva qui guardare Palermo fino in fondo alla faringe: c’erano case sfondate come crani dal tempo dei bombardamenti alleati del 1943. Oggi, grazie a fondi europei le rovine sono state di nuovo ricostruite, i palazzi rinnovati di fresco, e dove prima c’erano negozi di ceramisti e arrotini, ci sono ora bed&breakfast e lounges. Su di un lato di piazza Magione si trova ancora oggi la scuola di entrambi i fratelli. E dove prima c’era la farmacia gestita dai Borsellino, volano ancora scintille, un fabbro ha il suo negozio, ma tra poco lo abbandonerà. Salvatore Borsellino vuole creare un punto di incontro che porti il nome di suo fratello. Salvatore, appena finiti gli studi, andò a vivere a Milano. Non sopportava di vedere come durante gli anni settanta la mafia aveva devastato la faccia di Palermo con gigantesche speculazioni edilizie che vennero chiamate “il sacco di Palermo”. Da un giorno all’altro vennero rasi al suolo palazzi nobili e ville in stile Liberty insieme con i loro giardini a labirinto, archi e fontane, e sullo stesso terreno la mafia costruì casermoni di cemento. Il lavoro lo trovavano solo quelli che avevano i “santi in paradiso”, cioè qualcuno che poteva fare un favore, che poi in seguito doveva essere ricompensato a sua volta con un altro favore. Paolo Borsellino desiderava che il fratello piccolo tornasse dalla sua famiglia a Palermo, era preoccupato poiché il fratello aveva rinunciato ad un posto fisso per andare a Milano a fondare una società di informatica. Quando si telefonavano, Paolo domandava al fratello: “Totò, perché non torni a Palermo?” e lo rimproverava di non amare abbastanza la sua città natale. Le ultime ferie che i due fratelli trascorsero insieme, furono quelle del natale 1991/92. Si incontrarono in Trentino, anche se poi Paolo dovette partire prima del dovuto: durante la notte di San Silvestro ci fu una strage di mafia. Dopo che la mafia nel maggio 1992 uccise Giovanni Falcone, sua moglie e tre guardie del corpo, Paolo Borsellino lavorava giorno e notte. Voleva sapere perché il suo amico doveva morire. Sebbene non avesse alcun incarico per quella indagine, interrogò testimoni oculari, colleghi, poliziotti, carabinieri e testimoni, andò a Roma a discutere con il ministero e registrò tutto nella sua agenda. Sapeva di non avere più’ molto tempo: “Il tritolo per me è già arrivato” confidava ai colleghi. Ognuno in famiglia, sua moglie, i figli, ed anche Salvatore che viveva a Milano, percepivano il pericolo nel quale Paolo si muoveva. Quando due giorni prima della sua morte parlò l’ultima volta con lui, Salvatore provò a convincere il suo fratello più’ grande ad andare via da Palermo. “Se resti, ti uccidono”, dice Salvatore. “Tu sei scappato da Palermo. Ma io non scappo”, risponde Paolo.

Il giorno della prima udienza del processo sulla trattativa Salvatore Borsellino siede in un bar a Mondello. Da poco ha comprato una casa qui, perché Mondello sembra sempre essere quella degli anni cinquanta, quando lui arrivò con il fratello e facevano passeggiate insieme fino al faro, la bicicletta sulla spalla. “Per me è come se avessi mantenuto una promessa”, dice Salvatore Borsellino, “sono tornato”.

Facciamo un passo indietro. Negli anni Settanta le mafie sono molto “attive” nel campo dei sequestri di persona, con una particolare predilezione verso gli imprenditori (e relative famiglie) del Nord. Secondo le accuse rivolte a Marcello Dell'Utri (confermate dalle sentenze che l'hanno visto fin qui condannato per concorso esterno in associazione mafiosa), l'arrivo di Vittorio Mangano ad Arcore nel 1974, sarebbe da ascrivere (tra le altre cose) alla protezione garantita da Cosa Nostra all'allora giovane imprenditore Silvio Berlusconi. Un pentito, considerato attendibile dai magistrati (Francesco Di Carlo, boss di Altofonte), riferisce anche di un incontro avvenuto sempre nel 1974 fra Berlusconi, Dell'Utri e Stefano Bontate, all'epoca numero uno di Cosa Nostra. Ora, dai verbali che saranno pubblicati il 5 aprile 2013 dal Corriere della Calabria, spunta fuori un'altra storia che si incrocia con quella fin qui raccontata. Negli anni Settanta la 'ndrangheta voleva rapire il futuro Presidente del Consiglio, ma venne “stoppata” dal decisivo intervento di Bontate. Intervento appoggiato da Paolo De Stefano, a capo dell'omonima famiglia di 'ndrangheta. Si parla forse del clan più potente della criminalità organizzata calabrese fra gli anni Settanta e Ottanta, quelli del “boom” dei sequestri di persona, i cui “proventi” saranno investiti nel traffico internazionale di cocaina. Anni in cui la 'ndrangheta si trasforma e inizia a uscire dai confini calabresi, stringendo i primi legami con la politica e la massoneria, per costruire l'impero che tutti oggi conoscono. Nell'articolo, firmato dal direttore del settimanale Paolo Pollichieni - è scritto in una nota diffusa dal settimanale - si evidenzia che quel patto siglato tra calabresi e siciliani fu mal digerito da alcune cosche e provocò una frattura al vertice della 'ndrangheta, che ebbe pesanti ripercussioni negli anni successivi. Per impedire il sequestro del Cavaliere, si mise in moto anche la massoneria deviata e a Milano si svolse un importante incontro che servì a saldare l'accordo con i siciliani".

Di questo però già “La Repubblica” il 12 agosto 1984 scrisse: "LA 'NDRANGHETA VOLEVA RAPIRE BERLUSCONI." C'era un piano per rapire il finanziere Silvio Berlusconi. Lo avevano elaborato e discusso i capi della cosca Ruga-Musitano-Aquilino (quella cui sarebbe collegato don Giovanni Stilo, il sacerdote di Africo in carcere per associazione a delinquere di tipo mafioso). Era stata fissata pure la cifra del riscatto: venti miliardi, non una lira in meno. Un grosso affare, che doveva impegnare praticamente tutti i quarantotto membri della banda e mobilitare tutte le varie "succursali" dell'anonima sequestri della zona ionica reggina. Del progettato rapimento del proprietario di "Canale 5", ha dettagliatamente parlato ai giudici di Locri Franco Brunero, trentasei anni, il rapinatore di San Maurizio Canavese, che faceva parte della banda ma poi ha deciso di collaborare con la giustizia e che, con le sue ricche rivelazioni, ha messo nei guai don Stilo, affermando, anche nel confronto diretto con il sacerdote di Africo, di averlo visto ad un vertice di mafia. Anzi, ha aggiunto che don Stilo in quell'occasione disse di poter intervenire, con il pagamento di trecento milioni da versare a un alto prelato e a un giudice di Cassazione, per far rivedere la sentenza che condannava definitivamente il boss Cosimo Ruga per il sequestro dell'industriale torinese Mario Ceretto. Brunero è diventato per i magistrati locresi una fonte di notizie molto importante, e l'ordinanza di rinvio a giudizio della cosca Ruga firmata dal giudice istruttore Jelasi ne è una prima conferma. Ma Brunero, che ha spiegato tutti i segreti dell' anonima sequestri della zona ionica reggina e ha arricchito di particolari inediti episodi già parzialmente noti ai magistrati inquirenti, non è il solo "pentito" ad aver parlato di don Stilo con il dottor Ezio Arcadi il quale ha fatto arrestare il sacerdote-faccendiero. Ieri don Stilo se n'è stato tranquillo nel carcere di Locri. Il dottor Arcadi ha sospeso infatti per ora gli interrogatori. "Ci sono molte carte da guardare e da organizzare prima di proseguire, penso lunedì, con le contestazioni a don Stilo", ha spiegato il giudice. L'indagine istruttoria, che si prevede avrà tempi lungi, dovrebbe comunque essere a una svolta, anche perchè voluminosi nuovi dossier sono arrivati al magistrato che aveva richiesto atti istruttori a varie questure italiane. Dopo la pausa e dopo il nuovo interrogatorio di domani si prevede comunque che il difensore di don Stilo, l'avvocato Michele Murdaca, inoltrerà le sue richieste immediate per la libertà o per gli arresti domiciliari del proprio assistito. Nel frattempo, il giudice Arcadi dovrebbe avviare un' indagine parallela sull' istituto "Serena Juventus" di cui don Stilo è fondatore e preside. C' è il sospetto (secondo qualcuno le carte del magistrato sono più che sufficienti per dimostrarlo) che nell' istituto "Serena Juventus" siano state commesse irregolarità quanto meno nel "dispensare" diplomi a persone, provenienti da molte parti del paese, senza che ne avessero titoli e meriti. Ma è un' indagine alla quale il magistrato almeno inizialmente potrà dedicarsi molto poco: le vicende di mafia hanno la precedenza.

“Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino Dalla strage di Capaci a via D'Amelio”. Di strage in mistero. Un libro, tra i tanti, di Giorgio Bongiovanni e Lorenzo Baldo. Un carabiniere avanza spedito nell'arena insanguinata di via D'Amelio. Il capitano Giovanni Arcangioli regge in mano la borsa in cuoio di Borsellino. Scavalca brandelli di carne e pozzanghere rosse. Scansa i mattoni caduti a terra come coriandoli. Lo sguardo è distaccato. E' concentrato su quello che deve fare. Un fotografo riesce a immortalare quell'immagine. Anche le telecamera di due Telegiornali nazionali riprendono la scena. Ma in pochi istanti Arcangioli si allontana da via D'Amelio. Scompare dalla visuale di qualsiasi apparecchiatura fotografica e di video riprese. Inizia così il mistero della sparizione dell'agenda rossa del magistrato appena assassinato. Quell'agenda che Paolo Borsellino portava sempre con sé all'interno della valigetta tenuta in mano da Arcangioli. Poco dopo lo scoppio dell'autobomba il primo ad arrivare sul posto è Giuseppe Ayala che abita a 200 metri di distanza. Si avvicina al punto dell'esplosione di via D'Amelio, riconosce per terra Paolo Borsellino. Dopo lo choc iniziale si guarda intorno. Con lui ci sono solo gli uomini della sua scorta. Subito dopo arriva la prima pattuglia di polizia e i vigili del fuoco. In mezzo a quel delirio Ayala si accosta alla macchina del giudice, al suo interno vede la sua borsa. Un agente della sua scorta, l'appuntato dei carabinieri Rosario Farinella, si fa aiutare da un vigile del fuoco per aprire la portiera posteriore sinistra della Croma del giudice. L'esplosione ha incastrato le lamiere, ma dopo un paio di tentativi si riesce finalmente ad aprire. L'appuntato Farinella prende la valigia di Borsellino e la porge all'ex Pm. «Io personalmente ho prelevato la borsa dall'auto – dichiara Farinella agli investigatori – e avevo voluto consegnarla al dr. Ayala. Questi però mi disse che non poteva prendere la borsa in quanto non più magistrato, per cui io gli chiesi che cosa dovevo farne. Lui mi rispose di tenerla qualche attimo in modo da individuare qualcuno delle Forze dell'Ordine a cui affidarla. Unitamente a lui ed al mio collega ci siamo allontanati dall'auto dirigendoci verso il cratere provocato dall'esplosione, mentre io reggevo sempre la borsa». «Dopo pochissimi minuti – ricorda l'appuntato dei carabinieri – non più di 5-7, lo stesso Ayala chiamò un uomo in abiti civili che si trovava poco distante e che mi indicò come ufficiale o funzionario di polizia, dicendomi di consegnargli la borsa. Allo stesso, il dr. Ayala spiegava che si trattava della borsa del dr. Borsellino e che l'avevamo prelevata dalla sua macchina […]; l'uomo che ha preso la borsa non l'ha aperta, almeno in nostra presenza; ricordo che appena prese la borsa, lo stesso si è allontanato dirigendosi verso l'uscita di Via D'Amelio, ma non ho visto dove è andato a metterla». Quello che avviene subito dopo in quella via è un buco nero degno della Spectre di Bondiana memoria. Arcangioli si allontana dal cratere di via D'Amelio con la valigetta in mano. E' questione di minuti e la borsa ricompare di nuovo nel sedile posteriore della Croma di Borsellino. In via D'Amelio sono sopraggiunti nel frattempo il commissario Paolo Fassari (I Dirigente della Polizia di Stato, Funzionario reperibile per la Squadra Mobile di Palermo in assenza del dirigente Arnaldo La Barbera) e l'assistente capo di Polizia, Francesco Paolo Maggi. Dopo aver espletato alcune attività investigative Francesco Maggi si avvicina alla Croma di Borsellino. La portiera posteriore sinistra è aperta. Sul sedile posteriore è appoggiata la valigetta di Borsellino. Lo stesso Maggi racconterà di averla prelevata dall'auto, di averla portata in questura e su indicazione di Fassari. Verso le ore 18,30 la borsa è nell'ufficio del dirigente della squadra mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera. Ma nella valigetta non verrà ritrovata l'agenda rossa. Si ripetono così i lugubri «canoni» della maggior parte degli «omicidi eccellenti». Alle personalità uccise viene trafugato un oggetto personale ritenuto compromettente per i mandanti di quell'omicidio. Non ha importanza che si tratti di un diario, di un'agenda o di un  video. Non deve rimanere alcuna traccia del lavoro della vittima. Non deve rimanere memoria delle sue analisi, dei suoi riscontri o delle sue deduzioni. L'oggetto trafugato deve finire nelle mani di chi potrà eventualmente usarlo come arma di ricatto verso terzi. Una metodologia palesemente al di fuori dalle mere logiche di vendetta di Cosa Nostra nei confronti dei propri nemici. Il mistero che ruota attorno alla scomparsa dell'agenda rossa di  Borsellino si impregna così di quei «sistemi criminali» che sono alla base dello stragismo nel nostro Paese. Le «menti raffinatissime» che ordinano di fare sparire l'agenda del magistrato temono che tra quelle pagine vi sia la prova delle sue conoscenze di quel «gioco grande» che aveva individuato. La forza dirompente dell'integrità morale di Paolo Borsellino, unita alla sua straordinaria professionalità sono in assoluto i fattori destabilizzanti per quelle entità esterne a Cosa Nostra. Una serie di convergenze di interessi tra Cosa Nostra e centri para-istituzionali si intersecano indissolubilmente quel 19 luglio 1992. E la storia è tutta da riscrivere.

Sono stato al convegno di Bari del 3 aprile 2009, organizzato da una associazione di avvocati di Bari per la presentazione del libro di Giuseppe Ayala intitolato: “Chi ha paura muore ogni giorno”, scrive Michele Imperio. Ho assistito a un convegno pirotecnico. Perché dico questo? Perché io questo libro di Ayala ancora non l’ho letto. Però l’ho sfogliato. E già posso dirvi che esso contiene delle informazioni che tu quando le leggi salti sulla sedia. Ve ne cito una: A un certo punto Giuseppe Ayala riferisce che prima del noto Consiglio della Magistratura che bocciò la nomina di Giovanni Falcone a capo dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo e che di fatto diede l’avvio alla chiusura dell’esperienza magica del maxiprocesso contro Cosa Nostra, il giudice Giancarlo Caselli gli telefonò quasi piangendo e gli disse che lui avrebbe votato per Falcone, ma non era riuscito a convincere gli altri magistrati iscritti a Magistratura Democratica a fare altrettanto, per cui questi avrebbero appoggiato e sostenuto il giudice Antonino Meli. Tutti ricordano come andò: Antonino Meli vinse, divenne lui capo dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo e sciolse il pool antimafia e riportò il livello del contrasto dello Stato contro la mafia ai tempi de "la mafia non so se ci sia". Allora puntualizziamo alcuni concetti: già da allora Magistratura Democratica (la potente consorteria dei magistrati di sinistra) si era spaccata in due correnti (l’una D.S. – Caselli) l’altra che aderiva alla Benemerita (ossia l’ex sinistra democristiana). Quindi fu la Benemerita che andò a svegliare di notte questo Meli per invitarlo a presentare il giorno dopo (ultimo termine utile) la candidatura a capo dell’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo onde evitare che Falcone diventasse capo dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo. Lo stesso Ayala si è lamentato che il quotidiano “Repubblica” non ha mai recensito questo suo libro, non ne ha mai parlato, non ne vuole parlare. E tuttavia ha detto: “Repubblica rimane sempre il mio giornale di riferimento”.……..Mha……..Senonché nel mentre si parlava del più e del meno in relazione a vicende che riguardavano l’attività del noto pool di magistrati antimafia di Palermo, Salvatore Borsellino, fratello del defunto Paolo, ha lanciato in aula una bomba. Premetto che il 1° luglio 1992 Paolo Borsellino stava interrogando nella sede della Dia di Roma il collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo. A un certo punto ne viene interrotto da Vincenzo Parisi, (capo della polizia)  il quale, spacciandosi per il ministro Nicola Mancino o servendosi del ministro Nicola Mancino, lo convoca d’urgenza al Ministero degli Interni ove per circa un’ora avrà con lui un incontro drammatico e burrascoso. Premetto ancora che il 16 e il 17 luglio 1992 Paolo Borsellino interroga ancora Gaspare Mutolo, che si propone di interrogare nuovamente lunedì 20 luglio 1992. Ebbene Vincenzo Parisi lo viene a sapere. Piomba a Palermo con l’aereo il 16 luglio sera e rimane a Palermo fino al 21 luglio 1992, giorno dei funerali di Paolo Borsellino, che viene barbaramente assassinato il 19 luglio 1992. «Dovete sapere – dice a un certo punto del convegno Salvatore Borsellino - che mio fratello Paolo dopo il 1° luglio 1992 chiese varie volte al Procuratore della Repubblica di Caltanisetta di essere ascoltato come testimone per riferire circostanze decisive per l'accertamento della verità della strage di Capaci in cui perirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta, ma questi, il Procuratore della Repubblica di Caltanisetta, si rifiutò di ascoltarlo.» Al che Giuseppe Ayala, sorridendo, ha commentato: “Eh si! In effetti c’è anche questa!”.

Le indagini sulla sparizione dell'agenda rossa del giudice Paolo si stanno arricchendo di importanti novità, anche in video. (You tube il processo mancato). Attualmente la ricostruzione dei fatti della Procura della repubblica di Caltanisetta segue questa linea: c'era sul posto una persona non identificata (un uomo di età apparente tra i 40 e i 50 anni, fortemente stempiato, vestito elegantemente presumibilmente un fiduciario dei servizi, un contractor slegato da un’ufficiale appartenenza agli apparati di sicurezza”) il quale avrebbe per primo preso la valigetta, per poi riporla nella macchina del giudice. Solo dopo la valigetta, ormai vuota del suo contenuto, sarebbe stata consegnata da Ayala Giuseppe a Giovanni Arcangioli, e dopo questo momento venne fatta la “famosa” fotografia di Arcangioli con la valigetta di Borsellino nella mano destra. La Procura di Caltanisetta sta valutando di riascoltare Ayala Giuseppe e Roberto Farinella membro della sua scorta, il quale nelle prime indagini fece queste importanti dichiarazioni supportate da quelle di una altro poliziotto: “Aperta la macchina del giudice, ho preso la sua borsa. Dopo 5-7 minuti Ayala chiamò un uomo in abiti civili che mi indicò come ufficiale o funzionario di polizia. Questi prese la borsa senza aprirla e si è allontanato”. La Procura della Repubblica di Caltanisetta oltre Ayala e Farinella vuole ascoltare anche “un oscuro manovale dei servizi”, che in seguito lavorò con Ayala stesso, tal Campesi Roberto (inspiegabilmente sul luogo della strage, pur non avendo alcun ruolo “istituzionale”). E infine vuole riascoltare un altro poliziotto quello che riscontra Roberto Farinella il quale pure era presente sul luogo della strage e che ha dichiarato: "Non riesco a ricordare se l'uomo non identificato mi abbia chiesto qualcosa in merito alla borsa o se io l’ho visto con la borsa in mano... Di sicuro ho chiesto chi fosse per essere interessato alla borsa del giudice, e lui mi ha risposto di appartenere ai Servizi Segreti”. Il poliziotto, riascoltato di recente, ha fornito ulteriori delucidazioni, tuttavia non ci è dato conoscere i nuovi dettagli: il verbale del nuovo interrogatorio è top secret. Il fine di queste ulteriori indagini è quello di trarre informazioni sull’identità di tutti i personaggi fotografati o ripresi dalle telecamere nei momenti successivi alla strage, presenti in via d’Amelio, soprattutto tra le 17 e le 17 e 30, il lasso di tempo in cui si configura la sparizione dell’Agenda Rossa di Paolo Borsellino. Il legale di Arcangioli Diego Perugini ha sempre invitato all’identificazione di tutti gli elementi sulla scena del delitto di via d’Amelio, fin dal 2008. Perugini è sembrato soddisfatto di come stanno procedendo le indagini, visto che lui ha sempre parlato di “presenze sul luogo della strage di soggetti che, all’epoca dei fatti, avevano un rilevante ruolo istituzionale, ma che non appaiono in alcun atto di indagine alla cui luce, anzi, se ne dovrebbe dedurre che non fossero presenti sul luogo”. Il problema di Ayala Giuseppe Magistrato in servizio presso la Corte di Appello de L'Aquila è che lui dice cose molto diverse da quelle che dice il suo uomo di scorta Roberto Farinella e il poliziotto. (You tube Borsellino offeso da Ayala). Sopratutto del misterioso uomo in abiti civili che ha preso per primo la borsa dietro sua direttiva non parla mai. Ayala Giuseppe infatti viene sentito una prima volta soltanto l’8 aprile del 1998, e neppure con riferimento alla strage ma nell’ambito di un filone di indagine sui mandanti occulti della strage stessa. Ed in quella occasione l’ex magistrato offre la sua prima versione dei fatti: arrivato dopo 10-15 min dall’esplosione in via D’Amelio (abitava a 150 metri, al residence Marbella), dopo avere constatato che era Paolo Borsellino l’obbiettivo dell’attentato, aveva visto un carabiniere in divisa aprire lo sportello posteriore della Croma e prendere una borsa con tracce di bruciacchiatura. L’ufficiale gliela vuole consegnare ma lui non è più un magistrato in servizio e quindi non può riceverla. Ayala Giuseppe invita quindi il carabiniere a trattenerla per consegnarla poi ai Magistrati. In sua presenza, precisa, quella borsa non è mai stata aperta. E che fine abbia fatto non lo sa, poichè si è disinteressato della vicenda. La sua versione cambia una prima volta il 13 settembre 2005, dopo l’interrogatorio di Giovanni Arcangioli. Arcangioli viene interrogato il 5 maggio del 2005 dopo la scoperta del filmato che lo ritrae con la borsa in mano e ammette subito di avere effettivamente preso la borsa di Paolo Borsellino. L’ha fatto - rivela - su richiesta di uno dei due Magistrati che aveva incontrato sul luogo della strage, Ayala Giuseppe e Vittorio Teresi. Sul posto Arcangioli incontra anche Alberto Di Pisa, magistrato di turno. Non solo: una volta presa la borsa, uno dei due magistrati l’aprì  e “constatammo che all’interno non c’era alcuna agenda, ma soltanto dei fogli di carta2. Su richiesta di uno dei due magistrati, infine, Arcangioli ricorda di avere incaricato uno dei suoi collaboratori a depositare la borsa nell’auto di servizio “di uno dei due magistrati”. “Ma su quest’ultimo punto non è certo: si tratta di un ricordo molto labile e potrei essere impreciso2, non sa “se poi veramente ciò è avvenuto in tali termini”. Ma non è soltanto quest’ultimo ricordo ad apparire confuso: Vittorio Teresi dirà di essere arrivato in via D’Amelio un’ora e mezzo dopo, Alberto Di Pisa, che non era magistrato di turno, in via D’Amelio non è mai venuto. Risentito dopo la deposizione di Arcangioli Ayala Giuseppe cambia una prima volta versione: Non c’è più un carabiniere che apre lo sportello posteriore sinistro, ma l’ex magistrato ricorda di averlo visto già aperto, e di avere preso egli stesso la borsa bruciacchiata poggiata sul sedile posteriore e di averla affidata ad un ufficiale dei cc in divisa “meno giovane di Giovanni Arcangioli”. Anche in questo caso Ayala Giouseppe ribadisce di non avere mai aperto la borsa per verificarne il contenuto. Senonchè le due versioni (quella di Arcangioli e quella di Ayala) sono chiaramente in contrasto tra loro e allora la Procura chiama a deporre Ayala Giuseppe per una terza volta. E in quest’occasione l’ex magistrato si fa aiutare nel ricordo da un giornalista presente sul luogo della strage, l’inviato del Corriere della Sera Felice Cavallaro. In quest’ultima versione, confermata dal giornalista, Ayala Giuseppe vede prelevare da una persona in borghese (è certo che non fosse in divisa) la borsa dallo sportello posteriore sinistro e gliela consegna. Lui, magistrato non in servizio, non può tenerla e la gira ad un ufficiale dei cc in divisa. “Il tutto dura 30 secondi, forse 1 minuto”, ripete Ayala Giuseppe. Senonchè la sua versione continua a restare incompatibile con quella di Arcangioli e la Procura, quello stesso giorno, mette i due a confronto. In questa sede Giovanni Arcangioli aggiunge qualche dettaglio: “per esortazione di qualcuno che non ricordo (credo fosse Ayala Giuseppe) ho preso la borsa dal pianale post sinistro sono andato nel lato opposto di via D’Amelio, ho aperto la borsa, non c’era nulla di interessante, e ho rimesso (o fatto rimettere) la borsa nel sedile posteriore. Il tutto alla presenza di Ayala. C’era anche un ufficiale cc? Non ricordo”. E Ayala Giuseppe infine ribadisce: “non conoscevo Arcangioli e oggi lo vedo per la prima volta”. In conclusione ormai l'arcano è chiarito: la borsa con l'agenda in un primo tempo l'ha presa Ayala Giuseppe , il quale ha dato disposizione al suo uomo della scorta Roberto Farinella di consegnarla all'uomo in abiti civili dei Servizi Segreti, dicendo che costui in realtà era della Polizia. Però poi l'altro poliziotto ha accertato che era dei Servizi Segreti. Questi ha svuotato la borsa e l'ha riposta all'interno della vettura di Paolo Borsellino. Poi lo stesso Giuseppe Ayala ha rifilato la borsa vuota a Giovanni Arcangioli giovane e inesperto Carabiniere dicendolo di vedere se dentro c'era un'agenda. Arcangioli ha portato poi la borsa in ufficio. Qui semmai ha incontrato Alberto Di Pisa e Vittorio Teresi e probabilmente anche Mario Mori. Quando le citate persone hanno visto che la borsa era vuota e hanno sentito il racconto di Arcangioli, hanno intuito il tranello e Giovanni Arcangioli o chi per lui, per non stilare un rapporto in cui avrebbe dovuto dire che la borsa era incredibilmente vuota (che se la portava a fare Borsellino appresso una borsa se questa era vuota?) l'ha rimessa sul sedile posteriore della macchina da dove era stata presa. Quindi il responsabile della sparizione dell'agenda rossa di Paolo Borsellino è Ayala Giuseppe? Ayala Giuseppe era diventato da poco parlamentare del Partito Repubblicano, di cui era garante a Palermo Aristide Gunnella e leader nazionale Lamalfa Giorgio. Gunnella era grande amico del giudice Domenico Signorino, suicidatosi misteriosamente a Palermo pochi mesi dopo la morte di Paolo Borsellino. Ayala Giuseppe aveva ricevuto la promessa che avrebbe dovuto fare il Ministro di Grazia e Giustizia nel governo Prodi (ma più probabilmente nel mai nato governo Martelli) Poi Prodi - come si sa - offrì la carica al suo avvocato Giovanni Maria Flik. Ma su Ayala Giuseppe ci sono altri problemi. Da quando era diventato parlamentare, tutti i fine settimana Giuseppe Ayala tornava a Palermo con il volo del Sisde di Giovanni Falcone. Il 23 maggio non volle tornare e volle restare a Roma. Sappiamo da poco che già quattro giorni dopo l'eccidio di Giovanni Falcone e della scorta, i Servizi cominciarono a preparare l'assassinio di Paolo Borsellino, accelerato dopo l'interrogatorio di Gaspare Mutolo espletato il 17 luglio 1992 e che Borsellino si riproponeva di continuare il 20 luglio 1992. Quindi probabilmente nella borsa oltre l'agenda rossa c'erano anche questi verbali. Dopo la sentenza sul maxi-processo Ayala Giuseppe aveva telefonato a Giovanni Falcone per complimentarsi che le sue ipotesi investigative sul maxi-processo erano state confermate anche dalla Corte di Cassazione. Falcone riferì che rimase turbato e perplesso per quella telefonata. La sentenza confermativa del maxi-processo era stata propiziata da Claudio Martelli, al quale Scalfaro aveva promesso il premierato se lui fosse diventato Presidente della Repubblica.

USURA E MAGISTRATURA.

Intercetta che ti intercetta, l'ex pm Antonio Ingroia qualcosa di grosso la becca sempre. E così, dopo il caso Napolitano, ecco un'altra vicenda dagli effetti dirompenti che indirettamente vede coinvolto l'ex procuratore aggiunto, poi in forza all'Onu in Guatemala: il suo ex capo, il procuratore di Palermo Francesco Messineo, è indagato, a Caltanissetta, per fuga di notizie. È stato intercettato, nell'ambito di un'indagine condotta proprio dal suo ex aggiunto, mentre parlava al telefono con un alto funzionario di Banca Intesa, che era indagato per una presunta storia di usura bancaria. E così il fascicolo è finito a Caltanissetta, competente per i procedimenti che riguardano magistrati del distretto di Palermo. Una bufera che promette strascichi pesanti: le toghe palermitane hanno siglato un documento che chiede di discutere il caso in assemblea. L'accusa per il procuratore capo, che è stato già interrogato per sei ore da un altro suo ex pm, Nico Gozzo, ora in forza alla procura nissena, è violazione di notizie coperte da segreto istruttorio. Il procuratore di Palermo Francesco Messineo è indagato dalla Procura di Caltanissetta per violazione di notizie riservate. Così scrive “Il Corriere della Sera”. Il capo dei pm è sotto inchiesta per una presunta fuga di notizie nell'ambito di un'indagine per usura bancaria a carico di Banca Nuova (importante istituto di credito siciliano). Accompagnato dall'avvocato Francesco Crescimanno, è stato sentito dal procuratore aggiunto di Caltanissetta Domenico Gozzo per circa 5 ore. Sul contenuto dell'interrogatorio c'è il massimo riserbo, ma secondo indiscrezioni il procuratore avrebbe negato di avere rivelato notizie riservate all'ex direttore di Banca Nuova, Francesco Maiolini. Maiolini, nei mesi precedenti ricevette un avviso di identificazione, e chiamò al telefono Messineo per chiedere di cosa si trattasse. L'ex manager non sapeva di essere intercettato nell'ambito di un'altra inchiesta per riciclaggio coordinata dall'aggiunto della dda di Palermo Antonio Ingroia. Dopo la conversazione, il procuratore e Maiolini si sarebbero incontrati e successivamente l'ex direttore di Banca Nuova avrebbe chiamato l'avvocato dell'istituto di credito mostrando di conoscere particolari molto precisi sull'inchiesta per usura. Nel frattempo Messineo si sarebbe informato sull'indagine sull'usura con uno dei sostituti che la coordinava. Chi aveva rivelato le notizie a Maiolini? È proprio su questo che ruota l'indagine dei pm di Caltanissetta che hanno ricevuto le carte sulla vicenda dall'allora procuratore aggiunto di Palermo Ingroia a settembre, tre mesi dopo la prima telefonata intercettata tra il procuratore e l'ex direttore generale.

LA MAFIA, COME MAI L'AVETE CONOSCIUTA E CONSIDERATA. LA MAFIA COME MAI L'AVETE STUDIATA.

UN'OPERA FUORI DAL CORO: ESTEMPORANEA. PERCHE' LA MAFIA TI ROVINA LA VITA, LO STATO TI DISTRUGGE LA SPERANZA.

Per rimembrare ed a futura memoria si presenta al mondo la composizione e l'elaborazione di un'opera di didattica e di ricerca senza influenze ideologiche, territoriali e temporali. Opera di me medesimo, Antonio Giangrande, autore di decine di libri di inchiesta e di denuncia. Scrittore non omologato, quindi osteggiato da media ed istituzioni e per questo poco conosciuto.

La mia ricerca e la mia didattica, non per giudicare, ma per conoscere.

Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai costumi territoriali. A differenza degli animali la maggior parte degli umani non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica, ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed immeritato potere o risultato. I più intelligenti, conoscendo il proprio limite, cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e nuovi orizzonti. Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. In non omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi ad entità. L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perché "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento  e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sé, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.

Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla. 

Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).

Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento verticale, criminale e vessatorio, di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti).

La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.

Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso e non recedo mai dal dire: la mafia ti distrugge la vita, lo Stato ti uccide la speranza.

Io rappresento l’ “Associazione Contro Tutte le Mafie”,  un sodalizio nazionale al pari di “Libera” di Don Luigi Ciotti, e come scrittore scrivo e parlo di mafiosità, essendo il sottoscritto un saggista di sociologia storica letto in tutto il mondo e con 40 opere all’attivo. Scrivo e parlo come e più di Roberto Saviano. Per gli effetti di ciò sono conosciuto e stimato in tutto il mondo, pur travalicando gli ostacoli mediatici posti dall’informazione censoria che tutela il potere imperante ed il pensiero ideologico sinistroide dominante.

La nostra attività e solidarietà alle vittime del “Sistema mafioso” si concretizza nel raccontare la verità censurata in video ed in testi.

Da presidente nazionale di una associazione antimafia è una vergogna non essere invitati ad alcuna celebrazione istituzionale o scolastica dedicata ai martiri della mafia: tra cui Falcone e Borsellino. Questo pur essendo io il massimo esperto della materia.

Questo succede perché io non seguo la logica nazionale delle celebrazioni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, specialmente fatta da chi ne ha causato la morte. L’ostracismo c’è perché non mi sottometto a questa antimafia e non mi associo alla liturgia di questa antimafia che poi è forse solo propaganda e speculazione. Si farebbe cosa nobile, invece, svelare la verità sulla morte di Falcone, Borsellino, Dalla Chiesa e gli altri e disincentivare tutti quei comportamenti socio mafiosi che inquinano la società italiana.

Come si farebbe onore alla verità svelare chi e come paga l’ambaradan di carovane e carovanieri. In riferimento all’attentato di Brindisi ed a tutte le manifestazioni di esaltazione di un certo modo di fare antimafia di parte e di facciata, denuncio l’ipocrisia di qualcuno che suggestiona e manipola la mente dei giovani per indurli ad adottare comportamenti miranti a promuovere una verità distorta su chi e come fa antimafia. Brindisi e Mesagne e l’intero Salento sono diventate tutto d’un tratto terra di mafia e di mafiosi per giovare agli interessi di questa antimafia e per gli effetti sono diventate palco promozionale per carovane e carovanieri proveniente da ogni dove, da cui io prendo assolutamente le distanze. Mesagne e Brindisi e tutto il Salento non hanno bisogno di striscioni in sparute manifestazioni o di omelie religiose per fare ciò che deve essere fatto: sia in campo istituzionale, sia in campo sociale. Gli studenti, con la mente vergine ed aperta, non devono essere influenzati da falsi pedagoghi catto-comunisti, sostenuti da sindacati e movimenti di sinistra, che inducono a falsi convincimenti di tipo ideologico. La lotta alla mafia è un’altra cosa: è conoscenza senza censura ed omertà, scevra da giudizi preconcetti.

Tutti dicono a tutti cosa fare, cosa studiare, come e dove informarsi.

I ragazzi, che sono i primi destinatari di consigli interessati, non cadano nel tranello di elevarsi a maestrini e di dire anche loro agli altri cosa devono fare. Dato che gli altri sono anche loro stessi, sanno bene cosa devono fare. Per questo chiedo che si lasci ai ragazzi la libertà di informarsi in modo asettico e di far testimoniare a loro una realtà che solo essi stanno vivendo.

I ragazzi non deleghino ai media approssimativi, voltagabbana ed ipocriti il racconto della verità. Lo facciano direttamente loro ragazzi, protagonisti delle vicende della vita. Così come io faccio ne rendicontare quanto io vedo e sento.

Il mio aiuto può concretizzarsi nell’offrire l’opportunità ad uno studente, ad una classe, o all’intero istituto scolastico di scrivere un libro su quanto veramente accade in riferimento ad un accadimento, ma con la piega sociologica: ossia, raccontare con i loro occhi la vicenda inserita in un contesto sociale, mediatico, istituzionale-giudiziario, che vada oltre l’ambito locale. Così come io ho fatto con la vicenda di Sarah Scazzi, avendo rendicontato da avetranese. Affinchè in fatti di cronaca riportati dalla stampa non sia vittima tutta la comunità o l’ambiente sociale coinvolto. Nessuno deve essere giudicato da chi viene paracadutato con i suoi pregiudizi ed i suoi luoghi comuni. Se gli altri non ci rappresentano, ci rappresentiamo da soli, senza censure ed omertà. I media raccontano la cronaca: noi tutti insieme facciamola diventare storia senza tempo e senza spazio. Io mi impegno a divulgare in tutto il mondo l’elaborato scritto dagli studenti, eventualmente con l’aiuto dei docenti, attraverso i miei siti, e, se del caso pubblicarlo come E-Book sui portali internazionali.

MAFIOSO A CHI?

I legami pericolosi del legalista Crocetta tra boss e pentiti. Panorama rivela: a Gela il governatore era in confidenza con Di Giacomo, ex consigliere in odore di mafia, scrive Gian Marco Chiocci  su “Il Giornale”. Nella Sicilia dei due governatori marchiati a fuoco con l'infamante accusa di aver avuto rapporti con Cosa nostra, il neogovernatore star antimafia Rosario Crocetta si ritrova a combattere coi fantasmi del passato. Che raccontano di amicizie pericolose, frequentazioni e appoggi elettorali ad alto voltaggio.

Dopo le rivelazioni del Giornale e le accuse della senatrice Simona Vicari del Pdl, è il settimanale Panorama in edicola quest'oggi a fare il botto. In cima alla lista c'è quella con Salvatore Di Giacomo, ex consigliere provinciale dell'Udeur in odore di mafia, di cui scrisse l'allora vicequestore Antonio Malafarina in un'informativa che raccontava anche di un boss, poi pentito, che faceva campagna elettorale per un giovane Crocetta (quel poliziotto oggi è stato eletto nel listino bloccato di Crocetta in consiglio regionale). Questo Di Giacomo veniva descritto come un personaggio in grado di orientare il sistema degli appalti «dall'alto della sua riconosciuta caratura criminale». Crocetta dice di averlo incontrato nel 2002 su richiesta di Di Giacomo. A smentirlo è però Roberto Sciascia, ex responsabile dei Lavori pubblici del Comune di Gela, che afferma: fu Crocetta a cercare Di Giacomo, col quale «c'era confidenza».

Ricorda Sciascia che in quell'occasione si lavorò al patto elettorale che prevedeva che Di Giacomo avrebbe portato in dote a Crocetta (candidato sindaco) i suoi voti e lui avrebbe nominato il figlio Paolo assessore. Alla fine, Crocetta non accetta la proposta per il posto in giunta, ma si impegna ricorda l'ex tecnico comunale a trovare un posto di lavoro a Paolo Di Giacomo. Crocetta perde le elezioni, fa ricorso e vince al Tar spodestando l'eletto Giovanni Scaglione, con cui alla fine si era apparentato Di Giacomo. Qualche tempo dopo, Crocetta e Di Giacomo rompono ogni rapporto nonostante quest'ultimo fosse stato avvistato al comizio del nuovo sindaco a Gela. Di lì a poco Crocetta inizia a subire minacce che per il vicequestore Malafarina possono «trovare il loro presupposto in delicati equilibri di potere mafioso» e non, come inizialmente si pensò, nell'allora nascente impegno antimafia del primo cittadino. Questa storia, il battagliero Sciascia è andata a raccontarla ai carabinieri che, afferma, lo avrebbero sentito su delega del pm della Dda di Caltanissetta Nicolò Marino, entrato da poco nella giunta Crocetta come assessore esterno. Dell'esistenza di quest'inchiesta non se ne sa nulla. Marino e Crocetta, contattati da Panorama, non hanno voluto rispondere. Così il governatore che adesso accusa i «giornali di destra» di volerlo infangare non ha potuto spiegare le parole del pentito Rosario Trubia sul presunto appoggio elettorale ricevuto da Cosa nostra quando correva a sindaco. E che dire poi dei suoi rapporti con Alessandro Barbieri, a cui farà da testimone di nozze e che «diventa capomandamento di Gela nel 1989». Barbieri è il consuocero di Pino Piddu Madonia, il capo dei capi della mafia nissena, ergastolano per la strage di Capaci, avendo suo figlio Marco sposato Maria Stella, figlia del padrino. Di lui il governatore ha questo ricordo: «Era un fine intellettuale. Che leggeva molto e amava il poeta francese Arthur Rimbaud». Et voilà.

Perchè l'uscita del neo governatore della Sicilia deve fare paura, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Nel numero di Panorama in edicola dal 22 novembre 2012 un'inchiesta sui rapporti del neo governatore della Sicilia e Cosa Nostra. Le relazioni pericolose fra il neo governatore siciliano, Rosario Crocetta, e gli esponenti di Cosa Nostra. In esclusiva sul nuovo numero di Panorama, in edicola dal 22 novembre, le frequentazioni dell’ex sindaco di Gela, con i boss del clan Emmanuello, famiglia affiliata a Cosa Nostra. Il torbido intreccio fra Crocetta e i neo assessori regionali da lui designati, Antonio Malafarina (ex commissario di Gela) e Nicolò Marino (pm di Caltanissetta), rispettivamente il commissario e il pubblico ministero che hanno registrato e indagato sui rapporti intercorsi fra il neo presidente e gli esponenti dei clan gelesi. Dagli incontri al ristorante con uomini d’onore, alle testimonianze di alcuni pentiti che raccontano dell’aiuto che Cosa Nostra avrebbe fornito a Crocetta durante l’elezione a sindaco. I dettagli di amicizie e relazioni pericolose, ricostruite dettagliatamente nell’inchiesta esclusiva di Panorama. Il sindaco antimafia che andava a braccetto con la mafia. Alcune delle vicende a cui sembra fare riferimento Panorama avevano già fatto irruzione in campagna elettorale. In particolare i rapporti tra Crocetta ed Emanuele Celona, uomo d'onore diventato poi collaboratore di giustizia, evocati da alcune testate locali e riprese in una polemica lettera a Lucia Borsellino della senatrice del Pdl Simona Vicari. Vicende, quelle fin qui emerse, che non hanno avuto conseguenze per Crocetta, come ricordato in campagna elettorale dal questore Malafarina. In una conferenza stampa a Catania un giornalista di Sud Press aveva chiesto con insistenza a Crocetta di parlare di Celoma e in quella circostanza il governatore aveva minacciato di querelarlo. Al riguardo il neogovernatore ha ribadito più volte di essere intervenuto personalmente per convincere Celoma a collaborare con la giustizia, collaborazione che avrebbe portato poi a una raffica di arresti. Malafarina ha detto che il rapporto di polizia in cui si parlava dei contatti tra Crocetta e Celona è stato posi smentito dal prosieguo delle indagini.

Voce dal sen fuggita… La prima reazione di Rosario Crocetta sulla copertina di Panorama in edicola da oggi, giovedì 22 novembre, è più che significativa. Dice Rosario Crocetta: «Si, penso di denunciare Saverio Di Blasi» dice il neopresidente della Regione Sicilia. E aggiunge: «Ma devo trovare il momento opportuno. E soprattutto devo trovare il tribunale giusto e non quello che magari mi vuole fottere perché è in mano ai mafiosi». Saverio Di Blasi è una delle fonti ascoltate da Panorama nella storia di copertina che descrive le frequentazioni pericolose che, nel corso del tempo, ha avuto Crocetta: ex presidente dei Verdi di Gela, è stato Di Blasi a candidare Crocetta alle elezioni amministrative del 1998. Ed è sempre Di Blasi a raccontare oggi a Panorama che Crocetta era in stretti rapporti con Emanuele Celona, già esponente della cosca gelese degli Emmanuello e divenuto collaboratore di giustizia quattro anni dopo, nel 2002. Celona, secondo quanto riferisce Di Blasi, nel 1998 du uno dei principali collaboratori elettorali di Crocetta: e quando Di Blasi capì con chi aveva a che fare cercò di avvisare il candidato Crocetta. Il risultato fu, secondo le parole di Di Blasi, che Celona affrontò a muso duro il presidente dei Verdi: «Qualche giorno dopo arriva in sede. Ci guarda a muso duro e dice: “Che c’è, non vi piace la mia faccia” e intanto si apre la giacca: ha una pistola infilata nella cintura». Quel che stupisce, nella reazione di Crocetta alle rivelazioni di Di Blasi, è quel che segue nelle parole con le quali annuncia la querela: quel «devo trovare il tribunale giusto». E stupisce anche il tempismo che, aggiunge, dovrà sottendere alla sua presentazione. L’idea che, nella testa del governatore siciliano, esistano tribunali per lui «giusti» e «sbagliati» fa decisamente paura. E viene polemicamente da chiedersi che cosa Crocetta sappia di questi tribunali «giusti» e di quelli che «vogliono fottere» (lui o altri). Anche alla luce del fatto che, malgrado esistano carte giudiziarie e interrogatori di pentiti dove (a torto o a ragione) nel corso degli anni è comparso il nome dello stesso Crocetta, nessuna procura siciliana finora ha mai avviato un’inchiesta su di lui.

“Le relazioni pericolose di Crocetta” recita il titolo della copertina che Panorama dedica al presidente della Regione e ripresa da “Live Sicilia”. Un'inchiesta del settimanale raccoglie documenti e testimonianze. Dai rapporti con i boss agli appoggi elettorali: viene fuori un atto d'accusa pesante contro un uomo che ha fatto dell'Antimafia il suo credo. Pronto a ribadire, ad ogni occasione utile, il suo essere antimafioso. Rosario Crocetta non ci sta, parla di macchina del fango e ha convocato stamani una conferenza stampa. Top secret i contenuti, ma è facile aspettarsi che si parli anche e soprattutto di questa vicenda. L'inchiesta di Panorama parte dall'informativa firmata nel 2003 dall'allora vice questore Antonio Malafarina, oggi deputato eletto nella lista Crocetta, che scriveva così: “Va rilevato che la campagna elettorale di Rosario Crocetta (il riferimento è alle comunali di Gela del 2002) sarebbe stata in parte condotta da Celona Emanuele, oggi collaborante di Cosa nostra, appartenente alla cosca mafiosa degli Emanuello, più volte notato in compagnia del Crocetta che frequentava la libreria del Celona, il quale avrebbe reso dichiarazioni in merito a questo supporto elettorale”. L'informativa faceva parte del fascicolo sulle “minacce di presumibile stampo mafioso giunte al sindaco di Gela Rosario crocetta”. Minacce che, secondo l'informativa, potevano trovare “il loro presupposto in delicati equilibri di potere mafioso”.

Sui rapporti fra Celona e Crocetta Panorama riprende la testimonianza di Saverio Di Blasi, presidente di Italia Nostra, a Gela, e nel 1998 responsabile dei Verdi. Di Blasi racconta che fu lui a candidare Crocetta al Consiglio comunale e ricostruisce la “strettissima amicizia” fra Celona e il presidente della Regione.

“Celona organizzava con Crocetta incontri in un garage del Bronx - spiega l'ambientalista a Panorama -. Distribuiva materiale elettorale e saliva con lui sul palco durante i comizi. Celona l'ho incontrato spesso a casa di Rosario e Rosario ci dava spesso appuntamento nella libreria di Celona”. Di Blasi aggiunge un particolare inquietante: dice che segnalò a Crocetta la pericolosità di Celona che lo minaccio mostrandogli la pistola che teneva infilata nella cintura. Ed ancora su Panorama si legge di un pranzo organizzato a Scoglitti da Crocetta nel 2002 nel corso del quale il futuro sindaco avrebbe promesso Salvatore Di Giacomo, esponente di una famiglia mafiosa, il suo interessamento per trovare un posto di lavoro al figlio. Una vicenda che un dirigente comunale raccontò ai carabinieri nell'ambito di un'indagine condotta dal pubblico ministero Nicolò Marino, oggi nominato assessore nella giunta Crocetta. Altro capitolo dell'inchiesta giornalistica riguarda le dichiarazioni di Rosario Trubia. L'ex reggente del clan Emmanuello, poi diventato collaboratore di giustizia, nel 2007 raccontò che Crocetta avrebbe ricevuto l'appoggio di “delinquenti e figli di delinquenti”. Incassato il sostegno elettorale Crocetta, una volta eletto, avrebbe vestito invece i panni del difensore della legalità tanto da far dire a Trubia: “Ora lui per non farsi scoprire che era colluso attacca sempre la mafia”. Infine Panorama ricorda l'amicizia fra Crocetta e Alessandro Barberi, suo collega negli anni settanta al Ptetriolchimico di Gela, a cui il governatore fece da testimone di nozze. Negli anni '80 Barberi diventerà capomafia di Gela e consuocero del boss Piddu Madonia.

ANCHE I GIORNALISTI RUBANO?

Parla uno dei giornalisti dell'ufficio stampa della Regione Sicilia, tutti dotati di 'super qualifica', e finiti al centro delle polemiche. L’intervista è di Mariangela Latella su “Panorama”. La tensione è alle stelle negli uffici della Regione Sicilia. I 21 giornalisti dell’ufficio stampa, finiti nell’occhio del ciclone dopo il polverone mediatico scoppiato nei giorni scorsi legato all’eccessivo costo della redazione (lo ricordiamo, sono tutti e 21 con la qualifica di Redattore capo), sono sotto pressione. Da un paio di giorni non vivono più. Ricevono minacce, continui attacchi verbali. Ed hanno paura. Fabio De Pasquale, 43 anni, due figli di 11 e 13 anni, è uno di quei giornalisti al centro della bufera. E’ membro del cdr e non nasconde la sua preoccupazione quando ci parla a nome di tutti i colleghi. «La situazione sta degenerando – ci spiega - . Da quando il presidente Crocetta ci ha dato, letteralmente, in pasto ai media siamo sotto posti a degli attacchi durissimi. Sui blog i toni sono diventati violenti: Scrivono frasi come Andiamo a stanarli a casa oppure Mandiamoli via a calci nel sedere. Ma stiamo scherzando?

Qui siamo tutti padri e madri di famiglia, giornalisti navigati. Il più giovane di noi ha sette anni di esperienza. Tutto questo accade perché il linguaggio usato dal presidente Crocetta non è stato dei più felici».

Ci spieghi...

«Premetto che noi abbiamo saputo tutto dalle agenzie di stampa e dai giornali e che a noi il presidente ancora non ci ha ricevuti nonostante gli abbiamo già chiesto, per ben due volte, un incontro.

Il presidente ha detto che con quello che spende per mantenere quest’ufficio stampa potrebbe assumere 200 precari. Come vuole che reagiscano, le faccio un esempio, i dipendenti della Gesit, una partecipata della regione, che sono qui fuori da alcuni giorni in presidio permanente perché non ricevono lo stipendio da agosto?

Sono imbufaliti. Ci guardano di traverso?».

Pensa che sia normale avere in una redazione 21 giornalisti, tutti caporedattori e assunti senza concorso?

“È normale per il semplice fatto che è una legge regionale, la 79/76, che lo prevede e che ci sono due sentenze, della corte dei conti e della cassazione, che lo ribadiscono. Le nostre assunzioni sono legittime. Sono state fatte per stabilizzare tutta una serie di precari che lavoravano presso gli assessorati. La Rai può stabilizzare e la regione Sicilia no? Ma lei lo sa che in Sicilia, su 18mila dipendenti tra dirigenti e comparto, solo 5mila sono stati assunti tramite concorso».

Ma che siate tutti caporedattori, non le sembra esagerato?

«Senta la differenza tra lo stipendio di un caporedattore con quello di un redattore esperto è di 220 euro lordi. Di che cosa stiamo parlando? Noi siamo tutti giornalisti di lungo corso. Io sono stato assunto come precario nel 2001 e poi stabilizzato nel 2006. Prima facevo il caporedattore di un settimanale siciliano. Ho anche vinto un premio giornalistico nazionale per gli articoli sul malaffare messinese, il cosiddetto verminaio. E i miei colleghi hanno tutti dei background analoghi. Il più giovane di noi ha sette anni di esperienza».

Cosa vi aspettate?

«Nonostante questo attacco mediatico a sorpresa, abbiamo deciso di mantenere un profilo basso perché rispettiamo l’istituzione regione e il nostro presidente. Siamo convinti che una soluzione si possa trovare ma bisogna sedersi a un tavolo e soprattutto guardarsi in faccia. Non ci aspettavamo una sortita del genere da parte di Crocetta che è un presidente di sinistra e per giunta con un trascorso in Petrolchimica».

Temete di dover cercare un nuovo lavoro?

«Se così fosse faremo molta fatica a trovarlo, non solo per via della crisi ma anche perché ormai siamo stati additati come quelli che rubano lo stipendio senza fare niente e le posso assicurare che non è così. Le dico alcuni numeri. Ogni anno mandiamo via mediamente 5mila comunicati; prepariamo 56 edizioni del tg della regione; supportiamo oltre 300 tra televisioni e radio locali con l’invio di materiale audio e video che, soprattutto le piccole emittenti, non riuscirebbero ad avere altrimenti perché non possono permettersi di inviare delle troupe. Vorrei proprio capire come riuscirebbe Crocetta a portare avanti questo lavoro con 4 persone».

PARTINICO. QUANDO I LEGALITARI VIOLANO LA LEGGE.

Il direttore dell'emittente televisiva «Telejato» di Partinico (Palermo), Pino Maniaci, è stato rinviato a giudizio per esercizio abusivo della professione di giornalista, scrive “Il Corriere della Sera”. La «citazione diretta» è stata disposta dal pubblico ministero di Palermo Paoletta Caltabellotta. Il processo è stato fissato davanti al giudice monocratico di Partinico. Secondo l'accusa, Maniaci, «con più condotte, poste in essere in tempi diversi ed in esecuzione del medesimo disegno criminoso», avrebbe esercitato abusivamente l'attività di giornalista in assenza della speciale abilitazione dello Stato, conducendo ogni giorno il tg di Telejato, la tv più volte minacciata, querelata e contestata da boss e notabili della zona di Partinico. Difatti Maniaci può «vantare» oltre 200 querele  e non ha mai voluto prendere il tesserino di giornalista pubblicista. «Tutto nasce da una denuncia anonima fatta in realtà da un collega invidioso della mia popolarità. Non è la prima volta che mi trovo sotto processo per esercizio abusivo della professione. Sono stato assolto dalla stessa accusa. Chiarirò tutto anche questa volta».

Così Pino Maniaci ha commentato la notizia del suo rinvio a giudizio per esercizio abusivo della professione. «Produrrò la sentenza che mi ha già scagionato», ha aggiunto Maniaci, che ha precisato che il direttore della tv locale è Riccardo Orioles. «In occasione dell'ultima intimidazione - ha proseguito - il presidente nazionale dell'Unci mi ha dato la tessera onoraria dell'associazione.

Questo vorrà pur dire qualcosa». Maniaci, infine, ha spiegato che non ha mai chiesto l'iscrizione all'Ordine dei giornalisti «per mancanza di tempo». Giuseppe Giulietti, portavoce di Articolo 21, si augura che il rinvio a giudizio di Maniaci sia «uno spiacevolissimo equivoco, dal momento che quando lui fu aggredito e pestato dagli "amici degli amici" gli fu addirittura consegnata la tessera onoraria e fu indicato come un punto di riferimento per tanti cronisti italiani».

IL PROBLEMA DELLE CATTIVE FREQUENTAZIONI.

Scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: Io, Travaglio e la mafia. Parla Pippo Ciuro, condannato per favoreggiamento e compagno di vacanze siciliane del re dei manettari. Lui è quello delle «cattive frequentazioni» addebitate a Marco Travaglio, quello con cui divise una vacanza in Sicilia prima che l’arrestassero e poi condannassero per favoreggiamento. Non l’hanno condannato per mafia, però l’uomo che avrebbe favorito si chiama Michele Aiello, ex re delle cliniche, e lui sì, è stato condannato come prestanome di Bernardo Provenzano. È il maresciallo della Finanza Giuseppe Ciuro, detto Pippo: lui e il pm Antonio Ingroia, nei primi anni Duemila, dividevano la stanza dell’ufficio al secondo piano del palazzo di giustizia palermitano. Fu lui a indagare su Marcello Dell’Utri e sui finanziamenti Fininvest, fu lui che il 26 novembre 2002 compartecipò all’interrogatorio di Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi dopo aver vergato un’informativa sul Cavaliere, e fu lui, pure, a deporre al processo Dell’Utri e a sostenere che un nipote di Tommaso Buscetta fosse stato socio di Fininvest. Ai tempi girava sotto scorta. E che destino, ora: addivenire a celebrità per via di un paio di vacanzine con Marco Travaglio, anzi «Marco», quel bravo ragazzo torinese che nel marzo 2001 aveva combinato un pasticcio alla trasmissione «Satyricon» di Daniele Luttazzi: Marcolino aveva rispolverato le accuse rivolte a Berlusconi e Dell’Utri quali «mandanti esterni» della strage di Capaci, anche se la Procura di Caltanissetta aveva fatto richiesta d’archiviazione un mese prima della trasmissione. E chi fornì il materiale per «L’odore dei soldi», che pure oggi è spazzatura? Tutta farina di Ciuro. Pippo aveva fatto il suo lavoro, Travaglio stava facendo il suo. Io faccio il mio, e incontro Pippo Ciuro per puro caso: anche se non è un caso se sono a Palermo a passeggiare con un amico avvocato. È Ciuro a riconoscermi, mi dice addirittura che uno dei suoi figli mi legge sempre. E si chiacchiera. Non so neppure come arriviamo a parlare del generale Mario Mori e del Capitano Ultimo, alias Sergio De Caprio, l’uomo che arrestò Totò Riina.

«Sono due grandi, io lo so perché ho fatto le indagini, quindi lo so».

E allora perché li hanno messi in mezzo?

«La verità posso dirtela? È che volevano fottere Ingroia e Caselli, e io sono l’anello più piccolo di tutto questo marchingegno».

Non capisco neanche bene di che parla, ma questa non è un’intervista, Ciuro non ne rilascia mai. Questo è un colloquio rubato e registrato in piedi, per strada, alle 16 e 41 del 17 marzo.

Ingroia e Caselli però t'hanno mollato.

«Quando succede un casino del genere, e tu vieni messo all’angolo, prendi solo cazzotti. Se sei bravo esci alle lunghe, e io col passare del tempo ne sono sicuro che salterà fuori la verità. Ne sono veramente convinto... quand’era ora di andare a testimoniare, però, minchia, Pippo Ciuro andava bene per tutti... o quando c’era da andare a fare le cose più sporche, nel senso di andare a fare le indagini più complicate... Mi spedivano ovunque, in piena indagine sul covo di Riina, a sentire tutti... con ampia delega... ci sono i verbali...».

E perché ti avrebbero fatto fuori?

«Hanno voluto eliminarmi per qualcosa che devo aver fatto in buona fede, anzi ottima... non lo so, guarda, non l’ho ancora capito dopo 7 anni, te lo giuro sulla tomba dei miei genitori».

Pippo Ciuro fu arrestato il 4 novembre 2003 per concorso esterno in associazione mafiosa più altri reati: con lui un altro maresciallo, Giorgio Riolo. I due furono accusati d’aver sistematicamente informato delle indagini il citato Michele Aiello, anch’egli arrestato, ex primo contribuente siciliano, fondatore e patron della mitica clinica Santa Teresa a Bagheria dove fu curato anche Bernardo Provenzano. Ciuro, che sino a tre mesi prima era in vacanza con Travaglio e Ingroia, sarà definito «figura estremamente compromessa col sistema criminale» prima di essere condannato in Appello a 4 anni e 8 mesi per favoreggiamento e violazione di segreti informatici. Le accuse più gravi sono cadute tutte. L’indagine era stata condotta dai pm Giuseppe Pignatone, Maurizio De Lucia, Michele Prestipino e Nino Di Matteo.

«Di Matteo... allora ti confido una cosa: nell’estate 2002 e 2003 c’era pure lui lì a farsi le vacanze. Non dormiva lì, ma veniva a mangiare a casa mia insieme a Ingroia e a Travaglio e a tutti gli altri... e faceva le indagini contro di me. Tanto per farti capire che bell’ambiente siamo».

Ma anche Ingroia, in vacanza con te, sapeva che eri indagato?

«No, Ingroia non è vero che lo sapeva».

L’ha scritto Travaglio: «Seppi da Ingroia che lui era al corrente delle indagini su Ciuro fin da prima dell’estate, ma che, d’intesa con il procuratore capo, aveva dovuto continuare a comportarsi con lui come se nulla fosse, per non destare sospetti».

«No, Ingroia non lo sapeva. Sai quando gliel’hanno detto? Tra luglio e agosto... vatti a vedere le carte. Andiamoci a pigliare un caffè».

Fa un freddo poco palermitano. Si chiacchiera di tutto un po’.

Appiccicarti l’amicizia con Aiello può essere servito a qualcuno?

«Michele Aiello, sino a quando è successo quello che è successo, era uno che i signori magistrati ci sono andati a cena, si sono fatti costruire le case, e quando lui aveva bisogno correvano. Ma non solo loro».

Gli accenno di quando Ingroia, che Ciuro chiamava «il Professore» o «il dottore», si fece ristrutturare da Aiello un vecchio casolare del padre, a Calatafimi. Ingroia ne parlò al telefono con Aiello il 28 febbraio 2003, ore 9.36: discorsi su mattonelle, tramezzi e colori.

Ingroia e D’Aiello cenarono anche assieme. Imbarazzante. Una vicenda poco approfondita, mi pare.

«E te lo sei chiesto perché? Ma non soltanto per la faccenda della casa di Ingroia, che è una minchiata. Il dottore Di Pisa: la casa gliel’ha costruita Aiello, gliel'ha ristrutturata... e ha pagato... anche a Paolo Giudice, oggi procuratore aggiunto, persona perbenissimo....

La domanda allora è: ma scusate, come vi rivolgete a uno, Aiello, che già dal 1996 compariva nei pizzini di Toto Riina? Ma nessuno niente sapeva?».

I magistrati credevano l’Aiello mafioso fosse un altro, un omonimo di Caltanissetta.

«E intanto l’altro, quello coimputato con me, continuava fare la sua vita normale... ma tu l’hai vista mai la realtà che aveva costruito?»

Un centro medico all'avanguardia. Frequentato da tutti, magistrati compresi.

«La gente non aveva davvero bisogno di andare al Nord... vai a vederla adesso, la clinica, l’hanno distrutta... che schifo. La vuoi fare una bella indagine a Palermo? Allora vedi tutti i sequestri giudiziari in mano a chi sono... sempre gli stessi... Altro che Ciuro che faceva le ferie con Travaglio. Che poi, di quei giorni lì, sbagliano tutti l’anno. Giuseppe D’Avanzo ha scritto su Repubblica che nel 2002 io e Travaglio abbiamo fatto le vacanze insieme: ma Travaglio era all’Hotel Torre Artale, a Trabia, e io al residence Golden Hill... lui certo, è venuto ospite invitato da me, a pranzo o a cena, ma al Golden Hill in vacanza ci è venuto l’anno dopo, una decina di giorni in cui ci saremo visti in tutto tre volte, anche perché io la mattina me ne andavo a lavorare regolarmente come Ingroia, che era lì. Certo, eravamo tutti nello stesso residence e poi magari la sera ci vedevamo».

Più tardi, Pippo Ciuro mi invierà la querela che sporse contro D’Avanzo dopo l’articolo del 14 maggio 2008, quando mise in mezzo Travaglio e scrisse che il maresciallo aveva rivelato segreti utili a favorire la latitanza di Provenzano. E questo, in effetti, risulta falso. Nella querela, poi, si definisce pure falso che «il mafioso Aiello, per il tramite del suo complice Ciuro, avrebbe pagato il soggiorno a Trabia del Travaglio». Ipotesi che, va ripetuto, nessuno su Libero o sul Giornale ha mai scritto o minimamente creduto, e tantomeno ha scagliato contro Travaglio ad Annozero: epperò Marcolino non ha fatto che difendersi da un’accusa che nessuno, appunto, a parte D’Avanzo, gli aveva mai rivolto. Ed è giunto a scrivere, Travaglio, che dei colleghi come Maurizio Belpietro o Nicola Porro «sguazzano nella merda».

Allora la faccenda delle ferie pagate è una balla.

«È una minchiata di quelle grosse».

E perché l’avvocato di D’Aiello l’ha confermata?

«Ma no, ha smentito tutto».

Quando?

«Non mi ricordo, ma ha smentito. Ma poi: se c’era il regime di amministrazione controllata, come avrebbe potuto l’hotel emettere due fatture? Una l’ha esibita Travaglio, pagata con carta di credito, mi pare 5600 euro...».

Lascia stare. Una sola cosa mi ha sempre incuriosito: perché a Torre Artale Travaglio ha speso quella cifra mentre l’anno dopo, al residence con voi per dieci giorni, solo mille euro per quattro persone? Non è un po’ poco?

«Ma no, costa così. Torre Artale costava tanto perché è a cinque stelle».

Solo mille euro. Interessante.

«È un’oasi di pace, dovresti venirci».

Pippo Ciuro mi parla a lungo del suo caso giudiziario, mi svela retroscena inquietanti e risvolti anche intimi, familiari. Questo è un colloquio rubato e perciò non ne parlerò: quando vorrà, lo farà lui.

«Se io esplodo ne ho per tutti, altro che bomba atomica. Qualcuno mi ha anche chiesto: siccome conoscevi i cazzi di tutti, perché non ti sei difeso attaccando? Ma io mi devo difendere solo per quello di cui sono accusato. La mia salvezza è che da questo D’Aiello io non ho mai preso neanche una lira... la prima volta che sento Marco però glielo voglio dire: la vogliamo organizzare una bella trasmissione? Però si dovrebbero scagliare contro certi giudici...».

Sì, buonanotte. Ma il rapporto con Travaglio è rimasto buono? Vi siete più sentiti?

«No, non... forse una volta sola».

Si chiacchiera ancora del suo caso, di ristoranti, di cannoli, di cassate, di giornalisti.

«Io li rispetto molto, i giornalisti. Me li ricordo che venivano sempre lì, che uscivano tutte le notizie sottobanco... perché escono tutte di lì, eh? È inutile ci prendiamo per il culo».

Si parla di intercettazioni. Dell’inchiesta di Trani.

«Ma per favore, ma quali talpe... ma da dove volete che uscissero le notizie, scusa? Guarda, se volessero non avrebbero bisogno di intervenire sulle intercettazioni: basta che nel decreto scrivi chi sono i responsabili delle intercettazioni, come si faceva una volta. I nostri capitani o colonnelli ci dicevano: tu e tu siete responsabili delle intercettazioni. Facevano un ordine di servizio. E se usciva una notizia ti facevano un culo così. Caso strano, le intercettazioni non uscivano mai... C’erano tuoi colleghi che mi mandavano i pezzi e mi chiedevano: sono giusti? A una donna, una cretina sgrammaticata, glielo riscrissi tutto... È una categoria, la tua... Quando ho testimoniato al processo Dell’Utri, minchia, ce ne fosse stato uno che ha scritto le cose per come erano andate...».

E i magistrati?

«Hanno bisogno delle prime pagine, sennò non possono vivere... stanno male».

Tu davi le notizie a Travaglio?

«No, assolutamente... a me nessuno mi ha mai usato. Quando lui voleva qualcosa telefonava a Ingroia. Comunque diglielo, al tuo direttore: state tranquilli, Travaglio non mi frequentava... Io poi, per voi, non sono un nemico, tu magari mi consideri un nemico, ma anzi... io compravo Libero, Il Giornale...».

Ecco perché ti hanno messo dentro. Sono prove a carico.

GIUSTIZIA E MAFIA: UNA GRANDE IPOCRISIA. LA MAFIE E’ POTERE: ERGO, LOTTA ALLA MAFIA: LOTTA DI PARTE IDEOLOGICA O DI FACCIATA.

Questo è un dogma, perché mi sarei aspettato che la Cassazione avesse definitivamente assolto con tante scuse per il fastidio procurato, o avesse mandato in galera, una volta per tutte, e con codazzo di carabinieri, il senatore Marcello Dell’Utri, il gran commis di Silvio Berlusconi per vent’anni.

Sì, voglio dire: mi sarebbe piaciuta, per questo cosiddetto «processo politico», una sentenza totalmente evangelica. Una sentenza ispirata alla parola di Gesù: «Il vostro parlare sia “ sì, sì; no, no”. Il sovrappiù viene dal Maligno» (Matteo, capitolo quinto, versetti 37-38). L’argomento adoperato dal sostituto procuratore generale della Cassazione, Francesco Iacoviello, per annullare la sentenza di condanna di secondo grado a sette anni a carico di Dell’Utri, lungi dall’essere improntato alla chiarezza evangelica, appare piuttosto di brutalità luciferina: “un reato indefinito, quello del concorso esterno, al quale ormai non crede più nessuno”. Il procuratore di Torino, Gian Carlo Caselli, ha definito gli argomenti di Iacoviello: “alquanto imbarazzanti”. Il magistrato ed ex procuratore capo a Palermo, intervistato da Repubblica, ha dichiarato che "la requisitoria del sostituto procuratore generale della Cassazione Iacovello non ha ferito solo me, ma Giovanni Falcone, che ha teorizzato e concretizzato nei maxiprocessi il concorso esterno in associazione mafiosa. Le affermazioni di Iacoviello sono quantomeno imbarazzanti". Secondo quanto riportato da Repubblica, Caselli avrebbe anche invocato una punizione nei confronti del sostituto procuratore, chiedendo un intervento del Csm.

Antonio Ingroia, procuratore aggiunto a Palermo, colonna dell’antimafia siciliana e accusatore da una vita del senatore e bibliofilo, senza aspettare di leggere le motivazioni del verdetto che ordina la celebrazione di un nuovo processo. Anzi, in qualche modo Ingroia prova a riscrivere la sentenza in un’intervista senza freni de 13 marzo 2012 al programma di Radio24 la Zanzara. Per lui Dell’Utri era e resta «un ambasciatore di Cosa nostra nel mondo imprenditoriale e finanziario milanese, un portatore di interessi della mafia». Un giudizio durissimo che, evidentemente, scavalca la Cassazione e le sue preoccupazioni. Il parlamentare infatti è finito sotto inchiesta per concorso esterno e la Suprema corte, per superare una sorta di nouvelle vague giudiziaria e processi basati su suggestioni più che su prove, aveva fissato a suo tempo paletti rigidi. Ora i giudici hanno stracciato il verdetto di Palermo ritenendolo non in linea con gli standard della Suprema corte. Questo non significa che Dell’Utri sia innocente, ma la Cassazione afferma in sostanza che le prove non reggono.

Un ragionamento esplosivo che non modifica di una virgola il convincimento di Ingroia: Dell’Utri lavorava per Cosa nostra. Di più, l’avventura politica del senatore «nasce per gli interessi di Cosa nostra. L’idea della costituzione di Forza Italia è del senatore Dell’Utri ed è anche nell’interesse della mafia». Ingroia non arretra di un millimetro: già la sentenza della Corte d’Appello, che pure aveva condannato il senatore a 7 anni di carcere, l’aveva assolto per gli episodi successivi al 1992 e dunque collegati alla nascita di Forza Italia e alla presunta trattativa fra Cosa nostra e spezzoni dello Stato. Ora la Cassazione va oltre e contemporaneamente la magistratura fiorentina, al termine del processo contro un boss condannato per la bomba agli Uffizi, spiega che non ci sono riscontri all’ipotesi che Forza Italia abbia dialogato con i capi di Cosa nostra. Non importa. Per Ingroia, invece, le prove «non ci sono» su Silvio Berlusconi che pure è stato sotto i riflettori della magistratura per anni e anni. Ora il magistrato tende a distinguere i ruoli, ma al Cavaliere riserva una stilettata ancora più graffiante: «Berlusconi ha detto che Dell’Utri ha sofferto 19 anni di gogna? Si potrebbe replicare che quando lui era al governo poteva fare una riforma per accorciare i tempi dei processi, invece ha fatto esattamente il contrario. Anche il processo Dell’Utri è durato così tanto per colpa di Berlusconi, questo è sicuro». Dunque, comunque si rigiri la questione, per Ingroia, che pure si sente «sconfitto» dalla Cassazione, questo non è il tempo della prudenza. Il procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, riferendosi al reato di concorso esterno, ha parlato di “innovative idee giurisprudenziali”, fondate da Falcone e Borsellino. Nessuno si è riferito alla motivazione della sentenza della Cassazione che non si conosce. E nell’attesa di leggerla, quando diventerà pubblica. Parole assai evangeliche, le loro. Quasi garbate, pur nell’esemplare chiarezza.

Ma noi, che non siamo magistrati fra i magistrati, ma semplicissimi cittadini fra i cittadini, vorremmo formulare questo interrogativo: chi ci sta ad accusare ed a giudicare????

Il tris di sentenze che a stretto giro ha visto prevalere Silvio Berlusconi e gli uomini a lui vicini sul partito degli anti-Cav deve aver lasciato un bel segno nella mente di Marco Travaglio, che di quel partito è da quasi vent'anni uno dei principali e indefessi agitatori. Perchè l'editoriale scritto il 14 marzo 2012 su "il Fatto quotidiano" è quello di una persona colpita nell’orgoglio. Fino a poco tempo fa c'era Silvio: corruttore, evasore, puttaniere e persino (o soprattutto) mafioso. Poi è arrivata la sentenza d'appello sul caso Mills. Poi quella della Cassazione su Marcello Dell'Utri. Infine le motivazioni della sentenza di condanna di un boss del Brancaccio, nella quale i giudici (i giudici) escludono che da parte di Forza Italia (definita in sentenza come "nuova entità politica") abbia avuto un qualche ruolo nelle stragi di mafia del '92 e del '93. Ecco, questo deve essere stato il colpo di grazia. Perchè sulle "origini mafiose" del "miracolo Forza Italia", il partito nato in pochi mesi e capace di sbaragliare tutti nel '94, Travaglio ha sempre messo la mano sul fuoco. E adesso? Adesso se la prende con i politici (di tutti gli schieramenti tranne Vendola e Di Pietro), il Quirinale, le alte cariche dello Stato, i ministri tecnici, persino i giudici, che ha sempre difeso a spada tratta. Colpevoli di non voler fare luce, anzi di ignorare proprio, il biennio della strategia delle stragi e la trattativa Stato-mafia. Per la verità si è indagato e si sta indagando, si sono fatti processi ed emesse sentenze. Ma a lui, Travaglio, tutto questo non interessa. Dice: "Fate schifo". Chi? Tutti. Tranne lui, ovviamente. 

Un reportage sulle traversie legali di Dell’Utri.

Sono quattro i procedimenti giudiziari aperti a carico del senatore del Pdl Marcello Dell'Utri:

CONCORSO ESTERNO IN ASSOCIAZIONE MAFIOSA. Il 29 giugno 2009 la Corte d'appello di Palermo ha condannato Dell'Utri a sette anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. La corte, riformando la sentenza di primo grado, ha invece assolto Dell'Utri limitatamente alle condotte contestate come commesse in epoca successiva al 1992 perchè "il fatto non sussiste". In primo grado al parlamentare del Pdl erano stati inflitti nove anni di reclusione. Il Pg aveva chiesto la condanna di Dell'Utri a 11 anni.

ASSOCIAZIONE A DELINQUERE E VIOLAZIONE LEGGE ANSELMI. Il senatore Dell'Utri è stato indagato a Roma nell'ambito dell'inchiesta sulla cosiddetta P3, nata da uno stralcio dell'indagine degli appalti sull'eolico in Sardegna. Dell'Utri è accusato di associazione a delinquere e violazione della legge Anselmi sulla costituzione delle associazioni segrete. Nell'ambito dell'inchiesta, l'8 luglio 2010 i carabinieri avevano arrestato l'imprenditore Flavio Carboni, l'ex esponente della Dc campana, Pasquale Lombardi e l'imprenditore napoletano, Arcangelo Martino. Per il gip i tre avevano messo su una organizzazione caratterizzata "dalla segretezza degli scopi" volta "a condizionare il funzionamento degli organi costituzionali nonchè degli apparati della pubblica amministrazione".

PROCESSO CALUNNIA PER SCREDITARE DEI PENTITI. Il 21 luglio 2010 gli avvocati di Dell'Utri hanno sollevato istanza di rimessione, per legittimo sospetto, del processo d'appello a Palermo, in cui il senatore è imputato di calunnia. L’Istanza è stata rigettata. Dell'Utri è imputato di avere ordito un piano per screditare alcuni pentiti palermitani che l'avevano accusato nel dibattimento in cui era imputato di concorso in associazione mafiosa. Per lo scopo Dell'Utri si sarebbe servito di un esponente della Sacra Corona Unita, ora deceduto, che assieme a lui fu rinviato a giudizio per calunnia. Il 31 marzo 2011 la prima sezione della corte d’appello di Palermo ha confermato l’assoluzione per il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri accusato di calunnia aggravata. Dell’Utri era accusato di aver cercato di screditare i pentiti palermitani Francesco Di Carlo, Francesco Onorato e Giuseppe Guglielmini che l’avevano accusato nel dibattimento in cui era imputato di concorso in associazione mafiosa (conclusosi in appello con la condanna del politico a 7 anni). Per lo scopo l’ex manager Fininvest si sarebbe servito di Cosimo Cirfeta, esponente della Sacra Corona Unita, che assieme a lui fu rinviato a giudizio per calunnia e che è deceduto poco prima della sentenza di primo grado.

PALLACANESTRO TRAPANI, TENTATA ESTORSIONE. Il 28 maggio 2010 la Cassazione ha stabilito che alla Corte d'appello di Milano ci sarà un nuovo processo per il senatore Dell'Utri, coinvolto con il boss Vincenzo Virga nella vicenda di minacce ai danni dell'imprenditore siciliano Vincenzo Garaffa, ex patron della Pallacanestro Trapani. La Suprema Corte ha così annullato con rinvio la sentenza della Corte di Milano del 2009 con la quale i giudici avevano riqualificato la precedente accusa di tentata estorsione in minacce gravi e avevano dichiarato il non luogo a procedere per intervenuta prescrizione.

"La grave situazione giudiziaria esistente a Palermo ha condizionato e condiziona la libera determinazione e la serenità dei giudici". Lo sostengono gli avvocati del senatore del Pdl Marcello Dell'Utri, sotto processo per calunnia, davanti alla prima sezione della corte d'appello del capoluogo, nell'istanza di rimessione del dibattimento per legittimo sospetto. Nella memoria, già trasmessa alla Cassazione, che dovrà decidere sulla richiesta, i difensori ripercorrono la storia del processo in corso e le vicende relative all'altro giudizio a cui Dell'Utri è stato sottoposto a Palermo e che si è concluso con una condanna a 7 anni per concorso in associazione mafiosa. Nell'atto i legali descrivono "un clima pesante" che limiterebbe l'imparzialità dei magistrati. Giudici indotti ad astenersi in seguito a pesanti interventi politici e "campagne mediatiche", magistrati costretti a difendersi, "con inusuali comunicati", da accuse e pressioni della stampa priverebbero l'autorità giudiziaria di quella serenità necessaria alla celebrazione del processo. Nell'istanza i legali fanno riferimento sia alle vicende relative al processo per calunnia, che a quelle dell'ormai concluso processo per concorso in associazione mafiosa. I difensori ricordano il caso scoppiato dopo la nomina a consulente della commissione Antimafia del presidente del primo collegio che cominciò il dibattimento per la calunnia: Salvatore Scaduti, costretto ad astenersi dopo una pesante campagna mediatica. Parte della stampa sostenne che la nomina all'Antimafia fosse stata sollecitata dal centro-destra nella speranza che il magistrato ritenesse di essere incompatibile con la prosecuzione del dibattimento e che questo venisse rinnovato col rischio della prescrizione delle accuse. "Il forte condizionamento riconosciuto dal presidente del tribunale (che accolse la richiesta di astensione) - si legge nell'istanza - non può limitarsi alla figura del solo presidente, coinvolgendo automaticamente anche i due consiglieri e questo anche in assenza di una loro rituale richiesta di astensione". I legali si riferiscono al fatto che i due giudici a latere che affiancavano Scaduti restarono gli stessi. "Il magistrato - si legge - non è un'entità astratta avulsa dalla società. E ciò appare tanto più vero in un contesto giudiziario particolare come quello siciliano e palermitano ove si incentra la lotta investigativa e processuale alla mafia". I penalisti bacchettano poi le decisioni della corte di bocciare l'ingresso nel processo delle indagini difensive fatte: indici di una "preconcetta posizione della Corte diretta a non esplorare temi scottanti come quello dei pentiti". Infine, parte della istanza riguarda i giudici che hanno condannato Dell'Utri per concorso in associazione mafiosa. Anche loro, secondo i legali, vittime di attacchi che hanno leso la loro serenità "tanto da indurli a leggere un inusuale quanto anomalo comunicato in cui rassicuravano le parti e l'opinione pubblica sulla loro imparzialità". Nella memoria di 21 pagine depositata ai giudici della I sezione della corte d'appello di Palermo, che processano il senatore, da trasmettere alla Corte di Cassazione, competente ad adempiere, i legali scrivono: "vi è fondato motivo di ritenere che l'ufficio giudiziario di Palermo, per quanto riguarda la posizione processuale di Dell'Utri, non sia in grado di determinarsi autonomamente sia nei componenti che esercitano funzioni inquirenti, sia in quelli che esercitano la funzione giurisdizionale e/o che sussistano comunque fondati motivi di legittimo sospetto". Marcello Dell'Utri è imputato di avere ordito un piano per screditare i pentiti palermitani Francesco Di Carlo, Francesco Onorato e Giuseppe Guglielmini che l'avevano accusato nel dibattimento in cui era imputato di concorso in associazione mafiosa (dibattimento conclusosi in appello con la condanna del politico a 7 anni). Per lo scopo l'ex manager Fininvest si sarebbe servito di Cosimo Cirfeta, esponente della Sacra Corona Unita, che assieme a lui fu rinviato a giudizio per calunnia e che nel frattempo è deceduto.

In relazione alla istanza di remissione vi è la nota del dr. Antonio Giangrande, scrittore, autore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo e presidente del “Associazione Contro Tutte le Mafie” ONLUS riconosciuta dal Ministero dell’Interno, oltre che presidente di Tele Web Italia. «Censurato dalla stampa è che la Corte di Cassazione, di fatto, a vantaggio della magistratura disapplica una legge dello Stato. L’art. 45 c.p.p. parla di Remissione del processo in caso di emotività ambientale che altera l’acquisizione della prova o ne mina l’ordine pubblico, ovvero per legittimo sospetto che l’ufficio giudiziario non sia sereno nel giudicare, anche indotto da grave inimicizia. Di fatto la legge Cirami non è mai stata applicata, nonostante migliaia di istanze, anche di peso: Craxi, Berlusconi, Dell’Utri.

Rigetto ad oltranza: sempre e comunque. Nel novembre del 2002 fu approvata la legge Cirami che riformulò i criteri del legittimo sospetto ampliando le possibilità di togliere un processo al suo giudice naturale. Da allora non sono stati registrati casi di legittima suspicione. I più noti riguardano trasferimenti ottenuti con la vecchia legge:

*      Piazza Fontana, il processo non si tenne a Milano, luogo della strage del 1969, ma a Catanzaro. La Suprema Corte temeva che a Milano fosse a rischio la sicurezza: il Palazzo di giustizia sarebbe stato assediato dalle contestazioni di piazza. Per Piazza Fontana, in cui vi era sospetto che fosse una strage di Stato: è il primo e più famoso caso di "rimessione". Tutti i processi collegati furono trasferiti a Catanzaro a partire dal 1972, proprio mentre i magistrati milanesi D'Ambrosio e Alessandrini imboccavano la pista della "strage di Stato". Curiosità: il primo dei ricorsi accolti dalla Cassazione fu proposto dall'imputato Giovanni Biondo, che dopo l'assoluzione diventò sostituto procuratore.

*      Per il Generale della Guardia di Finanza Giuseppe Cerciello, le cui indagini contro la Guardia di Finanza furono svolte dai propri commilitoni: il 29 novembre 1994 la Cassazione ha spostato da Milano a Brescia il processo per corruzione contro il generale Cerciello. L'avvocato Taormina aveva messo in dubbio tutte le indagini sulle tangenti ai finanzieri, in quanto svolte dai commilitoni. Quella rimessione è però rimasta un caso unico, poi citato da Di Pietro tra i motivi delle sue dimissioni.

*      Vajont. Il processo per il disastro del Vajont (nel 1963) fu trasferito da Belluno all'Aquila. La Cassazione vide pericoli, anche qui, per l' ordine pubblico.

*      Salvatore Giuliano. Il bandito accusato di essere l' esecutore della strage di Portella della Ginestra (1947) fu rinviato a giudizio a Palermo, ma poi la Cassazione spostò il processo a Viterbo. »

Da dire che il 28 settembre 2011 anche allo stesso dr Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, di Avetrana, è stata rigettata l’istanza di rimessione. I magistrati di Taranto sono stati denunciati a Potenza e criticati sui giornali per i loro abusi ed omissioni. Per la Corte di Cassazione è giusto che siano gli stessi a giudicare, nei processi penali per diffamazione a mezzo stampa e nel concorso pubblico di avvocato, chi li denuncia e li critica. Oltre al rigetto è conseguita sanzione di 2 mila euro, giusto per inibire qualsiasi pretesa di tutela.

Riguardo alla richiesta di Rimessione per incompatibilità ambientale presentata ai sensi dell’art. 45 ss C.P.P. dalla difesa di Sabrina Misseri per il processo sul delitto di Sarah Scazzi, il Dr. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro tutte le Mafie, esperto di cose giuridiche e prassi giudiziaria tarantina e nazionale afferma: «Apprezzo la richiesta fatta dall’avv. Franco Coppi, che delinea bene la sua capacità e il suo coraggio, tenuto conto che nel Distretto di Lecce e Taranto ben pochi avvocati dimostrano tali doti. Lo dimostra anche il fatto che a Roma la Camera Penale è stata pronta a difendere il loro collega inquisito a Taranto, mentre il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto ha pensato bene di non dire una parola a favore dei loro iscritti. A Taranto si parla di “Correttezza nei confronti degli “amici” magistrati”, a Roma, nei corridoi degli uffici giudiziari, si parla di “Codardia”. Bisogna tener presente che nel processo “Sebai, il killer delle 12 vecchiette” nessuno a Taranto ha avuto il coraggio di presentare rimessione per ben più gravi motivi (Foro che ha accusato e condannato dei soggetti e poi lo stesso Foro ha accusato e giudicato colui il quale li dichiarava innocenti con riscontri concreti. Creduto solo per i delitti senza colpevoli). Inoltre c’è da sottolineare che io stesso sono stato promotore a titolo personale di una istanza di rimessione, ma per legittimo sospetto, perché i magistrati di Taranto mi accusano e mi vogliono condannare per averli criticati con denunce penali e con articoli di stampa sul loro modo di amministrare la giustizia. Nessun avvocato mi ha sostenuto, anzi, mi hanno abbandonato nei processi di diffamazione a mezzo stampa quando ho chiesto la ricusazione dei magistrati denunciati. Io il 28 settembre a Roma presenzierò all’udienza sulla mia richiesta di rimessione per farmi giudicare dai Magistrati di Potenza, che ha avuto già il marchio preventivo di inammissibilità. Istanza basata sul fatto che i magistrati di Taranto siano poco sereni nel giudicare colui il quale li ha denunciati per abusi ed omissioni, senza che questi si tutelassero denunciandomi per calunnia. Si può considerare che effettivamente la mia richiesta possa essere infondata ed io essere un mitomane o un pazzo. Ma resta un fatto eclatante, e non voglio essere una “Cassandra”, ma la stessa cosa succederà a Franco Coppi. Si tenga presente che mai una istanza di rimessione è stata accolta dalla Corte di Cassazione, nemmeno per Berlusconi, o Dell’Utri, o per le vittime del terremoto dell’Aquila. L’art. 45 ss C.P.P. è una norma da sempre inapplicata perché delegittima il foro giudicante e questo in Italia non si deve fare: è lesa Maestà di chi effettivamente detiene il potere. La decisione negativa scontata che mi riguarda e che arriverà il 28 settembre, però, darà modo a me di potermi rivolgere alla Corte Europea dei Diritti Umani e presso le Istituzioni dell’Unione Europea perché in Italia, non solo non si applica una norma in vigore che danneggia i magistrati, ma si viola sistematicamente il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, anche tramite stampa, e si violano sistematicamente le norme del giusto processo.» 

Nelle vicende giudiziarie è utile dare anche voce agli avvocati, cosa che certa stampa non fa.

«Caso Dell'Utri: "Dai pm attacchi virulenti e fuori luogo alla Corte di Cassazione. Chi entra a piedi uniti sulla Corte di Cassazione ha la coda di paglia?»

Comunicato Unione Camere Penali contro gli attacchi virulenti e scomposti alla Corte di Cassazione . “La sentenza Dell'Utri ha causato reazioni scomposte e attacchi virulenti nei confronti del PG e della Corte di Cassazione. L'Unione denuncia questi comportamenti, che vanno ben oltre il normale diritto di critica, e sono strumentali a condizionare il giudizio dei giudici che non si vogliono allineare alle direttive imposte dalla magistratura militante. Criticare le sentenze emesse dai Tribunali è un sacrosanto diritto, delle parti, dei cittadini, della stampa, non ci stancheremo mai di ripeterlo. Anche criticare gli esiti di un processo è un diritto, sebbene, in assenza di una sentenza ancora non scritta, perlomeno gli uomini di legge dovrebbero mostrare un minimo di cautela nel suo esercizio. Si può ovviamente dissentire anche dalle requisitorie dei pm o dalle arringhe degli avvocati, e censurarle, magari aspramente, ma ciò che sta avvenendo in queste ore nei confronti del PG della Cassazione e del Presidente della sezione della Corte che hanno concluso il processo Dell'Utri è qualcosa che va al di là del diritto di critica, e che deve far riflettere. Un magistrato di grande esperienza e di riconosciuta indipendenza, come il sostituto procuratore generale Iacoviello, è stato oggetto di un attacco virulento e scomposto da parte di alcuni suoi colleghi appartenenti, o ex appartenenti, all'ufficio di procura che aveva istruito il processo. Non si è esitato a definire "gravi, irresponsabili, imbarazzanti" le opinioni giuridiche espresse nel corso della requisitoria, per il sol fatto di avere osato valutare un reato dagli incerti confini, come il concorso esterno in associazione mafiosa, sulla cui conformazione la dottrina giuridica italiana, con buona pace dei nuovi e vecchi crociati di una giustizia che deve ragionare a furor di popolo e con invocazioni alla piazza, esprime dubbi da decenni. Ma quel che è più grave è stato registrare attacchi, venati di un sottile e sprezzante qualunquismo, al giudizio di legittimità ed agli uffici che lo amministrano. Alcuni, come il dottor Caselli, che per il vero ha una certa consuetudine alla critica della decisioni di legittimità non molto favorevoli alla sue tesi, si è spinto a citare una frase di Gaetano Costa secondo il quale "il funzionario onesto che voglia combattere i soliti onorevoli usi a trescare con le cosche mafiose rischia sempre che a Roma qualcuno gli rivolti la frittata". E' una citazione fuori luogo, incauta, questa sì imbarazzante per un magistrato se rivolta ad un collega, ovvero ad un diverso ufficio giudiziario. Così come doppiamente imbarazzante è sentire dire da altri, come il PM Ingroia, a proposito del Presidente della Corte che ha annullato con rinvio la sentenza Dell'Utri, che la decisione è "coerente con la sua giurisprudenza: c’è chi ha avuto come maestro Carnevale, chi Falcone e Borsellino". Qui l'imbarazzo è non solo per la verifica di una aperta intolleranza verso la funzione giurisdizionale ma anche per il richiamo esplicitamente dispregiativo nei confronti di un magistrato, come Corrado Carnevale, prima lapidato mediaticamente per la sua giurisprudenza e poi ingiustamente sottoposto a giudizio nel pubblico ludibrio, per il quale neanche l'assoluzione e la reintegrazione servono ad evitare le insinuazioni. Ed allora, in attesa che qualcuno, magari dalle parti del CSM, rifletta sulla singolare deriva che nel nostro Paese permette ad alcuni (ma non a tutti) magistrati di rivolgersi alla piazza, mediatica e non, per impartire lezioni sulla ortodossia della legalità di propria personale concezione, e per condizionare le decisioni dei giudici, non resta che a noi avvocati porre un quesito questo sì imbarazzante: "Ma questi pm, che invocano equivocamente la cultura della giurisdizione nei convegni quando fanno propaganda contro la separazione delle carriere, che idea ne hanno?" Roma, 11 marzo 2012 La Giunta.

Giuliano Ferrara su “Panorama” dice la sua opinione: «Marcello Dell’Utri mi è sempre parso una persona a posto, non priva di malinconico garbo, e con tante amicizie sbagliate. Ma le amicizie sbagliate, specie per un palermitano cresciuto disordinatamente nella vita imprenditoriale e pubblica, sono uno dei prezzi dell’esistenza, e nulla più. Per trasformarle in reato, in anni di carcere, in infamia bisogna che siano dimostrati la malavita e il suo misfatto, non basta il fumo alla Orwell, il mondo chiuso e opaco in cui giudici e spioni vedono nel sospetto l’anticamera della verità. Il pubblico ministero che accusa Dell’Utri era circondato nel suo stesso ufficio da poliziotti che sussurravano alla mafia mentre davano la caccia al colletto bianco, e Palermo è una città radicalmente ferita dall’apparenza ingannatrice, e una vita originata tra quelle sensuali e aspre bellezze, in quel profumo assurdo di ciclamini e fritti vari, si porta appresso il dubbio, la doppiezza, quel vissuto letterario che fa della Sicilia e della mafia un caso unico, un multisecolare luogo comune dello spirito e una venatura profonda della carne. Per uno come me, banalmente cittadino e romano, o per un uomo del Nord come Adriano Celentano, la frase «ho anch’io amici criminali», pronunciata dal Molleggiato a San Remo, in difesa di Tony Renis, è vaudeville. Per i palermitani l’amicizia è abisso e amore, colluttazione con il bene e con il male, dovere e verità, verità e menzogna. E l’antropologia non si processa, se non in un mondo di rieducazione totalitaria. Non esiste quel reato: il concorso esterno in un’associazione è un paradosso, una tautologia, un uso illogico del diritto. L’accusa, quando non sia suggestione inquisitoria, esige la chiarezza e la semplicità, la geometria che allinea fatti, comportamenti, responsabilità su un asse in cui sono tassativamente escluse le zone grigie, i confini incerti, le circostanze allusive. È tipicamente mafioso immaginare un concorso esterno in un’associazione per delinquere, e sarebbe stata giusta una grande battaglia di avvocati, giuristi, costituzionalisti, cittadini e politici eletti per sradicare dal nostro codice o dal nostro modo di usare il codice questo scandalo giuridico vivente, questo ibrido insulto alla logica e al senso di giustizia. La sentenza Dell’Utri farà epoca. Con Giulio Andreotti è stata malamente processata la vecchia politica, gettata in una discarica e bruciata molto al di là delle sue colpe e delle sue collusioni. Con Dell’Utri è la nomenclatura nuova a essere processata, sono gli italiani cresciuti ai margini del vecchio sistema dei partiti, che in qualche modo l’hanno sostituito, a essere giudicati. Spero che il tribunale capisca l’inconsistenza della fattispecie addebitata all’imputato. E che finisca una buona volta la falcidie di una classe dirigente largamente imperfetta, moralmente discutibile come tutti i ceti di comando, ma costruita sul consenso popolare. Nessuno dovrebbe essere condannato per essersi associato con altri, senza che sia dimostrata la sua partecipazione diretta a un delitto puntualmente ricostruito. Che si possa essere condannati per avere concorso a un’associazione, è temerario.»

Pietro Mancini su “Affari Italiani” parla di Toghe, anti-mafia ed errori della politica. L'errore storico dei capi del nuovo PDS, l'intelligente D'Alema e il mediocre Occhetto, fu quello di liquidare, nel 1992, due dirigenti lucidi ed esperti, come il siciliano Macaluso e il campano Chiaromonte. Ad Emanuele, come capolista alla Camera, in Sicilia, Achille preferì un giovane dirigente padovano, Pietro Folena, mentre al vertice dell'Anti-mafia Gerardo fu sostituito dal torinese Luciano Violante. E, da allora, la politica del primo partito della sinistra, nel contrasto ai poteri illegali e mafiosi, fu guidata da don Luciano, in collaborazione con Giancarlo Caselli, il sociologo Pino Arlacchi e quello che Giulianone Ferrara ebbe a definire il "Signore dei pentiti", il calabrese, nemico di Giacomo Mancini, Gianni De Gennaro. E' auspicabile che il centro-destra, con l'ex Guardasigilli, l'agrigentino Angelino Alfano, non commetta lo stesso errore, rinunciando a una linea autonoma, ma limitandosi a "santificare" le pur corrette e rigorose toghe d'ermellino, che hanno - attirandosi l'odio imperituro di Travaglio, Caselli, Bolzoni e Ingroia - cestinato le stangate palermitane a Dell'Utri. Ma gli alti magistrati di piazza Cavour non sono stati coerenti fino in fondo, annullando, senza rinvio, la sentenza d'Appello che, con un compromesso, stabiliva che il senatore sarebbe stato, come "zu Giulio" Andreotti, colluso con i boss, ma solo un po'... Nel PDL, peraltro, si passa dal super-garantismo dell'ex Guardasigilli, Nitto Palma, al governatore della Campania, Caldoro, che non ha speso una parola di solidarietà nei confronti del giovane sindaco di Pignataro Maggiore, Magliocca, che, dopo 11 mesi in cella, è stato prosciolto dal GUP e del sindaco di Casapesenna, scarcerato, per mancanza di indizi, solo pochi giorni dopo il suo arresto.

SCHEDA - Le tappe del processo. L'annullamento con rinvio, da parte della Cassazione, della sentenza d'appello per il senatore del Pdl Marcello Dell'Utri è solo l'ultima ( per ora) tappa di un iter che ha avuto avvio nel 1996. A Palermo il parlamentare era stato condannato a 7 anni per l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. La vicenda giudiziaria di Marcello Dell'Utri continua da sedici anni, un processo che sembra interminabile com'è accaduto in molti dei più controversi casi della storia repubblicana. Il primo atto formale è del 2 gennaio del 1996 quando la Procura di Palermo apre un'inchiesta su Dell'Utri, in seguito alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Tullio Cannella. Ma il primo a fare il nome del senatore del Pdl, nel 1994, era stato un altro pentito, Salvatore Cancemi, interrogato dalla Procura di Caltanissetta. Il processo di Palermo, apertosi il 5 novembre del 1997, si conclude dopo 256 udienze protrattesi per sette anni. Con Dell'Utri, siede sul banco degli imputati anche Gaetano Cinà, incensurato ma secondo l'accusa mafioso del clan di Malaspina, ma considerato il trait-d'union di Cosa Nostra tra Palermo e Milano. L'istruttoria dibattimentale è complessa, con l'innesto anche di un intricato filone relativo alle holding da cui nacque Fininvest, oggetto di una ponderosa consulenza del perito Gioacchino Genchi. Ben 270 i testimoni ascoltati, e fra loro una quarantina di collaboratori di giustizia, da Salvatore Cancemi a Francesco Di Carlo, fino a Gaspare Mutolo, Nino Giuffrè, Giovanni Brusca e Tommaso Buscetta, quest'ultimo citato dalla difesa. Al termine della requisitoria, per Dell'Utri i pm Antonio Ingroia e Domenico Gozzo chiedono 11 anni mentre è di 9 anni la richiesta per Cinà. Il Tribunale di Palermo presieduto da Leonardo Guarnotta, pronuncia la sentenza l'11 dicembre del 2004, dopo 13 giorni di camera di consiglio: 9 anni a Dell'Utri, per concorso esterno in associazione mafiosa, 7 anni a Cinà. Nelle 1.786 pagine delle motivazioni, il collegio di primo grado scriveva tra l'altro: "La pluralità dell'attività posta in essere da Marcello Dell'Utri, per la rilevanza causale espressa, ha costituito un concreto, volontario, consapevole, specifico e prezioso contributo al mantenimento, consolidamento e rafforzamento di cosa nostra, alla quale è stata, tra l'altro offerta l'opportunità, sempre con la mediazione di Marcello Dell'Utri, di entrare in contatto con importanti ambienti della economia e della finanza, così agevolandola nel perseguimento dei suoi fini illeciti, sia meramente economici che politici". I giudici ricordavano di aver preso in esame "fatti, episodi ed avvenimenti dipanatisi dai primissimi anni '70 e fino alla fine del 1998", e profilavano "la funzione di garanzia svolta da Dell'Utri nei confronti di Berlusconi, il quale temeva che i suoi familiari fossero oggetto di sequestri di persona, adoperandosi per l'assunzione di Vittorio Mangano ad Arcore, quale 'responsabile' e non come 'mero stalliere'".
Il 30 giugno del 2006 parte il processo d'appello davanti alla Corte presieduta da Claudio Dall'Acqua. A sostenere l'accusa, il pg Antonino Gatto. Marcello Dell'Utri è rimasto l'unico imputato perché Cinà e' frattanto deceduto, e davanti ai giornalisti va subito all'attacco, parlando di "accuse politiche" contro di lui. La Corte respinge la richiesta unanime del Pg e dei difensori di ascoltare Silvio Berlusconi, che in primo grado era stato convocato dai giudici ma si era avvalso della facoltà di non rispondere, essendo indagato di reato connesso. Nel 2009, mentre il processo di secondo grado è in corso, piombano sul senatore del Pdl i verbali dell'allora 'dichiarante 'Gaspare Spatuzza, che riferisce commenti che gli sarebbero stati fatti nel gennaio del 1994 del boss di Brancaccio Giuseppe Graviano: "Abbiamo ottenuto quello che volevamo: abbiamo il Paese in mano. E non sono stavolta quei crastazzi dei socialisti, ma Silvio Berlusconi e il nostro compaesano". Il compaesano sarebbe stato appunto Dell'Utri. Per sentire Spatuzza la Corte si sposta a Torino dove il 4 dicembre del 2009 ricorda un incontro al bar Doney di via Veneto: "Graviano mi disse che chi ci garantisce 'è quello di Canale 5' e che tra i nostri referenti 'c'era un nostro compaesano'". Una settimana dopo, l'11 dicembre, è il momento dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano che sono ascoltati in videoconferenza e non confermano le dichiarazioni di Spatuzza. Intanto, il 26 febbraio, deponendo al processo Mori, Massimo Ciancimino sostiene che "Dell'Utri sostituì" suo padre Vito Ciancimino come mediatore nella trattativa tra Stato e mafia e che è lui il "senatore" citato nei 'pizzini' che il padre si scambiava con Provenzano. Massimo Ciancimino si spinge fino a dire che tra il politico e il boss "c'erano contatti diretti". Ma la Corte non ritiene di citare Ciancimino junior in aula e il 5 maggio rigetta per la seconda volta la richiesta di citarlo, perché lo giudica contraddittorio e sostanzialmente non credibile. "Dell'Utri contribuì alla trattativa e Provenzano si fidava di lui", dice però nella requisitoria il Pg che chiede la condanna a 11 anni per l'imputato. I giudici si ritirano in camera di consiglio il 24 giugno e prima di farlo, irritualmente dichiarano: "Siamo indifferenti alle pressioni medianiche e rispondiamo solo di fronte alla legge e alla nostro coscienza". La sentenza d'appello viene emessa cinque giorni più tardi, il 29 giugno del 2009. Dell'Utri viene condannato, ma la pena viene ridotta a 7 anni. Secondo la Corte, Dell'Utri è responsabile di concorso esterno in associazione a delinquere semplice fino al 1982, e di concorso esterno in associazione mafiosa fino al '92.

La requisitoria di Mauro Iacoviello su Marcello Dell’Utri - IL DOCUMENTO

“Non si tocca il fatto, se non nella misura in cui si tocca il diritto. In altri termini, non si intende contestare ciò che dicono i pentiti. Non si valutano le prove e non si prospettano ricostruzioni alternative. Anzi, si prende - faticosamente - per vero tutto ciò che hanno detto. I fatti sono quelli. Ma quali? Gli anglosassoni parlano di teoria del caso per indicare la sintesi logica del fatto incriminato. Un public prosecutor statunitense riassumerebbe così il caso: “te la sei fatta con i mafiosi e hai procurato per tanti anni un sacco di soldi alla mafia. Se non è concorso esterno questo… Dove è il problema?”. Il problema c’è. Inizia così il procuratore generale della Cassazione Mauro Iacoviello nella sua requisitoria al processo nei confronti di Marcello Dell’Utri.

Tutti ne parlano, molti per sentito dire. Dopo tante chiacchiere e infinite polemiche (in prima fila il j’accuse di Gian Carlo Caselli e Antonio Ingroia) ecco lo schema della requisitoria del procuratore generale Iacoviello accolto dalla V sezione penale della Cassazione che ha deciso di annullare con rinvio la sentenza.

Francesco Iacoviello, un eroe dei nostri tempi: "Se c'è un imputato, deve esserci un'imputazione". La requisitoria del sostituto procuratore generale al processo Dell'Utri pubblicata da “Il Foglio”.

PROCESSO DELL’UTRI: LA REQUISITORIA DEL CONSIGLIERE IACOVIELLO.

Schema di requisitoria integrato con le note d’udienza del Sostituto Procuratore Generale Cons. Francesco Iacoviello (Cass. pen., sez. V, ud. 9 marzo 2012, imp. Dell’Utri).

Premessa.

Non si tocca il fatto, se non nella misura in cui si tocca il diritto. In altri termini, non si intende contestare ciò che dicono i pentiti. Non si valutano le prove e non si prospettano ricostruzioni alternative. Anzi, si prende -faticosamente- per vero tutto ciò che hanno detto. I fatti sono quelli. Ma quali ? Gli anglosassoni parlano di teoria del caso per indicare la sintesi logica del fatto incriminato. Un public prosecutor statunitense riassumerebbe così il caso: “te la sei fatta con i mafiosi e hai procurato per tanti anni un sacco di soldi alla mafia. Se non è concorso esterno questo… Dove è il problema?”. Il problema c’è.

L’imputazione che non c’è. C'è un capo di imputazione che riempie quasi una pagina. Ebbene, dopo averlo letto, possiamo metterlo da parte. Lì dentro non c’è il fatto per cui l’imputato è stato condannato. Quell’imputazione è un fiore artificiale in un vaso senza acqua. Ma non ci doveva essere una pronuncia di assoluzione per quelle imputazioni dal momento che era emerso (in base all’attività integrativa) un fatto nuovo ? In questo processo la cosa più difficile è trovare l’imputazione. Bisogna andarsela a cercare nelle pagine del processo. Estrarla da una mezza frase, da un verbo, da un sostantivo. E’ un processo ad imputazione diffusa. Le cripto-imputazioni, le imputazioni implicite, le imputazioni vaghe sono state poste al bando dal giusto processo. Se c’è un imputato, ci deve essere un’imputazione. Qui abbiamo un imputato, un reato. Ma non un’imputazione. O meglio, un’imputazione liquida. Per una condanna solida.

Un cambio di prospettiva: dalla violazione dei diritti di difesa al vizio di motivazione. Probabilmente la giurisprudenza CEDU è ancora un futuribile giuridico, a fronte di una granitica giurisprudenza nazionale che ammette una contestazione mediante prove e non mediante testo linguistico. Ma qui si intende proporre una diversa prospettiva: l’esiziale effetto che la mancanza di una formale imputazione ha sulla motivazione della sentenza. In altri termini, la mancanza di imputazione va vista non sotto il profilo della violazione del diritto di difesa, bensì sotto quello del vizio di motivazione. Perchè senza le parole precise dell’imputazione l’accusa diventa fluida, sfuggente. Si altera l’ordine logico del processo, riflesso nella struttura della sentenza: imputazione-motivazione-decisione. Qui dalla motivazione si ricava l’imputazione. Ma come si può ritenere valida una motivazione se manca il parametro di riferimento dell’imputazione ? Si sovrappongono i piani della descrizione del fatto e della argomentazione sulle prove del fatto. Si motiva dando per scontato un fatto e si trae il fatto da spezzoni di frasi, da un verbo, da un sostantivo. La motivazione diventa assertoria, non indica -non dico le prove- ma neppure i fatti, sovrappone i piani della condotta, dell’evento e del dolo, copre i vuoti logici con slittamenti semantici. E’ quello che è avvenuto.

Alla ricerca della imputazione. Il paradosso di un concorrente esterno che dà il suo contributo in una vicenda estorsiva, ma non concorre nell’estorsione. Qui abbiamo pacificamente un’estorsione continuata. Il contributo dell’imputato (concorrente esterno) è un contributo al realizzarsi dell’evento estorsivo perché si inserisce nei momenti cruciali della trattativa tra vittima ed estorsori. Il risultato è che l’imputato risponde di concorso esterno ma non di estorsione ! Si potrà dire: è un affare del Pm il fatto di non aver contestato l’estorsione. Ma non è evidentemente questo il punto. Il problema non è di diritto processuale, ma di diritto sostanziale. Si tratta di definire la condotta del concorrente esterno. Il quesito giuridico è il seguente: “se il contributo del concorrente esterno consiste (come in questo caso) nel portare a buon fine una estorsione, la sua condotta deve avere i caratteri del concorso all’estorsione o deve avere un quid pluris o un quid minus ?”. L’imputato partecipa ad un’estorsione, ma la sentenza non si pone il problema se la condotta dell’imputato deve avere i caratteri tipici di colui che concorre nell’estorsione. Ma se in sentenza non si parla di estorsione, dovremmo giungere a questo: la condotta dell’imputato si inserisce in una estorsione ma è un quid minus rispetto al concorso in estorsione. Questo quid minus non è tale da integrare l’estorsione, ma è tale da integrare il concorso esterno…

Ora. Come si sa, il semplice fatto di concorrere in un reato-fine non è di per sé sufficiente ad integrare il concorso esterno. Perfino partecipare ad un omicidio (a meno che non sia di quelli c.d. strategici) non basta per il concorso esterno. La sentenza avrebbe dovuto seguire il seguente protocollo logico: a) l’imputato ha concorso nell’estorsione; b) trattandosi di un’estorsione strategica continuata per molti anni, possiamo argomentare che il concorso nel reato-fine è condotta di concorso esterno. La sentenza ignora clamorosamente il problema. Questo dimostra quanto andavamo dicendo a proposito di mancanza di una formulazione dettagliata dell’imputazione. Dobbiamo ritenere che l’imputato ha posto in essere una condotta che è un quid minus rispetto all’estorsione ma è sufficiente ad integrare il concorso esterno. Ma è logicamente e giuridicamente possibile ? Se la Mannino (metodicamente ignorata dalla sentenza) ci dice che il contributo del concorrente esterno deve essere concreto, effettivo e rilevante, il quesito giuridico è: “come è possibile un contributo concreto effettivo e rilevante ad una estorsione, che però sia qualcosa di meno del concorso in estorsione ?”. La sentenza impugnata non si è posto l’interrogativo.

Ma trattandosi di una questione di diritto sostanziale, la Corte deve porselo. Anche di ufficio (arg. ex art. 129 cpp.).

La fondamentale distinzione delle condotte di concorso esterno: concorso consistito in attività illecita o in attività lecita. Il concorso esterno può consistere in un’attività illecita o in un’attività lecita. Concorrente esterno può essere colui che compie un omicidio o un’estorsione per conto dell’associazione. E può essere il medico che sistematicamente cura in clandestinità i latitanti di mafia. Sotto il profilo della contestazione le cose cambiano. Se la condotta del concorrente esterno consiste nella commissione di un reato-fine o di un reato strumentale all’associazione, la tipizzazione della condotta del concorrente esterno è definita dal reato compiuto (per esempio, omicidio o estorsione). Qui il deficit di tipicità è ridotto. Il deficit di tipicità è massimo invece dove la condotta del concorrente esterno consiste in un’attività lecita. Infatti, l’illecito penale è tipizzato. Il lecito no. Nel caso in esame cosa abbiamo ? Pacificamente la condotta dell’imputato si iscrive in una vicenda estorsiva. Quindi si sarebbe dovuto applicare un protocollo logico lineare e usuale in situazioni del genere: contestare estorsione e concorso esterno. Il contributo del concorrente esterno è la sua partecipazione all’estorsione. Dal reato-fine dell’estorsione si passa poi al concorso esterno.

Si sarebbero ottenuti due risultati: a) tipizzare il contributo del concorrente esterno; b) adeguare l’imputazione al fatto e la pena alla gravità delle imputazioni. Il rischio era che se cadeva la partecipazione all’estorsione cadeva tutto. Si è seguita una diversa strada: a) non si è contestata la partecipazione all’estorsione; b) si è contestato in fatto il concorso esterno. Si è passati così da un’imputazione che poteva essere ben determinata (l’estorsione ha profili scolpiti) ad un’imputazione indeterminata. Il risultato è questo: nel primo caso l’imputato doveva difendersi da due accuse determinate, ora si difende da una sola accusa. Ma indeterminata. L’indeterminatezza dell’accusa non giova alla difesa. E’ vero che se gli va male, prende una condanna minore. Ma il rischio che gli vada male è enormemente aumentato. 5. E’ ammissibile la contestazione in fatto del concorso esterno in associazione mafiosa? La sentenza dice per rispondere ad una eccezione della difesa: c’è la contestazione in fatto. Ed ha ragione. Ma fino ad un certo punto. La giurisprudenza della Corte EDU impone una profonda revisione della giurisprudenza corrente. La Convenzione europea ci dice che l’accusa deve essere dettagliata. Dettagliata non vuol dire che è sufficiente che io contesti all’imputato cosa hanno detto i pentiti. Sarebbe come dire: “io ti contesto le prove, tu difesa trai da tutte le informazioni probatorie i possibili fatti che ti possono venire ascritti”. Non si può sub-delegare al pentito di formulare l’accusa. Nè è l’imputato che deve estrarre dai fatti l’accusa. Per poi sapere -solo al momento in cui è condannato- ciò di cui è accusato. implica una riformulazione linguistica dell’imputazione. Non è formalismo ma sostanza: se il fatto è un omicidio, l’imputazione è per così dire, in re ipsa. Ma se il fatto è il concorso esterno le cose cambiano drammaticamente.  Rilievo importante: la giurisprudenza in materia di contestazioni in fatto ha sempre riguardato fattispecie tradizionali, cioè ad alto tasso di tipicità. Fattispecie ben strutturate: come ricettazione e falso, appropriazione indebita e truffa e così via. Cioè sono tutti casi in cui l’emersione del fatto dalle contestazioni avveniva -per così dire- per forza di inerzia. Ma qui siamo in presenza di una fattispecie intrinsecamente vaga. L’imputazione è la proiezione processuale del principio di tipicità penale. Già il concorso esterno è ferocemente contestato in dottrina e giurisprudenza sotto il profilo della sua tipicità sfuggente. Tre SS.UU. hanno cercato di tipizzarlo. Ammettere una contestazione in fatto significa platealmente aggirare il principio di tipicità. Cioè la principale conquista dell’illuminismo giuridico. Dunque, ci deve essere un atto (esame o altro) in cui l’accusa mi dica dettagliatamente e in forma chiara e precisa la condotta criminosa che avrei commesso.

Rimettere la questione nelle mani delle SS.UU. Non credo che risultino precedenti della contestazione in fatto di un’accusa di concorso esterno. Aggiungerebbe oscurità ad un reato già di per sé oscuro. Saremmo ad una doppia indeterminatezza: l’indeterminatezza del reato e l’indeterminatezza della contestazione in fatto. Nel corso degli anni sono intervenute tre volte le SS.UU. per cercare di dare determinatezza alla fattispecie del concorso esterno. Il problema era restringere l’area del concorso esterno riportandolo nei confini della tipicità. Con la teoria della fibrillazione si è tentato di porre un freno. Il secondo intervento delle SS.UU. è stato sul versante del dolo. Il terzo intervento (la Mannino) ha operato sul versante della causalità. E’ tutto inutile se si aggirano i limiti posti da queste tre sentenze operando sul piano semantico della formulazione della fattispecie. La vicenda è nota. L’aggiramento della tipicità può avvenire usando termini vaghi (la famosa o famigerata disponibilità, per esempio). La Mannino si è resa conto di questa insidia e ha bollato con termini aspri -ha parlato testualmente di “vaghezza semantica e retorica”- la formulazione dell’imputazione in termini vaghi. E’ proprio questo spunto importante della Mannino che autorizza ed anzi impone di rimettere alle Sezioni Unite un quesito che riguarda un pericolo ancora maggiore rispetto alla vaghezza dell’imputazione: la contestazione in fatto. La questione è di straordinaria importanza e farebbe davvero fare alla giurisprudenza un balzo in avanti sulla strada della civiltà giuridica e potrebbe completare il ciclo degli interventi delle SS.UU. su questa tormentata e dolorosa fattispecie, evitando le più insidiose forme elusive della tipicità penale e quindi dei diritti dell’imputato a difendersi da un’accusa definita. Si è rimessa alle SS.UU. il quesito se la formula “indisponibilità degli impianti” fosse rispettosa delle prescrizioni dell’art. 268 cpp. Dunque, un problema linguistico. Qui la posta in palio è enormemente superiore. E le conseguenze di enorme portata. Va aggiunta un’ulteriore fondamentale considerazione: la contestazione in fatto di una fattispecie sfuggente come il concorso esterno imporrebbe alla Cassazione di ricostruire dagli atti e dalle prove l’imputazione, prima di procedere alla soluzione della quaestio iuris: cioè della qualificazione normativa del fatto. Cioè, la Cassazione prima dovrebbe cercare di estrarre l’imputazione dalle contestazioni in fatto e poi stabilire se l’imputazione così ricostruita corrisponde alla fattispecie astratta di reato. La prima operazione esorbiterebbe dai poteri cognitivi tradizionalmente fissati al giudizio di questa Corte. Dunque chiedo che vengano investite le SS.UU. dei seguenti quesiti: “a) se ai fini della validità della c.d. contestazione in fatto è sufficiente la contestazione all’imputato delle fonti di prova e degli elementi di prova o se si richieda comunque la formulazione dell’accusa in un atto comunicatoall’imputato; b) se, alla luce dei principi costituzionali e della giurisprudenza convenzionale, possa ritenersi valida la contestazione in fatto dell’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, trattandosi di fattispecie già intrinsecamente caratterizzata da un deficit di tipicità”. Si dirà: ma il quesito è stato da sempre risolto dalla giurisprudenza nel senso che la contestazione è valida se non è leso il diritto di difesa. Ma il quesito è diverso.

Non confondiamo due problemi: a) il problema della contestazione; b) il problema della correlazione tra accusa e sentenza. Prima occorre accertare che vi sia stata una contestazione. E poi vedere se c’è correlazione. Se nell’imputazione mi contesti la partecipazione ad associazione e poi nel corso del processo mi contesti il concorso esterno, descrivendomi la condotta incriminata, allora si porrà un problema di correlazione tra accusa e sentenza (pacificamente risolto dalla giurisprudenza nel senso della correlazione. Ma qui si contesta formalmente il concorso esterno, indicando determinati comportamenti. Poi si ignorano completamente questi comportamenti e mi si condanna -senza alcuna contestazione- per il medesimo titolo di reato, ma per un fatto completamente diverso. Prima ancora di un problema di correlazione, si pone un problema di contestazione. Distinguendo i due problemi, si può allora affrontare correttamente il problema della violazione del diritto di difesa. Si dice: il diritto di difesa è salvo se all’imputato vengono contestate tutte le prove a carico. E’ evidente l’errore di prospettiva: si fa coincidere la salvaguardia del diritto di difesa con il fatto stesso che ti vengono contestati i fatti. Così si identificano due problemi che vanno scissi: a) innanzitutto ci deve essere una contestazione in fatto; b) una volta che si è accertata questa contestazione in fatto, bisogna accertare che questo modo di contestazione non abbia leso il diritto di difesa. L’accertamento in concreto della violazione del diritto di difesa non può esaurirsi tautologicamente nel fatto che ti sono stati contestati tutti gli elementi del fatto. Altrimenti sarebbe sempre e comunque ammessa la contestazione in fatto perché essa sarebbe in re ipsa non lesiva dei diritti di difesa. Al contrario, se dalla contestazione in fatto la difesa non riesce a trarre un’accusa dettagliata, chiara e precisa-come in questo caso- la lesività sarebbe evidente.  E comunque - sempre secondo la giurisprudenza costante - il mancato pregiudizio del diritto di difesa va accertato in concreto, cioè caso per caso. Non può essere presunto. E questo accertamento nel caso concreto non è stato fatto. Il quesito allora è fondamentale, perché nel caso di contestazione in fatto di una fattispecie intrinsecamente vaga, la lesività sarebbe in re ipsa.

Quale è il contributo dato da concorrente esterno all’associazione mafiosa? Poiché non abbiamo un’imputazione, siamo per forza costretti ad elaborare molteplici teorie del caso, cercando di trovare quella più adeguata al fatto e conforme a diritto. Ma è un’operazione che non competerebbe alla Cassazione. Doveva essere fatta nei gradi precedenti.

La teoria dell’arricchimento dell’associazione mafiosa mediante le prestazioni di denaro estorto? E' chiaro che la mafia ha ricevuto per anni un contributo rilevante e si è rafforzata. Ma non possiamo dire che la condotta del concorrente esterno è consistita nel dare soldi alla mafia. I soldi alla mafia li ha dati la vittima. Ogni vittima di estorsione mafiosa contribuisce -pagando- al rafforzamento dell'associazione. Perchè la vittima non è allora concorrente esterno ? Perchè è appunto vittima. Allora non possiamo dire che il contributo dell’imputato è consistito nel dare soldi alla mafia. Avremmo il paradosso che condotta della vittima e condotta dell’imputato coinciderebbero. Occorrerebbe quindi dimostrare che l’imputato ha dato un contributo diverso da quello dato dalla vittima.

La teoria dell’istigazione o agevolazione? Va rilevata una improprietà semantica della sentenza. A pag. 319 si addebita all’imputato di aver indotto l’amico-vittima a soddisfare le pressanti richieste estorsive di cosa nostra: “..inducendo l’amico..”. Ora, il diritto è tecnica e la parola “induzione” ha una lunga tradizione alle spalle. Indurre la vittima a pagare significa che la vittima era in dubbio se pagare o no e l’imputato l’ha spinta a superare il dubbio e a decidersi a pagare. Su questo punto convergono due vizi della sentenza: a) la contraddittorietà logica (coesistenza di affermazioni incompatibili): alla stessa pag. 319 dove si dice:”…l’imprenditore Berlusconi, disposto a pagare pur di stare tranquillo..”. Come può l’imputato avere indotto la vittima, quando questa era già disposta a pagare ? b) travisamento del fatto. Qui non siamo nel travisamento della prova (una prova c’è e la interpreto male). Qui siamo proprio nel travisamento del fatto (asserisco l’esistenza di un fatto che dagli atti non risulta). Di induzione nessun pentito ha mai parlato. La sentenza fa un’affermazione ma non motiva. Non esiste né prova logica, né prova storica. Inutile dire che non è questione di merito. Una questione di merito (per chi ancora crede alla distinzione legittimità-merito) si potrebbe porre rispetto al vizio di motivazione. Ma non rispetto alla mancanza di motivazione. Ecco qui un esempio clamoroso di come un’imputazione indefinita danneggi la difesa. Mettiamo che l’accusa fosse stata consolidata in un’espressione del l tipo “condotta di concorso esterno consistita nell’avere indotto la vittima a cedere alle richieste estorsive..”. La difesa poteva limitarsi a dire: “questa è l’accusa ? Bene, dammi le prove”. E il processo era finito.

La teoria del garante o – meglio - dell’affidamento della mafia sulla collaborazione dell’imputato? A pagina 317 la sentenza palesa una variante linguistica (quando un’imputazione è vaga, sono le parole che ti condannano). Si usa questa espressione a carico dell’imputato ”..adoperandosi affinchè il gruppo imprenditoriale.. pagasse cospicue somme di denaro alla mafia”. Adoperandosi ? Cosa significa ? Mancando una descrizione della condotta, la sentenza avrebbe dovuto dirci in cosa concretamente sarebbe consistito questo adoperarsi. Ancora la Mannino ci dice che il contributo deve essere concreto ed effettivo. Qualificare il contributo come concreto ed effettivo è quaestio iuris (è qualificazione normativa del fatto). Ma come facciamo a dire che il contributo è stato concreto ed effettivo se non sappiamo in cosa è consistito l’adoperarsi ? Avanziamo un’ipotesi: che senza l’adoperarsi dell’imputato, la vittima non avrebbe pagato ? Cioè l’imputato avrebbe garantito l’esito sicuramente positivo dell’accoglimento delle richieste estorsive ? Nessuno ha mai detto questo. Né la sentenza ci indica qualcuno che l’abbia detto. E’ ben possibile che la mafia facesse affidamento sulla disponibilità (chiamiamola collaborazione) dell’imputato. Siamo alla teoria dell’affidamento. Quali fossero i calcoli della mafia è irrilevante. Bisogna stabilire quali garanzie avrebbe dato l’imputato alla mafia. E’ un salto logico dedurre dal possibile affidamento della mafia l’esistenza di una garanzia data dall’imputato. La motivazione della sentenza è un’asserzione senza argomentazione. Forse perché è difficile sfuggire al dubbio che la forza persuasiva dell’estorsione sia consistita - più che nelle parole dell’imputato - nelle bombe della mafia.

La teoria della riduzione del rischio mafioso? A pag. 320 troviamo un’altra variante. L’apporto dell’imputato alla mafia sarebbe consistito nel fatto che la mafia poteva avere un canale sicuro di collegamento con la vittima, senza il rischio di possibili denunce e interventi delle forze dell’ordine. Affermazione dal senso logico sfuggente. Il collegamento può essere lecito o illecito a seconda della direzione. Se io -per conto dei familiari del sequestrato- mi metto in contatto con i sequestratori per trattare la liberazione dell’ostaggio, sono nel lecito. Se io -per conto dei sequestratori- comunico alla famiglia del sequestrato- le richieste estorsive, sono nell’illecito. Nel nostro caso il collegamento sarebbe illecito se le richieste estorsive fossero state iniziative della mafia che si è servita dell’imputato per inviare messaggi estorsivi alla vittima ed indurla a pagare senza fare tante storie e denunce. Ma dagli atti emerge la prova del contrario. Fu la vittima servirsi dell’imputato per contattare la mafia e trovare un gentlemen’s agreement. Quindi la presenza dell’imputato non ha ridotto il rischio dell’impresa mafiosa. A meno che non vogliamo pensare che la mafia abbia scelto come bersaglio quella vittima confidando proprio sul fatto che braccio destro della vittima fosse l’imputato. Ma Galileo diceva: “ hypothesis non fingo”. Non costruisco ipotesi. Meno che mai possiamo farlo noi.

La teoria del canale di collegamento o tramite tra mafia e imprenditore famoso? La giurisprudenza della Mannino ha fatto giustizia dei termini vaghi (disponibilità, frequentazioni e simili). Canale di collegamento,tramite sono metafore. La tipicità dell’imputazione richiede condotte concrete (la CEDU parla di accusa dettagliata) Cosa ha fatto in concreto l’imputato, dove quando e come ? Dimmi prima cosa ho fatto e poi vediamo se la mia condotta può essere qualificata come tramite, canale, tunnel e simili. Le metafore non possono sostituire la condotta. Non si condanna sulle parole, ma sui fatti.

La teoria del prestigio interno di Bontate per effetto del canale Dell’Utri: cioè il rafforzamento interno? Anche qui la Mannino ostruisce ogni percorso. Ma c’è di più. Cioè non c’è nulla. Manca la prova che ci fosse questa circolazione interna della notizia dell’esistenza di un canale di collegamento costituito dall’imputato. Eppoi, qualcuno potrebbe ironizzare: si è tanto rafforzato Bontate che dopo qualche anno è stato ammazzato. Si è tanto rafforzato come prestigio interno Riina che il capo dei capi fino all’85 neppure sapeva che l’imprenditore era estorto.

La teoria del mediatore? L’imputato viene qualificato mediatore dalla sentenza. Le metafore sono pericolose, bisogna sceglierle con cura. Occorrerebbe prima descrivere cosa ha fatto l’imputato e poi qualificare la sua condotta come mediazione. Ma perché mediatore e non -per rimanere nella metafora civilistica- mandatario con procura per conto della vittima ? Questa idea della mediazione è paradossale. Si è mai visto che in un’ estorsione (per di più mafiosa) c’è una mediazione tra autore e vittima ? Che estorsione è ? La mediazione implica parti contrapposte in posizione di autonomia negoziale che contrattano. Sarebbe una singolarità strepitosa che la mafia abbia bisogno di un mediatore. Un mediatore che strappi un pizzo maggiore ? Se un mediatore c’è, è per conto della vittima. Criminologicamente è la vittima di un’estorsione o di un sequestro di persona che cerca una mediazione per spuntare un prezzo migliore e condizioni di pagamento -rateali- migliori. Anche qui c’è travisamento del fatto e mancanza di motivazione. L’imputato non fu scelto dalla mafia, ma dalla vittima come mediatore. Dunque, la sentenza ha affermato un fatto che non esiste. Ma c’è anche mancanza di motivazione: perché mediatore e non nuncius della vittima ? La sentenza avrebbe dovuto rispondere a questo interrogativo: pacificamente il mero nuncius della vittima non è concorrente esterno. Ora che c'è nella condotta dell'imputato di più rispetto a quella del nuncius ? Che conosceva due mafiosi ? Ma questo la vittima lo sapeva e anzi ha scelto l’imputato proprio per questo. In altri termini cosa avrebbe dovuto fare l'imputato per aiutare la vittima senza diventare concorrente esterno? Per usare un paradosso: essendo un mediatore in-civile, doveva essere ricusato dalla vittima. O doveva astenersi. Addebitiamo all’imputato l’omessa astensione ? Dunque, il quid pluris è dato dal fatto che l'imputato conosceva , era amico ed è rimasto amico di due mafiosi. Si badi: di due mafiosi che non hanno fruito dei profitti dell'estorsione (che andavano a Riina) e che sono stati solo tramiti tra l'imputato e la mafia ricattante. Il quid pluris è dunque l'amicizia mafiosa.

Un esperimento mentale. La giurisprudenza (dalla Franzese alla Mannino) ci ha abituati ormai a ragionare in termini controfattuali. Ora applichiamo il controfattuale e facciamo il caso che l’imputato non fosse amico dei mafiosi. Nessuno lo condannerebbe. La sua condotta sarebbe lecita, perché a favore della vittima. Ma allora quale è questo misterioso sortilegio per cui la medesima condotta passa subitaneamente dal lecito all’illecito? L’amicizia mafiosa. Ma la storica Mannino (e in quel caso le amicizie mafiose dell’imputato erano molto più intense e vaste) ha con parole aspre confinato nell’irrilevante giuridico le frequentazioni mafiose. Al massimo, possono costituire uno spunto investigativo.

Il dolo. Ovvero il paradosso del dolo diviso. Monotonamente, va citata ancora la Mannino. La Mannino ci dice: il concorrente esterno sa e vuole il rafforzamento dell’associazione criminosa. Occorre il dolo diretto, non basta il dolo eventuale. Dunque, occorre dimostrare che non solo l’imputato sapeva che la sua condotta (quale condotta?) avrebbe potuto rafforzare la mafia, ma ha agito volendo rafforzare la mafia. (Anzi, ad intendere bene la Mannino il concorrente esterno agirebbe con un doppio dolo: dolo diretto rispetto all’evento-rafforzamento dell’associazione mafiosa, dolo specifico rispetto all’evento ulteriore dato dalla realizzazione almeno in parte del programma criminoso). Quindi, non basta dire: “l’imputato sapeva che così facendo rafforzava la mafia”. Occorre dire: “l’imputato ha agito sapendo e volendo rafforzare la mafia”. Qui non si tratta semplicemente di prevedere ed accettare il rafforzamento della mafia: questo è automatico in ogni fattispecie estorsiva. Qui si tratta di volere il rafforzamento della mafia e di agire a tal fine (siamo nel dolo intenzionale del rafforzamento). Nel caso dell’imputato dove è la prova del dolo ? Mi correggo: dove è la motivazione relativa all’esistenza del dolo. Se l’imputato ha agito con l’intenzione di aiutare la vittima, sapendo così di aiutare la mafia: siamo fuori del dolo. Occorre dimostrare che l’imputato ha agito volendo aiutare la mafia. Ma qui abbiamo un altro paradosso. L’imputato agisce con un dolo diviso a metà. Vuole aiutare al tempo stesso la vittima e gli estorsori. Ma come è possibile ? Nel momento in cui vuoi aiutare la mafia, non vuoi danneggiare la vittima ? La sentenza valorizza l’amicizia dell’imputato con i mafiosi (che -oltretutto- non sono beneficiari dei profitti dell’estorsione). Qui c’è un doppio errore. Il primo errore: il dolo non è un atteggiamento interiore del tipo desiderio, speranza e simili. Il dolo è conoscenza e volontà che filtra nell’azione e la irrora come un vaso sanguigno. In altri termini, l’azione dolosa è diversa dall’azione senza dolo. Se io mi limito a portare i soldi del riscatto ai sequestratori per conto dei familiari della vittima, posso anche odiare il sequestrato e fare il tifo per i sequestratori. Ma questo non sposta di un millimetro il fatto che non sono un complice. Il secondo errore: diamo pure rilevanza all’amicizia. La cosa potrebbe pure funzionare: se ci fosse solo quell’amicizia.

Ma l’imputato -nessuno lo nega- è legato fortemente alla vittima. Ora perché privilegiare l’amicizia per i mafiosi non beneficiari e non l’amicizia per la vittima ? E’ chiaro che la posizione della vittima e quella della mafia estorcente sono l'una contro l'altra. Qui si tratta di parteggiare per la vittima o per la mafia. Ma lasciamo da parte i sentimenti e consideriamo l’homo oeconomicus. A lui giovava di più aiutare la vittima o la mafia ? E’ razionale che l’imputato - amico e collaboratore della vittima da cui veniva pagato - preferisca favorire la mafia contro B. ? Voleva ingraziarsi la mafia ? E allora come mai, quando si è trattato di fondare un nuovo partito proprio in Sicilia non ha chiesto i servigi della mafia ? E prima ancora: come mai l'imputato (questo è un fatto incontroverso) si è più volte lamentato che la vittima era tartassata, tanto che è dovuto intervenire Riina ? E come mai Riina ha dovuto riprendere a fare minacce e attentati alle aziende della vittima per indurla a pagare ed anzi ha raddoppiato il prezzo ? La sentenza - con la solita metodica delle asserzioni non argomentate - dice (pag. 320): ”..la cordialità di rapporti delineando una vera e propria complicità assoluta…perché sarebbe altrimenti inspiegabile perché chi è amico della vittima continui a tenere una tale cordialità di rapporti. . tali da non disdegnare pranzi e riunioni conviviali con gli estortori..” Dunque, le famose frequentazioni nella storia del concorso esterno hanno avuto una vicenda tormentata. Prima erano la condotta del concorrente esterno. Dopo sono diventate la prova del contributo causale (frequentazione=disponibilità). Ora sono diventate la prova del dolo…

Ma è la logicità dell’argomento che traballa, prima ancora che la sua giuridicità. Innanzitutto, va ripetuto: Mangano e Cinà non hanno preso un soldo e non sono stati loro a fare materialmente le estorsioni. Erano il canale (per usare l’abusata metafora) di cui l’imputato si serviva per trattare con i Capi. Ma analizziamo l’argomento logico della sentenza. Esso si sostanzia nel seguente criterio di inferenza: “se tu sei amico della vittima tronchi ogni rapporto con gli estorsori e con i loro emissari, altrimenti sei complice”. Basta mettere in forma linguistica il criterio di inferenza per vedere quanto sia implausibile. E perché non dovrebbe essere più razionale il criterio di inferenza opposto: “la vittima e gli amici della vittima cercano di conservare buoni rapporti con gli estorsori perché in questo modo sperano di poter strappare condizioni migliori o comunque di non peggiorare la situazione ? 10. Un po’ di curiosità per i precedenti giurisprudenziali. In effetti, non guasterebbe citare un po’ di giurisprudenza, dal momento che il concorso esterno è di fatto una creazione giurisprudenziale. Un precedente recente potrebbe essere questo: Sez. F, Sentenza n.38236del 03/09/2004 Cc. (dep. 28/09/2004 ) Rv. 229649 Ai fini della configurabilità dei reati di favoreggiamento personale e reale occorre, sotto il profilo soggettivo, che la condotta favoreggiatrice sia stata posta in essere ad esclusivo vantaggio del soggetto favorito, per cui i suddetti reati restano esclusi qualora l'agente abbia avuto di mira il conseguimento di interessi propri. (Principio affermato, nella specie, con riguardo alla condotta tenuta da un imprenditore il quale, pur avendo assunto, secondo l'accusa, un ruolo di cerniera tra la criminalità organizzata locale e le imprese disposte a venire a patti con la medesima, aveva tuttavia agito essenzialmente al fine di assicurare la tranquillità delle imprese che a lui facevano capo).  La condotta dell’indagato (siamo in fase cautelare: si badi gip e riesame avevano ritenuto il favoreggiamento personale e non il concorso esterno)) viene così riassunta: “la figura di imprenditore camorrista dello Iovino, che non si sarebbe limitato a subire la pressione dei clan camorristici della zona (attestata dall'estorsione subita nel cantiere della ditta da lui gestita) ma avrebbe assunto il ruolo di cerniera tra la criminalità organizzata locale e le imprese disposte a venire a patto con la camorra, attivandosi per raccogliere nell'ambito degli imprenditori che stavano effettuando lavori nella zona di Sarno, a seguito della nota alluvione del 1998, una maxi tangente collettiva di L. 80.000.000, così rendendo più difficili le investigazioni sulle associazioni camorristiche, delle quali avrebbe favorito la mimetizzazione attraverso la sua interposizione nella riscossione della somma ed aiutando i componenti dei clan mafiosi ad assicurarsi il profitto del reato di associazione”. Ora, anche l’imputato di questo processo è un imprenditore (amministratore delegato di una fondamentale società del gruppo societario della vittima), che sarebbe una cerniera tra la vittima (amministratore della holding del gruppo) e la mafia. Dove è l’iniziativa personale, dove è il profitto personale ? La sentenza non se lo pone neppure il problema. Dunque, mancanza di motivazione su un punto decisivo. La sentenza nelle poche pagini cruciali in cui tratta del concorso esterno dell’imputato non cita neppure una -ripeto una-sentenza. Eppure il concorso esterno ha vissuto stagioni climatiche estreme nella giurisprudenza. Si potevano citare almeno le SS.UU. Mannino. criteri dell’ars disputandi: non fare citazioni imbarazzanti.

Ma in questo processo esiste il ragionevole dubbio? Abbiamo un’accusa non descritta. Un dolo diviso. Asserzioni non argomentate. Precedenti che non ci sono. Sentenza delle Sezioni Unite che c’è ma viene ignorata. Ma soprattutto nelle centinaia di pagine della sentenza c’è un’espressione che non compare mai. E che forse ha una qualche importanza: ragionevole dubbio.

Un problema di diritto: è ammissibile il concorso esterno in associazione semplice? La sentenza tratta la tematica come se si trattasse di una successione di condotte di partecipazione. E cita giurisprudenza pacifica sul punto. Ma qui si tratta di successione di condotte di concorso esterno. A meno che non si voglia sostenere che l’imputato prima dell’82 era un partecipe e dopo è diventato concorrente esterno ! Qualcuno dovrebbe spiegarci come sia avvenuta questa trasfigurazione… Qui la legge non si limita ad introdurre reati, cambia pure le condotte storiche. E allora si sarebbe dovuto affrontare un tema preliminare e cruciale: il concorso esterno -per come è stato configurato dalle sentenze delle SS.UU.- è ammissibile anche per il 416 cp. ? Gli effetti sarebbero devastanti.  Il 416 cp è una norma ancora in vigore.  

Un altro problema di diritto: il concorso esterno è un reato permanente? La sentenza parla di concorso esterno Ma poi quando va a discutere della permanenza o meno del reato, parla di partecipazione. E’ l’ennesimo effetto perverso dell’imputazione che non c’è. Come si sa, non sono la stessa cosaRitenere che la condotta del concorrente esterno (quale condotta ?) è permanente perché permanente è il reato associativo è affermazione che stride con la logica prima ancora che con il diritto. Perché porterebbe all’ennesimo paradosso: il partecipe può mettere fine alla permanenza recedendo dall’associazione, il concorrente esterno non potrebbe farlo. Dunque la sentenza commette vistosi errori di diritto. L’accusa è di concorso esterno. Si chiede quando è cessato il reato. La sentenza risponde: la partecipazione è reato permanente. Che risposta è ? Un quesito giuridico rimasto senza risposta. Essendo una quaestio iuris, deve farlo questa Suprema Corte. Dunque, il quesito è: il concorso esterno è reato permanente ? La risposta più ovvia dovrebbe essere questa: dipende dal tipo di contributo (può essere un contributo permanente, istantaneo, frazionato). E questo quesito si intreccia con un altro: se io a distanza di anni do due contributi rilevanti all’associazione, commetto un unico o più reati di concorso esterno in associazione mafiosa ? Come si vede, il concorso esterno ormai pone problematiche diverse da quelle dell’associazione mafiosa. Nato dall’art. 416 bis cp, ormai è un reato autonomo. Un reato autonomo creato dalla giurisprudenza. Che prima lo ha creato, usato e dilatato. E ora lo sta progressivamente restringendo fino a casi marginali. In cassazione sono ormai rare le condanne definitive per concorso esterno. Dall’entusiasmo allo scetticismo. Ormai non ci si crede più. Qui l’imputato partecipa alle trattative di un’estorsione e materialmente consegna periodicamente i soldi. E’ reato permanente ? Non direi proprio per molteplici ragioni. E’ reato unico a condotta frazionata ? Quindi è iniziato nel ‘77 e si è concluso nel ‘92 ? Sarebbe davvero singolare: non c’è dubbio che siamo in presenza di un’estorsione continuata. Per il concorrente esterno (che -in qualche modo rimasto indefinito- partecipa a questa estorsione) avremmo un reato unico ad esecuzione -per così dire- permanente. Il che è davvero difficile da costruire. Nel campo del lecito esistono contratti di durata. Ma nel campo dell’illecito no. Ogni volta che deve pagare la vittima può decidere di non farlo (ecco perché l’estorsione è continuata). Ma c’è di più: l’imputato per vari anni (dal ‘79 all’82-83) ha smesso di lavorare per la vittima ed è andato a lavorare altrove. Dobbiamo ritenere che anche in quegli anni è continuata la condotta di concorrente esterno ? Se è così, allora davvero l’imputato non ha scampo. Ma non ha scampo neppure il diritto.

Conclusione: annullamento con rinvio. Si sono trattate solo questioni di diritto, cioè di qualificazione normativa del fatto. In questo campo la Suprema Corte se trova che nessuna fattispecie concreta risponde alla fattispecie incriminatrice, ha una strada obbligata: l’art. 129 cpp. E questa sarebbe la soluzione se ci fosse una imputazione definita. Ma qui si affastellano una serie di ipotesi provvisorie sulla condotta criminosa. Si tratta di questioni miste di fatto e di diritto: la mancata descrizione del fatto impedisce alla Cassazione la qualificazione normativa del fatto. Per dirla con un’espressione elaborata da un secolo e mezzo dalla Cassation francese, siamo in presenza di un défaut de base légale. La scelta dell’ipotesi criminosa non compete alla Cassazione, ma appartiene alla sovranitè du juge du fond. Dunque, la soluzione conforme ai poteri cognitivi e decisori della nostra Cassazione sarebbe quella dell’annullamento con rinvio. Il giudice di rinvio avrebbe il compito di:

a) parametrare l’imputazione (precisando la condotta, il contributo materiale e il dolo);

b) chiarire se la condotta del concorrente esterno debba presentare o meno i requisiti del concorso in estorsione;

c) stabilire se si sia in presenza di un reato unico o di un reato continuato (anche ai fini di una eventuale, parziale prescrizione);

d) adeguare la motivazione all’imputazione così determinata, seguendo un ordine logico, senza sovrapposizione di piani tra condotta, effetto causale e dolo e –soprattutto - senza slittamenti semantici, espressioni vaghe volte a coprire un vuoto argomentativo.

L’annullamento con rinvio per vizio di motivazione non vuol dire che l’imputato è innocente. Vuol dire che la motivazione è viziata, non che la decisione sia sbagliata.

E’ un annullamento fatto non a favore dell’imputato. Ma a favore del diritto.

Roma, 9.3.2012 Il Sostituto Procuratore Generale Francesco Mauro Iacoviello

"La trattativa tra mafia e istituzioni dello Stato c'è stata, ma Forza Italia non c'entra con le stragi di Cosa Nostra del 1992 e del 1993". Lo dice, per la prima volta, la sentenza di un processo per mafia, quello a carico del boss del Brancaccio Francesco Tagliavia. Nelle motivazioni della sentenza di ergastolo emessa lo scorso 11 ottobre 2011 si sostiene che l'iniziativa di trattare coi vertici della criminalità organizzata fu assunta addirittura da rappresentanti delle istituzioni e non dai boss e che fu impostata, almeno inizialmente, sul principio del "do ut des". L'obiettivo che si prefiggeva, si legge nella sentenza, "era di trovare un terreno con Cosa nostra per far cessare la sequenza delle stragi" del '92 e del '93, dall'attentato di Capaci in cui morì il giudice Giovanni Falcone alla bomba di via dei Georgofili, a Firenze.

Dalla "disamina" delle dichiarazioni "di soggetti di così spiccato profilo istituzionale esce una quadro disarmante che proietta ampie zona d'ombra sull'azione dello Stato nella vicenda delle stragi", continua la sentenza del processo svoltosi a Firenze dove sono stati ascoltati come testimoni anche gli ex ministri Nicola Mancino e Giovanni Conso. "Ombre che questo processo non ha potuto dipanare". Non ha invece trovato consistenza, secondo i giudici, "l'ipotesi secondo cui la nuova entità politica (Forza Italia) si sarebbe addirittura posta come mandante o ispiratrice delle stragi". Tutto questo a pochi giorni dalla sentenza che fa ripartire da zero il processo d'Appello contro il senatore Pdl Marcello Dell'Utri in quanto la condanna a 7 anni non era sostenuta da prove reali e consistenti. Le motivazioni del Tribunale di Firenze, ora, danno un nuovo colpo alle tesi degli anti-Berlusconi che per anni hanno giocato la carta di presunti rapporti amichevoli, se non di collaborazione e sostegno, tra Cosa Nostra e il partito fondato dal Cavaliere di cui Dell'Utri era la lunga mano in Sicilia.

Se procure e giornalisti calpestano la giustizia dice  Vittorio Sgarbi su “Il Giornale”. Dunque non si rispettano le sentenze. Una vera e propria associazione di magistrati, di medesimi orientamento e ideologia, con il concorso esterno di giornalisti che ne propagandano le idee, minaccia e sovverte le leggi e l’ordine dello Stato. A questo schema sovversivo mette il cappello Gian Carlo Caselli titolare di numerosi fallimenti, dopo ingiusti arresti, in processi per mafia. Caselli addirittura chiede un’azione disciplinare e una punizione da parte del Csm per il suo collega di Cassazione Francesco Iacoviello che ha riconosciuto violati i diritti di difesa di Dell’Utri e l’assenza di atti e fatti che si configurassero come reati. Ci stiamo avviando a un paradosso della giustizia. Da un lato magistrati di vasta esperienza dichiarano che «al concorso esterno non crede più nessuno»; dall’altro una serie di giornalisti infoiati gridano, come tifosi, a un gruppo di esecutori: «Ammazza! Ammazza!». Ovvero, dalli all’untore! Era infatti appena uscita la sentenza che riconosceva nei magistrati di Palermo un grave pregiudizio per non avere «rispettato neanche il principio del ragionevole dubbio», che subito il pm Domenico Gozzo (di cui ho personalmente verificato la insufficienza di inquirente) dichiara, incredibilmente: «Le indagini e due processi hanno fugato ogni dubbio». Di «prove autonome, documentali e testimoniali» parla anche Marco Travaglio affermando, contro la Cassazione, che «il processo dell’Utri è il più solido tra tutti quelli celebrati per concorso esterno per associazione mafiosa». Nell’atteggiamento della Procura di Palermo, e di alcuni giornalisti, si ha la sensazione che il processo debba essere fatto non per ricercare la verità, ma per attaccare, diffamare e infine condannare un nemico. Sono rimasto molto colpito dall’articolo di Attilio Bolzoni, colpevolista per tifo, ma incapace di fornire, sul piano giornalistico, indizi o elementi di prova alle sue considerazioni. Mi viene di rispondergli: ma perché uno deve essere colpevole per forza? Non si gioca con la vita e la libertà degli altri. La mafia non può essere riconosciuta in uno stato d’animo o in un contagio per cattive frequentazioni. Dopo aver definito il calvario di Dell’Utri, una delle più incredibili vicende del nostro paese, Bolzoni insiste ironicamente: «Dell’Utri aveva relazioni con uomini vicini alla Cupola, ma che importa, mica c’è la prova del suo “contributo” all’associazione criminale denominata Cosa Nostra...». Ma un’ulteriore aggravante, per Bolzoni, sono le origini siciliane di Dell’Utri: un peccato, evidentemente originale. Si è colpevoli del proprio destino, non dei propri atti. La tutela e il rispetto dei diritti, richiamati dalla Cassazione, sono «sofisticate acrobazie giuridiche». Ci si chiede: ma la mafia esiste ed esisterà sempre, in quanto realtà ontologica e psicologica, o esiste in quanto agisce, per ciò che fa? Il reato prevede il fatto, non il sospetto o l’atmosfera. Forse Bolzoni ha dimenticato il precetto di Gian Battista Vico: «Verum ipsum factum». Niente da fare. Per lui, come per alcuni suoi colleghi che scrivono sull’«Infetto», la sentenza della Cassazione e i principi giuridici sono carta straccia.

Filippo Facci su “Libero quotidiano”: Dell'Utri e il concorso esterno, quante balle su Falcone e Cosa Nostra. La polemica sulla giustizia: sul concorso esterno il giudice anti-mafia (Giovanni Falcone) procedeva con cautela. Oggi è strumentalizzato. Prendete questa frase di Sergio Lari, procuratore capo a Caltanissetta, a proposito della famigerata inchiesta sulla «trattativa»: «Non sono emersi elementi per dire che ci sono responsabilità di uomini politici... È sbagliato parlare di mandanti esterni, casomai si può parlare di concorso di soggetti esterni». Concorso, esterni: voilà, ecco servito un trait d’union con le polemiche sul processo Dell’Utri e relativo canaio sul «concorso esterno». Il quale va corretto, disciplinato, uniformato, tipizzato: balle. Va cancellato, perlomeno così com’è, anche perché come reato - è stato ripetuto ad nauseam - non esiste, è un’invenzione giurisprudenziale, ecco perché ha particolarmente senso che sia stato proprio un procuratore della Cassazione a farlo a pezzi: e chi altri? Del resto non è un caso che nel Nuovo Codice del 1989 non ce lo vollero: infatti il famigerato «concorso esterno in associazione mafiosa» è diventato la libera somma di due ipotesi di reato (il «concorso» previsto dall’art. 110 e l’«associazione mafiosa» prevista dall’art. 416 bis) ) a mezzo del quale la magistratura ha ritenuto di colmare una lacuna legislativa: col risultato, noto, di aver creato una configurazione molto generica le cui applicazioni sono continuamente reinventate e stilizzate dalle sentenze appunto della Cassazione, e questo ben fregandosene dei supposti «principi molto rigorosi» con cui le Sezioni unite della stessa Suprema Corte hanno cercato più volte di disciplinarlo. Questo mostriciattolo giuridico dovrebbe realizzarsi, in teoria, quando una persona pur non inserita in una struttura mafiosa svolga un’attività anche di semplice intermediazione che sia utile a questa struttura; le sezioni unite della Cassazione, il 5 ottobre 1994, dapprima la misero giù così: il concorso doveva riguardare «quei soggetti che, sebbene non facciano parte del sodalizio criminoso, forniscano, sia pure mediante un solo intervento, un contributo all’ente delittuoso tale da consentire all’associazione di mantenersi in vita». Ergo, il concorrente esterno doveva aver manifestato una chiara volontà di partecipare all’associazione nella consapevolezza di concorrere a programmi criminali. Il semplice supporto (agevolazione, fiancheggiamento, compartecipazione in un singolo reato) perciò non poteva e doveva bastare. Poi ci fu la citata sentenza Mannino del 2005, quella che il pm Antonio Ingroia - secondo il procuratore della Cassazione - ha finto che non esistesse: si stabiliva che il «partecipe» fosse colui che risultasse inserito organicamente in un’associazione mafiosa, «da intendersi non in senso statico, come mera acquisizione di uno status», ma con un «concreto, specifico, consapevole, volontario contributo». Detto malissimo, le ricostruzioni dei pm palermitani potrebbero anche essere vere - secondo lo scrivente lo sono in buona parte - ma non costituiscono reato, tutto qui. L’opposizione a questo non-reato è sempre stata trasversale da destra a sinistra. Un’opinione doc, per capirci, è sempre stata quella dell’attuale sindaco di Milano, Giuliano Pisapia: da presidente della Commissione giustizia della Camera, anni addietro, fece una proposta di legge di un solo articolo «volta a superare l’equivocità giuridica sull’ipotesi definita “concorso esterno in associazione mafiosa”… una nuova figura di reato non prevista da alcuna norma di legge e in contrasto con il principio di tassatività della norma, che è uno dei cardini dello Stato di diritto». Questa norma inesistente, secondo Pisapia, determinava «la contestazione nei confronti di medici responsabili di aver curato persone ritenute partecipi a un’associazione mafiosa, di sacerdoti per aver prestato presenza spirituale alle medesime persone, e, addirittura, a vittime di estorsioni» (Camera, atto n. 854, 14 giugno 2001). Chissà che ne pensa, oggi, quella stessa sinistra che oggi fa finta di nulla. Del resto una sinistra garantista esiste ancora: l’abolizione del concorso esterno fu proposta nel 1996 anche dal diessino Pietro Folena: il quale, poi, malvoluto da Veltroni, lasciò i Ds nel 2005. Pisapia invece ebbe modo di riproporre l’abrogazione del concorso esterno dopo che ci avevano lavorato anche le commissioni Pagliaro, Grosso e Nordio: ma niente da fare. Il leitmotiv risuonò e risuonerà anche oggi: abolire quel «reato» significa fare il gioco della mafia. Per sostenere questo mostriciattolo impalpabile (che non esiste in nessun altro Paese del mondo, ovviamente) come al solito si scomoda impunemente Giovanni Falcone, continuamente. È vero, il 17 luglio 1987 c’era la sua firma in una delle prime sentenze che prefiguravano il concorso esterno in associazione mafiosa; nell’ordinanza del cosiddetto maxi-ter il giudice si pose effettivamente «il problema dell’ipotizzabilità del delitto di associazione mafiosa anche nei confronti di coloro che non sono uomini d’onore, sulla base delle regole disciplinanti il concorso di persone nel reato» (Tribunale di Palermo, Ufficio Istruzione, 1987, p. 429). Ma, nei fatti, Falcone non si sognò mai di contestare questo reato da solo, senza un corollario di altre e individuate ipotesi. Ecco perché, in un suo libro scritto con Marcelle Padovani, Falcone vedeva lungo anche sull’applicazione del 416bis: «Non sembra abbia apportato contributi decisivi nella lotta alla mafia. Anzi, vi è il pericolo che si privilegino discutibili strategie intese a valorizzare, ai fini di una condanna, elementi sufficienti solo per aprire un’inchiesta». Tanto che la definizione specifica del «reato», in mano ai presunti epigoni di Falcone, è diventata indefinibile, creta nelle mani del magistrato: è stato imbracciato per cercar di sanzionare ogni presunto e opinabile collaborazionismo della politica, dell’amministrazione, dell’imprenditoria, delle professioni, della stessa magistratura. E comunque questo continuo e vigliacco rifarsi a Falcone è stucchevole: le leggi non valgono per il proposito che si davano da principio, ma per l’applicazione che ne è stata fatta. Da altri, nel caso. Per dirla con Dante: «Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?».

DIRITTO CERTO E UNIVERSALE. CONTRADDIZIONI DELLA CORTE DI CASSAZIONE: CONCORSO ESTERNO IN ASSOCIAZIONE MAFIOSA, UN REATO CHE ESISTE; ANZI NO!!.

Tre ore di camera di consiglio poi il verdetto: la Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza d'appello di condanna a sette anni di reclusione per il senatore del Pdl Marcello Dell'Utri per concorso esterno in associazione mafiosa. Il processo di secondo grado dovrà essere rifatto a Palermo davanti ad altri giudici. La conclusione era già apparsa probabile durante l'udienza. Perché anche il sostituto procuratore generale presso la Cassazione Francesco Iacoviello aveva chiesto l'annullamento con rinvio o in alternativa che la vicenda fosse trattata dalle sezioni unite penali. Il procuratore Iacoviello ha parlato di «gravi lacune» giuridiche della sentenza d'appello per mancanza di motivazione e mancanza di specificazione della condotta contestata a Dell'Utri, che a suo avviso deve essere chiarita. Il pg inoltre ha voluto dare atto alla V sezione della Cassazione di essere di «grandissimo e indiscusso profilo professionale». Rispondendo in modo esplicito alle critiche di quanti avevano indicato il presidente Aldo Grassi come un fedelissimo di Corrado Carnevale detto «ammazzasentenze». «Nessun imputato deve avere più diritti degli altri ma nessun imputato deve avere meno diritti degli altri: e nel caso di Dell'Utri non è stato rispettato nemmeno il principio del ragionevole dubbio». Ha aggiunto Iacoviello nella sua requisitoria. E ancora a suo dire «l'accusa non viene descritta, il dolo non è provato, precedenti giurisprudenziali non ce ne sono e non viene mai citata la sentenza 'Mannino della Cassazione, che è un punto di riferimento imprescindibile in processi del genere». Per questo ha chiesto l'inammissibilità del ricorso della procura di Palermo che aveva chiesto addirittura un inasprimento della pena. «Il concorso esterno è ormai diventato un reato autonomo, un reato indefinito al quale, ormai, non ci crede più nessuno! - da detto inoltre Iacoviello rivolto ai giudici- Spetta a voi il compito di smentirmi».

Secondo Marco Ventura su “Panorama” In Italia non c’è Stato di diritto. Un Paese nel quale un cittadino accusato di un reato gravissimo come il concorso esterno in associazione mafiosa deve attendere 17 anni solo per sentirsi dire che il processo va rifatto, che bisogna ripartire da zero, è un Paese ingiusto, incivile, inaffidabile. Uno Stato incapace di garantire la giustizia in tempi ragionevoli appartiene alla fascia dei sistemi non democratici, quelli che finiscono a ragione nella lista nera della violazione dei diritti fondamentali. Nel girone del Terzo mondo. Un Paese che non sa dare garanzie alle vittime né agli imputati non può avere l’ambizione di figurare degnamente in Europa. Tempi della giustizia dilatati fino al paradosso attraversano la vita delle persone (siano vittime o presunti innocenti) devastandole e accompagnandole verso la depressione e la morte.

L’Italia è un Paese che non ha rispetto per se stesso: nega la giustizia alle vittime non riuscendo a riconoscere un colpevole e punirlo, ma anche agli imputati perché non garantisce in tutte le fasi il diritto alla difesa e il rispetto equilibrato delle regole. E non si dica che l’Italia è così garantista che alla fine la Cassazione ha tirato un colpo di spugna. Se ci sono voluti 17 anni per questo, la giustizia ha comunque fallito.

Oggi il presunto innocente si chiama Marcello Dell’Utri. Le indagini su di lui sono cominciate nel 1994. Nell’ottobre 1996 il rinvio a giudizio. L’11 dicembre 2004, sette anni dopo, la prima condanna. A 9 anni di carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici (per un parlamentare che ha dato un contributo fondamentale alla nascita del primo partito italiano). In appello la condanna viene confermata, ma gli anni di carcere ridotti a sette. E sette anni dopo la prima condanna, la quinta sezione penale della Corte di Cassazione annulla con rinvio la sentenza d’appello. Tutto da rifare.

Il Procuratore generale dell’Alta Corte, Francesco Iacoviello (l’accusa, non la difesa), ha sostenuto che “nessun imputato deve avere più diritti degli altri, ma nessun imputato deve avere meno diritti degli altri: e nel caso di Dell’Utri non è stato rispettato nemmeno il principio del ragionevole dubbio”. E ancora: “Non si fanno così i processi, si devono descrivere i fatti in concreto”.

Argomentazioni accolte dalla sezione della Cassazione presieduta da Aldo Grassi. La difesa di Dell’Utri aveva indicato da parte sua ben 20 motivi di nullità del verdetto d’appello. Ma lo scandalo vero sono i tempi, soprattutto se valutati in proporzione a quello che agli occhi di molti appare come un vero e proprio accanimento. Che non produce, alla fine, condanne. Ma la loro cancellazione. La stessa economia italiana soffre oggi non tanto degli effetti dell’articolo 18, ma di quelli di una giustizia negata e davvero troppo lenta. Gli investitori non torneranno in Italia, se non potranno contare su un sistema giudiziario che abbia regole certe e tempi ragionevoli.

Una giustizia rapida ed efficiente è notoriamente uno dei pilastri della competitività. La sentenza di Dell’Utri prova una volta di più che l’Italia non è civile, né competitiva. E che l’amministrazione fallimentare della giustizia, indipendentemente da una singola sentenza, a fronte dello strapotere di un nucleo di intoccabili protetti dalla loro casta/corporazione, è la tragica cartina di tornasole di un Paese incapace di crescere. In giustizia, democrazia e forza economica.

Il resoconto di “Libero quotidiano”. Una storia lunga e complicata, dal 1994 al 2012. Sedici anni di accuse, di condanne, per poi scoprire che è tutto da rifare. E' il calvario giudiziario di Marcello Dell'Utri, bibliofilo, grande organizzatore politico, senatore Pdl e braccio destro di Silvio Berlusconi, di cui ha condiviso avventure e disavventure. E parallelamente al quale è passato dalle forche caudine della magistratura italiana. Il procuratore generale Iacoviello lo ha definito un "perseguitato" perché la condanna in Appello a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa non era supportata da prove concrete. La Cassazione lo ha confermato: l'Appello deve ripartire da zero. A Dell'Utri non è mai mancata l'autoironia. Lui stesso spiegava di essere "un politico per legittima difesa". Palermitano, del '41, Dell’Utri dal '61 è a Milano e lì conosce Berlusconi, del quale diventa via via sempre più stretto collaboratore. La transazione sulla tenuta e la presenza di Vittorio Mangano legano a Dell'Utri l'ormai famosa casa di Arcore, quartier generale di Berlusconi, e la figura dello 'stalliere' considerato vicino alla mafia. La vicenda esploderà più avanti. Prima, nell'82, è presidente e ad di Publitalia, la concessionaria di pubblicità Fininvest, gruppo del quale diventa ad nell'84. Nel '93 l'ingresso in politica, con la discesa in campo di Berlusconi, ed è per unanime riconoscimento che la mente organizzativa dell’operazione Forza Italia sia proprio Dell’Utri. Escogita per primo l'uso dei manifesti 6x3 che faranno la fortuna delle campagne elettorali del Cavaliere. L'esordio quando ancora Forza Italia non esiste e Tangentopoli infuria. "Fozza Itaia", dicono una serie di bambini con le mani alzate in segno di vittoria. E' l'annuncio della discesa in campo e del successo del 27 marzo 1994. Berlusconi se lo porta in parlamento e lo elogia in pubblico. Vicende parallele, quelle di Dell'Utri e Berlusconi. E, caso della sorte, nel giro di poche settimane entrambi sono usciti dall'incubo delle toghe. Prima Berlusconi prosciolto per prescrizione dall'accusa di corruzione al processo milanese incentrato sulla figura dell'avvocato inglese David Mills. Ora, in Sicilia, Dell'Utri e il suo diritto riconosciuto ad un processo più equo, con prove provate. Vince il garantismo, perdono i pm contro Berlusconi e i suoi uomini, anche a costo di ignorare l'evidenza.

Marcello Dell’Utri non è un mafioso. Lo sfogo de "Il Giornale". La sentenza di condanna a 7 anni di galera è annullata. Via a un nuovo processo. Perché tutto è sbagliato, e dunque, tutto è da rifare. Di fronte agli obbrobri investigativi e alle carenze processuali la Quinta sezione penale della Cassazione dispone un altro processo per il senatore del Pdl. Poco dopo le 20 del 9 marzo 2012 i giudici con l’ermellino annullano con rinvio la sentenza di due anni prima accogliendo il ricorso della difesa sull’onda di una clamorosa requisitoria del procuratore generale che ha fatto letteralmente a pezzi anni di antimafia col paraocchi, senza prove, con meno diritti agli imputati e più credibilità per i pentiti. Ai giacobini in servizio permanente effettivo era già venuto un colpo ascoltando, nel pomeriggio, le parole di Francesco Iacoviello, che no, non è il presidente della Corte Aldo Grassi, additato carinamente nei giorni scorsi come l’amico dell’ex giudice «ammazza-sentenze» Corrado Carnevale con in più qualche vecchio problemino giudiziario (poi superato). Il pg Iacoviello aveva spiazzato i presenti chiedendo un nuovo processo d’appello o in subordine che se ne occupasse la Cassazione a Sezioni riunite. Nel sollecitarlo definiva inammissibile il ricorso della procura di Palermo (che chiedeva una pena maggiore rispetto ai 7 anni inflitti in appello) e a proposito della sentenza di condanna, oltre a gravissime lacune, evidenziava come apparisse poco motivata perché non precisava il «contributo specifico dato dal senatore al sistema mafioso». Per il procuratore Iacoviello, considerato una sorte di «faro giurisprudenziale» della Suprema Corte, il processo non solo non ha fornito uno straccio di prova sulla colpevolezza dell’imputato ma ha consacrato la violazione, palese, dei diritti di Dell’Utri: «Nessun imputato deve avere più diritti degli altri ma nessun imputato deve avere meno diritti degli altri: e nel caso di Dell’Utri non è stato rispettato nemmeno il principio del ragionevole dubbio». E questo è solo l’antipasto: «Al processo per concorso esterno - continua - l’accusa non viene descritta, il dolo non è provato, precedenti giurisprudenziali non ce ne sono e non viene mai citata la sentenza “Mannino” della Cassazione, che è un punto di riferimento imprescindibile in processi del genere» perché mette paletti certi alla contestazione del reato. Di più: «La sentenza impugnata - insiste il Pg - sostiene l’esistenza del reato di concorso esterno in associazione semplice fino al 1982, poi parla di concorso esterno in associazione mafiosa fino al ’92. Nessuno ha mai sostenuto una tesi del genere, e voi, giudici della Corte, sareste i primi». E poi giù mazzate sul concorso esterno mafioso «che è diventato un reato autonomo in cui nessuno crede. Io ne faccio una questione non a favore dell’imputato, ma a favore del diritto». Descrivere il senatore siciliano come il «referente o il terminale politico della mafia», non significa nulla per Iacoviello: «Non si fanno così i processi, si devono descrivere i fatti in concreto». Sempre lui critica l’appiattimento delle toghe sulle dichiarazioni dei pentiti non corroborate da riscontri, e già che c’è se la prende col collaboratore Di Carlo a proposito del fantasmagorico incontro fra il boss Bontade e Berlusconi. Chiede inoltre alla Corte di mettere per sempre la parola fine a indagini basate su «referenti» e «terminali». Se alla sentenza su Dell’Utri «togliamo tutte le frequentazioni e le conoscenze, non rimane niente, e la Cassazione, con la sentenza Mannino ha detto che queste cose sono irrilevanti (...) Vi invito a rileggere la sentenza Mannino nella quale le frequentazioni di persone mafiose o contigue ai clan sono molte di più di quelle che ricorrono nella vicenda di Dell’Utri, e vi esorto a ricordare che le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno fatto piazza pulita dell’importanza attribuita dai giudici di merito a questi elementi». Alla lettura della sentenza esulta la difesa con gli avvocati Krogh, Federico e Di Peri che sin lì aveva parlato di «sentenze acrobatiche» su fatti mai commessi. La prescrizione non scatterà prima del 30 giugno 2014 «ma non è tra i nostri obiettivi» assicura Di Peri. Dell’Utri vuole giustizia. L’ha avuta alla faccia dei professionisti dell’antimafia. Lassù, ne siamo certi, pure Sciascia è contento.

''La sentenza della Corte di Cassazione sul senatore Dell'Utri riveste una grandissima importanza per molteplici ragioni. In primo luogo essa ha evidentemente condiviso le osservazioni del sostituto procuratore generale Iacoviello a proposito di indagini superficiali nelle quali 'l'accusa non viene descritta, il dolo non e' provato'. In secondo luogo, essa ha contestato alla radice questo falso reato del concorso esterno in associazione mafiosa che ha dato una incredibile discrezionalità a magistrati giudicanti e a pubblici ministeri faziosi di fare il bello e cattivo tempo''. E' quanto afferma Fabrizio Cicchitto, presidente dei deputati del Pdl, che aggiunge: ''In terzo luogo, essa mette in evidenza che la Procura di Palermo è un serio problema perchè è il luogo giudiziario dove a occuparsi dei più delicati rapporti fra la mafia e la politica sono dei militanti politici che ostentano il loro impegno politico a tempo pieno. In quarto luogo però, come è stato già rilevato dal senatore Quagliariello, essa impedisce a magistrati e a giornalisti faziosi di riscrivere la storia di questo Paese a loro piacimento, magari utilizzando un falso pentito come Ciancimino jr''.

In questa diatriba non può mancare l’intervista rilasciata da Ingroia a “La Repubblica” che spiega a suo modo in che mani il povero cristo potrebbe andare a parare. "Ho la sensazione che l'ultima sentenza della Corte di Cassazione su Marcello Dell'Utri e il dibattito che strumentalmente ne sta scaturendo rientrino in quel processo di continua demolizione della cultura della giurisdizione e della prova che erano del pool di Falcone e Borsellino". Non usa mezzi termini Antonio Ingroia, il procuratore aggiunto di Palermo che fu tra i pubblici ministeri del primo processo al senatore Dell'Utri. Questo a Repubblica.it è il suo primo commento ufficiale sulla decisione della Cassazione che venerdì sera del 9 marzo 2012 ha annullato la condanna per il parlamentare Pdl e ha disposto un nuovo processo d'appello.

Il migliore avvocato del senatore Dell'Utri sembra essere stato il procuratore generale, che ha criticato il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Come commenta la ricostruzione di Iacoviello?

«A tutti quelli che cantano vittoria come se fosse stata dichiarata l'innocenza di Dell'Utri, dico: non è affatto così. I giudici hanno deciso infatti per un annullamento con rinvio della sentenza d'appello. Solo un annullamento senza rinvio sarebbe equivalso a un riconoscimento di non colpevolezza dell'imputato. Attendiamo comunque di leggere le motivazioni. Per quanto riguarda il procuratore generale, ho letto le sue conclusioni. Lui stesso dice che chiedere l'annullamento con rinvio non significa che l'imputato sia innocente. Significa solo che la motivazione della sentenza d'appello è viziata ed è illogica. E per la verità lo sosteneva anche il pubblico ministero, che aveva fatto ricorso. Le illogicità di quella motivazione riguardavano soprattutto l'assoluzione di Dell'Utri dopo il 1992».

Il procuratore generale ha espresso però pesanti perplessità sul reato di concorso esterno contestato a Dell'Utri.

«Curioso che l'abbia detto, ed è anche incoerente con le sue conclusioni. E' la stessa Cassazione a credere al concorso esterno, visto che più volte a sezioni unite, sia con la sentenza Carnevale che con la sentenza Mannino, ha ribadito la configurabilità di questo reato e ha fissato i presupposti per l'applicazione. Sarebbe triste che proprio nel ventennale della strage Falcone e Borsellino si debba mettere una pietra tombale su una delle più importanti e innovative idee giurisprudenziali che proprio Falcone e Borsellino hanno fondato».

Vogliamo spiegare in quali occasioni Falcone e Borsellino parlarono del concorso esterno?

«Nella sentenza ordinanza del maxiprocesso ter ci sono delle frasi chiarissime. Falcone e Borsellino scrivono che la figura del concorso esterno è la figura più idonea per colpire l'area grigia della cosiddetta contiguità mafiosa. Dunque, il concorso esterno non è un'invenzione della Procura di Palermo, è un insegnamento di Falcone e Borsellino su cui si è continuato a lavorare in questi vent'anni, producendo sentenze di condanna definitive, piccole e grandi. Ora, che si voglia con un colpo di spugna tornare indietro mi pare davvero enorme».

Si aspettava questa decisione della Cassazione?

«Non posso dirmi sorpreso, conoscendo la cultura della prova dimostrata dal presidente Grassi. E' una decisione coerente con la sua impostazione di sempre. C'è chi ha avuto come maestri Corrado Carnevale, chi invece Falcone e Borsellino. E mi sembra pure normale che all'interno della magistratura convivano culture della giurisdizione e della prova diverse. Insomma, c'è una dialettica in corso. Però, sono preoccupato».

Perché?

«La mia sensazione è che questa sentenza e poi il dibattito che strumentalmente ne è scaturito possano rientrare in quel processo di continua demolizione della cultura della giurisdizione e della prova che fu del pool di Falcone e Borsellino. E' triste che ciò avvenga nel ventennale della loro morte, e soprattutto in un periodo così delicato in cui si scoprono e si confermano delle coperture e dei depistaggi che a lungo hanno impedito l'accertamento della verità su quelle stragi vent'anni fa».

Si farà dunque un nuovo processo a Marcello Dell'Utri. Pensa che le accuse reggeranno ancora?

«Mi spiace che il procuratore generale abbia liquidato l'impianto probatorio nei confronti di Dell'Utri come un insieme di amicizie e frequentazioni, come se la contestazione principale a Dell'Utri fosse di essere stato amico di mafiosi. Basta conoscere il processo per trovare una miriade di fatti specifici e di contributi concreti che Dell'Utri ha portato negli anni al consolidamento e al potenziamento di Cosa nostra».

Il procuratore generale ha parlato anche di violazione dei diritti dell'imputato.

«Mi pare davvero paradossale che si voglia ergere Dell'Utri a vittima di violazioni di diritti o chissà che, quando tutti i diritti di garanzia dell'imputato Dell'Utri sono stati rispettati. Questo è stato un processo pieno di prove e fatti specifici. In assoluto, uno dei processi per concorso esterno con più prove rispetto a quelli che si sono fatti in questi ultimi vent'anni».

Secondo “Il Giornale” Iacoviello, la toga rossa, fa infuriare i forcaioli.

Il giudice indipendente ha ottenuto l’annullamento del processo al senatore Pdl. Da magistrato modello è diventato il nuovo nemico di sinistra e giustizialisti.

Libertà di pensiero, correttezza, preparazione: secondo i suoi colleghi sono queste qualità che fanno di Francesco Iacoviello un «grande» magistrato. Il sostituto procuratore generale della Cassazione che ha chiesto e ottenuto dai supremi giudici l’annullamento del processo Dell’Utri è una delle toghe più stimate. Per la sua indipendenza di giudizio, prima ancora che per i suoi studi e le sue battaglie in difesa dei diritti dell’uomo e delle regole del «giusto processo». Non può certo essere sospettato di favoritismi politici, perché viene da una militanza nelle fila del «Movimento per la giustizia» e quattro anni prima fu candidato senza successo da «Area», la lista che riunisce le due correnti di sinistra, al Consiglio direttivo della Cassazione (l’organismo di autogoverno dei magistrati della Suprema Corte). Oggi che è diventato scomodo per la sinistra, liquidando 15 anni di inchieste e di giudizi e ottenendo un nuovo processo d’Appello per Marcello dell’Utri, è diventato un bersaglio.

Il Fatto lo critica aspramente, definendolo «estroso» per le sue posizioni personali, il «Pg smonta-prove» che mina la lotta alla mafia. In tanti agitano contro di lui il fantasma di Giovanni Falcone, che ideò il concorso esterno in associazione mafiosa, definito da Iacoviello «un reato autonomo, indefinito, al quale non crede più nessuno». E Nando Dalla Chiesa parla di «una vendetta postuma» nei confronti del magistrato ucciso dalla mafia. Il leader di Magistratura Democratica, Piergiorgio Morosini, definisce «sorprendenti» le parole del Pg sul concorso esterno: «Ci credono tre sentenze delle Sezioni unite della Cassazione e molti procedimenti si basano su questo istituto».

Ma solo 15 giorni prima, al Csm, era tutto un peana su di lui. Dalla Terza Commissione è arrivata in plenum la proposta appoggiata da molti di sceglierlo come rappresentante della Procura generale della Cassazione nel «Comitato dei saggi» che deve valutare la professionalità, le capacità scientifiche e di interpretazione delle norme dei nuovi magistrati che vogliono accedere alla Suprema Corte. Togati delle diverse correnti, laici di centrodestra e centrosinistra, per una volta hanno concordato sulle qualità di equilibrio e preparazione di Iacoviello. «È senza alcuna ombra di dubbio - disse allora all’assemblea il procuratore generale Vitaliano Esposito - uno dei migliori magistrati che ho conosciuto nella mia lunga carriera». Una frase condivisa a larghissima maggioranza. La proposta è passata e il 15 marzo 2012 Iacoviello sarà a Palazzo de’ Marescialli per la prima riunione della Commissione tecnica (composta da 3 toghe, un avvocato e un docente universitario) che incontrerà la Terza Commissione del Csm per avviare i lavori. Meno di 60 anni, nato a Giugliano di Campania, per anni sostituto procuratore a Ravenna, moglie consigliere di Cassazione nel settore civile e due figlie, giovanile e sportivo, di Iacoviello raccontano che per rilassarsi e tenersi in forma ama fare footing appena può. Di processi delicati e controversi nella sua carriera ne ha seguiti molti. E ogni volta si è attirato lodi e critiche, ma sempre accompagnate dal riconoscimento della sua statura professionale. Iacoviello è quello che ha ottenuto l’annullamento delle condanne del giudice Renato Squillante nel processo Imi-Sir e del capo della polizia Gianni De Gennaro per la vicenda della scuola Diaz al G8 di Genova. È quello che ha voluto la conferma dell’assoluzione di Calogero Mannino e ha bocciato il ricorso dei magistrati di Milano contro il proscioglimento di Silvio Berlusconi per il Lodo Mondadori. Convinto della mancanza di prove sui rapporti tra Giulio Andreotti e la mafia, ha chiesto la conferma dell’assoluzione con prescrizione per i fatti ante 1980 e ha bollato come «indagine sociologica» la sentenza della Corte d’appello. Posizioni in cui si può seguire il filo logico di una coerenza non minata da pregiudizi ma fondata su solide convinzioni. Un filo che spiega la sua posizione anche nel caso Dell’Utri. Uomo di cultura dai molti interessi, Iacoviello è anche professore all’Università di Cassino, relatore di conferenze e convegni, autore di molte pubblicazioni scientifiche di alto livello e studioso soprattutto di procedura penale e delle regole del «giusto processo». La sua passione sono i diritti umani e l’approfondimento di tutti gli aspetti giuridici che li riguardano. Infatti, segue in modo particolare la Corte europea di Strasburgo e ha pubblicato degli studi sulla sua giurisprudenza. «Nessun imputato - ha detto nella sua requisitoria in Cassazione - deve avere più diritti degli altri ma nessun imputato deve avere meno diritti degli altri e nel caso di dell’Utri non è stato rispettato nemmeno il principio del ragionevole dubbio».

Già. Si spera che questo assioma valga per tutti, anche per i poveri cristi, che non si chiamino Dell'Utri. Questo valga per tutti, anche per coloro i quali non hanno le loro mogli colleghe in magistratura. 

Da Andreotti a Berlusconi i 101 politici nel tritacarne per il reato che non c’è. Ecco l’elenco stilato da Gian Marco Chiocci e Simone Di Meo su “Il Giornale”. Il «virus giudiziario» creato in laboratorio ne ha fatti di danni. Nell’ultimo quarto di secolo, il concorso esterno in associazione mafiosa, un reato che «non esiste» (Giuliano Pisapia, novembre 1996), è servito solo a stroncare carriere e isolare uomini politici (Emanuele Macaluso, giugno 2000). Percentualmente più nel centrodestra, ma anche a sinistra non mancano casi eclatanti. Quelli censiti sono 101, ma la lista è interminabile.Tra i big Giulio Andreotti, Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri, Calogero Mannino, Antonio Gava (pure risarcito per ingiusta detenzione), Carmelo Conte, Nicola Cosentino, Corrado Carnevale, Bruno Contrada, Mario Mori e decine e decine di altri sono passati per le forche caudine di una legge «bastarda» da cui sembra quasi impossibile sfuggire. E dentro ci sono caduti tutti: politici, giudici, magistrati, prefetti, sbirri. Qualche esempio: oltre al Cavaliere c’è la nota vicenda del Divo Giulio a cui è andata pure peggio: a processo addirittura per associazione mafiosa, dopo l’iniziale contestazione di concorrente esterno. Com’è finita, lo sanno tutti. Un altro dc: Calogero Mannino. Sbattuto in galera e, dopo un tira e molla tra appello e Cassazione, arriva la sentenza che lo scagiona. Un verdetto che fa scuola sul tema dei rapporti tra politica e mafia. Totò Cuffaro è invece in galera per favoreggiamento aggravato, dopo una condanna a sette anni, anche se l’iniziale accusa di concorso esterno è caduta. E don Antonio Gava? Dopo 12 anni di processi, i giudici ammettono: i pentiti Alfieri e Galasso hanno detto il falso. Idem per Carmelo Conte, ex potente ministro socialista delle Aree urbane. Il suo compagno di partito, Giuseppe Demitry, ex sottosegretario negli anni Ottanta e Novanta, s’è visto annullare senza rinvio la condanna dalla Cassazione solo nel 2003. Incappati incidentalmente nel concorso esterno anche l’ex senatore Pietro Fuda e Nino Strano. La lista delle assoluzioni e dei proscioglimenti è infinita: l’ex sottosegretario Santino Pagano, l’ex leader del Garofano Giacomo Mancini, l’ex presidente della Calabria Agazio Loiero, l’ex europarlamentare Francesco Musotto, Pino Giammarinaro, David Costa, Filiberto Scalone, Gaspare Giudice, l’ex sottosegretario alla Giustizia Salvatore Frasca, Sisinio Zito, Paolo Del Mese, l’ex sindaco di Pignataro Maggiore Giorgio Magliocca, il senatore Pdl Sergio De Gregorio, gli ex deputati regionali siciliani Nino Dina, Salvatore Cintola, Nino Amendolia, l’ex vicepresidente della Sicilia Bartolo Pellegrino. Peggio è andata al defunto ex senatore Francesco Patriarca (9 anni), a Gianfranco Occhipinti (4 anni), a Franz Gorgone (7 anni, è in carcere), a Giancarlo Cito (4 anni), a Roberto Conte (4 anni) e a Vincenzo Inzerillo (5 anni e 4 mesi) e tantissimi altri consiglieri comunali, provinciali, regionali. Posti in piedi nell’affollato limbo dove si aggirano quelli ancora indagati: si va dall’ex ministro Saverio Romano all’ex sottosegretario Nicola Cosentino, al governatore della Sicilia Raffaele Lombardo (con fratello), al senatore Antonio D’Alì (caso folle, più unico che raro: dopo ben due richieste di archiviazione i pm hanno cambiato idea, chiedendo il rinvio a giudizio!), all’avvocato Nino Mormino (storico difensore di Marcello Dell’Utri, già archiviato nel 1995), all’ex assessore comunale di Palermo Mimmo Miceli (che attende un nuovo processo d’Appello). Che dire, poi, del presidente del Senato Renato Schifani indagato secondo il settimanale l’Espresso ma non per la procura di Palermo che ha smentito l’iscrizione sul registro degli indagati. E, nel mare magnum del reato che non esiste, finirono nel 1994 pure Vittorio Sgarbi e Tiziana Maiolo – all’epoca deputati – prosciolti in un’inchiesta partita dalle sballate dichiarazioni del pentito ’ndranghetista Franco Pino. A finire nel tritacarne, molto spesso, sono state anche le toghe: di Corrado Carnevale si sa di tutto e di più. Il giudice ammazza-sentenze s’è ripreso la sua personale rivincita dopo un decennio di fango. Ma chi ricorda Ciro Demma, Giuseppe Prinzivalli, Pasquale Barreca, Carlo Aiello, Mario Pappa, Giacomo Foti, Antonio Pelaggi, Giovanni Lembo? Tutta gente indagata e, in alcuni casi, finanche arrestata per concorso esterno. Pure il pm di Brescia Fabio Salamone, l’anti-Di Pietro, si ritrovò tra le mani un avviso di garanzia per lo stesso genere di accuse. E che dire degli sbirri e dei carabinieri che, dopo aver lottato contro la Piovra, come ricompensa si sono ritrovati alla sbarra? La bastonata più dura è andata a un poliziotto esemplare come Bruno Contrada in tandem con quel galantuomo di vicequestore di Ignazio D’Antone. Condannato il primo sulla base delle parole (mai, dicasi mai, riscontrate) dei pentiti, detenuto a lungo il secondo a Santa Maria Capua Vetere. Ci sono poi Mario Mori e l’ex capo del Ros Antonio Subranni. Ai tempi fu processato e assolto il tenente Carmelo Canale, collaboratore di Borsellino, cognato del maresciallo Lombardo morto suicida per le vigliacche e false insinuazioni sul suo conto mentre stava per riportare in Italia il boss Badalamenti. Le eccellenze dell’Arma dei carabinieri sotto processo come i mafiosi cui davano la caccia. E tutto per un reato autonomo, a cui non crede più nessuno (pg Francesco Iacoviello, marzo 2011). Va detto che il concorso esterno è stato contestato anche a Massimo Ciancimino, figlio di Vito, l’ex sindaco mafioso di Palermo jr. Il che è tutto dire. Il Pm “partigiano” di Palermo, Antonio Ingroia a citato Falcone e Borsellino per esternare la sua disapprovazione alla sentenza “Dell’Utri”. Vediamo come stanno veramente le cose. Il reato di cui è accusato Dell’Utri è da anni al centro delle polemiche per colpa di pentiti strumentalizzati, testimonianze dubbie, prove ambigue. In realtà, il codice penale prevede soltanto il reato di «associazione mafiosa» all’articolo 416 bis, introdotto nel 1982. Ma dalla fine degli anni Ottanta «l’associazione esterna» è una consuetudine nei processi e una specie d’intoccabile reliquia, proprio perché è considerata un’invenzione di Falcone.

Effettivamente fu lui, nel rinvio a giudizio del maxiprocesso ter del 1987, a sottolineare la necessità di una figura giuridica capace di reprimere le condotte che definiva «fiancheggiamento, collusione, contiguità». È in base a questa logica che, dall’unione tra gli articoli 416 bis e 110 del codice penale (concorso nel reato), si è affermato il «concorso esterno in associazione mafiosa». Ma nel 1992, pochi mesi prima di morire, ecco che cosa sosteneva lo stesso Falcone: «Col nuovo codice di procedura penale (introdotto alla fine del 1989), non si potrà ancora a lungo continuare a punire il vecchio delitto di associazione (mafiosa) in quanto tale, ma bisognerà orientarsi verso la ricerca della prova dei reati specifici (cioè omicidi, riciclaggi, estorsioni). Con la nuova procedura, infatti, la prova deve essere formata nel corso del pubblico dibattimento. Il che rende estremamente difficile, in mancanza di concreti elementi di colpevolezza per i delitti specifici, la dimostrazione dell’appartenenza di un soggetto a un’organizzazione criminosa (…). C’è il rischio, con il nuovo rito, che non si riesca a provare nemmeno l’esistenza di Cosa nostra!». Ecco perché, da vivo, Falcone era osteggiato: più chiaro di così… Purtroppo, ha avuto ragione anche in una delle sue ultime frasi, amaramente profetica: «Per essere credibili, in questo Paese bisogna essere morti». Ancora meglio se falsificati.

CIANCIMINO: FIGLIO DEL MAFIOSO CHE NON SI FA I CAZZI SUOI.

Massimo Ciancimino nella Terra di Mezzo: “Io il problema, io il figlio del mafioso, io quello che non si fa i fatti suoi”. Massimo Ciancimino su "Articolo 3": «Un anno dopo si deve comprendere che io sono un problema, il problema per tutto questo processo: siedo nel banco degli imputati ma insieme ai miei difensori ci battiamo al fianco della procura contro i continui attacchi al processo, non ultima la richiesta avanzata dai difensori di spostare il processo in altra sede. Una vergogna, sia io che il Procuratore aggiunto dott. Teresi, secondo quanto dichiarato dai difensori degli ufficiali del Ros, saremmo stati querelati. Ci avevano già provato in fase di udienza preliminare, ci eravamo anche lì affiancati alla richiesta di rigetto da parte della procura. Abbiamo lottato affinché non venisse leso il sacro santo diritto della difesa di poter ascoltare intercettazioni depositate, intercettazioni tra un imputato ed il capo dello stato, abbiamo lottato fino in Cassazione per far riconoscere il nostro diritto sancito dalla legge, secondo cui le stesse vanno distrutte dopo un'udienza innanzi al gip e solo dopo che le parti le abbiano potute ascoltare. Scortare me, Massimo Ciancimino vuole dire legittimare il mio ruolo in un processo che di fatto non dovrebbe esserci, un processo che non dovrebbe neanche esistere, come non dovrei esistere neanche io, il figlio di un mafioso che non si fa i cazzi suoi pur avendo un lascito dal padre di milioni di euro tali da potersi levare dalle palle. Sia io che il processo che ho contribuito a portare in fase dibattimentale imbarazza tanta gente, nessuno avrà mai la forza morale di avallare un richiesta di protezione nei miei confronti. Hanno impiegato tanti mezzi e uomini per screditare quanto da me dichiarato ai pm palermitani, mi hanno ostacolato e combattuto su tutti i fronti. Ho spaccato cdm e procure ed anche altro che evito di scrivere….Io in questo processo sono il più esposto,  forse anche l'unico che si beccherà una condanna, non sto con gli altri miei coimputati, anzi sono la fonte delle loro accuse, non posso stare dalla parte della procura, dovrei quantomeno essere un pentito… Io mi trovo nella peggior situazione, sono nella " terra di mezzo ", un brutta condizione. Ma non mi importa, sapevo a cosa andavo incontro, sono in tanti ancora a provare imbarazzo nel poter pensare di sostenermi, molto più facile per loro sostenere uno Spatuzza, lui anche se ha ammazzato o sciolto bambini nell'acido oggi ha un ruolo, è un pentito sotto protezione, un ruolo che molte procure sostengono e si affannano a far evidenziare, spesso anche non solo per lodarne le doti di indiscutibile credibilità. Io non ho ammazzato nessuno, ho fatto piccoli errori dettati da inesperienza, ingenuità e buona fede, ma nessuno sconto anche da parte della stessa procura che sto aiutando, anzi, con me per non accreditare tesi di pseudo accordi avallate dai tanti miei detrattori bisogna essere più severi che con gli altri, aiuti che in ogni caso non mi spetterebbero e non ne voglio. Se ho sbagliato pagherò come sempre con il massimo della pena. È vero giro in bicicletta, ma lo faccio anche a testa alta.  Quanti sono i magistrati e potenti uomini delle istituzioni che vedendomi dai finestrini dalle loro scorte mi abbassano il loro sguardo, provano imbarazzo, io sono orgoglioso della mia scelta, sono fiero di non dover dire grazie a nessuno, la mia è una strada tutta in salita, continuerò a pedalare finché mi permetteranno di farlo. Non ho mai chiesto scorte, sinceramente non saprei cosa chiedere ad un ministro come Angelino Alfano, lo conosco personalmente, lo frequentavo quando ero semplicemente il figlio di un mafioso, allora sì che potevo chiedergli e fare favori, un ministro degli interni che per portavoce ha la figlia del mio coimputato Subranni. Ho una misura di prevenzione provvisoria, la legge dice che dovrebbe avere come durata massima trenta giorni, il tempo della pronuncia della sentenza da parte del Tribunale misure di prevenzione, sono passati due anni, non ho mai avuto un pronunzia in tal senso. Quando chiedo anche in questura come mai, mi rispondono che io sono un caso a parte, io non segue la normale procedura come per centinaia di mafiosi sottoposti a sorveglianza speciale. Uno di loro mi ha detto che ho subito più controlli notturni io di tutti i sorvegliati messi insieme. Come pensi che possa chiedere a questo Stato che vorrebbe soltanto che io non esistessi?» 

BORSELLINO, L'ULTIMA VERITÀ.

Borsellino, il figlio: «Dopo Capaci mio padre voleva parlare coi pm». E la figlia Lucia: «Vidi l’agenda rossa, mio padre la infilò nella borsa ma quando fu restituita alla famiglia non c’era più». Per questo si scontrò con La Barbera, scrive “Il Corriere della Sera”. «Dopo la strage di Capaci mio padre usava l’agenda rossa in modo compulsivo. Scriveva costantemente. E si trattava sicuramente di appunti di lavoro e dell’attività frenetica di quei giorni». Lo ha detto Manfredi Borsellino, figlio del magistrato ucciso dalla mafia nel ‘92, deponendo al quarto processo per l’eccidio costato la vita al padre e agli agenti di scorta. Il figlio del giudice si è detto certo che nell’agenda, scomparsa dopo la strage dalla borsa in cui il magistrato la custodiva, ci fossero cose importanti. «Mio padre - ha spiegato - dopo la morte di Falcone era consapevole che sarebbe toccato a lui e di essere costantemente in pericolo. Aveva l’esigenza di lasciare tracce scritte. Non poteva metterci in pericolo rivelandoci delle cose». Borsellino è convinto che se l’agenda rossa fosse stata trovata le indagini sulla morte del padre avrebbero avuto una piega diversa. «Nessuno ci chiese perché attribuivamo tanta importanza all'agenda rossa. E invece credo che investigativamente fosse importante fare accertamenti». «Quando l'allora capo della Mobile Arnaldo La Barbera ci ridiede la borsa - ha aggiunto - e vedemmo che l'agenda non c'era e chiedemmo conto della cosa, si irritò molto. Sembrava che gli interessasse solo sbrigarsi e che gli stessimo facendo perdere tempo. Praticamente disse a mia sorella Lucia che l'agenda non era mai esistita e che farneticava. Usò dei modi a dir poco discutibili». «Dopo Capaci mio padre aveva fretta di essere sentito dai colleghi di Caltanissetta che indagavano sull'eccidio e non si spiegava perché non lo convocassero. Tanto che in un'occasione pubblica fece un intervento con cui tentò, secondo me, di sollecitare una convocazione», ha detto ancora Manfredi Borsellino. Anche Lucia Borsellino figlia del magistrato assassinato dalla mafia, deponendo al quarto processo per la strage in corso a Caltanissetta, ha parlato dell’agenda. «Non so perché la usasse - ha aggiunto - o cosa ci fosse scritto perché non ero solita chiedergli del suo lavoro». «Qualche mese dopo la strage l’ex questore Arnaldo La Barbera ci restituì la borsa di mio padre. L’agenda rossa non c’era più. Io mi lamentai della scomparsa e chiesi che fine avesse fatto. La Barbera escluse che ci fosse stata e mi disse che deliravo». La teste ha ricordato il teso scambio di battute con La Barbera, che coordinò il pool che indagò sulle stragi Falcone e Borsellino. «Quando gli manifestai il mio fastidio - ha aggiunto - mi disse che avevo bisogno di aiuto psicologico». La figlia del magistrato ha raccontato di aver successivamente trovato a casa del padre un’altra agenda, di colore grigio, che consegnò all’allora pm di Caltanissetta Anna Palma. «Visto quanto accaduto nella storia di questo paese - ha aggiunto - chiesi che ne facessero delle fotocopie e che acquisissero quelle, ma che l’originale ci fosse restituito». «Mia madre è stata lucida fino alla fine», ha detto ancora Lucia Borsellino. La teste ha ricordato che l’ex capo del Ros, Antonio Subranni, dopo aver appreso delle dichiarazioni accusatorie fatte contro di lui dalla vedova Borsellino, aveva messo in dubbio le capacità mentali della donna da anni malata di leucemia. «Disse che aveva l’Alzheimer - ha aggiunto - ma non era vero». Agnese Borsellino, a distanza di 15 anni dall’assassinio del marito, raccontò ai pm di Caltanissetta che il marito le aveva confidato di rapporti tra Subranni e la mafia. «Credo - ha detto la testimone in qualche modo spiegando il perché della tardività delle dichiarazioni della madre - avesse paura di essere lasciata sola dalle istituzioni e che noi potessimo rimanere isolati. Ma col tempo si è sentita più libera e la sua sete di giustizia si è andata affermando sempre di più, anche perché le preoccupazioni nei nostri confronti si andavano attenuando».

Borsellino fu ucciso 24 ore prima di parlare dell'omicidio Falcone con la procura di Caltanissetta. Il giudice stava per rivelare al procuratore Tinebra le confidenze dell'amico fraterno ucciso dalla mafia. Oggi la deposizione al processo della figlia Lucia, che ha confermato l'esistenza dell'agenda rossa del padre mai ritrovata dopo l'attentato di via d'Amelio, scrive Francesco Viviano su “La Repubblica”. Paolo Borsellino è stato ucciso 24 ore prima che andasse a svelare alla Procura di Caltanissetta quel che sapeva sulle "confidenze" del suo amico Giovanni Falcone e quelli che potevano essere i moventi e l'ambito nel quale Falcone era stato assassinato il 23 maggio del 1992 assieme alla moglie Francesca Morvillo ed agli uomini della sua scorta. E' quanto emerge dall'ultimo processo in corso per la strage del 19 luglio del '92 dove furono uccisi Paolo Borsellino ed i cinque uomini della sua scorta e dove oggi ha deposto la figlia del magistrato, Lucia Borsellino, che ha confermato l'esistenza dell'"agenda rossa" del padre che non è stata mai ritrovata. Lo conferma l'altro figlio Manfredi al processo: "Il giudice Paolo Borsellino, dopo la morte di Giovanni Falcone, attendeva con ansia di essere interrogato dai magistrati della procura nissena, a tal punto che una volta disse pubblicamente: io qui non vi posso dire nulla, ciò che ho da dire lo dirò ai magistrati competenti". Cosa Nostra e forse non solo Cosa Nostra, aveva paura di quel che Paolo Borsellino sapeva sulla morte del suo amico Giovanni Falcone e che sarebbe andato a dire il 20 luglio del 1992 ai suoi colleghi di Caltanissetta, titolari dell'inchiesta sulla strage, con i quali aveva concordato un appuntamento per la sua testimonianza. Ma non ne ha avuto il tempo perché appunto, 24 ore prima, fu assassinato davanti l'abitazione della madre in via D'Amelio dove fu fatta esplodere una Fiat 126 imbottita di tritolo. Chi sapeva che Paolo Borsellino il giorno dopo sarebbe andato a raccontare la sua verità sulla morte del collega ed amico fraterno Giovanni Falcone? Una talpa che sapeva che quel 19 luglio Borsellino sarebbe andato a trovare la madre in via d'Amelio e che il giorno dopo sarebbe andato a testimoniare a Caltanissetta? Interrogativi che si aggiungono agli altri tanti interrogativi e depistaggi che ruotano attorno alla strage in cui fu ucciso Paolo Borsellino che la Procura di Caltanissetta cerca di risolvere ma con molte difficoltà. E che Borsellino avesse tante cose da dire sulla morte del suo amico Giovanni Falcone, lo aveva preannunciato il 19 giugno del 1992 quando nell'atrio della biblioteca comunale di Palermo partecipò ad un dibattito organizzato da Micromega. In quell'occasione Paolo Borsellino davanti al numeroso pubblico che affollava la biblioteca comunale aveva detto: "In questo momento, oltre che magistrato, io sono testimone. Sono testimone perché avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto come amico di Giovanni tante sue confidenze, prima di parlare in pubblico, anche delle opinioni e delle convinzioni che io mi sono fatto raccogliendo tali confidenze, questi elementi che io porto dentro di me, debbo per prima cosa assemblarli e riferirli all'autorità giudiziaria (la Procura di Caltanissetta ndr), che è l'unica in grado valutare quando queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell'evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone, e che soprattutto, nell'immediatezza di questa tragedia ha fatto pensare a me , e non soltanto a me, che era finita una parte della mia e della nostra vita". "Quindi io questa sera debbo astenermi rigidamente - e mi dispiace, se deluderò qualcuno di voi - dal riferire circostanze che probabilmente molti di voi si aspettano che io riferisca, a cominciare da quelle che in questi giorni sono arrivate sui giornali e che riguardano i cosiddetti diari di Giovanni Falcone. Per prima cosa ne parlerò all'autorità giudiziaria, poi - se è il caso - ne parlerò in pubblico. Posso dire soltanto, e qui mi fermo affrontando l'argomento, e per evitare che si possano anche su questo punto innestare speculazioni fuorvianti, che questi appunti che sono stati pubblicati dalla stampa, sul "Sole 24 Ore" dalla giornalista - in questo momento non mi ricordo come si chiama...  -  Liliana Milella, li avevo letti in vita di Giovanni Falcone. Sono proprio appunti di Giovanni Falcone, perché non vorrei che su questo un giorno potessero essere avanzati dei dubbi". E che Paolo Borsellino il giorno dopo la sua morte sarebbe andato a testimoniare sull'inchiesta per la strage Falcone lo ha confermato l'allora Procuratore aggiunto di Caltanissetta, Francesco Paolo Giordano, adesso Procuratore di Siracusa che lo ha dichiarato anche una udienza del processo. "Alcuni giorni prima della strage di via d'Amelio - ricorda Giordano - Paolo Borsellino era stato contattato dal nostro ufficio e dal Procuratore Giovanni Tinebra per essere sentito sull'inchiesta per la strage Falcone. Tinebra aveva parlato con Borsellino e questo risulta anche dai tabulati telefonici ed avevano concordato che sarebbe stato sentito lunedì 20 luglio o nei giorni successivi. Ma, purtroppo, non ce ne fu il tempo perché il giorno prima, il 19 luglio del 1992, Paolo Borsellino fu ucciso nell'esplosione dell'autobomba insieme agli uomini della sua scorta".

Una nuova verità sulle stragi di mafia del 1992 e sui depistaggi delle relative indagini spunta dagli atti della revisione del processo per Via D'Amelio. Il collaboratore di giustizia Vincenzo Scarantino parla delle minacce che lo convinsero ad autoaccusarsi dell'attentato. Gaspare Spatuzza, l'uomo che rubò la Fiat 126 servita per la strage, racconta come la portò fino al garage in cui fu imbottita di esplosivo, scrive Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo su "La Repubblica". Con le torture un balordo di quartiere si inventò killer di Borsellino. Paolo Borsellino, il magistrato ucciso dalla mafia in via D'Amelio a Palermo il 19 luglio 1992. "Io non sapevo neanche dov'era via D'Amelio. Ho parlato solo per paura: mi torturavano...". Vincenzo Scarantino e altri due falsi pentiti raccontano ai magistrati di Caltanissetta come Arnaldo La Barbera, superpoliziotto a capo del Gruppo Falcone Borsellino, deviò l'indagine costruendo una falsa verità. Quello che era considerato il testimone più importante della strage Borsellino comincia così il suo racconto: "Io non sapevo neanche dov'era via D'Amelio. Ho parlato solo per paura: mi torturavano, mi picchiavano, mi facevano morire di fame". Il balordo di borgata è diventato "superpentito" sotto sevizie di poliziotti e agenti penitenziari, depistando l'indagine su uno dei grandi misteri d'Italia. E' questa la verità di Vincenzo Scarantino, palermitano "malacarne" senza quarti di nobiltà mafiosa, una sconvolgente ricostruzione che affiora dagli atti della revisione del processo per l'attentato di via Mariano D'Amelio. Nella denuncia di Scarantino viene descritta una "Guantanamo prima di Guantanamo" qui in Italia, crudeltà e violenze per far confessare retroscena di massacri mai compiuti. Dopo tanti anni s'indaga ancora su quelle torture ma non c'è certezza sui personaggi implicati: da una parte le confessioni di un pentito costruito sicuramente "a tavolino" e dall'altra la difesa di poliziotti che negano tutto. E' in un drammatico interrogatorio del 28 settembre 2009 che Vincenzo Scarantino, per la prima volta, spiega con quali metodi è stato costretto ad autoaccusarsi della strage Borsellino: "Per non farmi mangiare, mi facevano trovare mosche nella pasta. Una volta a Pianosa sentì due guardie che parlavano... un tipo con i baffi, un brigadiere siciliano, diceva all'altro: "Piscia, piscia". Una volta quel brigadiere mi alzò pure le mani. Un'altra volta, dopo che andai dal dentista, mi fecero credere che avevo l'Aids, mentre si trattava di una semplice epatite". Poi entra in scena Arnaldo La Barbera, il poliziotto che con decreto della Presidenza del Consiglio è stato messo capo del "Gruppo Falcone Borsellino", la struttura investigativa che indagava sulle stragi siciliane del 1992. E' ancora Scarantino che parla: "E lui mi disse: "Tu devi confessare". Ma io gli ripetevo: "Non so niente". Lui insisteva: "Tu devi diventare come Buscetta, importante come Buscetta. E allora, poco a poco, io sono entrato nel personaggio, cominciavo ad accusare tutti. Avevo 27 anni, stavo male. La Barbera mi disse pure che lo Stato avrebbe acquistato alcuni magazzini, alcune case che avevo: "Ti diamo 200 milioni, esci dal carcere e non ci entri più"...". Il balordo di borgata ha cominciato a fare nomi: "Mi venivano suggeriti, non è che me li dicevano in modo esplicito. Si parlava e mi dicevano: "Ma questo c'era, ma quest'altro c'era pure?". Il dottore La Barbera mi faceva capire... E così m'inventai la storia di una riunione, volevano trovare i colpevoli attraverso me. E io gli ripetevo: ma cosa vi devo dire che non saccio niente". Iniziano gli interrogatori con i magistrati. E Scarantino viene "preparato" dai poliziotti: "Prima di ogni incontro vedevo La Barbera, quando poi arrivavano i magistrati non riuscivo mai a ritrattare". Iniziano le udienze del processo per la strage di via D'Amelio: "Prima un certo Michele leggeva i miei verbali, e io li mettevo in memoria... Una volta mi ricordo che avevo bevuto... una volta nell'aula bunker ho pianto di birra... Ma io ci stavo male, avevo i figli, avevo mia madre, ci stavo bene fuori, ma non vivevo, non ero in pace con me stesso. Io, scusando il termine, quando andavo in bagno piangevo e speravo sempre che potesse uscire un pentito che mi smentiva". Un giorno Scarantino vuole dire la verità. E' il 1995. Ma non ce la fa: "Arrivò il dottore Bo. Gli dissi: io voglio tornare in carcere. Il rimorso mi stava mangiando il cervello. Non riuscivo a stare tranquillo. Il dottore Bo mi disse: 'Va bene ti portiamo in carcere". Iniziò una discussione. Un poliziotto che era con lui mi acchiappa per il collo e mi punta la pistola addosso. Gli altri poliziotti che erano là gli dicevano: no, queste cose no davanti ai bambini". L'inchiesta dei procuratori di Caltanissetta che indagano sull'uccisione di Paolo Borsellino - il capo Sergio Lari, Domenico Gozzo, Amedeo Bertone, Nicolò Marino e Stefano Luciani - ha concentrato tutti i sospetti del depistaggio su Arnaldo La Barbera, deceduto nel 2002 per un tumore al cervello.  Ma insieme a lui sotto accusa per calunnia ci sono oggi anche tre funzionari, ragazzi al tempo, appena usciti dalla scuola di polizia: Mario Bo, Salvatore La Barbera, Vincenzo Ricciardi. Tutti esecutori di ordini, poliziotti che non potevano fare un solo passo senza l'autorizzazione del loro capo. Per i pubblici ministeri non è ancora chiaro il ruolo che avrebbero avuto i tre (loro smentiscono, naturalmente, ogni circostanza riferita da Scarantino) e fino ad ora le investigazioni "non hanno consentito di trovare sufficienti elementi di riscontro alle accuse formulate nei loro confronti dagli ex collaboratori". L'inchiesta però non è chiusa. Ad aprile i magistrati decideranno se archiviare o chiedere per i tre poliziotti il rinvio a giudizio. Il resto delle carte sulla strage di via D'Amelio un paio di mesi fa sono state trasmesse per la revisione del processo alla Corte di Appello di Catania e sette imputati, in carcere dal 1993 per le false accuse di Scarantino, sono stati scarcerati. Dentro l'indagine di Caltanissetta non c'è solo la testimonianza del balordo della Guadagna ma anche quelle di due suoi amici, Salvatore Candura e Francesco Andriotta, anche loro minacciati per fare confessare una strage della quale sapevano niente. E' lo stesso copione. Pressioni, minacce, sevizie. Ecco la confessione di Salvatore Candura, un altro dei testi chiave della strage Borsellino, quello che avrebbe rubato la Fiat 126 poi usata per fare saltare in aria il magistrato. Interrogatorio del 10 marzo 2009: "La Barbera mi diceva: tu devi sostenere sempre questa tesi, non ti creare problemi. Ti prometto che ti farò dare un aiuto dallo Stato, 200 milioni, ti faccio aprire un'attività, ti faccio sistemare per tutta la vita. Un giorno dovevo essere interrogato. E' venuto prima La Barbera e mi disse: "Scarantino dice che tu hai riportato l'auto alla Guadagna. Tu devi insistere che hai portato la macchina dove hai sempre detto. Tu devi dire sempre questa tesi". Ho passato anni d'inferno". E ancora: "Io quella 126 non l'ho mai rubata. Io sono stato suggerito di tutte queste cose. Il giorno che fui arrestato per violenza carnale, vengo portato in questura e interrogato dal dottore Arnaldo La Barbera che mi chiese: 'Tu ne sai parlare di macchine? Ne sai parlare di 126?".  Io sono un ladro di macchine, non sono un mafioso. I poliziotti mi rassicuravano: se il dottore La Barbera ti ha detto che devi stare tranquillo... noi ti imposteremo, ti faremo aprire un'attività, ma che cazzo vai cercando?". Poi c'è anche la confessione di Francesco Andriotta, un ergastolano che ha giurato nel 1993 di avere sentito - in cella - dalla voce di Scarantino che era stato lui a fare la strage. Interrogatorio del 17 luglio 2009: "C'erano delle volte che io volevo ritrattare. Ho preso anche delle botte dentro, in carcere... Io non sapevo nulla della strage di via d'Amelio, ma non sono io che ho costruito le cose. Il tutto è stato costruito dal dottore La Barbera e dal dottore Bo. Mi avevano promesso che mi avrebbero fatto togliere l'ergastolo. Me lo disse anche un giovane funzionario, che si chiamava pure La Barbera". E giura: "Scarantino non mi ha detto nulla su via D'Amelio, anzi parlando con me si è sempre protestato innocente. Mi disse che era sottoposto a violenze fisiche e psichiche per confessare di avere partecipato alla strage. Io prima inventai che il colore della 126 era celeste. Poi dissi che era bianco. Ma il colore mi fu suggerito. Loro scrivevano degli appunti, e poi io dovevo bruciare il biglietto". Francesco Andriotta racconta anche delle violenze degli agenti penitenziari: "Mi fecero una perquisizione, intorno alle tre e mezza del mattino. Mi hanno fatto uscire nudo all'aria. Qualcuno mi ha messo un cappio e diceva: tu devi collaborare. Ma io non ho niente da collaborare, dicevo. Sentivo anche le urla di Scarantino. Stavo male, perché lui mi ha sempre detto che non c'entrava niente con la strage". Alla fine, Andriotta dice ai procuratori di Caltanissetta: "Io ho paura, ho l'ergastolo, ma io voglio vivere, voglio pagare la mia pena. Però da vivo, non da morto".

Scarantino: "Mi promettevano soldi. Devi diventare come Buscetta". Vincenzo Scarantino, palermitano "malacarne" senza quarti di nobiltà mafiosa, restituisce una sconvolgente ricostruzione che affiora dagli atti sulla revisione del processo per l'attentato di via Mariano D'Amelio. Nelle carte l'interrogatorio del 28 settembre 2009, davanti al procuratore Sergio Lari, gli aggiunti Nico Gozzo e Amedeo Bertone, i sostituti Nicolò Marino e Stefano Luciani. Alle ore 19,40, in una stanza del centro Dia di Caltanissetta, dopo una giornata di contestazioni, il pentito crolla.

Andriotta: "Nudo alle tre del mattino all'aria aperta e con un cappio al collo". Anche Francesco Andriotta parla delle violenze subite nell'interrogatorio del 17 luglio 2009. "C'erano delle volte - dice - che io volevo ritrattare. Ho preso anche delle botte dentro, in carcere... Io non sapevo nulla della strage di via d'Amelio, ma non sono io che ho costruito le cose. Il tutto è stato costruito dal dottore La Barbera e dal dottore Bo. Mi avevano promesso che mi avrebbero fatto togliere l'ergastolo. Me lo disse anche un giovane funzionario, che si chiamava pure La Barbera". E giura: "Scarantino non mi ha detto nulla su via d'Amelio".

Candura: "Non sono un mafioso. La Barbera mi minacciava". Neanche due mesi dopo la strage di via d'Amelio fu arrestato per un furto di una 126 e per violenza carnale. Fu il primo a fare il nome di Scarantino: "Mi ha commissionato il furto dell'auto". E' stato anche il primo a ritrattare, il 10 marzo 2009, davanti ai magistrati di Caltanissetta. E racconta: "Mi diceva tu devi sostenere sempre questa tesi, non ti creare problemi. Ti prometto che ti farò dare un aiuto dallo Stato, 200 milioni, ti faccio aprire un'attività, ti faccio sistemare per tutta la vita".

Dopo venti anni senza risposta molti interrogativi: Fu solo mafia? Perchè venne dato credito al falso pentito Scarantino?, Scrive Giovanni Bianconi su "Il Corriere della Sera" il 6 luglio 2012. Il lavoro cominciato a Capaci, sulla strada che portava dall’aeroporto alla città, fu completato a Palermo, cinquantasette giorni dopo, in via Mariano d’Amelio. Dopo Giovanni Falcone toccò a Paolo Borsellino, anche stavolta con il carico aggiuntivo degli agenti di scorta, saltati in aria insieme all’obiettivo che avrebbero dovuto proteggere. Era scritto, e Borsellino lo sapeva bene. Per questo aveva fretta. Voleva arrivare a qualche risultato prima che gli assassini arrivassero a lui. Si capì allora, e c’è la conferma oggi, dopo le nuove indagini che hanno in parte riscritto la storia di quell’attentato. Una storia di mafia, ma non solo. Ormai sembra un modo di dire, una frase fatta, un luogo comune. Ma è così. Non è importante che siano o meno inquisiti o imputati estranei a Cosa nostra, per sostenere che con ogni probabilità qualche altro elemento entrò in gioco nella morte di Borsellino. Come presunti colpevoli siamo fermi a boss e picciotti, ricorda il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, titolare dell’ultima inchiesta, peraltro non ancora conclusa. Ha ragione, lui deve attenersi a ciò che risulta agli atti. Dentro quegli stessi atti, però, emergono frammenti di verità, schegge di avvenimenti che se pure non portano a individuare responsabilità penali fanno capire che intorno alla fine di Paolo Borsellino – prima, durante e dopo – c’è qualcosa che non riguarda solo Cosa nostra. Il procuratore aggiunto di Palermo dilaniato il 19 luglio 1992 dal tritolo mafioso doveva morire perché era l’unico che poteva prendere il posto di Falcone nella comprensione delle dinamiche interne alle cosche, e quindi nel contrasto ad esse. E forse era tra i pochi che avrebbero potuto avvicinarsi alla verità sulla strage di Capaci, al di là del movente della vendetta. Anche se formalmente non era suo compito, e di questo lui si rammaricava. Fu forse il cruccio più grande dei suoi ultimi due mesi di vita. Titolare delle indagini era una Procura diversa dalla sua, ma lui avrebbe voluto testimoniare di fronte ai colleghi di Caltanissetta, per rivelare qualcosa che sapeva e poteva essere utile per risalire agli assassini di Falcone, e magari a qualche diverso centro di potere che poteva aver avuto interesse alla sua eliminazione. Lo ripeteva in ogni occasione, anche in pubblico, parlando del suo amico Giovanni: c’erano delle cose su cui era costretto a tacere perché doveva riferirle all’autorità giudiziaria, nel segreto dell’inchiesta. Ma nell’arco di due mesi non ci fu alcuna autorità giudiziaria che trovò il tempo per raccoglierne la testimonianza. E’ uno dei misteri di quei cinquantasette giorni. Che può avere pure una spiegazione banale, ma mai sufficiente a giustificare l’assenza di quella deposizione tra le carte dell’inchiesta. Così come la scomparsa dell’agenda rossa sulla quale il giudice annotava le proprie considerazioni sul lavoro che andava svolgendo nella sua corsa contro il tempo, su quello che era venuto a sapere, sugli spunti d’indagine da coltivare. Un elemento prezioso per tentare di scoprire le responsabilità nascoste su Capaci e – dopo –su via D’Amelio. Che non è mai stata ritrovato. L’agenda rossa era nella borsa che il giudice portò con sé dalla casa del mare a quella della madre, prima dell’esplosione. E’ sparita, e le indagini non hanno chiaro perché, né per mano di chi. E’ un altero mistero che non ha a che fare con la mafia. Non c’è bisogno di individuare “mandanti esterni” o agenti segreti infedeli che abbiano partecipato all’attentato, per capire che non è solo una storia di mafia. Basta risalire a qualche omissione o pezzo mancante per poter sostenere che nell’intreccio c’è qualche altra cosa, oltre la mafia. Capita quasi sempre, nelle storie dove il potere s’intreccia col crimine. Colpevoli sono i criminali, ma sulla sponda del potere si scopre puntualmente che qualcosa non ha funzionato come avrebbe dovuto. Nella migliore delle ipotesi. Vale anche per la presunta trattativa avviata tra lo Stato e la mafia dopo Capaci (o forse addirittura prima, secondo l’ultima ipotesi della Procura di Palermo), di cui Borsellino era venuto a conoscenza. Almeno per un frammento, che magari era solo un’iniziativa investigativa un po’ audace: i colloqui tra i carabinieri e l’ex sindaco corleonese di Palermo Vito Ciancimino. Non glielo dissero i carabinieri, con i quali pure aveva contatti e stava programmando attività d’indagine: che ne avrà pensato il giudice? E chi era l’amico che l’aveva tradito, come hanno testimoniato sue suoi giovani “allievi” che l’incontrarono piangente e piegato da avvenimenti e preoccupazioni poche settimane prima che morisse? Perché, il giorno prima dell’attentato, disse alla moglie che ad ucciderlo non sarebbe stata soltanto la mafia? Sono tutte domande rimaste senza risposta, che suscitano inquietudini. In cui la mafia non c’entra. Così come non c’entra nelle indagini che dopo la strage di via D’Amelio imboccarono quasi subito una falsa pista, smascherata solo dopo sedici anni da un nuovo pentito. Perché si volle chiudere tutto così in fretta, con le false confessioni di qualche falso collaboratore di giustizia? Fu solo un errore investigativo e poi giudiziario – com’è costretto a ipotizzare il procuratore di Caltanissetta, in assenza di prova che dimostrino altro – o c’era qualche diverso motivo? Comunque sia andata, dietro la morte di Paolo Borsellino e quello che s’è mosso intorno a lui prima e dopo la bomba di vent’anni fa, non ci furono solo i padrini e i loro gregari. E anche quell’eccidio è diventato uno dei grandi misteri d’Italia che hanno deviato e inquinato il corso della storia. Rimando misteri, purtroppo.

Ecco gli stralci inediti dell'ultimo interrogatorio del pentito Spatuzza del 7 giugno scorso, scrivono Giovanni Bianconi ed Alfio Sciacca su "Il Corriere della Sera" del 15 luglio 2012. «Incontrai Giuseppe Graviano e ci felicitammo per l'attentato» ricorda il pentito Gaspare Spatuzza nel racconto dei giorni seguirono e di quelli che precedettero la strage di Via D'Amelio, quando le cosche tirarono le somme del lavoro fatto e pianificarono il futuro con nuove azioni da compiere sul continente. Una ricostruzione dettagliata fatta nel corso dell'incidente probatorio davanti ai giudici di Caltanissetta il 7 giugno scorso. Nei giorni precedenti a quel terribile 19 luglio il boss mafioso di Brancaccio Giuseppe Graviano gli aveva consigliato di allontanarsi con tutta la famiglia e lui s’era rifugiato in una villetta affittata nei pressi di Campofelice di Roccella. Per poi «scendere a Palermo» all'indomani della strage e felicitarsi con Graviano che gli preannunciò l'inizio della strategia stragista per mettere definitivamente in ginocchio lo Stato. «Giuseppe Graviano era felicissimo -racconta Spatuzza - mi comunica che abbiamo colpito e abbiamo fatto un buon lavoro, che siamo tutti soddisfatti, abbiamo dimostrato di colpire dove e quando vogliamo». E poi l'invito a cancellare alcune beghe all'interno delle cosche perchè c'era ancora molto da fare. «Con Graviano ci siamo lasciati in quella circostanza e poi dopo quest'anno sabatico abbiamo iniziato, sempre nel marzo/aprile, la questione stragista che riguarda le stragi del Continente». Ma ecco i passaggi salienti del verbale d'interrogatorio al quale partecipano i Pm di Caltanissetta Domenico Gozzo, Nicolò Marino, Gabriele Paci e Stefano Luciani. IL RACCONTO DI SPATUZZA

P.M. DR. LUCIANI - Senta, se non ho capito male Lei dice che Giuseppe Graviano le dice di allontanarsi. Ho capito male?

INDAGATO SPATUZZA - Si, mi dice di stare il più lontano possibile da Palermo, parlando, cioè, in riferimento alla domenica.

P.M. DR. LUCIANI - E Lei cosa fa poi?

INDAGATO SPATUZZA - Io in quel periodo aveva in affitto un villino nei pressi di Campofelice di Roccella, nei pressi di Buonfornello, per intenderci, dove ho organizzato una specie di festicciola per cercare di fare allontanare quelle pochissime persone, pochissime, quelle persone che rappresentavano la mia famiglia. Quindi abbiamo trascorso la domenica a Campofelice di Roccella, in questo villino assieme alla mia famiglia e ai più intimi. 

P.M. DR. LUCIANIE - Chi c'era non sé lo ricorda, diciamo, in questa...

INDAGATO SPATUZZA - Mio fratello Francesco, mia sorella Felice mi sembra e mio fratello Domenico, non ho un ricordo particolare, però un bel po' della mia famiglia.

IN ATTESA DELL'ATTENTATO

P.M. DR. LUCIANI - E Lei ha appreso della strage quella domenica?

INDAGATO SPATUZZA - Sì, sul tardi pomeriggio, perché sapevo che doveva succedere qualche cosa, quindi ero un po' no in attesa, ma ... quindi quando ho appreso la notizia in televisione dissi: "Ce l'abbiamo fatta".

P.M. DR. LUCIANI - Lei prima di quel momento, quindi prima del momento in cui apprende dai, immagino, mass-media o dagli organi d'informazione, che era successo l'attentato a via D' Amelio e che quindi era morto il dottor Borsellino e i suoi agenti di scorta, aveva avuto contezza di quale fosse l'obiettivo da colpire?

NDAGATO SPATUZZA - No, no.

P.M. DR. LUCIANI - Come mai?

INDAGATO SPATUZZA - Perché c'e quel particolare nella fase della macinatura, in cui si facevano dei riferimenti in quel posto di mare che io supponevo, però non avevo né la percezione, anche perché... 

P.M. DR. LUCIANI - No, la domanda è: come mai Lei non era stato informato dell'obiettivo da colpire?

INDAGATO SPATUZZA - Questo per far capire la tecnica che si era messa in campo pur di, cioè, creare questi comparti stagni o per cercare di ad esempio anche tra di noi, fra Tutino, fra Cannella, fra... cioè c'erano... si parlava di quello che si doveva fare non più di quello che si e fatto, quindi cercare sempre di stringere il più possibile. 

LUNEDI' SONO SCESO A PALERMO

P.M. DR. LUCIANI - Senta, i giorni seguenti Lei riesce ricordare? Quindi, sabato, domenica 19 luglio succede l'attentato, Lei è a Campofelice di Roccella, i giorni seguenti Lei riesce a ricordare cosa fece?

INDAGATO SPATUZZA - Si, il lunedì io sono sceso a Palermo. P.M. DR. LUCIANI - E come mai? 

INDAGATO SPATUZZA - Quindi, perché io mica ero in vacanza li, andavo a lavorare in parte onestamente, in parte malavitosamente, quindi sono sceso io il lunedì mattino a Palermo, quel periodo avevo in consegna una motocicletta che mi era stata consegnata da Trombetta Agostino. Quindi sono sceso a Palermo, ho ..........

INDAGATO SPATUZZA - Quindi sono sceso a Palermo e ho acquistato il giornale nell'immediatezza, quindi ho dato una sfogliatina nel giornale e ho fatto rientro a Brancaccio. Facendo rientro a Brancaccio mi viene comunicato da un soggetto sicuramente riconducibile alla famiglia di Brancaccio, di recarmi da una persona vicinissima alla famiglia di Brancaccio, da Giuseppe Farana, cioe detto da noi "U zu Pin zu Farana", questa persona abita nei pressi di via Lincoln. Quindi mi sono recato nella casa di Farana, però io come ingresso, siccome l'entrata di questo stabile e in un, come possiamo dire, in un portico che collega due vie, c'è lo stabile e c'è questo portico, quindi non potendo entrare con la motocicletta dalla via Lincoln, ho avuto accesso dallo Spasimo mi sembra che sia il dietro. Quindi sono andato in fondo, ho posteggiato la motocicletta, ho lasciato il casco poggiato sul seggiolino e sono andato, sono entrato in questo portico e sono arrivato nell'androne di questo stabile.... ....non ricordo adesso che piano siamo saliti, secondo o terzo piano che sia. Quindi da quest'ingresso siamo passati in una stanza più grande, credo che sia un salone, che volgevano le finestre sul lato di fronte dell'ingresso. Sul lato sinistro c'era una poltrona in due, più una poltrona più piccolina e in questa stanza ho trovato Giuseppe Graviano. Il Farana si allontana, per quello che ho potuto capire, all'infuori di me, Graviano e il Farana in quell'abitazione non ci fosse nessuno.....»

GRAVIANO ERA FELICISSIMO

«....Quindi il Farana si allontana, chiude la porta e rimaniamo da soli, io e Giuseppe Graviano. Quindi Giuseppe Graviano era felicissimo, mi comunica che abbiamo colpito e abbiamo fatto un buon lavoro, che siamo tutti soddisfatti, abbiamo dimostrato di colpire dove e quando vogliamo, quindi ci siamo felicitati, vigliaccamente, lo voglio dire, perché ne ho gioito perché per quello che io rappresentavo e per quello di cui appartenevo, per me era una notizia, un evento lieto, cosa di cui se ne devono vergognare tutti. Quindi dopo di queste felicitazioni Giuseppe Graviano mi dice, siccome tra di noi, tra tutto questo gruppo, anche all'interno delle famiglie c'erano dei discorsi un po' per invidia, un po' per primeggiare, ma cose stupide e banali, però c'erano sempre discorsi, più pettegolezzi che cose serie. Quindi Giuseppe Graviano: "Cerchiamo di levare da mezzo ogni malinteso con chiunque sia, di andare d'accordo, perché dobbiamo portare avanti altre situazioni come questa". Quindi ci siamo lasciati in quella circostanza e poi dopo quest'anno sabatico abbiamo iniziato, sempre nel marzo/aprile, la questione stragista che riguarda le stragi del Continente». 

Quanti morti occorreranno per rendersi conto che siamo in guerra? Chi mandare allo sbaraglio? Che fare? Si chiede Enzo Biagi su "Il Corriere della Sera". Hanno il vero potere, e lo dimostrano. Colpiscono quando e come vogliono. Nel loro territorio, la Sicilia, che intendono proteggere dalle intrusioni di un'altra forza, assai più debole, ma che li disturba. Lo Stato. Non si salva chi viaggia nell' automobile blindata, ma credo che non basterebbe neppure, per proteggersi, l'elicottero: hanno i timer e l'esplosivo, possono trovare i razzi. Abbattono chi non rispetta i patti: perchè, coi politici, stipulano accordi, e si vedono voti che passano, con una ventata, da una lista all' altra. Avvertono anche e ripetono: «Chi tondo è nato non morirà quadrato». E chi ha intenzione di combatterli sul serio, si chiami Giovanni Falcone o Paolo Borsellino, sa che la sentenza prima o poi verrà eseguita. Non c'è nomina, non c'è bunker, non c'è scorta che possa difenderti: rischiano l'impossibile, con una pazienza che non ha limiti, ma debbono mantenere viva la leggenda della loro invincibilità. Fanno, in parole volgari, quello che gli pare, e mi meraviglia la sorpresa, quando l'avvocato di Salvatore Riina, detto Totò , con aria di sfida, fa sapere che il suo cliente, latitante dal 1967, o dal 1968, sta a Palermo. E considerato il discepolo prediletto di Luciano Liggio, e gli attribuiscono «un'intelligenza diabolica». Buscetta me lo ha detto, e l'ho scritto, sei anni fa: pare che faccia vita quasi normale, partecipa ai vertici, stabilisce alleanze, è impietoso, astuto, pronto a capovolgere rapporti e a decretare sentenze di morte. Questi non sono quelli che Sciascia chiamava "quaquaraquà", tipi senza spina dorsale: pensano, decidono, agiscono. Fanno parte di un'organizzazione "seria": che ha delle regole, e le fa rispettare. Non grida, agisce. Non organizza cerimonie, ma assassinii. Entrare nel giro è come entrare in seminario: e si resta preti e mafiosi per sempre. Non si diventa "uomo d' onore" se, tra i precedenti, c'è un padre carabiniere o uno zio giudice, se non si sa tenere la bocca chiusa, se non si rispettano le donne degli altri, se si ruba, se non si dimostra, agli occhi del mondo, la buona condotta, se non si e' capaci di affrontare il rischio dell'isolamento; c'è un detto che insegna: «Chi gioca da solo non perde mai». E un modo di vivere, e se non è irriverente direi: è come un sacerdozio. Non bisogna mitizzarli, sicuro: ma che fare? Il consueto cerimoniale, i soliti proclami? E poi? La rassegnazione, o qualche nuovo progetto? Li considereremo, finalmente, dei veri nemici? Chi manderemo allo sbaraglio? Bastano sei uomini per Borsellino, basta una vettura staffetta per Falcone, basta sdegnarsi con uno sciopero? Un' ora, per Giovanni Falcone, un giorno, per Paolo Borsellino? E al balcone, che cosa sventoleremo? Che cosa occorre per ottenere, secondo la collaudata formula, «una presa di coscienza collettiva»? Quanti defunti occorrono per rendersi conto che siamo in guerra e che, come dice il Presidente della Repubblica: «E l'ora della responsabilità»? Falcone, Borsellino, Ayala, mentre conducevano le loro inchieste nel rifugio blindato del Palazzo di Giustizia di Palermo, scherzavano con una lugubre fantasia: che necrologi compariranno, dopo il "fatto", per noi, sul Giornale di Sicilia? C'è da sorridere tristemente quando nei Telegiornali si sente parlare di «un attacco senza precedenti»: Dio mio, Dalla Chiesa, Chinnici, Scopelliti, pietà per le vostre e per le nostre anime. E quando si sente chiedere a Oscar Luigi Scalfaro che cosa ha provato alla notizia della strage: non era, anche questa, una morte annunciata, non solo da un pentito, ma da un tribunale che non assolve, e ignora la pietà? Cosa Nostra taglia il braccio del figlio di Totuccio Inzerillo con un colpo d' accetta, così non prenderà più la mira e non vendicherà nessuno, a un altro tagliano la testa e gli riempiono la bocca di monetine per dire: era una persona da pochi soldi. Uccidono travestiti da infermieri o da poliziotti: anche le donne e i bambini. Figuriamoci i giudici. Quelle toghe, oltretutto, sono dei simboli. E, ormai, soprattutto dei bersagli. Cosa Nostra è il dramma che ci perseguita, e non riusciamo a cambiare il finale. Non è facile capire, non è facile operare. «Mi ci romperò la testa», dice il capitano dei carabinieri Bellodi, il personaggio inventato da Sciascia nel "Giorno della civetta".

MAFIA E STATO: DAGLI AMICI MI GUARDI IDDIO, CHE DAI NEMICI MI GUARDO IO. BORSELLINO. UN'ALTRA VERITA'. ANCHE QUESTA DI PARTE O DI FACCIATA?

Il giudice Paolo Borsellino sapeva dell'esistenza di una trattativa tra lo Stato e la mafia. Ne sono convinti i magistrati di Caltanissetta e traspare dalle carte della nuova inchiesta sulla strage di via D'Amelio che ha portato all'arresto di quattro persone, tra cui il presunto mandante Salvuccio Madonia. Dalle indagini emerge "che della trattativa era stato informato anche il dottor Borsellino il 28 giugno del 1992. Quest'ultimo elemento aggiunge un ulteriore tassello all'ipotesi dell'esistenza di un collegamento tra la conoscenza della trattativa da parte di Borsellino, la sua percezione quale 'ostacolo' da parte di Riina e la conseguente accelerazione della esecuzione della strage". Così scrivono i pm nisseni facendo riferimento alla testimonianza di Liliana Ferraro, l'ex direttore generale del Ministero della giustizia. Secondo i magistrati nisseni il boss mafioso voleva "rivitalizzare" quella trattativa, che "sembrava essere arrivata su un binario morto", con una sanguinaria esibizione di potenza come fu in effetti l'omicidio di Borsellino e di 5 uomini della sua scorta, il 19 luglio 1992. "La tempistica della strage - scrivono i pm - è stata certamente influenzata dall'esistenza e dalla evoluzione della così detta trattativa tra uomini delle Istituzioni e Cosa Nostra". «Non bisogna mai abbandonare il percorso verso la verità, anche se è  passato tanto tempo e ci sono verità processuali definitive». Lo ha detto il Procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso l’8 marzo 2012 durante la conferenza stampa a Caltanissetta per gli arresti per la strage di via D'Amelio. «Auspico che continui questa strada verso la verità e la giustizia. Non si abbandonerà mai questa idea di giustizia - dice - bisogna sempre cercare elementi per raggiungere la verità». Il procuratore nazionale Antimafia, Piero Grasso, ha detto che Paolo Borsellino «era stato messo a conoscenza dei contatti con Vito Ciancimino da parte delle istituzioni. E' un dato accertato - ha spiegato - come è accertato il fatto che l'8 giugno del 1992 c'era già un decreto legge che istituiva misure altamente repressive nei confronti della mafia con il regime del 41 bis nelle carceri. Non ci fermeremo davanti a verità precostituite. La strategia della tensione non ha mai abbandonato l'Italia. Spesso in momenti di particolare destabilizzazione e confusione del quadro politico dopo Tangentopoli - dice Grasso - c'era il pericolo di una deriva che portasse a mutamenti politici magari non graditi. È un giorno particolare per me, sia dal punto di vista personale che professionale, perché ho avuto il privilegio di raccogliere le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza che hanno cambiato la prospettiva delle indagini sulla strage di via D'Amelio» ha aggiunto il procuratore nel corso della conferenza stampa a Caltanissetta sulle ordinanze di custodia cautelare per l'eccidio eseguite nell'ambito della nuova inchiesta scaturita appunto dalle rivelazioni del pentito. Grasso, riferendosi alle dichiarazioni di Spatuzza sulla scorta di quanto apprese dal boss Graviano, ha parlato di "un palinsesto di azioni già tracciate: un percorso che partì dall'omicidio Lima fino alla fallita strage dello stadio Olimpico di Roma del '94". Il procuratore antimafia ha indicato anche tre moventi della strage: la ventilata nomina di Borsellino alla guida della Dna; le azioni repressive che il ministero della Giustizia avrebbe adottato contro la mafia "e in questo contesto Borsellino avrebbe agito nel pieno delle sue funzioni con atti concreti"; infine l'ultima causale "di tipo eversivo-terroristico che la mafia voleva attuare - ha spiegato Grasso - per evitare mutamenti politici non graditi". Una strategia che la criminalità organizzata avrebbe proseguito per accelerare le trattative, tanto che – continua Grasso – nell’autunno 1992 sarebbe stato progettato un ulteriore attentato e questa volta l’obiettivo sarebbe stato lui stesso, l’attuale procuratore nazionale antimafia. Progetto saltato, ha detto Grasso, quando Totò Riina e i suoi collaboratori sono stati arrestati. «Non bisogna mai abbandonare il percorso verso la verità, anche se è passato tanto tempo e ci sono verità processuali definitive, neanche se confermate da sentenze di Cassazione - ha concluso Grasso. - Auspico che continui questa strada verso la verità e la giustizia. Non si abbandonerà mai questa idea di giustizia – dice – bisogna sempre cercare elementi per raggiungere la verità. Tuttavia l’indagine su uno degli episodi chiave di quel periodo (il fallito attentato dell’Addaura) è a rischio prescrizione, mentre - ha detto Grasso - non ci può essere la prescrizione su fatti del genere, in uno Stato civile e democratico». «Una cosa accertata è senz'altro che Borsellino era stato messo a conoscenza dei contatti con Vito Ciancimino da parte delle istituzioni. Altro dato accertato è che l'8 giugno dell'82 c'era già un decreto legge che istituiva misure altamente repressive nei confronti della mafia», ha detto ancora Grasso ai microfoni di Sky Tg24, in riferimento alla cosiddetta trattativa Stato-mafia.

Secondo la ricostruzione di Lirio Abate, fatta su “L’Espresso”, alla fine del 1991 Cosa nostra aveva dichiarato guerra allo Stato e aveva cominciato a eliminare i politici che non assecondavano più le loro richieste, uccidendo gli uomini delle istituzioni (Giovanni Falcone e Paolo Borsellino) che erano di ostacolo all'avanzata dei mafiosi e avviando la ricerca di nuovi referenti politici. Totò Riina e il suo gruppo di eversivi stragisti che vanno dal cognato Leoluca Bagarella a Giovanni Brusca, passando per i sanguinari Filippo e Giuseppe Graviano fino ad arrivare a Nino Madonia e a Matteo Messina Denaro, volevano farsi largo per ottenere benefici in favore dei mafiosi facendo in modo che Cosa nostra si sostituisse, nel meridione, allo Stato. L'uccisione di Paolo Borsellino e degli agenti della Polizia di Stato, addetti alla sua scorta, Emanuela Loi, Agostino Catalano,Vincenzo Li Muli,Walter Cusina e Claudio Traina, è inserita in questa guerra fra mafia e Stato. La uccisione di Borsellino tra la guerra tra mafia e Stato la inseriscono  i magistrati della procura di Caltanissetta che hanno rivisto l'inchiesta sulla strage di via d'Amelio, chiedendo ed ottenendo quattro ordini di custodia cautelare per personaggi legati alle cosche che mai fino adesso erano stati coinvolti nelle precedenti inchieste giudiziarie. E dopo quattro anni di indagini condotte dalla Dia di Caltanissetta si scoprono nuovi retroscena nella morte di Borsellino. Ma soprattutto per la prima volta un giudice riconosce l'aggravante del fine terroristico contestato agli indagati. Le indagini svelano le forme di pressione sullo Stato per ottenere vantaggi. Pressioni consistite in alcuni omicidi, a cominciare da quello dell'eurodeputato Salvo Lima, che si inserisce in una catena di sangue che si conclude nel 1993 con le bombe di Roma, Milano e Firenze. Il fine terroristico è legato alla trattativa avviata già nel 1991 tra mafia e Stato, di cui Borsellino poteva essere considerato un ostacolo. L'indagine coordinata dal procuratore Sergio Lari, dagli aggiunti Bertone e Gozzo e dai pm della Dda Marino, Paci e Luciani, parte nel 2008 grazie alle rivelazioni del mafioso Gaspare Spatuzza, arricchite da quelle di Salvatore Tranchina, entrambi fedelissimi dei fratelli Graviano. E si scopre che nelle passate inchieste c'è stato qualche depistaggio, a cominciare dal tassello principale: il furto della Fiat 126, caricata di tritolo e fatta esplodere in via d'Amelio. Di questo furto si sono subito accusati due falsi pentiti, Salvatore Candura e Vincenzo Scarantino. Del primo nessun mafioso fino al 1992 aveva mai sentito parlare perché era un piccolo pregiudicato che girava filmini porno e faceva uso di sostanze stupefacenti. Candura si inventa di essere protagonista del furto, e le sue affermazioni spostano le indagini su altri obiettivi rispetto a quelli che erano coinvolti. A distanza di 18 anni, grazie alle rivelazioni di Spatuzza si è saputo che quelle affermazioni erano fasulle. Candurra aveva mentito. Spatuzza, infatti, confessa il furto dell'auto e le sue affermazioni vengono riscontrate in tutti i punti. Ma sulle dichiarazioni di Candura e Scarantino si sono basate tre sentenze ormai definitive che hanno condannato all'ergastolo innocenti. Processi da rifare. Per questo motivo il procuratore generale Roberto Scarpinato ha chiesto la revisione dei processi. Depistaggio? A questo interrogativo non è stato ancora data risposta. Le sentenze dei precedenti processi hanno mostrato un mosaico descrittivo di quel tragico avvenimento che presentava diverse tessere mancanti. Mancavano, infatti, risposte ad alcuni interrogativi irrisolti oggetto di investigazioni rimaste senza esito: dalla sospettata responsabilità di soggetti esterni a Cosa nostra, alle ragioni per cui venne fatta sparire l'agenda rossa di Paolo Borsellino ed ancora ai motivi per cui venne attuata la strage a 57 giorni di distanza da quella di Falcone e dunque con una evidente - ed apparentemente anomala - accelerazione del programma stragista. E poi i vuoti d'indagine inerenti la identificazione di tutti coloro che parteciparono alla materiale esecuzione della strage: chi aveva posteggiata l'autovettura Fiat 126 imbottita d'esplosivo davanti la porta d'ingresso dell'edificio di via D'Amelio dove abitavano Rita Borsellino ed i suoi familiari? Chi e da dove aveva azionato il telecomando? Chi aveva risposto alla telefonata di Giovanbattista Ferrante che il pomeriggio del 19 luglio annunciava l'arrivo di Paolo Borsellino in Via D'Amelio? Ad alcuni di questi quesiti adesso i pm hanno dato una risposta. La necessità di dare una risposta a queste domande è stata sempre avvertita dalla procura di Caltanissetta che, su alcuni di questi temi, ha continuato ad indagare anche dopo la definizione dei processi precedenti, senza però approdare a significativi risultati anche per la mancanza di nuove fonti di prova in grado di consentire una svolta nell'approfondimento degli interrogativi rimasti irrisolti. Le nuove indagini che adesso hanno portato il gip ad emettere quattro ordini di custodia cautelare, non sono state avviate per ricomporre un mosaico investigativo alla ricerca dei pezzi mancanti, ma per dare una risposta a interrogativi di portata ben più dirompente nati, del tutto inaspettatamente, dalle dichiarazioni rese a cominciare dal 26 giugno 2008 dal collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, che ha fornito una versione totalmente diversa di un importante segmento esecutivo della strage di Via D'Amelio del tutto incompatibile con le precedenti versioni processuali. A seguito di ciò, è apparso fin dal primo momento evidente che, se quanto affermato da Spatuzza fosse stato vero, non sarebbe bastato trovare le tessere mancanti di un mosaico, ma sarebbe stato necessario uno sforzo investigativo di ben maggiore portata consistente anche nella individuazione dei pezzi falsi che qualcuno vi aveva quasi certamente inserito. La ricostruzione, secondo i pm, "di quella vicenda si presentava, fin dal primo momento, di una complessità inaudita, poiché avrebbe richiesto la rivisitazione di tredici anni di indagini e processi, la ricerca di nuovi elementi di prova, l'individuazione di possibili interessi oscuri e di nuove responsabilità, ma anche di probabili vittime di errori giudiziari". A ben vedere, si prospettava la necessità di avviare una ricostruzione investigativa che, in considerazione della gravità dei fatti di reato da accertare e delle aspettative dei familiari delle vittime (oltre che dell'opinione pubblica da sempre sensibile all'accertamento della verità sulle stragi) occorreva svolgere con la massima celerità e determinazione. Tuttavia i pm hanno avuto la consapevolezza che, a distanza di tanto tempo, la ricerca della verità sarebbe stata molto più difficile e complessa. Adesso l'inchiesta ha portato ad accertare, quindi, una sola fetta di zona ancora poco chiara. Tutta quella parte che riguarda il depistaggio e il probabile interessamento nell'attentato di uomini "esterni" a Cosa nostra è ancora da accertare e dimostrare. E su tutto ciò le inchieste sono ancora aperte. Nonostante siano passati 20 anni da quei tragici fatti, siamo ancora in attesa di una seconda puntata su questa zona grigia.

«Dalle nostre indagini emerge che i più alti vertici dello Stato sapevano della trattativa tra pezzi dello Stato e la mafia nel '92. - Lo ha detto il procuratore aggiunto di Caltanissetta Nico Gozzo nel corso della conferenza stampa per i quattro arresti per la strage di via D"Amelio. - Che ci fosse stata una trattativa ormai è un fatto accertato - dice Gozzo - ed è stato verificato che fosse comunicata ai più alti vertici dello Stato. Dalle nostre indagini emerge che i più alti vertici dello Stato sapevano della trattativa tra pezzi dello Stato e la mafia nel 1992, ma nessuno informò l’autorità giudiziaria. La dottoressa Ferraro (Liliana Ferraro, allora direttore degli Affari penali al ministero della giustizia) la comunicò all’allora ministro della giustizia Martelli e venne comunicata anche alla presidenza del Consiglio. Però non venne riferito nulla all’autorità giudiziaria.» Gozzo ha aggiunto che «non sono emerse responsabilità di politici, ma mi sconcerta il silenzio di alcuni politici. Se Massimo Ciancimino ha un merito è quello di avere fatto risvegliare la memoria a qualcuno». Sulla questione prescrizione sull'attentato dell'Addaura si è soffermato anche il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari: "Rischia la prescrizione perché non ci sono stati morti. Purtroppo gli anni passano e alcuni reati si prescrivono” ha detto Lari, che ha rivolto e un appello alla politica per allungare i termini delle indagini sui fatti più gravi. Resta infine il giudizio sospeso su Massimo Ciancimino: «Qualche riscontro delle sue parole è arrivato, soprattutto sui contatti tra gli ufficiali dei carabinieri e suo padre. Il suo contributo però non è stato decisivo come avrebbe potuto essere”. Più duro Lari: “E’ quasi nullo l’apporto che ha dato Massimo Ciancimino alle nostre indagini. Abbiamo ascoltato 190 files con le intercettazioni di Ciancimino per accertare il suo profilo di attendibilità. Ebbene, è venuto fuori che ha detto il falso».

Borsellino fu eliminato da Cosa nostra perché Totò Riina lo riteneva un "ostacolo" alla trattativa con esponenti delle istituzioni arenatasi "su un binario morto" e che quindi andava "rivitalizzata" con il gesto eclatante della strage. Lo ricostruisce il gip di Caltanissetta, Alessandra Bonaventura Giunta, che ha accolto le richieste della Dda nissena, nell'ambito della nuova inchiesta che ha portato alle ordinanze eseguite dalla Dia sulla strage. "La tempistica della strage è stata certamente influenzata - dice il magistrato - dall'esistenza e dall'evoluzione della così detta trattativa tra uomini delle Istituzioni e Cosa nostra". Per la Procura, "della trattativa era stato informato anche il dott. Borsellino il 28 giugno del 1992. Quest'ultimo elemento aggiunge un ulteriore tassello all'ipotesi dell'esistenza di un collegamento tra la conoscenza della trattativa da parte di Borsellino, la sua percezione quale 'ostacolo' da parte di Riina e la conseguente accelerazione della esecuzione della strage". Ad avvalorare questa tesi sono anche "le dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Giovanni Brusca a proposito dell'ordine ricevuto da Salvatore Riina di sospendere, nel giugno 1992, l'esecuzione dell'attentato omicidiario nei confronti dell'on. Calogero Mannino perché c'era una vicenda più urgente da risolvere". Sono oltre 260mila le intercettazioni telefoniche ed ambientali registrate nell'ambito dell'inchiesta che ha portato all'arresto di quattro persone per la strage di via D'Amelio. I decreti di intercettazioni firmati dai magistrati sono stati complessivamente 130. Inoltre sono stati sentiti oltre 300 testimoni e 30 collaboratori di giustizia. A snocciolare i dati e i numeri dell'inchiesta coordinata dalla Dda di Caltanissetta e condotta dalla Dia nissena è il colonnello Gaetano Scillia capo centro della Direzione investigativa antimafia di Caltanissetta. Sono 350 i faldoni sulla strage di via D'Amelio. Durante l'inchiesta è stata riesaminata dai magistrati l'ingentissima documentazione riguardante le precedenti acquisizioni investigative e processuali operate nell'ambito di 28 procedimenti penali, comprese le sentenze relative a tutti i gradi dei processi sulla strage di Capaci e di via D'Amelio. Sono stati eseguiti oltre 20 confronti, tutti rigorosamente videoregistrati fra i quali alcuni svolti tra i funzionari di polizia indagati per concorso in calunnia e i loro accusatori, cioè i pentiti Scarantino, Andriotta e Candura. E poi ancora numerose esecuzioni di atti di ricognizione fotografica e personali. Decine i sopralluoghi videoregistrati molti dei quali con gli stessi pentiti Gaspare Spatuzza e Fabio Tranchina per ricostruire il contenuto delle loro dichiarazioni. E poi oltre 100 deleghe di indagine conferite alla Dia di Caltanissetta, molte delle quali di elevata complessità. Alla conferenza stampa del 8 marzo 2012 hanno partecipato, oltre al procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso, il sostituto della Dna Maurizio de Lucia, il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, i due aggiunti Amedeo Bertone e Nico Gozzo, il direttore della Dia Alfonso D'Alfonso e il capo centro di Caltanissetta della Dia Gaetano Scillia.

Nella seconda metà di giugno del 1992, Paolo Borsellino ha un cedimento nervoso e, cosa inusuale per lui, si sdraia su un divano e piange: “Non posso pensare....non posso pensare che un amico mi abbia tradito”. A ricostruire l’episodio, riportato nell’ordinanza sulla strage di via D’Amelio, sono due magistrati che con il giudice avevano lavorato a Marsala: Alessandra Camassa e Massimo Russo, poi assessore alla Sanità della Regione Siciliana. Ai colleghi che la sentono Alessandra Camassa dice: «La mia impressione fu che Paolo si sentisse tradito da una persona adulta autorevole, con la quale vi era un rapporto d’affetto: pensai che potesse trattarsi di un ufficiale di carabinieri». La ricostruzione è stata confermata da Massimo Russo che aggiunge un’altra frase di Borsellino: «qui è un nido di vipere». Secondo la ricostruzione del Gip e della Procura di Caltanissetta, Borsellino avrebbe individuato il preteso traditore, “ma il nome era talmente sconvolgente – si spiega nell’ordinanza – che neanche gli amici più cari ne sono stati messi al corrente”. La moglie del giudice, Agnese Piraino, è più esplicita e in una deposizione resa il 27 gennaio del 2010 ricorda che suo marito alla metà di giugno del 1992 si sfogò rivelandole, testualmente, che “c’era un colloquio tra la mafia e parti infedeli dello Stato”. Paolo Borsellino aveva preso l’abitudine di raccontare pochi particolari alla moglie per non metterla in pericolo. “Confermo però – fa mettere a verbale la vedova del giudice – che mi disse che il generale Subranni era ‘punciutu’. Era sbalordito, ma lo disse con tono assolutamente certo, senza svelarmi la fonte. Aggiunse che quando glielo avevano detto era stato tanto male da avere avuto conati di vomito: per lui l’Arma dei carabinieri era intoccabile…”.

PALERMO: MAFIA E POLITICA.

L'epistemologia è quella branca della filosofia che si occupa delle condizioni, sotto le quali si può avere conoscenza scientifica, e dei metodi per raggiungere tale conoscenza, come suggerisce peraltro l'etimologia del termine, il quale deriva dall'unione delle parole greche Epistema ("conoscenza certa", ossia "scienza") e logos (discorso). In un'accezione più ristretta l'epistemologia può essere identificata con la filosofia della scienza, la disciplina che si occupa dei fondamenti delle diverse discipline scientifiche. In epistemologia, un assioma è una proposizione o un principio che viene assunto come vero perché ritenuto evidente o perché fornisce il punto di partenza di un quadro teorico di riferimento. Il termine dogma (o domma) è utilizzato generalmente per indicare un princìpio fondamentale di una religione, o una convinzione formulate da filosofi e poste alla base delle loro dottrine, da considerarsi e credere per vero da chi si reputa loro seguace o fedele. Il termine può essere applicato in senso estensivo a discipline diverse da quelle religiose.

Bene, anzi male. In tema di mafia vi è un assioma elevato a dogma per il quale chi non è comunista, o comunque chi non è di sinistra, è per forza di cose un mafioso, un para mafioso o un sostenitore della mafia. Questo si evince dalle tante inchieste emerse in tutta Italia e dalla piega che ha assunto la cosiddetta lotta "Antimafia": lotta di parte o di facciata. E’ difficile trovare degli esponenti politici di sinistra che siano stato colpiti da inchieste di mafia, specialmente quanto i titolari delle indagini siano Pubblici Ministeri di una certa area politica. Di contro vi sono evidenti ed ostinati tentativi giudiziari di coinvolgere esponenti politici governativi del centro-destra, nonostante tutti gli schieramenti siano stati investiti di responsabilità governativa, dimostrando nei fatti di essere tutti uguali. Hanno cercato di colpire Andreotti e Berlusconi e i loro referenti istituzionali locali. Molti deputati, ma anche uomini servitori dello Stato. Come Giovanni Falcone, Bruno Contrada, Mario Mori, colpevoli di essere stati promossi a ranghi istituzionali al posto di chi altri aspirava ad occuparli: Falcone e Contrada nominati dall’area Adreottiana-craxiana; Mori da Berlusconi.

Giovanni Falcone, medaglia d’oro al valor civile. Palermo 5 agosto 1992. «Magistrato tenacemente impegnato nella lotta contro la criminalità organizzata, consapevole dei rischi cui andava incontro quale componente del 'pool antimafia', dedicava ogni sua energia a respingere con rigorosa coerenza la sfida sempre più minacciosa lanciata dalle organizzazioni mafiose allo Stato democratico. Proseguiva poi tale opera lucida, attenta e decisa come Direttore degli Affari Penali del Ministero di Grazia e Giustizia, ma veniva barbaramente trucidato in un vile agguato, tesogli con efferata ferocia, sacrificando la propria esistenza, vissuta al servizio delle Istituzioni.»

Nel gennaio '90, Falcone coordina un'altra importante inchiesta che porta all'arresto di trafficanti di droga colombiani e siciliani. Ma a maggio riesplose, violentissima, la polemica, allorquando Orlando interviene alla seguitissima trasmissione televisiva di Rai 3, Samarcanda dedicata all'omicidio di Giovanni Bonsignore, scagliandosi contro Falcone, che, a suo dire, avrebbe "tenuto chiusi nei cassetti" una serie di documenti riguardanti i delitti eccellenti della mafia. Le accuse erano indirizzate anche verso il giudice Roberto Scarpinato, oltre al procuratore Pietro Giammanco, ritenuto vicino ad Andreotti. Si asseriscono responsabilità politiche alle azioni della cupola mafiosa (il cosiddetto "terzo livello"), ma Falcone dissente sostanzialmente da queste conclusioni, sostenendo, come sempre, la necessità di prove certe e bollando simili affermazioni come "cinismo politico". Rivolto direttamente ad Orlando, dirà: "Questo è un modo di far politica attraverso il sistema giudiziario che noi rifiutiamo. Se il sindaco di Palermo sa qualcosa, faccia nomi e cognomi, citi i fatti, si assuma le responsabilità di quel che ha detto. Altrimenti taccia: non è lecito parlare in assenza degli interessati". La polemica ha continuato ad alimentarsi anche dopo la morte del giudice Falcone. In particolare, la sorella Maria Falcone in un collegamento telefonico con il programma radiofonico "Mixer" ha accusato Leoluca Orlando di aver infangato suo fratello, « hai infangato il nome, la dignità e l'onorabilità di un giudice che ha sempre dato prova di essere integerrimo e strenuo difensore dello Stato contro la mafia[...]lei ha approfittato di determinati limiti dei procedimenti giudiziari, per fare, come diceva Giovanni, politica attraverso il sistema giudiziario». In un'intervista a Klauscondicio, Leoluca Orlando ha dichiarato di non essersi pentito riguardo alle accuse che rivolse a Falcone. In un'intervista del 2008 al Corriere della Sera il Presidente emerito Francesco Cossiga ha imputato al Csm grosse responsabilità riguardo alla morte del Giudice Falcone, ha infatti affermato: «i primi mafiosi stanno al CSM. [Sta scherzando?] Come no? Sono loro che hanno ammazzato Giovanni Falcone negandogli la DNA e prima sottoponendolo a un interrogatorio. Quel giorno lui uscì dal CSM e venne da me piangendo. Voleva andar via. Ero stato io a imporre a Claudio Martelli di prenderlo al Ministero della Giustizia.» La polemica sancì la rottura del fronte antimafia, e da allora in poi Cosa Nostra si avvantaggerà della tensione strisciante nelle istituzioni, cosa che avvelenò sempre più il clima attorno a Falcone, isolandolo. Alle seguenti elezioni dei membri togati del Consiglio superiore della magistratura del 1990, Falcone venne candidato per le liste collegate "Movimento per la giustizia" e "Proposta 88", ma non viene eletto. Fattisi poi via via sempre più aspri i dissensi con Giammanco, Falcone optò per accettare la proposta di Claudio Martelli, allora vicepresidente del Consiglio e ministro di Grazia e Giustizia ad interim, a dirigere la sezione Affari Penali del ministero. In questo periodo, che va dal 1991 alla sua morte, Falcone fu molto attivo, cercando in ogni modo di rendere più incisiva l'azione della magistratura contro il crimine. Tuttavia, la vicinanza di Giovanni Falcone al socialista Claudio Martelli costò al magistrato siciliano violenti attacchi da buona parte del mondo politico. In particolare, l'appoggio di Martelli fece destare sospetti da parte dei partiti di centro sinistra che fino ad allora avevano appoggiato una possibile candidatura di Falcone. Falcone in realtà profuse tutta la propria professionalità nel preparare leggi che il Parlamento avrebbe successivamente approvato, ed in particolare sulla procura nazionale antimafia. Il 15 ottobre 1991 Giovanni Falcone è costretto a difendersi davanti al CSM in seguito all'esposto presentato il mese prima (l'11 settembre) da Leoluca Orlando. L'esposto contro Falcone era il punto di arrivo della serie di accuse mosse da Orlando al magistrato palermitano, il quale ribatté ancora alle accuse definendole «eresie, insinuazioni» e «un modo di far politica attraverso il sistema giudiziario». Sempre davanti al CSM Falcone, commentando il clima di sospetto creatosi a Palermo, affermò che «non si può investire nella cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, è l’anticamera del khomeinismo». In questo contesto fortemente negativo, nel marzo 1992 viene assassinato Salvo Lima, omicidio che rappresenta un importante segnale dell'inasprimento della strategia mafiosa la quale rompe così gli equilibri consolidati ed alza il tiro verso lo Stato per ridefinire alleanze e possibili collusioni. Falcone era stato informato poco più di un anno prima con un dossier dei Carabinieri del ROS che analizzava l'imminente neo-equilibrio tra mafia, politica ed imprenditoria, ma il nuovo incarico non gli aveva permesso di ottemperare ad ulteriori approfondimenti. Il ruolo di "Superprocuratore" a cui stava lavorando avrebbe consentito di realizzare un potere di contrasto alle organizzazioni mafiose sin lì impensabile. Ma ancor prima che egli vi venisse formalmente indicato, si riaprirono ennesime polemiche sul timore di una riduzione dell'autonomia della Magistratura ed una subordinazione della stessa al potere politico. Esse sfociarono per lo più in uno sciopero dell'Associazione Nazionale Magistrati e nella decisione del Consiglio Superiore della Magistratura che per la carica gli oppose inizialmente Agostino Cordova. Sostenuto da Martelli, Falcone rispose sempre con lucidità di analisi e limpidezza di argomentazioni, intravedendo, presumibilmente, che il coronamento della propria esperienza professionale avrebbe definito nuovi e più efficaci strumenti al servizio dello Stato. Eppure, nonostante la sua determinazione, egli fu sempre più solo all'interno delle istituzioni, condizione questa che prefigurerà tristemente la sua fine. Emblematicamente, Falcone ottenne i numeri per essere eletto Superprocuratore il giorno prima della sua morte. Nell'intervista rilasciata a Marcelle Padovani per "Cose di Cosa Nostra", Falcone attesta la sua stessa profezia: "Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere."

Mafia, 14 aprile 2015, Strasburgo su Contrada: «Non andava condannato». Bruno Contrada non doveva essere condannato secondo la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. "Dispiace che l'abbia fatto così tardi", commenta l'avvocato Giuseppe Lipera, difensore dell'ex 007 riconosciuto colpevole di concorso esterno in associazione mafiosa. "E' un reato che non esiste nel codice penale tutt'ora vigente, se lo sono inventati certi magistrati", afferma il legale.

All’epoca dei fatti (1979-1988), reato non «era sufficientemente chiaro». Lo Stato deve versare a ex 007 10 mila euro per danni morali. Lui: «Sentenza sconvolgente», scrive "Il Corriere della Sera”. Bruno Contrada, ex poliziotto, ex capo della mobile di Palermo, non doveva essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa perché, all’epoca dei fatti (1979-1988), il reato non «era sufficientemente chiaro». Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti umani. Lo Stato italiano deve versare all’ex numero tre del Sisde (l’ex servizio segreto civile, oggi Aisi) 10 mila euro per danni morali. A caldo, l’ex 007 dice: «Sentenza sconvolgente, dopo una vita devastata». Per la Corte, più in dettaglio, l’Italia ha violato l’articolo 7 della Convenzione europea per i diritti umani che stabilisce che non ci può essere condanna senza che il reato sia chiaramente identificato dai codici di giustizia. Nel caso della fattispecie di reato contestata a Contrada, il concorso esterno in associazione mafiosa, la Corte nota che essa «non era sufficientemente chiara e prevedibile per Contrada ai tempi in cui si sono svolti gli eventi in questione», e quindi ha riconosciuto la violazione, in quanto le pene non possono essere applicate in modo retroattivo. L’ex funzionario del Sisde (tornato in libertà dopo avere scontato la pena) era stato condannato in via definitiva a 10 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa, dopo le accuse di diversi collaboratori di giustizia di passare informazioni a Cosa nostra e di avere consentito la fuga di pericolosi latitanti, come il boss Totò Riina, ricevendo la «copertura» di non identificati vertici istituzionali. Contrada è stato arrestato la prima volta il 24 dicembre 1992 e detenuto in carcere fino al 31 luglio 1995. Dal 10 maggio 2007 al 24 luglio 2008 è stato nel carcere militare a Santa Maria Capua Vetere, dal 24 luglio 2008 è agli arresti domiciliari nella sua abitazione di Palermo per il suo stato di salute. A giugno 2012 la Cassazione, ancora una volta, aveva detto «no» alla richiesta di revisione del processo. Contrada negli anni è stato un investigatore di punta dell’antimafia, a più riprese è stato capo della squadra mobile di Palermo negli anni 70, poi dirigente della Criminalpol, capo di gabinetto dell’Alto commissariato antimafia e, infine, «numero tre» del Sisde. La condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa risale al maggio del 2007. «Sono frastornato, sconvolto, ansioso di sapere di più». Così Bruno Contrada parla della decisione della Corte di Strasburgo. Raggiunto al telefono dall’Agi, Contrada dice: «Lei sta parlando con un uomo la cui vita è stata devastata da 23 anni, dal 1992 ad oggi: ho subito sofferenza, dolore, umiliazione e devastazione della mia esistenza e della mia famiglia. Si può immaginare ed è intuibile qual è il mio stato d’animo in questo momento. Aspetto di leggere la sentenza -conclude l’ex numero tre del Sisde- per rendermi conto di cosa dice e per quale motivo è stato accolto il mio ricorso». «Ho presentato due mesi fa la quarta domanda di revisione del processo a Bruno Contrada e la Corte di appello di Caltanissetta mi ha fissato l’udienza il 18 giugno. La sentenza di Strasburgo sarà un altro elemento per ottenere la revisione della condanna». Lo dice l’avvocato Giuseppe Lipera, legale dell’ex agente Sisde. «Ora capisco perché nonostante le sofferenze quest’uomo a 84 anni continui a vivere», conclude Lipera che ha telefonato subito a Contrada per comunicargli la notizia.

Mafia, la Corte di Strasburgo: "Contrada non andava condannato". Lui: "La mia vita è distrutta". Il reato contestato "non era sufficientemente chiaro". Stato italiano condannato a versare 10 mila euro per i danni morali. L'ex agente del Sisde: "Sentenza sconvolgente", scrive “La Repubblica”. Bruno Contrada non doveva essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa perché, all'epoca dei fatti (1979-1988), il reato non "era sufficientemente chiaro". Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti umani. Lo Stato italiano deve versare all'ex numero due del Sisde 10 mila euro per danni morali. Già nel 2014 la corte di Strasburgo aveva condannato l'Italia per la detenzione dell'ex funzionario del Sisde. Secondo i giudici le condizioni di salute di Contrada, tra il 2007 e il 2008, non erano compatibili con il regime carcerario. Adesso i suoi legali puntano alla revisione del processo. "Ho presentato due mesi fa la quarta domanda di revisione e la corte di appello di Caltanissetta mi ha fissato l'udienza il 18 giugno. La sentenza di Strasburgo sarà un altro elemento per ottenere la revisione della condanna", commenta l'avvocato Giuseppe Lipera legale dell'ex numero 2 del Sisde dopo al decisione della Corte europea dei diritti umani. "Ora capisco perché nonostante le sofferenze quest'uomo a 84 anni continui a vivere", conclude Lipera. "Sono frastornato, sconvolto, ansioso di sapere di più", commenta a caldo Bruno Contrada. "Lei sta parlando con un uomo la cui vita è stata devastata da 23 anni, dal 1992 ad oggi: ho subito sofferenza, dolore, umiliazione e devastazione della mia esistenza e della mia famiglia. Si può immaginare ed è intuibile qual è il mio stato d'animo in questo momento. Poco fa ho sentito il mio avvocato che mi ha comunicato la decisione della Corte europea per i diritti dell'uomo. Aspetto di leggere la sentenza -conclude l'ex numero tre del Sisde- per rendermi conto di cosa dice e per quale motivo è stato accolto il mio ricorso". Da 23 anni la sua vicenda giudiziaria tiene banco non solo nelle aule di giustizia italiane ed europee ma anche nel dibattito politico e giudiziario perchè Bruno Contrada, 84 anni, napoletano ma palermitano d'adozione, quando fu arrestato era ai vertici degli apparati investigativi italiani, numero tre del Sisde, dopo aver percorso tutte le tappe dell'investigatore da dirigente di polizia ad alto funzionario dei servizi segreti nell' arco di un trentennio. Arrestato, la vigilia del Natale '92, l'anno delle stragi palermitane, poi a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa, è stato condannato a 10 anni di carcere il 5 aprile '96. Sentenza ribaltata in Corte d'appello il 4 maggio 2001: assolto. La Cassazione ha rinviato gli atti a Palermo. Poi la nuova condanna a 10 anni nel 2006, dopo 31 ore di Camera di consiglio della Corte d'appello palermitana, e la conferma della Cassazione l'anno successivo. Quindi il carcere, i domiciliari e poi la fine pena nell'ottobre 2012. Sono poi cominciati i tentativi di revisione del processo e gli appelli alla corte di Strasburgo per i diritti umani. Italia condannata due volte: nel febbraio 2014 perché il detenuto non doveva stare in carcere quando chiese i domiciliari per le sue condizioni di salute e oggi perchè l'ex poliziotto non doveva essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa perché, all'epoca dei fatti (1979-1988), il reato non "era sufficientemente chiaro". Contrada in questi anni ha sempre combattuto per "salvaguardare - diceva - l'onore di un uomo delle istituzioni". "Voglio l'onore che mi hanno tolto, non ho perso fiducia nello Stato" ripeteva. Ha parlato dei tanti collaboratori di Giustizia che lo accusavano, con disprezzo, ricordando quando lui e i suoi uomini della questura di Palermo li arrestavano trattandoli come delinquenti e presentavano ai magistrati dossier corposi sulla mafia. E si è sfogato, in questi anni, con gli amici su quella nebbia che nel processo è sembrata calare sul suo rapporto col capo della mobile di Palermo, Boris Giuliano, assassinato nel luglio '79 da Leoluca Bagarella mentre prendeva un caffè da solo al bar. "Eravamo due fratelli - ha detto - lavoravamo fianco a fianco. Non mi sono mai fermato nelle indagini sul suo omicidio". Sono stati scritti almeno quattro libri sulla sua vicenda giudiziaria e migliaia di articoli di giornale che hanno aperto dibattiti nel mondo politico e che hanno diviso l' opinione pubblica italiana.

Bruno Contrada. Entrato in Polizia nel 1958, frequentò a Roma il corso di istruzione presso l’Istituto superiore di polizia. Dopo alcuni ruoli nel Lazio, nel 1973 gli venne affidata la direzione della squadra mobile di Palermo. Nel 1982 transitò nei ruoli del SISDE con l’incarico di coordinarne i centri della Sicilia e della Sardegna. Nel 1986 fu chiamato a Roma presso il Reparto Operativo della Direzione del SISDE. Il 24 dicembre 1992, venne arrestato perché accusato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso (estensione giurisprudenziale dell'art. 416 bis Codice penale) sulla base delle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia (tra i quali Gaspare Mutolo, Tommaso Buscetta, Giuseppe Marchese, Salvatore Cancemi) e rimase in regime di carcere preventivo fino al 31 luglio 1995. Il primo processo a suo carico, iniziato il 12 aprile 1994, si concluse il 19 gennaio 1996, quando, al termine di una requisitoria protrattasi per ventidue udienze, il pubblico ministero Antonio Ingroia chiese la condanna a dodici anni. Il 5 aprile 1996 i giudici disposero dieci anni di reclusione e tre di libertà vigilata. Il 4 maggio 2001 la Corte d'Appello di Palermo lo assolse con formula piena. Il 12 dicembre 2002 la Corte di Cassazione annullò la sentenza di secondo grado, ordinando un nuovo processo davanti ad una diversa sezione della Corte d'Appello di Palermo. Il 26 febbraio 2006 i giudici di secondo grado confermarono, dopo 31 ore di camera di consiglio, la sentenza di primo grado che condannava Bruno Contrada a 10 anni di carcere e al pagamento delle spese processuali. Il 10 maggio 2007 la Corte di cassazione ha confermato la sentenza di condanna in appello. Contrada venne rinchiuso nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta. Il 24 settembre 2011 la Corte d'appello di Caltanissetta ha ammesso la revisione del processo in cui Bruno Contrada è stato condannato a 10 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Il processo di revisione comincerà davanti alla Corte d'appello di Caltanissetta. Due richieste analoghe, presentate dal difensore di Contrada, l'avvocato Giuseppe Lipera, erano state rigettate.

SENATO: PRESENTAZIONE LIBRO "GIUSTIZIA ASSISTITA" DI PIERO MILIO. Roma, 06 giugno 2011 - Sala Conferenze ex Hotel Bologna in via di Santa Chiara 5, presentazione di "Giustizia assistita", volume che raccoglie scritti e interventi dell'avvocato Piero Milio, ex senatore radicale e storico avvocato difensore di Bruno Contrada e del generale Mario Mori, deceduto nel 2010 a Palermo. (relatori: Pierluigi Winkler, presidente della Koiné Nuove Edizioni, avv. Basilio Milio, sen. Emanuele Macaluso, direttore de "Il Riformista", sen. Luigi Compagna, dott. Massimo Bordin, giornalista di "Radio Radicale". Moderatore dott. Massimo Martinelli, giornalista de "Il Messaggero". Saluto di Maurizio Gasparri, presidente del Gruppo Pdl al Senato. Tra i presenti, l'ex ministro Interni Nicola Mancino, il gen.le Mario Mori, Ida e Pupa, sorelle del generale Bruno Contrada, Marina Salvadore del Comitato Bruno Contrada Napoli, la quale dà un dettagliato resoconto.

«Dall’umido esilio di Liternum marciava, ieri, verso il Senato di Roma imperiale un manipolo sgangherato dei “bona fides” di Scipione Bruno Contrada. Accadeva che in contemporanea con l’ennesima archiviazione della Procura dell’ennesimo esposto del generale contro i calunniatori ed i mistificatori, la contraddizione palese della sua piena riabilitazione morale e professionale sarebbe fiorita, per contro, sulle bocche dei più alti rappresentanti istituzionali, ripresi anche dalle telecamere. Il Camel Trophey degli impavidi invecchiati accanto al generale, arrancava motivato alle porte di Roma Sud, riannusandone la grandezza e la potenza. La speranza! Provenienti dalla bidonville del Mezzogiorno reietto, oltre la Porta romana li confondeva in quel caos urbanistico l’assenza totale di pattume, creando in loro la suggestione d’essere proiettati in un'altra realtà, in un altro mondo, in un’altra vita. Troppo era durato l’esilio da Roma, da non riconoscerla più! L’occasione propizia, utile a riaccendere ceri votivi per evocare la luce nel lungo tunnel buio dell’oblio ed a rigenerare gli esuli in un’istantanea reincarnazione, come esperienza mistica, esoterica, si doveva alla generosità biodinamica, ancora attiva, di chi della Verità, nel Senato di Roma, s’era fatto testimone e maestro, l’avvocato Piero Milio che – ancora – dalla quarta dimensione faceva udire distintamente la sua voce, consentendo alla platea di visualizzarlo con la toga gettata in spalla, l’indice puntato ai calunniatori ed il braccio sinistro – quello del cuore – a cingere le spalle di Bruno Contrada e Mario Mori! L’eredità di un suo libro di memorie, rinvenuto tra i files del computer dal suo degno figliolo, il giovane e capace avvocato Basilio, veniva così, ieri, equamente divisa a vittime e carnefici: ad ognuno onori ed oneri, a seconda del ruolo da loro rivestito nella italica “Giustizia Assistita”. Parole come sassi levigati dal mare, memorie del 2001 attualissime, dacché niente è cambiato nel “sistema” ma ad oggi, in progressione geometrica, lievitando l’una sull’altra, pagine di Mafia e Giustizia incombono come la nuvolaglia nera che ingrossa sempre più il diluvio delle iniquità! L’Italia del Diritto, dalla culla alla bara. La circostanza della presentazione del libro, voleva essere il giusto tributo al ricordo di Piero Milio, scomparso da un anno; invece, si è tradotto nel tributo del grande avvocato alla Giustizia Giusta, come per un’ultima appassionata arringa, a perenne monito. Sentire risuonare in quella sede prestigiosa di nuovo il nome di Bruno Contrada, il racconto delle sue eroiche imprese, é stato emozionante fino alla lacrime, seppure una strana rabbia formicolasse nel palmo della mano che avrebbe voluto levarsi per chiedere d’essere auditi, per dire la propria, partecipando di DIRITTO, come in un agorà o in un sacro conclave e non solo quale muto spettatore. Diciotto anni di persecuzione ambivano a trovare riscatto almeno in un fotogramma di umana rivendicazione… ma il prodigio era già tutto racchiuso, avaro, nel privilegio unico della condivisione spartana dell’evento: vietate le repliche e il contraddittorio, il dibattito ed addirittura non previsto un opportuno banchetto promozionale dei libri all’editrice Koinè, tanto che il nostro canuto manipolo di reduci della Silva Gallinaria, mostrava in quel consesso, ad uso di reliquia trasportata lungo la via Capuana e la via Appia fino in Roma imperiale, una copia del libro; come Saul, noto come san Paolo di Tarsia, che da Pozzuoli a Roma recò seco le sue lettere da spedire ai Corinzi. Prescelti, nevvero? Pochi ma buoni gli invitati al rito di ufficiosa riabilitazione, quasi che gli anfitrioni istituzionali provassero ancora ancestrale imbarazzo a trattare di certe vergogne nazionali, seppure nel pieno possesso, ora, dei più ampi poteri conferiti loro dal Governo della Nazione. Pertanto, l’evento è stato di portata eccezionale, con la maggioranza assoluta di relatori insigni ed augusti ospiti, da ridurre in minoranza la sorpresissima platea, oltremodo zittita nel disagio di “eccesso di grazia” non previsto. Il senatore Macaluso, autentico istrione, bene ci appassionava alla sua Lectio Magistralis sulla degenerazione della sinistra storica in sinistra complottista, rendendo onore ai servitori dello Stato ingiustamente intrappolati nel ruolo di capri espiatori, ricordando con estrema lucidità l’uso consapevole e riservato che dei “pentiti” di mafia il giudice Falcone intendeva, fino all’abominio odierno dell’abuso mirato e relative strumentalizzazione di questi, da parte di certe procure, con i risultati che ridondano nelle cronache giustiziere quotidiane. Riferendosi al vergognoso processo Contrada, Macaluso evidenziava come il ruolo degli investigatori dei “servizi” non abbia mai goduto delle opportune protezioni dovute ai professionisti di rango che, necessariamente, nel loro pericoloso ed esclusivo lavoro, al pari dei militari cosiddetti “infiltrati” devono impattarsi e relazionarsi con criminali pericolosissimi; questa assenza di misure speciali a tutela di uomini coraggiosi mandati allo sbaraglio dallo Stato medesimo, si è rivelata un’arma a doppio taglio, finendo col conferire autorevolezza più ai criminali che agli esponenti delle forze dell’ordine e allargando ancor più il solco tra lo Stato e “certe” Procure innegabilmente politicizzate, col risultato che i migliori uomini impegnati nella lotta alla Mafia e al Terrorismo si sono trovati, come Contrada e Mori, esposti al pubblico ludibrio e messi alla sbarra quando non ristretti nelle galere di quello Stato che sarebbe stato in dovere solo di ringraziarli e di premiarne l’audacia. A Macaluso faceva eco il senatore Compagna sul ruolo giocato da Ciancimino junior in due anni di pubbliche audizioni quasi quotidianamente divulgate con evangelici titoli sensazionali e che lo trasformavano in star televisiva da reality-show, salvo, poi, il sancire da altra procura concorrente l’inidoneità e l’inadeguatezza di questi al ruolo di “collaboratore di giustizia”. Come non sottolineare che ad un comune delinquente era stata posta sul capo l’aureola di “eroe romantico” e che ai Ciancimino, agli Spatuzza, ai Brusca e compagnia, lanciatori di coltello, si offrivano addirittura spade affilate per esercitare il ricatto, volgarmente ostentato quale riscatto. Emblematico il riferimento al micidiale quantitativo di esplosivo rinvenuto nel giardino di casa del finto fesso Ciancimino che… chissà perché, per cosa e da quando lo deteneva… e che solo un mese dopo il suo casuale rinvenimento è stato regolarmente denunciato quale reato, laddove ad un comune mortale non celebre quanto il fighetto in questione, le porte del carcere si sarebbero spalancate per direttissima. Ebbene, ad un soggetto di tal tipo si è consentito, per anni, di infamare ignobilmente, con racconti fantastici persone come il generale Mori, presente anch’egli al convegno e signorilmente premuroso con la non vedente signora Ida, sorella di Bruno Contrada delle cui condizioni si informava, pregandola di portargli un solidale saluto. L’intervento di Compagna non poteva non scivolare sulla necessità di una riforma della Giustizia, sulle dolenti note della separazione delle carriere e dei controversi rapporti tra polizia giudiziaria e magistrati. A quel punto, avremmo voluto urlare la necessità dell’istituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta sul Pentitificio di Stato e ricordare anche che gli italiani, molti anni fa, con referendum votarono già a favore della responsabilità civile dei magistrati e sull’onda del breve intervento di rito di Maurizio Gasparri in ordine alla necessità di trattare le responsabilità di chi accusa e di chi giudica, tanto noialtri profughi del litorale domitio quanto l’inossidabile senatore Mauro Mellini sussultavamo sulla sedia, pensando al trasferimento, al momento inopportuno, del ministro Alfano dalla Giustizia alla segreteria del partito, con guizzi di riforma congelati sul nascere ed un futuro – eccetto i soliti imprevisti – di soli due anni per consentire al suo successore di realizzare appieno la riforma medesima. Poteva mancare all’illustre consesso che godeva dell’armonia perfetta di quegli illustri uomini di sinistra, di destra… di sopra e di sotto l’inquietante convitato di pietra? L’ex ministro degli Interni, Nicola Mancino, seduto in prima fila, immobile come un animale a sangue freddo nell’autunno avanzato, ascoltava, senza emettere suono, senza battere ciglio… e ripensando, noialtri, alla recente riesumazione del primo patto Stato-Mafia, ripescato dagli annali occulti dell’annus orribilis 1992, un brivido lungo la schiena ci coglieva nonostante l’afa insopportabile della inoltrata primavera romana. Un brivido di paura, sì, al solo pensare – stante le cronache politiche alquanto bizzose; anzi, bislacche – ad una più violenta e perniciosa riedizione di quel fallito golpe sinistro del ’92. Tuttavia, la rassicurante presenza del senatore Milio aleggiava nell’aula, percepibile ancora attraverso l’umiltà e l’eleganza cortese di suo figlio Basilio che serenamente blandiva relatori, ospiti e spettatori, rammentando senza ostentazione il coraggio della dignità messo nelle numerose ed impegnative lotte civili da suo padre, in tempi e su territorio pericolosissimi. Di lui, proprio nel ’92, Giovanni Falcone disse: “L’avvocato Milio fa parte di quella eletta schiera, in verità abbastanza esigua, di avvocati palermitani che sono pronti anche ad addossarsi questo sacrificio e i pericoli non lievi che comporta l’assunzione di certe difese”; Falcone, occorrerebbe sempre ricordarlo, aveva precedentemente gratificato con un encomio scritto anche Bruno Contrada e il risultato dell’equazione è che – certamente – tutti coloro che ora sfruttano ideologicamente la memoria di Falcone (e di Borsellino) sono gli stessi che – in puro stile mafioso – se ne liberarono. Non a caso in “Giustizia assistita” Milio, come su un Golgota ideale, ricompone una trinità di martiri: Falcone, Contrada e Mori… ed il suo libro, pronto da anni ed ostacolato per anni nella debita divulgazione è quantomai attuale. Qualcuno, tra i relatori, faceva anche un rapido accenno alla denuncia fatta a Borsellino, dopo la morte di Falcone, degli intrallazzi tra partecipazioni statali e mafie… ah! se avessimo avuto l’opportunità di intervenire avremmo chiesto ai senatori della Repubblica perché allo sfortunato ex sindacalista UIL della Fincantieri Palermo, Gioacchino Basile, che da anni chiede inutilmente di essere audito dalla Commissione Antimafia, non gli si riconosce un briciolo solo dell’autorevolezza che permea i brutti ceffi “pentiti” nell’immaginario collettivo di certi PM rampanti… La ricca performance volgeva alla fine. Il senatore Gasparri, spariva veloce dietro una porta, per impegni di rango o perché tormentato al pensiero delle domande che leggeva sulle labbra di noialtri cafoni della Silva Gallinaria. Gradevolmente, l’aristocratica e gentile direttrice editoriale della Koiné, Madrilena Lioi e gli altri relatori si attardavano cordialmente con noi, prestandosi anche al rito delle foto-ricordo. Ida Contrada, affetta da cecità, percepiva più intensamente i sentimenti di chi la circondava e rideva felice. Di ritorno al paesello, mi confidava d’essersi divertita molto al pensiero che tutti quei politici importanti s’erano lasciati fotografare con una dei “Contrada”, richiamando alla memoria, sorniona, l’episodio degli scatti fotografici di Di Pietro alla medesima mensa di Bruno Contrada, nella prenatalizia del ’92… e tutto il casino che ne scaturì!... In realtà era felice per aver di nuovo, dopo tanto tanto tempo, sentito dire così bene ed in un contesto così importante, del suo adorato fratello, il generale Bruno Contrada.»

Mario Mori è un generale e prefetto italiano. È stato comandante del ROS e direttore del SISDE.

Quel che pensa davvero del gip che l’ha rinviato a giudizio d’imperio nonostante la richiesta d’archiviazione del pm, l’ormai ex ministro all’Agricoltura, Saverio Romano, lo rende noto nel libro-intervista La Mafia addosso (il Borghese editore). Prima, però, fa una premessa a buon intenditor: dal 1991 al 2000 ho fatto di tutto, dal consigliere provinciale al presidente di banca, ero conosciutissimo e mai è girata una chiacchiera. Dal 2001 sono diventato tre volte deputato e parlamentare europeo. A un certo punto, però, arrivano le «delazioni» del pentito Campanella che - sostiene Romano - si annullano coi riscontri in atti, con alcune sentenze e con le delazioni di un altro pentito di Villabate, Mario Cusimano. «Insomma, fino a settembre dell’anno scorso (2010) ero un parlamentare dell’opposizione. Il 29 settembre ho votato la fiducia e a novembre è stato riesumato il mio caso giudiziario, che ormai era un cadavere nel quale non si poteva che chiedere l’archiviazione». Aver fatto da salvagente al governo Berlusconi - dice - è la causa di tutto. Nel libro Romano non va a caccia di colpevoli, ma riserva critiche al gip che ha proceduto con l’imputazione coatta: «In generale, i magistrati non ce l’hanno con me, ma con Berlusconi. La cosa grave è che qualcuno vorrebbe alimentare lo scandalo nei confronti di questo (ex) governo dopo otto anni di indagine e due richieste di archiviazione del mio caso, rimasto tre anni in un cassetto senza che nessuno se ne curasse più. Un caso ormai chiuso, riesumato da un’ordinanza illogico-deduttiva». Proprio così: illogico-deduttiva. «Un’ordinanza che gli esami di magistratura avrebbe provocato la bocciatura del candidato perché è frutto di personalissime convinzioni, legate a una realtà virtuale, che solo questo giudice è riuscito a partorire». E giù con gli esempi, a cominciare dalle frequentazioni con mafiosi, tipo Guttadauro, «che le carte dei pm dimostrano non esserci mai state (...)». L’unico «persuaso dell’incontro con Guttadauro è il gip, ma solo sulla base di un suo convincimento personale formato su mere illazioni e smentito da tutti gli elementi acquisiti». L’ex ministro non parla di malafede del gip Castiglia. Però non può far a meno di notare che «è stato iscritto ai Verdi e Md, dove non hanno una buona opinione di Berlusconi. Non lo dico io, ma è lui stesso a dirlo. Basta andare su alcuni blog e leggere come si è espresso nei confronti del governo e dei suoi provvedimenti». In un intervento pubblico in materia di intercettazioni, il 10 giugno 2008, su toghe.blogspot.com Castiglia «osanna un post» dove si dice che «il terrore delle intercettazioni è un problema che hanno solo i potenti e i corrotti» e poi che la legge «è la prima vera legge vergogna che riguarda i processi di Berlusconi». In un altro blog, il 15 novembre 2009, il gip loda uno studente che prende di petto l’allora Guardasigilli Alfano («complimenti, complimenti, complimenti») poi sottoscrive un duro «appello per la giustizia civile» di Md contro la riforma dell’ordinamento giudiziario. «Non voglio dimostrare la sua acrimonia verso di me - chiosa Romano - però poi leggo un’altra sua ordinanza su tizio che inequivocabilmente partecipa a un vertice di Cosa nostra, e ne archivia il caso perché partecipare a un summit mafioso non equivale a essere mafioso. Per me, invece, pur non avendo uno straccio di prova di un mio semplice contatto con la mafia, ha chiesto l’imputazione coatta».

PALERMO: DALLA MASSONERIA ALLA MAFIA.

Da quanto si apprende da “La Repubblica” la struttura organizzativa della massoneria italiana subisce una radicale mutazione durante il Risorgimento. L'esoterismo e la speculazione filosofica sono messi in secondo piano sovrastati dai processi politici e sociali di costruzione dell'Unità d'Italia. Il nuovo corso massonico in Sicilia nasce con la scelta di Garibaldi di fondare nel 1860 il "Supremo Consiglio Grande Oriente d'Italia di rito scozzese antico e accettato Valle dell'Oreto sedente all'Oriente di Palermo" assumendone la guida (in una sola seduta è investito di tutti i gradi del Rito Scozzese, dal 4° al 33°). Il progetto è di creare un soggetto politico che, facendo perno su Palermo, supporti il processo che porterà all'unità d'Italia con Roma capitale. Il gran maestro Garibaldi, infatti, in un suo decreto del 1865 ribadisce che il Grande Oriente d'Italia ha «sede provvisoria a Palermo, finché Roma non sia capitale degli Italiani». I massoni siciliani, sotto l'attenta regia di Crispi, plaudono formalmente al progetto di Garibaldi, ma, di fatto, si rendono conto che non possono essere il motore dell'unificazione dei liberi muratori italiani e preferiscono ripiegare sulla dimensione regionale consolidando una struttura alla quale si affida la costruzione del consenso elettorale di Crispi e del partito democratico. È quanto emerge dalla lettura di alcuni fascicoli dell'archivio dell'Oriente palermitano ritrovati casualmente e contenenti una documentazione che va dal 1861 al 1900. Il braccio operativo di Francesco Crispi, maestro venerabile ad vitam 33, a Palermo è Giovan Battista Chianello barone di Boscogrande, maestro venerabile 33 della Loggia Centrale, non solo consigliere provinciale e comunale, ma anche responsabile della segreteria elettorale del presidente del Consiglio. La sua capacità organizzativa è messa alla prova soprattutto nelle elezioni anticipate del 1892: Crispi e il suo gruppo sono in affanno in quanto gli avversari si battono contando sull'appoggio dei presidenti del Consiglio Rudinì prima e Giolitti poi. Boscogrande agisce, in continuo contatto epistolare e telegrafico con Crispi, con grande accortezza raccordando l'impegno dei fratelli con quello dei profani. Sul fronte della massoneria il 28 maggio 1892 organizza un incontro con il maestro venerabile Francesco Crispi 33° presso «il punto geometrico accessibile solo ai liberi muratori regolari della Massoneria universale» (Tempio massonico), posto in via Biscottari nel palazzo Conte Federico, alla presenza dei fratelli delle Logge: Centrale (maestro venerabile Chianello di Boscogrande 33°), Alighieri (maestro Carmelo Trasselli 33°), Risveglio (Giovanni Lucifora 33°), Triquetra (Giuseppe Masnata 30°), Ercta (Francesco Paolo Tesauro 30°), Cosmos (Giorgio Maggiacono 18°). La lettura del resoconto degli interventi della serata fornisce un vivido ritratto delle posizioni politiche sia di Crispi sia dei massoni che operano su Palermo. Boscogrande, inoltre, organizza comitati, promuove banchetti elettorali come quello che si svolgerà all' hotel delle Palme con presenze significative come quelle di Girolamo Ardizzone direttore del Giornale di Sicilia, di Artese direttore del Corriere del Mattino, di Michele Serra direttore dell'Amico del Popolo o dell'avvocato Gioacchino Seminara. L' obiettivo è quello di raccogliere fondi per la campagna elettorale affidandone la tesoreria al fratello massone Napoleone La Farina. Il giorno delle elezioni segue lo spoglio e invia il seguente telegramma a Crispi: «Congratulazioni auguri sinceri a vostra eccellenza rieletto con voti 2138». In realtà, i risultati non sono esaltanti: Crispi è eletto, ma Muratori, altro candidato crispino, soccombe sotto i colpi dello spregiudicato Trabia. Crispi, nel frattempo, si era reso conto che il progetto di Garibaldi di utilizzare l'Oriente palermitano come strumento per il processo di unificazione della massoneria italiana era diventato impraticabile e appoggia il progetto di un Grande Oriente romano al quale aderiscano tutte le altre realtà regionali. Nel 1877 Tamajo, massone di sicura fede crispina (senatore prima e prefetto poi), quale rappresentante della Comunione massonica italiana sedente in Roma, e l'avvocato Pietro Messineo 33, in nome del Grande Oriente d'Italia sedente a Palermo, stipulano un concordato in base al quale l'Oriente di Palermo è dichiarato Sezione del Supremo Consiglio della massoneria italiana sedente in Roma capitale della nazione. Tra le adesioni si trovano numerosi protagonisti della politica palermitana quali il senatore Gaetano La Loggia, l'avvocato Pietro Messineo, Camillo Finocchiaro Aprile, il principe Pietro Vanni di San Vincenzo.

Un altro filone che emerge dalle carte dell'Oriente palermitano è quello relativo alla sua attenzione nei confronti della vita universitaria. Il barone di Boscogrande diventa interlocutore privilegiato del mondo accademico siciliano per due motivi: il primo per interloquire con il Consiglio superiore della pubblica istruzione per la gestione dei concorsi; il secondo per governare i finanziamenti che il Comune e la Provincia di Palermo danno al Consorzio costituito per la realizzazione di laboratori scientifici. Le affiliazioni alla Loggia Centrale di professori universitari sono numerose fra le quale si trova traccia di quella del professor Damiano Macaluso, ordinario di fisica, che si affilia nel settembre del 1888 e ha come garante il confratello 30 professore Gaetano Giorgio Gemmellaro. I massoni Gemmellaro (1874-76 e 1880-83) e Macaluso (1890-93) saranno eletti Magnifici Rettori, mentre Boscogrande, come maestro venerabile della Loggia Centrale, diventa il referente per la gestione degli "affari" universitari. Il vissuto dell'Oriente di Palermo non è soltanto gestione del potere, ma anche scontro politico sul programma, sul processo di riunificazione, sulle alleanze. La spedizione dei Mille spazza via non solo i borbonici, ma anche il vissuto delle logge dei liberi muratori del Settecento siciliano intorno al quale si aggrega la cultura democratica siciliana e il complesso progetto riformatore che fa capo a viceré massoni come Caracciolo e Caramanico.

Garibaldi è colui che apparentemente si carica della responsabilità di avviare il cambiamento, ma, in realtà, queste carte permettono di ipotizzare un'ipotesi di ricerca che veda in Crispi il vero motore del progetto di rifondazione massonica in Sicilia.

Ma cosa ha sviluppato tanto impegno della massoneria in Sicilia?!?

Dalla stampa si apprende che otto persone tra poliziotti, medici, imprenditori, boss e iscritti a logge massoniche sono stati arrestati dai carabinieri di Trapani e Agrigento in diverse città. L'accusa è di essersi accordati per ottenere di ritardare l'iter giudiziario di alcuni processi in cui erano imputati affiliati a cosche delle due città siciliane. I provvedimenti sono stati emessi dal gip del tribunale di Palermo. Gli arrestati, tra i quali figurano un'agente della polizia di Stato, un ginecologo di Palermo, imprenditori di Agrigento e Trapani, un impiegato del ministero della Giustizia in servizio ad una cancelleria della Cassazione e un faccendiere originario di Orvieto, sono tutti accusati di concorso esterno in associazione mafiosa, corruzione in atti giudiziari, peculato, accesso abusivo in sistemi informatici giudiziari e rivelazione di segreti d'ufficio. L'operazione, per la quale sono state anche svolte decine di perquisizioni, è stata denominata "Hiram", vede impegnati anche i carabinieri, non solo di Agrigento e Trapani, ma anche quelli di Palermo, Roma e Terni. Dall'inchiesta emerge che boss mafiosi, grazie all'aiuto di persone appartenenti a logge massoniche, avrebbero ottenuto di ritardare l'iter giudiziario di alcuni processi in cui erano imputati affiliati a cosche di Trapani e Agrigento. L'indagine ha preso il via da accertamenti svolti sulle famiglie mafiose di Mazara del Vallo e Castelvetrano, in provincia di Trapani. Oltre alle perquisizioni controlli vengono svolti anche su conti correnti bancari intestati agli indagati. Avviso di garanzia a un sacerdote. I pm hanno inviato un avviso di garanzia anche a un sacerdote, gesuita, con l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Il religioso vive a Roma. La sua abitazione è stata perquisita. Secondo l'accusa il prete, su indicazione di uno degli indagati, avrebbe predisposto lettere inviate a giudici, al fine di condizionare l'esito di procedimenti penali nei quali erano coinvolti esponenti vicini a Cosa nostra. Il peso e l'autorevolezza del sacerdote che apponeva la sua firma alle lettere inviate ai magistrati, per l'accusa avrebbero influito sull'esito dei ricorsi giurisdizionali proposti a diverse autorità giudiziarie. Perquisiti gli uffici della Cassazione. Nell'ambito della stessa operazione sono state effettuate anche perquisizioni in alcuni uffici della Cassazione. Secondo quanto si apprende da indiscrezioni, fra le persone arrestate vi sarebbe anche un impiegato del ministero della Giustizia in servizio proprio in una cancelleria della Cassazione.

E non è tutto.

Un'analisi organica dei rapporti fra massoneria deviata e cosche mafiose è contenuta nella relazione della Commissione parlamentare antimafia presieduta da Luciano Violante.

"Il terreno fondamentale sul quale si costituiscono e si rafforzano i rapporti di Cosa nostra con esponenti dei pubblici poteri e delle professioni private è rappresentato dalle logge massoniche. Il vincolo della solidarietà massonica serve a stabilire rapporti organici e continuativi". Questo il punto di partenza dell'analisi proposta.

"L'ingresso nelle logge di esponenti di Cosa nostra, anche di alto livello, non è un fatto episodico ed occasionale, ma corrisponde ad una scelta strategica - spiega la Commissione antimafia - Il giuramento di fedeltà a Cosa nostra resta l'impegno centrale al quale gli uomini d'onore sono prioritariamente tenuti. Ma le affiliazioni massoniche offrono all'organizzazione mafiosa uno strumento formidabile per estendere il proprio potere, per ottenere favori e privilegi in ogni campo; sia per conclusione di grandi affari sia per "l'aggiustamento" dei processi, come hanno rivelato numerosi collaboratori di giustizia. Tanto più che gli uomini d'onore nascondono l'identità dei "fratelli" massonici ma questi ultimi possono anche non conoscere la qualità di mafioso del nuovo entrato" (punto 57 della citata Relazione).

Rapporti fra Cosa nostra e massoneria sono comunque emersi anche nell'ambito dei lavori di altre due Commissioni parlamentari d'inchiesta: quella sul caso Sindona e quella sulla loggia massonica P2, che già avevano approfondito la vicenda del finto rapimento del finanziere e della sua permanenza in Sicilia dal 10 agosto al 10 ottobre 1979. Agli atti, le indagini della magistratura milanese e di quella palermitana, che avevano svelato i collegamenti di Sindona con esponenti mafiosi e con appartenenti alla massoneria. Il finanziere era stato aiutato da Giacomo Vitale, cognato di Stefano Bontade, capomafia della famiglia palermitana di Santa Maria di Gesù e da Joseph Miceli Crimi: entrambi aderenti ad una comunione di Piazza del Gesù, "Camea" (Centro attività massoniche esoteriche accettate). 

Nel gennaio 1986 la magistratura palermitana dispone una perquisizione e un sequestro presso la sede palermitana del Centro sociologico italiano, in via Roma 391. Vengono sequestrati gli elenchi degli iscritti alle logge siciliane della Gran Loggia d'Italia di Piazza del Gesù. Fra gli iscritti figurano i nomi dei mafiosi Salvatore Greco e Giacomo Vitale. 

Nel mese di gennaio dello stesso anno, la magistratura trapanese dispone il sequestro di molti documenti presso la sede del locale Centro studi Scontrino. Il centro, presieduto da Giovanni Grimaudo, era anche la sede di sei logge massoniche: Iside, Iside 2, Osiride, Ciullo d'Alcamo, Cafiero, Hiram. L'esistenza di un'altra loggia segreta trova poi una prima conferma nell'agenda sequestrata a Grimaudo, dove era contenuto un elenco di nominativi annotati sotto la dicitura "loggia C". Tra questi, quello di Natale L'Ala, capomafia di Campobello di Mazara.

Nella loggia Ciullo d'Alcamo risultano essere affiliati: Pietro Fundarò, che operava in stretti rapporti con il boss Natale Rimi; Giovanni Pioggia, della famiglia mafiosa di Alcamo; Mariano Asaro.

Nel processo, vari testimoni hanno concordato nel sostenere l'appartenenza alla massoneria di Mariano Agate, capomafia di Mazara del Vallo. 

Alle sei logge trapanesi e alla loggia "C" erano affiliati imprenditori, banchieri, commercialisti, amministratori pubblici, pubblici dipendenti, uomini politici (la Commissione antimafia, nella citata relazione, ricorda come l'onorevole democristiano Canino, nell'estate del '98 arrestato per collusioni con Cosa nostra, abbia ammesso l'appartenenza a quella loggia, pur non figurando il suo nome negli elenchi sequestrati). 

Già nel processo di Trapani e poi successivamente in quello celebrato nel '95 a Palermo contro Giuseppe Mandalari (accusato di essere il commercialista del capo della mafia, Totò Riina) sono emersi contatti fra le consorterie mafiose e massoniche di Palermo e Trapani. Mandalari, "Gran maestro dell'Ordine e Gran sovrano del rito scozzese antico e accettato" avrebbe concesso il riconoscimento "ufficiale" alle logge trapanesi che facevano capo a Grimaudo. 

Le indagini sui rapporti mafia-massoneria continuano. Seppur fra tante difficoltà. L'unica condanna al riguardo, ottenuta dai pm palermitani Maurizio De Lucia e Nino Napoli, riguarda proprio Pino Mandalari, il commercialista di Riina attivo gran maestro. Solo nel febbraio del 2002, è stata sancita in una sentenza la pesante influenza dei "fratelli" delle logge sui giudici popolari di un processo di mafia: la Corte d'assise stava seguendo il caso dell'avvocato palermitano Gaetano Zarcone, accusato di avere introdotto in carcere la fiala di veleno che doveva uccidere il padrino della vecchia mafia Gerlando Alberti. Non è stata facile la ricostruzione del pm Salvatore De Luca e del gip Mirella Agliastro, che poi ha emesso sette condanne: non c'erano mai minacce esplicite, solo garbati consigli a un "atteggiamento umanitario". Questo il volto delle intimidazioni tante volte denunciate. 

Il caso più inquietante di cui si sono occupate le indagini è quello di una misteriosa fratellanza, la Loggia dei Trecento, anche detta Loggia dei Normanni. Il pentito Angelo Siino ha fugato ogni dubbio: il divieto per gli aderenti a Cosa nostra di fare parte della massoneria restò sempre sulla carta. "Le regole erano un po' elastiche - spiega - come la regola che non si devono avere relazioni extraconiugali". Erano soprattutto i boss della vecchia mafia, Stefano Bontade e Salvatore Inzerillo, ad avere intuito l'utilità di aderire alle logge.

Rosario Spatola seppe da Federico e Saro Caro che Bontade "stava cercando di modernizzare Cosa nostra. Vedeva più in là, vedeva la potenza della massoneria, e magari riteneva di potere usare Cosa nostra in subordine, come una sorta di manovalanza". 

Per questo aveva creato una sua loggia. Era appunto la Loggia dei Trecento. Anche Siino riferisce di "averne sentito parlare: si diceva che ne facevano parte parecchi personaggi quali i cugini Salvo, Totò Greco "il senatore" e uomini delle istituzioni. La loggia non era ufficiale e non aderiva a nessuna delle due confessioni, né a quella di Piazza del Gesù né a quella di Palazzo Giustiniani".

Correvano a Palermo i ruggenti anni Settanta. Il pentito Spatola conferma il ruolo di Bontade come gran maestro della Loggia dei Trecento. E spiega: "Ne facevano parte soggetti appartenenti alle categorie più disparate, e per questo era molto potente. E troppa potenza si era creata anche attorno a Stefano Bontade, per questo andava eliminato lui ma anche la loggia". 

Il 23 aprile 1981, Bontade fu ucciso dai corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Ha svelato Spatola che fu proprio Provenzano, capo dell'organizzazione mafiosa, a prendere l'iniziativa di sciogliere la Loggia dei Trecento. Particolare davvero inedito e curioso. Quale autorità aveva mai don Bernardo per intervenire d'autorità su una fratellanza tanto riservata? Forse era massone anche lui? Forse, già allora, aveva ben presenti rapporti e complicità eccellenti che da lì a poco avrebbero fatto a gara per riposizionarsi e ingraziarsi i nuovi potenti?

LE RIVELAZIONI DEI COLLABORATORI DI GIUSTIZIA

Tommaso Buscetta

Nel 1984 parla per la prima volta del rapporto fra mafia e massoneria nel contesto del tentativo golpista di Junio Valerio Borghese del dicembre 1970.

Il collegamento tra Cosa nostra e gli ambienti che avevano progettato il colpo era stato stabilito attraverso il fratello massone di Carlo Morana, uomo d'onore. 

La contropartita offerta a Cosa nostra consisteva nella revisione di alcuni processi.

Leonardo Messina

Sostiene che il vertice di Cosa nostra sia affiliato alla massoneria: Totò Riina, Michele Greco, Francesco Madonia, Stefano Bontade, Mariano Agate, Angelo Siino (oggi collaboratore di giustizia pure lui). Ritiene che spetti alla Commissione provinciale di Cosa nostra decidere l'ingresso in massoneria di un certo numero di rappresentanti per ciascuna famiglia.

Gaspare Mutolo

Conferma che alcuni uomini d'onore possono essere stati autorizzati ad entrare in massoneria per "avere strade aperte ad un certo livello" e per ottenere informazioni preziose ma esclude che la massoneria possa essere informata delle vicende interne di Cosa nostra. Gli risulta che iscritti alla massoneria sono stati utilizzati per "aggiustare" processi attraverso contatti con giudici massoni.

Le conclusioni della Commissione antimafia presieduta da Luciano Violante:
"Il complesso delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia appare essere concordante su tre punti:

- intorno agli anni 1977-1979 la massoneria chiese alla commissione di Cosa nostra di consentire l'affiliazione di rappresentanti delle varie famiglie mafiose; non tutti i membri della commissione accolsero positivamente l'offerta; malgrado ciò alcuni di loro ed altri uomini d'onore di spicco decisero per motivi di convenienza di optare per la doppia appartenenza, ferma restando la indiscussa fedeltà ed esclusiva dipendenza da Cosa nostra;

- nell'ambito di alcuni episodi che hanno segnato la strategia della tensione nel nostro paese, vale a dire i tentativi eversivi del 1970 e del 1974, esponenti della massoneria chiesero la collaborazione della mafia;

- all'interno di Cosa nostra era diffuso il convincimento che l'adesione alla massoneria potesse risultare utile per stabilire contatti con persone appartenenti ai più svariati ambienti che potevano favorire gli uomini d'onore".

Cosa ne è scaturito da tutto ciò?

Alla Regione Sicilia finora si andava dal peculato alla concussione, dal voto di scambio all’intestazione fittizia di beni. Stavolta scattano la frode e l’esercizio abusivo dell’attività finanziaria con gli ultimi due deputati della Regione Sicilia finiti nella maglie di un’inchiesta giudiziaria. Due deputati del Pdl, Roberto Corona in cella e Fabio Mancuso ai domiciliari. Da aggiungere ai 26 già inquisiti fino a ottobre, quando il deputato Mario Bonomo di «Alleati per la Sicilia» risultò indagato per concussione nell’ambito dell’inchiesta in cui era stato già arrestato a marzo il suo ex compagno del Pd Gaspare Vitrano, fermato mentre intascava una mazzetta di dieci mila euro da un imprenditore del fotovoltaico.

Si sta per sfiorare così il record del 30 per cento di inquisiti nel parlamento più antico del mondo dove il presidente Francesco Cascio cerca di spingere il dibattito e il disegno di legge sulla riduzione degli “onorevoli” siciliani da 90 a 70. Ma intanto lo spettacolo è sempre più indecoroso nella regione che ha visto condannare per mafia il governatore Totò Cuffaro e che da un anno e mezzo è in fibrillazione per il suo successore, Raffaele Lombardo, indagato per favori alla mafia dalla procura di Catania che ne ha poi chiesto l’archiviazione.

Si arriva al paradosso che i finanzieri della Polizia Valutaria in collaborazione con lo Scico notifichino un ordine di custodia ai domiciliari a un loro ex collega, appunto Fabio Mancuso, un tempo maresciallo della Guardia di Finanza impegnato nella caccia alle cooperative fasulle e ai dirigenti corrotti. Ormai considerato un problema e non certo una risorsa per le Fiamme Gialle, tre legislature all’Assemblea debbono aver lasciato il segno. Come è accaduto per l’onorevole Vitrano, anch’egli parlamentare da guinness dei primati visto che non s’era mai visto un deputato in “esilio” a Roma, con “obbligo di dimora fuori dalla Sicilia”. Lui fa parte del drappello dei quattro finiti dentro negli ultimi tre anni. Un panorama desolante se si considera che c’è pure chi, come il deputato di Forza del Sud Franco Mineo, è addirittura ritenuto prestanome dei boss del quartiere palermitano dell’Acquasanta.

"LO STATO": MAFIOSO, PAVIDO E BUGIARDO.

LA VERSIONE DEL GENERALE E PREFETTO MARIO MORI.

La vera storia di un grande carabiniere sotto processo, Mario Mori, raccontata da Claudio Cerasa, tratta da “Il Foglio”.

Se Leonardo Sciascia avesse conosciuto il generale Mario Mori prima di scrivere “Il giorno della civetta” il suo capitan Bellodi non sarebbe stato un giovane poliziotto con gli occhi chiari, i capelli scuri, il viso tirato e l’accento emiliano, ma sarebbe stato piuttosto un piccolo brigadiere triestino con i capelli bianchi, i baffi corti, la voce bassa, gli occhi azzurri, un curriculum da sballo, il vaffanculo facile facile e sei numeri che hanno cambiato la sua vita: 2789/90. Quelle del generale Mori e del capitan Bellodi sono due storie che viaggiano su binari paralleli: un uomo sceso dal nord per andare in Sicilia disposto a rompersi la testa per combattere la mafia, e che dopo essere riuscito ad arrestare il più temuto dei capi-cosca improvvisamente si ritrova contro ora i politici, ora gli avvocati, ora i magistrati, ora i giudici, ora le procure e ora naturalmente i giornali. E i giornali ne riparleranno presto del generale, e c’è da scommettere che non ne parleranno bene. Il 16 giugno del 2008 la procura di Palermo ha aperto un’indagine contro Mori per “favoreggiamento aggravato” a Cosa Nostra, e gran parte dei prossimi anni il generale le dedicherà a quel processo.

Di che cosa è accusato il capitan Bellodi? La procura di Palermo ha indagato Mori come responsabile della mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995, ma il processo per favoreggiamento nasconde una storia molto particolare. A Mori è successa la stessa cosa capitata all’eroe di Sciascia: si è ritrovato di fronte a qualcuno che vuole riscrivere la storia di un periodo cruciale per l’Italia e che vuole offrire a uno dei protagonisti di quei giorni la parte dell’antagonista brutto, sporco, cattivo e, perché no?, pure compromesso. Il processo a Mori è un modo come un altro per tentare di dimostrare che una parte della stagione delle stragi, nel 1992, in particolare quella che coinvolse il giudice Paolo Borsellino, fu causata dallo stesso generale che “voleva a tutti i costi trattare con la mafia”. Ma molti non conoscono un particolare. In quegli anni Mori iniziò a raccogliere i suoi giorni in 29 agende a righe con la copertina rigida: dagli anni 80 a oggi non c’è appuntamento che Mori non abbia segnato su questi fogli, e dalla lettura di quelle pagine, tenute segrete per molto tempo, emergono delle verità molto interessanti.

Roma, due dicembre 2009. Mario Mori siede dietro la scrivania al terzo piano di un ufficio che si affaccia a strapiombo su Piazza Venezia: ha lo sguardo vispo, gli occhi un po’ scavati, i capelli tagliati corti, le mani distese poggiate sulle cosce e un libricino aperto a pagina 37 con una “x” segnata a matita accanto a un aforisma di uno degli scrittori più amati dal generale, Giacomo Leopardi. Il dettato piace molto a Mori: “La schiettezza allora può giovare, quando è usata ad arte, o quando, per la sua rarità, non l’è data fede”.

Il generale accetta di riceverci nel suo piccolo studio privato e inizia a raccontare come è cambiata la sua vita. Sono tante le ragioni per cui la carriera di Mori risulta affascinante ma vi è un aspetto che rende la sua storia molto significativa. Ed è la prima cosa che ti colpisce quando ti ritrovi di fronte a lui: ma come è possibile che un super sbirro, un grande carabiniere che ha acciuffato i capi di Cosa Nostra, che ha messo in galera tipacci come Totò Riina e che ha contribuito a smantellare numerose cupole mafiose sia, e sia stato, processato con le stesse accuse degli stessi criminali che per anni ha perseguito e arrestato? Vuoi vedere che forse c’è qualcosa, qualcosa della sua vita, qualcosa dei suoi anni a Palermo, qualcosa della sua esperienza al Sisde, che sfugge ai grandi accusatori di Mario Mori? Mori si è chiesto più volte le ragioni per cui la magistratura siciliana gli si è accanita contro, il perché di quelle pesantissime inchieste costruite con le parole di pentiti non proprio affidabili, i motivi per cui, dovendo scegliere se credere alle sue parole o a quelle di un pentito, i pm tendano a dare retta al secondo anziché al primo. E quando glielo chiedi il generale Mori che fa? Alza un po’ lo sguardo, gioca con i polsini della camicia, si dà un colpetto all’indietro sulla poltrona, allarga le braccia e poi sussurra: “Non so. Davvero. Proprio non so”.

A Roma il generale c’è tornato: alla fine del 2008 il sindaco Gianni Alemanno gli ha offerto la direzione delle Politiche della sicurezza della Capitale e Mori ha accettato di tornare in quella città dove ha studiato per cinque anni al liceo classico (era al Virgilio nella sezione C negli stessi anni in cui Adriano Sofri era nella sezione D), dove ha seguito le lezioni dell’accademia delle Armi, dove ha lavorato con il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e da dove ha iniziato a costruire la sua carriera, diventando nel corso degli anni prima comandante del gruppo carabinieri di Palermo (dal 1986 al 1990), poi comandante dei Ros (dal ’96 al 2000) e infine numero uno del Sisde (fino al 2006). Sono proprio questi – gli anni del Sisde, gli anni dei servizi segreti, gli anni in cui condusse le indagini sulla morte di Massimo D’Antona, sull’omicidio di Marco Biagi, sulle conseguenze italiane dell’undici settembre – i tempi in cui Mori rimase affascinato da alcune sottili ma importanti differenze tra il combattere la mafia e combattere il terrorismo. Mori era sorpreso dalla capacità di fare gruppo dei brigatisti, e da quel loro cerchio chiuso, quasi impenetrabile. Nei brigatisti – racconta Mori – vi era un livello culturale superiore alla media della criminalità e il loro era un legame ideologico non un legame familistico, di cosca o di sangue.

Era proprio per questo che Mori riteneva fosse più semplice combattere il terrorismo piuttosto che Cosa nostra. “La mafia è come un tumore che si autoriproduce: è un mondo che resiste da molto tempo non tanto per la sua forza ma perché è una forma di costume che è legata a certe forme di cultura. I poliziotti e i magistrati potevano e possono arrestare tutti i mafiosi del mondo ma l’unico modo per distruggere alle radici la mafia – come già scritto anche da Marcelle Padovani in Cose di Cosa Nostra – è il tempo, la trasformazione dei costumi, la rivoluzione della cultura”. “Le Brigate rosse e tutte le forme di terrorismo italiane sono state invece una cosa diversa: una malattia circoscritta difficile sì da individuare ma per cui una cura esisteva: bastava solo trovarla”. Quando nella primavera del 2001 Claudio Scajola, ministro dell’Interno per un anno, chiamò Mario Mori per comunicargli che Silvio Berlusconi lo aveva appena nominato a capo dei servizi segreti, il generale pensava fosse uno scherzo. E lo credeva per due ragioni.

La prima è che il presidente del Consiglio che l’aveva appena scelto Mori non lo aveva mai visto prima, se non una sera alla fine di una cena a Monza. La seconda era invece una ragione caratteriale. Il generale sostiene che le tecniche strategiche di chi lavora nell’arma e di chi lavora nell’intelligence presentano pochi punti di contatto, e offrire dunque a uno sbirro la gestione dell’intelligence nazionale, in teoria, potrebbe nascondere alcune difficoltà non solo metodologiche. “Siete pazzi! – disse senza neanche scherzare troppo Mori a Scajola – io di intelligence non ne so nulla, al massimo, se volete, potrei guidare il Sismi”.

Racconta chi con Mori al Sisde ha lavorato a lungo che “il modo più semplice per spiegare i due diversi approcci alla criminalità che hanno forze dell’ordine e intelligence è che il poliziotto spera di catturare Osama bin Laden mentre l’uomo di intelligence, semplicemente, spera di acquisirlo come fonte. Sono due piani paralleli che non si vanno mai a incontrare. Perché l’immagine del James Bond che si arrampica sulle gru per sconfiggere le forze del male non esiste. Semmai, il rischio maggiore per un uomo di intelligence che passa le giornate a colazione, a pranzo e a cena per coltivare le fonti è quello di prendersi una cirrosi epatica”. Mori ha sempre sostenuto che individuare un grosso criminale, pedinarlo, poterne seguire le tracce e circoscriverne il raggio d’azione nasconde un problema non da poco. Che si fa? Si arresta subito il bandito o lo si segue per un po’ usandolo come esca per intrappolare nella rete della giustizia tutto ciò che lo circonda? Mori non lo confesserà mai, ma tra la prima e la seconda opzione lui sotto sotto ha sempre preferito la seconda.

Chi ha vissuto a lungo a fianco di Mario Mori racconta che quando il generale arrivò al Sisde fu rivoluzionata l’intera impostazione del lavoro. Prima di Mori, i servizi segreti tendevano a lavorare con quella che in gergo è definita “pesca a strascico”: una gigantesca rete che intrappola tutti i pesci, grandi e piccoli, che nuotano nel raggio d’azione dell’intelligence. Quando Mori arrivò al Sisde spiegò che la pesca doveva diventare subacquea. Perché la tecnica a strascico – era questa l’idea del generale – funziona quando un servizio segreto dispone di centinaia di migliaia di uomini, ma quando il numero delle truppe è parecchio inferiore la raccolta di informazioni deve essere più precisa, più mirata. E così, non appena arrivato, Mori scrisse un libriccino di cento pagine di procedura investigativa, lo fece pubblicare e lo inviò ai dirigenti dei servizi. A poco a poco, i risultati iniziarono ad arrivare.

Negli anni passati al Sisde c’è un arresto particolare che il generale ricorda più degli altri. Il 13 luglio 1979 una scarica di pallettoni sparati da un’auto in corsa ferì a morte il comandante del Nucleo carabinieri del tribunale di Roma Antonio Varisco; e quel comandante Mori lo conosceva molto bene. Per anni e anni, i servizi segreti italiani hanno tentato di arrestare il killer, e il 15 gennaio del 2004 il Sisde diede istruzione a venti poliziotti egiziani di fermare due persone all’aeroporto del Cairo: i nomi erano quelli di Rita Algranati e Maurizio Falessi, ricercati, tra le altre cose, per l’omicidio di Varisco. Fu uno dei giorni più gratificanti della carriera del generale. Il perché lo spiega lui stesso: “Non dobbiamo essere sciocchi. Chi dice che la pretesa punitiva dello stato non esiste non capisce nulla. Quel giorno passò un messaggio molto importante. Fu un arresto chiave per disgregare la rete terroristica ma fu un anche un segnale chiaro: ci sono alcuni reati che più degli altri non possono essere impuniti. E uccidere un carabiniere è esattamente uno di quelli”.

Gli anni che però formarono davvero il generale Mori furono altri. Furono quelli che trascorse in Sicilia: prima nel nucleo provinciale dei carabinieri e poi nei Ros. Non appena arrivato a Palermo, il generale comprese subito quanto fosse importante riuscire a creare una sorta di sintonia linguistica tra sbirri e mafiosi. Mori ci riuscì, ma solo dopo aver preso una piccola batosta. La prima lezione per Mori arrivò da un piccolo appartamento sulla costa occidente della Sicilia: ad Altavilla. Dopo aver ricevuto la notizia della morte di un carabiniere, i suoi uomini andarono sul posto, entrarono con i guanti di paraffina dentro una vecchia casa colonica, perquisirono le stanze, fecero perizie, raccolsero più notizie possibili e interrogarono molti testimoni: la maggior parte dei quali diceva di non aver visto nulla. Alla fine della giornata, Mori si ritrovò a parlare con un vecchio abitante del paese che al termine del colloquio – a lui che era un triestino con mamma casalinga emiliana, padre ufficiale dei carabinieri a La Spezia, bisnonni inglesi e, come ama ripetere il generale, una formazione culturale sfacciatamente mitteleuropea – gli disse: “Piemontese, chi minchia voi da noi?”. Quelle parole Mori se le ricorderà a lungo e il significato profondo dell’essersi sentito dare del piemontese lo comprese poco più avanti quando fu nominato comandante del primo comando territoriale di Palermo.

Mori ricorda infatti che in quegli anni capitava spesso che la notte le pareti della caserma non trattenessero le parole degli sbirri che interrogavano i mafiosi, e ascoltando quei dialoghi, dagli accenti così marcatamente differenti, si rese improvvisamente conto che in quel nucleo operativo che lavorava nella Sicilia occidentale, beh, il più meridionale tra i suoi colleghi era un campano. Non parlare il linguaggio della Sicilia, e più in particolare non entrare a fondo nel lessico dei mafiosi, secondo il generale era il modo migliore per non capire come portare avanti un’indagine, e questo Mori se lo mise bene in testa: lavorò molto sulla sua pronuncia, iniziò a studiare il siciliano e alla fine ottenne buoni risultati, riuscendo a poco a poco a entrare sempre di più a contatto anche con la grammatica della mafia.

“In quegli anni – racconta un uomo che ha lavorato a lungo a fianco di Mori nei Ros – il generale diceva che far proprio il linguaggio dei mafiosi significava non solo avere le carte in regola per lavorare con maggiore efficienza ma anche avere la possibilità concreta di salvare con un certo successo il culo.

Le lezioni di Mori erano due. Lui, che aveva imparato a non fidarsi eccessivamente dei collaboratori di giustizia, diceva che per definizione il pentito mafioso va preso con le pinze perché un pentito resta sempre un mafioso, e alla fine – qualsiasi cosa ti dirà e qualsiasi verità racconterà – in un modo o in un altro tenterà sempre di compiere un atto utilitaristico per la sua famiglia. La seconda cosa che ripeteva era che il mafioso ti faceva ammazzare solo quando il, chiamiamolo così, rapporto tra sbirri e criminale diventava un rapporto personale: tra me e te. Per questo, Mori ci diceva che tu puoi umiliare un mafioso magari ammanettandolo davanti a una moglie, ma non era il caso di farlo quando veniva acciuffato nel cuore della sua vera intimità: per esempio davanti alla sua amante”.

Il più grande successo ottenuto da Mori arrivò il 15 gennaio 1993 di fronte al numero 54 di via Bernini, a Palermo, quando il generale fece arrestare lui, il capo dei capi: Totò Riina. Paradossalmente, però, accadde che l’arresto del mafioso più ricercato al mondo coincise con la proiezione delle prime ombre attorno alla carriera del generale. Tutto cominciò poco dopo l’arresto. Per quindici giorni, l’abitazione del boss corleonese non fu perquisita e in molti sostennero che la mancata perlustrazione di quelle stanze fosse un modo come un altro per dare la possibilità ai mafiosi di ripulire l’abitazione e cancellare le proprie tracce. Mori – ricordando che le indagini vengono sempre coordinate dalla procura e che qualsiasi imput, prima ancora che dai capi dell’arma, deve arrivare da lì – sostiene che fu la procura a non dare l’ordine di perquisire, ma nonostante ciò nel 1997 la procura di Palermo aprì un’inchiesta sulla vicenda a carico di ignoti, “per sottrazione di documenti e favoreggiamento”.

L’indagine andò fino in fondo: nel 2002 i magistrati chiesero l’archiviazione ma il gip dispose nuove indagini. Due anni dopo stessa storia: i pm chiesero ancora una volta l’archiviazione, ma questa volta lo fecero in un modo originale: poche paginette per chiedere di archiviare e cento pagine per picchiare duro sull’indagato. A firmare quella richiesta furono i pubblici ministeri Antonio Ingroia e Michele Prestipino, che chiesero di chiudere il caso con queste concilianti parole: gli indagati, non perquisendo per diversi giorni il covo, “fornirono ai magistrati indicazioni non veritiere o comunque fuorvianti”. Inoltre, la sospensione dell’attività di osservazione del covo “determinerà un’obiettiva agevolazione di Cosa nostra”. Il nome di Mario Mori entra così nel registro degli indagati il 18 marzo 2004: pochi mesi più tardi – era il 18 febbraio 2005 – Mori e il suo braccio destro Sergio De Caprio (Capitano Ultimo, l’ufficiale dei carabinieri che ha lavorato a lungo a fianco del generale e che il 15 gennaio 1993 ammanettò Totò Riina) vengono rinviati a giudizio e un anno dopo il processo si conclude con un’assoluzione.

Tutto finito? Macché.  

Dopo essere stato assolto dall'accusa di favoreggiamento aggravato per non aver perquisito l’abitazione – e non il covo, che è cosa diversa – in cui è stato arrestato Salvatore Riina, Mori si trova costretto a difendersi da altre accuse. E da una in particolare. Perché il generale non ci gira attorno, e quando ha saputo di essere indagato ancora una volta per favoreggiamento dice che è stato certamente quello il giorno più brutto della sua vita: perché è come se la procura lo avesse sostanzialmente accusato di essere stato la causa scatenante della strage di via D’Amelio.

Nel processo in cui Mori dovrà difendersi in aula, il principale testimone dell’accusa è il colonnello dei carabinieri Michele Riccio. L’eroe della procura di Palermo, nonché principale testimone del processo contro il generale Mori, è però un personaggio dal passato molto controverso. Controverso perché il grande accusatore di Mori è uno degli uomini che fu denunciato dallo stesso generale. La storia è nota ma può essere utile ricordarla. Il generale Mori contribuì all’arresto di Riccio e fu uno dei primi a denunciare i reati commessi dal colonnello a metà degli anni 90. All’origine dei guai di Riccio vi fu la famosa Operazione Pantera. In quell’occasione – erano gli anni 90 – fu sequestrata una partita di pesce congelato da 33 tonnellate. Nascosto tra il pesce vi erano 288 chili di cocaina proveniente dalla Colombia. Tre mesi dopo il pesce fu venduto sottobanco dai carabinieri per 54 milioni.

L’operazione Pantera costò a Riccio due reati. Non soltanto contrabbando aggravato ma anche detenzione e cessione di stupefacenti: perché nel corso dell’operazione, secondo l’accusa, il colonnello occultò cinque chili di cocaina sottratti alla distruzione del reperto da uno dei suoi uomini (si chiamava Giuseppe Del Vecchio). Così, dopo essere stato condannato in primo grado a 9 anni e mezzo e poi, in secondo grado, a 4 anni e 10 mesi, nel 2001 Riccio chiese di essere sentito dal pm Nino Di Matteo su “gravi fatti riguardanti la mancata cattura di Provenzano e la morte di Luigi Ilardo”. E’ una storia complicata quella di Riccio: l’ex colonnello sostiene che nel 1995 il suo confidente Ilardo (trovato morto pochi mesi dopo) offrì la possibilità di catturare Bernardo Provenzano; racconta che i suoi uomini avrebbero seguito Ilardo fino al bivio di Mezzojuso – un piccolo comune di 3.711 abitanti a 34 chilometri da Palermo – che si sarebbero appostati in attesa del via libera e che Mori disse di non voler agire. Mentre – dice Riccio – noi “eravamo pronti e non ci voleva una grande scienza per intervenire”. Le deposizioni di Riccio sono però contestate. Uno dei testimoni dell’accusa, l’ufficiale dei carabinieri Antonio Damiano che nel ’95 prestava servizio al Ros di Caltanissetta, ha raccontato una versione diversa.

Damiano sostiene infatti di essere stato incaricato da Riccio di effettuare “un’osservazione con rilievi fotografici” al bivio di Mezzojuso, ma il punto è che in quello che Riccio considera il mancato arresto di Provenzano non solo era già stato concordato preventivamente che l’operazione avrebbe avuto la finalità di studiare il territorio, ma il grande accusatore di Mori, nonostante la relazione di servizio di quel giorno riportasse la sua presenza, in realtà – lo ammette Damiano – non era affatto presente: era rimasto in ufficio. Ad ogni modo, le parole di Riccio hanno offerto alla procura la possibilità di fare due calcoli rapidi rapidi: la mancata perquisizione del covo di Riina nel 1993 più la mancata cattura di Provenzano nel 1995 sarebbero “strettamente connesse” alla presunta trattativa tra apparati dello stato e Cosa nostra. E’ proprio questa la tesi di uno degli uomini che alla fine di gennaio verrà ascoltato come teste dell’accusa nell’aula bunker del carcere Ucciardone: Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo Vito. Tesi che in sostanza si potrebbe riassumere così: Borsellino sarebbe stato ucciso dopo che il giudice venne a conoscenza della trattativa portata avanti tra la mafia e lo stato condotta in prima persona da suo padre e dal generale Mori. Borsellino era contrario alla trattativa e per questo, per evitare problemi, la mafia lo fece saltare in aria.

La cronaca di quei mesi offre, però, una storia un po' diversa e gran parte della verità di tutta la vicenda sembrerebbe proprio girare attorno a quel codice lì: 2789/90. Il codice fa riferimento a una delle inchieste più delicate che le forze dell’ordine portarono avanti durante gli anni 90 in Sicilia. Tutto nacque nel corso del 1989: in quegli anni Mori era già a capo del gruppo dei carabinieri di Palermo e sotto la direzione di Giovanni Falcone avviò l’inchiesta sul sistema di condizionamento degli appalti pubblici da parte di Cosa nostra. Il primo plico contenente le informative sull’indagine fu consegnato il 20 febbraio del 1991 da Mori al procuratore aggiunto di Palermo Giovanni Falcone. Ancora oggi Mori ricorda che “Giovanni sollecitò insistentemente il deposito dell’informativa rispetto ai tempi che ci eravamo prefissati per una ragione semplice: perché – diceva Falcone – non tutti vedevano di buon occhio l’indagine, e alcuni sicuramente la temevano”. In quei giorni, il giudice stava però per essere trasferito alla direzione degli affari penali del ministero della giustizia, e da Palermo dunque si stava spostando a Roma. Ma quell’inchiesta – ricorda il generale – lui voleva seguirla lo stesso e per questo Mori continuò a mantenere i contatti con Falcone. E fu proprio il giudice a riferire al generale che l’inchiesta “Mafia e appalti” non interessava più di tanto al nuovo procuratore della Repubblica di Palermo Pietro Giammanco. Era davvero così?

Fatto sta che al termine dell’inchiesta “Mafia e appalti” i Ros di Mori avevano evidenziato 44 posizioni da prendere in esame per un provvedimento restrittivo, ma il 7 luglio del 1991 la procura ottenne soltanto cinque provvedimenti di custodia cautelare. Mori si arrabbiò e chiamò subito Falcone. La reazione del giudice è riportata dai diari consegnati alla giornalista di Repubblica Liana Milella, e fu questa: “Sono state scelte riduttive per evitare il coinvolgimento di personaggi politici”. Non solo. Pochi giorni dopo che Mori e il suo braccio destro Giuseppe De Donno consegnarono il rapporto alla procura di Palermo vi fu una fuga di notizie. De Donno ne venne a conoscenza attraverso il suo informatore Angelo Siino (il così detto ex ministro dei Trasporti pubblici di Cosa nostra) che raccontò ai Ros di aver saputo dell’inchiesta da fonti vicine alla procura. “Mai come in quei mesi – racconta Mori – ebbi la sensazione di agire da solo e senza referenti certi a livello giudiziario”. Successivamente, ci furono altre due valutazioni che fecero infuriare il capitano dei Ros. La prima fu quando il Tribunale del riesame consegnò agli avvocati difensori degli indagati e degli arrestati non uno stralcio dell’informativa relativa ai singoli indagati, come da prassi, ma qualcosa di più: ovvero tutte le 890 pagine di testo. “In quel modo – ricorda Mori – furono svelati i dati investigativi fino a quel momento posseduti dall’inquirente e furono chiare le direzioni che le indagini stavano prendendo”.

La seconda fu quando la procura di Palermo – ravvisando la competenza sul caso di più procure – inviò i fascicoli in mezza Sicilia ottenendo il risultato di moltiplicare il numero di occhi che osservavano da vicino quell’inchiesta. Ecco: secondo Mori il filo che lega le stragi di quell’anno – l’anno in cui furono uccisi nel giro di poche settimane prima Falcone e poi Borsellino e poi ancora un comandante della sezione di Perugia che insieme con i Ros aveva iniziato a lavorare su “Mafia e appalti”: Giuliano Guazzelli – sarebbe legato all’attenzione che Mori e Borsellino credevano fosse opportuno dare a quell’inchiesta, a quel codice maledetto. Poco prima di essere ucciso, infine, Borsellino partecipò a un incontro molto importante. Era il 25 giugno 1992 e il magistrato convocò in gran segreto nella caserma di Palermo – dunque negli uffici dei Ros – Mario Mori e il capitano De Donno. Borsellino confessò ai due che riteneva fondamentale riprendere l’inchiesta “Mafia e appalti”. Perché – sosteneva Borsellino – quello “era uno strumento per individuare gli interessi profondi di Cosa nostra e gli ambienti esterni con cui essa si relazionava”. Qualche anno più tardi, nel novembre 1997, nel corso di un’audizione alla Corte d’assise di Caltanissetta, a confermare che Paolo Borsellino credeva che studiando il filone “Mafia e appalti” si poteva giungere “all’individuazione dei moventi della strage di Capaci” fu uno dei pm che oggi indaga su Mori: il dottor Antonio Ingroia.

Le ragioni per cui l’incontro nella caserma dei carabinieri di Palermo fu mantenuto segreto vennero ammesse in quelle ore dallo stesso Borsellino. Ricorda Mori che Borsellino “non voleva che qualche suo collega potesse sapere dell’incontro”. “E nel salutarci – prosegue Mori – il dottor Borsellino ci raccomandò la massima riservatezza sull’incontro e sui suoi contenuti, in particolare nei confronti dei colleghi della procura della Repubblica di Palermo”. Secondo il generale, in quei giorni Borsellino era molto preoccupato per una serie di fatti accaduti. Uno in particolare era legato a una data precisa. Il 13 giugno 1992 uno dei mafiosi arrestati dalla procura di Palermo nell’ambito dell’inchiesta “Mafia e appalti” – il geometra Giuseppe Li Pera – si mise a disposizione degli inquirenti dicendo di essere disposto a svelare “gli illeciti meccanismi di manipolazione dei pubblici appalti”, ma i magistrati di Palermo risposero dicendo di non essere interessati. “Sì, è vero: i fatti di quei tempi – ricorda Mori – mi portarono a ritenere che anche una parte di quella magistratura temesse la prosecuzione dell’indagine che stavamo conducendo”.

Pochi giorni dopo l’attentato in cui rimase ucciso Paolo Borsellino, Mori iniziò a stabilire contatti con l’uomo che all’epoca impersonificava meglio di tutti la sintesi perfetta dei legami collusivi tra mafia, politica e imprenditoria: l’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino. Tra il 5 agosto e il 18 ottobre 1992, Ciancimino e Mori si incontrarono quattro volte (prima di quella data con Ciancimino vi furono dei contatti preliminari del braccio destro di Mori, De Donno) e iniziarono così a costruire un rapporto confidenziale senza renderlo però noto alla procura di Palermo. Mori non comunicò subito i contatti che aveva stabilito con Ciancimino per tre ragioni. Primo perché – e lo dice la legge – i confidenti delle forze dell’ordine non devono essere necessariamente rivelati alla procura. In secondo luogo – e queste sono parole di Mori – fu fatto “per evitare premature e indesiderate attenzioni sulla persona e per tentare di acquisire elementi informativi sicuramente nella disponibilità del Ciancimino e cercare di giungere a una piena e formale collaborazione”. Infine, è ovvio: se ci fosse stato Borsellino, dice Mori, “glielo avrei detto subito”. Ma quando Mori parlò con Ciancimino, Borsellino era già stato ammazzato.

Nonostante in molti sostengano che Mori avesse mantenuto a lungo segreti quei colloqui, in realtà gli incontri tra Mori e Ciancimino non sono una novità di oggi. Nell’autunno 1993 fu lo stesso Mori a raccontare all’allora presidente della Commissione antimafia Luciano Violante non soltanto dei suoi incontri con Ciancimino ma anche della volontà di quest’ultimo di essere ascoltato dalla commissione. Mori lo disse più volte a Violante e ogni volta che Violante se lo sentiva ripetere gli rispondeva più o meno allo stesso modo. Ponendo una condizione: “L’interessato – disse Violante il 20 ottobre 1992 nel corso di un incontro riservato con Mori – deve presentare un’istanza formale a riguardo”. Il 29 ottobre 1992, quindi, Violante convocò la commissione per spiegare qual era il suo programma di lavoro sulla materia che riguardava le inchieste sulla mafia e la politica. Nel verbale di quella seduta, tra le altre cose, si legge quanto segue: “E’ necessario sentire quei collaboratori che possono essere particolarmente utili”.

Violante fece un lungo elenco di “collaboratori”, e tra questi c’era anche Vito Ciancimino. Ecco però il giallo: giusto tre giorni prima che Violante riunisse la commissione, Ciancimino si decise a scrivere una lettera. Una lettera datata 26 ottobre 1992 indirizzata a Roma, alla sede della commissione antimafia di Palazzo San Macuto. In calce alla lettera – che negli archivi della commissione sarà registrata solo diversi anni dopo con il numero di protocollo 0356 – c’è la firma di Vito Ciancimino. Il quale sostiene di essersi messo a disposizione della commissione già dal 27 luglio 1990, e di aver ormai accettato le condizioni che aveva posto per l’audizione il predecessore di Violante (Gerardo Chiaromonte): audizione sì ma senza quella diretta televisiva che secondo Ciancimino era necessaria per essere “giudicato direttamente e non per interposta persona”. Scrive l’ex sindaco di Palermo: “Sono convinto che questo delitto (quello di Lima, ex sindaco di Palermo ed ex eurodeputato della Democrazia cristiana che il 12 marzo 1992 fu ucciso a colpi di pistola di fronte la sua villa di Mondello) faccia parte di un disegno più vasto. Un disegno che potrebbe spiegare altre cose, molte altre cose. Ancora oggi sono, pertanto, a disposizione di codesta commissione antimafia, se vorrà ascoltarmi”. Nonostante Violante avesse detto che avrebbe ascoltato Ciancimino solo se questi avesse fatto una richiesta formale alla Commissione, la commissione antimafia ricevette la lettera ma decise di non ascoltarlo.

C’è poi un altro aspetto che della storia di Mori non può essere trascurato. Perché la storia di Mori è l’esempio di come una visione burocratica della lotta alla mafia non contempli la possibilità che un super sbirro possa imparare a combattere il nemico studiandolo, osservandolo da vicino, tentando persino di parlare con il suo stesso linguaggio. E con ogni probabilità il grande peccato originale di Mori è stato quello di essere diventato un simbolo della lotta alla mafia senza aver avuto bisogno di indossare l’abito del professionista dell’antimafia. Anzi, quell’antimafia con cui Mori ha lavorato fianco a fianco per anni è stata spesso ferocemente criticata dallo stesso generale. E sulla testa di Mori la scomunica dell’antimafia palermitana arrivò quando il generale testimoniò nel processo Contrada: l’ex agente del Sisde è stato arrestato il 24 dicembre 1992 con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Quando Mori fu sentito come teste non si scompose affatto e, dopo aver detto che Contrada era il “miglior poliziotto antimafia che abbia mai avuto a Palermo”, il generale disse quello che la procura di Palermo non voleva sentire. Gli chiesero se Giovanni Falcone avesse mai sospettato di Contrada e lui rispose secco così: no. La procura aveva un’altra idea e indagò persino Mori per falsa testimonianza.

Ma dietro alle accuse di connivenza fatte nei confronti del lavoro siciliano di Mori esiste anche un filone di critica culturale di cui ultimamente si è fatto portavoce lo scrittore Andrea Camilleri. La visione burocratica della lotta alla mafia ti trascina spesso anche verso conclusioni molto avventate e ti porta a credere che stabilire contatti con il nemico, studiare da dentro il suo mondo, arrivando persino a parlare il suo lessico, significhi sostanzialmente diventare suo complice. In una recente intervista, Camilleri sostiene che Leonardo Sciascia era molto affascinato da quella mafia che sembrava invece combattere. La dimostrazione pratica è nascosta dietro alcune parole del protagonista del Giorno della civetta. Sempre lui: il capitano Bellodi. “Sciascia – dice Camilleri – non avrebbe mai dovuto scrivere ‘Il giorno della civetta’: non si può fare di un mafioso un protagonista perché diventa eroe e viene nobilitato dalla scrittura. Don Mariano Arena, il capomafia del romanzo, invece giganteggia. Quella sua classificazione degli uomini – ‘omini, sott’omini, ominicchi, piglia ‘n culo e quaquaraquà – la condividiamo tutti. Quindi finisce coll’essere indirettamente una sorta di illustrazione positiva del mafioso e ci fa dimenticare che è il mandante di omicidi e fatti di sangue.

E il fatto che Sciascia faccia dire dal capitano Bellodi a don Mariano mentre lo va ad arrestare ‘Anche lei è un uomo’ è la dimostrazione che in fondo Sciascia la mafia l’ammira e la stima”. La mafia sembra invece che non apprezzò le inchieste portate avanti da Borsellino e da Mori. Pochi giorni dopo aver tentato di accelerare le indagini sull’inchiesta “Mafia e appalti”, in una 126 rossa parcheggiata in via d’Amelio, nel cuore ovest di Palermo, esplosero cento chili di tritolo e uccisero il giudice Borsellino e i suoi cinque agenti della scorta. Era il 19 luglio 1992. Solo un giorno dopo, quando ancora la camera ardente di Paolo Borsellino non era stata neppure aperta, la procura di Palermo depositò un fascicolo con una richiesta di archiviazione. Sopra quel fascicolo c’era un codice fatto di sei numeri: 2789/90.

Era l’inchiesta “Mafia e appalti”.

La versione di Mori.

Mario Mori, Giovanni Fasanella, “Ad alto rischio”, Mondadori. Il libro di chi, settentrionale paracadutato in Sicilia, era al comando di un gruppo di carabinieri del quale il più meridionale era di Caserta.

Mario Mori, generale dei Carabinieri, è stato ufficiale del controspionaggio sin dall'inizio degli anni Settanta e poi con Carlo Alberto Dalla Chiesa nei nuclei speciali antiterrorismo. È il fondatore dell'Anticrimine e del ros dell'Arma e nei primi anni Duemila ha diretto il sisde, il Servizio segreto civile. Ha condotto con successo molte operazioni sotto copertura, tra cui la cattura del boss mafioso Totò Riina.

Giovanni Fasanella, giornalista, documentarista e sceneggiatore. È autore di molti libri sulla storia segreta italiana. Tra i più noti: Segreto di Stato (con Giovanni Pellegrino e Claudio Sestrieri, Einaudi), Che cosa sono le Br (con Alberto Franceschini, Bur-Rcs),Intrigo internazionale (con Rosario Priore, Chiarelettere), 1861 (con Antonella Grippo, Sperling&Kupfer), Il golpe inglese (con Mario J. Cereghino, Chiarelettere).

Il percorso professionale di Mario Mori ha attraversato da vicino le più drammatiche e oscure stagioni della nostra Storia recente. Pupillo del generale Dalla Chiesa, nominato comandante della Sezione anticrimine di Roma il 16 marzo 1978, giorno del sequestro Moro, è stato, negli anni seguenti, uno dei massimi protagonisti della lotta al terrorismo. Dalla metà degli anni '80 è a Palermo a combattere la mafia fino a entrare nel 1990 nel Ros, l'organismo centrale dedicato alla criminalità organizzata e al terrorismo, (di cui diventerà direttore nel 1998). Oltre ad altri arresti di spicco, contribuisce alla cattura di Totò Riina. Uscito dall'Arma, andrà a dirigere il Sisde, coordinando le indagini sul terrorismo dopo l'11 settembre. (Processato e assolto per presunto favoreggiamento con Cosa Nostra, oggi è indagato per concorso esterno in associazione mafiosa). In questa eccezionale autobiografia professionale, scritta con Giovanni Fasanella, racconta per la prima volta la sua verità su quasi un quarantennio di storia italiana, dal caso Peci, al sequestro D'Urso, dalle "stragi di Stato" alla cattura del "capo dei capi" Riina. Una vera e propria immersione nelle pagine più misteriose di quel periodo e la testimonianza di quanto importante, nonostante tutto, sia stata la funzione delle Istituzioni per allontanare pericolose derive.

Mario Mori, generale dei Carabinieri. All'opinione pubblica il mio nome probabilmente dirà qualcosa. Evocherà dei ricordi, vicende per certi aspetti anche spiacevoli di cui si è molto scritto sui giornali e parlato nelle aule giudiziarie. La mia, però, è una storia lunga. Da raccontare. E quella di un militare e dei suoi uomini che hanno combattuto per quarant'anni terrorismo e mafia. Nei reparti d'eccellenza dell'Arma. E ai vertici dell'intelligence, quei Servizi segreti in Italia sempre così chiacchierati." Scritta con Giovanni Fasanella, questa è la straordinaria storia "professionale" di un uomo che è stato al centro di tutti i grandi eventi italiani. Ufficiale del controspionaggio al SID, il Servizio segreto militare nei primi anni Settanta, nei nuclei speciali comandati dal generale Dalla Chiesa dopo il delitto Moro, comandante della sezione Anticrimine a Roma durante gli anni di piombo, Mori è stato uno dei protagonisti della lotta al terrorismo. A metà degli anni Ottanta è a Palermo, con Falcone e Borsellino, a combattere la mafia; nel 1998 diventa comandante del ROS, il reparto speciale dei Carabinieri, che aveva contribuito a creare. Uscito dall'Arma, dirigerà infine il sisde, il Servizio segreto italiano, che ritrova un ruolo decisivo per la sicurezza nazionale dopo i fatti dell'11 settembre. Nel corso della sua lunga carriera ha combattuto il terrorismo, arrestato Riina, messo a punto nuove tecniche d'investigazione, gestito infiltrati, ascoltato pentiti."

Crocevia di molti misteri italiani, il generale dei carabinieri Mario Mori ha scritto un libro autobiografico, che si legge come una spy story, ma al quale ha affidato il suo grido d'innocenza contro i magistrati di Palermo che lo processano per favoreggiamento della mafia, accusandolo di non avere volutamente arrestato Bernardo Provenzano dopo avere messo le manette a Totò Riina. Del processo nel libro si tace; ma la tesi che attraversa le 149 pagine equivale a una linea di difesa: contro le grandi organizzazioni criminali è necessario adottare strategie «border line», a partire da spregiudicati contatti sotto copertura per indurre l'avversario a fidarsi, e scoprirsi. Strategie che però, con una magistratura non altrettanto flessibile, possono costar care agli uomini dello Stato che le adottano.

Pioniere in Italia di queste tecniche fondate sull'uso di infiltrati fu Carlo Alberto Dalla Chiesa, del quale Mori (nato a Postumia nel 1939, prima al Sid, poi numero uno del Ros e del Sisde), fu allievo. Narrate in prima persona con efficacia giornalistica, il lettore troverà la cronaca di alcune delle più brillanti operazioni compiute dalle forze dell'ordine italiane negli ultimi decenni. A cominciare da quella – e qui davvero pare di stare al cinema – durante la quale a Napoli un ufficiale del Ros, fingendosi un imprenditore corrotto, convoca in un lussuoso albergo esponenti delle ditte legate alla camorra e ai partiti per discutere – sotto l'occhio di una telecamera nascosta – come spartire la torta dei subappalti per la Tav. O l'operazione nella quale il mafioso Giovanni Bonomo, rifugiato a fare il mercante d'arte in Costa d'Avorio (senza trattato di estradizione con l'Italia), viene attirato con la prospettiva di un affare, e arrestato, nel vicino Senegal.

E ci sono, naturalmente, gli episodi più controversi. La ricerca di un contatto con Vito Ciancimino per ottenere «informazioni di prima mano» sui piani della mafia, di cui Mori decide di tacere con la Procura nella grave convinzione che «non tutti i pm di Palermo fossero decisi a combattere Cosa nostra». O il rinvio della perquisizione di casa Riina dopo l'arresto del 1993 (oggetto di un altro processo e di un'assoluzione), deciso, sostiene, «perché se fosse avvenuta immediatamente tutte le persone che la frequentavano si sarebbero sentite bruciate». O la mancata cattura nel 2006 del super boss mafioso Matteo Messina Denaro, che il Sisde era riuscito ad agganciare tramite un doppiogiochista, a causa dell'intervento della Procura di Palermo che mette quest'ultimo sotto inchiesta in quanto «non si è fidata».

Nelle ultime pagine, un'altra goccia di veleno indirizzata al comando generale del l'Arma: «Io, e credo anche molti altri carabinieri, avremmo gradito non una difesa delle singole persone, ma del Ros». Perché pure alla militaresca consegna del silenzio, evidentemente, c'è un limite.

Mario Mori, Giovanni Fasanella, “Ad alto rischio”, Mondadori. Su “Panorama” presentando il libro l’amaro sfogo del Generale Mario Mori.

«Più che un’ipotesi accusatoria, quella della Procura di Palermo è un castello di carta. Mancano completamente le prove dei reati che mi vengono attribuiti». È amareggiato, e molto, il generale dei carabinieri Mario Mori. Sotto processo per «collusione mafiosa», assieme al colonnello Mauro Obinu, s’è appena visto contestare dai pubblici ministeri Antonio Ingroia e Nino Di Matteo l’aggravante della mancata cattura di Bernardo Provenzano, come fosse il prezzo pagato al boss in cambio dei suoi favori nel corso di una presunta trattativa fra Stato e Cosa nostra, all’inizio degli anni Novanta. Amareggiato, sì, ma tutt’altro che rassegnato a un destino che ritiene ingiusto e paradossale. La sua, del resto, è la storia di un combattente; la storia di un uomo che ha servito il proprio Paese per 40 anni, prima contro il terrorismo e poi contro la mafia, e che infine si è ritrovato sul banco degli imputati. Ora è un libro, Ad alto rischio, pubblicato da Mondadori. È il racconto di tante operazioni coperte, condotte con tecniche e mentalità da uomo d’intelligence più che da ufficiale di polizia giudiziaria, e proprio per questo spesso sul filo del rasoio, borderline. Ma molto efficaci. Forse troppo.

Un castello di carta, lei dice, le nuove accuse che le vengono mosse a Palermo. Perché?

Carta, sì: buona solo per alimentare teoremi e polemiche politiche. Ma per quanto riguarda la responsabilità mia o di uomini appartenenti ai miei reparti, è priva di qualsiasi consistenza giudiziaria. Sono comunque pronto a contrastare sul piano processuale queste nuove accuse, visto che infine viene introdotto formalmente, e non solo mediaticamente, il tema della cosiddetta trattativa fra Stato e mafia. Sono sereno e determinato.

Qual è l’origine di questo processo palermitano?

Io ho già subito un processo con Sergio De Caprio, il mitico capitano «Ultimo», in seguito all’arresto di Totò Riina. Eravamo accusati di favoreggiamento per avere chiesto di ritardare la perquisizione nel covo del boss, dopo la sua cattura. Noi, in realtà, volevamo agire con discrezione per far cadere nella nostra rete altri pesci. Qualcuno, però, fece di tutto per enfatizzare notizie che non dovevano essere rese note. Col risultato che l’operazione rimase incompiuta e la colpa venne fatta ricadere su di noi. Fummo comunque assolti con formula piena. Però, da allora, le incomprensioni tra noi del Ros e alcuni pubblici ministeri palermitani divennero sempre più forti. Nonostante la sentenza, cominciò contro di noi una martellante campagna mediatica i cui effetti sono sotto i nostri occhi ancora oggi.

Dunque, è dai quei veleni che è nato questo secondo processo?

Proprio così. Quei pm del processo a me e a Ultimo, che pure avevano rinunciato a ricorrere in appello contro la sentenza di assoluzione, alimentarono poi la campagna mediatica contro di noi, sostenendo che la verità dei fatti era diversa da quella accertata nel corso del dibattimento. È fiorita così una sterminata letteratura complottistica in cui la cattura di Riina è rimasta sempre un «mistero», e le ombre sul nostro operato si sono allungate. Questo è il clima da cui è scaturito, nel 2008, il procedimento in corso ancora oggi a Palermo.

In questo secondo processo, il tema della «trattativa» fra Stato e mafia era sempre rimasto sullo sfondo. Ora, invece, è entrato anche formalmente nel dibattimento.

Questa è una storia molto più grave della prima. Perché le accuse nei nostri confronti sono pesantissime. E poi perché il procedimento a Palermo è stato avviato sulla base di testimonianze d’accusa fornite da personaggi a mio avviso con la coscienza non proprio adamantina, che hanno seguito una condotta non lineare e con una credibilità che si sta rivelando prossima allo zero.

Lei si riferisce a Massimo Ciancimino, il figlio dell’ex sindaco di Palermo Vito, che lei avrebbe usato come canale per la presunta trattativa. Come stanno le cose, dal suo punto di vista?

Su Massimo Ciancimino che vuole che le dica? È stato accusato, a sua volta, per avere fabbricato false prove…

E su suo padre, Vito Ciancimino?

L’accusa nei nostri confronti è di averlo usato per consentirci la cattura di Riina grazie ai favori di Bernardo Provenzano, naturalmente da noi ricambiati… Non è il caso di affrontare in questa sede temi che discuteremo in dibattimento. Ma alcune cose voglio dirle. All’inizio degli anni Novanta, dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio, dove morirono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, a Palermo c’era un clima d’impotenza, di generale rassegnazione e d’inerzia di fronte all’attacco mafioso. Quasi che la città si fosse fermata e aspettasse di sapere se avrebbe vinto la mafia o lo Stato prima di decidere da quale parte schierarsi.

Un clima analogo si respirava in Italia nel 1978, all’epoca del sequestro di Aldo Moro.

Proprio così. E noi, come accadde allora con il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, il mio mentore, non potevamo rimanere a guardare. Accettammo la sfida lanciata dalla mafia, consapevoli che anche lo Stato avrebbe dovuto alzare il tiro per vincerla. Era necessario, cioè, un salto di qualità nel modo d’investigare e di operare. Avevamo bisogno di trovare fonti autorevoli all’interno dell’organizzazione nemica, e al massimo livello. Fu in quel contesto che si stabilì un contatto fra noi e Massimo Ciancimino. Volevamo utilizzarlo per arrivare al padre. E volevamo utilizzare poi il padre, le cui disavventure giudiziarie in quel momento si stavano aggravando, per avere informazioni di primissima mano su Cosa nostra.

Ci eravate riusciti?

Eravamo ormai a un passo dal risultato. Ma, improvvisamente, fu ordinato l’arresto di Ciancimino senior per altri fatti. Un’iniziativa che ci danneggiò perché mandò in fumo tutto il nostro lavoro. Proprio come accaduto dopo la cattura di Riina.

Se ne deve dedurre che qualcuno tentò di mettervi il bastone fra le ruote?

Preferisco non rispondere a questa domanda, anche perché non ho elementi sufficienti. Tuttavia, l’effetto concreto dell’arresto di Vito Ciancimino fu proprio quello di chiuderci i varchi che stavamo faticosamente aprendo all’interno dei corleonesi. E quindi d’impedire che le nostre indagini arrivassero al livello alto e altissimo delle complicità e delle protezioni.

Scusi, generale, voi avevate informato qualcuno della vostra iniziativa, oppure operavate come un corpo totalmente separato?

Il processo verte proprio su questo punto: non avere comunicato tutte le nostre iniziative alla Procura di Palermo. Per questo sono accusato di avere agito «per inconfessabili motivi». Premesso che le mie facoltà mi consentivano di non comunicare proprio tutto alla Procura di Palermo, con la quale c’erano incomprensioni e della quale non ci fidavamo del tutto, in realtà ne informai, oltre al mio diretto superiore, una serie di personalità che all’epoca rivestivano precise cariche istituzionali.

Chi, esattamente?

Liliana Ferraro, collaboratrice di Falcone. Fernanda Contri, segretario generale della presidenza del Consiglio. Luciano Violante, presidente della commissione parlamentare Antimafia. E andai anche a Torino per parlarne con Gian Carlo Caselli, il quale in quei giorni stava per trasferirsi alla Procura di Palermo (la data d’inizio del suo incarico risale al 15 gennaio 1993). Tutti, compreso Caselli, hanno confermato. Il solo Violante ha fornito una versione diversa dei miei incontri con lui. Resta tuttavia il fatto che la versione che ho fornito al processo trova inoppugnabili riscontri negli stessi atti della commissione Antimafia, che tutti possono consultare.

Come spiega, allora, il comportamento della Procura di Palermo?

Non voglio commentare; attendo rispettosamente l’esito del processo. Tuttavia, siamo convinti di avere assolto sino in fondo il nostro dovere. Perché, a differenza di tanti altri che hanno usato per scopi personali le immagini, i nomi, la memoria dei morti di mafia, noi eravamo davvero al fianco di quei martiri quand’erano ancora in vita. Con loro abbiamo operato in perfetta sintonia e a rischio della vita. Ma c’è un tempo per ogni cosa. E arriverà anche quello, dopo la sentenza, di riprendere il discorso. Perché molti aspetti di questa bruttissima pagina della giustizia italiana meritano di essere approfonditi.

Nel marzo 1993 i parenti dei detenuti per mafia sottoposti al regime del 41 bis tentarono di fare pesanti pressioni sul presidente della Repubblica dell'epoca, Oscar Luigi Scalfaro. E non solo a lui. Lo fecero con una lettera che è stata prodotta dai pm nel processo al generale Mario Mori e al colonnello Mauro Obinu, accusati della mancata cattura di Bernardo Provenzano. La lettera si prefiggeva di indurre Scalfaro a attenuare le "angherie" nei confronti dei detenuti. Adesso il contenuto della missiva viene messo in relazione con la "trattativa" tra lo Stato e la mafia avviata nel periodo intercorso fra la strage di Capaci, del 23 maggio 1992 (in cui vennero uccisi Falcone, la moglie, gli agenti di scorta), e quella di via D'Amelio (in cui vennero trucidati Borsellino e gli agenti della sua scorta), del 19 luglio 1992.

Una delle richieste contenute nel "papello" mirava proprio all'abolizione del 41 bis, il regime del carcere duro. Alcuni mesi dopo, in effetti, l'allora guardasigilli Giovanni Conso non rinnovò il regime carcerario duro nei confronti di alcune centinaia di detenuti. Conso ha sempre sostenuto che fu un'iniziativa personale. I magistrati di Palermo non escludono che fosse una forma di "apertura" nei confronti degli interlocutori della "trattativa" mediata da Vito Ciancimino. La lettera di pressioni era indirizzata a Scalfaro, ma fu inviata anche al Papa, al presidente del Consiglio, a Maurizio Costanzo (poi sfuggito a un attentato, a Roma) e a Vittorio Sgarbi ed altre personalità importanti.

Dopo avere elencato disagi e "angherie" i parenti dei detenuti, che comunque non si firmavano, si rivolgevano a Scalfaro come il più alto responsabile dell'Italia "civile": «Noi ci permettiamo di farle notare che, continuando di questo passo, di detenuti nei moriranno ma lei non si curi di loro tanto si tratta di carne da macello. Per noi e per loro resta solo la consolazione che un giorno Dio, che ha più potere di lei, sarà giusto nel suo giudizio.... lei si è vantato più volte di essere un autentico cristiano. Le consigliamo di vantarsi di meno e di amare di più. Non ci firmiamo non per paura, ma per evitare ulteriori pene ai nostri familiari .... Se lei ha dato ordine di uccidere, bene, noi ci tranquillizziamo, se non è così guardi che per noi è sempre il maggior responsabile, il più alto responsabile dell'Italia 'civile' che, con molto interesse, ha a cuore i problemi degli animali, i problemi del terzo mondo, del razzismo e dimentica questi problemi insignificanti perchè si tratta di detenuti, ovvero di "carne da macello". Al momento non crediamo che la volontà dello Stato che lei rappresenta sia così civile nel dare una risposta adeguata. La sfidiamo a smentirci».

Ecco le parole che terrorizzarono Oscar Luigi Scalfaro. Frasi scritte nel febbraio 1993 dai parenti dei mafiosi ristretti in regime di 41 bis a Pianosa e all’Asinara, rilette con inquietudine dal Presidente dopo gli attentati di Roma e Firenze. Un documento aspro nei toni, minaccioso nelle allusioni, che il 27 luglio 1993 porterà al colpo di spugna del governo di centrosinistra nella persona del ministro Giovanni Conso: niente più carcere duro per 334 detenuti, inclusi cinque esponenti di vertice di Cosa nostra. Altro che Ciancimino jr, le accuse al generale Mori, il ruolo della nascitura Forza Italia. La lettera, consegnata ai pm di Palermo dall’ex capo del Dap Sebastiano Ardita, dà una chiave di lettura plausibile all’incomprensibile decisione di revocare l’inasprimento delle regole penitenziarie attuato sull’onda della strage di via D’Amelio. Non solo. Offre un formidabile riscontro a quanto rivelato a verbale da monsignor Fabbri, aiutante del capo dei cappellani delle carceri, sollecitato da Scalfaro a supportare Conso nel defenestramento al Dap del «duro» Nicolò Amato (sollevato dall’incarico a giugno ’93) con il più morbido Adalberto Capriotti.

La lettera, per conoscenza, è inviata al Papa, a Maurizio Costanzo, al vescovo di Firenze, a Sgarbi, a magistrati e giornalisti vari. «Siamo un gruppo di familiari di detenuti - è l’incipit - sdegnati e amareggiati per tante disavventure, ci rivolgiamo a Lei non per chiedere chissà quale forma di carità o di concessione (…) ma perché riteniamo si è responsabili in prima persona, quale rappresentante e garante delle più elementari forme di civiltà». I familiari ritengono Scalfaro responsabile della violazione dei diritti minimi dei detenuti in 41 bis, ristretti in condizioni allucinanti al cui confronto «la Bosnia è un paradiso». E all’inquilino del Quirinale domandano con sarcasmo quante volte al giorno «cambi la biancheria intima», perché sa com’è, chi sta dentro ha diritto a «solo 5 chili di biancheria» a settimana. Ma «ancor più grave, e crediamo che lei debba vergognarsi di essere capo dello Stato» è che lo Stato «permette ai secondini, specialmente a Pianosa, di avere comportamenti uguali a quelli di sciacalli o teppisti della peggior specie, nel senso che trattano i detenuti peggio dei cani, usando metodi della peggior tradizione fascista. Tutto questo è vomitevole, vergognoso, indegno. Sono killer. Fanno quello che vogliono» ai detenuti, riservando «cibo schifoso» e maltrattamenti cui «si lascia libera immaginazione». Di seguito. «Immaginiamo che Ella, sotto Natale, quando l’Italia veniva stretta dal freddo gelido se ne stava al calduccio» mentre ai detenuti di Pianosa «più faceva freddo e più toglievano loro le coperte». Ora, «se lei ha dato ordine di uccidere, noi ci tranquillizziamo, se non è così, guardi che per noi è sempre il maggiore responsabile» verso chi è considerato «carne da macello». Gli autori della lettera chiedono a Scalfaro una sorta di dissociazione dal 41 bis col consequenziale stop alle torture degli «squadristi agli ordini del dittatore Amato». Continuando di questo passo, concludono rivolgendosi a Scalfaro, altri detenuti moriranno. «Non se ne curi, per noi e per loro (i detenuti) resta solo la consolazione che Dio, che ha più potere di Lei, sarà giusto nel suo giudizio (…). Lei si è vantato più volte di essere un autentico cristiano, le consigliamo di vantarsi meno e AMARE di più (…). Pensiamo che a Lei non interessino le firme, quanto verificare e trovare giusti rimedi. Al momento non crediamo che la volontà dello Stato da lei rappresentata sia così civile nel dare una risposta adeguata. La sfidiamo a smentirci». Nei fatti, smentiti.

La mafia, la politica, il 41 bis: un magistrato racconta gli angoli bui della “trattativa”. Nel libro "Ricatto allo Stato", il pm catanese Sebastiano Ardita ripercorre la storia del carcere duro per i mafiosi e dei tentativi per smantellarlo. Dai 334 beneficiati dal ministro Conso per "frenare le stragi" alla legge del governo Berlusconi "dettata" in parte dai detenuti. E nel 1993, una lettera a Scalfaro anticipava i bersagli delle stragi organizzate da Cosa nostra. C’è un tema che sopra tutti sta a cuore ai boss mafiosi, ed era contenuto nel famoso “papello” presentato allo Stato da Totò Riina per mettere fine alla stagione delle stragi: il 41 bis, il regime del carcere duro concepito da Giovanni Falcone per isolare davvero i padrini detenuti dal mondo esterno. Un regime che di rinnovo in rinnovo è tuttora in vigore, ma negli anni ha subito modifiche sostanziali che molti addetti ai lavori leggono come un ammorbidimento. Se la politica abbia mai ceduto alle richieste dei boss è materia – tra l’altro- delle inchieste avviate sulla presunta “trattativa” tra lo Stato e Cosa nostra. Nel frattempo, ognuno può farsi una propria idea leggendo "Ricatto allo Stato" (Sperling & Kupfer), scritto dal magistrato catanese Sebastiano Ardita, ex capo della Direzione generale detenuti e trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia. Da “tecnico” che ha vissuto in prima persona molti momenti chiave di questa vicenda, Ardita racconta diversi episodi inquietanti. Ricorda per esempio che nel 1993, contro il parere dei magistrati e degli investigatori antimafia, furono sollevati dal 41 bis ben 334 detenuti in un colpo solo, tra i quali diversi esponenti di Cosa nostra. Compresi “personaggi di primissimo piano quali Antonino Geraci, Vincenzo Buccafusca e Giuseppe Farinella, e di altri che sarebbero divenuti in seguito esponenti di vertice, tra cui Diego Di Trapani e Vito Vitale”. Insieme al celebre bandito Renato Vallanzasca. “A riprova del fatto che tra costoro vi fossero mafiosi di prim’ordine”, scrive ancora Ardita, “sulla base delle successive attività investigative, ben 58 di quei 334 detenuti negli anni a seguire ritornarono nel circuito speciale. E 18 di costoro sono ancora attualmente detenuti al 41 bis”. E’ l’episodio sul quale è intervenuto in tempi più recenti, nel 2010, l’allora ministro della Giovanni Conso, che in Commissione antimafia ha dichiarato di avere preso personalmente la decisione “in un’ottica, diciamo così, non di pacificazione (con certa gente, con certe forze, non si può neanche iniziare un discorso in questi termini), ma di vedere di frenare la minaccia di altre stragi”. Dal centrosinistra al centrodestra, in "Ricatto allo Stato" si trova un altro episodio significativo. Nel 2002 il governo Berlusconi prepara un disegno di legge per rendere stabile il 41 bis. Ma quando nel leggono il testo, al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria restano di sasso. Era spuntato a sorpresa un articolo che riprendeva pari pari una richiesta inoltrata da un gruppo di detenuti tramite il parlamentare radicale Sergio D’Elia, relativo al meccanismo con cui il 41 bis veniva rinnovato periodicamente per ciascun singolo detenuto. Una norma garantista, “ma nessuno in quel momento avrebbe potuto immaginare quali effetti sconvolgenti avrebbe portato con sé quella sacrosanta modifica, se il Dap si fosse fatto cogliere impreparato”, si limita a commentare Ardita. Il legame fra le stragi e le vicende del 41 bis attraversa molte pagine del libro. Nel 1993 il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro riceve un esposto da un gruppo di familiari dei detenuti di Pianosa, carcere che ospita molti detenuti in regime “duro”. Un testo dal tono aggressivo e perentorio, che denuncia abusi, disagi e regole troppo ferree. Tra gli altri destinatari dell’esposto, elencati per conoscenza, figuravano il Papa, il vescovo di Firenze e Maurizio Costanzo. Pochi giorni dopo, il 14 maggio, il giornalista di Mediaset scampa per poco a un’autobomba a Roma. I successivi attentati di Firenze e, di nuovo, Roma, sembrano diretti proprio contro gli altri destinatari dell’esposto. Ecco un brano su quest’ultima vicenda tratto da "Ricatto allo Stato". <Rimane di grande interesse notare chi fossero gli altri destinatari di quell’esposto. Si trattava di nominativi aggiunti «per conoscenza», ma appariva chiaro che anche a essi veniva richiesto un intervento contro il 41 bis. Tra di essi spiccavano i nomi del papa, del vescovo di Firenze, di Maurizio Costanzo. Non a caso, pochi giorni dopo, il 14 maggio, lo stesso Costanzo sarebbe stato oggetto di un attentato all’uscita dal Teatro Parioli, dove conduceva il suo talk show televisivo. Si trattava evidentemente di un avvertimento nei confronti di un giornalista impegnato contro la mafia, ma anche di una richiesta di aiuto per rendere pubblico il problema dei detenuti sulle isole. Non può escludersi che l’inerzia di Costanzo alle sollecitazioni di Cosa Nostra e il suo risoluto impegno antimafia venissero ritenuti meritevoli di una punizione esemplare. E altrettanto inquietante appare la circostanza che il successivo attentato, sempre nel maggio 1993, ebbe come teatro Firenze. Mentre il terzo attentato risultò direttamente rivolto al papa, perché avvenne proprio ai danni del Vaticano nel successivo mese di luglio. Insomma, quell’indirizzario, ben guardato, aveva tutto l’aspetto di una victim list, se non proprio di persone, almeno di luoghi a esse collegati, e la figura del presidente della Repubblica rimaneva in cima a quell’elenco di bersagli possibili. Ma Scalfaro, così come gli altri destinatari che avevano già subìto un attentato, mantenne un profilo rigoroso e distaccato rispetto a quelle sollecitazioni, negandosi a ogni richiesta di intervento. Non una parola, non un commento, non un intervento istituzionale per attenuare il regime 41 bis e allontanare da sé quei pericoli. Se quell’esposto-minaccia venne preso in considerazione ai fini del mantenimento o della revoca del 41 bis nel successivo mese di novembre 1993, e quanto peso vi venne attribuito, non è facile dirlo, anche perché non se ne fa cenno in nessun atto ufficiale. Certo è che, anche alla luce degli attentati che ne seguirono, avrebbe dovuto essere oggetto della massima attenzione.>

E la verità è servita. A tacitare i gli ipocriti ed i collusi. La mafia è nello Stato o è proprio questo Stato?

Una nuova verità sulle stragi di mafia del 1992 e sui depistaggi delle relative indagini spunta dagli atti della revisione del processo per Via D'Amelio. Il collaboratore di giustizia Vincenzo Scarantino parla delle minacce che lo convinsero ad autoaccusarsi dell'attentato. Gaspare Spatuzza, l'uomo che rubò la Fiat 126 servita per la strage, racconta come la portò fino al garage in cui fu imbottita di esplosivo. Inchiesta di “La Repubblica”.

Con le torture un balordo di quartiere si inventò killer di Borsellino. Scarantino:"Mi promettevano soldi. Devi diventare come Buscetta". Vincenzo Scarantino, palermitano "malacarne" senza quarti di nobiltà mafiosa, restituisce una sconvolgente ricostruzione che affiora dagli atti sulla revisione del processo per l'attentato di via Mariano D'Amelio. Nelle carte l'interrogatorio del 28 settembre 2009, davanti al procuratore Sergio Lari, gli aggiunti Nico Gozzo e Amedeo Bertone, i sostituti Nicolò Marino e Stefano Luciani. Alle ore 19,40, in una stanza del centro Dia di Caltanissetta, dopo una giornata di contestazioni, il pentito crolla. "Io non sapevo neanche dov'era via D'Amelio. Ho parlato solo per paura: mi torturavano...". Vincenzo Scarantino e altri due falsi pentiti raccontano ai magistrati di Caltanissetta come Arnaldo La Barbera, superpoliziotto a capo del Gruppo Falcone Borsellino, deviò l'indagine costruendo una falsa verità. Quello che era considerato il testimone più importante della strage Borsellino comincia così il suo racconto: "Io non sapevo neanche dov'era via D'Amelio. Ho parlato solo per paura: mi torturavano, mi picchiavano, mi facevano morire di fame". Il balordo di borgata è diventato "superpentito" sotto sevizie di poliziotti e agenti penitenziari, depistando l'indagine su uno dei grandi misteri d'Italia. E' questa la verità di Vincenzo Scarantino, palermitano "malacarne" senza quarti di nobiltà mafiosa, una sconvolgente ricostruzione che affiora dagli atti della revisione del processo per l'attentato di via Mariano D'Amelio. Nella denuncia di Scarantino viene descritta una "Guantanamo prima di Guantanamo" qui in Italia, crudeltà e violenze per far confessare retroscena di massacri mai compiuti. Dopo tanti anni s'indaga ancora su quelle torture ma non c'è certezza sui personaggi implicati: da una parte le confessioni di un pentito costruito sicuramente "a tavolino" e dall'altra la difesa di poliziotti che negano tutto. E' in un drammatico interrogatorio del 28 settembre 2009 che Vincenzo Scarantino, per la prima volta, spiega con quali metodi è stato costretto ad autoaccusarsi della strage Borsellino: "Per non farmi mangiare, mi facevano trovare mosche nella pasta. Una volta a Pianosa sentì due guardie che parlavano... un tipo con i baffi, un brigadiere siciliano, diceva all'altro: "Piscia, piscia". Una volta quel brigadiere mi alzò pure le mani. Un'altra volta, dopo che andai dal dentista, mi fecero credere che avevo l'Aids, mentre si trattava di una semplice epatite". Poi entra in scena Arnaldo La Barbera, il poliziotto che con decreto della Presidenza del Consiglio è stato messo capo del "Gruppo Falcone Borsellino", la struttura investigativa che indagava sulle stragi siciliane del 1992. E' ancora Scarantino che parla: "E lui mi disse: "Tu devi confessare". Ma io gli ripetevo: "Non so niente". Lui insisteva: "Tu devi diventare come Buscetta, importante come Buscetta. E allora, poco a poco, io sono entrato nel personaggio, cominciavo ad accusare tutti. Avevo 27 anni, stavo male. La Barbera mi disse pure che lo Stato avrebbe acquistato alcuni magazzini, alcune case che avevo: "Ti diamo 200 milioni, esci dal carcere e non ci entri più"...". Il balordo di borgata ha cominciato a fare nomi: "Mi venivano suggeriti, non è che me li dicevano in modo esplicito. Si parlava e mi dicevano: "Ma questo c'era, ma quest'altro c'era pure?". Il dottore La Barbera mi faceva capire... E così m'inventai la storia di una riunione, volevano trovare i colpevoli attraverso me. E io gli ripetevo: ma cosa vi devo dire che non saccio niente". Iniziano gli interrogatori con i magistrati. E Scarantino viene "preparato" dai poliziotti: "Prima di ogni incontro vedevo La Barbera, quando poi arrivavano i magistrati non riuscivo mai a ritrattare".

Iniziano le udienze del processo per la strage di via D'Amelio: "Prima un certo Michele leggeva i miei verbali, e io li mettevo in memoria... Una volta mi ricordo che avevo bevuto... una volta nell'aula bunker ho pianto di birra... Ma io ci stavo male, avevo i figli, avevo mia madre, ci stavo bene fuori, ma non vivevo, non ero in pace con me stesso. Io, scusando il termine, quando andavo in bagno piangevo e speravo sempre che potesse uscire un pentito che mi smentiva". Un giorno Scarantino vuole dire la verità. E' il 1995. Ma non ce la fa: "Arrivò il dottore Bo. Gli dissi: io voglio tornare in carcere. Il rimorso mi stava mangiando il cervello. Non riuscivo a stare tranquillo. Il dottore Bo mi disse: 'Va bene ti portiamo in carcere". Iniziò una discussione. Un poliziotto che era con lui mi acchiappa per il collo e mi punta la pistola addosso. Gli altri poliziotti che erano là gli dicevano: no, queste cose no davanti ai bambini".

L'inchiesta dei procuratori di Caltanissetta che indagano sull'uccisione di Paolo Borsellino - il capo Sergio Lari, Domenico Gozzo, Amedeo Bertone, Nicolò Marino e Stefano Luciani - ha concentrato tutti i sospetti del depistaggio su Arnaldo La Barbera, deceduto nel 2002 per un tumore al cervello.  Ma insieme a lui sotto accusa per calunnia ci sono oggi anche tre funzionari, ragazzi al tempo, appena usciti dalla scuola di polizia: Mario Bo, Salvatore La Barbera, Vincenzo Ricciardi. Tutti esecutori di ordini, poliziotti che non potevano fare un solo passo senza l'autorizzazione del loro capo. Per i pubblici ministeri non è ancora chiaro il ruolo che avrebbero avuto i tre (loro smentiscono, naturalmente, ogni circostanza riferita da Scarantino)  e fino ad ora le investigazioni "non hanno consentito di trovare sufficienti elementi di riscontro alle accuse formulate nei loro confronti dagli ex collaboratori". L'inchiesta però non è chiusa. I magistrati decideranno se archiviare o chiedere per i tre poliziotti il rinvio a giudizio. Il resto delle carte sulla strage di via D'Amelio sono state trasmesse per la revisione del processo alla Corte di Appello di Catania e sette imputati, in carcere dal 1993 per le false accuse di Scarantino, sono stati scarcerati. Dentro l'indagine di Caltanissetta non c'è solo la testimonianza del balordo della Guadagna ma anche quelle di due suoi amici, Salvatore Candura e Francesco Andriotta, anche loro minacciati per fare confessare una strage della quale sapevano niente.

Candura: "Non sono un mafioso. La Barbera mi minacciava". Neanche due mesi dopo la strage di via d'Amelio fu arrestato per un furto di una 126 e per violenza carnale. Fu il primo a fare il nome di Scarantino: "Mi ha commissionato il furto dell'auto". E' stato anche il primo a ritrattare, il 10 marzo 2009, davanti ai magistrati di Caltanissetta. E racconta: "Mi diceva tu devi sostenere sempre questa tesi, non ti creare problemi. Ti prometto che ti farò dare un aiuto dallo Stato, 200 milioni, ti faccio aprire un'attività, ti faccio sistemare per tutta la vita". E' lo stesso copione. Pressioni, minacce, sevizie. Ecco la confessione di Salvatore Candura, un altro dei testi chiave della strage Borsellino, quello che avrebbe rubato la Fiat 126 poi usata per fare saltare in aria il magistrato. Interrogatorio del 10 marzo 2009: "La Barbera mi diceva: tu devi sostenere sempre questa tesi, non ti creare problemi. Ti prometto che ti farò dare un aiuto dallo Stato, 200 milioni, ti faccio aprire un'attività, ti faccio sistemare per tutta la vita. Un giorno dovevo essere interrogato. E' venuto prima La Barbera e mi disse: "Scarantino dice che tu hai riportato l'auto alla Guadagna. Tu devi insistere che hai portato la macchina dove hai sempre detto. Tu devi dire sempre questa tesi". Ho passato anni d'inferno". E ancora: "Io quella 126 non l'ho mai rubata. Io sono stato suggerito di tutte queste cose. Il giorno che fui arrestato per violenza carnale, vengo portato in questura e interrogato dal dottore Arnaldo La Barbera che mi chiese: 'Tu ne sai parlare di macchine? Ne sai parlare di 126?".  Io sono un ladro di macchine, non sono un mafioso. I poliziotti mi rassicuravano: se il dottore La Barbera ti ha detto che devi stare tranquillo... noi ti imposteremo, ti faremo aprire un'attività, ma che cazzo vai cercando?".

Poi c'è anche la confessione di  Francesco Andriotta, un ergastolano che ha giurato nel 1993 di avere sentito - in cella - dalla voce di Scarantino che era stato lui a fare la strage. Interrogatorio del 17 luglio 2009: "C'erano delle volte che io volevo ritrattare. Ho preso anche delle botte dentro, in carcere... Io non sapevo nulla della strage di via d'Amelio, ma non sono io che ho costruito le cose. Il tutto è stato costruito dal dottore La Barbera e dal dottore Bo. Mi avevano promesso che mi avrebbero fatto togliere l'ergastolo. Me lo disse anche un giovane funzionario, che si chiamava pure La Barbera". E giura: "Scarantino non mi ha detto nulla su via D'Amelio, anzi parlando con me si è sempre protestato innocente. Mi disse che era sottoposto a violenze fisiche e psichiche per confessare di avere partecipato alla strage. Io prima inventai che il colore della 126 era celeste. Poi dissi che era bianco. Ma il colore mi fu suggerito. Loro scrivevano degli appunti, e poi io dovevo bruciare il biglietto". Andriotta: "Nudo alle tre del mattino, all'aria aperta e con un cappio al collo". Anche Francesco Andriotta parla delle violenze subite nell'interrogatorio del 17 luglio 2009. Francesco Andriotta racconta anche delle violenze degli agenti penitenziari: "Mi fecero una perquisizione, intorno alle tre e mezza del mattino. Mi hanno fatto uscire nudo all'aria. Qualcuno mi ha messo un cappio e diceva: tu devi collaborare. Ma io non ho niente da collaborare, dicevo. Sentivo anche le urla di Scarantino. Stavo male, perché lui mi ha sempre detto che non c'entrava niente con la strage". Alla fine, Andriotta dice ai procuratori di Caltanissetta: "Io ho paura, ho l'ergastolo, ma io voglio vivere, voglio pagare la mia pena. Però da vivo, non da morto".

L'assassinio del giudice Paolo Borsellino torna a far notizia grazie alle rivelazioni del colonnello Umberto Sinico, sentito come teste della difesa al processo Mori.

«Borsellino - rivela in aula l'ufficiale - sapeva dell'attentato ma scelse il sacrificio».

Alla fine di giugno del 1992 i carabinieri erano andati dal giudice a dirgli che un informatore aveva rivelato alcune voci, che giravano nell'ambiente carcerario, di un attentato nei suoi confronti. Borsellino avrebbe così risposto: «Lo so, lo so, devo lasciare qualche spiraglio, altrimenti se la prendono con la mia famiglia». Nel giro di pochi giorni, il 19 luglio, in via D’Amelio, a Palermo, saltò in aria un'auto imbottita di tritolo che fece morire Borsellino e altre cinque persone.

"Borsellino scelse il sacrificio". Qual è la novità che emerge da queste affermazioni? Sostanzialmente è questa: il magistrato si sarebbe votato consapevolmente al sacrificio lasciando qualche lato scoperto nella sua sicurezza ed esponendosi ai rischi di un attentato, nella speranza di preservare la sua famiglia dal rischio di possibili ritorsioni. L’informatore, ha detto Sinico, era Girolamo D’Anna, di Terrasini, "in confidenza" con il maresciallo che comandava la stazione del paese a 40 chilometri da Palermo, Antonino Lombardo, poi morto suicida nel marzo del ’95. «A sentire D’Anna, nel carcere di Fossombrone, andammo io - ha detto Sinico - Lombardo e il comandante della compagnia di Carini, Giovanni Baudo, ma Lombardo fu il solo a parlare con Girolamo D’Anna, che disse dell’esplosivo e dell’idea di attentato. Subito ripartimmo e andammo dal procuratore a riferirglielo e lui ci rispose in quel modo, di saperlo e di dover lasciare qualche spiraglio. Procuratore, risposi io, allora cambiamo mestiere».

Secondo quanto racconta Sinico D’Anna era un uomo d’onore "posato", cioè estromesso, perché vicino a Gaetano Badalamenti: "Era persona di grande carisma, veniva interpellato dai vertici della sua parte criminale".

Nessun contrasto coi carabinieri. Quanto riferito in aula da Sinico esclude sia che vi fossero contrasti tra Borsellino e la sezione Anticrimine dei carabinieri di Palermo, sia le tesi secondo cui al magistrato fu nascosto dai carabinieri che fosse arrivato l’esplosivo per compiere l’attentato ai suoi danni.

Il giorno prima di morire Paolo Borsellino confidò alla moglie Agnese inquietanti convinzioni sulla propria fine, che considerava imminente: «Era perfettamente consapevole che il suo destino era segnato, tanto da avermi riferito in più circostanze che il suo tempo stava per scadere». Coltivava sensazioni fosche, condivise in uno degli ultimi colloqui con la donna della sua vita: «Ricordo perfettamente che il sabato 18 luglio 1992 andai a fare una passeggiata con mio marito sul lungomare di Carini, senza essere seguiti dalla scorta. Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi e altri a permettere che ciò potesse accadere. In quel momento era allo stesso tempo sconfortato, ma certo di quello che mi stava dicendo». A nemmeno ventiquattr'ore da questi cupi presentimenti, alle 16.58 di domenica 19 luglio, dopo una nuova gita nella casa di Carini il giudice saltò in aria insieme a cinque agenti di scorta in via Mariano D'Amelio, davanti all'abitazione palermitana di sua madre.

Le dichiarazioni di Agnese Borsellino riportate sul “Il Corriere della Sera” sono contenute in due verbali d'interrogatorio davanti ai pubblici ministeri di Caltanissetta titolari della nuova inchiesta sulla strage di via D'Amelio, nell'agosto 2009 e nel gennaio 2010, trasmessi alla Procura di Palermo che indaga sulla presunta trattativa fra lo Stato e Cosa Nostra. La testimonianza della signora Borsellino consegna altri frammenti di verità su sospetti e turbamenti del magistrato assassinato quasi vent'anni fa. Dalla fretta di acquisire elementi sulla strage di Capaci in cui era morto il suo amico Giovanni Falcone, nella consapevolezza che presto sarebbe a toccato anche lui - «prova ne sia che, pochi giorni prima di essere ucciso, si confessò e fece la comunione», dice la moglie - ai dubbi sui contatti fra rappresentanti delle istituzioni e della mafia.

Alla domanda se il marito le abbia mai detto di aver saputo «di una trattativa tra appartenenti al Ros dei carabinieri e Vito Ciancimino o altri soggetti appartenenti a Cosa Nostra o a servizi segreti "deviati"», la signora Borsellino risponde: «Non ho mai ricevuto tale tipo di confidenza da Paolo, che mai mi riferì di trattative in atto tra Cosa Nostra e appartenenti al Ros e ai servizi "deviati". Non posso tuttavia escludere che egli fosse venuto a conoscenza di una vicenda del genere e non me l'avesse riferita, in quanto era in genere una persona estremamente riservata».

Ciò nonostante, in un altro colloquio riferì alla moglie l'improvviso indizio su una presunta connivenza con Cosa Nostra dell'allora comandante del Ros, che conosceva da tempo: «Notai Paolo sconvolto, e nell'occasione mi disse testualmente "ho visto la mafia in diretta, perché mi hanno detto che il generale Subranni era punciutu (cioè affiliato a Cosa Nostra)...". Mi ricordo che quando me lo disse era sbalordito, ma aggiungo che me lo disse con tono assolutamente certo. Non mi disse chi glielo aveva detto. Mi disse, comunque, che quando glielo avevano detto era stato tanto male da aver avuto conati di vomito. Per lui, infatti, l'Arma dei Carabinieri era intoccabile».

Poi ci furono la frase sul timore di essere ucciso con la complicità o la colpevole indifferenza di altri soggetti, addirittura di «colleghi», e la rivelazione di un ulteriore sospetto: «Ricordo che mio marito mi disse testualmente che "c'era un colloquio tra la mafia e parti infedeli dello Stato". Me lo disse intorno alla metà di giugno del 1992. In quello stesso periodo mi disse che aveva visto la "mafia in diretta", parlandomi anche in quel caso di contiguità tra la mafia e pezzi di apparati dello Stato italiano. In quello stesso periodo chiudeva sempre le serrande della stanza da letto di questa casa (l'abitazione palermitana dei Borsellino) temendo di essere visto da Castello Utveggio». Mi diceva "ci possono vedere a casa"». Il castello è sul Monte Pellegrino, sede di un centro studi ritenuto una copertura del servizio segreto civile, su cui si sono appuntate molte indagini. Ma gli ultimi accertamenti svolti dai pm di Caltanissetta portano a escludere collegamenti tra quella località e la strage di via D'Amelio.

Che Borsellino fosse a conoscenza dei contatti del capitano Giuseppe De Donno e del colonnello Mario Mori (all'epoca ufficiali del Ros, poi indagati nell'inchiesta sulla trattativa) con l'ex sindaco mafioso Vito Ciancimino è un dato acquisito dopo le dichiarazioni dell'ex direttore generale del ministero della Giustizia Liliana Ferraro, che ne parlò allo stesso Borsellino alla fine di giugno del '92. Il colloquio avvenne in una saletta dell'aeroporto di Fiumicino. C'era anche la moglie del magistrato, che ai pubblici ministeri ha dichiarato: «Mio marito non mi fece partecipare all'incontro con la dottoressa Ferraro. Anche successivamente, non mi riferì nulla, salvo quanto detto dal ministro Andò (titolare della Difesa, presente anche lui a Fiumicino) che, per quello che mi venne riferito da mio marito, disse che era giunta notizia da fonte confidenziale che dovevano fare una strage per ucciderlo, e che ciò sarebbe avvenuto a mezzo di esplosivo. Mi disse che era stata inviata una nota alla Procura di Palermo al riguardo, e che Andò, di fronte alla sorpresa di mio marito, gli chiese: "Come mai non sa niente?". In pratica, la nota che riguardava la sicurezza di mio marito era arrivata sul tavolo del procuratore Giammanco, ma Paolo non lo sapeva. Paolo mi disse, poi, che l'indomani incontrò Giammanco nel suo ufficio, e gli chiese conto di questo fatto. Giammanco si giustificò dicendo che aveva mandato la lettera alla magistratura competente, e cioè alla Procura di Caltanissetta. Mi ricordo che Paolo perse le staffe, tanto da farsi male a una delle mani che, mi disse, batté violentemente sul tavolo del procuratore».

Agnese Borsellino aggiunge che dopo la riunione di Fiumicino «mio marito non mi disse nulla che riguardava Ciancimino». I dissapori tra il magistrato antimafia, allora procuratore aggiunto a Palermo, e il capo dell'ufficio Pietro Giammanco si riferivano anche alla gestione di nuovi pentiti, come Gaspare Mutolo. Ecco perché, a proposito dei timori confessati durante l'ultima passeggiata sul lungomare, la signora Agnese spiega: «Non mi fece alcun nome, malgrado io gli avessi chiesto ulteriori spiegazioni; ciò anche per non rendermi depositaria di confidenze che avrebbero potuto mettere a repentaglio la mia incolumità... Comunque non posso negare che quando Paolo si riferì ai colleghi non potei fare a meno di pensare ai contrasti che egli aveva in quel momento con l'allora procuratore Giammanco».

La strage di via D’Amelio, il diritto che si rovescia, le gravi accuse dell’avvocato Di Gregorio. Il Pensiero di Valter Vecellio, giornalista vice-caporedattore del TG2 RAI e direttore del giornale telematico Notizie Radicali, uno degli organi ufficiali del movimento dei Radicali Italiani.

La notizia crimine c’è tutta, eppure nulla si muove, tutto tace. E dire che l’intervista è stata rilasciata a un settimanale tra i più diffusi, ed è da credere che sia stata attentamente letta e soppesata. Niente. Niente dal Consiglio Superiore della Magistratura, e niente di niente da chi, pur sovente loquacissimo, questa volta sembra non aver colto l’occasione.

L’intervista è quella che Andrea Marcenaro ha realizzato con l’avvocato Rosalba Di Gregorio, e pubblicata su “Panorama”, titolo: “Quel pasticciaccio orribile di via D’Amelio”. Il sommario spiega che Di Gregorio “ha difeso quattro dei sette condannato all’ergastolo per la strage mafiosa, tutti scarcerati grazie a nuove indagini. Ma non è contenta. Perché ha vissuto ingiustizie terribili. Anche sulla sua pelle”. Si può aggiungere che Di Gregorio, assieme al marito Francesco Marasà, anche lui avvocato, nel 1990 ha pubblicato un libretto di utile lettura allora, di ancor più utile lettura oggi: “L’altra faccia dei pentiti”, pubblicato da “La Bottega di Hefesto”. Libretto che coglie i “pentiti” in “alcune delle loro contraddittorie dichiarazioni, scoperti a dire bugie, pronti a chiedere vantaggi, ricattatori ed arroganti quando si rifiutano di parlare”, e che agli autori hanno fatto nascere un dubbio: «Ci siamo chiesti, leggendo centinaia e centinaia di pagine, alla ricerca del materiale necessario per preparare la difesa di cittadini imputati nel processo: ma è proprio vero che i pentiti sono ‘collaboratori di giustizia’?». La conclusione cui si giunge è che certo, il “pentito” può collaborare, ma “solo se, come elemento d’accusa è attendibile”. Ed è questo, evidentemente, il punto dolente.

E dolenti s’arriva all’intervista a “Panorama” e alla strage di via D’Amelio a Palermo. Quando il 19 luglio del 1992 – era domenica – il procuratore aggiunto di Palermo Paolo Borsellino e i cinque agenti della sua scorta, vengono dilaniati da una Fiat 126 imbottita di tritolo. Per quella strage, grazie soprattutto alle dichiarazioni di un “pentito”, Vincenzo Scarantino, nel 2002 sono condannati all’ergastolo Natale Gambino, Giuseppe La Mattina, Gaetano Murana, Salvatore Profeta, Gaetano Scotto, Giuseppe Urso, Cosimo Vernengo, oltre allo stesso Scarantino. Il 27 ottobre 2011 la Corte d’Appello di Catania, sulla base delle dichiarazioni di un altro “pentito”, Gaspare Spatuzza, e di nuove indagini svolte dalla procura di Caltanissetta ha sospeso l’esecuzione della pena per sette di loro. L’unico che resta in cella è Scotto, che deve scontare residui di pena per altri reati.

«Dovevano essere scarcerati 17 anni fa», dice lapidaria Di Gregorio. Si dirà: dichiarazione ovvia, dato che difende quattro degli imputati. Però il racconto fa sobbalzare: «Estate 1995: fase istruttoria del processo Borsellino-bis. Il pentito Scarantino telefona a un giornalista di Mediaset, che registra la conversazione, e gli dice di voler ritrattare le accuse: ho detto fesserie, sono tutte balle, voglio ritrattare tutto».

L’avvocato Di Gregorio sostiene che il testo di questa conversazione non le è mai stato dato, «perché i pubblici ministeri lo sequestrarono». L’avvocato presenta istanza per fissare i termini di un incidente probatorio: «Non venni degnata di risposta, fecero finta di nulla. A tutt’oggi la difesa non è in possesso del nastro», e accusa esplicitamente la pubblica accusa di aver nascosto e sequestrato gli elementi a favore degli imputati. Si converrà che non è cosa da poco. Forse i tre pubblici ministeri Carmelo Petralia, Anna Maria Palma e Nino Di Matteo avranno e hanno le loro buone, ottime ragioni. Piacerebbe conoscerle. Piacerebbe sapere se le cose sono andate come Di Gregorio le racconta, o se si tratta di forzatura e “invenzione”; piacerebbe che qualcuno glielo domandasse…

Dice altro, l’avvocato Di Gregorio: «Fra centinaia di migliaia di pagine, era mi pare il 1995, scopriamo quasi per caso una lettera del procuratore aggiunto di Caltanissetta al suo omologo di Palermo: ti trasmetto i confronti tra Scarantino e i tre pentiti Cancemi, Di Matteo e La Barbera…Se sono stati messi a confronto, ho dedotto io, vuol dire che ci sono tre pentiti che, in tutto o in parte, contestano le dichiarazioni di Scarantino. Non si procede a un confronto, se no. Per cui chiedo di avere il testo dei tre confronti».

La risposta è che i confronti non ci sono. Di Gregorio insiste: «E arriva una seconda risposta: gli atti non vi riguardano, perché non parlano degli imputati in questo processo».

Il fatto è che invece ne parlavano. Lo spiega lo stesso Di Gregorio: «Quando nel 1997 verranno spiccati i mandati di cattura per il Borsellino ter, tra gli indagati c’è anche Cancemi. Abbiamo scoperto allora la bugia che il confronto non avesse riguardato gli imputati di cui sopra. Altrochè se li aveva riguardati. E qui viene il bello. Eravamo in udienza a Torino e i PM ribadirono in aula la loro affermazione. A quel punto chiedemmo l’invio degli atti a Torino per denunciare i PM stessi per false dichiarazioni in atto pubblico. I PM chiesero a loro volta la trasmissione degli atti a Torino per procedere contro di noi per calunnia. Conclusione: la procura di Torino ha archiviato tutto. Come ha fatto? O noi calunniavamo loro, o loro falsavano. In mezzo non c’era niente. Non poteva esserci niente. Eppure la Procura di Torino ha archiviato per tutti. Lì ho capito che Scarantino era sacro».

A questo punto occorre chiedersi che cosa sta scritto nel verbale del confronto tra Scarantino e Cancemi; e conviene lasciare sempre la parola a Di Gregorio: «Cancemi aveva detto a Scarantino: ma che dici? Che ne sai tu? Chi ti ha raccontato tutte queste balle su via D’Amelio? Chi ti ha messo in bocca tutte queste minchiate? Scarantino non fece migliore figura di quella che avrebbe fatto nell’aula di Como nel 1998, quando chiese di togliere il paravento e dichiarò: non so niente, mi hanno costretto, mi hanno obbligato. Poi ritrattò la ritrattazione, poi di aver ritrattato la ritrattazione. Scarantino era Scarantino. Un poveretto. Ma il processo restava appeso a un oracolo così: 17 anni in questo modo».

Di Gregorio poi racconta episodi che la riguardano direttamente: tra i suoi clienti Giovanni Bontate, fratello del boss Stefano. «Imparentato con lui figurava un tale Di Gregorio, e qualcuno in procura pensò di avere fatto 13. Aprirono un’indagine, solo che quello non c’entrava un accidente con me». Senza aprire un’indagine era sufficiente andare a chiedere all’anagrafe. C’è poi un altro “pentito”, Gaspare Mutolo: sostiene che due fratelli di Di Gregorio sono mafiosi. Ma Rosalba Di Gregorio non ha fratelli. Poi tocca al marito Francesco Marasà, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa: «Ricordo bene tutto, ricordo perfettamente anche il contesto in cui uscì fuori questa notizia. Nacque appena facemmo la denuncia a Torino su quei confronti con Scarantino messi ‘in sonno’». Di Gregorio dice di voler credere alla coincidenza. Per inciso: Marasà viene assolto in primo, secondo e terzo grado.

Conclusione? «Si può rimanere devastati, si può essere annullati. O si può, nonostante tutto, andare avanti come ho fatto io. Mi sono fatto tatuare uno scorpione sul polso. L’ho fatto dopo l’ennesima assoluzione di mio marito. E’ stato un gesto d’istinto, per esorcizzare il passato e dare un messaggio: attenti, d’ora in poi mordo anch’io».

Il libro di Di Gregorio e Marasà cui si è fatto cenno all’inizio, si apre con un brano dalle “Storie” di Erodoto: «La calunnia è una cosa tremenda: sono due quelli che commettono ingiustizia, e uno quello che la subisce. Infatti il calunniatore commette ingiustizia denigrando una persona in sua assenza, e colui che ascolta commette egualmente ingiustizia accettando quello che gli viene detto prima di essersi potuto accertare del vero». Profetico.

Dall’inchiesta de “Il Corriere della Sera”. L'appunto del Servizio segreto civile partì dal centro Sisde di Palermo il 13 agosto 1992, nemmeno un mese dopo la strage di Via D'Amelio che aveva ucciso il giudice Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. Protocollo numero 2298/Z.3068, diretto a Roma. C'era scritto che da «contatti informali» si potevano prevedere imminenti sviluppi sugli autori del furto della macchina imbottita di tritolo e «sul luogo ove la stessa sarebbe stata custodita prima di essere utilizzata nell'attentato».

Oggi quell'appunto è senza padre. Nessuno degli agenti all'epoca in servizio tra Palermo e Roma ha saputo spiegarne origine e significato. Nemmeno colui che probabilmente lo firmò, il quale sostiene di non ricordare nulla di quello strano documento. Strano e «inquietante», come lo definiscono i pubblici ministeri della Procura di Caltanissetta nella memoria conclusiva stesa a tre anni dalla riapertura dell'inchiesta sulla strage. Perché a quella data non c'era ancora l'ombra di un pentito che parlasse del garage che avrebbe nascosto la Fiat 126 rubata per l'attentato. Solo un mese più tardi, il 13 settembre, Salvatore Candura cominciò a parlare della macchina fino ad autoaccusarsi del furto «commesso su incarico di Vincenzo Scarantino che gli aveva promesso un compenso di 500.000 lire». Poi arrivò l'altro «collaboratore di giustizia» Francesco Andriotta, decisivo per la successiva confessione di Scarantino. Falsa come quelle di Andriotta e Candura, ma tutte giudicate attendibili e messe a fondamento di condanne definitive. Finché tre anni fa è arrivato il vero ladro della 126, Gaspare Spatuzza, a riscrivere la storia della strage di via D'Amelio.

Dunque la teoria dei pentiti bugiardi fu anticipata da un documento del Sisde sugli imminenti risultati della Squadra mobile palermitana guidata da Arnaldo La Barbera, investigatore sagace e stimato successivamente divenuto questore di Palermo, Napoli e Roma, assurto ai vertici dell'antiterrorismo e dell' intelligence fino alla prematura scomparsa nel 2002. Un depistaggio sul quale continuano a interrogarsi i magistrati di Caltanissetta: fu un «complotto istituzionale» per chiudere in fretta l'indagine sulla morte di Borsellino, oppure un grave ma «semplice» errore investigativo, commesso dopo aver imboccato una strada che era «doveroso» esplorare?

La storia dell'indagine sbagliata, per come è stata ricostruita dalla Procura nissena, non ha sciolto il mistero. Che si alimenta con la clamorosa ritrattazione (successiva al pentimento di Spatuzza) del falso collaboratore Candura. Il quale nell'interrogatorio del 10 marzo 2009 ha ammesso che diciassette anni prima s'inventò tutto. Trasformando la sua confessione in un atto d'accusa.

Riassumono i pm nella memoria inviata alla commissione parlamentare antimafia: «Egli dichiarava di non aver affatto rubato l'auto; di essere stato indotto ad accusarsi del furto e a chiamare in causa lo Scarantino a seguito delle pressioni fattegli dal dott. Arnaldo La Barbera, che l'aveva "messo con le spalle al muro" dopo che lo stesso era stato arrestato per violenza carnale; di aver conseguentemente, a seguito delle minacce fattegli dal dott. La Barbera oltre che della promessa di un consistente aiuto economico da parte dello Stato, deciso ad autoaccusarsi del furto chiamando in causa lo Scarantino che peraltro gli era stato indicato dallo stesso La Barbera come committente del furto; di aver patito durante il periodo della sua "collaborazione" con lo Stato varie minacce da parte dei funzionari di polizia che riguardavano ora la propria incolumità personale, ora quella dei propri figli».

Tre funzionari di polizia che all'epoca collaboravano con La Barbera nel gruppo investigativo Falcone-Borsellino sono tuttora indagati per calunnia in un procedimento parallelo a quello sulla strage che non s'è concluso. Interrogati, hanno negato qualsiasi irregolarità nelle indagini, e tantomeno i maltrattamenti denunciati dai falsi pentiti. Le cui dichiarazioni più recenti presentano ancora, secondo gli inquirenti, elementi di ambiguità e di incertezza. Tuttavia una spiegazione alle bugie ci deve essere. Anche a quelle di Francesco Andriotta, che raccontò di aver ricevuto in carcere le confidenze di Scarantino sulla sua partecipazione all'attentato di via D'Amelio, ne riferì ai poliziotti finché lo stesso Scarantino si convinse a collaborare con i magistrati. Ma dopo la nuova verità di Spatuzza, pure Andriotta ha fatto marcia indietro. Precisando, tra l'altro, che «nulla sapeva della strage, di non essere stato lui a "costruire le cose" bensì il dott. Arnaldo La Barbera, e che mai Scarantino gli aveva rivelato particolari sulla strage per la quale, anzi, si era sempre protestato innocente».

Nell'ultimo interrogatorio del 24 febbraio scorso, riferendosi a un particolare delle indagini di 17 anni fa, il falso pentito ha detto: «Feci quelle dichiarazioni perché i poliziotti che le Signorie Loro mi menzionano mi diedero degli appunti che contenevano ciò che avrei dovuto riferire ai magistrati». E ai pm che gli domandavano se confermava quanto aveva riferito in un precedente verbale, «e cioè che ogni volta che incontrava i magistrati per essere interrogato, poco prima aveva un colloquio con i funzionari di polizia che gli suggerivano gli argomenti di cui avrebbe dovuto parlare», Andriotta ha risposto: «Confermo».

A conclusione degli accertamenti svolti finora, gli inquirenti affermano che «non si evidenziano elementi decisivi per riscontrare o cestinare l'ipotesi di una "eclatante forzatura investigativa" spintasi sino alla creazione delle false dichiarazioni di Andriotta in merito alle confidenze dello Scarantino sotto la regia degli uomini del cosiddetto Gruppo Falcone-Borsellino». Tuttavia, gli stessi pubblici ministeri scrivono: «Il probabile innamoramento di quel tortuoso sentiero che non si volle più abbandonare, nonostante alcune più o meno palesi incongruenze che provenivano dalle prime fonti di accusa, autorizza oggi questo Ufficio ad avanzare anche l'ipotesi che gli investigatori possano aver operato "forzature" più o meno spregiudicate, facendo ricorso all'aiuto di personaggi che non si possono definire certo "disinteressati"». E infine: «Accanto alle altre ipotesi prospettate, è con pari logica sostenibile che possa esservi stato un vero e proprio "indottrinamento" di Andriotta da parte degli investigatori».

Insomma, resta l'alternativa tra errore in buona fede e falsa pista costruita a tavolino. E a gettare un'ulteriore ombra è la deposizione di un ex poliziotto che all'epoca faceva parte del gruppo Falcone-Borsellino e in seguito ne fu allontanato, Gioacchino Genchi, discusso consulente di molte inchieste giudiziarie: «Ricordo che nel maggio 1993 Arnaldo La Barbera, piangendo, mi disse che doveva diventare questore e che le indagini sulle stragi, faccio riferimento a quella Borsellino, dovevano prendere una certa piega, nel senso che non si poteva più mantenere un'ampia impostazione delle stragi, ma bisognava focalizzare solo quei dati concreti che potevano portare ad immediati risultati, più limitati, ma concreti...».

Come quello garantito dalla pista Candura-Andriotta-Scarantino, oggi sconfessata da Spatuzza. Ma le dichiarazioni di Scarantino non preoccupavano affatto Giuseppe Graviano, il capo-mafia autentico regista della strage di via D'Amelio. Forse gli facevano persino comodo, poiché spostavano l'attenzione dalla sua cosca ad altre. L'ha ricordato uno degli ultimi pentiti considerato attendibile dagli inquirenti, Fabio Tranchina, autista del boss di cui ha svelato il ruolo di esecutore materiale dell'omicidio Borsellino. Del presunto mafioso che riempiva verbali su verbali, Giuseppe Graviano disse: « Parrassi, parrassi quantu vuoli ». Parlasse, parlasse quanto vuole. Lui sapeva che la verità era un'altra.

Da un’inchiesta di “La Repubblica”. Ecco, nelle oltre mille pagine con cui i magistrati di Caltanissetta hanno chiesto la revisione del processo sulla strage di via D'Amelio e di cui Repubblica è venuta in possesso, quella che potrebbe essere la definitiva ricostruzione sull'autobomba che uccise Paolo Borsellino e cinque uomini della sua scorta. La racconta il pentito Gaspare Spatuzza, l'uomo che rubò la Fiat 126 servita per la strage e che la portò, tappa dopo tappa per dieci giorni, fino al garage in cui fu imbottita di esplosivo alla presenza di un misterioso personaggio estraneo a Cosa Nostra.

La Corte d'appello di Catania respinge la richiesta di revisione del processo per la strage di via d'Amelio del 19 luglio 1992 e sospende, però, l'esecuzione della pena per otto imputati, sette dei quali condannati all'ergastolo. L'istanza di revisione, presentata dal pg di Caltanissetta Roberto Scarpinato, è nata dalle nuove rivelazioni di Gaspare Spatuzza che ha chiamato in causa i fratelli Graviano di Brancaccio, e riguardava Salvatore Profeta, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso, Giuseppe La Mattina, Natale Gambino, Gaetano Scotto, Gaetano Murana (condannati all'ergastolo) e Vincenzo Scarantino, il collaboratore di giustizia la cui sentenza a 18 anni è diventata definitiva nonostante la ritrattazione. L'istanza di revisione riguardava anche Salvatore Candura, Salvatore Tomaselli e Giuseppe Orofino (condannati a pene fino a 9 anni) che hanno già espiato la condanna. Tutti sono stati scarcerati tranne Scotto, che resta in carcere per scontare altre condanne, e Profeta, che tornerà in libertà nelle ore successive. "Sono confuso. Non so come pagare, con questi soldi non sono pratico. Io sono rimasto alle lire": queste le prime parole di Murana fuori dal carcere. Murana ha chiamato il difensore, Rosalba Di Gregorio, appena libero. "Sono felice", le ha detto.

La versione di Scarantino, peraltro ritrattata, determinante per le condanne all'ergastolo dei sette è stata ritenuta totalmente inattendibile dalle nuove indagini avviate dopo la collaborazione con la giustizia di Spatuzza e a Caltanissetta si procede anche contro tre poliziotti del gruppo investigativo sulle stragi che avrebbero avallato la falsa ricostruzione di Scarantino. Secondo i giudici di Catania, però, occorre che ci sia una nuova sentenza, quantomeno a carico di Scarantino per il reato di calunnia nei confronti degli imputati condannati, prima di potere revisionare la sentenza. Reato di calunnia a rischio prescrizione. Intanto, però, al di là della questione tecnica, il verdetto di Catania segna un primo determinante traguardo sulla strada della verità sull'eccidio che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della sua scorta. In sette, ad eccezione di Scotto saranno liberi. Scotto ha infatti un'altra condanna per droga e per tentato omicidio. L'ex pentito Scarantino ha finito di espiare una condanna a 8 anni inflittagli a Roma per la calunnia nei confronti dei pm che indagarono sulla strage a partire dalla sua confessione e un'altra a 9 anni per droga.

Il primo dei condannati ora liberati ad essere stato arrestato è Salvatore Profeta, condotto in carcere nel 1993. Gli altri erano stati arrestati nel 1994. La Mattina e Gambino rimasero latitanti fino al 1997 quando furono catturati insieme con il boss Pietro Aglieri.

Chi aveva posteggiato l'autovettura Fiat 126 imbottita d'esplosivo davanti la porta d'ingresso dell'edificio di via D'Amelio dove abitavano Rita Borsellino e i suoi familiari? Chi aveva azionato il telecomando e da dove? Chi aveva risposto alla telefonata di Giovanbattista Ferrante che il pomeriggio del 19 luglio annunciava l'arrivo di Paolo Borsellino in Via D'Amelio? I magistrati di Caltanissetta rispondono a queste domande in 1135 pagine di memoria.

Nelle parole del pentito Gaspare Spatuzza il percorso della Fiat 126 che uccise Paolo Borsellino. L'automobile viene rubata, riparata e condotta in Villasevaglios. Spatuzza trova ad attenderlo due boss di Brancaccio, Renzino Tinnirello e Ciccio Tagliavia, e un misterioso personaggio sui cinquant'anni che non appartiene a Cosa Nostra. L'auto viene imbottita di esplosivo e "innescata". Giuseppe Graviano, alle 16 e 58, del 19 luglio '92 preme il pulsante che uccide il magistrato. "Io so di via D'Amelio perché l'auto imbottita di tritolo l'ho rubata io". Comincia così la narrazione con cui Gaspare Spatuzza riscrive la strage di Borsellino e della sua scorta e scagiona otto palermitani condannati all'ergastolo per quel reato. Una testimonianza ricca di dettagli, compresa la descrizione di un misterioso cinquantenne, "non di Cosa Nostra", che aspettava la Fiat 126 nel garage dove fu trasformata in autobomba: un uomo che potrebbe essere il collegamento con i servizi deviati.

Tutto cominciò con una soffiata. Ancora oggi non si sa esattamente da dove è venuta. Forse dal Sisde, il servizio segreto civile che l’ha trasmessa alla polizia di Palermo. O forse dalla polizia di Palermo, che l’ha trasmessa al Sisde. Era una soffiata fasulla. Sull’auto che aveva fatto saltare in aria Paolo Borsellino e sui mafiosi che l’avevano rubata. Dopo quasi vent’anni, è arrivato però Gaspare Spatuzza che ha riscritto la storia delle stragi siciliane. Lo  racconta lui come hanno ammazzato, il 19 luglio del 1992, l’erede di Falcone. Cancellando con le sue confessioni indagini pilotate e processi passati al vaglio della Cassazione, indicando depistaggi e piste ingannevoli. Un romanzo nero riscontrato punto dopo punto negli ultimi due anni. In una drammatica narrazione Gaspare Spatuzza rivela come i boss – e probabilmente qualcun altro – prepararono ed eseguirono il massacro."Io so di via D’Amelio perché l’auto imbottita di tritolo l’ho rubata io…". Comincia così il primo interrogatorio – il 26 giugno del 2008 – dell’uomo d’onore di Brancaccio con il procuratore capo di Caltanissetta Sergio Lari. “La Repubblica” è venuta in possesso delle 1138 pagine della richiesta di revisione con la quale la magistratura di Caltanissetta ha chiesto la "sospensione della pena" per otto imputati ingiustamente condannati all’ergastolo, otto palermitani trascinati nel gorgo delle investigazioni da falsi collaboratori di giustizia e da un’inchiesta poliziesca che oggi è sotto accusa. Se quasi vent’anni fa, poliziotti e pubblici ministeri si erano fidati (dopo quella soffiata "inquietante", come la definiscono i procuratori siciliani) del picciotto di borgata Vincenzo Scarantino che li ha portati verso il nulla, adesso Gaspare Spatuzza spiega come andarono veramente le cose. E parla soprattutto di sé. Di quando lui – e non Scarantino, il bugiardo - rubò quella Fiat 126 che poi servì per l’attentato. Di come la portò in giro per Palermo. Fra garage e magazzini, dalla foce del fiume Oreto fin sotto la casa della madre del magistrato.Tutte le falsità del pentito Scarantino si erano concentrate proprio sul furto di quella 126. Ecco la nuova versione di Gaspare Spatuzza. Con un disegno di suo pugno del luogo dove rubò l’auto. Con tutte le foto del percorso dell’utilitaria attraverso Palermo: dal box dove fu custodita al box dove fu imbottita di esplosivo.

Parla Gaspare Spatuzza: «Io fui incaricato di un furto di una Fiat 126 da Fifetto Cannella, per ordine del boss Giuseppe Graviano. In quel momento ho pensato subito al giudice Rocco Chinnici, anche lui saltò su una 126... ma non sapevo ancora a cosa mi stavo prestando... L’ho rubata io insieme a Vittorio Tutino, nella notte fra l’8 e il 9 luglio, dieci giorni prima della strage. Poi, l’ho tenuta in diversi magazzini - Il pentito racconta come preparano la strage, giorno dopo giorno - Cannella, mi disse che avrei dovuto rubare proprio una 126. Era prima di mezzanotte. L’abbiamo trovata in una stradina che collega via Oreto Nuova con via Fichi d’India… io rimango in macchina… vedendo che lui, il Tutino, aveva perso del tempo… cerco di andare a vedere cosa stava combinando… quindi scendo dalla macchina e gli dico: ‘Ma che fai?’… e lui mi dice: ‘Mi viene difficile a rompere il blocca sterzo’… rimango lì con lui che poi è riuscito a romperlo ma non ce la facciamo a metterla in moto perché aveva rotto tutti i fili, quindi decidiamo di portarla via a spinta». L’auto che ucciderà il procuratore Borsellino, dieci notti prima era una carcassa che neanche partiva. Ricorda ancora Spatuzza: «La macchina era sul rossiccio e tra l’amaranto e il sangue di bue… comunque era di un colore rosso spento… quindi attraversiamo verso Brancaccio e la portiamo in un magazzino di Fondo Schifano. Percorriamo via Fichi d’India, San Ciro, via San Gaetano fino al capannone dove io avevo già iniziato la ‘macinatura’ dell’esplosivo che era nascosto in alcuni fusti di metallo.-  Poi Spatuzza e Tutino avvertono Fifetto Cannella e Giuseppe Graviano - Abbiamo la macchina - Poi ancora Spatuzza incontra da solo il suo boss,Giuseppe Graviano, quello che lui chiama "Madre Natura". Dice - Mi fa un sacco di domande: mi chiede di questa 126… dove l’avevo rubata, se era intestata a persone di nostra conoscenza e gli ho detto di no, se qualcuno l’aveva già cercata e gli ho detto ancora di no. Gli ho spiegato che c’era la frizione bruciata, e per bruciare la frizione in quel genere… sicuramente la macchina era di una donna perché le donne portano i tacchi… quindi hanno il problema di staccare la frizione. E poi gli ho anche detto che ci ha… il problema della frenatura… che freni non ce ne ha… lui mi dice: ‘Puliscila tutta e di levare tutti i santini e anche l’immagine di Santa Rosalia’. Io quindi la pulisco tutta… levo tutti i segnali di riferimento che si poteva e ho bruciato i documenti, fogli, tutto quello che esisteva l’ho bruciato… anche un ombrello ».

Dopo due giorni Gaspare Spatuzza sposta l’auto in un altro suo magazzino di corso dei Mille, dove poi porta un meccanico. «Sono andato a cercare a questo Maurizio Costa e gli ho detto che dovevamo fare un lavoretto nella 126, gli ho spiegato che si doveva fare la frenatura ma non gli ho detto altro. Gli ho fatto capire che l’auto era di un latitante e gli ho fatto capire anche che non doveva parlare. Quindi sono andato a comprare i ganasci, olio e altri pezzi. Ho speso quasi centomila lire». Spatuzza riceve da Vittorio Tutino due batterie e un antennino da collegare a un telecomando. E anche l’ordine di rubare due targhe di altre Fiat 126 per metterle sopra all’autobomba. Il boss Graviano gli raccomanda di rubare le targhe il sabato mattina, il 18 luglio. Così il furto, probabilmente, verrà denunciato solo il lunedì successivo. Dopo la strage. E’ a quel punto che venerdì 17 luglio, verso le tre del pomeriggio, una Fiat 126 color amaranto scivola per le vie di Palermo carica di tritolo. Alla guida c’è Gaspare Spatuzza, accanto a lui Fifetto Cannella. Appena s’infila in corso dei Mille, Spatuzza incrocia con lo sguardo Nino Mangano, il capo del mandamento di Brancaccio che gli fa da battistrada su un’altra automobile. Spatuzza è sorpreso, poi capisce che è lì un po’ per controllarlo e un po’ per proteggerlo. Corso dei Mille, via Roccella, via Ventisette Maggio, piazza dell’Ucciardone dove c’è il vecchio carcere. Proprio, in quella piazza, c’è un posto di blocco della Guardia di Finanza. La staffetta Mangano avverte Spatuzza, che svolta all’improvviso verso il Borgo Vecchio. Si ferma a un chiosco, prende tempo. Quando Nino Mangano gli dice che la strada è libera, la Fiat 126 ritorna indietro, supera l’Ucciardone e punta verso la via Don Orione. Dopo poche decine di metri l’utilitaria sparisce dentro un garage di via Villasevaglios 17. C’è uno scivolo di cemento, c’è un cancello di ferro e poi una saracinesca. Quando sale, Gaspare Spatuzza infila il muso della Fiat 126 lì dentro, dove ci sono ad aspettarlo due uomini. Uno è Renzo Tinnirello della "famiglia" di corso dei Mille, l’altro è Ciccio Tagliavia di Brancaccio. Ma alle loro spalle, nell’ombra, c’è anche uno sconosciuto, un uomo di una cinquantina d'anni che non è un mafioso. Nel 2009 Gaspare Spatuzza aveva indicato quell’uomo, con nome e cognome, come un appartenente ai servizi segreti. Nel 2010 ha fatto marcia indietro, parlando solo "di una certa somiglianza". Spento il motore della Fiat 126, Tinnirello dice a Spatuzza di pulire lo sterzo per cancellare le sue impronte digitali. Poi Tinnirello e Tagliavia imbottiscono l’auto e preparano l’innesco. Gaspare Spatuzza torna verso la sua Brancaccio, passa dall’Ucciardone ("il posto di blocco della Finanza non c’era più") e intuisce - dalla vicinanza con la casa della madre di Paolo Borsellino - a cosa servirà quella Fiat 126.

Era dalla prima settimana di luglio che erano cominciati gli appostamenti in via Mariano D’Amelio. Il primo sopralluogo. Poi, il secondo sopralluogo "circa una settimana prima della strage". Li avevano fatti Fabio Tranchina e Giuseppe Graviano. Il boss aveva chiesto a Tranchina  di procurarsi anche un appartamento lì vicino ("senza agenzie, mi raccomando...") ma poi aveva visto un giardino dietro la casa della madre del magistrato e aveva deciso di piazzarsi lì con il telecomando. Sabato 11 luglio il boss Salvatore Biondino e i due cugini Salvatore Biondo e Giovan Battista Ferrante (uno detto "il  lungo" e l’altro "il corto") provano il telecomando in campagna. Lunedì 13 luglio i Ganci della Noce contattano Antonino Galliano e lo avvertono di "tenersi pronto per pedinare" Borsellino la domenica successiva. Il 16 luglio Salvatore Biondino dice a Giovanni Brusca che è "sotto lavoro" ma che non ha bisogno di aiuto per la strage. Il 17 luglio Biondino chiama Ferrante e gli ordina "di tenersi libero per domenica che c’è da fare". Sabato 18 luglio Raffaele Ganci informa Salvatore Cancemi che, il giorno dopo, Borsellino morirà.Alle sette del mattino di domenica 19 luglio i mafiosi delle "famiglie" della Noce, di San Lorenzo e di Porta Nuova sono "in osservazione" intorno a via Mariano D’Amelio. Alle 16,58 il procuratore salta in aria con cinque agenti della sua scorta. Sono stati solo i mafiosi? Scrive il procuratore Sergio Lari nella richiesta di revisione del processo Borsellino presentata alla procura generale di Catania: "Dopo diciannove anni, potrebbe sembrare singolare, se non addirittura anomalo, che siano state avviate nuove indagini destinate a mettere in discussione ‘verità’ che ormai sembravano acquisite". E, riferendosi alle false piste, il procuratore scrive: "Bisogna comprendere se con i depistaggi si volevano coprire la responsabilità di ‘soggetti esterni’ a Cosa Nostra riconducibili ad apparati deviati dei servizi segreti, ovvero ad altre Istituzioni o a organizzazioni terroristico-eversive".

IL PATTO MAFIA-STATO, LE ORIGINI. Al tempo delle stragi c'è stata una trattativa con Cosa Nostra per 'risparmiare' ministri e politici. Dopo 19 anni, i procuratori di Palermo ipotizzano che dopo l'uccisione di Salvo Lima (marzo 1992) altri fossero nel mirino dei Corleonesi. E il Viminale era così preoccupato da spedire un fax per lanciare l'allerta. Dal 2009 si indaga su "strategie destabilizzanti" ed "eventi omicidiari" che nel 1992 avrebbero potuto insanguinare il Paese. Secondo i magistrati, la trattativa tra Stato e mafia non è dipesa da Totò Riina, ma dalla volontà di evitare episodi stragisti, assassinii e sequestri di leader di partito e di governo: da Andreotti a Mannino, da Vizzini a Martelli, ecco chi era nel mirino delle cosche. I segreti di quei giorni in un documento del Viminale. Oggi sappiamo perché, al tempo delle stragi, c'è stata una trattativa con la mafia. Sappiamo che non l'ha voluta Totò Riina, ma l'ha voluta lo Stato: per salvare la vita di alcuni uomini politici. Erano in una lista nera. Un elenco di ministri.  E fra loro c'era anche - come riportava una nota del Viminale alla fine dell'inverno 1992 - quello che veniva considerato "il futuro presidente della Repubblica", ossia Giulio Andreotti. Dopo diciannove anni avvolti nell'omertà e nei depistaggi, su quel patto segreto i procuratori di Palermo stanno seguendo una pista che porta dritta a una conclusione: dopo l'uccisione dell'eurodeputato siciliano Salvo Lima e dopo quella del giudice Giovanni Falcone, qualcun altro era finito nel mirino dei Corleonesi e così ha ordinato - a uomini di fiducia dei reparti investigativi - di agganciare i boss per fermare i sicari e salvarsi la pelle. Pezzi da novanta della politica che i mafiosi, a torto o a ragione, consideravano "traditori". Amici o complici che non avevano rispettato accordi antichi, gente che in passato (nel migliore dei casi) si era presa i voti di Cosa Nostra e poi aveva voltato le spalle dimenticando tutto. La lista nera che hanno ricostruito i magistrati siciliani è il risultato di una lunghissima attività istruttoria iniziata nella primavera del 2009 e che è stata completata con l'acquisizione, un mese e mezzo fa, di un documento del ministero dell'Interno su "strategie destabilizzanti" e "eventi omicidiari" che nel 1992 avrebbero insanguinato il Paese. Il documento è diventato pubblico il 10 ottobre 2011, depositato dai pm al processo contro il generale Mario Mori, accusato di avere favorito la latitanza di Bernardo Provenzano. Un dibattimento che è diventato, di fatto, un "pezzo" della trattativa fra Stato e mafia. Ma torniamo all'elenco dei bersagli della mafia scoperti dagli investigatori. Si apre con quello che era allora il ministro per gli Interventi Straordinari per il Mezzogiorno, Calogero Mannino, un ras in Sicilia. E poi Carlo Vizzini, palermitano, ministro delle Poste e Telecomunicazioni. Il ministro della Giustizia Claudio Martelli, che da poco più di un anno aveva chiamato accanto a sé Giovanni Falcone come direttore generale degli Affari penali al ministero di via Arenula. E Salvo Andò, catanese, socialista craxiano, ministro della Difesa. C'era anche Sebastiano Purpura, un politico siciliano che diciannove anni prima era assessore regionale al Bilancio e soprattutto era un fedelissimo di Salvo Lima. Sono loro i primi nomi che compaiono nell'indagine dei magistrati di Palermo. L'inchiesta sulla trattativa sembra arrivata a una svolta decisiva. Dalla montagna di carte - centinaia di interrogatori, confronti all'americana, deposizione di pentiti, sequestro di atti - sul negoziato cominciato subito dopo la strage Falcone e poco prima della strage Borsellino è affiorato il "movente", probabilmente è stata individuata la ragione che ha portato uomini degli apparati ad avvicinare personaggi come l'ex sindaco mafioso Vito Ciancimino e che ha convinto successivamente lo stesso Totò Riina a scrivere il "papello", quella piattaforma di rivendicazioni giudiziarie e carcerarie in favore di Cosa Nostra da sottoporre allo Stato. Sconti di pena, revisione del maxi processo, abolizione del carcere duro in cambio del silenzio delle armi. Il filo che seguono i pm siciliani - indagano Antonio Ingroia, Nino Di Matteo, Lia Sava e Paolo Guido - parte dagli omicidi Lima e Falcone. Lima, uomo vicino a Cosa Nostra e vicerè siciliano di Giulio Andreotti, viene ucciso il 12 marzo 1992 fra i vialetti di Mondello. Colpito alle spalle, proprio come un traditore. Fatto fuori dai Corleonesi perché "non ha rispettato i patti". In sostanza, Lima paga il conto per non avere più "garantito" Cosa Nostra, in particolare muore "per non essere riuscito a far aggiustare il maxi processo in Cassazione". L'omicidio Lima cambia per sempre la storia di Palermo e fa saltare tutti gli equilibri politici in Italia. Il primo che paga un altro conto - che poi è sempre lo stesso - è Giulio Andreotti, presidente del Consiglio per la settima volta in quel 1992 e in pole position per l'elezione di fine primavera alla Presidenza della Repubblica. Ma il delitto Lima lo "brucia", gli sbarra per sempre la strada per il Quirinale, dove il 24 maggio - dopo tante fumate nere e a ventiquattro ore dalla strage di Capaci - salirà Oscar Luigi Scalfaro. E' comunque già all'indomani del delitto Lima che il ministero dell'Interno, a firma del potentissimo capo della polizia Vincenzo Parisi, dirama un telegramma di due pagine indirizzato a tutti i prefetti e a tutti i questori, all'alto commissario per la lotta alla mafia, al direttore della Dia, ai capi del servizio segreto civile e a quello militare "e per conoscenza al comando generale dell'Arma dei carabinieri e al comando generale della Guardia di finanza". Porta la data del 16 marzo del 1992, appena quattro giorni dall'omicidio di Palermo. Il capo della polizia cita alcune fonti che annunciano "nel periodo marzo luglio corrente anno, campagna terroristica con omicidi esponenti Dc, Psi et Pds, nonché sequestro et omicidio futuro presidente della Repubblica. Quadro strategia comprendente anche episodi stragisti". Più avanti il telegramma di Parisi invita "at più attenta vigilanza" per il ministro Calogero Mannino e per il ministro Carlo Vizzini. Quello di Parisi non è un "avviso" di routine. Ed è subito evidente. Passano altri quattro giorni e il ministro dell'Interno Vincenzo Scotti riferisce di "un piano destabilizzante" in un'audizione alla commissione Affari Costituzionali del Senato. Ma tutti danno addosso a Scotti. Non gli credono. C'è anche una misteriosa fuga di notizie sul telegramma di Parisi e salta fuori il nome di una delle "fonti confidenziali" che segnala gli attentati: è un detenuto, tale Elio Ciolini, con un passato di depistatore e calunniatore. Ciolini in quel momento è nel carcere di Sollicciano, dove sconta una pena a nove anni per false rivelazioni sulla strage alla stazione di Bologna. Tutti dicono che è un bluff. Tutti tranne il ministro Scotti e il capo della polizia Parisi che nel suo dispaccio scrive di "fondati indizi sull'esistenza di un progetto di destabilizzazione del sistema democratico del nostro Paese". Probabilmente Parisi, oltre a Ciolini, ha altre "fonti". Ma il suo allarme cade incredibilmente nel vuoto.Il presidente del Consiglio Andreotti si precipita a parlare "dello scherzo di un pataccaro", il presidente della Repubblica Cossiga ridimensiona il pericolo. In quegli stessi giorni qualcuno, sfidando un imponente servizio di sicurezza, entra nello studio romano del ministro Scotti in via Pietro Cossa, a Prati, e mette a soqquadro tutto senza rubare nulla. Un avvertimento. Come siano andate le cose poi, è noto. Dopo Lima, il 23 maggio 1992 c'è la strage di Capaci. Dopo Falcone, il 19 luglio 1992, c'è la strage di via Mariano D'Amelio. E' fra Capaci e via Mariano D'Amelio - ne sono convinti i procuratori di Palermo - che inizia la trattativa fra Stato e mafia. Paolo Borsellino ne viene a conoscenza, si mette di traverso e lo uccidono. Alcuni di quegli uomini politici indicati nella lista dei pm siciliani sono sempre più spaventati, prendono contatti negli stati maggiori dei reparti investigativi e qualcuno trova il modo di "dialogare" con Cosa Nostra. Prima con l'ex sindaco Vito Ciancimino, poi con altri personaggi che sono ancora nell'ombra. Ma nei giorni e nei mesi successivi accade molto altro, fra Roma e Palermo. Vincenzo Scotti, che l'8 giugno insieme al Guardasigilli Martelli firma un decreto (il 41 bis) per il carcere duro ai mafiosi, a inizio luglio è improvvisamente dirottato alla Farnesina e il suo posto all'Interno è preso da Nicola Mancino. Neanche un anno dopo Giulio Andreotti finisce sotto processo per mafia, e alla fine si salverà con una prescrizione. Totò Riina viene venduto e catturato in circostanze misteriosissime nel gennaio 1993. E così Cosa Nostra, senza più delitti eccellenti, assicura allo Stato italiano una lunga stagione di "pace". Tutti gli uomini politici di quella lista nera sono vivi. E scomparsi dalla grande scena politica. E' il 16 marzo del 1992, quando questo documento, a firma del capo della Polizia Vincenzo Parisi, viene inviato a tutti: prefetti, questori, l’alto commissario per la lotta alla mafia, il direttore della Dia, i capi del servizio segreto civile e a quello militare. Quattro giorni prima, il 12 marzo, è morto a Palermo Salvo Lima, ucciso dalla mafia. Il ministero degli Interni, in questa nota, dichiara di temere che "Nel periodo marzo luglio corrente anno, campagna terroristica con omicidi esponenti Dc, Psi et Pds, nonché sequestro et omicidio futuro presidente della Repubblica. Quadro strategia comprendente anche episodi stragisti". Più avanti il telegramma di Parisi invita "at più attenta vigilanza" per il ministro Calogero Mannino e per il ministro Carlo Vizzini. Nel mirino della criminalità c'è anche Giulio Andreotti.  La lista nera che hanno ricostruito i magistrati siciliani è il risultato di una lunghissima attività istruttoria iniziata nella primavera del 2009 e che è stata completata, un mese e mezzo fa, con l'acquisizione di queste due pagine che sono diventate pubbliche il 10 ottobre 2011.

"Il nemico è sempre lì, in attesa, pronto a colpire. Ma noi non riusciamo neppure a metterci d'accordo sull'elezione del presidente della Repubblica. Cosa Nostra delinque senza soste, mentre noi litighiamo senza soste". Era il 19 maggio 1992 quando Giovanni Falcone rilasciò la sua ultima intervista a “La Repubblica” di Napoli. Quattro giorni dopo, domenica 23 maggio 1992, il magistrato volò a Palermo. A Capaci, a pochi chilometri dall'aeroporto, 500 chili di tritolo fecero saltare in aria la sua macchina e quelle della scorta. Oltre al giudice Giovanni Falcone, persero la vita anche la moglie e i tre carabinieri che lo accompagnavano.

Il 1992 è l'anno delle stragi, quello degli attacchi del clan dei corleonesi contro lo Stato. È l'anno della violenza, delle bombe di Capaci e via D'Amelio e delle minacce. È l'anno della trattativa e del 'papello' in cui Cosa Nostra presenta un elenco di richieste per porre fine alla stagione stragista. È l'anno in cui le elezioni politiche del 5-6 aprile lasciano l'Italia in una crisi drammatica e profonda, che getta discredito sulle vecchie élite politiche travolte dai primi avvisi di garanzia della stagione tangentopoli. È l'anno in cui Giulio Andreotti vede sfumare la propria elezione al Quirinale, al suo posto si insedia Oscar Luigi Scalfaro. 

Il 17 gennaio la Camera, con voto di fiducia, approva il decreto che istituisce la Direzione nazionale antimafia. A volerla è Giovanni Falcone. Il magistrato era stato chiamato da Claudio Martelli alla direzione generale degli Affari penali del ministero di Grazia e Giustizia. L'obiettivo è avere uno strumento utile a contrastare la criminalità organizzata e coordinare, in ambito nazionale, le indagini di tutte le procure.

Pochi giorni dopo, il 30 gennaio, la prima sezione penale della Cassazione pronuncia la sentenza definitiva che chiude il Maxiprocesso di Palermo: 360 condannati su 474 imputati. Il totale è da record: 2665 anni di carcere, 11 miliardi e mezzo di lire di multe e 114 assoluzioni. Gli ergastoli invece sono 19, tutti per i principali killer e boss mafiosi: Michele Greco, Giuseppe Marchese, Salvatore Riina, Giuseppe Lucchese Micciché e Bernardo Provenzano.

Il 17 febbraio scatta l'ora delle manette di Mario Chiesa. Il faccendiere viene colto in flagrante mentre accetta una tangente di sette milioni di lire da un imprenditore. Bettino Craxi lo definisce "mariuolo". Antonio Di Pietro lo fa arrestare. Lui è inconsapevole ma diventerà il simbolo di Tangentopoli, quell'intreccio fra politica e affari, uomini dei maggiori partiti di governo e opposizione, grandi imprese, grandi imprenditori e manager.

Il 12 marzo è Palermo a tornare sotto i riflettori. La mafia uccide Salvo Lima, deputato della Democrazia cristiana al Parlamento europeo, ex sindaco di Palermo e capo della locale corrente andreottiana. Il cadavere del 'console' di Andreotti in Sicilia era ancora sul marciapiede quando tutti notarono l'atipicità del delitto. Troppe domande restavano senza risposta: "Perché hanno lasciato in vita i testimoni oculari? Perchè non hanno bruciato la motocicletta dopo l'omicidio? Perchè hanno sparato solo con una pistola?". Fu subito chiaro che si trattò di un delitto di stampo mafioso, restava incerto il movente. In realtà, si dirà qualche anno più tardi, Lima pagò il conto per non avere più "garantito" Cosa Nostra, in particolare morì "per non essere riuscito a far aggiustare il maxi processo in Cassazione". Il delitto di Lima non fu un caso isolato. Il giorno prima, l'11 marzo, a Castellammare di Stabia viene ucciso Sebastiano Corrado, un consigliere comunale del Pds. Due killer lo ammazzano con cinque colpi calibro 7.65, in una stradina del centro, in pieno giorno. 'Stava dalla parte giusta', dice chi lo conosceva. In realtà, più tardi, si scoprirà che Corrado era impegolato in traffici poco puliti con la malavita organizzata.

Giovedì 13 marzo, cinque pallottole calibro 45 uccidono Salvatore Gaglio, 50 anni, segretario della Federazione del Psi di Bruxelles. Erano le cinque e mezzo  del pomeriggio e Salvatore Gaglio, siciliano, usciva di casa per svolgere le sue incombenze abituali, prima di recarsi a Mons dove era atteso per una riunione di partito che avrebbe dovuto organizzare la partecipazione degli immigrati alle elezioni italiane del 5 aprile. I giornali parlano subito di "delitto di mafia".

Manca poco meno di un mese alle politiche. Il presidente del Senato Giovanni Spadolini denuncia "un assalto della criminalità organizzata tendente a piegare la Repubblica" e invita alla mobilitazione: "Bisogna avere il coraggio di dire che occorre ricostituire un Fronte morale nazionale dopo le elezioni, chiuse queste polemiche, volto principalmente a restituire allo Stato la sovranità che ha perduto su una parte delle sue regioni".

Il 5 aprile si vota: la Democrazia cristiana prende il 29,7% dei voti; il Pds 16,1%; Psi 13,6%; Lega Nord 8,7%; Prc 5,6%; Pri 4,4%; Pli 2,9%. Il 24 aprile si dimette il settimo governo Andreotti. Il giorno dopo il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga annuncia le sue dimissioni in un discorso televisivo, due mesi prima del termine della sua carica. 

Il 2 maggio il Tribunale di Milano invia un avviso di garanzia a Carlo Tognoli e Paolo Pillitteri, socialisti, ex sindaci di Milano, sono indagati nell'ambito dell'inchiesta mani pulite. Simili provvedimenti giungeranno in maggio a numerosi imprenditori e politici lombardi. 

Il 23 maggio, sull'autostrada che collega Palermo all'aeroporto di Punta Raisi esplode una carica di tritolo che uccide il giudice Giovanni Falcone, sua moglie e tre agenti di scorta.

Il 19 luglio a Palermo, in via D'Amelio, un'autobomba massacra il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta. Dicono che fu ucciso perché sapeva ed era contrario alla trattativa Mafia-Stato. In particolare l'obiettivo di Cosa Nostra era l'abolizione del 41 bis e la revisione del maxi-processo. La prima vede protagonisti il boss Ciancimino e Mario Mori, vicecapo del Ros dei Carabinieri. La seconda invece Antonino Gioè (killer delle stragi) e Paolo Bellini, confidente dei carabinieri.

Il 10 agosto viene approvato in via definitiva un pacchetto di misure contro la mafia: invio in Sicilia di 7000 uomini dell'esercito; oltre 100 boss mafiosi vengono trasferiti nel carcere dell'Asinara.L'anno si conclude con il primo avviso di garanzia al segretario del PSI Bettino Craxi per corruzione, ricettazione e violazione del finanziamento pubblico ai partiti.

Tutto il resto è noto, la stagione di Tangentopoli mise alla porta o ridimensionò fortemente partiti storici come la Democrazia Cristiana, il Partito Socialista Italiano, il PSDI, il PLI e aprì la stagione della Seconda Repubblica.

Anche Totò Riina, il capo dei capi, da 18 anni "carcerato modello", rinchiuso nella prigione di Opera, parla in qualche modo di quei giorni cruciali del 1992. Lo fa nei due interrogatori del luglio 2009 e del luglio 2010 di cui Repubblica ha pubblicato i verbali poi oscurati da una decisione della Procura di Caltanissetta. Quei verbali, tutt'ora consultabili sul web (centinaia di siti li hanno scaricati prima del decreto di "oscuramento" e "sequestro preventivo") assumono un interesse anche maggiore alla luce della pista che, in questi mesi, la Procura di Palermo sta seguendo. Pista che porta al telegramma del 16 marzo 1992 in cui il capo della Polizia Vincenzo Parisi parlava di un'ipotesi stragista e di omicidi "eccellenti" che la mafia stava preparando: quelli di Andreotti, Vizzini, Mannino, Andò e Martelli. Il timore che la strage si concretizzasse avrebbe portato lo Stato a trattare con Cosa Nostra per salvare le loro vite. Negli interrogatori, Riina non parla esplicitamente di quei fatti e di quei giorni, ma qualcosa dice. Soprattutto dove afferma che qualcuno ha avuto interesse a venderlo e a farlo arrestare e che qualcuno non è Balduccio Di Maggio. Qui, infatti, Riina chiama in causa Nicola Mancino che, proprio in quelle settimane di luglio, subito dopo la strage di Capaci, era subentrato a Vincenzo Scotti sulla scomodissima poltrona di ministro degli Interni. E ricorda che Mancino "annunciò" la sua imminente cattura sei giorni prima che lo prendessero nel suo covo in pieno centro di Palermo nel gennaio 1993. Riina esclude che a tradirlo sia stato Balduccio Di Maggio, non esclude Provenzano (ma poi afferma che Provenzano ha la sola colpa di essere "troppo scrittore", insomma, di scrivere troppi pizzini). Il capo dei capi si chiede come facesse Mancino a sapere che stavano per mettergli le manette. E, implicitamente, sembra chiedersi se qualcuno dell'apparato dello Stato fosse in contatto con quelli che l'hanno venduto. In un altro punto, Riina parla del famoso "papello" di Ciancimino (una sorta di "minuta" dell'accordo Stato-mafia) negando di averlo mai visto ("sotto ci dovrebbe essere la mia firma") e tutto il resto della sua deposizione è teso a dire che lui con l'accordo non c'entra. E in altri momenti dei suoi incontri con i magistrati di Caltanissetta, Riina sembra quasi chiedere alla giustizia di rispondere ad alcuni suoi dubbi su come sono andate davvero le cose. E' come se, a distanza di anni, anche al Capo dei capi i conti non tornassero, almeno non del tutto: sull'eventuale trattativa, sugli autori e i mandanti delle stragi e delle bombe. Da Capaci a via D'Amelio, da Firenze (via dei Georgofili), a Roma (San Giovanni in Laterano) a Milano (Via Palestro), la mafia era certamente coinvolta, ma, oggi, neppure Totò Riina sembra sicuro di conoscere tutti i protagonisti. E, tra le righe, sembra chiedere, ancora una volta, una mano allo Stato.

Sequestro "preventivo" (dodici ore dopo la loro pubblicazione sul web) per i verbali dei due interrogatori di Totò Riina (luglio 2009 e luglio 2010) pubblicati (per ampi stralci) in versione cartacea e, contemporaneamente, in versione integrale, su Repubblica.it nella sezione "RE Le inchieste". La decisione è stata presa dalla Procura della Repubblica di Caltanissetta che ha emanato un "decreto di sequestro preventivo" e ha indagato i giornalisti Attilio Bolzoni (Repubblica) e Lirio Abbate (L'Espresso) per violazione del segreto istruttorio in concorso con "pubblici ufficiali da individuare". Il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari e il suo aggiunto Domenico Gozzo hanno ordinato a due ufficiali di Polizia giudiziaria (che si sono presentati nella sede del Gruppo Espresso in via Cristoforo Colombo a Roma) di provvedere a "estrarre e copiare su supporto informatico le pagine oggetto di sequestro". Si tratta di nove file tra i quali ci sono effettivamente i verbali degli interrogatori, ma anche una serie di articoli a firma di Bolzoni e Abbate, una innocente ricostruzione della vita e della carriera criminale di Riina e una galleria di foto del "Capo dei capi". Un provvedimento clamoroso per l'informazione italiana su internet. Assolutamente particolare per l'importanza del media, per il carattere "preventivo" e per il tipo di reato ipotizzato, cioé la violazione del segreto istruttorio. E anche, apparentemente, privo di risultati pratici. A quest'ora, infatti, i verbali sono stati letti da almeno due milioni di utenti unici molti dei quali li hanno scaricati e ricopiati su altri siti e blog. Il risultato è che la lettura dei verbali è ancora possibile su centinaia di pagine web. Il decreto di sequestro recita: "Si deve evidenziare come la misura appaia necessaria per impedire l'aggravamento e la protrazione delle conseguenze del reato. In tal caso, le conseguenze sono ravvisabili in un aumento esponenziale della diffusione della conoscenza delle notizie riservate e segrete contenute nella documentazione pubblicata su internet". Ma la "diffusione" inevitabilmente continuerà e sarà praticamente impossibile fermarla.

Ma cosa contenevano i verbali dell'interrogatorio di Riina? Il boss di Cosa Nostra aveva chiesto di essere sentito in due diverse riprese. A novembre, il capomafia da 17 anni all'ergastolo in regime di isolamento, farà ottantuno anni. Nonostante i malanni dell’età - due infarti, l’ipertrofia prostatica, una cirrosi da epatite C - e il perenne isolamento, a sentirlo parlare sembra quello che era prima. Un capo. Forse il tempo non passa mai per lo "zio Totò". Vive fuori dal mondo e si sente al centro del mondo. E’ sepolto dal 1993 in un buco (una cella lunga tre metri e larga centottanta centimetri), si mostra duro e puro però sotto sotto nasconde qualche fragilità. Cedimenti mai, non è il tipo. Solo piccole debolezze. E’ sempre lui ma – da quello che si legge nei verbali – si può capire che un po’ gli si è sciolta la lingua. Dopo un’ esistenza di ostinato silenzio Salvatore Riina concede e si concede. Allude, ammicca, annuncia, nega, conferma, rettifica, pontifica su tutto e tutti. Difficile supporre che si tratti di strategia difensiva con i tredici ergastoli che ha da scontare, è più probabile che voglia levarsi qualche sassolino dalla scarpa. E mandare messaggi ad amici e nemici. Dalle sue parole – racchiuse in due verbali di interrogatorio top secret dei magistrati di Caltanissetta – affiora anche un autoritratto inedito del boss di Corleone. Con Totò Riina che racconta Totò Riina chiacchierando di stragi e di pubblici ministeri, di vecchi compari, di paesani suoi, di generali, spie, di senatori e di pentiti. Colloqui e sproloqui di alta mafiosità. Nel suo stile e in un molto approssimativo italiano, a modo suo Salvatore Riina si confessa per la prima volta. Ce l’ha con quel furbacchione di Massimo Ciancimino "che vi usa per recuperare i soldi perduti di suo padre". E’ risentito con il procuratore Gian Carlo Caselli "che non mi ha mai chiesto se ho baciato o no Andreotti". Ricorda Paolo Borsellino ed esorta ad indagare sulla scomparsa della sua agenda rossa. Ironizza su un Bernardo Provenzano "troppo scrittore" per quella mania dei pizzini ritrovati nei covi di mezza Sicilia. Chiede conto e ragione della chiaroveggenza dell’ allora ministro degli Interni Nicola Mancino sulla sua cattura. E poi parla e straparla. Di trattative e papelli, di traditori veri e presunti, della "tiratura morale" di Luciano Violante, della sua condizione carceraria - "Non mi pozzo fare neanche un bidè pei telecamere 24 ore su 24" - e naturalmente di sé: "Aio 80 anni e si hanno una volta sola. A 80 anni c’è morte. Gli anni sono gli anni". Però come vedete non sono proprio abbattuto.. penso che tirerò ancora un altro po’". Il pensiero di quello che ancora oggi viene indicato come il capo dei capi della Cosa Nostra siciliana è dentro un centinaio di pagine (settantatré nell’interrogatorio del 24 luglio 2009 e trentatré nell’interrogatorio del 1 luglio 2010) che di fatto – se si esclude un breve e brusco incontro del 22 aprile 1996 fra lui e il procuratore di Firenze Pier Luigi Vigna – rappresentano le uniche testimonianze ufficiali di Totò Riina dal giorno del suo arresto avvenuto nel gennaio del 1993. L’interrogatorio del luglio 2009 l’ ha voluto proprio lui, quando ha chiesto di presentarsi davanti al procuratore capo Sergio Lari "per fare dichiarazioni spontanee". Insomma, dopo tanto tempo abbiamo scoperto che lo "zio Totò" non è muto.

PARLIAMO DI MAFIA DENTRO LO STATO

Le talpe dentro la Procura, un'inchiesta di di Paolo Biondani su “L’Espresso”.

Carabinieri, vigili, funzionari al servizio delle cosche. Persino un uomo dei servizi segreti lavorava per il clan Pelle, quello del boss evaso dall'ospedale. E anche negli uffici dei pm di Milano c'è chi informava la 'ndrangheta.

La maxi-inchiesta sulla 'ndrangheta lombarda è ancora segretissima, quando una squadra di carabinieri dell'antimafia riesce a nascondere una telecamera di fronte alla villa di un capoclan. I pm milanesi vogliono scoprire (e poter documentare) chi incontra. La missione è difficile: l'inquisito per mafia, ufficialmente imprenditore, è molto guardingo, si circonda di collaboratori-sentinelle e abita in una via di Giussano, nella popolosissima Brianza, dove è difficile passare inosservati. Per giorni i militari si fingono operai al lavoro per strada e finalmente piazzano la telecamera in cima a un lampione. Il 20 gennaio 2009 le immagini cominciano ad essere registrate nella vicina stazione dell'Arma di Seregno. Ma appena sei giorni dopo, l'inchiesta è bruciata. Un complice avverte il mafioso di aver ricevuto "un'ambasciata dallo sbirro". Una soffiata precisissima: la descrizione esatta dell'inquadratura che arriva sul monitor dei militari. Un'immagine che può essere vista solo dall'interno della caserma. Da un traditore dello Stato. E dei tanti carabinieri onesti che rischiano la vita per poco più di mille euro al mese.

Un anno e mezzo dopo, nel luglio 2010, quando scatta la storica retata con trecento arresti tra Milano e la Calabria, anche i presunti mafiosi brianzoli finiscono in manette, incastrati da altre microspie. Ma la talpa in divisa resta tuttora senza nome. Insieme a troppi altri uomini dello Stato passati al servizio dell'Antistato. Al Sud come nell'insospettato Nord.

"L'Espresso" ha raccontato come l'emissario della cosiddetta P3 si è presentato dal procuratore aggiunto di Milano, Nicola Cerrato, cercando di carpire informazioni sull'inchiesta contro la 'ndrangheta: Pasqualino Lombardi voleva sapere se fossero indagati cinque politici del Pdl lombardo e domandò (invano) di incontrare il pm Ilda Boccassini. L'emissario disse che lo mandava il governatore Roberto Formigoni, con cui aveva rapporti diretti. Dei cinque, il più vicino ai boss era l'allora assessore regionale Massimo Ponzoni (l'unico indagato, ma per altre corruzioni), però anche gli altri quattro erano citati nelle intercettazioni antimafia. Come faceva Lombardi a sapere così esattamente quali politici comparivano in atti giudiziari ancora top secret?

Giudici come Giovanni Falcone hanno insegnato che la criminalità esiste in tutti i Paesi ed è contro lo Stato, ma in Italia la mafia è dentro lo Stato. Ora l'emergenza riguarda la 'ndrangheta, che è diventata l'organizzazione più ricca e potente. Esaminando solo le indagini più recenti sulle cosche in Lombardia, "l'Espresso" ha contato almeno 18 talpe: pubblici ufficiali che hanno svelato i segreti delle inchieste, ma sono rimasti in gran parte "non identificati", come denunciano i giudici sottolineando la "gravità", "pericolosità" ed "evidenza" dei loro tradimenti. Tra i tanti, c'è perfino un "militare in servizio alla Direzione distrettuale antimafia di Milano", ossia negli uffici della procura. Una talpa mai smascherata, ma attiva almeno fino al 2009, visto che a fine anno un mafioso del clan di Milano-Pioltello allertava i complici dicendo di aver "visto insieme a quello della Dda tutte le carte con i nostri nomi" e "le microspie in macchina".

La certezza che la 'ndrangheta è riuscita a infiltrarsi perfino nella loro inchiesta, i pm milanesi la ricavano quando sentono gli stessi affiliati parlare di una seconda talpa, che a differenza della prima ha un nome: "Michele, il carabiniere di Rho che ci passava informazioni sulle intercettazioni in cambio della mancia". A Rho, il comune dell'Expo 2015, l'inchiesta travolge quattro carabinieri accusati di corruzione. L'appuntato Michele, al secolo Berlingieri, viene arrestato addirittura per concorso esterno in associazione mafiosa. A incastrarlo è il video di un omicidio. Il 25 gennaio 2010 il figlio di un boss calabrese ammazza a colpi di pistola un giovane albanese in un bar. L'appuntato Michele, ignaro che i colleghi di Monza lo stanno filmando, entra nel locale, raccoglie i bossoli e li risistema per truccare la scena del delitto. Quando il killer passa la pistola a un complice, lo lascia uscire indisturbato. Poi stringe la mano al padre dell'assassino. Commento dei mafiosi: "Michele lo sbirro si è comportato benissimo".

Dalle stesse indagini saltano fuori storie di blitz antidroga organizzati tra Milano e Varese per togliere di mezzo gli spacciatori concorrenti della 'ndrangheta. Ignoti funzionari dell'Anas che, quando la procura deve farsi autorizzare una videoripresa sulla statale, avvisano in diretta un boss, che annulla un summit con decine di mafiosi. Cittadini derubati di auto o furgoni che, seguendo il loro Gps, guidano una pattuglia da uno sfasciacarrozze, che non viene controllato, ma salvato. E quando i carabinieri onesti arrestano tutti, si scopre che proprio lì c'era "un arsenale di armi da guerra della 'ndrangheta".

Nelle ordinanze del 2011 spunta perfino "suor talpa". Paolo Martino, boss reggino con ricchi interessi e molti amici tra politica e discoteche a Milano (il più famoso è Lele Mora), prima dell'arresto si ritrova una microspia in macchina. Al che si rivolge alla sorella, che è religiosa delle Paoline nonché vicedirettore sanitario dell'ospedale cattolico di Albano Laziale. "Informati dalla tua consorella", le dice furbescamente. Tre settimane dopo, la suora gli spiattella che c'è un pentito: "Ho sentito quella persona lì, mi ha detto di stare attenta... quel personaggio sta a cantà". Un aiuto alla mafia arriva pure dalle polizie municipali tanto amate dalla Lega: a Lurago d'Erba il comandante locale controlla le targhe delle auto dell'antimafia e avverte i boss (si spera ignorandone lo spessore criminale) riuniti nel loro maneggio.

Intanto il direttore sanitario del carcere di Monza chiede voti e favori a un mafioso appena scarcerato (e poi ammazzato). Mentre un maresciallo "non identificato" avverte un padrino di Pioltello, in teoria ai domiciliari, di "non girare sulla sua Bmw", dove in effetti i carabinieri hanno piazzato una cimice. E non manca "un sottufficiale in servizio alla procura di Monza" che non denuncia due ricettatori, pur sentendosi dire che "nascondono armi" poi finite alla 'ndrangheta.

Nei rapporti con le talpe, i mafiosi sembrano seguire un codice. Ogni boss protegge l'identità dei propri informatori: un tesoro da nascondere anche ai complici. Proprio le indagini di Milano e Reggio dimostrano però che la 'ndrangheta è un'organizzazione "unitaria e verticistica". Per cui la singola talpa rischia di favorire tutte la 'ndrine. E di manipolare anche le indagini più serie, come ha denunciato il procuratore Giuseppe Pignatone alla commissione Antimafia: il boss informato in anticipo ha il potere di decidere quali amici salvare e quali nemici far arrestare. Ora la scoperta di una rete di talpe così ramificata perfino a Milano rafforza i sospetti che la 'ndrangheta continui a beneficiare di un livello ancora segreto di complicità clamorose e inconfessabili.

"La vicenda più inquietante", secondo i giudici antimafia, almeno per ora è l'arresto di Giovanni Zumbo, ex custode giudiziario di immobili e società sequestrate alla mafia calabrese, nonché collaboratore del Sismi dal 2004 al 2006, quando il servizio segreto militare era in mano al generale Nicolò Pollari e al suo uomo forte Marco Mancini. Nel marzo 2010 l'allora insospettabile Zumbo, accompagnato da un mafioso, Giovanni Ficara, viene intercettato mentre racconta a un superlatitante, Giuseppe Pelle, tutti i particolari della maxi-inchiesta ancora top secret di Milano e Reggio. Non lo fa "per soldi", ma perché, come spiega lui stesso ai boss, "ho fatto parte e faccio tuttora parte di un sistema molto vasto", formato da uomini dello Stato che in realtà sono "i peggiori criminali": "Hanno fatto cose che solo a sentirle, a me viene freddo".

Dopo l'arresto per mafia, Zumbo è stato rinviato a giudizio, con il boss Ficara e due complici, anche per le armi e l'esplosivo fatti ritrovare a Reggio nel gennaio 2010, nel giorno della visita del presidente della Repubblica. Un depistaggio spettacolare, inscenato per accreditarsi come confidente con i magistrati della nuova guardia. E rubare altre soffiate. Ordinandone la cattura, i giudici avvertono che Zumbo si era messo a disposizione dei mafiosi "perché incaricato da qualcuno, interessato a entrare in rapporto con i boss a costo di vanificare le più importanti indagini dei carabinieri contro la 'ndrangheta". Qualcuno "alla cui volontà non poteva sottrarsi".

Il procuratore Pignatone lo ha definito "il puparo". Il suo nome resta un mistero: le indagini documentano solo che i due boss dei clan Pelle e Ficara-Latella "convocarono" la loro talpa, dopo aver avuto una prima soffiata da un agente segreto, ex militare, in contatto con altri tre 007, con un passato nel Ros. Dopo un anno di carcere duro, Zumbo ha parlato una sola volta con i magistrati, ripetendo lo sfogo che aveva confidato a un ufficiale dei carabinieri fin dal giorno dell'arresto: "I servizi mi avevano lasciato in pace per un po', ma all'inizio del 2010 sono tornati a inquietarmi per collaborare. Se mi pento io, succede un terremoto". "Dal boss Pelle, io sono stato mandato", aveva aggiunto Zumbo, che si rifiuta però di fare il nome del suo "puparo" in divisa. Tra Milano e Reggio non si escludono sorprese esplosive sui complici eccellenti della 'ndrangheta.

Il coraggio di dire la verità. Mafia ed Antimafia: un tutt’uno. L'inchiesta che segue e che culmina con la resa dello Stato e lì a dimostrarlo. Il 4 novembre 1993 il 41 bis non fu rinnovato per 140 detenuti del carcere palermitano dell’Ucciardone. A rivelarlo, dinanzi alla commissione Antimafia, l’11 novembre 2010, è stato l'ex Ministro di Grazia e Giustizia Giovanni Conso, il quale rivestì la carica tra il 1993 e il 1994 nei governi di sinistra Amato e Ciampi. Conso ha spiegato di avere preso quella decisione «per fermare la minaccia di nuove stragi».

Certo è che sul tema tutti hanno perso la memoria. Una mano la offre Gaetano Gifuni, potentissimo segretario generale della Presidenza della Repubblica, sia con Oscar Luigi Scalfaro che con Carlo Azelio Ciampi. Un uomo che ha seguito e accompagnato, favorito e assecondato le vicende italiane, ricoprendo un ruolo chiave (è stato anche capace d'interrompere la carriera d'alto funzionario del Senato per andare a fare il ministro, per poi riprenderla e continuare a crescere). Nel mese di gennaio 2011 Gifuni è stato sentito, quale persona informata dei fatti, da magistrati della procura di Palermo. Gifuni dice: Scalfaro volle Alberto Capriotti alla direzione del Dipartimento amministrazione penitenziaria al posto di Nicolò Amato. Lo nominarono, di comune accordo, Giovanni Conso, Ciampi e Scalfaro, ma quest'ultimo era l'unico a conoscerlo. Gifuni non fa che confermare che il governo procedette ad una nomina importantissima, essendo, di fatto, eterodiretto. Capriotti, dodici giorni dopo la nomina, suggerirà al governo di alleggerire il carcere duro per i mafiosi, quale segno distensivo. Dice che fra Scalfaro e Nicolò Amato vi erano solo rapporti istituzionali. Nulla di significativo. In realtà il Presidente della Repubblica detestava l'allora direttore generale del Dap. Lo stesso Gifuni ce ne offre un indizio: Amato andò a chiedergli per quale motivo veniva fatto fuori, e lui poté rispondergli solo che la decisione era già stata presa. Com'è facile immaginare, non c'è nulla di normale, in ciò. Ad un certo punto, però, la memoria di Gifuni diventa un monumento al problema, che c'incaponiamo a segnalare: no, dice, nell'immediatezza degli attentati del 1993 non s'è mai parlato del 41 bis, ovvero del carcere duro, come possibile causa, non ne fecero cenno alcuno né Scalfaro né Ciampi. Peccato, però, che l'allora ministro degli Interni, Nicola Mancino, poi vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, abbia dichiarato il contrario: capii subito che le bombe erano mafiose e che dovevano mettersi in relazione con il regime carcerario. Peccato, inoltre, che lo capì il ministro della Giustizia, Conso, il quale, su suggerimento di Capriotti, voluto da Scalfaro, revocò il carcere duro per placare la mafia bombarola. Mancino e Conso erano ministri di Ciampi, e Ciampi, come correttamente Gifuni ricorda, lavorava a stretto contatto con Scalfaro. Com'è possibile che i primi due ricordino e i secondi abbiano un incolmabile vuoto? Eppure il 10 novembre del 1993 l'allora presidente della commissione bicamerale antimafia, il per nulla sprovveduto Luciano Violante, chiede lumi sulla gestione dei detenuti sottoposti a 41 bis. Domanda preveggente o gesto cautelante? Sta di fatto che pure lui, dopo, perde la memoria. Fortuna che provvide Conso, giurista anziano e servitore dritto, il quale, diciassette anni dopo, gettò fosforo nelle menti altrui: fu il governo Ciampi, nel 1993, a togliere i mafiosi dal carcere duro. Vero. Ancora uno sforzo, che la memoria comincia a tornare.

Intervistato ai microfoni del TG Rai Sicilia del 12 dicembre 2010, il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari non ha dubbi sull’assassinio del magistrato Borsellino e sulla strage di via d’Amelio del 1992: «L’accordo ci fu e le nostre indagini, seppure dopo tanti anni, hanno potuto accertare inconfutabilmente che Paolo Borsellino fu informato dell’esistenza di una trattativa tra Stato e mafia sin dal 28 giugno. Borsellino – e per Lari è rigoroso il condizionale -  potrebbe essere stato ucciso perchè intendeva contrastare quell’accordo. Ma un’altra ragione può essere ravvisata nell’ipotesi che Totò Riina autonomamente abbia deciso di accelerare una strage già programmata, in quanto la trattativa non stava andando in porto. In ogni caso, la trattativa, in un senso o nell’altro, ha avuto un ruolo nell’anticipazione della decisione di uccidere Paolo Borsellino. A informare il giudice Borsellino il 28 giugno 1992 era stata Liliana Ferraro, all’epoca capo di gabinetto del ministro Claudio Martelli e collaboratrice di Giovanni Falcone alla direzione Affari penali del Ministero della Giustizia. La dottoressa Ferraro, peraltro, ha confermato il colloquio con Borsellino durante il processo al generale Mario Mori. L’indagine in corso - ribadisce il procuratore Lari - mina alle fondamenta anni di altre indagini, arrivate anche a condanne definitive».

Tutto quanto detto è niente se poi i nuovi movimenti politici, nati per rinnovare, non sono altro che strumenti di restaurazione. Esemplare è il fenomeno della Lega Nord, assunta a fustigatrice di sprechi ed illegalità, con l’intento di tagliare fuori il sud canceroso e cancrenoso dell’Italia, per paura d’infettarsi.

«Quello che ho detto è documentato. L’incontro tra il consigliere regionale leghista e gli uomini delle cosche è negli atti dei pm Ilda Boccassini e Giuseppe Pignatone. E ricordo al ministro Maroni della Lega Nord che l’unico direttore di una Asl arrestato per `ndrangheta è quello di Pavia, dove comune, provincia e regione sono amministrati anche dal suo partito: stiamo parlando di una Asl che gestisce strutture di eccellenza e fa girare 700 milioni di euro l’anno. E ricordo che l’ultimo sindaco arrestato in un procedimento per collusioni con le cosche calabresi è quello di Borgarello: un paese alle porte di Pavia non una cittadina della Locride».  Lo afferma Roberto Saviano in un colloquio che sarà pubblicato su L’Espresso, riferendosi a quanto affermato durante la trasmissione `Vieni via con me´ su Rai Tre il 15 novembre 2010. «La mia frase era chiara, chiunque può riascoltarla: “La ´ndrangheta al Nord, come al Sud, cerca il potere della politica e al Nord interloquisce con la Lega”. Non si tratta di illazioni, ma di elementi concreti che emergono dalle indagini e che devono essere sottoposti all’attenzione dell’opinione pubblica: in Lombardia la Lega è forza di governo e oggi gli uomini delle cosche calabresi, attivi nella regione da decenni, puntano a investire i loro capitali nei cantieri dell’Expo 2015. È un’analisi della Superprocura antimafia, lungamente discussa nella commissione parlamentare proprio perché, per entrare negli appalti, loro hanno bisogno della politica e soprattutto della politica che controlla la spesa sul territorio. Per questo tutta la criminalità organizzata guarda con favore a una riforma federalista del Paese: vogliono centri di costo alla loro portata». La `ndrangheta al Nord? «Certo - dice Saviano - cerca di interloquire con la Lega, ma le inchieste mostrano come in tutte le Regioni si stia manifestando un fenomeno molto più inquietante, quello sì che dovrebbe indignare il ministro dell’Interno: le mafie scommettono sul federalismo». Alle mafie, spiega ancora Saviano nel colloquio con L’Espresso, «piace un certa idea di federalismo quella che potrebbe consegnargli gran parte del Sud. In passato Cosa nostra l’ha cavalcata per contrastare la prospettiva di un potere centrale troppo forte: meglio la secessione dell’isola che dovere fare i conti con uno Stato deciso a cancellare la mafia. E la stessa istanza è stata riproposta dall’ala dura dei corleonesi negli anni delle stragi, quando di fronte al crollo della prima Repubblica Gianfranco Miglio, il `padre nobile´ della Lega, benediceva la nascita al Sud di tanti partitini autonomisti intrisi di massoneria e amici degli amici: sono fatti acclarati, non illazioni». «Oggi la prospettiva è semplice - aggiunge - la mentalità delle mafie è essenzialmente predatoria, puntano a divorare le risorse ed è molto più facile farlo nelle capitali regionali che non a Roma: possono fare pesare il loro controllo del territorio, la loro violenza, i loro voti e i loro soldi. Per questo con il livello di infiltrazione che c’è nelle regioni del meridione, il federalismo potrebbe finire con l’essere un regalo e far diventare Campania, Calabria e Sicilia davvero `cose nostre´, un nome che non è stato scelto a caso. Perchè oggi la forza delle mafie non è più nella capacità di usare la violenza, ma nella disponibilità quasi illimitata di capitali, affidati a facce pulite e capaci di condizionare la politica soprattutto a livello locale». «Io non mi arrendo - prosegue Saviano - Il risultato di pubblico di `Vieni via con me´ mi ha stupito e convinto di quanto sia importante continuare su questa strada. La gente vuole sapere, è avida di informazione, domanda verità, ma non trova risposte dalla televisione e si abbandona nella sfiducia che è l’elemento di cui si compone la palude in cui il Paese rischia di affondare: fango, solo fango, niente altro che fango».

Le inchieste sulla mafia a Milano a partire dagli Anni '90 non sono mancate (“La mafia all'ombra del Duomo”, “Duomo Connection”). Ed è su sentieri di ragnatele infide, impastate di business e sangue, condizionamenti e infiltrazioni nella pubblica amministrazione, che avviluppano politica (eloquenti i capitoli dedicati alle responsabilità degli imprenditori del Nord che hanno aiutato i mafiosi), criminalità organizzata, economia e società che getta lo scandaglio, il nuovo e denso lavoro di Enzo Ciconte ('Ndrangheta Padana”, edito da Rubbettino). L'intento è dimostrare, carte giudiziarie alla mano (anzitutto la maxi-inchiesta delle Dda di Reggio e Milano di luglio 2010 con centinaia di arresti, operazione “Crimine”) che la Lombardia è infestata dalla mafia, dai suoi traffici e dai suoi soldi. Oggi Nord e Sud sono uniti da fenomeni predatori e dall'evanescenza di ogni etica pubblica. Scendere a patti con la 'ndrangheta e farla sedere al suo stesso tavolo come ha fatto il Nord, non è meno immorale delle coperture che essa ha avuto al Sud. Discutere di questione settentrionale o meridionale appare, in queste condizioni, un diversivo per non affrontare il cancro che uccide la democrazia italiana. In duecento pagine, Ciconte documenta attraverso quali canali gli 'ndranghetisti si sono infiltrati al Nord, «diventando interlocutori di primo piano di imprenditori e uomini politici». Sulla scorta di quanto - specie negli ultimi anni - asseriscono diversi magistrati calabresi e lombardi, e utilizzando i dati della più vasta operazione (luglio 2010) mai condotta nei confronti delle mafie, e della 'ndrangheta in particolare, nella storia del Paese (ivi incluso un filmato, cliccatissimo su Youtube, che viola i segreti e le ritualità delle riunioni di 'ndrangheta nella terra di Alberto da Giussano), il docente di Storia della criminalità organizzata all'Università di Roma Tre, ribadisce l'idea che la 'ndrangheta ha due capitali: Milano e Reggio Calabria. Una verità su cui la politica ha preferito, salvo lodevoli eccezioni, chiudere gli occhi. Al punto che, nonostante Bossi e l'orgoglio celtico, che a parole sembrano quanto di più distante dai riti criminali, la stessa Lega con il predominio mafioso ha convissuto. E non tanto perché ha accolto il consiglio dato a Palermo nel 2001 dal ministro Pietro Lunardi che auspicava una convivenza con la mafia, ma perché l'ideologo della Lega, Gianfranco Miglio, teorizzava,  “la costituzionalizzazione” della mafia. Fanno riflettere alcune affermazioni di Ciconte: «Negli ultimi quindici anni la 'ndrangheta ha conteso alla Lega il controllo del territorio padano. Non è vero che al Nord c'è solo la Lega che controlla il territorio, c'è anche la 'ndrangheta che, esattamente nelle stesse località dove c'è un forte insediamento della Lega, gestisce potere, agisce economicamente, fa investimenti, interviene in vari campi anche sociali, ha una presenza in politica». In sostanza, spiega lo storico delle mafie «l'egemonia politico e territoriale della Lega non ha comportato la scomparsa della 'ndrangheta». E c'è di peggio: «A voler essere precisi, s'è realizzata una coabitazione tra Lega e 'ndrangheta esattamente negli stessi territori. Una presa di coscienza si avverte. La mafia nel Nord c'è. Ci si guarda bene, come s'è fatto per decenni, di dire che è un corpo estraneo, un'abitudine dei terroni. Il consiglio regionale della Lombardia ha tenuto una seduta straordinaria sull'inquinamento mafioso e due commissioni, quella lombarda che sta redigendo un unico testo di legge per garantire la trasparenza negli appalti e quella antimafia della Calabria, iniziano a dialogare. Franco Abruzzo, ex presidente dell'Ordine dei giornalisti lombardo e calabrese critico per come vanno le cose nel Mezzogiorno, asserisce che Milano «ha deciso nel bene e nel male, dal '700 ad oggi, tutte le svolte nazionali, dall'Illuminismo al Risorgimento, la grande guerra, il fascismo, la resistenza, il centrosinistra, tangentopoli, la Lega Nord e Forza Italia». In questo senso, ci si attenderebbe che arrivasse proprio dall'ex capitale morale un forte impulso culturale e politico per ridurre agli stremi “la politica barbarica”, le mafie e la corruzione. Ma oggi, come spiega “'Ndrangheta Padana”, la 'ndrangheta e le mafie subiscono nel Sud un arretramento, mentre gli agglomerati mafiosi diventano floridi e influenti nel Nord.

Ma ancora più interessante è quanto scrive Gianni Barbacetto sul Fatto Quotidiano del 16 settembre 2010. Quello che segue è un riassunto delle parti più importanti degli articoli. Leggere per credere. Nei primi anni Novanta la Lega Nord ha predicato la divisione dell’Italia in tre “cantoni” (Nord, Centro, Sud). Proprio allora, un complesso meccanismo si è messo in moto per raggiungere quell’obiettivo. Lo racconta una vecchia indagine della Procura di Palermo chiamata “Sistemi criminali“. Mentre si disfaceva il sistema dei partiti della Prima Repubblica, che le indagini di Mani Pulite avevano rivelato essere il sistema di Tangentopoli, una serie disparata di forze e di poteri si erano messi all’opera per rimpiazzare il vecchio regime. Massoni, reduci della P2, uomini dei servizi segreti, fascisti ed eversori di lungo corso, boss di Cosa Nostra e della ’ndrangheta avevano cercato di far nascere le leghe del Sud. Contrapposte ma complici della Lega nord. Della composita compagnia facevano parte il Maestro Venerabile Licio Gelli e tanti altri massoni delle logge meridionali, l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino e gli uomini di Cosa Nostra che riferivano a Leoluca Bagarella, i fascisti Stefano Delle Chiaie, Adriano Tilgher, Giancarlo Rognoni. Il collaboratore di giustizia Leonardo Messina nel 1993 racconta ai pm di Palermo che con i suoi colleghi di Cosa Nostra gli era capitato di parlare di Bossi, che nell’autunno del 1991 era stato a Catania. “Io lo consideravo un nemico della Sicilia”, diceva Messina. “Perché un’altra volta che viene qua non lo ammazziamo?”. Gli altri lo fermano: “Ma che sei pazzo? Bossi è giusto”. E poi gli spiegano di aver saputo da Totò Riina che non tanto Bossi, quanto il senatore Miglio, era collegato a “una parte della Democrazia cristiana e della massoneria che faceva capo all’onorevole Andreotte a Licio Gelli (capo della P2)”. E che era in corso un lavoro, a cui erano impegnati “Gelli, Andreotti e non meglio precisate forze imprenditoriali del Nord interessate alla separazione dell’Italia in più Stati“, con “anche l’appoggio di potenze straniere”. “Dopo la Lega del Nord sarebbe nata una Lega del Sud, in maniera tale da non apparire espressione di Cosa Nostra, ma in effetti al servizio di Cosa Nostra; e in questo modo noi saremmo divenuti Stato”. Scrivono i magistrati: “Uno dei protagonisti dell’operazione sarebbe stato Gianfranco Miglio”. Farneticazioni? I pm Antonio Ingroia e Roberto Scarpinato trovano qualche riscontro. Interrogano un ambiguo faccendiere, arrestato nel 1996 dalla Procura di Aosta per truffa internazionale: Gianmario Ferramonti, personaggio-chiave nella genesi del movimento leghista, amministratore della Pontidafin, la finanziaria del Carroccio, strettamente legato al professor Miglio; ma anche al centro di una fitta rete di relazioni con personaggi di spicco della massoneria italiana e internazionale e con insospettabili entrature istituzionali in ambienti dei servizi di sicurezza nazionali e stranieri. In seguito, è lo stesso Gianfranco Miglio, ideologo della Lega Nord, a confermare almeno parte delle “farneticazioni” di Leonardo Messina. In una clamorosa intervista al Giornale, nel 1999 conferma di essere stato davvero in contatto con Andreotti, proprio nel 1992: per svolgere una trattativa segreta che negoziasse l’appoggio della Lega alla candidatura del Divo Giulio alla presidenza della Repubblica, in cambio di una politica favorevole al progetto federalista del Carroccio (e a un posto di senatore a vita per Miglio). “Con Andreotti ci trovammo a trattare di nascosto a Villa Madama, sulle pendici di Monte Mario, davanti a un camino spento”, confessa Miglio. Trattativa abortita per l’opposizione dell’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che nonostante le insistenze di Andreotti nega al professore la nomina a senatore a vita. Nella stessa intervista, Miglio parla anche di mafia: “Io sono per il mantenimento anche della mafia e della ’ndrangheta. Il Sud deve darsi uno statuto poggiante sulla personalità del comando. Che cos’è la mafia? Potere personale, spinto fino al delitto. Io non voglio ridurre il Meridione al modello europeo, sarebbe un’assurdità. C’è anche un clientelismo buono che determina crescita economica. Insomma, bisogna partire dal concetto che alcune manifestazioni tipiche del Sud hanno bisogno di essere costituzionalizzate”. Ecco il progetto di Miglio: “Costituzionalizzare” la mafia, affidandole in gestione il Sud.

Lo abbiamo visto partecipare ai convegni di partito, stringere la mano al presidente della Camera Gianfranco Fini, intervenire alla manifestazione dell'Idv di Di Pietro e Travaglio contro il bunga bunga per sbeffeggiare Berlusconi, sedersi sullo scranno di Annozero insieme con Ciancimino, parlare dal palco delle festa bolognese della Fiom. E il dubbio che il sostituto procuratore di Palermo Antonio Ingroia fosse, diciamo così, "di parte" era balenato nella mente. Ma poi questo dubbio si scontrava con le rassicurazioni e le dichiarazioni dello stesso pm che ha più volte sottolineato come “agli occhi del cittadino il magistrato non soltanto deve essere imparziale ma deve anche apparirlo”.

Ma quando poi sempre lo stesso pm ammette la sua vera inclinazione politica, ecco che ogni dubbio viene spazzato. Il palco dal quale arriva la confessione è quello di Rimini, precisamente quello del VI Congresso nazionale del comunisti italiani. E’ il 30 ottobre 2011.

Ingroia fa il suo comizio. Dichiara che «siamo in una fase critica. Le parti migliori della società devono impegnarsi dentro e fuori le istituzioni per realizzare un’Italia migliore. La magistratura deve essere autonoma e indipendente. La politica deve essere ambiziosa: deve fare la sua parte. C’è tanta stanchezza fra gli italiani. La politica con la ’p’ minuscola chiede alla magistratura di fare un passo indietro. C’è bisogno invece di una politica con la ’p’ maiuscola. Senza verità non c’è democrazia. Fino a quando avremo verità negate avremo una democrazia incompiuta. Legalità senza sconti per nessuno, in armonia con i principi costituzionali. Abbiamo bisogno di eguaglianza. Un’Italia di eguali contro un’Italia di diseguali. - E poi ancora parole in difesa della Costituzione - La Costituzione è sotto assedio. Che fare? Resistere non basta. I magistrati non possono essere trasformati in esecutori materiali di leggi ingiuste.- Infine viene fuori il vero Ingroia - Un magistrato deve essere imparziale quando esercita le sue funzioni, e non sempre certa magistratura che frequenta troppo certi salotti e certe stanze del potere lo è, ma io confesso non mi sento del tutto imparziale, anzi, mi sento partigiano. Partigiano non solo perché sono socio onorario dell’Anpi, ma sopratutto perché sono un partigiano della Costituzione. E fra chi difende la Costituzione e chi quotidianamente cerca di violarla, violentarla, stravolgere, so da che parte stare».

Insomma, parole destinate a far scalpore, ma pronunciate comunque, nonostante il pm fosse consapevole di ciò che avrebbero provocato. «Ho accettato l’invito di Oliviero Diliberto pur prevedendo le polemiche che potrebbero investirmi per il solo fatto di essere qui - ha infatti esordito il magistrato di Palermo dal palco dell’assise del Pdci - ma io ho giurato sulla Costituzione democratica, la difendo e sempre la difenderò anche a costo di essere investito dalle polemiche».

La previsione sulle critiche è stata azzeccata. Infatti, dal Pdl sono giunte affermazioni di biasimo nei confronti del reo confesso. Il capogruppo del Pdl alla Camera, Fabrizio Cicchito, ha ringraziato ironicamente il «dottor Ingroia per la sua chiarezza. Sappiamo che le vicende più delicate riguardanti i rapporti tra mafia e politica stanno a Palermo nelle mani di pm contrassegnati dalla massima imparzialità».

Più dure le parole del presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri. «Sono gravi e inquietanti le parole di Ingroia che confermano l’animo militante di alcuni settori della magistratura. Da persone così invece che comizi politici ci saremmo attesi le scuse per aver fatto di Ciancimino jr una icona antimafia quando invece organizzava traffici illeciti e nascondeva tritolo in casa. Ingroia conferma i nostri dubbi. E sul caso Ciancimino dovrebbe spiegare molte cose. Porteremo questo scandalo e il suo comizio odierno all’attenzione del Parlamento dove sarà anche il caso di discutere della nostra mozione sul 41 bis che fu cancellato per centinaia di boss al tempo di Ciampi e Scalfaro e che anche ora il partito di Vendola vorrebbe abolire».

«Non era mai accaduto che un magistrato in servizio, già esposto mediaticamente su più di un fronte, prendesse la parola a un congresso di partito per attaccare maggioranza parlamentare e governo. Oggi il dottor Ingroia lo ha fatto con il suo intervento al congresso dell’ultimo partito comunista rimasto,congresso che naturalmente lo ha applaudito in sfregio a qualsiasi principio di separazione dei poteri», sottolinea Giorgio Stracquadanio, deputato del Pdl. Insomma, Ingroia se lo aspettava: le sue parole avrebbe suscitato un vespaio. E così è stato.

Ma non c'è da stupirsi della partigianeria di Ingroia. Qualunque magistrato è partigiano a favore di una Costituzione "catto-comunista" che ha elevato a "dio in terra" la figura del magistrato e che l'andazzo istituzionale ha legittimato la magistratura da organo costituzionale a "Potere costituzionale", pur non avendo alcuna delega rappresentativa del potere del popolo sovrano.

Nel libro, («L'uso politico della giustizia», ed. Mondadori, pag.320), tutti gli aspetti dell'anomalia italiana sono descritti da Cicchitto analiticamente: l'anomalia italiana e il sistema Tangentopoli, la Prima Repubblica e il finanziamento irregolare dei partiti, la mafia, Andreotti Falcone Violante e le cooperative rosse e bianche, Magistratura democratica, l'uso politico della giustizia e Berlusconi, Marcello Dell'Utri e la mafia, l'establishment finanziario-editoriale e i furbetti del quartierino e la Banca d'Italia.

A cominciare dalla scelta fatta da Palmiro Togliatti di fare il ministro di Grazia e giustizia nel primo governo di unità nazionale: «Il segno di un'attenzione, poi risultata crescente, del Pci nei confronti degli apparati dello Stato (magistratura, polizia, carabinieri, esercito, Guardia di finanza, servizi segreti) che doveva fare il suo salto di qualità negli anni Settanta con l'azione condotta da Ugo Pecchioli e successivamente da Luciano Violante».

Mentre «nella magistratura emergeva progressivamente la tendenza a una crescente conquista di influenza, di potere, di immagine nella società italiana», spinte favorite dall'ordinamento giuridico italiano che consente alla magistratura un'autonomia assoluta, e finchè nel 1964 sorge Magistratura democratica, un'associazione di magistrati dichiaratamente di sinistra e che diventa un vero e proprio soggetto politico e si collega al Partito comunista dando un colpo mortale allo Stato di diritto, fondato sulla divisione dei poteri e sulla terzietà del giudice.

È in questo quadro che Cicchitto passa in rassegna la vicenda di Tangentopoli e di Mani pulite, con l'interpetrazione dominante e paradossale di opporre politici colpevoli ad imprenditori vittime, mentre le grandi imprese italiane erano tutt'altro che concusse e dal sistema di Tangentopoli traevano tutti gli utili possibili: «C'è ancora da spiegare - e Cicchitto cita Francesco Cossiga - perché la classe politica fu decimata mentre la classe imprenditoriale fu risparmiata, considerando i corrotti più colpevoli dei corruttori».

Sicchè i nomi di Craxi, Forlani, Andreotti vengono cancellati dalla nomenclatura del paese, mentre Agnelli, De Benedetti, Ligresti neppure vengono sfiorati, «un colpo di Stato legale, nel senso che un ordine autonomo dello Stato, indipendente ma non sovrano, ha surrogato il potere sovrano del Parlamento, ha prevaricato gli altri poteri, ha modificato gli equilibri della vita politica democratica, ha decretato la morte di passati storici, usando come arma di giudizio storico e politico l'indagine giudiziaria».

Ma fu anche un suicidio collettivo. L'operazione contro Andreotti non riuscì soltanto per la determinazione di Luciano Violante, che arrivò a portare i «pentiti» dinanzi alla commissione parlamentare antimafia e ad interrogarli da solo e prima dei giudici, e di Giancarlo Caselli, insediatosi alla Procura di Palermo con l'aiuto di Violante, e del Pds e dello schieramento giustizialista, ma anche perché la Dc si arrese senza combattere: «Quando il fuoco fu concentrato su Bettino Craxi - ricorda Cicchitto - la Dc lo abbandonò al suo destino, ritenendo che consegnando i socialisti ad bestias, le procure si sarebbero accontentate e anzi la Dc si sarebbe liberata di un insidioso concorrente».

Quando Craxi prese la parola alla Camera per spiegare il ruolo svolto dal finanziamento irregolare sul sistema dei partiti, e si poteva ancora salvare la dignità e il ruolo politico del «Parlamento degli inquisiti», il silenzio della Dc e di tutto il gruppo dirigente democristiano segnò la fine senza onore di quel Parlamento e di quel partito. E quando il centro alternativo alla sinistra postcomunista e giustizialista fu inopinatamente reinventato da Silvio Berlusconi con la fondazione di Forza Italia, il circo mediatico giudiziario, alleanza permanente fra alcuni gruppi finanziari-editoriali, un settore della magistratura e il Pds, tornò all'attacco. Berlusconi, che fino al 1993 non aveva avuto a che fare con la giustizia, ha totalizzato dal momento della sua scesa in campo circa quaranta provvedimenti giudiziaria e la Fininvest ha avuto circa quattrocento tra perquisizioni e sequestro di documenti.

Ma Berlusconi, ammaestrato da quello che era avvenuto alla Dc, al Psi e ai partiti laici, non solo si è difeso nei processi, ma si è difeso anche dai processi, nel senso che ha posto dinanzi all'opinione pubblica il problema che l'azione combinata dalle procure e dalle catene editoriali e dal Pds-Ds mirava non solo a distruggerlo sul piano politico-giudiziario e sul piano aziendale-finanziario, ma anche a modificare nuovamente il sistema politico uscito dalle elezioni del '94 e a impadronirsi del potere.

L'operazione non riuscì perché, diversamente da Andreotti e dalla Dc, Berlusconi ha reagito sul piano politico e mediatico e l'offensiva giudiziaria contro Berlusconi è sostanzialmente fallita su entrambi i fronti lungo i quali si era sviluppata, quelli concentrati nel tribunale di Milano e quelli riguardanti i rapporti con la mafia presso i tribunali di Palermo, Caltanissetta e Firenze: «Il teorema giudiziario secondo il quale nella nascita di Forza Italia avrebbe avuto un peso fondamentale nientemeno che l'intenzione del boss mafioso Leoluca Bagarella di dar vita, dopo la fine della Dc, a una nuova formazione politica e in questa chiave avrebbe letto l'impegno di Marcello Dell'Utri di spingere Berlusconi a fondare il nuovo soggetto politico, ha sovrapposto alla vicenda politica uno schema giudiziario del tutto distaccato dalla realtà del nuovo sistema politico italiano».

Ed è sicuramente destinato a far la fine del teorema giudiziario inventato per processare Giulio Andreotti e che, non a caso, i professionisti antimafia della Procura di Palermo avevano pomposamente intitolato «La vera storia d'Italia». Il libro di Fabrizio Cicchitto, nel ricostruire minuziosamente la vera storia dell'uso politico della giustizia, ne è la migliore dimostrazione.

Vorrei farvi leggere la lettera che Ambrogio «Gino» Cartosio, un magistrato palermitano aderente alla corrente moderata di Magistratura indipendente, ha scritto ai suoi colleghi per annunciare le sue (amare) dimissioni dalla Direzione antimafia della procura dove lavora da oltre 18 anni. La lettera, che è un documento drammaticamente interessante sui metodi adottati dal Consiglio superiore della magistratura per selezionare i magistrati da promuovere a incarichi direttivi, è stata spedita il 31 luglio, dopo che il Csm aveva negato a Cartosio una promozione a procuratore aggiunto che invece gli era dovuta, ed è oggetto anche di un’intervista a Cartosio, pubblicata sul numero di Panorama in edicola il 20 agosto 2010. Per completezza d’informazione, va detto che al posto di Cartosio sono stati nominati a procuratore aggiunto di Palermo altri magistrati. I loro nomi? Antonio Ingroia, Vittorio Teresi, Teresa Principato, Antonino Gatto, Leonardo Agueci, Maurizio Scalia.

Ecco il testo della lettera scritta da Cartosio:

Cari colleghi, sono un pubblico ministero della Direzione distrettuale antimafia di Palermo, poco noto, perché ho scelto di stare lontano dai riflettori. Oggi sento il bisogno di comunicarvi due o tre cose sul mio conto. Vivo scortato dal 1993 e a causa del mio impegno antimafia non ho visto crescere i miei figli. Un paio d’ anni fa ho inoltrato domanda per uno dei sei posti di Procuratore Aggiunto di Palermo. Il Consiglio Superiore della Magistratura ha ritenuto che fossi troppo “giovane” e mi ha escluso dal lotto dei possibili vincitori. Ma il Consiglio di Stato ha stabilito che anche a me spettavano i fatidici 6 punti per l’anzianità di servizio, e ha annullato le delibere di nomina dei sei Procuratori Aggiunti. Deliberando nuovamente nella seduta del 29 luglio (l’ultima della consiliatura), il C.S.M., – non potendo più negarmi il predetto punteggio- mi ha ridotto enormemente quello (discrezionale) relativo al merito e alle attitudini, considerandomi un magistrato largamente insufficiente (5 punti su un massimo di 12). Siccome non posso pensare che per 18 anni (sono entrato in Dda. nel 1992) mi sono stati affidati compiti delicatissimi e mi si è esposto a pericoli immensi solo perché la mia pelle è superflua, devo ritenere che tale valutazione sia profondamente ingiusta, considerato anche il fatto che finora, ad ogni progressione di carriera, avevo sempre riportato valutazioni estremamente lusinghiere. Intendiamoci: io non credo che realmente il C.S.M. mi consideri un magistrato scarso (questo stesso Consiglio, in una precedente procedura concorsuale, per lo stesso posto, mi ha attribuito un punteggio di merito vicino al massimo assoluto). Molto semplicemente, la mia ingombrante presenza ostacolava la realizzazione di un piano programmato di nomine; il raggiungimento di tale obiettivo è stato perseguito anche a costo d’ infliggermi un’ umiliazione. Non mi resta, comunque, che prendere atto di una decisione che mi bolla come inadeguato a ricoprire incarichi di una certa delicatezza e responsabilità.
Ritengo, pertanto, che la coerenza m’imponga di dimettermi dalla Dda e affidare alle vostre riflessioni l’intera vicenda.

CASO DE MAGISTRIS. “Ultima fermata: via d’Amelio”.

Al momento giusto nell’indagine sbagliata. Qualcuno ha definito più o meno così, la posizione di Gioacchino Genchi, il consulente delle procure (ormai) più famoso d’Italia. Le cui consulenze, anche se nessuno ama ricordarlo, sono risultate più di una volta utili anche alle difese, per scagionare cittadini, che altrimenti erano destinati ad essere colpevoli predestinati.

Proprio il caso Genchi – propaggine del caso De Magistris - è tornato infatti alla ribalta delle cronache quando gli uomini del Reparto Tecnico del Ros di Roma, guidati dal colonnello Pasquale Angelosanto, hanno fatto irruzione nella luminosa abitazione-ufficio dello stesso Genchi.

Le motivazioni del decreto di perquisizione non si discostano dalle accuse mosse da tempo da certa politica, dal Csm e più recentemente dal Copasir. E riguardano la presunta illecita acquisizione “di tabulati di comunicazioni di membri del Parlamento” e la presunta illecita acquisizione “di tabulati telefonici relativi ad utenze in uso ad appartenenti ai servizi di sicurezza”. Insomma, lo ricorda anche il legale del Dott. Genchi, Fabio Repici, tutte contestazioni infondate se si legge “il decreto di sequestro emesso qualche mese fa dalla Procura di Salerno a carico di magistrati catanzaresi”. Un documento nel quale, spiega Repici, non solo c’è “la prova della correttezza dell’operato del Dr. Genchi”, ma anche quella “degli esorbitanti errori commessi dal funzionario del Ros che ha operato prima su delega della Procura generale di Catanzaro e che oggi opera per conto della Procura di Roma”. Quel Pasquale Angelosanto, autore di informative che Repici, ancora, ritiene siano caratterizzate da “abnormi incongruenze” e “marchiani errori”.

Nel decreto di perquisizione di Salerno a danno dei magistrati di Catanzaro, giudicato perfettamente legittimo dal competente Tribunale del Riesame, si legge che “sulle attività di acquisizione, studio, elaborazione analitico-relazionale dei dati di traffico telefonico, gli esiti delle indagini tecniche condotte dai Carabinieri del Ros – Reparto Indagini Tecniche su delega del Generale Ufficio avocante e compendiate nella relazione del 12 gennaio 2008 a firma del Colonnello Pasquale Angelosanto, non trovano conferma nelle risultanze investigative acquisite da questo Ufficio”. Eppure ieri, lo stesso Angelosanto, sentito anche come testimone davanti alla Disciplinare del Csm, guidava i Carabinieri che si muovevano, alla ricerca di chissà quali documenti, in tutti i luoghi “nella disponibilità” del funzionario di polizia indagato. Mentre lo stesso si trovava a Milano, da dove è rientrato solo in serata.

E chissà se al Col. Angelosanto (e magari a qualcun altro) avrà fatto piacere la straordinaria concomitanza delle perquisizioni con l’uscita di un articolo sul settimanale “Left”. Nel quale sono riportate le dichiarazioni dello stesso Genchi che attacca proprio il Reparto Operativo Speciale dei Carabinieri nelle “porcherie” del quale, dice, “mi imbatto dal 1989”.

L’articolo, che avrebbe potuto suscitare scalpore e creare fastidi al Ros, è infatti passato a notizia di terzo o quarto piano, o addirittura ignorato dai media. E in quell’articolo, tra l’altro, il consulente ricorda il suo ruolo da protagonista nelle indagini svolte in seguito alla strage di Via D’Amelio, in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e gli uomini della sua scorta. Mentre si accenna a quella presunta trattativa tra mafia e Stato sulla quale Massimo Ciancimino, figlio di Don Vito, ha recentemente cominciato a rilasciare dichiarazioni alla Procura di Palermo. Partendo proprio da Via D’Amelio.

Gioacchino Genchi, l'esperto informatico indagato per abuso d'ufficio e violazione della privacy, in un'intervista al programma "Reality" che è andato in onda domenica, 15 marzo, alle 23.40 su La7, ha ricordato quelle indagini. “Il motivo della mia delegittimazione – ha detto – nasce dalle inchieste sui mandanti esterni a quella strage”. Perché “nell’inchiesta Why Not, in cui ho collaborato con il procuratore De Magistris, ho ritrovato, senza volerlo, le stesse persone in cui mi ero imbattuto nelle indagini di Caltanissetta”. Forse persone che appartengono ai cosiddetti poteri forti (forze dell’ordine e servizi segreti compresi) dei quali si fa cenno nei decreti di archiviazione delle indagini sui mandati esterni alle stragi o nel processo in corso a Palermo o nelle stesse indagini sottratte al Dott. De Magistris che, è lui stesso a dichiararlo, stavano svelando l’esistenza di una nuova P2. Molto più potente e organizzata della prima.

Da questo punto di osservazione, se fosse confermato, apparirebbero ancora più chiari i violenti attacchi perpetrati ai danni del Dott. Genchi. E la definizione di uomo al momento giusto nell’indagine sbagliata assumerebbe un altro significato.

Inoltre in quella occasione Genchi parla anche di magistrati che vanno a cena con personaggi in cui sono coinvolti in inchieste tenute dagli stessi magistrati e di cui si è chiesta l’archiviazione giorni dopo.

In un comunicato stampa, l’avvocato Repici ha dichiarato, ancora, che “ciò che si sta compiendo è la prosecuzione di una strategia di delegittimazione nei confronti del dr. Genchi, quale funzionario di polizia e consulente dell’A.g., che trova ragione nei fondamentali accertamenti fatti dal dr. Genchi sulla strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992”. Le indagini condotte oggi contro di lui, quindi, sarebbero soltanto il pretesto per fermare al momento giusto l’uomo che già in passato avrebbe arrecato non pochi fastidi.

A Palermo fa freddo. Anzi, c’è il gelo. Non è solo un fatto climatico, anche se fino a pochi giorni fa nevicava alle porte della città, ma è la bomba virtuale esplosa sulla testa del procuratore capo Francesco Messineo cha ha fatto precipitare la temperatura di colpo. Un articolo pubblicato su Repubblica ha ufficialmente riaperto la stagione dei veleni su uno degli uffici più delicati d’Italia. «Il cognato del procuratore è un uomo d’onore», titolava venerdì 6 marzo 2009 il quotidiano. E oltre all’inverno prolungato di quest’anno, a gelare le anticamere della Procura è sopraggiunta la memoria della “stagione dei veleni”, quella delle talpe e delle lettere anonime, quella dell’isolamento di alcuni magistrati, fra cui Giovanni Falcone, fra la fine degli anni Ottanta e l’estate delle stragi del Novantadue. Ovvio, il Csm apre subito un’inchiesta. Ovvio, i sostituti e i collaboratori di Messineo esprimono la propria solidarietà al capo. Il ministro Alfano sembra voler inviare un’ispezione immediata al palazzo di Giustizia di Palermo. Poi ci ripensa, gli ispettori rimangono a Roma.

Si comincia a pensare se non a una bufala intera a una “mezza” bufala, a una polpetta avvelenata a cui qualche cronista forse ha abboccato. Certo che quel titolo rimane. La carriera del procuratore di Palermo, dal 6 marzo 2009, probabilmente è segnata. Cosa è accaduto? Qualcuno ha fatto pervenire alla stampa l’informazione sul fatto che l’Arma dei carabinieri aveva intercettato due anni fa il cognato del procuratore capo, Sergio Maria Sacco, marito della sorella della moglie di Messineo, gettando sul parente l’ombra di concorso esterno a Cosa nostra. La vicenda era vecchia e archiviata, ma piove in forma di cronaca in questa gelida Palermo. Anche perché, si scopre dopo, Sacco non è stato neanche indagato per quella telefonata intercettata, e altre accuse dei decenni precedenti lo avevano visto assolto. Tutto a conoscenza anche del Csm da anni, appunto. Chi ha fatto la soffiata (che soffiata non è) alla stampa?

Mistero. Sono stati i carabinieri, o meglio i Ros, con cui comunque Messineo ha costruito un rapporto esclusivo tenendo fuori dal gioco grosso, a volte, le forze di polizia? Erano irritati che il loro primato sulle indagini a Palermo fosse messo in discussione dopo gli ultimi riassetti di nomine e promozioni in Procura? Oppure: la “gola profonda” va cercata nelle fila della polizia di Stato, nell’ottica dello scontro ormai sempre più palese fra le due forze? O ancora, si tratta di un’ulteriore offensiva da parte di chi ha già decapitato le procure di Catanzaro e Salerno, come raccontano gli stessi pm di Palermo in un comunicato? La vicenda Sacco è «molto datata, già nota al Csm e valutata come irrilevante in occasione della nomina di Messineo a procuratore» e «non ha mai prodotto all’interno dell’ufficio riserve o limiti di alcun genere, anche per il ritrovato entusiasmo nel lavoro di gruppo, nella tradizione dello storico pool antimafia, e per l’effettiva gestione collegiale dell’ufficio». E poi, sempre secondo i pm, la polpetta avvelenata viene servita in «coincidenza temporale col progredire di delicatissime indagini sulle relazioni esterne di Cosa nostra». Qualcuno disse, decenni fa, «si sente tintinnare di sciabole». A farne le spese, l’intero ambiente.

«Una volta per toglierci di mezzo ci ammazzavano - spiega un tagliente Roberto Scarpinato, storico pm del processo a Giulio Andreotti, a lato di un convegno - ora non ne hanno bisogno. Ci sono altri modi per ridurci al silenzio. Chissà, forse dovremmo esserne pure grati». Ci pensa un po’ su e chiede al suo collega Antonio Ingroia, sostituto procuratore, che gli siede accanto: «Come si chiamava quel ministro dei Lavori pubblici che diceva che dovevamo conviverci con la mafia?». Ingroia sorride: «Lunardi, credo fosse Lunardi». Conclude Scarpinato: «Ecco, sì, forse dovremo imparare a conviverci con la mafia».

A Palermo si gela. Fa freddo anche a piazza Principe di Camporeale cercando il sotterraneo sede dello studio di Gioacchino Genchi, che da investigatore della polizia, prima, e consulente in quasi tutte le principali inchieste “di punta” delle procure italiane, poi, è diventato, nel giro di poche settimane, il nemico numero uno della democrazia italiana. L’uomo che avrebbe confezionato dossier, secondo alcuni politici e la stampa nazionale, su milioni di italiani.

Sulla rivista Left e su agoravox  si legge  la testimonianza autentica di Gioacchino Genchi. L’intervista è stata realizzata da Pietro Orsatti il 7 marzo 2009.

Pietro Orsatti (PO): “Il tuo lavoro non é quello di intercettare qualcuno?”

Gioacchino Genchi (GG): “No, assolutamente.”

PO: “Tu non hai mai messo una microscopia?”

GG: “No, assolutamente no. Guarda, io ho fatto una sola intercettazione telefonica in vita mia. Quando abbiamo cambiato casa ed avevo il telefono nello studio, in cucina ed in camera da letto. Io ero nello studio, dovevo fare una telefonata, ho alzato il telefono, ed ho sentito mia moglie che parlava con sua madre. Però non ci ho capito nulla perché parlavano in sloveno. Questa é stata l'unica intercettazione fatta in vita mia. Ho chiamato subito il tecnico ed ho fatto cambiare l'impianto di modo che, anche a casa mia, se uno alzava il telefono, gli altri dovevano stare isolati. Se quella é un'intercettazione quella si l'ho fatta, ma comunque non ci ho capito nulla perché parlano in sloveno, perché mia moglie é di origine della minoranza slovena di Gorizia”.

PO: “Tu ti sei ritrovato a dover fare un incastro fondamentalmente di dati telefonici ed utenze e questo tu non lo fai solo per WHY NOT, tu lo fai da decenni.”

GG: “Si da sempre. È molto semplice, te lo riepilogo in due battute. Parliamo di WHY NOT ovviamente e non di altre indagini di De Magistris, perché io questo lavoro a Catanzaro lo facevo già da diversi anni, prima in processi di mafia ed omicidio con sentenze, che hanno dato ergastoli per stragi, facendo esattamente le stesse cose, anzi forse facendo qualcosa di molto di più in termini di acquisizione di dati e di intercettazioni. L'indagine WHY NOT non aveva nessuna intercettazione. De Magistris non ha fatto intercettazioni né sapeva di disporne, tanto che quando mi ha conferito l'incarico – leggi bene la relazione che io ho fatto a Salerno sulla presunta acquisizione del tabulato del cellulare di Mastella – nel conferimento dell´incarico di De Magistris non é stato inserito di analizzare ed incrociare le intercettazioni ed i tabulati, perché De Magistris non sapeva quando mi ha dato l'incarico che avrebbe acquisito le intercettazioni. Dopo che mi dato l'incarico, eravamo a fine marzo. De Magistris le ha acquisite dalla procura di Lamezia. Dei carabinieri si sono presentati da lui ed hanno detto “dottor De Magistris, anni fa noi abbiamo intercettato Saladino in un'indagine per delle minacce che aveva subito e ci sono delle intercettazioni importanti”. Quindi il conferimento dell'incarico é già il primo atto importante con i quesiti, che sono gli stessi quesiti che da più di vent'anni io ricevo da tutti i magistrati d'Italia, compresi i magistrati che siedono e si sono seduti al consiglio superiore della magistratura,. Quindi se De Magistris deve essere sanzionato, perché quei quesiti sono debordanti, illegittimi etc, bisogna annullare tutte le sentenze di ergastolo che sono state date sulla base di quegli incarichi e bisogna punire tutti i magistrati d'Italia, giudici, pubblici ministeri, presidenti di Corte d'Assise, magistrati, che sono ancora in Cassazione e che sono pure alla Procura Generale della Cassazione e che mi hanno dato lo stesso identico quesito e lo stesso identico incarico. L'incarico, ripeto, non prevedeva di analizzare le intercettazioni telefoniche perché le intercettazioni di Saladino sono sopravvenute al processo WHY NOT, sono arrivate dopo. Le intercettazioni di Saladino mi sono state consegnate da De Magistris quando é venuto a Palermo ed abbiamo avuto una riunione di due giorni (19-20 aprile 2007) a venti-trenta giorni dal conferimento dell´incarico, ed abbiamo fatto una riunione operativa in cui dovevamo trattare altri temi ed alla quale hanno partecipato Woodcock, un ufficiale di polizia giudiziaria di Woodcock, il dottor De Magistris ed il consulente finanziario, il dott. Sagona, un ispettore in pensione della Banca d'Italia. Abbiamo parlato di tutto tranne che di Mastella, di Saladino e dell'indagine WHY NOT perché la riunione atteneva ad altri ambiti di collegamento investigativo con le indagini di Woodcock sulla massoneria in particolare. Questo é forse il punto che ha preoccupato. Di questo comunque ne parliamo dopo. Quando é venuto De Magistris mi ha portato queste intercettazioni, che noi abbiamo trattato nelle settimane successive. Quando abbiamo acquisito i tabulati, io ho scritto fino alla noia nelle relazioni successive che bisognava chiedere l'autorizzazione al Parlamento per le intercettazioni e per i tabulati dei parlamentari, di cui frattanto erano state individuate le utenze. Noi potevano individuare le utenze dei parlamentari, che avevano un telefono intestato a loro. Per esempio Prodi aveva un telefono intestato a Romano Prodi, che non é stato acquisito perché Prodi era parlamentare. Il senatore di Pietro aveva un telefono intestato ad Antonio di Pietro, di cui non si potevano certamente acquisire i tabulati. Ma se un parlamentare utilizza dei telefoni, che saltano da una società ad un ente ad un ministero e poi un altro ministero e poi alla Camera e poi al Senato, se un parlamentare non utilizza i telefoni a sé intestati e cambia sedici apparecchi con la stessa SIM e la stessa SIM la cambia sei volte, intestandola da una parte all'altra, come si fa a stabilire che é un parlamentare? Aggiungo che se un parlamentare attiva a nome proprio decine di schede, come é successo per un altro parlamentare, di cui sono stati acquisiti i tabulati, e le proprie schede vengono date a diverse persone e magari le stesse schede le troviamo in una dinamica di un duplice omicidio, la protezione va a quel parlamentare, ma non può essere estesa a tutti i soggetti, i portaborse, i colleghi di studio, gli avvocati - e forse anche non avvocati – dello stesso parlamentare, che ricevono le schede ed usano le schede intestate al parlamentare. Poi si dice nel rapporto del ROS, falsamente, che la scheda era intestata alla Camera dei deputati mentre non é vero. La scheda era intestata al dipartimento dell'amministrazione penitenziaria e non solo era cambiata l'intestazione, ma era pure cambiata l'azienda telefonica da TIM a WIND e poi da WIND a TIM di nuovo. Quindi era una confusione ed era impossibile stabilire, se non si faceva il tabulato, di chi era quel cellulare, che é stato acquisito per ragioni assolutamente diverse. É stato acquisito perché risultavano dei contatti telefonici nel range delle intercettazioni, quando già sapevamo solo il periodo delle intercettazioni, mentre il cellulare di Saladino si muoveva a Roma ed aveva altri tipi di contatti telefonici prima e dopo che erano già stati rivelati come di interesse. Quindi si é acquisito immediatamente il tabulato per non perdere il tempo pregresso. Perché qual é il punto di partenza? La test dott.ssa Caterina Merante ha riempito decine di pagine di verbali, in cui ha fatto tutta una serie di dichiarazioni che riguardavano una serie di soggetti e di fatti molto gravi con collusioni istituzionali, che andavano dai servizi di sicurezza alla politica al giornalismo al mondo degli affari, dell'imprenditoria, della finanza, delle forze di polizia, della guardia di finanza, della polizia di Stato, del Ministero dell´Interno. Queste dichiarazioni dovevano essere riscontrate. Le dichiarazioni della Merante sono della primavera del 2007 – iniziano a fine marzo – e riguardano fatti precedenti risalenti ai primi anni 2000. Quindi noi avevamo 24 mesi di tempo per prendere i tabulati. Ecco quindi l'esigenza di acquisizione immediata dei tabulati senza poter eseguire quelle verifiche che, quand'anche fossero state fatte, le acquisizioni sarebbero state legittime. Il ROS dice “Genchi si doveva fermare - e lo stesso dice Rutelli - perché quel cellulare era intestato alla Camera dei deputati”. Ma il ROS non dice che fra le stesse acquisizioni di diversi mesi dopo risulta che quando io avevo già individuato che quel cellulare era di Mastella avevo scritto al Pubblico Ministero che bisognava chiedere l'autorizzazione al Parlamento. Ma non solo, avevo anche scritto che bisognava chiedere l'autorizzazione al Parlamento anche per le intercettazioni indirette, perché così diceva la legge Boato. Io non sapevo che di lì a qualche settimana la Corte Costituzionale avrebbe dichiarato illegittime quelle norme della legge Boato, che prevedevano l'impossibilità di utilizzare le intercettazioni indirette dei parlamentari. Quindi questo era il mio scrupolo, il mio zelo istituzionale e la mia perfetta conoscenza delle norme e tutela del mio lavoro e del lavoro del PM. Basta leggere le relazioni, che il ROS guarda caso non ha citato. Perché ha dato alla Procura Generale, che se l'é chiesto perché era su commissione il lavoro fatto, e poi al COPASIR e poi alla procura di Roma, una rappresentazione totalmente alterata della realtà”.

PO: “Ma perché il ROS ha puntato te e perché su WHY NOT?”

GG: “Probabilmente si sono voluti pulire il coltello, perché io dal 1989 mi imbatto in delle porcherie fatte dal ROS”.

PO: “Quindi é qui la vicenda, chiamiamola il conflitto tra una parte dello Stato ed un'altra.”

GG: “Io ritengo che abbiano voluto colpire me ben oltre la mia funzione di consulente dell'autorità giudiziaria, per quello che io rappresento, ho rappresentato, per quello che io ho fatto in passato e per quello che é stato il mio ruolo anche all'interno della Polizia di Stato.”

PO: “Tu rappresenti te stesso ed il tuo lavoro.”

GG: “Io rappresento me stesso, il mio lavoro ed una massa enorme di persone per bene con le quali io ho lavorato, compresi ufficiali e sottoufficiali del ROS, magistrati e funzionari di Polizia.”

PO: “Raccontiamola questa storia”.

GG: “Nell´89 c'é l'attentato all'Addaura ed iniziano una serie di sospetti”.

PO: “L'attentato all'Addaura é quello della bomba a danno di Falcone, che poi dicono che non era una bomba.”

GG: “I sospetti si materializzano poi nel ´92, allorché viene riferito ai magistrati di Caltanissetta, e prima ai magistrati di Palermo da un maresciallo dei carabinieri, un artificiere, che il congegno esplosivo sarebbe stato consegnato a un funzionario di polizia, che si trovava presente sul posto. Io immediatamente con La Barbera svolgo degli accertamenti, che riguardavano questo funzionario di polizia, che già per la verità era indicato per la sua amicizia con Contrada e per alcuni suoi rapporti che aveva avuto a Palermo con qualcuno di molto sospetto e dimostro che quel funzionario di polizia non avrebbe mai potuto ricevere quel congegno, che viene maldestramente fatto esplodere e brillare e non consente di stabilire chiaramente come era stato congegnato effettivamente quell'attentato e se si trattava di un vero attentato, o se voleva essere solo un'intimidazione. Io dimostro che quel funzionario si trovava in tutt'altra sede in quel momento. Questo maresciallo dei carabinieri é stato condannato per false dichiarazioni al pubblico ministero. Poi le occasioni per aver lavorato sulla trattativa e per essere stato messo anche da parte, io e La Barbera, quando stava per arrivare l'onnipotenza del ROS a Palermo, che avrebbe assicurato, come ha assicurato, grandi successi. Sicuramente la cattura di Riina é stato un grande risultato. Però se si fossero fatte pure le indagini sul covo di Riina. Io mi preoccupo di più di come ci si é arrivati alla cattura di Riina e possibilmente del fatto stesso che Riina sia stato reso latitante per tanti anni. Perché vedi le catture sono certamente un successo dello Stato, ma sono allo stesso tempo un successo dello Stato, che dimostra l'insuccesso o le connivenze dello Stato per tutto il tempo in cui i latitanti, poi catturati, sono rimasti tali. Plaudire a chi ha catturato Provenzano, quando ormai si trovava in uno stato quasi larvale, é certamente giusto perché é il risultato di un'attività di intelligence di poliziotti, che hanno dato la vita e sacrificato affetti”.

PO: “É la fine di un percorso diciamo”.

GG: “Però io mi chiedo, se in uno Stato che si rispetti e che si chiami tale con la S maiuscola, possa essere consentito che un soggetto di quel genere possa restare per più di quarant'anni latitante. E´ veramente un assurdo pensare a questo e che poi venga trovato sotto casa a mangiare ricotta e cicoria, solo perché si seguono un paio di mutande. Io non penso che Provenzano si sia cambiato le mutande solo quella volta negli ultimi quarant'anni. Penso che se le sia cambiate altre volte o qualcuno gliele lavava pure queste benedette mutande, no?”

PO: “Ti faccio una domanda. Ritorniamo al ´92. Il ´92 é un anno cruciale per la Repubblica italiana. Sei d'accordo?"

GG: “Si, però le cose cruciali del ´92 nessuno le dice. Tutti parlano di quello che c'é dopo le stragi e nessuno dice quello che c'é prima. Nel ´92 ci sono due attacchi concentrici al sistema politico: uno viene dalle inchieste su tangentopoli e dalla procura di Milano e da altre autorità giudiziarie che seguono, alcune bene altre meno bene e alcune addirittura male. L’esempio ed il metodo investigativo della procura di Milano ed un altro che viene da un Presidente della Repubblica, che inizia a picconare il sistema, di cui aveva fatto parte e che lo aveva generato e che si chiama Francesco Cossiga. Si tratta di un Presidente della Repubblica che é giunto al limite del suo mandato ed inizia a togliersi tutti i sassolini dalle scarpe e che fa, oggi si direbbe, “outing”. Un Presidente della Repubblica che viene attaccato concentricamente e viene messo pure in stato di accusa con l'impeachment ed é costretto a dimettersi. Ed é costretto a dimettersi, perché c'é un qualcuno che in Italia vuole accelerare, c´é un qualcuno che probabilmente già studiava, od era in pantaloncini corti e si allenava, come accade per i giocatori che sono in panchina, per prendere le redini dell'Italia. E magari, per prendere le redini dell'Italia, avrebbe voluto pure utilizzare i percorsi dell'autorità giudiziaria, strumentalizzare alcune iniziative ed inchieste giudiziarie. Ma é ancora presto per parlare di questo. I dati sono questi: un Presidente della Repubblica viene fatto dimettere e la strage di Capaci avviene mentre si sta votando l'elezione del Capo dello Stato, interrompendo quello che é il corso, che quel Parlamento di inquisiti e tutto quello che vogliamo, comunque un Parlamento eletto, si stava dando, con la proposta di un altro ben diverso Presidente della Repubblica. Questi sono i fatti di cui pochissimi parlano”.

PO: “Però tu ti ritrovi in quel momento ad essere vice-questore a Palermo.”

GG: “No io in quel momento ero appena commissario. Io sono entrato in polizia nel marzo dell´86 e nel ´92 ero commissario capo da poco. Dirigevo la zona telecomunicazioni per la Sicilia occidentale ed in concomitanza delle stragi Parisi mi vollero affiancare un ulteriore incarico operativo di direzione del nucleo anticrimine, cioè un gruppo di una sessantina di poliziotti dotati di autovetture velocissime, di armamento e di equipaggiamento per eseguire immediatamente dei blitz e dei controlli, quindi un'attività operativa. Infatti sono stati i miei ragazzi a trovare nella collinetta di Capaci il famoso bigliettino con il numero del telefonino del responsabile SISDE di Palermo “NECP300 portare in assistenza”. Vedi caso NECP300 é lo stesso telefono che noi trovammo poi clonato ad Antonino Gioè e La Barbera nel covo di via Ughetti dopo la cattura, che fu fatta grazie ad un'operazione di intelligence della Procura della Repubblica di Palermo, dai magistrati Lo Voi e Pignatone.”

PO: “Quindi il 19 luglio tu ti ritrovi un paio di ore dopo?”

GG: “No, un po' prima. Sono andato in via D'Amelio con il mio autista che ancora si ricorda. Ci guardiamo mentre ancora le macchine erano in fiamme. Borsellino ancora fumava per terra. I pezzi di Emanuela Loi cadevano dalle pareti, dall'intonaco del palazzo, e certamente là era scoppiato un ordigno, che non poteva essere stato azionato sul posto. Perché se fosse stato azionato sul posto chiunque…”

PO: “Sarebbe stato come minimo ferito o mutilato”

GG: “No, sarebbe stato un attentato kamikaze e là non erano stati trovati dei morti, se non dei poliziotti e Borsellino. É da escludere che gli stessi poliziotti si siano fatti essi stessi un attentato, e non poteva essere nei palazzi adiacenti perché sarebbe stato travolto dall'onda d'urto. Le modalità dell'acceleramento nella posa della macchina hanno pure escluso che ci potesse essere un effetto ritardato, cioè che si preme e scatta dopo 5 secondi, perché c'é stata l'osservazione diretta di Paolo Borsellino, che é uscito dalla macchina, si é avvicinato al citofono e la macchina era messa proprio all'ingresso del cancelletto di via D'Amelio e quindi é stata quasi collegata all'impulso del citofono.”

PO: “C´é un unico punto.”

GG: “Guardando e considerando che tutta la parte montuosa dell´altura di Monte Pellegrino é inaccessibile, eccetto le strade, da cui non si poteva certamente mettersi sul ciglio della strada ed aspettare che Borsellino arrivasse, ho realizzato due ragionamenti. Uno deve essere stato fondamentale l'elemento informativo, quando Borsellino sarebbe andato là, perché tieni conto che non ci si può appostare con il joystick in mano per aspettare per mesi e giorni che arrivi Borsellino, qualcuno te lo deve pure dire quando Borsellino sta arrivando. Due ci vuole un punto di osservazione: siccome in via D'Amelio era stata fatta anche l'intercettazione del telefono dell'abitazione per carpire questi elementi informativi e siccome l'intercettazione abusiva poteva essere eseguita solo in un ambito ristretto, non poteva essere eseguita da Londra o da Milano o da Bruxelles, doveva necessariamente essere eseguita da un ambito molto ristretto – allora abbiamo ipotizzato a questo punto che ci fosse un'unica postazione di ascolto clandestino e di avvistamento. Poi abbiamo anche riflettuto su una cosa importante: Borsellino andava da decenni a villeggiare a Villagrazia di Carini, dove si poteva uccidere pure con la fiocina di un fucile subacqueo, perché andava là e prendeva il bagno. Infatti aveva il costume blu da bagno di TERITAL nella borsa, che si é sporcata per l'incendio della macchina, ma che era intatta. Si trattava di una borsa in pelle marrone al cui interno c'erano il costume e la batteria di un cellulare MICROTAC, la batteria quella doppia, batteria che poi i familiari donarono al fidanzato della figlia e che ha utilizzato fino a qualche anno fa. Per dire come quell'incendio non ha distrutto la macchina di Borsellino, non ha distrutto la borsa, non ha distrutto la batteria, che é di per sé infiammabile. L'unica cosa che si é infiammata, forse perché era rossa, é l´agenda che non si é più trovata.”

PO: “Ma questa borsa che passeggia per via D'Amelio in quei momenti… quel video é impressionante.”

GG: “Certamente quel video c'é. Magari forse la contestazione di furto dell’agenda mi é sembrata pure a me un po' eccessiva, però, insomma, io non so se le cose che ha detto l'ufficiale – io non le ho lette, non conosco gli atti - siano perfettamente aderenti al vero. Quindi probabilmente la contestazione di furto non ci sta, come é stato correttamente osservato anche dalla Cassazione, però certamente c'é una grossa discrasia di una borsa, che conteneva un'agenda e di un'agenda che non si é più trovata. Non solo. E’ tutto l'elemento acceleratore della strage dietro questa agenda, che sparisce con il tentativo di cancellare gli ultimi giorni di vita di Borsellino. Se poi vai a considerare quando é stata rubata la macchina, la 126 utilizzata per la strage,…”

PO: “Tu ad un certo punto ti ritrovi lì, Castello Utveggio, capisci che sono circolate…”

GG: “Guarda, io ti leggo quello che ho già dichiarato in un'intervista, che poi é stata per esigenze tecniche tagliata a proposito della vicenda Castello Utveggio e della vicenda Spatuzza. Tieni presente che dopo la creazione dei gruppi Falcone-Borsellino, io li lascio a maggio 2003.”

PO: “Lasci o te li fanno lasciare?”

GG: “No no lascio. Sono stato io ad andarmene, non é assolutamente vero che mi la fanno lasciare, sono stato io volontariamente ad andarmene. Questo risulta nei processi, non é stato smentito, c'é la mia nota con la quale io rientro in servizio.”

PO: “Perché c´é un po´ di pubblicistica che dice che sei stato allontanato, tu sei stato trasferito un periodo.”

GG: “No, io sono stato trasferito nell'ottobre precedente, quando ci fu il tentativo di allontanare me e poi La Barbera. Anche La Barbera fu trasferito. Ed i gruppi nascono perché la dott.ssa Boccassini ed il dott. Cardella, in particolare, si impongono sul Ministero dell'Interno e devo dire anche Tinebra, perché queste risorse investigative e queste persone – in particolare il dott. La Barbera, io e basta – potessimo rioccuparci delle indagini. Perché, dopo che apriamo il fronte sui servizi, in particolare dopo che apriamo il fronte su Contrada perché sia chiaro, noi siamo stati trasferiti. Ma non era tanto un trasferimento mio e di La Barbera, ma lo smantellamento di una struttura della Polizia di Stato, perché tutto doveva passare in mano al ROS. Questo é il disegno ancora più perfido di questa scelta che in quel momento fu fatta”.

PO: “Ma che cosa gli hai fatto ai ROS, che cosa gli hai toccato? C'é un pezzo del ROS che comunque ti ha puntato.”

GG: “Sì, sicuramente”

PO: “Non del ROS, dell'arma dei carabinieri.“

GG: „No, guarda, l'arma dei carabinieri lo escludo tassativamente, perché l'arma dei carabinieri é fatta di persone serie. Il pericolo é fatto da persone che entrano ed escono dai servizi di sicurezza e dal ROS e che, in questi vari passaggi, si dimenticano intanto di essere dei carabinieri. Perché é normale e fisiologico che una persona della Polizia possa andare nei servizi di sicurezza, alla DIGOS, all´UCIGOS, allo SCO e poi rientrare e fare il questore o qualunque cosa. Però la cosa importante é che questo poliziotto o carabiniere, che transita, che possa andare pure al RIS, alla territoriale, comandare una compagnia, poi comandare un reparto operativo, poi andare al ROS etc, sto carabiniere o ufficiale dei carabinieri non deve mai dimenticare di essere un carabiniere e di avere giurato fedeltà allo Stato in quanto carabiniere. Perché se dimentica questo, allora comincia ad essere molto pericoloso”.

PO: “Ma é una questione politica?”

GG: “Eh sì, é una questione politica. Io mi occupo di queste indagini con De Magistris e le tolgono a De Magistris, le tolgono a me ed affidano tutto al ROS ed il ROS combina il pataracchio, che ha combinato, secondo me, anche in danno dei magistrati di Catanzaro, perché Iannelli non é colui che ha avocato l'indagine. Iannelli é colui, a cui é stata prospettata una rappresentazione totalmente falsa di quelle indagini illegali, che il ROS ha fatto su De Magistris e su di me. Io vado da Mentana e Mentana subito dopo la mia trasmissione viene cacciato. Viene messo un nuovo conduttore di MATRIX, che la prima trasmissione che fa é con Mori del ROS. Un bravo giornalista, Nicola Biondo, fa un'inchiesta sul ROS sull'Unità e qualche giorno dopo stavano per chiudere l'Unità. Io adesso non vorrei, però comincia ad esser molto preoccupante. Qui il vero problema, ed io l'ho scritto nel mio blog, é l'attuazione della direttiva Napolitano. Io mi augurerei che Napolitano, che ha fatto quella splendida circolare, che voleva evitare concentramenti di potere e di informazione su questi organi di Polizia, che operano all'esterno dell'ambito istituzionale e giurisdizionale dello Stato, se non ha avuto la forza di farla valere come Ministro dell'Interno, quantomeno, abbia la forza di farla valere come Presidente della Repubblica”.

PO: “Prima facevi un accenno alla massoneria.”

GG: ”La massoneria oggi bisogna porla in una dimensione diversa da come siamo stati abituati. Io mi sono occupato in numerosissime occasioni di indagini sulla massoneria ed ho realizzato una conclusione. Sono state fatte intercettazioni, sono state fatte perquisizioni e, per i ricordi che ho io, tutti i soggetti a cui sono stati trovati i paramenti massonici, i grembiulini, sono stati sempre prosciolti alla fine delle indagini. Magari c'erano condotte riprovevoli dal punto di vista morale e politico, però di reati nemmeno l'ombra. Il vero problema é invece quando i grembiulini non si trovano, i cosiddetti affiliati all'orecchio. I veri problemi non sono le singole logge, che poi tra l'altro sono sempre in lite tra di loro, i veri problemi sono quando queste logge vengono aggregate e si autoaggregano anche senza volerlo, per la sola volontà di chi sta facendo le indagini. Ritengo che in questo De Magistris, e nel mio piccolo forse anche io, abbiamo avuto il primato di aggregare delle logge e delle consorterie massoniche o paramassoniche, che possono poi anche chiamarsi Compagnia delle Opere o Opus Dei. Qualcuno, quando pensa alla massoneria, pensa solo ai compassi, solo a Gelli, pensa solo ad una cosiddetta massoneria laica. Io vi invito a leggere il libro di Pinotti, quello che c'é sull'Opus Dei, e vi assicuro che esce fuori un quadro di Gelli persino quale campione di democrazia al cospetto di quello che emerge dall'Opus Dei, se sono vere le cose, che sono scritte in quel libro”.

PO: “Quindi questa componente continua ad esistere, si parla addirittura di nuove possibili logge coperte.”

GG: “Sì sono tutta una serie di aggregazioni e sub-aggregazioni, che ormai utilizzano internet e non utilizzano più le regole della tessera, del numero e del codice e che utilizzano un sistema di accordi trasversali, specie con la frantumazione dei partiti e delle ideologie, con il valere degli accordi trasversali, dei sistemi degli inciuci, che partono dal mondo della politica per arrivare a quello della finanza, passando e controllando totalmente il mondo dell'informazione. È evidente che in una situazione di questo genere, specie se questi soggetti apparentemente disgiunti vengono attaccati contemporaneamente, é chiaro che si uniscano. Infatti l'unisono, anche parlamentare, degli attacchi che si sono avuti all'attività ed al lavoro del dottor De Magistris, ed in particolare al mio, con una mistificazione di numeri e nomi senza uguali che ha lasciato persino di stucco alcuni parlamentari. Io ovviamente non posso dire chi, ma io sono stato contattato da diversi parlamentari, che sono rimasti assolutamente stupiti di quello che é accaduto. Non riuscivano a capire il come ed il perché. Il come ed il perché sta nel fatto che pochi, ma buoni, si sono uniti ed hanno orchestrato l'inciucio”.

PO: “Davvero pochi?”

GG: “Fortunatamente si, sono pochi ma buoni nel senso di peggiori.”

PO: “Cioè che controllano comunque il sistema informativo”.

GG: “Si, controllano il sistema informativo ed hanno cercato di controllare il sistema parlamentare. Però secondo me non ci sono riusciti.”

PO: “Dici che qualche anticorpo c'é ancora?”

GG: “Si io credo che il nostro Parlamento e la nostra politica abbiano dei grossi anticorpi.”

PO: “Ma Mentana? Aveva già lanciato dei segnali.”

GG: “Mentana é stato un incontro-scontro interessante. Io non conoscevo Mentana, mi trovavo alla redazione della Sciarelli, a CHI L`HA VISTO, e stavamo per andare in trasmissione. Mi ha chiamato un mio amico, che é un regista della Sciarelli, dicendomi che un suo amico, che é un regista che lavora con Mentana, voleva contattarmi e voleva sentirmi, perché Mentana voleva fare una puntata di MATRIX con me. Contemporaneamente mi é giunto un messaggino di Mentana sul cellulare. Ci siamo sentiti, io gli ho dato la disponibilità e gli ho detto se aveva bisogno di qualche argomento. Mi ha detto che pensava a tutto lui e che stava organizzando. Gli ho chiesto allora di sapere cosa stava organizzando, anche per prepararmi, e mi ha detto che era tutto a sorpresa e non poteva dirmi nulla. Io non ho insistito, anzi ho apprezzato la serietà di un giornalista, che voleva lavorare sull'elemento sorpresa, anche per animare la trasmissione. Quindi mi ha invitato per il pomeriggio successivo per andare agli studi e registrare la trasmissione. A questo punto ho detto no: io vengo con piacere ed accetto qualunque tipo di sfida con lei, visto che sarà certamente una sfida da come si sta palesando, però io vengo in trasmissione solo a condizione che la trasmissione sia in diretta. Mi ha detto: “Ma dai che facciamo tardi, così poi la vediamo in TV e magari stiamo assieme la sera.” Io ho detto: “No, mi dispiace Mentana, ma io non vado in trasmissioni registrate.”

PO: “E lui ha accettato?”

GG: “Lui ha accettato ed ha detto “non c´é problema. Anzi così abbiamo pure un po' più di tempo per preparare i servizi e lavoriamo meglio anche nel pomeriggio”. Io non so che tipo di permessi abbia chiesto lui, però certamente lui voleva fare una trasmissione per rilanciare il Presidente del Consiglio. Lui probabilmente era andato sotto con l'intervista a Di Pietro e Saviano, ma con la mia si voleva riprendere, perché c'era un cartellone enorme, tanto che mi sono sentito male quando sono entrato in quello studio  nel vedere quella gigantografia con le dichiarazioni del Presidente del Consiglio. Tra l'altro, mi ha anche fatto dire prima, quello che io avevo già anticipato e cioè che, secondo me, Berlusconi era stato probabilmente depistato, quando ha detto “il più grande scandalo”, perché io l'ho sentito, quando lui in un'intervista per strada aveva detto “se sono vere le cose che riportano i giornali”, perché lui non era stato in Consiglio dei Ministri o al Copasir e non aveva sentito i servizi, ma si trovava in Sardegna, dove forse qualche entità dei servizi c'é pure, quantomeno quelli che stavano costruendo alla Maddalena e di cui mi stavo occupando, però Berlusconi non aveva modo di avere informazioni in tempo reale ed ha rilasciato una dichiarazione di assoluta gravità. Ma io che non ritenevo di avere un fatto personale con Berlusconi, anche perché devo dire con tutta onestà che, dall'indagine WHY NOT, Berlusconi non era assolutamente emerso e forse questo é stato il guaio, perché se fosse emerso, avremmo trovato più solidarietà. Quantomeno nella magistratura associata ed invece questo non c'é stato. Quindi il presidente Berlusconi si é scagliato diciamo contro di me. Allora Mentana, dopo che io difendo il presidente Berlusconi, nel senso di dire “secondo me il presidente Berlusconi é stato informato male”, io non posso prendermela con chi ha solo avuto la leggerezza nel riferire al presidente del consiglio un'informazione appresa dalla stampa - infatti io sono un uomo dello Stato e mi tocca difendere il Presidente del Consiglio indipendentemente dal fatto se l'ho votato o meno – mi lancia subito dopo il servizio di Berlusconi, che non parlava per strada con gli stessi giornalisti, a cui aveva detto le cose, che avevo sentito io, ma il comizio che aveva fatto dentro un teatro, nel quale non aveva assolutamente parlato dei giornali e se sono vere le cose che hanno riportato i giornali, ma ha dato per scontato che io avevo intercettato tutti gli italiani. Quindi tra l'altro, se avessi intercettato tutti gli italiani, avrei intercettato lui e quelli e quelle che parlavano con lui. Quindi avrei avuto quelle famose intercettazioni, che molti mi hanno chiesto quando lui ha detto “se esce una mia intercettazione io lascio l'Italia”. Io sono stato tempestato di telefonate “ Genchi tira fuori le intercettazioni di Berlusconi perché così facciamo bingo”. Io ho detto mi dispiace, ma con tutta la buona volontà io il presidente Berlusconi non l'ho intercettato. Non solo: io non ho intercettato nemmeno le gentili signorine che si sarebbero intrattenute al telefono con il presidente Berlusconi. Con tutto quello che posso fare per l'Italia, io vi posso portare intercettazioni mafiose, di assassini, di criminali, degli amici di Saladino, che sono in Parlamento, ma il presidente Berlusconi purtroppo in questo non c'entra, perché se ci fosse entrato, forse i destini della nostra indagine, forse, sarebbero stati diversi. Però Berlusconi, insomma, certamente non devo insegnargli io come fare il Presidente del Consiglio. Lui si avvale delle sue fonti informative ed io gli auguro di avere buoni risultati. Però io devo dire una cosa: devono stare molto attenti a queste sirene che girano attorno ai palazzi. Un grande generale scrisse che un esercito che fonda le sue forze sull'arruolamento dei traditori vincerà le prime battaglie, ma perderà sicuramente la guerra”.

MISTERI DI STATO. MISTERI DI CASA (O COSA) NOSTRA.

Dopo anni, i mandanti delle stragi di Capaci e via D’Amelio - che hanno segnato le resa della giustizia di fronte alle Mafie - sono ancora sconosciuti. “A volto coperto”, come si dice in gergo giudiziario, visto che diverse inchieste per scoprire il terzo o quarto livello erano partite. Alcune si sono perse, ovviamente, per strada, altre archiviate, o con qualche brandello ancora in corso. E’ lo spaccato della giustizia nostrana, sempre pronta ad assicurare alla galere il mafioso o il camorrista che viene trovato con la pistola fumante in mano o col pollice sul detonatore: mai in grado di colpire più in alto, vuoi sul fronte degli affari (il mondo degli appalti), vuoi, soprattutto, su quello politico, storicamente e strettamente legato agli altri due. Ora si riparte dell’agendina rossa. Quella che Paolo Borsellino portava sempre con sé, nella sua borsa. Anche quel 19 luglio 1992, quando la sua auto saltò in aria. Scrive Marzio Tristano su Antimafia 2000, una delle poche, battagliere riviste rimaste sul campo nel contrasto alla delinquenza organizzata: «Di quella borsa, affumicata e bagnata dagli idranti dei vigili del fuoco, esiste un’immagine, scattata da un fotografo professionista palermitano, che è stata appena acquisita dalla Dia di Caltanissetta. La foto ritrae un ufficiale dei carabinieri nell’inferno di via D’Amelio. Dietro si notano le auto ancora in fiamme, in mano l’uomo ha una borsa di cuoio. La procura di Caltanissetta - prosegue Tristano - vuole adesso ricostruire a ritroso il percorso della borsa fino alla sua apertura, descritta nel verbale di sequestro che attesta l’assenza dell’agendina rossa di Borsellino». Aggiunge Tristano: «E’ la prima volta dopo tredici anni che si indaga sui misteri di quella agendina di Borsellino, la cui sparizione venne immediatamente denunciata da colleghi e familiari. Un’agenda da tutti ritenuta importante per ricostruire incontri, spostamenti e attività di quei frenetici 56 giorni, dalla strage di Capaci, in cui Borsellino si tuffò nelle indagini antimafia con la consapevolezza del martirio». «Un’agenda che potrebbe contenere la verità sulla morte di Borsellino», è il commento di Carmelo Canale, il più stretto collaboratore di Borsellino, accusato a sua volta di collusioni mafiose, assolto (ma la procura ha presentato appello).

UN LUNGO CANALE

Così ricostruisce Simone Falanca nel suo volume Alfa & Beta: «L’ufficiale (Canale) ha ricordato che Borsellino, una settimana prima dell’attentato, era stato da lui visto mentre scriveva “nella stanza di un albergo di Salerno dove eravamo andati per il battesimo del figlio di un suo collega. Era preoccupato - prosegue il racconto di Canale ripreso nel suo libro da Falanca - avevo capito che quell’agenda era il suo testamento. In quell’agenda, ne sono sicuro, c’era anche la verità su chi e perché aveva ucciso Falcone”». Continua Falanca: «Il dato interessante è che quell’agenda non può essere stata sottratta dagli attentatori, che agirono da lontano, con un telecomando. E’ stata certamente sottratta da qualche investigatore giunto tra i primi sul posto. Anche in altri atti degli inquirenti che indagarono sulle stragi del 1992-1993 ricompare il nome di Lorenzo Narracci, vicecapo del Sisde a Palermo fino a 9 anni fa. Narracci, oltre ad essere stato raggiunto da una telefonata di Bruno Contrada partita 80 secondi dopo lo scoppio della bomba che uccise Paolo Borsellino, è anche l’utente cui apparteneva il il numero di cellulare annotato su un biglietto, trovato dagli investigatori sulla montagna dove fu premuto il telecomando per uccidere Giovanni Falcone. Una ulteriore coincidenza vuole che proprio in via Fauro, teatro dell’attentato a Maurizio Costanzo, abiti proprio lui, Lorenzo Narracci».

Passiamo al secondo, nuovo elemento sul fronte delle inchieste per le stragi di Capaci e Via D’Amelio. E’ fresco del 14 maggio il decreto di archiviazione con il quale il gip del tribunale di Caltanissetta, Giovanbattista Tona, mette una pietra sulla pista del Castello di Utveggio, secondo non pochi la chiave dei misteri per l’assassinio di Borsellino e della sua scorta. Proprio su quella pista, scrive ancora Falanca, a proposito di Gioacchino Genchi, l’esperto informatico al quale la stessa procura di Caltanissetta aveva affidato le indagini per decodificare i traffici telefonici (su rete fissa e cellulare) dopo la strage di via D’Amelio. «Genchi scopre che diverse persone (non mafiosi) hanno tenuto sotto controllo i telefoni di Borsellino, che erano stati clonati, e forse hanno controllato dall’alto, dal monte Pellegrino, la zona della strage». Continua Alfa & Beta: «Il Sisde - in quegli anni controllato a Palermo da Bruno Contrada - secondo Genchi aveva un suo centro all’interno del Castello Utveggio, un centro che operava sotto la copertura di un misterioso centro studi, il Cerisdi. Pochi secondi dopo l’esplosione (dell’auto in via D’Amelio, ndr), dalla sede Sisde di Utveggio - sempre vuota la domenica, tranne quella - parte una telefonata che raggiunge il cellulare di Contrada».E’ lo stesso Tona a rammentarla nel provvedimento di archiviazione del caso Contrada (ed è sempre Tona, poi, a firmare le archiviazioni per Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, sulla scottante inchiesta dei mandanti a volto coperto delle due stragi).

TONA ARCHIVIA TUTTO

Nel recentissimo decreto di archiviazione, Tona ricorda come «la sentenza della corte d’assise d’appello segnalava l’esigenza di approfondire ulteriormente ipotesi ed elementi sin qui trascurati, nella prospettiva di individuare complici o mandanti esterni all’organizzazione mafiosa cosa nostra». E proprio Tona ribadisce: «A seguito di tale sentenza divenuta irrevocabile, il pm riprendeva le indagini, partendo proprio dalle dichiarazioni del Genchi. Rispondendo ad apposita delega la Dia di Caltanissetta procedeva a escutere nuovamente il Genchi, e individuava un cospicuo raggio di attività investigative aventi ad oggetto organismi e persone che potevano contare sulla disponibilità dei locali di Castello Utveggio». Le indagini, però, partoriscono il classico topolino. E il pm Tona in poche, sbrigative parole, archivia il tutto. Come si trattasse di una bega condominiale.

L’ennesimo colpo di spugna. Ma restano, pesanti come macigni, gli interrogativi sulle due stragi. Irrisolti. Con la sola condanna per gli “esecutori”, tutti “regolarmente” condannati. La manovalanza di Riina e Provenzano, a partire da Brusca & company. Per i mandanti, è ancora tutto “coperto”… Raccontano alla procura di Palermo: «Hanno parlato i pentiti, Giovanni Brusca e Nino Giuffrè. Le verbalizzazioni in parecchi punti coincidono, in altri no. Sostanzialmente, c’è una differenza tra i due: Brusca parla soprattutto della “trattativa“ che sarebbe intercorsa con lo Stato, a inizio anni ’90, per ottenere vantaggi legislativi dalla nuova classe politica in favore di Cosa nostra; Giuffrè parla soprattutto di appalti, di rapporti tra imprenditori, politici e mafiosi».

Ecco cosa scrive il sito antimafia Città Nuove Corleone: «Il procuratore di Caltanissetta, Francesco Messineo, che coordina l’inchiesta contro ignoti, ipotizza che le motivazioni delle due stragi del ’92 siano coincidenti, ma l’attentato a Borsellino avrebbe subito un’accelerazione perché Riina era alla ricerca di nuovi referenti politici che tardavano ad arrivare». Continua, nella sua minuziosa disamina, il sito siciliano: «Gli inquirenti si chiedono ora se la ricostruzione di Giuffrè possa rappresentare un movente aggiuntivo, rispetto a quello indicato da Brusca, o se un’ipotesi esclude l’altra. I magistrati della Dda vogliono accertare il motivo per il quale Provenzano avrebbe ordinato la morte di Borsellino, se ciò sia legato agli appalti o alla “trattativa”. I pm sottolineano anche il fatto che Riina, come emerge delle dichiarazioni di numerosi pentiti, in quel periodo non sarebbe stato “in sintonia” con Provenzano. Perchè il boss latitante avrebbe dovuto aiutare Riina a dare un altro colpetto dopo Falcone?». La risposta di Giuffrè sarebbe stata: «la curiosità per i boss è l’anticamera della sbirritudine».

LA PISTA APPALTI

Le versioni di Brusca e Provenzano però non sono antitetiche, come alcuni oggi sostengono. Ecco, ad esempio, cosa scriveva, un paio d’anni fa, il giudice Paolo Tescaroli nel volume Perché fu ucciso Giovanni Falcone. «In Cosa nostra, secondo Brusca, esisteva la preoccupazione che Falcone potesse imprimere, diventando procuratore nazionale antimafia, un impulso alle investigazioni nel settore inerente alla gestione illecita degli appalti. Ha spiegato (Brusca, ndr) che le indagini in quel settore non erano iniziate “in quel momento”, Falcone aveva iniziato con i Costanzo e il comune di Baucina e proseguito con l’indagine nei confronti di Angelo Siino. Ha affermato che Falcone - attraverso questo tipo di investigazioni, che nel passato avevano attinto anche Vito Ciancimino - aveva la possibilità di indagare, oltre che nel settore economico, nei confronti degli imprenditori e dei politici con i quali i primi “andavano a trattare”. Specificatamente, Falcone aveva contribuito a bloccare il progetto, che l’organizzazione aveva in cantiere nel 1991, mirante proprio a impostare nuovi collegamenti istituzionali per il tramite di strutture imprenditoriali». Secondo la minuziosa ricostruzione di Tescaroli, dunque, le verbalizzazioni di Brusca non solo non indeboliscono, ma addirittura rafforzano la pista-appalti quale movente primo per l’eliminazione di Falcone (e, quindi, di Borsellino).

Ma esiste un testimone ben più importante per dimostrare la determinazione di Falcone sul fronte delle commesse arcimiliardarie che sanciscono il patto politica-mafia-imprese. E’ Antonio Di Pietro, a quel tempo sconosciuto pm alla procura di Milano, che da mesi ha puntato i riflettori sulle “portappalti”, imprese cioè create - o rilevate - ad hoc per fare man bassa di commesse sotto l’ala protettrice di un politico (se possibile, un ministro). Le strade investigative dei due magistrati, quindi, a un certo punto viaggiano su binari paralleli. Ecco cosa dichiara Di Pietro, sentito come teste al processo di via D’Amelio: «Cercammo di immaginare un meccanismo investigativo che potesse far capire cosa succedeva per gli appalti che le grosse imprese nazionali avevano non solo in Sicilia, ma anche in Calabria e in Campania. Aprii, per esempio, su Foggia, aprii su Napoli, aprii su Reggio Calabria. Mi resi conto che bisognava guardare su tutti gli appalti». Di Pietro, su questo fronte, comincia a lavorare sia con Falcone che con Borsellino. L’attuale leader dell’Italia dei Valori ricorda, davanti ai giudici, una frase che Falcone pronunciava spesso: «E’ inutile che perdi tempo con le rogatorie, te lo ricordi com’è andata con il conto protezione…. Invece, individua l’appalto, individua l’appalto. Me lo ripetè anche due o tre giorni prima di morire».

Ma quali appalti, quali “imprese” potrebbero essere finite al centro delle indagini di Falcone e Borsellino (e poi anche di Di Pietro, che dopo solo tre anni ha, guarda caso, abbandonato la toga)? Una chiave del mistero può essere rintracciata nel dossier mafia-appalti, una montagna investigativa di 900 pagine commissionata al Ros di Palermo e finita sulla scrivania di Falcone - con tutto il suo carico, è il caso di dirlo, esplosivo - a febbraio ’91. Dopo un giro per la verità un po’ tortuoso: lo “intercetta” l’allora procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco, il quale pensa bene di smistarlo subito (senza un plausibile motivo) non a chi lo aveva commissionato, Falcone, ma al ministro della Giustizia Claudio Martelli, che un paio di mesi dopo chiamerà lo stesso Falcone a Roma. Misteri di Palazzo…

LA TAV E I MASSONI

Ironia del destino, parecchie imprese che fanno capolino del maxi dossier “mafia-appalti” redatto nel ’90 e recapitato a Falcone a febbraio ’92, sono le stesse sulle quali sta indagando, sul versante milanese (con diramazioni svizzere per le esportazioni di capitali all’estero e i lavaggi di danaro) Di Pietro, e sulle quale poi punterà l’indice, in un infuocato intervento alla commissione Antimafia, nel ’95, l’ex magistrato Ferdinando Imposimato. E una maxi commessa, in particolare, entra nel mirino degli investigatori: quella per i lavori dell’Alta velocità, “decisi” a livello governativo nel ’90. A dieci anni esatti dal terremoto da 70 mila miliardi di vecchie lire che ha significato il decollo per tante portappalti e parecchi politici di casa nostra. Stesso copione per la Tav, ma qui la torta è molto più grossa. Tutti in carrozza, alla partenza, per la modesta cifra di 25 mila miliardi circa, che nel giro di un decennio andranno a oltrepassare i 150 mila (ma il pozzo continua a succhiare risorse).

Ecco cosa scrive Sandro Provvisionato nel volume Corruzione ad Alta Velocità, che ha raccontato per filo e per segno il saccheggio perpetrato alla casse dello Stato: «Il 2 marzo 1994 il processo mafia-appalti, che ha visto alla sbarra solo cinque imputati, si conclude con una serie di condanne. Il dato singolare è che nel ’95 Imposimato, occupandosi di ben altre vicende, torni ad inciampare in alcune di quelle stesse società oggetto delle attenzioni della magistratura di Palermo. Ed è anche singolare che sulla sua scrivania finisca un rapporto, quello dello Sco, che, trattando dell’oggi, riguarda ancora fatti di ieri». «In sostanza si afferma - continua Provvisionato - che nell’Alta velocità ci sono anche società, come la Calcestruzzi, accusate di essere controllate da Cosa nostra. Come se dopo indagini, rapporti, inchieste e processi nulla fosse cambiato. E il sistema degli appalti si fosse bellamente spostato dalla Sicilia verso nord, in Campania e in altre regioni». E conclude: «Uno scenario che vede in primo piano il mai del tutto sconfitto sistema degli appalti, nel quale sarebbe maturata almeno una delle stragi che insanguinarono il 1992, quella in cui morì Paolo Borsellino, quasi ossessionato, nei giorni immediatamente precedenti la sua tragica fine, proprio da quel dossier, il dossier Mafia-appalti». parola ai massoni.

Precise le dichiarazioni di Angelo Siino, il “ministro dei lavori pubblici” di Cosa nostra, minuziosamente ricostruite da Tescaroli. «Siino ha posto in rilevo di ritenere che le indagini promosse da Falcone nel settore della gestione illecita degli appalti avevano “creato dei presupposti” che hanno portato alla sua eliminazione. Ha anche evidenziato che Borsellino, nel periodo immediatamente successivo all’uccisione di Falcone, aveva pubblicamente affermato che una pista da seguire era quella degli “appalti” e che “senza dubbio c’era stato un qualcosa che aveva determinato l’uccisione di Falcone a causa del suo volersi filare sulla questione degli appalti”». Nelle verbalizzazioni di Siino torna alla ribalta il nome di un’impresa, la Calcestruzzi, in odore di garofano. E non solo. Secondo u’ ministro, Falcone aveva compreso che dietro le quotazioni in borsa del gruppo Ferruzzi c’era effettivamente Cosa nostra e che tra quest’ultima e una frangia del Psi, quella riconducibile a Martelli, era intercorso un accordo.

Ma leggiamo altre dichiarazioni di Siino, questa volta raccolte dai magistrati partenopei nell’ambito di una grossa inchiesta (ora passata a Roma), su massoneria, mafia & appalti. In particolare, Siino ricostruisce il contenuto di diversi colloqui intercorsi con un confratello massone, il siculo-napoletano Salvatore Spinello (il cui nome ha fatto capolino anche nel caso Telekom Serbia). «Spinello mi parlò - dichiara il ministro di Cosa nostra - dei finanziamenti che dovevano affluire per la realizzazione dei lavori per la terza corsia (della Napoli-Roma, ndr) e della Tav. Mi disse nel 1991 che lui poteva decidere sui lavori della Tav perché aveva collegamenti con i personaggi che avevano tutti in mano. In occasione dei vari incontri, vantò rapporti di conoscenza con Craxi e Martelli, mi preannunziò il trasferimento di Falcone (al ministero della Giustizia, ndr), mi disse in particolare che aveva rapporti con gli onorevoli Pomicino e Di Donato, mi segnalò l’impresa Icla (la regina del dopoterremoto e non solo, ndr) che all’epoca aveva problemi in un lavoro sull’autostrada Messina-Palermo».

C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA: PALERMO, I GIUDICI CANNIBALI

Si sono divisi sui processi politici e scontrati su come fare le indagini. Si sono contesi l'eredità di Falcone. Inchiesta dopo inchiesta, si sono combattuti su tutto. Su Andreotti. Sui pentiti. Sulla caccia a Provenzano. Sulle "talpe" infilate nelle loro stanze. Prima hanno scatenato violentissime guerre in nome dell'antimafia e poi la loro antimafia l'hanno divorata. Quasi venticinque anni dopo è finita per sempre la storia del pool di Palermo. L'hanno sepolto antichi rancori, l'hanno sbranato tribù giudiziarie in perenne sfida. E ormai, di quell'idea e di quella struttura investigativa nata in un piccolo bunker del Palazzo di Giustizia mentre i mafiosi spadroneggiavano per la città, sono rimaste solo macerie. Resti di pool sui quali camminano giudici che si azzannano, che si fanno a pezzi fra loro. Sono giudici cannibali quelli di Palermo. Rappresentato dagli stessi abitanti del Palazzo di Giustizia come uno dei tanti conflitti originati da due "scuole di pensiero", il caso Palermo in realtà questa volta è il segno di un'avventura al suo epilogo: la conclusione di una stagione italiana nella lotta a Cosa Nostra.

Quelle di Palermo non sono soltanto dispute - come era accaduto anche più volte in passato - di natura tecnico giuridica o divergenze sul vaglio delle contiguità fra mafia e politica. È tutto più evidente e doloroso: è lo spegnimento, l'estinzione di un'esperienza che ha marcato un quarto di secolo.

È implosa la procura della Repubblica di Palermo. Dietro le polemiche, le risse, le comunicazioni a mezzo stampa per precisare pubblicamente "la linea dell'ufficio", c'è una devastazione mai conosciuta prima. Neanche ai tempi dei veleni e dei magistrati eccellenti sospettati di collusione. Gli effetti di questo disastro sono già visibili. Investigazioni rallentate. Processi pasticciati. Deleghe d'indagine sospese. Sostituti che nascondono carte ad altri sostituti, che non si salutano più, che dichiarano apertamente "il proprio odio" nei confronti di altri magistrati. Colleghi della porta accanto, blindati come loro, prigionieri delle stesse scorte e delle stesse paure.

Un pool pieno di nemici. Una parte accusa l'altra di "massimalismo" nelle investigazioni di mafia, il riferimento è alla gestione Caselli, ai suoi processi politici - quasi tutti persi - e allo schema operativo che si sta riproponendo ora con il nuovo procuratore capo Francesco Messineo. Sarà un caso, ma nei corridoi della procura di Palermo è ricominciato a circolare il nome di Silvio Berlusconi. L'altra parte accusa i fedelissimi di Pietro Grasso di avere creato un "centro di potere" nella direzione distrettuale, con indagini affidate a pochi. Di avere impedito la "circolarità" delle informazioni, mantenuto un "basso profilo" investigativo, concentrato energie quasi soltanto sul versante militare di Cosa Nostra. Trascurando la mafia economica e politica.

L'ultimo atto di questa lotta è la vicenda Cuffaro. Su come portare alla sbarra il governatore della Sicilia per le sue frequentazioni mafiose, sui reati da contestargli. Il caso è emblematico. Ma quali discordie e quali diverse "scuole di pensiero", i fatti che si sono susseguiti intorno all'inchiesta sull'imputato Totò Cuffaro rasentano la perversione giuridica. Oggi, a Palermo, contro il governatore ci sono due procedimenti fotocopia. Tutti e due con le stesse fonti di prova. Uno aperto il 26 giugno 2003, l'altro il 21 maggio del 2007. Il primo è approdato in dibattimento e - in sede di requisitoria - per lui sono stati chiesti 8 anni di reclusione per rivelazione di segreti e favoreggiamento nei confronti di Cosa Nostra. Il secondo ha prodotto l'iscrizione di Cuffaro nel registro degli indagati per gli articoli 110 e 416 bis del codice penale, concorso in associazione mafiosa. Una procura lo sta già processando per un reato, un'altra procura lo vorrebbe processare per un altro reato. L'inchiesta però è sempre quella, non sono emersi altri indizi, non ci sono altre acquisizioni (un paio di deleghe e nulla più), non c'è un altro collaboratore di giustizia o un'altra intercettazione ad arricchire il quadro probatorio.

L'affaire Cuffaro è stato in sostanza soltanto il pretesto per l'ennesimo duello, il più rabbioso. Il governatore della Sicilia di fatto passerà alle cronache come l'imputato che ha dato il colpo finale alla credibilità dei procuratori di Palermo. Se ci sarà una data per ricordare la fine ufficiale del pool antimafia quella è proprio oggi: l'ottobre del 2007.

Più che una resa dei conti sta andando in scena una resa collettiva. Fra quel gruppo che faceva riferimento al procuratore Gian Carlo Caselli (i suoi fedelissimi: Antonio Ingroia, Roberto Scarpinato, Nico Gozzo, Gaetano Paci) e quegli altri che sono vicini al suo successore Pietro Grasso (Giuseppe Pignatone, Maurizio De Lucia, Michele Prestipino). Gli uni e gli altri sono consapevoli che, d'ora in avanti, alla procura della Repubblica di Palermo niente sarà più come prima. "Non c'è speranza", dicono tutti.

La ferita è profonda. Condiziona le strategie generali e l'attività quotidiana. Per esempio tutti aspettano con terrore il prossimo 12 dicembre la requisitoria al processo contro l'ex maresciallo dei carabinieri Antonio Borzacchelli, poi diventato deputato della Regione e arrestato per corruzione. L'atto di accusa è affidato a due sostituti che non si rivolgono più la parola. Ma è quell'ordinaria amministrazione che "ordinaria" non è mai stata a Palermo, che è influenzata e limitata dalle spaccature. Quando c'è un omicidio al confine fra una borgata e l'altra, il funzionario di polizia o l'ufficiale dei carabinieri che fa il sopralluogo entra in agitazione per capire chi è il referente in procura, l'aggiunto delegato a coordinare le attività investigative sui "mandamenti" mafiosi. Ce ne sono 7 di "aggiunti", tutti hanno il loro territorio, tutti vogliono in esclusiva la notizia criminis.

E subito, prima degli altri. "La stessa informazione sono costretto a girarla in una mattinata anche a cinque magistrati diversi", confessa un ufficiale di polizia giudiziaria che è da molti anni in Sicilia.

La distribuzione di incarichi con la guida del procuratore Messineo si è rivelato uno "spezzatino antimafia" per accontentare tutti. Ne è derivato un disordine organizzativo e investigativo. Con un'aggravante: hanno isolato, messi da parte con la scusa della loro imminente uscita dalla direzione distrettuale per "scadenza", quei sostituti legati a Pietro Grasso come Prestipino e De Lucia che erano i titolari di quasi tutte le inchieste più importanti. Due magistrati con una capacità investigativa - di qualità e, particolare non trascurabile, di quantità - decisamente fuori dal comune.

La vera svolta, dichiarata e sbandierata, rispetto alla procura di Grasso è quella di "alzare il tiro". Un annuncio per rinnegare l'azione palermitana dell'attuale Superprocuratore nazionale, liquidata da alcuni addirittura come la fase più "oscura" della lotta alla mafia. Dall'altra sponda già tremano per la riproposta di vecchi "teoremi". E poi c'è un passato siciliano troppo pesante per poterlo dimenticare. I risentimenti covano sempre. Nel mirino dei sostituti che hanno riconquistato la procura con Messineo c'è - primo fra tutti - Giuseppe Pignatone, al quale si rinfaccia la sua ostilità Giovanni Falcone. È il magistrato che ha coordinato l'indagine sulla cattura di Provenzano e contemporaneamente l'indagine su Cuffaro. In tanti però lo ricordano sempre per quel suo peccato originale, lo considerano un "prudente". Sull'altro fronte si scandalizzano per inchieste ferme da più di un anno, per arresti che risalgono ancora ai "pizzini" di Provenzano o agli sviluppi di una retata del giugno del 2006. Un'apatia investigativa che avrebbe concesso già fin troppo tempo alle "famiglie" per riorganizzarsi.

Nell'antimafia di Palermo è muro contro muro. Un paio di giorni fa Messineo ha steso la bozza di un documento per provare a "pacificare" l'ufficio, l'ha fatta girare per sentire gli umori dei suoi sostituti. Quella bozza, qualcuno, l'ha già definita "indecente". Come era prevedibile, un altro tentativo di riconciliazione è finito ancora prima di diventare in qualche modo ufficiale.

È in questa tormentata procura che fra il gennaio e il giugno del 2008 se ne andranno per legge tutti e 7 gli "aggiunti". Si fanno già i nomi dei nuovi. Uno è quello di Girolamo Alberto Di Pisa, il magistrato accusato di essere il Corvo di Palermo. Fu assolto, naturalmente. Tornerà lui e torneranno altri in procura. Come negli anni prima del pool.

CASO MAURO DE MAURO.

I documenti del ministero dell’Interno che riportano il tentativo da parte del suo direttore di ostacolare le indagini; il «confino» al quale fu destinato quando i vertici del suo giornale lo spostarono inspiegabilmente dalla cronaca allo sport; i diari della figlia che denunciano l’indifferenza della direzione del quotidiano comunista L’Ora dopo la sua scomparsa; il ruolo oscuro, a margine del rapimento, di personaggi vicini al Pci e di avvocati di apparato. Tante ombre, sospetti, tradimenti.

Sull’omicidio di mafia di Mauro De Mauro, cronista de «L’Ora» di Palermo, «icona» della sinistra antimafia militante, vittima il 16 settembre 1970 di «lupara bianca», si addensano oggi nuovi e ingombranti sospetti. Proprio sul comportamento di colleghi, proprietari ed entourage di quel giornale «democratico e antifascista», come lo definiva il suo direttore, Vittorio Nisticò, si sviluppa il bel libro «Mauro De Mauro, la verità scomoda» (Aliberti editore) scritto con coraggio da Francesco Viviano, inviato di Repubblica.

Scavando nelle carte e nelle vecchie raccolte del giornale, Viviano si è imbattuto in una notizia destinata a fare rumore e riaprire le indagini: all’atto del sequestro, poco prima di essere ammazzato, De Mauro fu portato a casa di una persona che conosceva bene. E che molto probabilmente gli chiese conto di cose che solo il cronista conosceva. Chi interrogò De Mauro prima di ucciderlo? Chi fece da «talpa» per il sequestro?

Dopo aver esplorato i possibili moventi del rapimento (a cominciare dal golpe Borghese attraverso un documento inedito rinvenuto da Viviano nel quale De Mauro parlava appunto di «colpo di stato») Viviano si sofferma a lungo sul giornale de «l’Ora» e sulle accuse a «Mister X», il potente avvocato siciliano Vito Guarrasi, fondamentale amico dei comunisti siciliani ed ex consigliere d’amministrazione del quotidiano, che il giudice Rocco Chinnici aveva definito «la testa pensante della mafia in Sicilia». L'inviato di «Repubblica» spulcia ogni indizio, ogni testimonianza che possa dare concretezza a quelle che sono molto più che semplici teorie. «In quei giorni - scrive Viviano - pur sapendo che De Mauro stava lavorando a uno scoop sensazionale, il direttore lo aveva spostato allo sport». Sospetto sempre respinto da Nisticò, che in un articolo vergato tre anni dopo la scomparsa del suo cronista, prima spiega come quella scelta avesse alla base il semplice tentativo di rilanciare la cronaca sportiva, poi però getta ombre sullo stesso De Mauro, sottolineando i suoi rapporti con alcuni democristiani «personaggi-chiave di quel sistema clientelare impastato di mafia e politica (...)». Nello stesso articolo Nisticò si lamenta del fatto che mai nessuno gli ha chiesto nulla sulla personalità di De Mauro.

Da qui i dubbi di Viviano: perché mai il direttore e i colleghi del cronista ucciso si sono lamentati solo dopo anni? Perché, se avevano in mano qualcosa di utile, non si sono mai recati dagli inquirenti? L’autore del libro racconta anche di come il coinvolgimento di Guarrasi nell’«affaire» De Mauro, anche se non giudiziario, porti al deterioramento dei rapporti tra il direttore dell’«Ora» e la famiglia del cronista sparito nel nulla il 16 settembre 1970. Accade il giorno in cui Tullio De Mauro, il linguista fratello di Mauro, riceve una telefonata da un amico che lo mette in guardia proprio su Guarrasi. I De Mauro raccontano tutto ai due poliziotti che stavano seguendo il caso, Boris Giuliano e Bruno Contrada. Nisticò pare non prenderla bene: «Ancora oggi per me restano indefinibili i reali motivi che indussero i De Mauro ad affidarsi pienamente ed esclusivamente alla polizia». Inquietanti le pagine del diario della figlia di De Mauro pubblicati nel libro: «A partire dal terzo giorno del sequestro (...) il giornale aveva cominciato a tenere un contegno tra il prudente e (a parer mio) l’indifferente. Nessuno dell'“Ora”, sebbene casa nostra brulicasse di inviati e corrispondenti, era più venuto da noi; e gli articoli su un fatto tanto clamoroso e che toccava direttamente il giornale di mio padre erano affidati alle giovani leve del quotidiano (...)».

Sulla scena compare poi improvvisamente anche un «inquietante personaggio», come lo definisce Viviano. Si tratta di un commercialista palermitano amico di Guarrasi, che quando ancora nessuno sa del rapimento di De Mauro, telefona a casa sua tentando di indirizzare le indagini su una pista che non avrebbe portato a nulla. Il commercialista finì agli arresti, poi venne rimesso in libertà: gli indizi a suo carico caddero.

INGIUSTIZIA

«Il mio calvario da detenuto innocente». La storia di Giovanni Mercadante: la sua testimonianza su “Il Giornale”.

«La cosa che ti fa impazzire è l’impotenza. Se due, tre delinquenti dicono che sei un mafioso, che sei “creatura” di Provenzano, come fai a difenderti? Sai che sei innocente, lo sai, ma come fai a provare che sei una persona perbene anche se è la tua vita a dimostrarlo, se non hai fatto niente?».

Giovanni Mercadante, 63 anni, ex deputato regionale in Sicilia di Forza Italia, ex primario di Radiologia all’Oncologico «Maurizio Ascoli» di Palermo, quasi non ci crede. Dopo un calvario lungo quasi cinque anni, fatto di due anni e due mesi di carcere e quindi di sepoltura in casa, ai domiciliari, per motivi di salute, la corte d’Appello di Palermo due giorni fa l’ha assolto dall’accusa di mafia.

Onorevole Mercadante, se l’aspettava?

«Ci speravo ma no, non me l’aspettavo. Speravo che qualcuno dei giudici leggesse attentamente le carte e che avesse il coraggio di riconoscere la mia innocenza, di ribaltare la condanna di primo grado a dieci anni e otto mesi. Capivo però che non era facile. E invece è accaduto. Se c’è un giudice terzo ci si può difendere dalle false accuse».

Di cosa la accusavano?

«Nessun fatto concreto, non sono mafioso, non ho mai curato nessun mafioso io. A casa mia si è sempre respirata legalità, il fratello di mio padre era un magistrato, è stato presidente del Tribunale di Palermo. Contro di me c’erano solo accuse de relato di tre pentiti e alcune intercettazioni in cui si parlava di me come persona disponibile. Quelli che parlavano erano un cugino di mia madre e un medico, mio ex collega di corso. Ma non mi hanno mai chiesto nulla, mai raccomandato nessuno. Come potevo sapere che loro avevano rapporti con la mafia?».

La sua vita è stata improvvisamente interrotta.

«È stata una morte ingloriosa, la mia. A luglio del 2006 ero deputato regionale e un medico stimato, dall’oggi al domani mi sono ritrovato in una cella, a leggere accuse che mi facevano rabbrividire. Speravo si chiarisse tutto in sei mesi, invece...»

E invece sono passati 5 anni.

«Era il 10 luglio. Non c’era stato alcun preavviso. Mi hanno preso e portato all’Ucciardone. L’arresto è terribile, ti senti esterrefatto, come se ti cadesse un palazzo sulla testa. E lo sgomento aumenta man mano che leggi le accuse contro di te».

È stato il momento più brutto?

«No. La cosa più traumatica è quando ti buttano nel “canile” dell’Ucciardone. Ore e ore di attesa e poi le foto segnaletiche, le impronte digitali, essere costretto a denudarmi davanti agli agenti per dimostrare di non avere addosso armi... Umiliante, terribilmente umiliante. Capisco come deve essersi sentita la vostra giornalista, Anna Maria Greco».

La vita in cella?

«Non è la cosa peggiore. Per me veramente tremendi erano gli spostamenti dal carcere di Vibo Valentia per partecipare alle udienze. I trasferimenti sul blindato, con le manette ai polsi, chiuso in un gabbiotto 60 per 60... una mortificazione continua, durava almeno dieci ore il viaggio in queste condizioni».

L’episodio più traumatico?

«L’incidente stradale di mio figlio, che entrò in coma. Terribile. Io ero in carcere a Vibo da otto mesi, chiesi il permesso di potergli stare accanto, di curarlo io, da medico...»

Ma la Procura rifiutò...

«Sì, però il giudice mi concesse di stargli vicino per alcuni giorni».

Come ha vissuto la sua famiglia la sua vicenda giudiziaria?

«Sono stati massacrati, tutti, mia moglie e i miei figli. Il più grande è stato costretto a lasciare Palermo per lavorare, mia figlia è ancora qui, il più piccolo adesso studia fuori, e mi auguro che non torni in Sicilia».

La sua salute?

«Ho avuto un ictus e sono in fase di riabilitazione. All’inizio di questa storia ho perso 20 chili, e poi sono dimagrito ancora. Prendevo la 50, come misura di pantaloni, adesso porto la 46. Ho rivisto in tv me cinque anni fa, sono invecchiato in maniera mostruosa».

Adesso che farà?

«Non ho più la mia vita... ero un medico ma ormai sono in pensione, facevo politica ma non intendo tornare a occuparmene, è troppo rischioso fare politica in Sicilia. Mi piacerebbe, quello sì, tornare a fare il medico. Sarebbe una bella rivincita per me e per la mia famiglia».

Il suo processo non è stato tra i più lunghi, ma cinque anni agli arresti da innocente sono troppi.

«Berlusconi deve andare avanti, questa benedetta riforma della giustizia si deve fare. La cosa più urgente è separare le carriere. Non è ammissibile che il Pm che ti accusa poi diventi il giudice terzo che deve giudicarti».

Un sogno da realizzare subito.

«Una passeggiata a piedi con mia moglie, da casa mia alla stazione. Voglio rivedere Palermo. Da uomo libero».

STORIE DI SPRECHI ED ABUSI.

Spese da Faraone del renziano: indagato in Sicilia sui rimborsi. Il nuovo responsabile del Welfare Pd tra gli 83 nell'inchiesta sui 10 milioni di contributi gonfiati in Consiglio regionale, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Si dovrebbe dimettere», «poco stile», «valuteremo». Finora a Matteo Renzi era toccato il ruolo (più comodo) di giudice degli guai altrui, stavolta invece l'indagato ce l'ha in casa, un suo fedelissimo da lui promosso a responsabile «Welfare e scuola» del Pd, il deputato siciliano Davide Faraone. L'accusa, per Faraone e per altri 96 tra ex consiglieri regionali siciliani e funzionari dell'Ars non è lieve: peculato. Quella per intenderci che pende sulla testa di tutti i Fiorito d'Italia, centinaia di consiglieri, in sedici su venti Regioni, sotto indagine per le spese allegre coi soldi destinati ai gruppi consiliari. La Guardia di finanza ha scandagliato scontrini e note spese delle ultime due legislature in Sicilia e poi ha depositato in Procura un'informativa con tutto il faldone. E i magistrati palermitani hanno fatto scattare gli avvisi di garanzia e tredici inviti a comparire per altrettanti ex consiglieri sospettati di aver usato i soldi pubblici per utilità private. Tra questi Faraone, a cui vengono contestate spese per 3.380,60 euro. Una grana comunque per Renzi che aveva menato fendenti al Pd sulla questione Fiorito in Lazio. «Benissimo la Procura: indaghi - scrive in una nota Faraone -. E se c'è qualche ladro deve pagare. Sono certo che emergerà chiaramente se c'è qualcuno che ha rubato e ha utilizzato le risorse per lucro personale». Il materiale non manca. La Gdf ha raccolto documentazione di spese sospette per 10 milioni di euro. Dentro c'è di tutto: cravatte, borse di Louis Vuitton, biancheria intima, gioielli e rimborsi di soggiorni in alberghi di lusso. Coi soldi dei gruppi sarebbero state pagate persino multe prese dai consiglieri, regali a colleghi per la nascita dei figli o per matrimoni. Fino all'assurdo: farsi fare lo scontrino per la mancia di un euro lasciata al bar, per farselo poi rimborsare. Un euro alla volta, per un anno, alla fine fa un bel gruzzolo... «Che cosa ha da dire Matteo Renzi? Perché non parla?» chiede il M5S, che ha già messo nel mirino Faraone. Il deputato siciliano, coetaneo di Renzi, non è di primo pelo in politica. Ha esordito come stato segretario cittadino a Palermo dei Ds, poi per due volte consigliere comunale (sempre con parecchi voti...) e nel 2008 contemporaneamente consigliere regionale (8.036 preferenze), doppio incarico mollato dopo molte insistenze. Prima di approdare alla Camera nel 2013, in quota Renzi. In Aula alla Camera si è azzuffato con il deputato M5S Riccardo Nuti, che lo ha attaccato su una vecchia storia: «Faraone è stato ospite a casa di un mafioso!», «Rinuncia all'immunità e rispondi in Tribunale di queste menzogne» gli ha risposto il renziano. La vicenda è stata riportata sul blog di Grillo, col titolo «Quei bravi ragazzi del team di Renzi». Sintesi: «Il 10 marzo 2008 Faraone si accomoda nel salotto di Agostino Pizzuto, custode dell'arsenale della famiglia del quartiere San Lorenzo-Resuttana. E si parla di voti». Faraone ha minacciato querele, ricordando che «Nuti quando si candidò a sindaco di Palermo scrisse "Riccardo Nuti detto Grillo"... Si legga per intero quelle informative dei carabinieri, visto che i mafiosi dicevano che io ero inaffidabile e buttavano i miei fac-simile. In quella vicenda venne condannato un politico, mentre io non ricevetti neanche un avviso di garanzia». Faraone è stato pizzicato anche da Striscia la notizia, durante le primarie del centrosinistra nel 2012. «Come mostrano le telecamere di Striscia - spiegava un comunicato del programma di Ricci -, una cooperativa di Palermo ha promesso posti di lavoro in cambio del voto per il candidato Davide Faraone. Ai ganci inviati dalla trasmissione, è stato infatti assicurato: "Il lavoro c'è, se sale lui è sicuro"». Anche lì nessuna indagine, e molta serenità dal renziano («Parlavo solo di formazione»), come per l'inchiesta sui fondi. Sempre che non esca qualche scontrino faraonico...

Borse Hermes e Vuitton, cravatte, biancheria intima griffata, gioielli e regali. E ancora soggiorni in alberghi extralusso e auto, scrive Antonio Scolamiero su “Il Corriere della Sera”. La lista delle spese pazze dei deputati dell'Ars è lunga e ricorda quelle dei colleghi dei consiglieri regionali di mezza Italia finiti sotto inchiesta per l'uso illegittimo dei fondi destinati ai Gruppi. A scoperchiare l'ennesimo scandalo della politica sono state le Fiamme Gialle. Nel registro degli indagati, con l'accusa di peculato, sono finiti 83 parlamentari siciliani e 14 consulenti e dipendenti dei Gruppi. Tra gli inquisiti anche il responsabile Welfare della segreteria nazionale del Pd Davide Faraone e l'ex governatore Raffaele Lombardo. «La Procura indaghi, io sono serenissimo. Se c'è qualche ladro deve pagare», ha commentato Faraone. «Benissimo la procura: indaghi. E se c'è qualche ladro deve pagare. Sono certo che emergerà chiaramente se c'è qualcuno che ha rubato e ha utilizzato le risorse per lucro personale», ha dichiarato Davide Faraone, responsabile Welfare del Pd, indagato nell'inchiesta sulle presunte spese folli all'Ars. «Per quel che mi riguarda, non ho ricevuto al momento alcuna comunicazione e sono comunque serenissimo. Anzi, quanto accaduto sarà l'occasione per far conoscere a tutti i modi in cui ognuno di noi utilizza le risorse destinate a fini politici e di rappresentanza», ha assicurato. «Non mi dimetto dalla segreteria. Sono sereno, tranquillo e sono contento che ci sia questa inchiesta. Dovessi essere rinviato a giudizio - dice ancora Faraone - mi dimetto, mi dimetto anche da uomo. Ma non ci si arriverà perché sono sicuro di come ho usato i soldi». Anche il presidente dell'Ars Giovanni Ardizzone, deputato Udc anche nel periodo preso in esame dall'inchiesta,è tra gli indagati. «Apprendo con stupore che anch'io sarei indagato nell'ambito dell'inchiesta della Procura sui gruppi parlamentari. Vengo indagato per la somma di 2.090 euro che mi avrebbe trasferito il Gruppo misto. Se fosse questa la contestazione posso dire con la massima franchezza che si tratta della somma pro quota che mi e' stata data dopo la mia uscita dalla vecchia Udc e la mia adesione al nuovo gruppo. Ho la massima fiducia nella magistratura ma chiedo solo che si faccia presto», ha detto il Presidente dell'Ars Giovanni Ardizzone. «Quattromila euro di rimborso per i portaborse che transitano ai fini della tracciabilità sui conti dei gruppi pro quota sono passati per il gruppo misto - dice Ardizzone - Mi scervellavo per capire dove avrei sbagliato. Io la mattina mi alzo e guardo in faccia i miei figli. Se è questa la contestazione è un fatto contabile automatico.» Gli investigatori hanno analizzato i conti della scorsa legislatura e di quella precedente, quando i Gruppi non dovevano rendicontare le cosiddette spese di segreteria. In due anni di un'inchiesta conoscitiva avviata dalla Procura dopo il caso Fiorito, la Finanza ha passato al setaccio migliaia di fatture, scontrini e documenti che avrebbero consentito a decine di deputati regionali di intascare circa 10 milioni di euro di rimborsi, secondo gli inquirenti, non dovuti. A 13 deputati, tutti capigruppo, sono stati notificati inviti a comparire: nei prossimi giorni verranno sentiti dai pm Innocenzo Leontini, Rudy Maira, Cataldo Fiorenza, Giulia Adamo, Nunzio Cappadona, Antonello Cracolici, Francesco Musotto, Nicola Leanza, Nicola D'Agostino, Giambattista Bufardeci, Marianna Caronia, Paolo Ruggirello, Livio Marrocco. Molto più lunga la lista degli indagati in cui compaiono anche l'ex presidente dell'Ars Francesco Cascio e il segretario regionale del Partito Democratico Giuseppe Lupo. La notizia della maxi inchiesta ha «sorpreso» i parlamentari impegnati nella maratona che dovrebbe portare all'approvazione della legge di stabilità. A dare ufficialmente corpo a una voce che rimbalzava da ore tra le colonne di Palazzo dei Normanni è stato il deputato del Pd Antonello Cracolici, che ha preso la parola in Aula per comunicare di avere ricevuto un avviso di garanzia. Tra le spese contestate dalla Procura all'ex capogruppo del Partito democratico ci sarebbero anche l'acquisto di cialde per il caffè, bottiglie di acqua minerale e i soldi per la pubblicazione di necrologi. Dall'inchiesta è venuto fuori che alcuni parlamentari avrebbero chiesto il rimborso di multe e delle mance di un euro date al bar che avrebbero rendicontato con tanto di scontrino. Spese di segreteria, secondo i deputati e una prassi seguita fino all'anno scorso. Spese personali secondo le Fiamme Gialle. «Apprezziamo il gesto e la sensibilità di Antonello Cracolici che, appena ricevuta una comunicazione formale dagli inquirenti in merito all'indagine sull'Ars, ha sentito il bisogno di comunicarlo prima al gruppo Pd e subito dopo al Parlamento», ha detto il segretario regionale del Pd Giuseppe Lupo, pure lui indagato. «Il passato ci insegue, ma ora si deve fare presto e approvare la Finanziaria», il lapidario commento del governatore siciliano Rosario Crocetta. «Ancora una volta l'onorabilità e l'integrità delle istituzioni sono rimesse nelle mani della magistratura. Non conosciamo, se non per via di fonti giornalistiche, le accuse avanzate nei confronti dei politici indagati. E' evidente, comunque, come rappresentato a più riprese nel corso di questa legislatura, la necessità di un intervento legislativo deciso per mettere fine al malcostume nelle gestione dei soldi dei cittadini», si legge in una nota del Movimento 5 Stelle.

AL COMUNE

Su Striscia La Notizia del 9 dicembre 2010 Stefania Petix denunciava il fenomeno delle fantamulte, ossia delle multe cestinate. Il servizio ha dimostrato con atti alla mano che a Palermo le multe non le pagano tutti. Si è parlato dell’annullamento di multe che riguardano i dirigenti dei Vigili Urbani o loro parenti, mogli, figli. Nel servizio vi era la confessione di un agente. Si parla di manomissione e sparizione di verbali, ovvero multe finite nella spazzatura, o ricorsi trattati direttamente dai vertici del comando, fuori prassi, riservati e secretati. La credibilità dei vigili è stata minata, anche, per delle multe emesse per auto in sosta presso la questura di Palermo. Multe annullate in quanto auto di PS, ossia di polizia di Stato, invece dalle verifiche risultano auto private o in locazione. In un paese normale ciò configura falso, truffa e abuso d’ufficio, ma tant’è in Italia nulla c’è di normale.

IL GRANDE BUCO DEI CONTI DI PALERMO

il caso. Per ogni seduta incassano 156 euro lordi, i loro colleghi di Padova 45. Consiglieri assunti (ma assenti). Dal Comune stipendi e gettoni.

Palermo spende tre milioni di euro l'anno, un terzo per rimborsare le aziende. Assumereste qualcuno sapendo che resterà assente 26 giorni al mese? Eppure c'è chi lo fa. A Palermo. Purché il fortunato, si capisce, sieda nel Consiglio comunale: sarà il municipio, infatti, a pagare tutte le assenze. Più i gettoni di presenza, ovvio. Per un totale, tenetevi forte, di tre milioni l'anno. Una somma pazzesca. Da aggiungere a quella non meno folle (altri 2 milioni e mezzo) per i consiglieri delle circoscrizioni. Le quali hanno 750 dipendenti e costano all'indebitatissimo Comune quasi 20 milioni l'anno. Per capirci: sei volte più di quanto è stato complessivamente distribuito con l'8 per mille nel 2008 alle 808 associazioni di volontariato italiane che tappano tutti i buchi dello Stato sociale.

La denuncia è del Giornale di Sicilia. Che con una dettagliatissima inchiesta di Giancarlo Macaluso dimostra con chiarezza accecante che tutte le autocritiche, tutti i buoni propositi, tutte le promesse, tutti i solenni giuramenti intorno ai tagli dei costi della politica erano aria fritta. Bla bla bla. Soprattutto in certe realtà del Mezzogiorno. Come appunto Palermo. Città a larga maggioranza berlusconiana dove però l'impegno berlusconiano a governare «col buonsenso del buon padre di famiglia», come sa lo stesso Cavaliere costretto a tappare le spaventose voragini nel bilancio delle municipalizzate (si pensi all'Amia, la società che si occupa della catastrofica nettezza urbana, salvata l'anno scorso col regalo di 80 milioni di euro nel decreto «milleproroghe »), viene quotidianamente disatteso. Ma andiamo con ordine. Partendo dai gettoni ai consiglieri comunali.

Ogni eletto alla Sala delle Lapidi incassa 156 euro lordi a seduta per un massimo di 21 sedute al mese: totale 3.276 euro. Direte: teoriche, mica si possono riunire (tolti i sabati e le domeniche) quasi tutti i giorni! E invece sì: oggi un consiglio, domani una commissione, dopodomani una missione... Eppure, come spiega il cronista, paradossalmente «il problema non è tanto il costo, quanto la scarsissima produttività di un'Aula che per mesi è rimasta paralizzata». Totale dei gettoni pagati in un anno stando all’ultimo bilancio: 2.024.000 euro.

Volete un paio di paragoni? A Torino, città assai più grande, il gettone di presenza (e il limite massimo scende a 19 sedute) cala a 120 euro. A Padova precipita a 45 euro e 90 centesimi (meno di un terzo), le sedute del consiglio in tutto il 2009 sono state 24 e il costo complessivo, commissioni comprese, è stato di 72.383 euro. Un ventottesimo rispetto al capoluogo siciliano. C’è chi dirà: ma lì la città è più grande! Facciamo un rapporto col numero di abitanti: quei gettoni ai consiglieri sono costati nel 2009 a ogni cittadino padovano 34 centesimi. A ogni palermitano 3 euro e passa. Nove volte di più. Senza contare le spese esorbitanti dei rimborsi.

Stando alle regole, palazzo delle Aquile alle aziende danneggiate da dipendenti che si assentano dal lavoro perché impegnati con le attività municipali (sommando le due retribuzioni) risarcisce non solo lo stipendio, ma anche gli oneri previdenziali. E parliamo di cifre grosse. Spiega Macaluso che mediamente ogni consigliere «gode dei permessi per le attività in commissione, le missioni, le sedute d'aula e altri impegni istituzionali» per «26 giorni al mese. Praticamente tutto l'anno».

Va da sé, come dicevamo, che all’idea di assumere qualcuno sapendo che marcherà visita 26 giorni al mese ogni imprenditore risponderebbe: non sono mica un baccalà. Bene: Palermo sembrerebbe piena di baccalà. Che hanno preso in azienda dipendenti, di un po' tutti i partiti, destra e sinistra, «dopo» la loro elezione a palazzo delle Aquile. Alcuni casi? Ninni Terminelli «risulta assunto a tempo indeterminato alla Asem dal primo giugno del 2009 come "addetto alla esecuzione di progetti". E per i primi sei mesi di (non) lavoro il Comune ha rimborsato alla società 18 mila 322 euro e 13 centesimi, media mensile lorda di 2.600 euro». Ivan Trapani, impiegato alla Fenapi (Federazione nazionale autonomi piccoli imprenditori) «nel 2009 è costato alla casse del Comune 1.522 euro al mese». Vincenzo Tanania, assunto come «dirigente full time» dalla società cooperativa a responsabilità limitata «Kappaelle Comunicazioni & Eventi» nel marzo del 2010, è costato «il primo mese 4.832 euro, a maggio 4.058 e a giugno 5.314». Stefania Munafò, impiegata alla coop «Cosev arl», una media mensile di 2.054.

Andiamo avanti? Per le assenze da gennaio a dicembre del 2009 di Giuseppe Milazzo, il Comune ha rimborsato all’Amia 22.520 euro. Per quelle di Fabrizio Ferrandelli, alla Banca Popolare Sant’Angelo, 34 mila. Per quelle di Rosario Filoramo alla Uisp (Unione italiana sport per tutti) 51.774. Totale annuale dei rimborsi alle aziende che hanno la sventura di avere a busta paga un consigliere comunale: 950 mila euro. Quanto basta perché il cronista del quotidiano palermitano, con un pizzico di malizia dovuta alla scoperta in questi anni di troppi scandali e troppi furbetti, suggerisca ironico: «A volere dare un consiglio un po' truffaldino, vi suggeriamo un trucco nel caso in cui non abbiate un lavoro e siate diventati consiglieri. Rivolgetevi a un imprenditore amico o a una cooperativa e fatevi assumere». Non che sia stato accertato «che la pratica sia in uso a Palermo», precisa. Però...

Quanto ai consigli circoscrizionali, sono otto e hanno 750 dipendenti (dei quali 41 funzionari e 109 istruttori) che si aggiungono a tutti gli altri «comunali». I quali sono, comprese le municipalizzate (siete seduti? tenetevi forte) un esercito di circa 21 mila persone. Costo degli addetti alle sole circoscrizioni: 19 milioni e mezzo di euro. Una cifra spropositata. Alla quale va aggiunto il costo dei 120 consiglieri e degli otto presidenti. Citiamo l'inchiesta parola per parola: «In gettoni di presenza se ne va un milione e 710 mila euro (cifra inserita nel Peg anche per il 2011 e il 2012). Ciascun consigliere, infatti, percepisce 96 euro lordi a seduta» (contro i 60 dei «pari grado» torinesi, il doppio dei «comunali» padovani) «per un massimo del 50% dell'indennità che spetta al loro presidente, poco meno di 2.500 euro. Per cui al lordo ciascuno di essi percepisce 1.222 euro, al netto della ritenuta del 23% siamo a un netto di 950 euro al mese naturalmente maturati per intero. Figurarsi se c’è una circoscrizione che almeno non convochi tredici consigli al mese...».

Per non dire «degli oneri aggiuntivi che, come nel caso dei consiglieri comunali (ma in dimensioni più ridotte), si riferiscono ai rimborsi da effettuare alle aziende private per le assenze dal servizio del dipendente che sia anche consigliere di circoscrizione ». Un solo esempio? «Mariano D’Angelo, vicepresidente della terza circoscrizione, 7.971 euro di rimborsi all’Enel per le assenze dal servizio da aprile a giugno del 2008, altri 6.926 da ottobre a dicembre dello stesso anno e ancora 10 mila da ottobre a dicembre 2009...». Totale dei rimborsi a lui e agli altri: 850 mila euro. Dodici volte quel che costa l’intero consiglio comunale padovano. E meno male che avevano promesso di tagliare...

Il 72 per cento del bilancio va via in stipendi ai dipendenti, uno ogni 30 abitanti.

Chi deve occuparsi delle piante comunali? Dipende, a Palermo: fino a 249 centimetri di altezza tocca ai giardinieri della Gesip, dai 250 in su a quelli del settore ville e giardini. Non si sgarra, sui centimetri. E a chi toccherà tappare l'enorme buco nei conti municipali che richiederebbe una toppa immediata di almeno 200 milioni di euro? La risposta è assai più complessa. E rischia di aprire nella destra italiana una frattura dagli esiti imprevedibili. Certo, il sindaco azzurro Diego Cammarata dispensa sorrisoni.

E anche se la Corte dei Conti gli ha appena chiesto chiarimenti su un mucchio di cose, dai 26 milioni di debiti fuori bilancio nel 2007 all'abnorme versamento di 247 milioni alle società partecipate fino ai dati allucinanti delle riscossioni delle multe stradali al 23%, ha spiegato al Giornale di Sicilia di avere già messo le mani avanti. «Entro un paio di settimane al massimo risolveremo la questione», ha assicurato: «Il Comune ha i conti a posto e un bilancio sano ma se poi non siamo in grado di riparare il tetto di una scuola o una strada dissestata che senso ha? Il governo deve farsi carico di un problema che non è solo del sindaco. Il precariato è stato un colpo al cuore di questa città perpetrato in anni precedenti all'insediamento di questa amministrazione e ne paghiamo le conseguenze anche in termini finanziari».

In soldoni? Presto detto: su 866 milioni l'anno di spese correnti, il Municipio di Palermo ne scuce 623 (il 72%) per pagare 21.895 dipendenti. Ottomila più di dieci anni fa. Un po' diretti, un po' precari stabilizzati nelle aziende partecipate. Media: un dipendente comunale ogni 30 abitanti. Un carico insostenibile. E ogni giorno più gravoso. Basti dire che alla catastrofica azienda della nettezza urbana, quell'Amia appena salvata dal governo Berlusconi col regalo di 80 milioni di euro nel decreto «milleproroghe» che ha tolto il sonno a tanti sindaci leghisti, c'era fino a poco fa un accordo: un padre poteva lasciare il posto di lavoro al figlio. Col risultato, accusa Maurizio Pellegrino, un consigliere dell'opposizione autore di un esposto micidiale alla Corte dei Conti, «che nel 2008, nonostante il bilancio disastroso e il forte esubero di personale, sono state fatte oltre 400 assunzioni. E che prima d'andarsene, a dicembre, il vecchio Cda ha assorbito altri 80 lavoratori di una ditta privata». Indispensabili? Risponde una tabella che confronta i dati della nettezza urbana di Palermo, Genova e Torino: con la metà degli abitanti, il capoluogo siciliano ha circa mezzo migliaio di dipendenti in più di quello piemontese. Uno ogni 259 abitanti sotto il monte Pellegrino, uno ogni 577 sotto la Mole Antonelliana. Totale dei rifiuti raccolti in un anno per dipendente: 164 tonnellate a Palermo, 220 a Genova, 491 a Torino.

Per non dire della raccolta differenziata: 21 chili l'anno per abitante a Palermo, 74 a Genova, 236 a Torino. Fatto sta che, nonostante trabocchi di addetti (uno spazzino ogni due chilometri di strada da pulire: primato planetario), l'azienda si muove come non bastassero mai. Ed ecco gli appalti esterni per la pulizia dei propri locali, gli appalti esterni per pulizia degli automezzi, gli appalti esterni per la pulizia dei cassonetti. Girano storie leggendarie, sull'Amia. Una è di pochi mesi fa: i poliziotti fanno visita a un sorvegliato speciale, vengono informati che l'uomo «non è a casa perché è al lavoro, all'Amia», si spostano là dove dovrebbe stare e non solo non trovano lui ma scoprono che su 37 dipendenti in quel settore quelli presenti sono 2. E gli altri 35? Boh... Sugli amministratori della società c'è un'inchiesta aperta. In pratica, stando alle accuse, avevano costituito aziende satelliti alle quali vendevano partecipazioni virtuali, per un totale di circa 50 milioni di euro, facendo così risultare in attivo i conti della capogruppo. Cosa che consentiva loro, tra l'altro, di auto-riconoscersi un premio di produttività.

La procura, per andare avanti, avrebbe fatto sapere che il sindaco dovrebbe presentare querela impedendo così la prescrizione. Risposta: stiamo esaminando la questione. Che la faccenda imbarazzi è ovvio: come ha fatto il Municipio, per anni, ad approvare come azionista unico il bilancio delle partecipate senza inserire nel bilancio proprio il debito corrispondente? Com'è noto, quel mucchio di soldi dati per evitare il crac dell'Amia, soldi che Cammarata vorrebbe fossero solo un antipasto d'un più sostanzioso aiuto di duecento milioni, hanno fatto venire il mal di pancia a molti, nella destra. La quale, proprio adesso che la sinistra è in pezzi dopo le sconfitte a ripetizione, rischia sulla questione Nord-Sud di andare alla rissa intestina. «II governo voleva premiare i virtuosi punendo i lazzaroni, invece sta andando in direzione opposta», si è sfogato con Libero il sindaco di Varese, Attilio Fontana. «Il Comune di Palermo dovrebbe essere immediatamente commissariato. Già quello di Catania non era un bell'esempio, ma questo è più grave: Cammarata guida il Comune da più di sette anni, quindi non ha la scusante d'essersi ritrovato buchi di bilancio delle amministrazioni precedenti», ha insistito col Corriere del Veneto il suo collega veronese Flavio Tosi.

Eppure quello dell'Amia, presieduta fino a poco tempo fa dal segretario cittadino di Forza Italia e oggi senatore del Pdl Enzo Galioto e bollata dal Sole 24 ore come «un covo d'interessi clientelari», è solo una parte del disastro amministrativo palermitano. Sprofonda la società dei trasporti urbani Amat, che ha visto i passeggeri crollare da 24 a 19 milioni, che copre con gli incassi dei biglietti poco più del 18% delle spese, che su 598 autobus in dotazione è arrivata a utilizzarne in realtà solo 235 con gli altri guasti nelle rimesse, che un anno e mezzo fa arrivò ad assumere (alla vigilia delle elezioni) 110 autisti d'autobus tutti 110 senza la patente per l'autobus. Sprofonda la Gesip, che si occupa di un sacco di cose, dai disabili ai giardini, e di cui Antonio Fraschilla ha raccontato, sulle pagine locali di Repubblica, storie surreali. Come appunto le tignose precisazioni contrattuali sulla competenza della cura degli alberi più alti o più bassi di due metri e mezzo o sulla irrigazione «affidata alla Gesip, ma solo se nei terreni ci sono impianti automatici, in caso contrario intervengono i giardinieri comunali» o sull'erba che «se cresce dentro un'aiuola sotto un albero deve pulirla l'operaio Gesip, ma se cresce qualche centimetro più in là, sul marciapiede, allora la pulizia diventa compito dell'Amia Essemme». Col risultato finale che per tenere in ordine una quota di verde urbano simile, poco più di duemila ettari, Torino spende 12 milioni di euro e Palermo (385 mila euro a ettaro l'anno) addirittura 27.

Potrà il federalismo, se passerà davvero («Ho passato la cinquantina e non credo che lo vedrò mai», si è sfogato Giancarlo Galan) mettere ordine in questo caos? Eccolo, il dubbio che turba, nel profondo Nord, la destra trionfante. Anche perché Dio sa quanto sarebbe necessaria, di questi tempi, una svolta virtuosa. Diranno: ma le cose vanno già meglio. Mica tanto: basti dire che, col bisogno che ha di denaro, Palermo incassa oggi dai suoi cittadini ancora meno di ieri. Sapete in quanti pagavano la Tarsu tre anni fa? Il 32%. E oggi? Due punti in meno: poco più del 29. Per non dire dei soldi incassati con la Tosap per l'occupazione temporanea di suolo pubblico: 16,2% del dovuto. O con l'imposta comunale sulla pubblicità: 10,9%. Non sarà davvero facile davanti a questi numeri, per Giulio Tremonti, accontentare insieme tutti gli alleati, da Vipiteno a Capo Passero. Magari il problema fosse solo la sinistra...

PALERMO: ASSUNTI 110 AUTISTI SENZA PATENTE

Destinati alla municipalizzata dei trasporti: non hanno mai fatto l'esame per guidare i mezzi pubblici.

Domandina facile facile: cosa deve avere un autista? La patente, direte voi. Esatto. Ma non a Palermo. Non sotto elezioni. L'assessore al personale ha fatto assumere infatti all'azienda dei trasporti 110 conducenti. Tutti e 110 ignari di come si debba guidare un autobus. «Impareranno», ha risposto a chi si scandalizzava: «Questione di pochi mesi». Giusto il tempo di incassare il voto riconoscente dei beneficiati alle prossime «comunali». E se poi non imparano a guidare? Boh...

Il protagonista della storia si chiama Alberto Campagna, ha 53 anni, un diploma di perito industriale, i capelli radi tirati all'indietro e un paio di baffi alla Pasqualino Settebellezze. Ricordate quando Silvio Berlusconi scese in campo dicendo che Forza Italia era una «nave di sognatori» carica di «uomini nuovi alla politica» e «campioni nelle proprie professioni» e decisi a «sradicare il clientelismo»? Ecco, lui gestisce quel sogno a modo suo. Consigliere comunale azzurro dal 1997, ha ottenuto dal sindaco Diego Cammarata un mucchio di deleghe: «Risorse umane, Servizi demografici, Postazioni anagrafiche, Rapporti col consiglio comunale, Attività Socialmente Utili e Risorse non Contrattualizzate». Traduzione: è assessore al personale assunto e a quello da assumere. Possibilmente accontentando innanzitutto gli amici e gli amici degli amici.

La prima ad essergli riconoscente, in verità, è stata la moglie. Si chiama Cinzia Ficarra, è stata assunta negli uffici dell'ex «Municipalgas» e ha visto il suo nome al centro delle prime polemiche intorno al marito e ai suoi sistemi di gestire le antiche municipalizzate piuttosto lontani dallo «sradicamento del clientelismo». Era il settembre dell'anno scorso e dopo un lungo braccio di ferro il consigliere comunale diessino Davide Faraone aveva ottenuto finalmente l'elenco di centinaia di persone assunte all'Amg (gas), all'Amat (trasporti urbani), Amap (acqua), alla Sispi (sistemi informatici), Amia (servizi di igiene e rifiuti). Si capì allora perché quell'elenco fosse stato tenuto segreto per mesi e mesi con una motivazione ridicola («c'è la privacy...») rimossa solo da un intervento dell'authority che aveva spiegato come fosse assurdo invocare la segretezza in una materia come quella.

La lista degli assunti, arruolati nelle ex municipalizzate per chiamata diretta e senza concorso, era infatti zeppa di amici politici, candidati trombati da risarcire con uno stipendio pubblico, segretari e funzionari di partito da sistemare. E poi mogli (quella di Campagna), figli (come Giuseppe e Tania Tito, rampolli di quello che allora era il presidente dell'Authority sulle aziende municipali per poi diventare addirittura il «difensore civico» comunale nonostante la legge escludesse chi era stato come lui candidato alle elezioni!) e sorelle, cognati, nuore, generi, cugini... Una schifezza. Che infangò soprattutto i partiti della Casa delle Libertà, da Alleanza Nazionale all'Udc, ma che lasciò qualche schizzo di fango anche sulla sinistra per il sorprendente inserimento, tra i raccomandati che avevano trovato una sistemazione, di Tiberio, il figlio di Francesco Cantafia, già segretario della Camera del lavoro e poi deputato regionale della Quercia. E che costrinse la magistratura, seppellita sotto una catasta di lettere e di esposti, ad aprire un'inchiesta. Insomma: che qualcuno approfittasse in modo indecente della libertà concessa alle nuove SpA municipali di potersi muovere sul fronte delle assunzioni senza quel minimo di rigidità (concorsi, documenti, graduatorie...) imposto dalla legge agli enti pubblici, era già chiaro da un pezzo. Né i siciliani si facevano illusioni su una svolta liberale, pulita, meritocratica.

Tutto già visto. Troppe volte. Basti ricordare le recenti, incredibili, assunzioni al 118 di autisti delle ambulanze del tutto ignari delle strade e di portantini così inesperti, sciatti e incapaci da rovesciare i malati dalle barelle o peggio ancora decisi a presentare subito dopo l'assunzione certificati medici attestanti che come portantini non potevano portare nulla perché affetti da questa o quella invalidità. Una storia come quella accaduta all'Amat e raccontata ieri sulle pagine locali da «Repubblica», però, non si era mai vista neppure in Sicilia, dove una settantina di Lsu sono stati assunti un anno fa per «contare i tombini e le caditoie, cioè le feritoie nei marciapiedi che permettono il deflusso delle acque piovane» e dove Totò Cuffaro si fa vanto nella biografia ufficiale curata da Francesco Foresta di avere stabilizzato (cioè assunto definitivamente) 55 mila precari.

A metà febbraio, con una lettera ufficiale ai vertici di Palazzo delle Aquile, cioè del Comune, il presidente della società dei trasporti Sergio Rodi aveva segnalato l'urgenza di tappare i buchi lasciati negli organici dal pensionamento di oltre un centinaio di autisti. Buchi che impedivano all'azienda di svolgere la sua funzione. Va da sé che in qualunque altro posto al mondo avrebbero fatto un bando: «A.A.A. Azienda comunale trasporti cerca 110 autisti, indispensabile la patente D». In qualunque posto, ma non a Palermo alla vigilia delle elezioni comunali che vedranno lo scontro tra Diego Cammarata e il suo predecessore Leoluca Orlando. E così la giunta comunale ha deliberato l'assunzione di 110 precari dei quali non uno, neanche per sbaglio, ha la patente D (la più difficile da ottenere) richiesta per guidare i pullman pubblici. Di più: ha scritto nero su bianco che «nel periodo di addestramento e dunque nella fase antecedente il conseguimento della patente di guida richiesta, i lavoratori selezionati saranno utilizzati come lsu presso l'Amat». E se qualcuno non ce la facesse a passare l'esame o non avesse alcuna voglia di mettersi al volante? Amen, ha risposto Alberto Campagna: «Perché dovremmo assumere nuovo personale quando abbiamo ancora gli lsu da stabilizzare? Abbiamo fatto una promessa a questi lavoratori precari: abbiamo assicurato loro che sarebbero stati assunti. Dobbiamo rispettare la parola data». E meno male che non c'erano da assumere ingegneri chimici, urbanisti o chirurghi: l'attesa che si laureassero sarebbe stata più lunga...

MAFIA ED ISTITUZIONI: Così da Il Corriere della Sera del 25 maggio 2011.

Licenze per sale gioco in cambio di escort, Ingroia: «Così la mafia ricicla denaro»

Sugli arresti interviene anche il senatore Vizzini:«Inquietante l'intrigo tra funzionari statali e mafia»

PALERMO - Molte le reazioni «a caldo» negli ambienti istituzionali sull'operazione della Dia che ha portato all'arresto di 10 persone, tra cui il Cavaliere della Repubblica Maria Franca Simula e l'ex direttore dei Monopoli siciliani Andreozzi, nell'ambito della scoperta del giro di corruzione di funzionari dei Monopoli di Stato che avrebbero consentito a prestanomi della mafia di ottenere le concessioni per l’apertura di centri scommesse.

INGROIA - Per il procuratore aggiunto Antonio Ingroia «la nuova mafia è una mafia degli affari e cerca settori attraverso i quali riciclare il denaro illecito: i giochi e il bingo si prestano a questo obiettivo e hanno un potenziale, da questo punto di vista, molto elevato». Ingroia e il procuratore di Palermo Francesco Messineo hanno puntato il dito contro «la scarsa capacità dell’amministrazione di esercitare controlli al suo interno che impedirebbero formazioni di aggregazioni illecite».

VIZZINI - «Che il mondo delle scommesse e delle sale da gioco fosse ambito obiettivo per la mafia era pensabile ed in parte noto, ma l’intrigo tra funzionari dello Stato, operatori economici e mafia, scoperto dall’ottimo lavoro della Dda e della Dia di Palermo, va oltre e mostra lo spaccato inquietante della mafia degli affari», commenta il senatore Carlo Vizzini, presidente della Commissione affari costituzionali del Senato. «Qui la mafia», conclude, «non si limita al pizzo, ma si fa impresa e s’infiltra nell’amministrazione pubblica. La forza dello Stato, però, arriva ed anche in questo caso le ricchezze illecite saranno sequestrate, dunque mafiosi poveri ed in galera».

ALLA REGIONE. PARENTOPOLI REGIONALE

Repubblica ha pubblicato un articolo, in cui viene dettagliata la mappa di parentopoli, ovvero un bel pò di gente sistemata dal parente di turno che siede in uno dei posti di comando in Sicilia.

E' anche peggio di quando Totò spartiva il bottino fra i suoi clienti. Duecento euro a chi allevava una capra "girgentana" (agrigentina) e 500 a chi accudiva in giardino un asino pantesco (di Pantelleria), un contributo "per la lotta mondiale contro l'inquinamento" a chi viaggiava in nave, 12 euro per ogni chilo di manna tirata giù dall'albero. L'ultimo assalto alla Regione è più sfacciato. Ci sono di mezzo i parenti.

Tanti. E' così che don Raffaele sta già oscurando la fama del suo predecessore sopraffatto da una velenosa guantiera di cannoli.

E' un arrembaggio. Più fratelli e cugini e più figli. E più nipoti e più compari. Non c'è più soltanto Palermo (dove Cuffaro ha il suo quartiere generale) ma c'è anche Catania (dove il boss dei boss è Lombardo) e - chissà come - in Sicilia ci saranno pure più soldi. Quelle che tecnicamente vengono definite le "risorse della nuova programmazione" sono in sostanza 6 miliardi e mezzo di euro che pioveranno sull'isola da qui alla primavera del 2013. Alla Regione si preparano a un altro grande banchetto. Con un condottiero che pubblicamente promette rigore e regole ma poi fa sempre finta di niente.

A parole annuncia rivoluzioni nella spaventosa macchina burocratica e intanto lascia i soliti noti ai loro posti, giura di ridurre da 26 a 12 le società regionali e invece non taglia mai nulla, in nome della trasparenza sceglie come assessori due noti magistrati e poi però il suo governo scivola ancora nella vergogna dei familiari più intimi assunti per chiamata diretta. Alla muta muta - zitto zitto come si dice in Sicilia - Raffaele Lombardo è in corsa per battere tutti i record nella Sicilia delle abbuffate.

Nella Regione che per la sua Sanità spende 8,5 miliardi di euro (il 30% in più della Finlandia, ha fatto notare a luglio la Corte dei Conti) tutto è come prima e più sconcio di prima. A pochi mesi dalla sua incoronazione il nuovo governatore sembra stia diventando un altro Cuffaro più smoderato di Cuffaro. Lo scandalo è diventato scandalo con Giuliana, la figlia di Giovanni Ilarda, il giudice che don Raffaele ha messo all'assessorato al Personale. Ma la lista di quei cognomi eccellenti assunti in Regione è infinita. Quelli che hanno una parentela molto stretta e gli altri, cognati, nuore, ex autisti, ex deputati "trombati".

Si comincia con Piero Cammarata, primogenito di Diego, sindaco di Palermo, e si finisce con una Misuraca (parlamentare di Forza Italia) e uno Scoma (assessore di Lombardo), con un Davola (ex autista di Gianfranco Micciché) e con un Mineo (figlio di un deputato regionale). Quasi tutti sono negli staff degli assessori. Come Rosanna Schifani, sorella di Renato, presidente del Senato della Repubblica. Era già dipendente della Regione, assunta per concorso nel '91, poi è stata "chiamata" dall'assessore alla Famiglia Francesco Scoma. O come Viviana Buscaglia, cugina del ministro di Grazia e Giustizia Angelino Alfano. La signora, un'"esterna", è nello staff dell'assessore all'Agricoltura Giovanni La Via. L'elenco di chi si piazza lì dentro con un cognome che conta mese dopo mese è sempre lungo.

Ogni assessore può avere 25 collaboratori fra segreteria particolare e segreteria tecnica, un terzo di loro arriva da fuori l'amministrazione. Così fan tutti. Pagando ciascuno degli 8 prescelti come dirigente 41.807 euro lordi più un'indennità di 7.747 euro e un'altra di 23.500. Come minimo, i fortunati che entrano in uno staff, portano a casa 70 mila euro. Gli uffici di gabinetto si trasformano in vere e proprie segreterie politiche.

Come quella dell'assessore ai Beni Culturali Antonello Antinoro dell'Udc. Ha chiamato vicino a sé: Giovanni Antinoro (non parente) che era l'autista di Cuffaro; Domenico Di Carlo, segretario del braccio destro di Cuffaro, Saverio Romano; Vito Raso, amico di Cuffaro; Gianni Borrelli, ex candidato Udc amico di Cuffaro e dello stesso assessore Antinoro. Lo chiamano staff ma è una tribù.

Rispetto a tutti gli altri 21 mila dipendenti regionali quelli degli staff non firmano il cartellino, hanno un rapporto solo con il loro capo - l'assessore - e tanto per gradire per gli interni un'altra indennità annua dai 7 ai 15 mila euro.

E se nei "felicissimi" di Totò Cuffaro sembrava che non ci fossero limiti al limite, l'esordio come governatore di don Raffaele è stato segnato da nuovi aumenti per 72 onorevoli su 90. Il parlamento ha voluto altre tre commissioni, altri "gettoni", altri incarichi e gratifiche da aggiungere ai 19 mila euro lordi di stipendio per ogni parlamentare. Totale delle spese in più per le tre nuove commissioni: 200 mila euro. Nelle stesse settimane del bonus per gli onorevoli, tutti i dirigenti dei vari assessorati sono stati valutati e promossi. Il minimo in "pagella" era un punteggio di 70, tutti sono andati oltre il 90. Dai 3 ai 15 mila euro in più per ogni burocrate.

"Il mio governo è già impegnato a tagliare gli sprechi", aveva solennemente giurato don Raffaele nel giorno del suo insediamento.

Numeri e nomi raccontano come sono andate le cose. A giugno il governatore aveva proclamato che avrebbe finalmente messo mano alle 25 società collegate alla Regione, 3.546 precari poi stabilizzati e in pratica tutti amici di amici, un bel po' di altri parenti di eccellenti siciliani, tutti entrati senza concorso. A luglio e a settembre ha ripetuto il proclama. Le 25 società sono sempre lì, una dependance della Regione Sicilia che conta quasi gli stessi impiegati che ha la Regione Lombardia.

Sulla carta si occupano di tutto. Trasporti. Informatizzazione. Patrimonio artistico. Qualche mese fa una società ha pubblicato un avviso per comunicare l'assunzione da parte di un'altra società di 38 ingegneri. Il nome dell'altra società è stato tenuto segreto "per motivi di privacy". Poi si è scoperto che era la Sicilia e-innovazione, una struttura che gestisce almeno 300 milioni di fondi europei e statali. Ma Lombardo non prende decisioni. Parla, parla ma non si mette mai contro nessuno. Immobile come una statua, assiste alle scorrerie nel gorgo di Palermo.

CONCORSI TRUCCATI

ACCADEMICI

LA PARENTOPOLI DELL’UNIVERSITA’  di Attilio Bolzoni.

Una Cupola dotta si spartisce il sapere di Palermo. Sono cento le famiglie che hanno l'Università nelle loro mani, cento clan accademici fatti di figli che salgono in cattedra per diritto ereditario, fratelli e sorelle che succedono inevitabilmente ai loro padri e ai loro zii, nipoti e cugini immancabilmente primi al pubblico concorso. Regnano in ogni facoltà. Si riproducono nell'omertà. Docenti parenti. Cinquantotto a Medicina. Ventuno a Giurisprudenza. Ventitré su appena centoventinove professori ad Agraria, la roccaforte dei patti di sangue.

Se l'Ateneo di Bari è diventato famoso in Italia per la compravendita di esami e per i test superati in cambio di sesso, quello di Palermo ha un primato assoluto che spiega come i "soliti noti" spadroneggino in ogni disciplina. Ordinari, associati, ricercatori: tutti legati uno all'altro da un intreccio parentale. In totale sono almeno 230. Cento famiglie.

Un altro record solo apparentemente innocuo di questa Università è per esempio il luogo di nascita dei suoi docenti: il 54,7 per cento sono palermitani. Più della metà sono di qui e due su tre vengono dalla provincia. Soltanto Napoli eguaglia la capitale della Sicilia in questa performance. Ma il numero che svela fino in fondo la Palermo cattedratica è quell'altro sui legami familiari. Sono piccoli grandi eserciti dislocati dipartimento dopo dipartimento, materia per materia.

Somiglia tanto a un'occupazione militare, chi non fa parte di un clan resta quasi sempre fuori. E tutto nel rispetto della legge e delle procedure. La regola per conquistare un posto in università è solo una: non parlare. Qualcuno - è chiaro - si ritrova suo malgrado in questo elenco nonostante meriti e titoli. Per molti però quello che conta è solo il nome che portano.

Ci sono delle vere e proprie dinasty anche a Scienze, ad Architettura, a Economia. In ogni facoltà ci sono ceppi familiari dominanti, aule e laboratori di ricerca popolati solo da rampolli. Uno scandalo dopo l'altro soffocati nel silenzio.

A Medicina le famiglie che comandano sono 24. Si ramificano dappertutto. Una è la famiglia Cannizzaro. Il padre Giuseppe è ordinario di Scienze farmacologiche, nel suo dipartimento c'è anche il figlio Emanuele (ricercatore), la cognata Luisa Dusonchet (associata) e la figlia Carla che insegna a Farmacia. Ordinario di Scienze stomatologiche è Domenico Caradonna, i figli Carola e Luigi fanno i ricercatori nello stesso dipartimento. Ordinario di Scienze biochimiche è Giovanni Tesoriere, la moglie Renza Vento è a Biologia, la figlia Zeila è entrata in Architettura dove c'è anche suo marito Renzo Lecardane. Zeila è stata nominata a soli 37 anni come associata "per chiamata diretta", il marito - che da un anno era impiegato al Comune di Palermo dopo un'esperienza all'estero - ha conquistato un posto grazie alle norme sul "rientro dei cervelli". Altri nomi eccellenti di Medicina con parenti al seguito: i Salerno (Biopatologia), i Canziani (Neuropsichiatria infantile), i Ferrara (Otorinolaringoiatria), i Piccoli (Neuroscienze cliniche). Dopo i parenti ci sono naturalmente schiere di compari. Li piazzano per grazia ricevuta. A un favore fatto ne corrisponde sempre un altro. E' una catena interminabile, un giro chiuso. Le carte sono sempre a posto, i concorsi a prova di codice penale, un altro discorso è la decenza.

Come a Economia, il reame dei Fazio. Il capostipite è Vincenzo, ordinario di Scienze economiche, aziendali e finanziarie. Nello stesso suo dipartimento ci sono altri due Fazio: i suoi figli, Gioacchino associato e Giorgio ricercatore. Insegnano la stessa materia di papà. Il preside di Economia si chiama Carlo Dominici, suo figlio Gandolfo è anche lui in facoltà per istruire gli studenti in Scienze economiche. Poi ci sono i due Bavetta, Sebastiano ordinario e Carlo associato, figli di Giuseppe che lì a Economia c'era fino a qualche tempo fa. Ora è in pensione. Un ultimo caso di padre e figli di quella facoltà: il docente di economia aziendale Carlo Sorci e sua figlia Elisabetta - ricercatrice - che insegna Diritto commerciale.

A Giurisprudenza i docenti sono 137 e i nuclei familiari che dettano legge 10. Alfredo Galasso è ordinario di Diritto privato, suo figlio Gianfranco insegna la stessa materia, nello stesso dipartimento c'è anche Giuseppina Palmeri che è la moglie del fratello di Gianfranco. Anche Savino Mazzamuto (Diritto privato, ora trasferito a Roma 3) ha lasciato un posto in eredità a suo figlio Pierluigi. La figlia di Aurelio Anselmo, Alice, ha trovato sistemazione all'Università di Trapani: ricercatrice di Diritto pubblico. Salvatore Raimondi, nome pesante, amministrativista di grido ingaggiato per i suoi "pareri" anche dalla Regione siciliana, ha nel suo dipartimento di Diritto pubblico il figlio Luigi. E Rosalba Alessi, ordinario di Diritto privato - e soprattutto potente commissario degli enti economici siciliani, una carica che vale come tre assessorati importanti - ha nello stesso suo dipartimento il nipote Enrico Camilleri.

Ad Architettura c'è una grande famiglia, quella dei Milone. Il preside Angelo è in compagnia del fratello Mario (che è anche vicesindaco di Palermo e - attenzione - assessore ai rapporti con l'Università) e due figli che sono ricercatori: Daniele e Manuela. A Lettere, i Carapezza sono 4. I fratelli Attilio e Marco, il primo che insegna Scienze delle Antichità e il secondo Filosofia e teoria dei linguaggi. Il loro cugino Paolo Emilio è ordinario di Musicologia, suo figlio Francesco è ricercatore nello stesso dipartimento di Attilio. Poi ci sono i Buttita. Nino, il vecchio, antropologo, è stato preside di Lettere. Il figlio Ignazio insegna all'Università di Sassari ma ha supplenze a Palermo. La moglie Elsa Guggino è ordinaria nella stessa facoltà.

L'elenco dei padri e dei figli continua a Ingegneria, 18 famiglie e 38 parenti. Filippo Sorbello e il figlio Rosario, Michele Inzerillo e la figlia Laura, Stefano Riva Sanseverino (cognato di Luca Orlando) e la figlia Eleonora. A Scienze Matematiche Fisiche e Naturali si contendono il numero dei parenti i Gianguzza e i Vetro. Mario Gianguzza, ordinario di Biopatologia a Medicina, a Scienze ha come colleghi i fratelli Antonio (Chimica inorganica) e Fabrizio (Biologia cellulare) e la figlia Paola (Ecologia). Uno dei loro nipoti, Salvatore Costa, è anche lui in Biologia cellulare. L'altra famiglia, i Vetro, è tutta appassionata di matematica. Pasquale Vetro, matematico. La moglie Cristina Di Bari, matematica. Il loro figlio Calogero, matematico.

La facoltà più piena di mogli e mariti e figli è però quella di Agraria. Su 129 docenti 23 sono parenti. Un quinto. Divisi in 11 nuclei familiari. Il preside Salvatore Tudisca ha lì dentro come associata sua moglie Anna Maria Di Trapani. L'ordinario Antonino Bacarella ha la figlia Simona e il nipote Luca Altamore. L'ordinario Giuseppe Chironi ha la figlia Stefania, l'ordinario in pensione Giuseppe Asciuto ha suo figlio Antonio, l'ordinario in pensione Carmelo Schifani ha il figlio Giorgio, l'ordinario Salvatore Ragusa ha il figlio Ernesto, l'ordinario Luigi Di Marco ha la moglie Antonietta Germanà, l'ordinario Vito Ferro ha la moglie Costanza Di Stefano, l'ordinario Antonio Motisi ha la moglie Maria Gabriella Barbagallo, l'ordinario Riccardo Sarno ha il figlio Mauro, l'ordinario Claudio Leto ha la moglie Teresa Tuttolomondo. Cento famiglie. Di queste ce ne sono sessanta con "residenza" fissa in uno stesso dipartimento. E' praticamente casa loro.

FORENSI

CONCORSI FORENSI TRUCCATI.

Il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Termini Imerese, in primo grado fu condannato a 10 mesi. L’accusa: truccò il concorso per avvocati. Non fu sospeso.

Da “La Repubblica” di Palermo del 10/01/2001:

Parla il giovane aspirante avvocato, che ha portato con sé una piccola telecamera per filmare “palesi irregolarità”.

«Ho le prove nel mio video del concorso truccato. Ho un’altra cassetta con sette minuti di immagini, che parlano da sole. Oggi sarò sentito dal magistrato. A lui racconterò tutto ciò che ho visto. La giornata di un concorsista, aspirante avvocato, comincia alle quattro e mezza del mattino. Alle sei devi esser in prima fila. Ed è quello il momento in cui capisci come vanno le cose. Tutti lo sanno, ma nessuno ne parla».

I.D.B., 38 anni, ha voluto rompere il silenzio. Nei giorni dell’esame scritto per l’abilitazione forense si è portato dietro una piccola telecamera e ha documentato quelle che lui chiama “palesi irregolarità”. E’ stato bloccato dai commissari e la cassetta con le immagini è stata sequestrata. Ma lui non si perde d’animo: «in fondo io cerco solo la verità».

Intanto, I.D.B. rompe il silenzio con “La Repubblica” perché dice «è importante cercare un movimento d’opinione attorno a questa vicenda ». E ha già ricevuto la solidarietà dell’associazione Nazionale Praticanti ed avvocati.

«Vorrei dire – racconta – delle sensazioni che ho provato tutte le volte che ho fatto questo esame. Sensazioni di impotenza per quello che senti intorno. Ed è il segreto di Pulcinella. Eccone uno: basta comunicare la prima frase del compito a chi di dovere. Io ho chiesto i temi che avevo fatto nelle sessioni precedenti: non c’era una correzione, una motivazione, solo un voto».

Il primo giorno degli esami scritti il giovane si è guardato intorno. L’indomani era già dietro la telecamera: «Ho filmato circa sette minuti, in lungo ed in largo nel padiglione 20 della Fiera del Mediterraneo, dove c’erano più di novecento candidati. A casa ho rivisto più volte il filmato e ho deciso che avrei dovuto documentare ancora. Così è stato. Il secondo filmato, quello sequestrato, dura più del primo. A un certo punto una collega si è accorta di me e ha chiamato uno dei commissari. Non ho avuto alcun problema, ho consegnato la cassetta. E sin dal primo momento ho detto: Mi sono accorto di alcune irregolarità e ho documentato. Allora mi hanno fatto accomodare in una stanza. E insistevano: perché l’ha fatto?. Tornavo a parlare delle irregolarità. Poi mi chiedevano chi le avesse fatte. Lo avrei detto al presidente della commissione, in disparte. Davanti a tutti, no!»

Il giovane si dice stupito per il clamore suscitato dal suo gesto: «Non dovrebbe essere questo a sorprendere, ho avuto solo un po’ più di coraggio degli altri».

Ma cosa c’è in quelle videocassette?

L’aspirante avvocato non vuole dire di più, fa cenno ad un commissario sorpreso in atteggiamenti confidenziali con alcuni candidati: «Francamente non capisco perché non siano stati presi provvedimenti per il concorso. Quei capannelli che ho ripreso sono davvero troppo da tollerare. Altro che piccoli suggerimenti !»

LIBORIO SABATINO IN PRIMO GRADO AVEVA AVUTO 10 MESI

APPELLO: IL PG CHIEDE DI CONFERMARE LA CONDANNA. L'ACCUSA: TRUCCO' IL CONCORSO PER AVVOCATI

Il PG sostiene che la sentenza è inappuntabile e inoppugnabile: secondo l'accusa Liborio Sabatino, presidente dell'Ordine degli Avvocati di Termine Imerese, truccò il concorso per l'abilitazione alla professione di avvocato, aiutando alcuni candidati.

Il processo è in appello, dopo le condanne di primo grado, risalenti al 7 aprile 2006. La nuova sentenza, per l'ex Commissario del concorso, che ebbe dieci mesi, per Michele D'Anna (otto mesi) e Sergio Soldo (tre mesi, ma lui è divenuto avvocato, dopo un ricorso al TAR) potrebbe arrivare il 6 dicembre.

Il processo si basa su una serie di elementi: un video girato da un candidato più volte bocciato e che era stanco, così ha spiegato, di vedere magagne; le testimonianze di altri commissari e dei vigilanti; e infine una perizia sui tabulati telefonici, realizzata dall'esperto Gioacchino Genchi.

Il reato contestato è la violazione della legge 475/1925, che vieta di copiare ai concorsi, e il tentato abuso d'ufficio per Sabatino e D'Anna, che si erano messi d'accordo - secondo l'accusa - prima delle prove oggetto di indagine, svolte nel dicembre del 2000. Il video era stato girato da I.D.B., che si ritenne emarginato rispetto ad amicizie e presunti favoritismi. Per dimostrare quel che diceva, si armò di videocamera - tenuta nascosta dentro uno zainetto - e documentò in un filmato il passaggio di un foglio da Sabatino a uno dei candidati. I.D.B. venne scoperto dai vigilanti mentre faceva le riprese e da lì partì l'indagine. I temi di Soldo e D'Anna, ha ricordato il PG, erano pressoché identici.

SCOLASTICI

CORREZIONI IN POCHI MINUTI: OMBRE E DUBBI SUL CONCORSO PER DIRIGENTI SCOLASTICI

Per i presidi vincitori del concorso annullato dal Cga è arrivata la sanatoria. Una contromisura preparata in gran fretta dal Parlamento per fugare i timori dei duecento dirigenti scolastici siciliani reclutati con le prove selettive del 2006. Nel maggio 2009 il Consiglio di giustizia amministrativa si è pronunciato a favore di due aspiranti presidi (Maria Antonietta Cucciniello e Giuseppina Gugliotta) estromessi agli scritti. Motivo? Le due sottocommissioni avrebbero «proceduto alla correzione di moltissimi elaborati con una commissione incompleta, in quanto nell’una o nell’altra era assente il presidente». A correggere i compiti erano spesso due soli commissari, perché il presidente era in comune e poteva essere presente soltanto in una delle due sottocommissioni che procedevano in contemporanea. Ecco perché gli atti relativi alle prove scritte sono stati annullati dal Cga.

Per eseguire la sentenza il direttore dell’Ufficio scolastico regionale, Guido Di Stefano, ha nominato una nuova commissione, che riesaminasse i compiti dei due esclusi. Circostanza che ha fatto correre un brivido sulla schiena dei presidi in sella ormai da tre anni. Prove censurate per numerose e singolari anomalie. Dalle due sentenze emerge che «il tempo medio di correzione di ogni singolo elaborato si aggirava sempre intorno ai due minuti e 30 secondi, insufficiente per la correzione di compiti composti da otto o dieci facciate». Ma non solo: «L’elaborato numero 1003 è stato valutato positivamente, nonostante fosse costellato di errori grammaticali e di sintassi» e altri tre «sono stati valutati positivamente, nonostante contenessero chiari segni di identificazione, per cui i candidati che li avevano redatti avrebbero dovuto essere esclusi dal concorso».

La complessa vicenda è chiusa da una leggina. Un emendamento proposto da 15 deputati, quasi tutti siciliani e del Pdl, che sembra nato per vanificare la sentenza del Cga. «L’annullamento di atti delle procedure concorsuali ordinarie e riservate a posti di dirigente scolastico (…) non incide - afferma l’emendamento  - sulle posizioni giuridiche acquisite dai candidati dei predetti concorsi che (…) sono stati assunti in servizio». Chi ha superato il concorso, in pratica, rimarrà al proprio posto. E gli aspiranti presidi che hanno vinto il ricorso? Saranno nominati sui posti vacanti «a decorrere dall’anno scolastico 2010-2011».

«È tutto spaventosamente incostituzionale», commenta Caterina Giunta, l’avvocato che assieme al collega Francesco Tinaglia ha patrocinato i due ricorsi. «La sentenza del Cga - sostiene il legale - ha annullato l’intero concorso». Invece il provvedimento ha avuto un’applicazione soft.

MALASANITA'

Palermo: disastro sanità. L’inchiesta testuale corredata da video di Carmelo Abbate su “Panorama”.

“È domenica 13 febbraio, sono le 4 del pomeriggio. Una macchina si ferma davanti all’ingresso del pronto soccorso dell’Ospedale dei bambini di Palermo, proprio sotto l’insegna con la scritta: «Azienda di rilievo nazionale e di alta specializzazione». Una donna salta fuori con un bimbo in braccio avvolto in una coperta. Correndo, pesta un tappeto di bicchieri di plastica, mozziconi di sigarette e cartacce e s’infila nella porta. Il marito lascia la macchina in doppia fila qualche metro più avanti, allunga 1 euro al parcheggiatore abusivo e la raggiunge.

I due si fanno largo tra decine di mamme e papà con bimbi in braccio che si accalcano nell’angusta sala d’attesa davanti all’unico accesso alle stanze dei medici. Tutti chiedono quanto manca, quante persone ci sono davanti nella fila. Sbuffano, urlano. A sbarrare il passaggio c’è una guardia giurata. Che con una mano tiene ferma la porta e con l’altra si asciuga il sudore dalla fronte.

Gli ultimi arrivati vengono fatti passare. Il bambino, che ha meno di 1 anno, ha la febbre alta, più di 40. Arriva un medico, la guardia giurata fa un passo indietro. La visita avviene lì, sulla soglia, con la madre che tiene il pupo dritto e il dottore che lo tocca sulle spalle e sul petto. Nome e cognome… C’è da aspettare. Sono le 4 e mezzo. C’è chi è arrivato da un’ora, chi da due. Margherita ha il suo bimbo di 11 mesi in braccio dalle 11 del mattino: cinque ore e mezzo. Il figlio sta male da tre giorni. Così piccolo, ha già avuto più episodi di polmonite. La sua pediatra ha il telefono spento: è domenica. Ma qualche giorno prima le aveva detto: signora, se sta ancora male lo porti al pronto soccorso.

Quando Margherita è arrivata qui, l’ha accolta il metronotte che ha segnato nome e cognome. Dopo mezz’ora un’infermiera ha controllato la temperatura. Ha trascorso ore tenendo in braccio il bimbo, che ha le guance rosse e piange ininterrottamente. Margherita è stremata, si avvicina alla porta, chiede quanto manca. Il metronotte impugna il termometro e lo avvicina all’orecchio del bambino. Nell’azienda «di rilievo nazionale e di alta specializzazione» succede pure questo. La guardia giurata con la pistola e col termometro.

«I bambini ricoverati negli accampamenti medici nel deserto del Sahara ricevono migliore assistenza sanitaria perché hanno spazi più ampi e medici che si dedicano con più serenità a loro»: queste parole non sono uscite dalla bocca di una madre stremata, le ha pronunciate Giuseppe Iacono, primario di gastroenterologia dello stesso ospedale. «Siamo costretti a correre facendo slalom fra le barelle nei corridoi, con il rischio di tirarci dietro flebo, mascherine per l’ossigeno e lettini. Noi medici ci vergogniamo, è mortificante». Per questo Panorama è a Palermo: per verificare e per documentare il disastro, il Sahara sanitario.

Intanto, la domenica di Margherita è ancora lunga. Alle 5 e mezzo il suo bambino viene finalmente portato a fare le radiografie. Poi torna fra le altre madri nella sala d’attesa: è una stanzetta di 2 metri per 3, con delle panche di ferro ai lati e in mezzo un tavolino rosso e giallo. Il pavimento in marmo è freddo, oltre che sporco. Nessun gioco, nessuna forma d’intrattenimento per i bambini. Che sono tutti costretti a rimanere in braccio ai genitori. C’è chi piange, chi dice che vuole tornare a casa, chi tossisce. La tosse e il pianto sono la colonna sonora dell’attesa. Nessuna area divide le malattie infettive dalle altre. Se arrivi con un piedino rotto, non è da escludere che al momento della visita ti ricoverino anche per polmonite.

L’assessore regionale alla Sanità, Massimo Russo, è andato in televisione a Mattino Cinque e ha «licenziato» in diretta il manager dell’Arsa, l’azienda sanitaria cui fanno capo sia l’Ospedale dei bambini G. Di Cristina sia il Civico, il più grande complesso sanitario dalla Campania in giù. Il politico, ex magistrato, denuncia una «situazione indecorosa e inammissibile » che non ha eguali «in nessuna parte del mondo, neppure in Africa» e invita il manager dell’ospedale, Dario Allegra, a un «sussulto di dignità».

Il sussulto c’è stato, il 4 febbraio 2011 il dirigente si è dimesso e al suo posto si è insediato un commissario straordinario. Peccato che Allegra fosse stato nominato in pompa magna nel settembre 2009 dallo stesso Russo, che lo aveva presentato come uno degli uomini della svolta. Tante cose sono successe nell’ultimo anno, prima fra tutte la rottura tra Gianfranco Micciché e il governatore della Sicilia, Raffaele Lombardo. E Allegra viene considerato vicino al politico ex pdl, oggi passato con Forza del Sud. Insomma, gli ospedali sembrano scoppiare di politica, certo non di salute.

Come scoppia il pronto soccorso dell’Ospedale civico. Sempre domenica 13 febbraio la gente è costretta ad aspettare anche cinque ore prima di essere visitata. Anche qui un metronotte alla porta, con una infermiera che gestisce lo smistamento. Ma basta uscire, fare il giro della palazzina, entrare da una porta laterale per scoprire cosa c’è dentro. Ovvero malati, parenti, amici, e amici degli amici. Con i medici, poveretti, che corrono da un letto all’altro quasi rassegnati. Sembra quasi di stare in trincea. Il malato sta su una barella e i suoi accompagnatori, sempre più di uno, cercano di acchiappare un medico o un infermiere perché lo visiti, perché gli procuri un letto. L’astanteria, che poi sarebbe la zona di osservazione breve del pronto soccorso, è piena di malati ricoverati sulle barelle. Ce n’è almeno una decina. Qualcuno è ancora lì il giorno dopo. Qualcun altro è finito in reparto. I meno fortunati li hanno portati dentro lo stanzone del reparto di medicina, dove i letti sono separati da tendine. Come un vero presidio sanitario da campo.

All’Ospedale dei bambini, intanto, Margherita ha concluso la sua lunga domenica di attesa alle 7 di sera. Dopo otto ore, ecco la diagnosi per il figlio: polmonite. Ricovero immediato, ma in un lettino del corridoio. È ancora qui il pomeriggio del giorno successivo: lei ha dormito nella sedia accanto. Per pulire il bambino ha usato salviettine umidificate. Come lei fanno tante altre mamme, i cui figli stanno lì, piazzati nei corridoi dei reparti e del pronto soccorso. Sui muri campeggiano grandi cartelli colorati con dei clown e delle scritte che recitano testuali: «Risata, quale migliore medicina naturale?». E ancora: «Chi ha il coraggio di ridere è il padrone del mondo». Ma qui non ride proprio nessuno.

TRUFFA AL SERVIZIO SANITARIO: DANNI PER OLTRE 14 MILIONI DI EURO.

Pagati per curare oltre 51mila pazienti Solo che erano tutti già morti.

In Sicilia l'equivalente della popolazione di una cittadina di medie proporzioni non più in vita era assistita dal medico di famiglia truffando così puntualmente la sanità regionale per un danno erariale di almeno 14 milioni di euro. Sono cifre a molti zeri quelli che compongono l'ultima truffa scoperta dalla Guardia di finanza: 51mila 287 persone decedute, ogni giorno venivano curate dal medico di base come se fossero vive e vegete.

E, cosa ancora più grave, il particolare che nelle liste dei medici c'erano pazienti deceduti anche da vent’anni.

Dall'inchiesta emergono responsabilità che non sono addebitabili solo ai medici, ma anche a delle falle nella macchina amministrativa, nei sistemi di comunicazione e controllo e nell'anagrafe regionale.

Il mega raggiro è saltato agli occhi delle Fiamme gialle in seguito a dei minuziosi controlli disposti dal generale di divisione Domenico Achille, comandante regionale delle Fiamme gialle. Un anno fa un reparto della finanza aveva condotto un'attività operativa simile che aveva consentito l'accertamento di un danno erariale pari a circa 5 milioni di euro, che derivava dal pagamento, a medici di base, dell'indennità anche per assistiti che in seguito alle verifiche all'anagrafe sono risultati deceduti. Sulla scorta dell'esperienza già fatta i riscontri sono stati allargati a tutte le nove province dell'isola e così. La scoperta sino ad oggi ha rilevato oltre 50mila casi di persone morte, ma per le quali i medici di famiglia continuavano a percepire la prevista indennità mensile, erogata dalle Ausl.

I manager dell'Ausl 6 di Palermo avevano rilevato che solo nel capoluogo siciliano e nella sua provincia, per 18 anni, l'azienda sanitaria aveva pagato per 12.711 pazienti deceduti, quantificando un danno in 3 milioni e 200mila euro. I controlli hanno permesso di scoprire negli elenchi dell'anagrafe 3.500 assistiti non residenti, consentendo un risparmio mensile di circa 15mila euro, e persino 2.660 pazienti iscritti più volte nelle liste dell'anagrafe sanitaria, con un recupero di quote pregresse di oltre 480mila euro e un risparmio mensile di 12mila euro.

PARLIAMO DI AGRIGENTO

TANGENTI E FAVORI.

Tangenti e favori all’Agenzia Entrate. Arrestati il direttore e un funzionario. Ai domiciliari per corruzione anche l’imprenditore agrigentino Marco Campione, presidente di Girgenti Acque, consorzio che si occupa della distribuzione idrica, scrive “Il Corriere della Sera” del 10 dicembre 2015. Tangenti e favori all’Agenzia delle Entrate di Agrigento. È lo scenario svelato da un blitz del nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza di Agrigento, che stamane ha eseguito 11 arresti e altre 4 misure cautelari di minore intensità. Al centro dell’inchiesta l’iter e la conclusione di alcune pratiche fiscali. Tra i reati contestati, a vario titolo, quello di corruzione e falso materiale e ideologico compiuto da pubblico ufficiale. Quattro le persone finite in carcere, sette coloro che sono stati posti ai domiciliari con l’obbligo del braccialetto elettronico, due i destinatari dell’obbligo di presentazione ai carabinieri, due coloro che sono stati sottoposti al divieto temporaneo di esercizio della professione medica. Tra gli arrestati ci sono un funzionario dell’Agenzia delle Entrate di Agrigento, Vincenzo Tascarella e Pietro Pasquale Leto, che all’epoca in cui scattò l’inchiesta era dirigente in servizio alla direzione regionale delle Entrate di Palermo e dal 13 gennaio del 2014 è direttore della direzione provinciale delle entrate di Agrigento. I provvedimenti sono stati firmati dal Gip del tribunale di Agrigento, Francesco Provenzano, su richiesta del procuratore Renato Di Natale, dell’aggiunto Ignazio Fonzo e del sostituto Andrea Maggioni del dipartimento reati economici. Tascarella, secondo l’accusa, «nella sua qualità di pubblico ufficiale accettava la promessa di una somma di denaro per omettere atti del proprio ufficio e/o per compiere atti contrari ai propri doveri d’ufficio». «Tascarella», prosegue la Procura, «accettava la promessa della somma di denaro per favorire l’annullamento dell’avviso di accertamento da lui stesso emesso con un provvedimento di autotutela, “piegando” la propria funzione istituzionale di funzionario dell’agenzia delle Entrate all’interesse della società contribuente». Ai domiciliari, con obbligo di braccialetto elettronico, c’è il direttore dell’Agenzia Pietro Pasquale Leto che «nella sua qualità di pubblico ufficiale», accusa la Procura della Repubblica di Agrigento, «accettava la promessa di Marco Campione, rappresentante legale della Girgenti Acque, di altra utilità, consistente nell’assunzione a tempo indeterminato della propria figlia, presso l’ufficio legale della Girgenti Acque». L’imprenditore agrigentino Marco Campione, presidente del consorzio che si occupa della distribuzione idrica nell’Agrigentino, è stato sottoposto alla misura degli arresti domiciliari, con l’obbligo del braccialetto elettronico.

ACQUA PAZZA.

Agrigento, la beffa dell’acqua pazza: "Bollette da capogiro ma rubinetti a secco". È la più cara d’Italia, gestita da una società privata che era l’unica partecipante alla gara d’appalto. Un’azienda sotto tiro: gli abitanti la odiano, gli inquirenti indagano sulle sue relazioni pericolose, scrive Attilio Bolzoni su “La Repubblica”. Il signor Cimino l'abbiamo conosciuto quindici anni fa che vendeva acqua ad Agrigento e l'abbiamo ritrovato quindici anni dopo che vende ancora acqua ad Agrigento. Tutto passa ma il signor Cimino resta. Fa parte del paesaggio urbano come i palazzoni in bilico sull'argilla, sembra eterno come i templi greci sulla rupe. La fortuna di Domenico Cimino è un pozzo ereditato dal padre Gioacchino e che andrà in lascito al figlio Gioacchino, commercianti d'acqua di contrabbando da tre generazioni sono in moto perpetuo con le loro "bonze "  -  così chiamano le cisterne  -  per svuotarle di qua e di là assicurandosi sostentamento e guadagnandosi la riconoscenza di una popolazione assetata per destino infame. Da una vita qui parlano con molto sapere di tubi, di fontane e fontanieri, di vasche, bidoni, allacci, di litri al secondo di un'acqua che c'è e non c'è, che appare e scompare, di un'acqua che può portare alla felicità o alla disperazione più profonda. È l'acqua pazza di Agrigento che scatena guerre che non finiscono mai. Si scannano anche sui numeri, citando fonti e report. È l'acqua più cara d'Italia (Osservatorio di Cittadinanzattiva), tariffa media annuale 419 euro per una famiglia di tre persone, quattro volte più che a Milano. È al 29° posto (Centro Ricerche di Federconsumatori), prezzi di poco superiori alla media nazionale. Euro veri e acqua sempre virtuale. Dai rubinetti ne esce poca, a volte anche niente. In una Sicilia spaccata in due per i ponti che crollano, che mortifica se stessa mostrandosi lercia sul palcoscenico internazionale dell'Expo, che affoga nei debiti e nella molesta retorica del suo governatore Crocetta, c'è ancora una città (e una provincia) che ogni due o tre giorni aspetta con il fiato sospeso un rumore lontano, pressione e bolle d'aria, l'annuncio che sta arrivando. Il mercoledì e il sabato, il giovedì o il venerdì, un paio d'ore nel centro storico e appena qualche minuto in più in contrade meno sventurate. Maledizione di Agrigento. Con una trentina di sindaci in rivolta contro il signorotto che si è garantito dal 2007 la gestione privata del servizio idrico  -  un'altra quindicina si sono rifiutati di consegnare a lui le reti comunali  -  è battaglia legale e rissa ripetuta. Con forti sospetti di mafiosità, bollette da capogiro, contatori staccati per morosità, 007 a caccia di ladri d'acqua, proteste di piazza, aggressioni, infarti, inseguimenti. E sete, sempre sete. Sabato mattina 9 maggio, ore 10, villaggio Mosè. Davanti alla casa di Giovanni De Castro, pensionato di ritorno dal Queens dove aveva un piccolo supermercato, l'asfalto che è una sfoglia improvvisamente si apre e la "bonza " del signor Cimino precipita in una voragine. I diecimila litri d'acqua che attendeva il pensionato  -  una quarantina di euro, De Castro è affezionato cliente  -  si disperdono sulla strada. Peccato mortale ad Agrigento. Il signor Cimino si avvilisce per la sua autocisterna trainata dalla gru, Giovanni De Castro sa che non avrà acqua per almeno altre ventiquattro ore. Gliel'hanno tagliata: non vuole pagare i 17 mila (diciassettemila) euro conteggiati per il consumo degli ultimi tre anni. "Sono ladri autorizzati, com'è possibile venderla a così tanto?", si chiede consolato da tutto il vicinato. "Sono mafiosi", gridano gli altri. E mostrano ingiunzioni di pagamento, contatori sigillati, denunce, ricorsi, petizioni. Ogni giorno è sommossa. Al Villaggio Mosè e su a Porta di Mare, nel cortile Sciascia sotto la curia vescovile, a Zingarello, a Fontanelle e a Bibbirria, a Poggio Muscello. E tutti costretti a comprare l'acqua del signor Cimino che serve solo per "strapazziare", termine letteralmente intraducibile ma significa che con quell'acqua ci puoi fare tutto tranne che berla. "Bonza", "strapazziare ", "perdita occulta", "testa dell'espurgo", c'è un vocabolario molto speciale per la sete degli agrigentini. Il glossario della sete. Loro straparlano di acqua tutto il giorno e  -  fatto assai curioso  -  nemmeno uno dei candidati sindaci delle elezioni del 30 maggio cavalca l'insurrezione. Lontani i tempi dell'assessore regionale ai Lavori Pubblici Totino Sciangula, un amico di Giulio Andreotti che nelle infuocate campagne elettorali degli anni '80 si faceva intervistare sulle tivù locali chiedendo voti in cambio di qualche litro in più. Per le vie di Agrigento si aggirano rabbiosi gli assetati e anche tante, tantissime  -  140  -  auto bianche e azzurre della "Girgenti Acque Spa", la società privata che gestisce il servizio idrico in 27 comuni su 43 servendo (sulla carta) 359 mila abitanti su 480 mila. La gara di affidamento l'ha vinta facile: era l'unica partecipante. Perché gli agrigentini vi odiano tanto? "Perché facciamo pagare le bollette che prima non pagavano, perché prima di noi nessuno aveva mai gestito il servizio idrico", risponde Marco Campione, presidente di un'azienda che è sotto tiro poliziesco e giudiziario ed è esposta al rancore popolare. Il suo quartiere generale è al centro di una spettrale area industriale dove in mezzo a palazzi sventrati ecco un'elegante costruzione circondata da palme, impiegate in divisa con tanto di fiocco, uffici climatizzati e profumati, pasticcini e biscottini, manager e ingegneri come nella sede di una multinazionale di Zurigo. Il presidente, condannato in via definitiva per falso e truffa  -  al momento non è a conoscenza nemmeno se gli abbiano rilasciato il certificato antimafia  -  difende la sua azienda, dice che danno più acqua di quanto ne sia stata mai data prima, accusa il Comune per la decomposizione delle reti idriche cittadine. E giura: "Io non sono collegato a nessun politico: per questo mi attaccano". In pochi ci credono. La Girgenti Acque ha 330 dipendenti ("È un assumificio", ha denunciato il procuratore aggiunto Ignazio Fonzo ascoltato a marzo dalla commissione parlamentare d'inchiesta sugli illeciti ambientali), selezionati uno per uno  -  versione della direzione  -  attraverso colloqui rigidissimi, ha un customer satisfaction, ha uno staff di psicologi a sostegno dei dipendenti ("Per l'autostima") che si prendono sputi e insulti ogni volta che entrano in contatto con gli utenti. E soprattutto dispone di una pattuglia di 007. Sono sguinzagliati per "mappare" il territorio strada dopo strada, controllare consumi troppo modesti o troppo esagerati, investigano su deviazioni di condutture. Nei tubi sono state inserite 80 micro telecamere, "vedono" come si attivano i contatori e come i furbi attaccano i bypass. Nella guerra ai ladri d'acqua è scesa in campo l'"intelligence". Ma cos'è veramente questa Girgenti Acque? Cosa si nasconde sotto questa crosta di modernità e di efficientismo? La città di Agrigento è una grande stanza degli specchi  -  pensate, in questa campagna elettorale Legambiente con un voltafaccia sostiene lo storico nemico che voleva il rigassificatore  -  dove è difficile rintracciare frammenti di verità. Bisogna affidarsi alle carte ufficiali. Un corposo dossier di polizia, carabinieri, Dia e Finanza che descrive nel dettaglio i legami di mafia di Marco Campione. Vecchi e nuovi. Nella testimonianza alla commissione parlamentare, quando il procuratore Fonzo ha cominciato a parlare di Campione e della sua società è calato il silenzio. Omissis. Omissis. Omissis. L'acqua di Agrigento è stata secretata.

AGRIGENTO: GLI STAKANOVISTI DELLE COMMISSIONI.

Agrigento, tre commissioni del consiglio al giorno: anche a Natale. Indaga procura, scrive Giuseppe Pipitone su “Il Fatto Quotidiano”. Al vaglio degli inquirenti ci sono le 1.133 commissioni consiliari convocate nel 2014. Un numero spropositato, dato che in media le commissioni del consiglio comunale sarebbero state convocate tre volte al giorno, tutti i giorni, incluso Natale e Ferragosto. Due blitz a distanza di poche ore per acquisire dagli uffici del municipio di Agrigento i fascicoli sul piano regolatore generale e i documenti sulle presenze dei consiglieri comunali. È bufera nel comune della Valle dei Templi: martedì sera più di mille cittadini si sono riuniti davanti al municipio per protestare contro lo scandalo delle commissioni consiliari. E mercoledì mattina è arrivata la perquisizione degli agenti della Digos negli uffici comunali, appena 24 ore dopo il blitz condotto dalla Guardia di Finanza. Due i filoni dell’indagine coordinata dal procuratore aggiunto Ignazio Fonzo; da una parte ci sono le denunce del vice presidente del consiglio comunale Giuseppe Di Rosa, autore in questi giorni di alcuni appelli diffusi sui social network, per denunciare presunte pressioni che avrebbero l’obiettivo di orientare il voto dei consiglieri sui provvedimenti urbanistici: il reato ipotizzato dagli inquirenti associazione delinquere finalizzata alla corruzione. Al vaglio degli inquirenti ci sono anche le 1.133 commissioni consiliari convocate nel 2014. Un numero spropositato, dato che in media ad Agrigento le commissioni del consiglio comunale sarebbero state convocate tre volte al giorno, tutti i giorni, incluso Natale e Ferragosto. Il super lavoro dei consiglieri comunali è costato ai cittadini agrigentini 285mila euro per tutto il 2014. Una cifra enorme che ha scatenato la rabbia della popolazione, dopo che lo scandalo delle tre commissioni quotidiane del consiglio comunale sono approdate persino all’Arena, il programma condotto su Rai Uno da Massimo Giletti. E pensare che i 285 mila euro, spesi durante il 2014 per pagare le mille riunioni del consiglio comunale agrigentino, sono addirittura inferiori rispetto alle cifre impiegate negli anni precedenti: nel 2009 il consiglio comunale costava 470mila euro, l’anno successivo il conto arrivava a 542.896 euro, poi nel 2011 erano iniziati i tagli fino al record dei 230 mila euro spesi nel 2013. Totale: quasi due milioni di euro, negli ultimi cinque anni. “I costi della politica ad Agrigento sono pertanto assolutamente scandalosi. Lo erano ancor più alcuni anni fa e pertanto siamo arrivati in ritardo a denunciare la vicenda delle oltre mille riunioni di commissioni. Non potevamo immaginare una simile vergogna” dice Elio Di Bella, attivista locale del Movimento 5 Stelle. Nello stesso anno in cui il consiglio comunale di Agrigento si riuniva più di tre volte al giorno, si era dimesso il sindaco Marco Zambuto, una vita trascorsa dietro a Totò Cuffaro e all’Udc, poi fulminato sulla via di Matteo Renzi, che aveva deciso di farsi da parte prima di essere sospeso dalla legge Severino, a causa di una condanna a due mesi e venti giorni per abuso d’ufficio (poi assolto in appello). E mentre i consiglieri comunali saltavano trafelati da una commissione all’altra ogni giorno dell’anno, la città di Agrigento si è guadagnata un altro primato negativo, e cioè l’ultimo posto della classifica dei capoluoghi di provincia stilata dal Sole 24 Ore in base alla qualità della vita.

Le 1.300 sedute fantasma dei consiglieri di Agrigento e in città scoppia la rivolta. Manifestazione ad Agrigento contro le riunioni fantasma del Consiglio comunale. Manifestazioni e cartelli in strada per lo scandalo delle commissioni “Convocate solo per intascare i gettoni, sprecati 300mila euro in un anno”, scrive Alessandra Ziniti su “La Repubblica”. Il tam tam corre sul web, in pochi giorni sono seimila quelli che aderiscono al gruppo #Noisiamoaltro #Agrigentomanifesta. Ma a prendere tutti in contropiede sono i mille che improvvisamente si ritrovano a Porta di Ponte alle otto di sera per marciare sul Comune mentre le telecamere di Ballarò raccontano all'Italia intera che cos'è la "malapolitica" messa all'indice dal neo-presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Perché qui dove l'acqua continua ad arrivare nei rubinetti delle case solo ogni quattro giorni mentre le bollette sono le più care d'Italia, dove il Comune sull'orlo del dissesto "sostiene" con assegni da 28 euro all'anno famiglie indigenti con figli disabili, dove centinaia di dipendenti pubblici sono indagati per essere rimasti a casa ad assistere ipotetici familiari malati, qui non ha mai protestato nessuno, la rassegnazione l'ha sempre avuta vinta. E invece lo scandalo di quei 30 consiglieri comunali che in un anno, riunendosi ben 1.133 volte senza produrre alcunché, hanno intascato gettoni di presenza per quasi 300.000 euro, fa rinascere improvvisamente la voglia di indignarsi. In via Atenea, il salotto buono di Agrigento, la crisi ha il volto di due negozi su tre con le saracinesche abbassate e il cartello "affittasi". È su quelle vetrine che ieri sono i comparsi i volantini della rivolta, affissi dagli agrigentini di #Noisiamoaltro che provano a ripercorrere la strada segnata dieci anni fa a Palermo dai giovani di Addiopizzo. "Un popolo che non si ribella è un popolo senza dignità", è lo slogan che gridano sotto le finestre di un Comune ormai sotto un duplice assedio: quello della gente, strangolata dalla crisi e umiliata dal malaffare che prosciuga le poche risorse pubbliche che arrivano nelle casse di un'amministrazione prossima al dissesto, e quello della Procura della Repubblica che sta stringendo il cerchio sullo scandalo dei gettoni delle commissioni consiliari ma anche sulle tangenti che alcuni di quegli stessi consiglieri avrebbero ricevuto per approvare alcune varianti al piano regolatore generale che, come nel più classico dei copioni, farebbero quintuplicare il valore di alcuni terreni che diventerebbero edificabili. Due blitz in due giorni nello storico palazzo di città che da mesi (dopo le dimissioni del sindaco Marco Zambuto, travolto dalla legge Severino a seguito di una condanna per abuso d'ufficio in primo grado poi cancellata in appello) è amministrato da un commissario in attesa delle elezioni in programma in primavera. Prima la Guardia di Finanza che indaga sul caso delle commissioni consiliari, e ieri la Digos che ha sequestrato, alla vigilia della seduta decisiva del consiglio comunale prevista per questa sera, tutte le carte relative al piano regolatore. Tutta documentazione finita sul tavolo del procuratore aggiunto Ignazio Fonzo che coordina il pool pubblica amministrazione. Per strada, al bar, la gente fa i conti in tasca ai 30 consiglieri comunali: 1.133 sedute delle sei commissioni consiliari permanenti nel corso del 2104, sedute di pochi minuti che non hanno prodotto praticamente nulla e sono costate al Comune quasi 300 milioni di euro e portato mediamente nelle tasche di ogni consigliere circa 10mila euro. Cifre enormi se comparate con quelle di qualsiasi Comune, soprattutto se si considera che, nella speciale classifica della vivibilità delle città italiane, Agrigento è all'ultimo posto. E ora anche il ministero delle Finanze annuncia un'ispezione. "Bravi, portateveli tutti in carcere", grida, mimando con le mani il gesto delle manette, un gruppo di cittadini che, nella piazza del Comune, assiste all'arrivo dei magistrati e dei poliziotti che indagano sul giro di tangenti sul piano regolatore di cui ci sarebbe prova in una pen drive contenente le conversazioni tra alcuni consiglieri che parlano delle mazzette intascate. È una campagna elettorale al vetriolo quella che si preannuncia in una città dove la Lega nord prova a fare breccia candidando Marco Marcolin, deputato nazionale, che da Montebelluna in provincia di Treviso si è già trasferito qui da mesi. "Ognuno ha il governo che si merita  -  dicono gli animatori della rivolta  -  ora è giunto il momento di dimostrare che "noi siamo altro" da questi ladroni. La vera protesta non sarà l'atto di manifestazione contro un consiglio comunale che ha ridotto Agrigento ultima in qualsiasi classifica sulla vivibilità in Italia, ma ripartire con la consapevolezza e la convinzione che da oggi quel sistema elettivo basato sul voto "all'amico di", al "figlio di" viene a morire. Oggi Agrigento ha la possibilità di recuperare la propria dignità, ha la possibilità di dimostrare che tutta la città si discosta da quel tipo di politica".

AGRIGENTO: LA CAPITALE DELL'ASSENTEISMO.

False 104: arrestati medici e componenti della commissione che rilasciava false dichiarazioni di invalidità, scrive Radio Azzurra. Il blitz dei poliziotti della Digos della Questura di Agrigento, nell’ambito di un’inchiesta denominata “la carica delle 104″ è scattato all'una di notte. Procura e Questura hanno "colpito" medici compiacenti che accordavano i documenti della legge 104 a chi non ne aveva diritto. Il nome dell’operazione in relazione ai riconoscimenti connessi ai sensi della legge 104 (per assistere parenti o affini entro il 3 grado con handicap grave), cui decine di dipendenti statali avrebbero beneficiato in maniera illecita. Una ventina i soggetti, ci sono anche diverse donne, raggiunti da un provvedimento cautelare: cinque in carcere, sette agli arresti domiciliari, agli altri sono stati applicati gli obblighi di firma e di dimora. Un centinaio le persone denunciate. Gli indagati sono accusati a vario titolo di truffa, corruzione ed altro. L’ordinanza di custodia cautelare è stata emessa dal Gip del Tribunale di Agrigento, Ottavio Mosti, su richiesta del procuratore capo Renato Di Natale, del procuratore aggiunto Ignazio Fonzo e del sostituto procuratore Andrea Maggioni.  Tra i fermati diversi personaggi noti. Ci sono medici, professionisti e impiegati e dipendenti dell’Inps, che hanno tratto in inganno le  speciali commissioni provinciali, che dopo le visite rilasciavano idonea certificazione  di invalidità, e consentivano così l’accesso alla fruizione di una pensione a decine di persone non aventi diritto. Medici noti come Giuseppe Porcello, 74 anni, di Naro, dirigente medico dell’Inps in pensione ed ex consulente della Procura e del Tribunale, e Salvatore Attanasio, 58 anni, di Agrigento.  C’è anche Gianfranco Pullara, colpito dall’obbligo di firma, noto per essere stato per tantissimi anni il medico legale di Agrigento. Nella sua carriera ha collaborato con le Forze di Polizia, eseguendo oltre un centinaio di autopsie e ispezioni cadaveriche. Sono 19, compresi 10 medici, le persone destinatarie di misura cautelare. 6 sono in carcere. 8 ai domiciliari. E a 5 indagati è stato imposto l'obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria. Gli arrestati sono Antonio Alaimo, 53 anni, di Favara, un bidello ritenuto "intermediario e procacciatore d'affari, nonché anello di congiunzione per l'operatività del sodalizio criminale". Poi, in carcere anche Salvatore Patanè, 61 anni, tecnico radiologo, residente ad Agrigento, che si sarebbe impegnato a collegare "i pretesi falsi invalidi con i medici compiacenti infedeli: radiologi, reumatologi, e audiologi in servizio al Poliambulatorio di Agrigento". Ancora in carcere Giuseppa Gallo, 61 anni, di Naro, specializzata in pneumologia, Giuseppe Candioto, 61 anni, reumatologo, Antonino Scimè, 64 anni, residente ad Agrigento, e Daniele Rampello, 47 anni, di Raffadali. Agli arresti domiciliari sono ristretti Angelo Greco, 57 anni, di Palma di Montechiaro, presunto intermediatore di affari, il medico radiologo Alfonso Russo, 65 anni, di Aragona, il medico ortopedico Antonia Matina, 57 anni, il medico del Poliambulatorio di Agrigento, Lorenzo Greco, 60 anni, il medico e presidente della commissione dell’ Azienda sanitaria, Giuseppe Porcello, 74 anni, il medico pneumologo Salvatore Attanasio, 58 anni, e l'impiegata dell'Inps di Agrigento Gaetana Cacioppo, 50 anni. Ad altri 5 indagati è stato imposto l'obbligo di presentazione a Polizia e Carabinieri.

La maxi inchiesta ad Agrigento per false 104 si allarga agli assenteisti, scrive Giulia Boffa su “Orizzonte scuola”. Un primo troncone della maxi inchiesta sulle 104 false in provincia di Agrigento sta per concludersi. Dal mese di settembre 2014 sono state arrestate 17 persone e 84 sono state le denunce, fra cui molte di medici compiacenti a rilasciare documentazioni di 104 per falsi invalidi. L'inchiesta è partita da un esposto anonimo, in seguito alle mancate assegnazioni provvisorie proprio per favorire colleghi con false dichiarazioni 104. L'inchiesta si è allargata anche al diffusissimo assenteismo dovuto sempre ai permessi 104, anche in questi casi assolutamente non spettanti: gli indagati sono 280 tra funzionari pubblici, docenti, impiegati di segreteria e collaboratori scolastici. I numeri sono esorbitanti: basti pensare che in una scuola media della provincia 11 bidelli su 11 usufruiscono dei permessi per 104, in un'altra sempre della zona ne usufruiscono 90 su 140 operatori della scuola a vario titolo.

Assenteismo, Agrigento capitale dei finti malati. Un'inchiesta della Procura nel mondo della scuola, scrive "La Repubblica". Un sassolino che è diventato una valanga. Sono ormai 280 gli indagati nella città di Agrigento e dintorni per corruzione aggravata, falso e truffa ai danni dello Stato. Si tratta in maggioranza di insegnanti e personale tecnico delle scuole assenteisti per finta malattia oppure per usufruire della mitica legge 104 del 1992, una normativa che consente di rimanere a casa dal lavoro per badare a famigliari con patologie o anche di usufruire di permessi retribuiti. La Procura di Agrigento, che già a settembre ha arrestato 17 persone e ne ha denunciate 84, sta concludendo il primo troncone dell'inchiesta. "Tra qualche giorno", scrive il quotidiano La Repubblica, "con ogni probabilità le richieste di rinvio a giudizio". Tra gli indagati anche medici che avrebbero non solo firmato certificato falsi ma addirittura suggerito ai pazienti di lamentarsi di alcune patologie durante le visite specialistiche. I video diffusi a corredo dell'inchiesta - i reati sono corruzione aggravata, falso e tuffa - offrono la più classica rappresentazione del malato per finta. Si vede una signora intenta alle faccende domestiche che, il giorno della visita, arriva in barella in ospedale. O un altro indagato che prima viene ripreso dalle telecamere a passeggio per il corso del paese e poco dopo in sedia a rotelle per il controllo utile a mantenere la mitica "104". "Un autentico florilegio di nefandezze, orchestrato da un circo strampalato di procacciatori, intermediari, azzeccagarbugli, paramedici e medici rotti a ogni furberia", ha scritto nella sua ordinanza di custodia cautelare il gip Ottavio Mosti.

Malati di assenteismo scandalo dipendenti pubblici: sempre a casa in malattia, scrive Il Conte su Business. Lo studio condotto dalla Cgia di Mestre parla chiaro e il risultato è vergognoso. Nel settore pubblico ci si ammala più spesso, ma mediamente si perdono meno giorni di lavoro che nel settore privato. La Cgia di Mestre ha dichiarato che nel 2012 (ultimo anno in cui i dati sono a disposizione) i giorni di malattia medi registrati tra i lavoratori del pubblico impiego sono stati 16,72 (con 2,62 eventi per lavoratore). Nel settore privato, le assenze per malattia sono stati i 18,11 giorni (con un numero medio di eventi per lavoratore uguale a 2,08). Complessivamente, aggiunge lo studio della Cgia, sono stati 6 milioni i lavoratori dipendenti italiani che hanno registrato almeno un evento di malattia. Mediamente, ciascun lavoratore dipendente italiano si è ammalato 2,23 volte ed è rimasto a casa 17,71 giorni: complessivamente sono stati quasi 106 milioni i giorni di malattia persi durante tutto l’anno. Oltre il 30 per cento dei certificati medici che attestano l’impossibilità da parte di un operaio o di un impiegato di recarsi nel proprio posto di lavoro è stato presentato di lunedì. Tra coloro che hanno presentato un certificato medico nel corso del 2012, quasi un lavoratore dipendente su 3 ha iniziato la malattia il primo giorno della settimana. La malattia di un lavoratore, spiega lo studio cella Cgia, viene considerata come unico evento anche nel caso di più certificati tra i quali intercorra un intervallo di tempo non superiore a 2 giorni di calendario. I dati sono stati estratti dall’Osservatorio sulla certificazione di malattia dei lavoratori dipendenti privati e pubblici dell’Inps, avviato nel 2011. Il motivo della mancanza di una serie storica più lunga deriva dal fatto che la trasmissione telematica dei certificati di malattia da parte dei medici di famiglia è andata a regime nel 2011. A livello territoriale la maglia nera spetta alla Calabria: nel 2012 ogni lavoratore dipendente calabrese e’ rimasto a casa mediamente 34,6 giorni. La media sale addirittura a 41,8 nel settore privato. Tra i lavoratori dipendenti più “cagionevoli” ci sono: i siciliani (con 19,9 giorni medi di malattia all’anno), i campani (con 19,4), i pugliesi (con 18,8). Gli operai e gli impiegati più “robusti”, ,sono quelli del Nordest. Se i lavoratori dipendenti dell’Emilia Romagna rimangono a casa mediamente 16,3 giorni all’anno, in Veneto le assenze per malattia scendono a 15,5 per toccare il più basso nel Trentino Alto Adige, con 15,3 giorni. I lavoratori anziani sono più a rischio dei giovani. Dalla rilevazione emerge che le assenze aumentano in misura corrispondente al crescere dell’età. Se fino a 29 anni il numero medio di giorni di malattia per lavoratore e’ pari a 13,2, nella classe di età tra i 30 e i 39 anni sale a 14,9, per toccare il valore massimo sopra i 60 anni, con 27,4 giorni medi di assenza all’anno. La durata media degli eventi di malattia è, relativamente breve. Nel 71,7 % dei casi la guarigione avviene entro i primi 5 giorni dalla presentazione del certificato medico. Vi siete fatti un’idea? Noi abbastanza chiara!

E nel 2014 centinaia di arresti per assenteismo, scrive Diodato Pirone su “Il Messaggero”. Non lo sa nessuno ma in Italia l'assenteismo è un fenomeno criminologico. Secondo le statistiche delle forze dell'ordine gli arresti per truffa aggravata causati dalle assenze ingiustificate dal lavoro di dipendenti pubblici sono centinaia all'anno. Di certo si supera quota mille con denunce a piede libero e sospensioni. Contrariamente a quello che si crede, infatti, la vita dell'assenteista s'è fatta dura. Giusta o sbagliata che fosse, la crociata dell'ex ministro Renato Brunetta contro i fannulloni ha lasciato in eredità una regola ferrea. Eccola: «E' previsto l'arresto nei confronti dei dipendenti pubblici accusati di falsa attestazione della presenza in servizio». Poche righe che dal 2010 hanno trasformato gli uffici italiani in covi di microcamere e video-spia con codazzo di denunce, tribunali e manette. Una vitaccia, insomma, quella dell'assenteista. Giornaloni e tivvù non ne danno conto perché i singoli arresti, presi in sè, non fanno notizia e al massimo finiscono nelle brevi. Ma la loro massa critica è sbalorditiva: si resta basiti di fronte alla leggerezza con la quale tanta gente, convintissima che i furbi la facciano sempre da padrone in Italia, finisce per rovinarsi la vita. Qualche esempio? Gli arresti del 2014 sono addirittura tambureggianti: a gennaio scattano le manette per due ginecologhe (sorprese nei propri studi privati mentre risultano al lavoro per l'Azienda sanitaria) e quattro impiegati dell'Asl Napoli Nord; a febbraio tocca a 15 addetti ai servizi veterinari della Asl di Vibo Valentia in Calabria e a due giardinieri di un parco pubblico di Napoli. Il 7 marzo finisce in galera un agente della polizia penitenziaria di Piacenza che nei giorni di falsa malattia spacciava droga e qui - caso rarissimo - piovono sberle anche per il suo medico cui la Procura chiude lo studio per avere concesso certificati senza controllo. Ma l'elenco delle amministrazioni dove sono scattate le manette è infinito: ospedali Monaldi e Cotugno di Napoli; Comuni di Sant'Agnello e Torre Annunziata; Università di Trieste e Udine; ufficio del giudice di Pace di Latina; Day SurgerY di Cuneo; Comune di Ancona; provincia di Chieti (dove un capo cantoniere si assentava dal lavoro per effettuare traslochi con i mezzi pubblici di cui era responsabile). Non c'è pace, da Nord a Sud. A giugno si spara nel mucchio nel Consorzio di Bacino Salerno/1: 22 arresti per truffa aggravata e peculato (gli assenteisti si segnavano anche lo straordinario). Ma è da settembre che le retate si moltiplicano: a Montenero di Bisaccia (il paese di Di Pietro) viene arrestato il medico dell'Asl e un suo collaboratore per danni per 70 mila euro causati dalle loro assenze e poi la Calabria alza il tiro con la decisione della Regione di licenziare quattro assenteisti cronici di in un gruppo di impiegati finito totalmente fuori controllo. Impiegati che vengono puniti anche con 5 sospensioni e 41 rimproveri. Ma l'assenteismo di massa della Regione Calabria non è isolato. Alla Asl di Siracusa la Procura ha imposto 9 sospensioni dopo aver scattato 1.500 fotografie ed effettuato 600 ore di videoregistrazioni per provare l'abitudine di 33 fra medici e impiegati di recarsi spesso insieme in piscina invece che al lavoro. Naturalmente dopo aver fatto timbrare agli amici il loro cartellino.

Lavorare il meno possibile? Ecco come si fa. Alcune leggi e diversi contratti di categoria permettono di restare a casa e intascare regolarmente lo stipendio. Dal permesso retribuito per i volontari del soccorso speleologico a quello per chi fa il vaccino contro il tetano. Sul sito della Funzione pubblica Cgil è consultabile il vademecum dei permessi: l’«Abc dei diritti» riempie 10 pagine, scrive Paolo Baroni su “La Stampa”. I recordman dell’assenteismo, i «furbetti» del permesso, oltre alle malattie «strategiche» hanno a disposizione una infinità di strumenti per evitare di presentarsi al lavoro e intascare ugualmente lo stipendio. Per effetto delle leggi e dei vari contratti di categoria sono almeno una decina le differenti tipologie di permessi retribuiti, tutte fondate su diritti sacrosanti, sia chiaro, su cui il lavoratore infedele volendo può «giocare». Le statistiche ufficiali si limitano a registrare giorni di ferie, giorni di malattia, in alcuni casi i giorni concessi dalla legge 104 sull’assistenza ai disabili e i giorni persi per «altri» motivi. Dietro però c’è molto di più. Ragioniamo per assurdo, e sia chiaro senza alcuna intenzione di intaccare il valore di norme che anzi quando sono applicate correttamente consentono a tanti italiani attività più che meritorie. Che però messe tutte in fila, teoricamente, consentono di assentarsi dal lavoro anche per mesi senza incorrere in sanzioni. Spiega Roberto Pessi, ordinario di diritto del lavoro e prorettore della Luiss. «Se il signor Caio decide di non lavorare per 365 giorni in un anno può anche riuscirci. Vado per sommatoria: un contratto come quello della grande distribuzione consente assenze per malattia per 175 giorni in un anno senza incorrere in sanzioni. Se a questo aggiungiamo 52 sabati e 52 domeniche, 35 giorni di ferie, 36 giorni di assenze legate all’assistenza del parente handicappato, e poi ancora le donazioni di sangue e i giorni concessi come volontario del servizio civile arriva praticamente a zero. Non è complicato». In pratica percorso netto. Tutto legittimo, senza rischio-sanzioni. O quasi. Pessi lo chiama «uso immeritevole di norme ideate per tutelare interessi meritevoli». Il vademecum dei permessi, tra lavoro pubblico e lavoro privato, è particolarmente consistente: basti pensare che l’«Abc dei diritti» che si può consultare sul sito della Funzione pubblica Cgil riempie ben 10 pagine per un totale di 541 righe. Ci sono i 15 giorni di licenza matrimoniale, ed i giorni (da 1 a 8 in un anno) concessi ai dipendenti pubblici per concorsi ed esami. Donare il sangue vale 24 ore di permesso senza limiti annuali: sono le strutture sanitarie a fissare un tetto di 4 donazioni/anno per gli uomini e di 2 per le donne. Anche l’antitetanica vale un bonus: si è infatti autorizzati ad assentarsi dal lavoro nelle ore successive alla vaccinazione. La legge 104, previa autorizzazione dell’Inps, concede invece tre giorni al mese di permesso retribuito per assistere un familiare disabile. Un’altra legge consente ai volontari della protezione civile di assentarsi anche per 10 giorni consecutivi (massimo 30 giorni in un anno) per effettuare simulazioni e formazione ed in caso di calamità concede 30 giorni consecutivi con un tetto di 90 in un anno. Permessi retribuiti anche quanti ricoprono il ruolo di volontari del Corpo nazionale del soccorso alpino e speleologico del Club alpino italiano nei giorni in cui svolgono operazioni o esercitazioni. Pena l’accusa di ostacolo alle operazioni elettorali (si rischiano sino a 3 mesi) un datore di lavoro non può ovviamente negare ai propri dipendenti di prestare servizio presso i seggi come presidente, segretario, scrutatore o anche solo rappresentante di lista: nel caso di una tornata elettorale con ballottaggio, tra insediamento dei seggi, giornate di votazioni e scrutinio se ne posso andare anche 7 giorni di lavoro. Permessi retribuiti anche per consiglieri ed amministratori di enti locali, comunità montane comprese.  Altro capitolo riguarda i permessi sindacali che prima dell’intervento del governo Renzi interessavano circa 70mila dipendenti pubblici per un totale di 845 mila giornate «perse» che corrispondevano all’assenza dal servizio per un anno di 2.315 dipendenti. Poi è calata la scure e dallo scorso agosto sono stati dimezzati. 

E non è finita qua.

In malattia per cento milioni di giorni all’anno. Non solo per motivi di salute: le assenze dei dipendenti toccano il 20% nel settore pubblico e il 13% nel privato. Brunetta stimò un costo annuo per la PA di 6,5 miliardi, anche se il fenomeno è in calo. Sono tutte giustificate? Continua Paolo Baroni su “La Stampa”. Solo a causa delle malattie in un anno, il 2013, l’ultimo censito dall’Inps, vanno in fumo oltre 108 milioni di giornate di lavoro: 77,6 nel settore privato e 30,8 nel settore pubblico, dove si registra un totale di 4.838.767 «eventi». In pratica l’altro anno ognuno dei 3 milioni e trecento mila travet si è ammalato una volta e mezzo nel giro di 12 mesi. In media, ferie comprese, le assenze dal lavoro toccano il 20% nel settore pubblico ed il 13 in quello privato. Ma le motivazioni, come insegna la vicenda dei vigili romani, non si limitano alle sole malattie, ci sono infatti permessi di vario tipo ed i giorni concessi dalla legge 104 per l’assistenza ai disabili. Un «danno», per la pubblica amministrazione, che qualche anno fa, quando Brunetta lanciò la sua crociata contro i «fannulloni», venne stimato in 6,5 miliardi di euro l’ anno. L’ultimo monitoraggio della Funzione pubblica, che però si ferma ad agosto 2014, calcola che su 4705 amministrazioni prese in esame, in media ogni dipendente si è assentato per 0,558 giorni per cause di malattia (con ministeri e agenzie fiscali che arrivano a 0,987 e le università che si fermano a 0,218). Con picchi particolarmente alti al ministero della Giustizia (1,827 giorni/dipendente) e alla Difesa (1,218). Per lo più si tratta sempre di malattie di breve durata: gli eventi che comportano assenze superiori ai 10 i giorni, infatti, pesano appena per 0,023 giorni per ogni dipendente. Gli «altri motivi», ovvero le varie tipologie di permesso, pesano molto di più: la media per dipendente è infatti pari a 1,001 giornate perse al mese (1,804 nelle comunità montane e 1,739 nelle università). A livello regionale ci si ammala molto di più al centro (0,725 giorni/dipendenti) ed al Sud (0,607) che nel Nord est (0,386) e nel Nord Ovest (0,403).  Dal ministero assicurano che i dati sulle assenze dei dipendenti pubblici saranno aggiornati nei prossimi giorni. Per ora questo ultimo monitoraggio ci dice che rispetto all’anno precedente le assenze di malattia sono scese del 9% e quelle per «altri motivi» del 15,3%. Nulla rispetto ai picchi fatti segnare all’avvio della riforma Brunetta, quando nel giro di pochi mesi si registrò un crollo del 36% delle assenze coi giorni di malattia pro-capite scesi da 1,04 a 0,64. «Da Monti in poi - denuncia oggi l’ex ministro di Fi - i governi di turno non hanno più creduto in questa operazione. I dati non vengono più pubblicizzati e in pratica la lotta all’assenteismo è stata abbandonata. Peccato perché ora con certificati medici e ricette on line la Pa avrebbe nuovi importanti strumenti che potrebbe utilizzare». La pubblicità dei dati, dettagliati per tipologia di amministrazione e territori, in effetti, è lo strumento più efficace per contrastare questi fenomeni. Per legge tutto è infatti on line e pubblico: basta accedere ai vari siti e cercare il link «amministrazione trasparente». E così facendo, ad esempio, si scopre che al Comune di Roma (nel terzo trimestre 2014) i tassi di assenza, ferie comprese, oscillano tra il 25 ed un pericoloso 42%, con una quota che spesso supera il 10% tra malattie e permessi. Quanto ai vigili urbani già a fine 2013 facevano segnare picchi significativi di malattia (7,4% il gruppo di Montemario), di permessi legge 104 (3,01% al Tuscolano) e di permessi «vari» (5,95% al Prenestino). Ma del resto se anche alla Corte dei Conti, dove operano i nostri censori degli sprechi, in un terzo degli uffici si sfora il 30% di assenze, si capisce bene come l’assenteismo sia ancora una malattia nazionale.

AGRIGENTO ED I SUOI EROI: ROSARIO LIVATINO.

IL GIUDICE ROSARIO LIVATINO: VITTIMA DI MAFIA, scrive Fabio Lusi su “In Storia”.

Chi è Rosario Livatino? Qual è la sua storia? Era un giudice di Canicattì assassinato da sicari della Mafia il 21 settembre 1990. Ma andiamo per gradi e raccontiamo la sua storia dal principio, visto anche che è una vittima dalla malavita siciliana della quale oggi se ne parla poco, soprattutto in televisione o sui principali giornali del Paese.

Rosario Angelo Livatino nasce a Canicattì (Ag) il 3 ottobre 1952. Il padre Vincenzo era laureato in legge e lavorava all’esattoria comunale, sua mamma era Rosalia Corbo. Studente modello sin dalle scuole elementari, conclude tutte le scuole con il massimo dei voti. Dopo il Liceo Classico si iscrive alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Palermo, dove il 9 luglio 1975, all’età di 22 anni, consegue la laurea con il massimo dei voti e la lode.

Poi vince il concorso per vicedirettore in prova presso la sede dell’Ufficio del Registro di Agrigento, dove restò dal 1° dicembre 1977 al 17 luglio 1978. Partecipa con successo al concorso in magistratura. Lo supera e va a lavorare a Caltanissetta come uditore giudiziario. Dopo qualche tempo passa al Tribunale di Agrigento, dove dal 29 settembre 1979 al 20 agosto 1989, ricopre l’incarico di Sostituto Procuratore della Repubblica.

Qui si occupa delle più delicate indagini antimafia, ma anche di criminalità comune. Si occupa anche dell’indagine che poi negli anni ’90 verrà conosciuta come la "Tangentopoli siciliana".

Mette a segno numerosi colpi contro la Mafia, attraverso lo strumento della confisca dei beni e combattendo la corruzione in maniera molto forte. Scopre legami tra la Mafia e la Massoneria, e per questo il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga lo definì "Il giudice ragazzino", purtroppo non per fargli un complimento. Livatino ed alcuni magistrati del suo gruppo furono i primi ad interrogare un ministro nel corso di un indagine.

Dal 21 agosto 1989 al 21 settembre 1990 Rosario Livatino lavorò come giudice a latere presso il Tribunale di Agrigento nella sezione "misure di prevenzione".

Il giudice ha lasciato molte testimonianze della sua attività professionale di cui sono pieni gli archivi dei tribunali. I suoi interventi pubblici furono molto rari. Gli unici interventi pubblici, fuori dalle aule di giustizia , sono due e sono "Il ruolo del Giudice in una società che cambia" (1984) e "Fede e diritto" (1986). Questi discorsi costituiscono un testamento morale di Rosario Livatino.

Livatino visse abbastanza lontano dal contatto con il pubblico e non volle mai far parte di club o associazioni, qualsiasi fosse il loro genere.

Il magistrato di Canicattì fu ucciso in un agguato mafioso la mattina del 21 settembre 1990 sul viadotto Gasena della SS 640, che collega Agrigento a Caltanissetta, mentre si recava in Tribunale senza scorta e con la sua auto privata.

Esecutori e mandanti del suo assassinio sono stati tutti individuati e condannati all’ergastolo, ma con pene ridotte per chi collaborava. Fu ucciso dalla Stidda agrigentina, un’organizzazione mafiosa in contrasto con Cosa Nostra.

Rosario Angelo Livatino oltre ad essere un uomo giusto, incorruttibile ed un ottimo magistrato, era un uomo di profonda fede cristiana. Visse tenendo sempre presenti gli insegnamenti del Vangelo e la sua vita, sin da quando era ragazzo, dimostra questo.

Nel maggio del 1993 Papa Giovanni Paolo II è in Sicilia ad Agrigento, dove incontra i fedeli nella Valle dei Templi. Prima però incontra i genitori di Rosario Livatino. Il Papa ad Agrigento definisce il giudice Livatino un "martire della giustizia e indirettamente della fede" e compie il famoso anatema contro la Mafia in cui invita gli uomini di questa organizzazione a convertirsi e a cambiare vita, in attesa, un giorno, del giudizio di Dio.

Il 4 ottobre 1995 viene fondata l’Associazione "Amici del Giudice Rosario Angelo Livatino", che ha sede a Canicattì (Ag). L’Associazione si propone di tenere viva la memoria del giudice, di promuovere una cultura della legalità con incontri e dibattiti, e di avviare un processo di canonizzazione nei confronti di Rosario Livatino, visto che non è ancora incominciato. Tra l’altro il giudice avrebbe anche compiuto un paio di miracoli, post-mortem, di cui uno riguarda una signora guarita da una grave forma di leucemia, alla quale Rosario Livatino è apparso in sogno, in abiti sacerdotali, incoraggiandola a reagire e a guarire.

Livatino è stato un uomo che alle pubbliche dichiarazioni preferiva il quotidiano impegno al tavolo di lavoro. Un lavoro scrupoloso, ostinato e senza risparmiarsi. Sul suo tavolo di lavoro egli teneva un Crocifisso e un Vangelo. Era un operatore di giustizia. Il Cristianesimo era il suo programma di vita. "STD" c’era scritto in molte parti della sua agenda, Sub Tutela Dei, cioè sotto la tutela di Dio.

La memoria di Rosario Livatino è tenuta viva non solo dall’Associazione ma anche da targhe, aule di tribunali, vie e piazze di alcune città italiane a lui intitolate.

Tra gli scritti che lo riguardano vorrei ricordare "Il piccolo giudice. Fede e Giustizia in Rosario Livatino" di Ida Abate (sua professoressa al liceo) e "Il giudice ragazzino" di Nando Dalla Chiesa, dal quale è stato tratto l’omonimo film di Alessandro Di Robilant con Giulio Scarpati e Sabrina Ferilli.

Rosario Livatino non era un cattolico bigotto ed ipocrita, ma era un cattolico che viveva la sua fede in maniera interiore e consapevole, testimoniandola con i fatti e con la vita di tutti i giorni.

LO SCOMODO «GIUDICE RAGAZZINO» CHE AVEVA INFASTIDITO COSSIGA UCCISO DALLA MASSOMAFIA.

Era il 21 settembre 1990, quando venne vigliaccamente trucidato con la complicità delle massime cariche dello Stato, giù nel vallone, braccato come un animale ferito, dai sicari della «massomafia», contro la quale aveva diretto sagacemente la sua azione, attraverso mirate indagini patrimoniali,  scoperchiando una vera e propria Tangentopoli, su cui prima per decenni la Procura di Agrigento aveva chiuso entrambi gli occhi, scrive Pietro Palau Giovannetti su “Avvocati senza frontiera”.   

“Giudice ragazzino”. Così l’aveva ingenerosamente battezzato l’ex Presidente della Repubblica, Cossiga, vicino ai poteri occulti, sempre pronto a scendere in campo quando le indagini della magistratura giungevano a toccare il cosiddetto «quarto livello», cioè quello dell’intreccio, tra mafia, politica, affari, massoneria, servizi segreti.  

Questa è la storia quasi dimenticata dell’assassinio rimasto per la magistratura di regime (ma non per noi) “senza movente” del magistrato Rosario Livatino che «giovane» lo era davvero. Due settimane più tardi se non lo avessero eliminato avrebbe compiuto 38 anni.

L’allarmante esternazione proveniente della più alta carica dello Stato non era certo un complimento.

“Possiamo continuare con questo tabù, che poi significa che ogni ragazzino che ha vinto il concorso ritiene di dover esercitare l’azione penale a diritto e a rovescio, come gli pare e gli piace, senza rispondere a nessuno?

Non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto il concorso di diritto romano, sia in grado di condurre indagini complesse contro la mafia e il traffico di droga. Questa è un’autentica sciocchezza! A questo ragazzino io non gli affiderei nemmeno l’amministrazione di una casa terrena, come si dice in Sardegna, una casa a un piano con una sola finestra, che è anche la porta”. Parola di Cossiga.

Parole offensive, ingiustificate, sprezzanti.

Come altrettanto offensive e sprezzanti saranno quelle poi pronunciate dallo stesso Cossiga contro il Procuratore di Palmi, Agostino Cordova, che “ragazzino” non era, ma aveva avuto anche lui il torto di indagare sui santuari delle massomafie.

Affermazioni volte ad intimidire, delegittimare e scavare intorno a quei magistrati scomodi, a quegli uomini delle istituzioni che non piegano la testa, una trincea sempre più incolmabile di isolamento, solitudine e discredito.

Rosario Livatino era un servitore fedele, silenzioso e infaticabile della giustizia, un vero uomo delle istituzioni, come ce ne sono stati pochi, di cui tutti gli italiani sono fieri e sarebbero felici se gli altri magistrati silenti ne seguissero l’esempio. Alle pubbliche dichiarazioni preferiva il quotidiano scrupoloso impegno, senza risparmare la propria vita, spesso lavorando sino a notte fonda, con spirito di abnegazione. Insomma, un magistrato che interpretava le sue alte funzioni istituzionali in senso autenticamente nobile e con vero spirito di missione. Generoso di cuore e ferventemente religioso si prodigava come lui stesso affermava con orgoglio per “dare alla legge un’anima“. Si perché la giustizia che tutti ben conosciamo un’anima non l’ha mai avuta. Questo doveva essere secondo Livatino il primario compito del giudice: dare un volto umano all’astratto comando della legge.

Venne invece ucciso la mattina del 21 settembre 1990 sulla superstrada Canicattì-Agrigento, lasciato solo dallo Stato, dai colleghi e dalla Chiesa, che oggi propone di avviarne il processo canonico di «beatificazione».

Da morto si sa anche chi era scomodo può venire eletto santo. Anzi conviene a tutti. 

 Specialmente allo Stato massomafioso che può bere il sangue delle proprie vittime e cibarsi della loro gloria.  

Come affermava lo stesso Livatino: “Il sommo atto di giustizia è necessariamente sommo atto di amore se è giustizia vera, e viceversa se è amore autentico”. Diversamente è menzogna, come lo sono per lo più le celebrazioni che provengono da ogni psrte, in occasione dell’Anniversario della sua morte, senza che nessuno si preoccupi di scavare le cause e i veri mandanti rimasti occulti del vile omicidio.

Il giudice Rosario Livatino venne ufficialmente ucciso, mentre si recava, senza scorta, in tribunale, per mano di quattro sicari assoldati dalla Stidda agrigentina, organizzazione mafiosa in contrasto con Cosa Nostra.

LA STORIA UFFICIALE.

Gli atti affermano che Livatino venne ucciso dagli ‘stiddari’ ”per lanciare un segnale di potenza militare verso Cosa nostra” e per punire un magistrato severo ed imparziale. Come esecutori dell’omicidio sono stati individuati Paolo Amico, Domenico Pace, Giovanni Avarello e Gaetano Puzzangaro, tutti condannati all’ ergastolo con sentenza definitiva. I componenti del commando sono stati individuati grazie al testimone Pietro Ivano Nava, di Sesto San Giovanni, che sopraggiunse poco dopo e vide atterrito la disperata fuga a piedi del giudice nella campagna dove uno dei sicari lo raggiunse sparandogli ancora a bruciapelo gli ultimi quattro colpi in testa. Il 16 ottobre 2001 la Cassazione ha confermato la condanna all’ergastolo per Salvatore Gallea e Salvatore Calafato accusati di essere i mandanti dell’omicidio. Secondo la sentenza, Livatino venne ucciso perché ”perseguiva le cosche mafiose impedendone l’attività criminale, laddove si sarebbe preteso un trattamento lassista, cioé una gestione giudiziaria se non compiacente, almeno, pur inconsapevolmente, debole, che è poi quella non rara che ha consentito la proliferazione, il rafforzamento e l’espansione della mafia”.

LE VERITA’ INESPLORATE.

Invero, il giudice ragazzino di Agrigento si era messo in testa di sgominare i clan della provincia, dove operava lo Zar degli appalti, il mafioso Filippo Salamone, fratello del P.M. Fabio Salamone, all’epeca applicato presso la stessa Procura nissena, che avrebbe dovuto contrastare le attività della «cupola» che gestiva i grandi affari isolani, facente riferimento al fratello ingegnere, titolare della società «Impresem», indicato dallo stesso Totò Riina, come anche confermato dai pentiti Siino e Brusca, quale unico manipolatore degli appalti, compresi quelli superiori a 5 miliardi di lire, in rappresentanza di imprenditori e politici.   

Livatino che aveva concentrato la sua azione sul nodo «mafia-politica» voleva colpire duro, partendo dal sequestro dei patrimoni illeciti, tanto da avere passato ai raggi X i beni del Clan Ferro e Petruzzella, proponendo misure di prevenzione personali e patrimoniali per i capi-cosca ed i loro picciotti. La storia di Livatino - scrive di lui il sociologo Nando Dalla Chiesa – da quando nella primavera del 1979 giunge alla procura di Agrigento - è concentrare le sue indagini sugli interessi economici della mafia, dall’azione contro le “famiglie” in guerra a Palma di Montechiaro, sino alla scoperta e alla denuncia del cosiddetto intreccio tra mafia e affari, ricostruito all’interno del “regime della corruzione”, «che con il sistema mafioso condivide l’ambiguità e la doppiezza dei comportamenti, la convinzione strumentale che “sia tutto giusto e lecito, moralmente, politicamente, ciò che non è perseguibile penalmente». In questo senso, secondo Dalla Chiesa e Arlacchi lo scopo di Livatino è di riuscire a rimuovere gli ostacoli politici-istituzionali all’azione giudiziaria. «Quella del giudice ragazzino è la testimonianza di una battaglia coraggiosa contro la mafia ma anche in difesa dell’indipendenza dei magistrati». ["Il giudice ragazzino. Storia di Rosario Livatino assassinato dalla mafia sotto il regime della corruzione", Einaudi, Gli struzzi, 2002].

E’ inutile ribadire a riguardo che l’incisività senza precedenti dell’azione investigativa e l’integrità morale del giovane P.M. si scontravano in maniera insanabile con l’ambiente giudiziario locale, portato consuetudinariamente ad insabbiare ogni inchiesta riguardante mafia-politica-appalti. Ragione che avrebbe potuto far maturare la decisione di eliminarlo all’interno degli stessi ambienti della locale procura onde mantenere inalterato il controllo del territorio.  Basterà dire, come poi più tardi osserverà lo stesso nuovo Procuratore Miccichè che, fino al 1992, cioè due anni dopo l’uccisione di Livatino, di inchieste contro la Pubblica Amministrazione ad Agrigento se ne fecero in tutto solo una ventina, salendo a ben 500, nel solo 1993 … !  

Le cause della morte di Livatino vanno quindi ricercate nella tangentopoli che verrà poi scoperchiata nella valle dei templi e nell’isola siciliana, dopo le stragi di Capaci e Via D’Amelio, in cui perirono Falcone, Borsellino e relative scorte, dove oltre ai templi di Zeus, Giunone ed Eracle, sono rimasti intatti quelli delle logge massoniche, che per decenni hanno garantito impunità alle attività delle organizzazioni criminali e alla ”famiglia” di Filippo Salamone, l’«acchiappatutto isolano», definito con l’altro Salamone magistrato: «i fratelli più potenti della città».

Grazie alle nuove strategie introdotte dal giovane Livatino, volte ad individuare i percorsi dei patrimoni illeciti accumulati dalla mafia e allo sviluppo delle sue intuizioni investigative, sulle cui orme procedettero Falcone e Borsellino, i due grandi magistrati, prima di venire a loro volta trucidati, riuscirono a portare alla luce i collegamenti con le massomafie del nord, il finanziamento illecito dei partiti e il riciclaggio dei proventi del narcotraffico nelle banche svizzere.

Dopo la loro morte, Filippo Salamone venne arrestato per ordine della Procura di Palermo con l’accusa di concorso in associazione mafiosa, eppoi condannato a sei anni di reclusione, confermati nel 2008 dalla V sezione penale della Corte di Cassazione. L’ordine di cattura venne emesso nell’ambito dell’inchiesta «mafia e appalti ter», scaturita dalle dichiarazioni di Angelo Siino, in cui furono chiesti gli arresti di altre 9 persone, tra cui l’amministratore della Calcestruzzi spa del Gruppo Ferruzzi, Lorenzo Panzavolta, già coinvolto nelle inchieste del pool di Milano, e gli imprenditori siciliani Sebastiano Crivello e Giuseppe Bondi; l’imprenditore palermitano Antonino Buscemi, l’ingegnere palermitano Giovanni Bini, collegato a Buscemi, rappresentante del finanziere Raul Gardini e collettore della cosiddetta «tassa Riina», cioè della parte di tangente che toccava alla mafia, dopo che venne deciso di sbarazzarsi di Siino; gli imprenditori agrigentini Giovanni Miccichè, socio di Salamone, e Antonio Vita che regolarmente si aggiudicava appalti pubblici pilotati dal comitato d’affari gestito da Buscemi e Bini e in precedenza da Siino.  L’imprenditore Salamone era già stato in precedenza arrestato nel 1993 e condannato ad un anno e tre mesi per «concussione».

A riguardo, Siino ha dichiarato che alla fine degli anni ’80: «esisteva un gruppo di interessi, che aveva il 90 per cento del controllo dei grandi appalti in Sicilia, facente capo all’ex presidente della Regione siciliana, Rino Nicolosi, all’ex ministro Calogero Mannino, a Salvatore Sciangula (politico democristiano indicato come colui che avrebbe favorito l’ascesa delle imprese del cognato Salamone), a Salamone e Vita», e inoltre che «esisteva un accordo tra Antonino Buscemi e il Gruppo Ferruzzi, tramite Lorenzo Panzavolta». Dopo una riunione avvenuta nel 1988 negli uffici della Calcestruzzi, presenti Salamone, Bini e Buscemi, per decidere il nuovo sistema di controllo degli appalti, venne deciso che a quest’ultimo sarebbero toccati soltanto gli appalti di importo inferiore ai 5 miliardi. Degli altri si sarebbe dovuto interessare Salamone divenendo così, secondo l’accusa, «perno di quel sistema». Circostanze poi praticamente in toto confermate dalla condanna definitiva della Corte di Cassazione.

Può essere che Livatino avesse intuito già dal 1990 questo sistema corruttivo interno alla Procura di Agrigento dove operava e si apprestasse a farlo saltare…? 

E’ la risposta che aspettiamo potere presto ricevere dalla parte sana della magistratura e delle Autorità dello Stato, magari anche con l’aiuto della Chiesa e delle Associazioni antimafia, sempre pronte a ricordare con arrendovole mestizia la memoria dei martiri della giustizia e a inscenare solenni celebrazioni, fiaccolate, dibattiti e manifestazioni di piazza, ma senza mai impegnarsi con la dovuta determinazione sul terreno della denuncia dei poteri forti e della ricostruzione storica dei fatti. Fedeltà ricostruttiva che, come la storia insegna, al di là delle monche ipocrite false verità giudiziarie, è sempre la Società civile nel suo insieme a riuscire a portare alla luce, rivelando le verità nascoste dal potere, attraverso il generoso sforzo e incessante impegno di uomini liberi, privi di collari ideologici e padrini politici. Solo così si potrà veramente rendere giustizia a Rosario Livatino e ai tanti magistrati e fedeli servitori dello Stato, beatificandone veramante la memoria. 

“Il mondo di oggi ha bisogno di persone che abbiano amore

e lottino per la vita almeno con la stessa intensità

con cui altri si battono per la distruzione e la morte”.

Gandhi

AGRIGENTO E LA MASSONERIA.

Massoneria, i nomi dei "fratelli" agrigentini: Ex assessori comunali, un sindaco, ex parlamentari, medici, avvocati, ingegneri e docenti sono gli agrigentini componenti della lista Cordova della Massoneria. Il giornalista del quotidiano "La Sicilia" Fabio Russello ha reso pubblici i nomi di tutti gli oltre 300 iscritti della città dei templi e della provincia.“

"Massoneria: Vi spiego come funziona". Intervista Esclusiva a Luigi Pruneti, Gran Maestro della Gran Loggia d'Italia. Articolo del Settimanale Il Fatto Popolare Numero 6 del 28/09/2012.

Intervista DI Calogero Parlapiano esclusiva a Luigi Pruneti, Gran Maestro della Gran Loggia d’Italia che ci spiega com’è possibile accedere alla Comunione, ci parla delle commistioni tra massoneria, politica e inchieste giudiziarie e fa luce sulle Logge presenti a Sciacca e in provincia di Agrigento. Un mistero che continua da decenni...

Luigi Pruneti è il Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro della Gran Loggia d’Italia degli Antichi Liberi Accettati Muratori Obbedienza di Piazza del Gesù Palazzo Vitelleschi, riconfermato per la seconda volta a guida della Comunione.

E’ saggista, scrittore e docente di discipline umanistiche, nato a Firenze nel 1948, quarant’anni dopo la fondazione della Gran Loggia d’Italia.

Più che dalle numerose alte cariche ricoperte, la sua esperienza iniziatica è attestata dalla pubblicazione di libri e saggi sulla Tradizione, sulla storia della massoneria e del Rito Scozzese Antico ed Accettato. La concreta presenza nel mondo della cultura lo qualifica come umanista, storico della massoneria nonché poligrafo e giornalista dai molteplici interessi.

Dopo la curiosità e il successo riscontrato dall’articolo “Mistero Massoneria a Sciacca” pubblicato nel Numero 4 del Settimanale Il Fatto Popolare del 14/09/2012, abbiamo voluto approfondire l’argomento intervistando la guida nazionale di una delle più numerose Comunioni massoniche d’Italia. Pruneti non si è sottratto ad alcuna domanda, dipanando le nubi su alcune tematiche e mantenendo un po’ di mistero su alcune altre.

Una cosa è certa: ha confermato la presenza massiccia e radicata della Massoneria a Sciacca e in generale in provincia di Agrigento e in Sicilia. Logge nascoste, invisibili, con iscrizioni in aumento, con riunioni frequenti e partecipate, che contribuiscono a incentivare e custodire un segreto celato ormai da decenni.

Cosa cercano i massoni a Sciacca e nel territorio limitrofo? Quali sono i rapporti con il mondo della politica e della finanza? Quali messaggi si nascondono dietro la simbologia ufficiale dell’Obbedienza? Ecco cosa ci racconta in esclusiva il professore Luigi Pruneti, massone da 38 anni.

INTERVISTA AL GRAN MAESTRO DELLA GRAN LOGGIA D’ITALIA LUIGI PRUNETI

Maestro, quanti sono gli iscritti alla vostra Comunione in Sicilia e in provincia di Agrigento?

Abbiamo circa 700 iscritti che appartengono alla nostra Famiglia, contiamo 43 logge diverse in tutta la Sicilia, molte presenti in provincia di Agrigento e in diverse città per noi importanti come: Palermo, Ribera, Castelvetrano, Sambuca, Sciacca, Carini e Agrigento. Ogni loggia prende un nome diverso, ma sono tutte riconducibili all’unica grande Comunione. Ogni loggia inoltre ha un numero distintivo, unico in tutta la Provincia. La maggior parte sono intitolate a Garibaldi, a Carducci o a figure mitologiche. A Sciacca ci sono tre logge appartenenti alla nostra Comunione: la “Franco Franchi”, la “Kronion” e la “Saverio Friscia”.

Cosa spinge una persona ad iscriversi alla Massoneria? Le logge sono aperte anche alle donne?

Molti decidono di associarsi per il desiderio di vivere una esperienza diversa, mettersi in discussione, la Massoneria crea infatti condizioni spronanti dal punto di vista intellettuale e umano. Le logge della nostra Comunione sono aperte alle donne dal 1956, sono le cosiddette logge miste. Le prime 3 logge miste appartenenti alla nostra Obbedienza sono nate a Napoli, Firenze e Roma. Le donne spesso rappresentano il 30% degli iscritti e il dato è in aumento, ma non esistono da noi logge soltanto femminili. La presenza delle donne in massoneria comunque varia da regione a regione: al sud ce ne sono parecchie.

Spesso si è abituati a pensare alla Massoneria come ad una congrega costituita per lo più da persone avanti con l’età. Invece sono molti i giovani che si avvicinano. E’ vero?

Si, è vero. Ci sono tanti giovani tra gli iscritti. L’età anagrafica della Comunione infatti sta diminuendo, la Gran Loggia d’Italia è tra le più giovani tra quelle in Europa. Abbiamo tantissimi under 35 e under 40. Un tempo invece, quando mi sono iscritto io, la Massoneria era formata maggiormente da persone più avanti con l’età.

Parliamo un po’ della sua esperienza. Quando ha cominciato ad avvicinarsi alla Massoneria e perché?

Io ho iniziato nel 1974 a Firenze. Sono stato avvicinato da alcuni amici che mi hanno offerto questa opportunità. Ero incuriosito, conoscevo la Massoneria soltanto dagli studi liceali e universitari. Fu interessante avere l’occasione di conoscerla da vicino, mi piacque subito. Entrai nella Comunione con gli occhi sbarrati, all’inizio infatti capivo ben poco di quello che accadeva intorno a me, l’ambientazione durò un paio di anni. Poi si cominciò a creare l’amicizia con gli altri Fratelli. Ho trovato ambienti stimolanti, riflessioni interessanti, ho scoperto i vari lati del poliedro complesso. Penso che la Massoneria è come la musica: più la conosci e più la ami.

Maestro, comunque l’immaginario che un po’ tutti hanno della Massoneria  è negativo, misterioso. Probabilmente anche a causa della cinematografia o di alcune inchieste giudiziarie importanti?

Si, purtroppo lo devo confermare. L’immaginario collettivo è molto negativo, l’opinione pubblica storce la bocca su di noi, le polemiche vanno avanti da secoli, sin dal 1738 data della Bolla di Scomunica Clementina. Molti film hanno lanciato messaggi negativi sulla Massoneria, basti pensare a “Un Borghese piccolo piccolo”, oppure al film “La vera storia di Jack lo Squartatore”. All’influenza negativa hanno contribuito anche le inchieste giudiziarie. Le principali sono state due: quella del 1982 con la P2 di Licio Gelli e quella del 1992 portata avanti dal Procuratore Agostino Cordova, la cosiddetta “inchiesta di Palmi” sulla massoneria deviata.

L’inchiesta sulla P2 non riguarda la nostra Comunione perché la P2 di Licio Gelli era una loggia appartenente al Grande Oriente d’Italia. La concezione negativa che ha causato questa loggia ha influenzato l’intera Obbedienza, pure quelle logge come la nostra che non centravano nulla con loro. L’altra inchiesta invece, quella di Palmi, si è chiusa nel 2000 con un nulla di fatto, l’archiviazione e nessun reato trovato. Fu, a mio parere, una vera persecuzione politica.

A tal riguardo, l’inchiesta di Palmi intendeva dimostrare gli intrecci tra poteri occulti: apparati dello Stato, Alta Finanza, mafia e Massoneria. Si parla spesso della commistione tra Massoneria e Politica. Lei cosa ne pensa?

Si, se ne parla spesso. L’opinione pubblica pensa che tutti i politici abbiamo a che fare con la Massoneria. Appena sullo scenario nazionale si affaccia un nuovo politico lo si collega subito alla massoneria e a teoriche sue ingerenze. Anche del premier Mario Monti ho letto tante volte che possa essere un massone, ma non è assolutamente vero. Tutto ciò che è nuovo o difforme dal consueto lo si definisce e pensa “massone”. Io posso parlare per la Gran Loggia d’Italia di cui sono Gran Maestro. La nostra Comunione è estranea alla politica. Ciò non toglie che magari altre Comunioni possano avere dei collegamenti con quel mondo. La politica a mio avviso dovrebbe essere fatta soltanto dai partiti politici, la Massoneria dovrebbe starne fuori.

Com’è possibile entrare in Massoneria o iscriversi alla sua Comunione?

Non è difficile. C’è il metodo classico dell’avvicinamento dove qualche Fratello ti invita ad entrare nella famiglia. Al giorno d’oggi il metodo più utilizzato è internet. Basta contattarci anche via

e-mail. Tutti i giorni ci arrivano 20-30 richieste di informazioni. Coloro che si dimostrano più interessati li mettiamo in contatto con un rappresentante presente in loco, il più vicino a dove si trova il richiedente. Quindi nessun segreto, né mistero su questo.

Ma quali sono gli obbiettivi della Massoneria? Quali i progetti? Di cosa si discute nelle riunioni?

Esiste un progetto strategico generale, ossia il miglioramento dell’uomo, che deve divenire un soggetto davvero libero in grado di giudicare in modo indipendente, senza farsi influenzare dagli altri. Tutti gli uomini si illudono di essere liberi, siamo tutti condizionati. Il messaggio è appunto quello di stare attento, valutare, ascoltare tutti ma poi giudicare in maniera autonoma. E’ un progetto di conoscenza e coscienza. La conoscenza porta alla coscienza, per giungere alla libertà. Ciò mi rimanda ad una frase di Giovanni: “La verità e la libertà si identificano”. E’ dunque un metodo che si svolge all’interno delle sue riunioni. Oltre al progetto generale, ci sono poi i progetti da svolgere con l’esterno perché la Massoneria vive con la società e nella società. Lo scopo dei progetti con l’esterno è quello di far conoscere meglio se stessa, sfatare i tabù negativi che la riguardano, promuovere la cultura. Solo un mondo dove vince la conoscenza è capace di scegliere davvero, l’uomo dev’essere conscio di sé e deve promuovere la libertà dei singoli. Inoltre facciamo tanta solidarietà in maniera non eclatante ma costante. La solidarietà tra gli uomini è un Valore con la V maiuscola senza la quale non possiamo prescindere.

Ma svolgere questi progetti con l’esterno significa probabilmente rivelarsi come massone e togliere quell’aura di segretezza che annebbia riunioni, logge e comunioni.

Mettiamola così. Ogni massone può palesare se stesso, può affiggere i simboli sui propri indumenti, può parlare di massoneria, ma non può comunicare all’esterno i nomi di altri appartenenti. E’ anche una questione di riservatezza personale. E’ il singolo che deve palesare la propria obbedienza, ma non quella degli altri.

Lei ha appena fatto accenno ai simboli e alla simbologia. Quali sono quelli più in uso tra le varie logge?

Abbiamo una vera e propria enciclopedia di simboli. I più comuni sono quelli derivati dal mondo del lavoro, delle corporazioni e degli antichi e liberi costruttori di Cattedrali: abbiamo la squadra simbolo di rettitudine, il compasso sinonimo di intelligenza, la livella, il filo a piombo, la pietra cubica, lo scalpello, il mazzuolo. Ci sono altri simboli cosiddetti ancestrali come il sole, la luna, la volta stellata, il Nodo di Salomone, la stella a cinque punte. Infine c’è tutta una iconografia proveniente dal mondo vegetale e animale: l’alloro, l’olivo, l’acacia, in America le logge usano molto il sicomoro. Come simboli animali invece troviamo: il pellicano simbolo di altruismo, la Fenice l’uccello che non muore mai, l’aquila che volando in alto ha una visione globale di tutte le cose. Un altro simbolo molto importante sono le Colonne del Tempio.

MAFIA E MASSONERIA.

La mafia nella Provincia di Agrigento continua ad avere non solo potere, ma anche un certo appeal nella società, tanto che per Salvatore Vella, pm della Procura agrigentina, cosa nostra, pur con la pesante presenza di Matteo Messina Denaro, potrebbe avere una sorta di predilezione per la provincia proprio per la modalità con la quale l’organizzazione criminale viene interpretata e vissuta: un modo arcaico legato alle tradizioni, scrive Giacomo Lanzarone su “Tempi e Terre”. Mafia e Massoneria nell’agrigentino: Pm Salvatore Vella “ai mafiosi interessa farne parte”. Il Gran Maestro Valenti “noi non amiamo i poteri illeciti e occulti” Onore e rispetto non sono solo parole scritte per fare sceneggiature di fiction. Ad Agrigento segnano una cultura radicata nelle diverse stratificazioni sociali e danno fiducia e sicurezza. Il Pubblico Ministero della procura di Agrigento ci racconta che nella zona del Belice, ed in particolare a Menfi, Santa Margherita, Sambuca, la presenza della massoneria è fortissima. Molte le logge attive. In alcune indagini era chiara la voglia di alcuni capi mandamento di entrare in giri che contavano, nella massoneria. Il mafioso, potente già di suo, vuole intraprendere la strada della massoneria per arrivare a persone di un certo spessore che comunque potrebbe raggiungere in qualsiasi modo e momento. Oggi i “miei” mafiosi agrigentini – sottolinea Vella - vogliono entrare all’interno della massoneria per fare i loro affari all’interno del loro territorio d’appartenenza. Ogni mafioso sa che diventare massone o accedere a quegli ambienti può portare potere in più. Così è stato storicamente. I massoni prendono le distanze. E i massoni, ancora scottati dal passato, prendono le distanze da questi possibili “attacchi”, intrecci, coalizioni, compromessi. Ma non è abbastanza. “Siamo l’unica loggia massonica a pensare prima di tutto alla prevenzione. Non solo da attacchi esterni ma anche interni”. A parlare così è il Gran Maestro Gaspare Valenti delegato Magistrale della Gran Loggia D’Italia degli A.L.A.M. (massoneria universale di rito scozzese antico e accettato, obbedienza di Piazza di Gesà Palazzo Vitalleschi) per la Regione massonica Sicilia. “La nostra obbedienza ha intrapreso l’argomento ‘trasparenza’ perché non abbiamo nulla da nascondere, al di là di quelle che sono delle caratteristiche rituali che non possono essere comprese se non vengono vissute”. Si inizia dal principio quando “un soggetto ritenuto sano, di buoni costumi, serio e di buona condotta viene individuato e avvicinato da un fratello e viene avvicinato” – spiega il delegato magistrale della Sicilia – “si procede a verificare se quella persona ha le caratteristiche ricettive. Poi la loggia procede a prendere informazioni sul suo conto. Informazioni relativamente alla sua condotta, le sue frequentazioni ecc. Se le notizie sono positive, i fratelli, a sua insaputa, iniziano a votarlo. Lo scrutinio è segreto. Sono sufficienti 2 palline nere per sospendere la votazione. Se le palline nere, invece, sono tre, la persona avvicinata non può far parte della loggia né in quel momento, né mai”. – sottolinea Valenti – “Se la votazione è contraria è invece solamente una, allora è possibile discutere. Il fratello che ha votato “pallina nera” ha l’obbligo di rivolgersi al Maestro Venerabile e spiegare i motivi per i quali il soggetto in esame, secondo lui, non è idoneo. Qualora le motivazioni fossero valide, il Maestro Venerabile ritira la sua candidatura ma se le obiezioni non trovano riscontri nella realtà, allora si procede. Si avvicina la persona e si chiede se è interessato a far parte della massoneria. In caso di risposta affermativa, l’eletto dovrà presentare alla loggi che lo ha “intercettato” una serie di documenti: copia del titolo di studio, 4 fototessere, certificato casellario, certificato di pendenti penali e, se appartenente ad un’altra loggia, anche il nulla osta della loggia d’appartenenza. Ci siamo resi conto, io mi sono reso conto – dice a denti stretti il delegato – che i certificati di cariche pendenti non sono sufficienti. Ho cercato di interessare tutti i Maestri venerabili della Provincia di Agrigento e non solo,, per infittire e ampliare le informazioni relativamente alla persona “sottoprocesso” attivando vari canali per salvaguardare la loggia ed il buon nome della massoneria. Successivamente è il nostro impegno che dovrebbe continuare a tutelarci. Uno dei giuramenti che facciamo recita “Dichiaro di mantenermi sempre onesto, benemerito cittadino, osservante delle leggi dello Stato”. Chi non crede a questi principi non è massone. Il massone giura fin dall’inizio di essere “uomo onesto e probo” ma nel momento in cui smette di essere onesto, cessa automaticamente di essere massone. Chi crede che massoneria equivale a potere, sbaglia. Noi siamo un servizio per l’uomo e per la società nella misura in cui il nostro fine è cambiare l’uomo per cambiare il mondo. Ed è proprio questa società, a secco di valori, che trova nelle finalità massoniche ciò che altrove manca. Valenti precisa che “la massoneria non è un club. Non si occupa di politica o di programmi politici. La massoneria ha capito che sel ‘uomo non cambia, se non si impone la correttezza o l’onestà, la società civile non cambia”. Riti e ritualità, simboli e simbolismi sono alla base dei progetti “architettonici” dei massoni. Progetti per cambiare l’uomo e il mondo in libertà attraverso “il nostro lavoro. Nei nostri templi non giochiamo –spiega Valenti-. Ci riuniamo almeno due volte al mese e ci affidiamo ai nostri lavori rituali, un lavoro, il nostro, che discende da una tradizione iniziatica plurimillenaria. I muratori, i veri e liberi muratori, i costruttori di cattedrali, (muratori operativi che si trasformano anche in speculatori dando accesso ai filosofi e pensatori) hanno ereditato la tradizione esoterica presente da sempre. Una tradizione tramandata attraverso il rito. Simboli e ritualità che osserviamo nei nostri lavori di loggia. Il rito, infatti, non è altro che il simbolo di azione. Il simbolo è il linguaggio, in quanto esiste da quando è nato l’uomo, da quando lui ha iniziato ad incidere sulla pietra qualsiasi forma e quindi creare e comunicare. Il simbolo della massoneria – spiega il venerabile regionale- parla all’uomo in maniera diversa perché parla al quasi magica. Chi ha una tradizione esoterica creerà un rapporto diretto con il simbolo. Una relazione unica. I simboli iniziatici presenti nei nostri Templi, nel nostro muoverci, nel nostro modo di comunicare, nelle nostre “tornate” trasferiscono delle verità irrazionali. Le stesse, ci aiutano comprendere la tradizione iniziatica. È questo che ci aiuta a diventare degli uomini migliori. Un viaggio spirituale che non tutti sono in grado di capire, percorrere, interpretare. È così che noi cambiamo l’uomo. Se l’uomo non cambia, è solo parvenza, esteriorità”.

MAFIA E CHIESA.

Era un Mafioso, niente funerale. Monsignor Francesco Montenegro vieta le esequie di Giuseppe Lo Mascolo, arrestato pochi giorni prima di morire con l'accusa di essere il boss di Cosa nostra a Siculiana: "L'unico modo per imbavagliare la mafia è rifiutare i compromessi", scrive Giuseppe Pipitone su “Il Fatto Quotidiano”.

Nella chiesa del Santissimo Crocifisso di Siculiana (Agrigento) era già  tutto pronto per i funerali di Giuseppe Lo Mascolo, ultrasettantenne deceduto due giorni prima a causa di un ictus. Il parroco don Leopoldo Argento però ha dovuto fermare la funzione: niente esequie per Lo Mascolo, ma soltanto una preghiera e la benedizione della salma. Il motivo? Lo Mascolo era considerato il nuovo boss mafioso di Siculiana, e l’ordine della Curia è stato netto: nessun funerale in chiesa per boss e presunti tali. Arrestato solo pochi giorni prima di morire nell’operazione della polizia “Nuova Cupola”, per gli inquirenti  Lo Mascolo era infatti uno dei personaggi più importanti della cosca, secondo soltanto ad Antonino Gagliano, il presunto capo mandamento della zona.

In passato il piccolo comune aveva guadagnato le pagine dei giornali a causa di boss mafiosi come Pasquale Cuntrera e Gerlando Caruana, diventati i principali gestori del narcotraffico su scala mondiale. Oggi invece Siculiana celebra la storica scelta di monsignor Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento e presidente della commissione episcopale della Cei, che vietando le esequie religiose per un boss mafioso crea di fatto un importante precedente. 

Per la verità non è la prima volta che il presule della città dei templi prende posizione contro Cosa Nostra. “L’unico modo per imbavagliare la mafia è  fare sul serio, amare e cercare la verità e il bene, rifiutare la mediocrità, i compromessi e il conformismo. Se la mafia c’è è anche colpa nostra” aveva detto monsignor Montenegro durante i festeggiamenti in onore di San Calogero, il santo patrono. “La mafia deve essere combattuta a partire dalle feste religiose, momento storicamente molto caro ai boss di provincia” è invece il commento del sacerdote Carmelo Petrone, direttore del settimanale diocesano L’amico del Popolo.

Parole lontane anni luce dall’atteggiamento tenuto negli anni ’60 dal cardinale di Palermo Ernesto Ruffini.  “Che cos’è la mafia? Forse una marca di detersivi?” scherzava Ruffini con i giornalisti. I rivoli della storia di Cosa nostra raccontano infatti di un atteggiamento per nulla ostile tenuto da alcuni ministri del culto nei confronti di importanti boss mafiosi.

Il caso più famoso è forse quello di padre Agostino Coppola, parroco di Carini e nipote del boss italo americano “Frank Tre Dita” Coppola. Il sacerdote fu arrestato nel 1976 perché sarebbe stato complice del boss Luciano Liggio, che in quegli anni si dedicava con profitto ai sequestri di persona. In alcuni casi sarebbe stato padre Coppola a recarsi dalle famiglie dei sequestrati per riscuotere il riscatto. “Agostino Coppola è mafioso, è stato punto, è organico a Cosa nostra e fa parte della famiglia di Partinico” raccontò il pentito Antonino Calderone a Giovanni Falcone. Secondo alcuni fu proprio il parroco di Carini a celebrare il matrimonio segreto di Totò Riina con la sua Ninetta Bagarella.

L’ombra di Cosa Nostra si allungò in passato anche su monsignor Salvatore Cassisa, arcivescovo di Monreale, accusato a più riprese di collusione mafiosa e appropriazione indebita e poi sempre assolto. Cassisa, priore dell’Ordine dei cavalieri del Santo Sepolcro di Gerusalemme, era in stretto contatto con il conte Arturo Cassina, il re degli appalti nella Palermo di Salvo Lima e Vito Ciancimino. Alla fine degli anni ’80 cercò di pressare il neosindaco di Palermo Leoluca Orlando per liquidare in tempi brevi alcuni crediti miliardari alle ditte di Cassina. Orlando si rifiutò nettamente. E Cassisa per tutta risposta gli tolse il saluto.

Un netto taglio con il passato avvenne sicuramente il 9 maggio del 1993. “Mafiosi pentitevi, verrà il giorno del giudizio di Dio” fu il monito pronunciato da papa Giovanni Paolo II nella  valle dei templi di Agrigento. Proprio la stessa zona in cui oggi monsignor Montenegro vieta i funerali religiosi per i mafiosi.   

LAMPEDUSA, L'ISOLA DEGLI ABUSI

Lampedusa, l'isola degli abusi edilizi, scrive Riccardo Bocca su “L’Espresso”. La procura di Agrigento ha messo sotto sequestro ville e abitazioni tra cui quella di Claudio Baglioni. Gli indagati sono novanta. Ma nella cosiddetta porta d'Europa, di cui parlano le cronache solo quando avvengono gli sbarchi dei migranti, lo scempio ambientale va avanti ormai da molti anni. Giusi Nicolini si accende una sigaretta. La aspira con voracità fino all'ultimo tiro e subito ne afferra un'altra dal pacchetto. E poi un'altra ancora, senza tregua, mentre racconta delle minacce ricevute negli ultimi tempi. «Su un sito internet di estrema destra», dice l'ambientalista diventata lo scorso maggio sindaco di Lampedusa, «mi hanno definito una "stronza che deve morire", soltanto perché avevo dichiarato che mi rallegro quando approdano i migranti sopravvissuti». Un'altra mano anonima, invece, ha dato fuoco a un barcone utilizzato dai profughi. «E accanto alla carcassa, per rendere ancora più chiaro il messaggio, è stato scritto a caratteri cubitali: "No ai clandestini liberi per l'isola. U capisti?». Doveva servire a scoraggiare questa ex attivista di Legambiente. Invece no: «Non sono affatto spaventata, ma arrabbiata per l'uso strumentale dell'immigrazione che si sta facendo a Lampedusa». Il tentativo scaltro, lo cataloga lei, «di sbandierare un allarme inesistente». Un vero e proprio depistaggio dell'attenzione pubblica, perfetto «per nascondere l'illegalità diffusa sull'isola». Sia chiaro: nessuno, Nicolini compresa, nega che il 2012 sia stato un calvario di sbarchi. «Sono passati dal nostro Centro di accoglienza 3 mila 442 extracomunitari». Ed è una scia impregnata di dolore e morti. Cinque a marzo, per esempio, quando sono stati soccorsi 300 migranti nel Canale di Sicilia. Poi 53 a luglio, uccisi dalla sete dopo una fallita traversata da Tripoli. E avanti così, ora dopo ora, mese dopo mese, con il mare che restituisce a rate i corpi macerati dall'acqua, e la Guardia costiera in perenne allerta. «Sotto i riflettori», dice Nicolini, «c'è il cupo rituale dell'accoglienza, mentre resta nell'ombra l'altro volto di Lampedusa». Quello, per intendersi, di cui è emerso il profilo nel 2009, quando è finito in manette con l'accusa di concussione l'ex sindaco Bernardino De Rubeis. Lo stesso brivido tornato in scena con l'elezione di Nicolini: «Basti dire che, appena mi sono insediata, certe ditte che avevano i cantieri aperti sono sparite. All'improvviso. Abbandonando da un giorno all'altro i lavori in corso. Senza chiarire i motivi della fuga, e senza più farsi sentire». Segnali che rimbombano, ora che l'isola si è svuotata dei turisti. Anzi: dei tanti turisti, visto che nei mesi estivi sono arrivati in aereo 63 mila vacanzieri (l'anno scorso erano stati 55 mila). Adesso è il silenzio a prevalere su tutto, e un senso di vuoto che sottolinea i problemi impellenti. «Che sono tanti, tantissimi», premette il sindaco: «in bilico tra malafede e inefficienza cronica». Si riferisce, dice salendo sulla sua vecchia Panda per un viaggio nell'isola, all'abusivismo edilizio: «moda sempre in auge, a Lampedusa», e rilanciata in questi giorni dai 90 indagati e dalle varie abitazioni finite sotto sequestro nel corso di un'operazione della procura di Agrigento (tra le ville sequestrate c'è quella abitata da Claudio Baglioni). Il piano regolatore, tra l'altro, non c'è. E il bello è che non c'è mai stato. Ci si è accontentati di un cosiddetto "piano di fabbricazione" del 1974, in cui era persino prevista la costruzione di un villaggio Valtur sulla preziosa spiaggia dei Conigli.«Quanto agli uffici tecnici, stendiamo un velo pietoso», dice Nicolini: «Gli isolani onesti hanno chiesto per anni le autorizzazioni a costruire, e gridavano al miracolo quando arrivava una risposta». Risultato, il fai-da-te selvaggio. Un'infilata di case e casupole che cambiano di continuo volumi, occupando sempre più suolo con una facile mossa: «Si perimetra una porzione di terra pubblica accatastando cumuli di pietre», mostra Nicolini alle spalle di Cala Croce, «e in automatico diventa un'area privata». Una carognata, contesta il sindaco. Un atto di egoismo che, alla lunga, umilierà la fama lampedusana di paradiso terrestre. «D'altronde», spiegano in Comune, «i vigili urbani sono giusto sei, mentre la tendenza a farsi gli affari propri marchia qualunque attività quotidiana». Senza imbarazzi. Nemmeno quando s'incontra per strada il primo cittadino. «Buongiorno!», la salutano gli isolani smarmittando senza casco in scooter. Pochi metri più in là, spunta un furgone con una struttura d'acciaio che sporge in modo abnorme dai lati del cassone. Eppure l'autista non si scompone, incrociando il sindaco. Anzi: le fa segno di arretrare, con la sua Panda del cavolo. E quando lei urla che è rischioso, viaggiare così, lui si limita a accelerare, buttando lì un annoiato «U sacciu, u sacciu...». «Ce la farò, prima o poi, a trasformare questa terra in un normale comune d'Italia?», si chiede Nicolini al quarto caffè del mattino in un bar del porto. La risposta è un mistero. Come il blocco di documenti, riferiti ad appalti della precedente gestione, scomparsi dal Comune dopo le elezioni. «Altro caso che dovrebbe scandalizzare la popolazione», dice il sindaco, «e invece insegue polemiche inutili». Come quando i residenti non tollerano i somali ed eritrei del Centro di prima accoglienza, colpevoli di ciondolare annoiati lungo la costa. «Capisco il senso di esasperazione, ma sarebbe il caso di indignarsi, piuttosto, per gli irresponsabili che hanno smaltito amianto dov'è alloggiata la pompa del depuratore». O magari, «di maledire chi ha permesso che le abitazioni costruite negli ultimi trent'anni, in giro per l'isola, «rimanessero senza fognature». La questione essenziale, dice Nicolini, è far capire ai 6 mila lampedusani che le regole «non sono per forza un cappio, ma un'opportunità per generare benessere». E camminando accanto al mare ancora caldo e lucente, malgrado l'autunno inoltrato, l'occhio inciampa sui rifiuti gettati ovunque: quasi l'isola fosse una discarica fuori controllo. Materassi, passeggini, copertoni, biancheria intima a brandelli, bottiglie, balle di cartone, sanitari scaraventati accanto a dove i villeggianti scattano foto ricordo, e dove cani randagi vagano in un puzzo indecente di immondizia. «Uno schifo», scappa di bocca al sindaco. Che nell'elenco delle urgenze, tra l'altro, ha trovato anche la voce "raccolta differenziata": «Al momento arriva soltanto al 6, 04 per cento delle 5 mila tonnellate di rifiuti prodotte ogni anno da Lampedusa (costo di smaltimento previsto, per il 2012, 2 milioni 800 mila euro)». E di questa misera percentuale, il disastro è che«appena lo 0,25 è rappresentato dai rifiuti solidi urbani, mentre il restante sono rifiuti speciali e ingombranti». Non stupisce, quindi, la distesa di sacchi neri che arriva fino alla spiaggia della Guitgia, dove per un decennio Claudio Baglioni ha organizzato la manifestazione musicale 'O Scià. E si capisce pure, in questa confusione esplosiva, perché agli isolani sia scappato da ridere quando Silvio Berlusconi, nel 2011, ha spiegato che la rinascita dell'isola sarebbe passata dalla creazione di un casinò e un campo da golf. «Progetti condivisi dalla giunta De Rubeis», testimonia Nicolini. E comunque folli su un'isola che ha ben altre priorità: «Come garantire ai suoi giovani la normalità scolastica», spiega l'assessore all'Istruzione Antonella Brischetto. Richiesta scontata, in teoria, ma non nei fatti. «Un plesso delle elementari», indica l'assessore in via Maccaferri, «è inagibile da anni». E mentre due classi di bambini sono costrette a studiare dentro agli uffici dell'Enac (l'Ente nazionale per l'aviazione civile, ndr), «gli studenti delle medie fanno il doppio turno pomeridiano nel liceo scientifico, dal momento che la loro sede è altrettanto inagibile». Dopodiché è ovvio che anche i liceali debbano pagare pegno, infatti «nel 2011 hanno frequentato con il doppio turno, e ora patiscono i lavori di ristrutturazione». Per questo, se parli ai lampedusani della villa che Berlusconi sta riadattando a Cala Francese, si scaldano all'istante. «Noi abbiamo l'isola che sta cadendo a pezzi, e quello s'è comprato una casa per farsi pubblicità!», dicono. Che saranno pure parole poco ospitali, ma acquisiscono un senso quando vedi dov'è collocata, la famosa costruzione del signor Mediaset. La struttura, insomma, non è lussuosa come ci si aspetterebbe, è circondata da altre abitazioni, e dà su una spiaggia pubblica dove trionfa il pulmino di "Gerry Fast Food, patatine, panini, crocchette e panelle".«L'opposto di villa Certosa», dice il sindaco. Ma anche, senza allontanarsi troppo, della villa che ha acquistato Domenico Modugno sulla spiaggia dei Conigli, poi ceduta all'ex esponente di Forza Italia Valerio Baldini (scomparso a gennaio) e adesso -dicunt- nel mirino di Paolo Berlusconi. «E' un dato oggettivo», sostiene il sindaco Nicolini, «che una certa politica ha sfruttato la visibilità garantita da Lampedusa e dal suo delicato ruolo di porta sul Mediterraneo». Poco importa, poi, che la Comunità Europea abbia investito 16,7 milioni di euro per costruire il nuovo aeroporto, e non ci sia un volo diretto che d'inverno collega l'isola al resto d'Italia. «Per non dire dei trasferimenti via mare», continua Nicolini, «con una nave che impiega fino a 13 ore per portarci in Sicilia, nonostante la distanza risibile da Porto Empedocle». Tale e tanta è la frustrazione, a Lampedusa, che la gente ferma ogni due passi il sindaco per chiederle aiuto. C'è chi non sa come pagarsi i soggiorni a Palermo per la chemioterapia, dato che sull'isola non esiste l'ospedale ma un poliambulatorio (peraltro in buono stato). C'è chi lamenta la presenza di bancarelle abusive al mercato, e vorrebbe un po' di giustizia. E c'è chi denuncia, a voce alta, lo sciamare per Lampedusa dei tanti extracomunitari, salvo poi apprendere che il signore in questione è stato scoperto a incendiare barconi. «Abbiamo perso il senso del limite», scuote la testa Nicolini. E per dimostrare quanto abbia ragione, ferma la sua auto davanti al cancello del cimitero: «Quello che dovrebbe essere un luogo di pace», e invece è un altra tappa verso l'assurdo. «Non abbiamo ancora il piano dei nuovi loculi. Presto non sapremo più dove seppellire i migranti. E per giunta, ci tocca sopportare le didascalie che De Rubeis ha fatto scrivere sulle tombe. Del tipo:«Immigrato non identificato, 20 anni, etnia africana, colorito nero...». Uno stile che un giovane extracomunitario, spinto dall'amarezza, ha commentato così: «Non sapevo faceste la raccolta differenziata dei morti...». Chissà cosa avrebbe detto, quel ragazzo, se avesse saputo che dove sono sepolte le vittime degli sbarchi, qualcuno ha anche abbattuto una palma storica, pur di fare spazio a un loculo illegale. Della serie: a Lampedusa non ci ferma nessuno. Nemmeno il Padreterno.

PORTO EMPEDOCLE. MAI DIRE MAFIA, MAFIOSI E MAFIOSITA'.

Dove la Giustizia di Stato manca, si ha diritto a farsi giustizia da sè?

Cosa Nostra gli stermina la famiglia e lui si vendica uccidendo i mandanti e gli esecutori. Da 20 anni è un detenuto modello e ora chiede di usufruire della semilibertà.

«Domani, domenica 23 settembre 2012 a ‘Dopo tg5′ in onda su Canale 5 dalle 20,30, si affronta il tema ‘Fine pena mai’ con una mia intervista esclusiva registrata in carcere con Giuseppe Grassonelli, 47 anni, uno dei principali protagonisti della guerra di mafia scoppiata nell’agrigentino tra gli anni 80 e 90. Rimasto ferito nella strage di P.Empedocle del 21.9.1986 in cui vennero uccisi il nonno e lo zio, ha pianificato la sua vendetta eliminando capi di cosa nostra e killer. Da 20 anni è in carcere condannato a più ergastoli, è diventato quello che si dice un detenuto modello. Laureando in filosofia, ha scritto un romanzo potente sulla sua storia che sarà quanto prima pubblicato. Vi invito a non perdervi l’intervista e a riflettere poi su quello che diventa un uomo condannato a morire in galera. Giuseppe Grassonelli non ha mai deciso di collaborare con la giustizia, riconosce i suoi errori, e sta affrontando con dignità la galera. Prima d’ora non aveva mai concesso un’intervista!» E’ un documento eccezionale di cui l’intervista è condotta dal giornalista scrittore agrigentino Carmelo Sardo. L’anticipazione su “Agrigentooggi”.

Su Canale 5 Carmelo Sardo incontra il pluriergastolano di Porto Empedocle, Giuseppe "Pippo" Grassonelli. Carcere e redenzione. "Tema" in onda su Teleacras con Angelo Ruoppolo. Lui è Giuseppe “Pippo” Grassonelli, fotografia all’epoca della guerra di mafia tra Cosa nostra e stidda, decine di morti ammazzati. Oggi Grassonelli ha 47 anni di età, e in carcere lo ha incontrato lui, Carmelo Sardo, giornalista Mediaset e scrittore, agrigentino. Su Canale 5, Grassonelli e Sardo sono protagonisti dello speciale “Fine pena mai”, domenica 23 settembre 2012, ore 20.30. Il carcere come strumento di redenzione e di riabilitazione: oggi Pippo Grassonelli è quasi laureato in filosofia, e nel cassetto della sua cella ha pronto il primo romanzo autobiografico, intitolato “Malerba”, così come è stato inteso lui, da ragazzino, a Porto Empedocle. Carmelo Sardo, a “Tema”, in onda su Teleacras, rievoca il passato, racconta il presente e disegna la speranza di futuro di Pippo Grassonelli, una esistenza non da “Fine pena mai”, dopo più di 20 anni di carcere, di cui 14 al 41 bis, un uomo diverso, tanto da ipotizzare di chiedere al Giudice: “ se lei ritiene che io sia ancora pericoloso per gli altri, allora mi trattenga in carcere, altrimenti…”. A Porto Empedocle, in via Roma, la sera del 21 settembre del 1986, Pippo Grassonelli è vivo miracolosamente, le raffiche di Cosa nostra hanno ucciso suo nonno Giuseppe e suo zio Gigi. Lui medita e pianifica la vendetta. Tanto altro sangue. Poi l’arresto, e poco prima delle manette la sua compagna ha partorito due gemelli, che adesso, a 18 anni di età, lo hanno per la prima volta incontrato in carcere. I figli e la madre vivono in Germania, e il compagno di lei è un amico di Pippo Grassonelli. Il 26 maggio del 2007, il padre di Pippo, lui, Salvatore Grassonelli, anche lui pluriergastolano come il figlio, si è ucciso nel carcere di Secondigliano a Napoli, a 63 anni di età. Carmelo Sardo ricorda il rapporto tra padre e figlio…

A proposito di come si parli di mafia di seguito vi propongo di leggere un articolo di Attilio Bolzoni del 23 gennaio 1987 pubblicato dal quotidiano La Repubblica che parla di arresti, della rivalità tra le famiglie mafiose agrigentine ed empedocline e di miliardi di lire che dovevano arrivare ad Agrigento per costruire dighe, case popolari ed opere importanti. Da leggere.  Agrigento, 23 gennaio 1987. Articolo riportato su “L’Altra Agrigento”. Per cento giorni hanno sguinzagliato i loro più fidati informatori nei vicoli del porto, studiato le mappe e gli organigrammi delle nuove cosche, ascoltato personaggi insospettabili e altri in odore di mafia. Da quella tremenda sera di fine settembre le indagini dei poliziotti e dei magistrati si sono concentrate soltanto su un obiettivo: trovare gli autori della strage di Porto Empedocle. E così ieri tra Agrigento e Bonn è scattato un blitz: nella capitale federale, via-agenzia arriva la notizia che tre uomini, di età compresa tra i 26 e i 42 anni, sono stati arrestati dai funzionari della Interpol. Erano ricercati, tutti e tre, dopo il massacro di Porto Empedocle: si apprende che facevano parte del clan perdente, che ha subito il massacro. Qui ad Agrigento, gli investigatori intanto hanno scoperto una pista che porta forse ai mandanti e agli esecutori materiali della strage: le vittime furono sei uomini, boss, guardaspalle e semplici testimoni, assassinati nel corso principale di Porto Empedocle. Sono tredici gli ordini di cattura, nove gli arresti, un provvedimento giudiziario notificato ad un capoclan in carcere. L'inchiesta comunque è ancora top secret, con voci, smentite, mezze conferme. Per ora tutti gli uomini arrestati in Sicilia sono accusati soltanto di associazione a delinquere di stampo mafioso, accuse, però, scattate nel contesto delle indagini sul massacro di Porto Empedocle. Dalle prime indiscrezioni sembra che tre appartengano al clan dei Messina, la famiglia rivale dei Grassonelli, i bersagli dei killer entrati in azione la sera del 21 settembre del 1986. E, proprio uno dei Messina, Francesco, il più giovane della cosca, ha ricevuto nel carcere agrigentino di San Vito la notifica di un ordine di cattura. Ma tra gli arrestati ci sono anche affiliati alla cosca dei Grassonelli, picciotti e amici delle vittime. Come Calogero Gallo Cassarino, conosciuto nell' Agrigentino con un soprannome: il Professore. Fu arrestato dai carabinieri quarantott'ore dopo la strage di via Roma. Lui sa tutto, ma non parla, raccontarono quel giorno gli ufficiali, è un vero uomo d' onore.... Gli investigatori non dissero nulla e invitarono i cronisti a registrare soltanto le scarne notizie di un mattinale. Due giorni di camera di sicurezza e Calogero Gallo Cassarino è tornato in circolazione. Fino a stanotte. E' il personaggio centrale dell' inchiesta sul massacro. Il boss non vuole svelare i segreti dei suoi nemici? E' un traditore? Gli investigatori mantengono il più stretto riserbo sul Professore e, a tarda sera, hanno fornito l'identità degli altri uomini arrestati: Calogero Lindi e Angelo Falzone di Agrigento, Salvatore e Alfonso Albanese, Giuseppe Traina, Francesco Cozzo, Antonino Prestia, Giovanni Sirone. Nessuna indiscrezione nemmeno dalla Procura della Repubblica, solo un comunicato-stampa del sostituto Roberto Sajeva, il magistrato che ha firmato gli ordini di cattura. Top secret anche sul movente del massacro. Le ipotesi sulla vendetta tra le famiglie Grassonelli e Messina si intrecciano con la pista sugli appalti, quei 1500 miliardi che dovrebbero arrivare da un momento all'altro nella provincia di Agrigento per costruire ponti, acquedotti, case popolari, dighe. Sullo sfondo ci sono anche gli equilibri ai vertici di Cosa nostra, rapporti deteriorati con i gruppi mafiosi più potenti di Palermo e di Trapani, una soffiata per fare arrestare forse un superlatitante del maxiprocesso. Quella di settembre fu una strage annunciata. Dopo una guerra di anni tra i Grassonelli e i Messina, tutti, qui a Porto Empedocle, aspettavano l'esecuzione spettacolare, l'esecuzione davanti a mille testimoni. Un'automobile cabriolet che attraversa via Roma, due uomini che improvvisamente si alzano in piedi, fucili a canne mozze e mitragliette che sparano. Sei morti, centinaia di buchi sui muri dei palazzi, un giovanissimo testimone ucciso solo perchè sedeva accanto al boss Giuseppe Grassonelli. Una strage tra la folla, una strage coperta dall'omertà. La gente non parla, dichiarò quel giorno pure il giudice istruttore Fabio Salamone, il magistrato che per primo ha indagato nei misteri mafiosi della Valle dei Templi costruendo il processo ai boss agrigentini, e non è un caso che nella nostra mafia non abbiamo neppure un pentito... Una mafia che per vent'anni è cresciuta in silenzio, che si è arricchita grazie ai traffici di stupefacenti con il Canada, gli Stati Uniti, il Venezuela, che ha contatti con i capi di Cosa nostra di tutto il mondo. Una mafia forte ma anche divisa nella città di Porto Empedocle: da una parte il vecchio boss Giuseppe Grassonelli e suo figlio Luigi, dall'altra i Messina. Un clan quest'ultimo, decimato a colpi di lupara nei 60 giorni precedenti al massacro di via Roma: quindici agguati, quindici cadaveri.

Qui viene riportato il testo dell'intervista a Giuseppe Grassonelli.

Grassonelli - «Ogni uomo, credo, dovrebbe restituire alla società quanto ha tolto. Certo una restituzione indietro dell’uguale non è possibile, cioè io non posso restituire indietro la vita di un altro, chi vuole questo, anche se sto restituendo la mia vita perché avevo 27 anni quando mi arrestarono. Oggi ne ho 47 e non vedo ancora la luce dentro al tunnel.»

Sardo - «Il suo nome oggi dice poco o niente ma tra la fine degli anni ’80 e gli inizi del ’90 nella Sicilia insanguinata dalle guerre di mafia Giuseppe Grassonelli era uno dei killer più spietati, non un mafioso, non un sicario brezzolato, ma un ragazzo cresciuto in una famiglia trascinata dagli eventi dentro una faida cruenta. C’è una data che segnerà per sempre la sua vita, 21 settembre 1986. Un commando di sicari di cosa nostra quella sera fece una carneficina a colpi di kalashmikov uccidendo 6 persone che prendevano un gelato in un bar di Porto Empedocle. Cominciò così lo sterminio dei Grassonelli, lui, Giuseppe, si salvò per miracolo, rimase ferito ad un piede, aveva solo 20 anni. In quella strage Giuseppe perde due parenti che adorava: il nono paterno e lo zio, Gigi, e capisce che qualcuno vuole morto anche lui.»

Grassonelli - «Sono terrorizzato perché, mi creda, si ha una paura maggiore quando non si conosce il pericolo, quando non si sa chi siano i tuoi nemici. Quindi fuggì, riparai in Germania e da lì quando capì, organizzai, pianificai la mia vendetta.»

Sardo - «Torna in Sicilia e piuttosto che affidarsi allo Stato e denunciare i suoi nemici li uccide ad uno ad uno. Elimina i capi di Cosa nostra della provincia di Agrigento e con una strage altrettanto eclatante ammazza chi aveva ucciso i suoi cari. Spara e ammazza. Il destino di Giuseppe Grassonelli era segnato, o sottoterra o in galera. Lo arrestano quando era diventato appena padre di 2 gemelli e comincia il suo calvario. 15 anni di regime 41 bis, 3 anni di isolamento assoluto».

Grassonelli - «A chi sostiene che la pena di morte in Italia non esista, altrochè se esiste. E questa pena di morte si chiama art. 4 bis. Non è l’ergastolo che io temo.»

Sardo - «Giuseppe Grassonelli sta affrontando con dignità la sua condanna fine pena mai ma ha tenuto duro, ha sopportato il dolore inconsolabile di un padre suicida in carcere. Ora è un uomo vero, è laureando in filosofia, ha scritto un romanzo potente sulla storia in cerca di editore, è quello che si dice un detenuto modello che ora crede nello Stato e nella giustizia.»               

PARLIAMO DI CALTANISSETTA

GIUSTIZIA PER MIRKO RUSSO.

Gela, in carcere 11 anni per due omicidi: assolto dopo 17 anni. Era stato accusato da sette pentiti. Torna libero definitivamente, scrive “Il Corriere della Sera”. Undici anni in carcere per due omicidi che non aveva commesso. Dopo 17 anni di guai giudiziari, diventa definitiva la sentenza di assoluzione per Mirko Eros Felice Turco, 35 anni, di Gela, che dopo essere stato condannato all’ergastolo per due omicidi e aver scontato quasi 11 anni di carcere, adesso è tornato libero. La sentenza è stata emessa dalla Corte d’appello di Messina che ha rigettato il ricorso della procura generale contro la revisione del processo che aveva scagionato Turco. «È finito un lungo calvario. Alla fine è stata fatta giustizia», dice il suo avvocato, Flavio Sinatra. E dopo averlo assistito per 17 anni in diverse aule giudiziarie, «ora sono contento per lui». Turco, vittima di un clamoroso errore giudiziario, condannato all'ergastolo per due omicidi, tra cui quello di un ragazzino, adesso è stato definitivamente prosciolto da ogni accusa, dopo la revisione dei processi. Ma quasi 11 anni della sua vita, li ha trascorsi in carcere da innocente. Anni bui, che adesso può lasciarsi definitivamente alle spalle. «Un incubo». Fu accusato da sette pentiti di aver ucciso, all’età di 17 anni, un sedicenne di Gela, Fortunato Belladonna, il cui corpo venne ritrovato bruciato in un canneto sul lungomare, solamente nel 2008 (due esponenti del clan Emmanuello, Carmelo Massimo Billizzi e Gianluca Gammino, da boss a pentiti, si autoaccusarono del delitto) Turco fu rimesso in libertà. Ora la sua assoluzione è definitiva. Turco era stato ingiustamente accusato anche di un altro omicidio, quello di Orazio Sciascio, un salumiere di 67 anni, ucciso sempre nel ‘98. Nel 2012 si scoprì che anche in qual caso non c’entrava nulla e dopo una prima condanna fu assolto dalla Corte d’appello di Catania. Il salumiere, infatti, era stato ucciso da due mafiosi, Salvatore Rinella e Salvatore Collura, perché non pagava il pizzo.

Gela, giovane assolto dopo 11 anni di carcere: era stato condannato all'ergastolo per due omicidi, scrive “Il Messaggero”. Undici anni in carcere per due omicidi che non aveva commesso. Per Mirko Felice Eros Turco, 35 anni, di Gela, «è finito un lungo calvario. Alla fine è stata fatta giustizia», dice il suo avvocato, Flavio Sinatra. E dopo averlo assistito per 17 anni in diverse aule giudiziarie, «ora sono contento per lui». Turco, vittima di un clamoroso errore giudiziario, condannato all'ergastolo per due omicidi, tra cui quello di un ragazzino, adesso è stato definitivamente prosciolto da ogni accusa, dopo la revisione dei processi. Ma quasi 11 anni della sua vita, li ha trascorsi in carcere da innocente. Anni bui, che adesso può lasciarsi definitivamente alle spalle. «Un incubo». Ad accusarlo, ben sette pentiti. Secondo il loro racconto, Turco nell'estate del '98, avrebbe prima strangolato e massacrato, prima di bruciare il suo corpo ormai senza vita, un ragazzo di soli 16 anni, Fortunato Belladonna, ritrovato in un canneto del lungomare di Gela. Incriminato per quel delitto, finì in galera. Nel frattempo, dopo circa un mese, per lui arrivò un'altra dura accusa e un altro ergastolo per l'uccisione di Orazio Sciascio, un salumiere di 66 anni, ammazzato durante una rapina per essersi rifiutato di pagare il pizzo. Turco ha sempre sostenuto di essere innocente, che con quei delitti non c'entrava niente. La svolta arrivò nel 2008, quando due esponenti del clan Emmanuello, Carmelo Massimo Billizzi e Gianluca Gammino, da boss a pentiti, si autoaccusarono del delitto Belladonna, il ragazzino. La Corte d'appello di Messina, sempre nel 2008, accolse la richiesta di revisione del processo di Turco, disponendone la scarcerazione. Iniziò così a sbriciolarsi anche il castello accusatorio che era stato costruito per l'omicidio del commerciante, per il quale nel frattempo vennero arrestate due persone, Salvatore Rinella e Salvatore Collura. Nel 2012 la Corte d'Appello di Catania revocò la precedente condanna in primo grado assolvendo definitivamente Turco dall'accusa di omicidio. Adesso per Turco, diventa definitiva anche la sentenza di assoluzione per il delitto Belladonna. La sentenza è stata emessa dalla Corte d'Appello di Messina, dopo aver accolto la richiesta avanzata dal legale Sinatra, di procedere alla revisione del processo. La Procura Generale, che non ha mai creduto all'innocenza di Turco, aveva invece chiesto il rigetto dell'istanza di revisione e la conferma dell'ergastolo.

MAGISTROPOLI. PROCESSO AI MAGISTRATI.

A processo il magistrato che passava le carte al "Fatto". Gozzo, l'accusatore di Dell'Utri, a giudizio per violazione del segreto d'ufficio, scrive Mariateresa Conti su “Il Giornale”. Finisce nei guai il procuratore aggiunto di Caltanissetta Domenico Gozzo, il pm - già accusatore di Marcello Dell'Utri - che coordina le nuove indagini sulle stragi del '92. Il Gip di Catania lo ha rinviato a giudizio per un reato difficilmente contestato alle toghe, violazione del segreto d'ufficio. Secondo l'accusa, sostenuta dal collega procuratore aggiunto degli uffici etnei Carmelo Zuccaro, sarebbe stato lui a «passare» al Fatto quotidiano le notizie relative ad alcune conversazioni intercettate, in carcere, tra il superboss Totò Riina e i suoi familiari. La prima udienza del processo si svolgerà a ottobre. Una bomba. Anche perché Nico Gozzo è uno dei magistrati di punta della Procura di Caltanissetta, il pm che sta riscrivendo la storia delle stragi, smantellando di fatto i primi processi sugli eccidi di Capaci e via D'Amelio viziati dalla falsa collaborazione di Vincenzo Scarantino. Processi istruiti quando a Caltanissetta era procuratore capo Giovanni Tinebra, che a propria volta adesso è procuratore generale a Catania, dove ora Gozzo dovrà presentarsi nell'insolita veste, per lui, di imputato. Che sulla pubblicazione di quelle intercettazioni (in una di esse Riina diceva: «Quest'anno la Juve è una bomba», frase letta come minaccia di attentato a uno dei pm della trattativa Stato-mafia) ci fosse una linea dura si era capito immediatamente. A ottobre del 2013, quando erano stati pubblicati gli articoli sul Fatto e sul quotidiano online LiveSicilia, era scoppiato il putiferio. E nel mirino in prima battuta erano finiti i giornalisti, i cronisti del Fatto Quotidiano Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, e il cronista di LiveSicilia Riccardo Lo Verso, sottoposti a perquisizione a casa e nelle redazioni. Proprio nell'abitazione di uno dei cronisti del Fatto sarebbero stati rinvenuti dei file che attestavano contatti col procuratore aggiunto nisseno. Immediata era stata l'apertura dell'inchiesta, trasferita a Catania per competenza, visto che è la procura etnea ad occuparsi di fatti che riguardano i magistrati nisseni. Ora l'udienza preliminare contro Gozzo. E il rinvio a giudizio del magistrato, che sarà difeso dall'avvocato palermitano Francesco Crescimanno.

Il procuratore Gozzo indagato per aver passato notizie ad “Il Fatto Quotidiano”, scrive Emiliano Stella su “L’Ultima Ribattuta”. Che “Il Fatto Quotidiano” fosse un organo di stampa vicino alla Magistratura lo si era intuito. Scoop, esclusive, rivelazioni non si ottengono per caso. E l’indagine che vede coinvolto il procuratore aggiunto di Caltanissetta Nico Gozzo suona come una conferma di questo sospetto. Il giudice è stato rinviato a giudizio dal gip di Catania Oscar Biondi (la Procura etnea è competente per le indagini sui colleghi nisseni), e su di lui pende la pesante accusa di rivelazione di segreto d’ufficio. Il procedimento è stato avviato dopo la pubblicazione di alcune conversazioni, intercettate in carcere, intercorse tra Totò Riina ed i suoi familiari. I dialoghi erano finiti sulle pagine de “Il Fatto Quotidiano”, in articoli a firma di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, ed erano costituiti da frasi in apparenza innocue tipo: “Quest’anno la Juve è una bomba”. Passaggi attenzionati dagli inquirenti in quanto potenzialmente messaggi in codice, riferiti probabilmente al proposito di togliere rumorosamente di mezzo un magistrato palermitano che indaga sulla trattativa Stato-mafia. A seguito di questa pubblicazione furono perquisiti gli appartamenti dei due giornalisti de “Il Fatto”, in cui venne rinvenuto un pc contenente un file che indicherebbe Gozzo come l’autore della fuga di notizie. “Il Fatto Quotidiano”, nel dare la notizia, ha tracciato un profilo di Gozzo. “Per anni pm a Palermo, ha sostenuto l’accusa al processo all’ex senatore di Fi Marcello Dell’Utri. A Caltanissetta, da procuratore aggiunto, ha riaperto e coordinato le indagini sulle stragi di Capaci e sull’attentato di via D’Amelio consumato all’ombra della cosiddetta trattativa Stato-mafia per cui pende un processo a Palermo”. Un modo per rendere giustizia ad un Magistrato scivolato su una buccia di banana o l’ipotesi, nascosta tra le righe, che lo si voglia incastrare per un peccato veniale e sottrarlo alle sue scomode indagini?

GELA COME TARANTO. MORTE ANNUNCIATA?

Gela, il petrolchimico e l’inferno dei bambini. Deformazioni, malattie, morti. Soprattutto fra i più piccoli. Ora una perizia del tribunale stabilisce, dopo anni di denunce, il nesso causale con le emissioni del petrolchimico Eni. Ma il gruppo replica: "Nessun risarcimento", scrive Emiliano Fittipaldi il 10 dicembre 2015 su "L'Espresso". I medici e i tecnici chiamati dai giudici lo scrivono dodici volte. Lo scrivono per Nicolò, Marco, Marta, Francesco, Giuseppe, Chiara, Mary e gli altri bimbi e ragazzini malformati che hanno visitato e studiato per due anni. La formula è sempre la stessa. Cambia solo il nome della malattia, a seconda se la deformazione ha colpito gli organi genitali o i piedi, le mani o il midollo spinale, il cervello o la bocca. «Il collegio della commissione tecnica d’ufficio all’unanimità» si legge in relazione al caso di Kimberly «si rammarica che - nell’ampio lasso di tempo intercorso tra l’allarme indicato dai primi studi condotti a Gela, le crescenti preoccupazioni sollevate dalla popolazione e dalla comunità scientifica e il presente - non sia mai stato condotto uno studio di elevata qualità per poter stabilire in modo definitivo la possibile esistenza della relazione causale tra sostanze chimiche prevalenti nel comune e alcune malformazioni. Ritiene che la possibilità che la spina bifida di Kimberly Scudera sia stata favorita dalla presenza nell’ambiente (aria, acqua, alimentazione) di sostanze chimiche prodotte dal polo industriale sia del tutto concreta, sia per effetto individuale che per effetto sinergico tra loro». La perizia - che "l’Espresso" pubblica in esclusiva - è rivoluzionaria. Perché il petrolchimico dell’Eni, quello che tutti in città chiamano il "mostro", per la prima volta finisce ufficialmente sul banco degli imputati. Come accaduto per l’acciaieria Ilva a Taranto, il petrolchimico ha sparpagliato per sessant’anni veleni ovunque, ammorbando terra, acque e aria: secondo il report c’è un pezzo di Sicilia che oggi trasuda sostanze tossiche e nocive che avrebbero causato malformazioni gravissime alla nascita di almeno una dozzina di bambini. I consulenti dei giudici, professori di fama nazionale e internazionale, hanno depositato il loro parere scientifico lo scorso luglio nell’ambito di un procedimento civile che una ventina di famiglie hanno promosso contro l’Eni. L’obiettivo principale era di ottenere risarcimenti economici e rimborso delle spese mediche per le piccole vittime dell’inquinamento, ma la causa s’è conclusa con un nulla di fatto. «Nonostante la perizia il colosso energetico non ha fatto alle 12 famiglie alcuna proposta economica», spiega Luigi Fontanella, l’avvocato siciliano che da anni sta combattendo a fianco dei genitori dei bambini. «L’azienda non riconosce alcun danno psicofisico: per loro il nesso tra inquinamento e malformazioni non esiste». Fontanella non ha il fascino né il sorriso di Julia Roberts in "Erin Broncovich", il film sull’attivista americana che nel 1993 riuscì a vincere una mega-causa da oltre 300 milioni di euro contro la Pacific Gas & Electric, azienda Usa accusata di aver contaminato con cromo esavalente le acque della città di Hinkley, in California, e fatto così ammalare 600 persone. Pelato e leggermente sovrappeso, occhiali spessi come fondi di bottiglia, Fontanella è oggi il nemico numero uno della spa controllata dal ministero dell’Economia, e - persa una battaglia - ha depositato da poco un nuovo ricorso d’urgenza, firmato da oltre 300 gelesi, per ottenere il fermo degli impianti e la bonifica dei veleni. «Spero che, prima o poi, troveremo un giudice coraggioso: finora nessuno, a parte la procura, ci ha aiutato. L’Eni fa paura, più ai politici che ai bambini». Nell'area del petrolchimico potrebbe scoppiare un caso simile a quello dell'Ilva. I risultati agghiaccianti dello studio che l'Espresso ha ottenuto in esclusiva, rivelano decine di casi di tumori, malattie e malformazioni tra chi vive o lavora vicino all'impianto. Intervistando i genitori dolore e frustrazione spuntano fuori ad ogni frase smozzicata, ad ogni risposta data al cronista. Nicolò oggi ha 13 anni, è alto e grosso come sono i ragazzini della nuova generazione, ma il padre, Antonino Pace, lo protegge ancora come fosse un cucciolo. «È timido. È nato senza un labbro e senza palato. Senza manco il naso, a dire la verità: a 8 mesi l’abbiamo operato, e gli hanno pure ricostruito parte della bocca», dice. Il viaggio Gela-Roma-Gela per portare Nicolò al Bambin Gesù l’ha fatto decine di volte. «Oggi va meglio, ma quando mangia il cioccolato o il succo di frutta spesso gli esce ancora il cibo dalle narici, perché è cresciuto in fretta e le vecchie plastiche non reggono più». Presto il bambino dovrà sottoporsi all’ennesima ricostruzione. «Lui non si accetta ancora, a volte mi chiede perché è uscito così dalla pancia della mamma. Io lo so di chi è colpa: dei veleni della raffineria. Un genitore muore dentro, quando sa che un figlio soffre così. A Taranto hanno bloccato tutto, perché qui in Sicilia no? Perché non se ne futte nessuno, ecco perché». L’Eni ha annunciato che investirà, fino al 2019, 200 milioni di euro, e che vuole aprire qui un centro mondiale di formazione manageriale sulle tematiche di salute, sicurezza e ambiente. «Oltre il danno la beffa. "U’ tortu e u’ morto", come si dice da queste parti», chiude Antonino. Anche la bimba di Rosario e Concetta Cutini, Marta, ha la labiopalatoschisi. Oltre una rarissima "sequenza di Pierre Robin", una malformazione della mandibola. La casa di Cutini è a pochi centinaia di metri dalla casa dei Pace: Gela è piccola, meno di 30 mila abitanti, ma non sempre le famiglie con bimbi malati si conoscono: ognuno si fa i fatti suoi. «Da piccola ogni volta che mangiava la pastina Marta rischiava di finire soffocata, la mettevo sottosopra e riuscivo a levargli il cibo dalla gola» spiega Rosario che lavora in un negozio di scarpe. «Io non sono uno che si perde d’animo. Qua i casi di piccoli malformati sono tantissimi, ma molti si nascondono. Perché si vergognano. Ma sono loro che si devono vergognare, i dirigenti del "mostro", quello del cane a sei zampe, che è deforme pure lui. La mia seconda figlia? Per fortuna il Signore ce l’ha fatta venire a posto». In una viuzza più in là c’è l’appartamento degli Scudera. Rosalinda cresce Kimberly da 18 anni, con amore e fatica: appena partorito i medici hanno diagnosticato alla piccola una spina bifida, il tubo neurale era aperto. Da allora si muove in carrozzina. «Kimberly è stata operata a Catania due volte appena nata. Poi una terza a quattro anni, per provare ad aggiustare il piede torto e allungare il tendine d’Achille. Per i problemi di sfinteri e il catetere non c’è invece niente da fare, dovrà portarlo tutta la vita». Quest’anno Kimberly farà l’esame di maturità, ha la media del 7 e vuole fare la psicologa. «È arrabbiata, perché gli amici non la cercano. Le dicono che si imbarazzano a portarla in giro con la sedia a rotelle, e quindi al cinema e in pizzeria non ci va. L’altra volta guardavamo su Real Time un programma sugli abiti da sposa, s’è messa a piangere perché pensa che lei un matrimonio e dei figli non li avrà mai. Veda lei come mi devo sentire io». Leggendo le centinaia di pagine della perizia del collegio tecnico presieduto da Pierpaolo Mastroiacovo, ex ordinario di pediatria alla Cattolica e tra i massimi esperti al mondo di malformazioni congenite, i medici, scienziati e ingegneri confermano quello che molti studi già segnalavano da tempo: a Gela, uno dei 39 siti d’interesse nazionale ancora da bonificare, ci sono in giro quantità enormi di metalli pesanti, benzene e altri «composti cancerogeni, interferenti endocrini e diossine» che hanno compromesso acque di falda, suoli e catena alimentare. Inquinanti che hanno prima devastato la natura e poi causato, «con ogni probabilità», le malattie neonatali. «I valori di rischio generati, seppur rappresentino una mera proiezione dei possibili effetti delle condizioni ambientali dell’area di Gela sulla salute pubblica, mostrano una generale compatibilità con le condizioni morbose rilevate per il caso clinico oggetto di analisi», esemplifica ancora il collegio in riferimento a uno dei bimbi deformati. Il primo studio a Gela sulle deformità dei piccoli abitanti della città è del 2006, e mostrava come il tasso di ipospadie (una rara malattia degli organi genitali) era tra i più alti al mondo. «Un dato confermato da un aggiornamento pubblicato nel 2014», spiega Fabrizio Bianchi, epidemiologo del Cnr che firmò la ricerca e ha scoperto, due anni fa, come nel sangue dei gelesi scorra una grande quantità di arsenico. «Anche per altri tipi di malformazione i tassi sono elevati. La responsabilità dell’Eni? La relazione di Mastroiacovo per numerosi bambini malformati fornisce prove persuasive di una altamente probabile causa ambientale. Io penso che in processi di questo tipo l’onere della prova del nesso di causalità non spetta a chi sta dalla parte pubblica, cioè di chi è stato danneggiato, ma da chi sostiene la sua inesistenza, o da coloro che abbiano un’altra ipotesi convincente che spieghi il perché di malattie e deformità. Di certo più passa il tempo, più si aspetta a bonificare, più sarà difficile evitare nuovi casi di malattia e morti precoci». Perché a Gela non sono solo i minori a rischiare la pelle: gli studi del progetto Sentieri hanno dimostrato che nel comune si muore più facilmente rispetto al resto della Sicilia per tutti i tipi di tumore (più 18,3 per cento), per il cancro infantile (più 159,2 per cento), per il tumore allo stomaco (più 47,5 per cento), alla pleura (più 67,3), alla vescica (più 9,6 per cento), per non parlare del morbo di Hodgkin (più 72,4). Se la perizia tecnica è sconvolgente, all’Eni sostengono che sul tema delle malformazioni non ci sono novità di rilievo. «Tutti gli studi finora eseguiti», spiega l’azienda a "l’Espresso" «non hanno fornito evidenze scientifiche apprezzabili circa la sussistenza di un nesso tra le patologie e l’impatto ambientale delle attività industriali del nostro stabilimento. Anche la consulenza tecnica d’ufficio del luglio 2015 mostra importanti limiti a livello metodologico, e soprattutto l’assenza di elementi scientificamente apprezzabili a sostegno delle valutazioni conclusive. Dunque non ci sono ulteriori mediazioni in corso né ipotesi di risarcimento». D’altronde la commissione di parte ha cercato di smontare pezzo per pezzo quella dei consulenti dei giudici, attaccando tutta l’impostazione della ricerca e attribuendo le malattie dei bimbi soprattutto alla «componente genetica». La magistratura, per ora, resta in attesa: ma non è un dettaglio che sia stata proprio la procura a costituirsi in sede civile e che i pm gelesi abbiano aiutato - attraverso il deposito di vari studi e report scientifici compilati negli anni su loro impulso - a scrivere l’ultimo, drammatico studio. Un fascicolo sulle malformazioni è stato aperto anni fa, ma in Italia esistono limiti enormi all’accertamento penale, come ha dimostrato anche il recente caso dell’Eternit di Casale Monferrato, dove la Cassazione ha segnalato che il reato era prescritto. La nostra giurisprudenza prevede inoltre che i danni vadano addebitati a singole persone fisiche: a differenza di Taranto, dove la famiglia Riva e i dirigenti che gestivano l’Ilva erano facilmente identificabili, alla guida del petrolchimico di Gela in sei decenni si sono succedute decine di manager, ed è molto difficile individuarne le singole (ed eventuali) responsabilità. Ma Angela Averna, pediatra "di strada" che assiste impotente al dramma dei suoi piccoli pazienti, di cavilli e norme astruse non vuol sentir parlare. «Lei mi ha intervistato due anni fa, quando le dissi che su 1000 under 14 ne avevamo una cinquantina malformati. La percentuale, pazzesca, non è cambiata», ragiona il medico, che qualche giorno fa ha perso uno dei suoi degenti, Francesco, per un tumore al cervello. «Lo scorso settembre a Modica il nuovo primario dell’ospedale ha elencato in un convegno i nuovi casi rilevati negli ultimi 24 mesi: le dico solo che la platea è rimasta sconvolta. In questo inferno le fiamme sono sempre accese. Ma una buona notizia gliela posso dare: mia nipote, alla quale era stato diagnosticato un cancro al pancreas, oggi sta benissimo, ed è talmente bella che forse andrà a sfilare sulle passerelle di Milano». Per la gran parte dei medici e dei cittadini la pistola fumante è impugnata dal cane a sei zampe dell’Eni, ma la politica e le istituzioni continuano a tenersi a distanza da qualsiasi intervento e polemica. Certo finora i dettagli della perizia erano rimasti in un cassetto, ma il governo (primo azionista del petrolchimico) non ha mai aperto bocca sulla vicenda delle malformazioni: Matteo Renzi lo scorso agosto ha parlato della raffineria solo per applaudire alla sua futura riconversione "green" degli impianti prevista nel 2017, grazie a un accordo che prevede la costruzione di una "bioraffineria" e investimenti (su tutta la Sicilia) pari a due miliardi di euro, con cui il gruppo petrolifero potrà avviare nuove attività di esplorazione e produzione di idrocarburi sia su terra che su mare. Se Rosario Crocetta ha brindato al nuovo patto e Susanna Camusso, leader della Cgil, s’è detta preoccupata soprattutto del futuro degli operai gelesi (in tutto oggi sono 550, altrettanti nell’indotto: le risorse in eccesso, ci dice Eni, dopo l’avvio della Green Refinery saranno ricollocate in altre società in Italia e all’estero), pure il Movimento 5 Stelle è finito nella bufera un mese fa, quando il neo-assessore all’ambiente del comune, guidato dal partito di Beppe Grillo, è stato attaccato da un meetup di base per aver dichiarato che «il nesso tra malformazioni e inquinamento non c’è, non esiste ancora una sentenza in tal senso». Se una sentenza non c’è ancora, la perizia ha però indicato il nesso come mai prima era accaduto. «Ora speriamo che chiudano tutto e bonifichino rapidamente», aggiunge il papà di Marta, felice perché alla figlia il mento è «uscito fuori, prima a causa del disturbo alla mandibola sembrava non ce l’avesse proprio». Anche Damiano Lauretta e Giuseppina Comandatore, genitori di Marco, 15 anni nato con la labioschisi, pretendono che i veleni vengano ripuliti. «Finora hanno fatto solo annunci. A parte nostro figlio, noi abbiamo molti amici con bimbi malformati, con problemi al cuore, alle mani, alle gambe. Il governo con l’Eni ci mangia, ci fa i miliardi, perciò non sono ottimista. Sono un diacono di una comunità neocatecumenale, e sono fortunato perché chi non ha fede nel Signore sta certamente peggio di noi. In più se non si fa pulizia la tragedia non finirà mai». Già: Nicolò, Marco, Marta, Francesco, Giuseppe, Chiara, Mary e Kimberly, deformati da «ipospadie, ipoplasie di ventricolo, spina bifida, coartazione aortica, criptorchidismo, labiopalatoschisi, difetti renali, tetralogia di Fallot, ipo-agenesi degli arti», saranno gli ultimi bambini malformati nati a Gela?

Veleni, Gela come Taranto, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. Nell'area del petrolchimico potrebbe scoppiare un caso simile a quello dell'Ilva. I risultati agghiaccianti dello studio che l'Espresso ha ottenuto in esclusiva, rivelano  decine di casi di tumori, malattie e malformazioni tra chi vive o lavora vicino all'impianto. A Gela, in Sicilia, potrebbe scoppiare un caso simile a quello dell'Ilva di Taranto. Un nuovo rapporto che l'Espresso ha ottenuto in esclusiva rivela decine di casi di tumori, malattie e malformazioni tra chi vive o lavora nell'area del petrolchimico. La magistratura sta lavorando per scoprire se ci sia una connessione tra l'inquinamento causato dall'impianto e la salute dei cittadini. Lo studio dell'Osservatorio epidemiologico della Regione Sicilia ancora inedito è intitolato "Stato di salute della popolazione residente nel sito di interesse nazionale per le bonifiche di Gela", e consegna - ancora una volta - risultati agghiaccianti. Anche perché le analisi della mortalità e delle malattie sono state fatte su serie storiche assai recenti, «che confermano di fatto» ragiona Fabrizio Bianchi, studioso del Cnr, «il perdurante cattivo stato di salute della popolazione». Le cifre sulla mortalità comprendono il periodo 2004-2011, mentre quella sui ricoveri e le dimissioni ospedaliere va dal 2007 al 2011. Secondo gli studiosi il rischio degli uomini di Gela di morire rispetto a coloro che vivono nei Comuni vicini è più alto del 6,8 per cento, mentre per le donne l'eccesso è statisticamente significativo sia sul confronto locale (più 12,3 per cento) sia rispetto ai dati regionali (più 8,2 per cento). L'analisi delle tabelle sulla "mortalità" in alcuni casi sono persino peggiori rispetto a quelle di Taranto. Rispetto alle città più vicine, a Gela i maschi muoiono di più per tutti i tipi di tumore (più 18,3 per cento), per il cancro infantile (più 159,2 per cento), per il tumore allo stomaco (più 47,5 per cento), alla pleura (più 67,3), alla vescica (più 9,6), per non parlare dell'incidenza del morbo di Hodgkin (più 72,4), del mieloma multiplo (più 31,8) e delle malattie del sistema circolatorio (più 14,2). Alto lo "spread" anche nei confronti delle statistiche regionali: a Gela l'incidenza dei tumori degli under 14 è maggiore del 68,1 per cento, più decessi anche per i tumori al fegato (più 20,9), alle ossa (32,8), al testicolo (più 209,4 per cento) e per le malattie cerebrovascolari (più 36,6). Per quanto riguarda la mortalità, impressionanti risultano i numeri sul tumore alla vescica (più 81,2 per cento), quelli sugli avvelenamenti (più 146 per cento) e del morbo di Hodgkin: in questo caso la percentuale è più alta del 907,3 per cento. «Non sono dati ancora pubblici, preferisco non commentarli nel dettaglio», premette Bianchi. «Ma di certo la situazione ambientale è pesante. Come a Taranto, anche a Gela servono investimenti importanti per attenuare l'inquinamento. Oggi per motivi di congiuntura la raffineria sta producendo meno, ma non basta. Bisogna fare di più». Per ripulire la zona dai veleni, spiegava una ricerca su costi-benefici pubblicata sulla rivista internazionale Environmental Health nel 2011, a Gela «i costi della bonifica ammonterebbero a circa 6,6 miliardi di euro. Una cifra molto più alta, dunque, dei fondi allocati per bonificare il sito». L'Eni e lo Stato, in pratica, dovrebbero sganciare altri 6 miliardi se volessero ripulire il territorio.

Arsenico da record, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. Una ricerca del Cnr conferma che il comune di Gela è tra le aeree più inquinate del mondo. Nel sangue dei campioni esaminati ci sono veleni di ogni tipo. Dal piombo al mercurio. Ora avete il petrolio, disse l'ingegnere. "Il petrolio? Mi creda, se lo succhiano - disse il professore - se lo succhiano. E così finisce col petrolio: una canna lunga da Milano a Gela, e se lo succhiano". Leonardo Sciascia aveva capito. Aveva scritto in un racconto del 1966, 'Il mare colore del vino', che il petrolchimico della città siciliana non avrebbe portato una lira nelle tasche dei suoi abitanti. Mai, però, avrebbe potuto immaginare che, dopo 40 anni, la città sarebbe diventata famosa in tutto il mondo per i tassi mostruosi di malformazioni e tumori. L'area di Gela è una delle più inquinate del mondo, ed è cosa nota. Ma ora l'Oms ha scoperto che nelle vene degli abitanti scorre anche arsenico. Il biomonitoraggio effettuato dal Cnr è durato mesi, e ha dato risultati shoccanti: il sangue del 20 per cento del campione, composto in tutto da 262 persone, è pieno di veleno. Oltre all'arsenico ci sono tracce di rame, piombo, cadmio e mercurio. Non si tratta di operai esposti sul lavoro, ma di casalinghe, impiegati, giovani sotto i 44 anni. Residenti a Gela, Niscemi e Butera. Nelle loro urine sono stati trovati livelli di arsenico superiori del 1.600 per cento al tasso-limite. Facendo una proporzione sul totale dei residenti, a rischio avvelenamento potrebbero trovarsi più di 20 mila persone. Non stupiscono, visti i risultati delle analisi, i nuovi dati sulla mortalità e le malattie, statistiche che arrivano fino al 2007: "Nell'area in studio", si legge nel rapporto pubblicato su 'Epidemiologia&Prevenzione', si osserva una mortalità generale per tutti i tumori significativamente più elevata, sia negli uomini sia nelle donne". Il boom riguarda il cancro alla pleura, ai bronchi e ai polmoni, con eccessi di patologie per lo stomaco, la laringe, il colon e il retto. Un disastro sanitario che è evidente anche nelle tabelle sulle malattie generiche, con troppi ricoveri per malattie psichiatriche e avvelenamenti. Che a Gela si muore d'ambiente sembra provarlo anche un'altro report firmato dall'Istituto superiore di sanità: tra i lavoratori del petrolchimico, i più a rischio sono quelli che, finito il turno, tornano a casa in città. I pendolari non residenti hanno tassi di mortalità per cancro polmonare molto più bassi. Lo studio è uno spartiacque. Per la prima volta gli scienziati hanno in mano un potenziale nesso tra inquinamento del territorio e mortalità in eccesso. Un legame che dovrebbe indurre le istituzioni a darsi una mossa, mettendo in campo politiche di prevenzione più efficaci: anche se non sappiamo ancora il tipo di arsenico che circola nel corpo dei gelesi (quello inorganico è cancerogeno, quello organico è tossico, ma assai meno pericoloso) gli scienziati chiedono subito maggiori controlli sugli alimenti, in particolare su verdure, pesci e crostacei. Fabrizio Bianchi, epidemiologo del Cnr, ha coordinato la ricerca e non nasconde la sua preoccupazione: "L'impatto ambientale è indubitabile. In mare, nelle acque, sulla terra ci sono concentrazione di metalli superiori fino a un milione di volte i livelli accettabili. L'arsenico non era già presente in forme naturali, come dice qualcuno, ma è stato immesso dall'uomo. La 'pistola fumante'? Diciamo che abbiamo trovato i proiettili, ora dobbiamo capire chi ha sparato". La procura indaga, ma il compito dei pm non è facile. Oggi a Gela è attiva la grande raffineria dell'Eni, ma nell'area per decenni hanno fabbricato clorosoda, acido cloridico e altri prodotti chimici. Le bonifiche già partite sono poche, la stragrande maggioranza dei veleni resta a terra. "Siamo ancora alle conferenze istruttorie", chiosa Bianchi: "Bisognerebbe accelerare l'iter, anche perché l'arsenico è un composto che non rimane a lungo nel corpo. Le grandi quantità che abbiamo trovato dimostrano che l'esposizione è tutt'ora in corso".

CALTANISSETTA MASSONE.

'MASSONI I VERTICI DI COSA NOSTRA', scrive “La Repubblica”. Cosa nostra sarebbe stata fondata nel 1630 come il braccio armato della massoneria. Lo sostiene il pentito Leonardo Messina, ex uomo d' onore di San Cataldo (Caltanissetta) che ieri è stato interrogato nell' aula bunker di Rebibbia nel processo al commercialista Giuseppe Mandalari, massone, accusato di associazione mafiosa e ritenuto il "ragioniere" dei corleonesi. Per Messina la massoneria deriva direttamente dall' apostolo Pietro "ed è per questo - ha affermato - che i nostri vecchi si chiamavano discepoli di Pietro; al Vaticano sanno tutta la storia e nei loro archivi ci sono documenti che spiegano tutto". Le affermazioni del pentito sarebbero però smentite dalla "storia", afferma il professor Massimo Ganci, docente di Storia all' Università di Palermo e presidente della Società siciliana di storia patria. "Innanzitutto la massoneria nel 1600 non esisteva ancora e l' organizzazione mafiosa in quanto tale è nata con l' Unità d' Italia. Al tempo della dominazione borbonica in Sicilia, Cosa nostra non esisteva; erano presenti bande di malviventi, briganti, che nel 1860, in coincidenza con l' Unità di Italia, si organizzarono in maniera diversa". Per il professor Ganci le verità storiche di Messina sarebbero pure invenzioni, "discorsi da caffè". Il pentito ha anche dichiarato che ad uccidere il bandito Salvatore Giuliano (il 5 luglio del ' 50 dopo il tradimento del suo fedelissimo Salvatore Pisciotta) sarebbe stato l' allora giovanissimo Luciano Liggio, il boss di Corleone, morto lo scorso anno in carcere. Sui rapporti tra mafia e massoneria Leonardo Messina ha ribadito che tutti i vertici di Cosa nostra erano massoni e questo rafforzava il loro potere. "Ho visto una riunione - ha affermato Messina - in un ristorante vicino Caltanissetta cui partecipavano persone vestite con grembiulini e collari; se dicessi i nomi di quelli che vi parteciparono la mia vita sarebbe in gravissimo pericolo perché erano persone che detenevano il potere a Caltanissetta". Ha poi aggiunto che a Caltanissetta c' era uno studio di avvocati che erano tutti massoni "cui ci rivolgevamo per intervenire e aggiustare i processi".

Sindaci, assessori, professionisti, è questo quello che viene fuori dall'unico elenco della massoneria disponibile e che è scaturito da una inchiesta della Procura di Palmi - sulla massoneria deviata - del 1992 che si è conclusa nel 2000 con l'archiviazione, scrive “Il Corriere di Sciacca”. Del resto far parte della massoneria non è affatto un reato. Ma resta in quell'ambito di segretezza che rende pressoché impossibile o quasi ottenere gli elenchi. Gli stessi massoni infatti possono dichiarare la loro appartenenza alla loggia ma non possono in alcun modo rivelare l'appartenenza di altri "fratelli". Tra i quattro ex assessori comunali inseriti nella cosiddetta lista Cordova - dal nome del procuratore di Palmi che indagò nel 1992 e che contiene oltre 26 mila nomi, 309 dei quali agrigentini - figurano Pietro Macedonio, 67 anni assessore al Comune fino a tre settimane fa, ma anche Calogero Baldo, architetto di 58 anni (che fu assessore nella seconda metà degli anni Novanta), Giuseppe Gelardi, 70 anni (assessore Psi negli anni Ottanta) e Onofrio Lo Dico, il medico di 72 anni che fu assessore con Piazza nella prima metà dello scorso decennio. Tra chi figura in quell'elenco anche il sindacalista licatese Mario Augusto di 65 anni, l'ex presidente dell'Ordine degli Ingegneri di Agrigento Angelo Barbarino di 73 anni, il sindaco di Menfi Michele Botta di 57 anni, l'imprenditore agrigentino Michele Capraro di 64 anni, ma anche l'avvocato Nino Gaziano, presidente dell'Ordine di Agrigento o ancora il dirigente del distretto sanitario di Licata, nonché ex parlamentare regionale Enzo Pezzino e due ex deputati nazionali come Nené Mangiacavallo e Giuseppe Amato, il primo riberese il secondo licatese. Si tratta va ribadito di nomi presenti nella lista Cordova e che dunque almeno fino a quell'epoca facevano parte della massoneria. Potrebbero esserne usciti. Ma potrebbero anche farne ancora parte. I principali Ordini massonici sono tre: il Grande Oriente d'Italia (Goi), il più numeroso con i suoi 30mila iscritti, la Gran Loggia Regolare d'Italia (Glri) e la Gran Loggia d'Italia, l'unica a concedere l'accesso alle donne. Tutte hanno il loro sito internet al quale hanno affidato persino gli indirizzi delle loro strutture.
Qui di seguito l'elenco pubblicato ieri sul quotidiano La Sicilia degli agrigentini inseriti nella lista Cordova. In tutto sono 309, ma voi ne troverete di meno perché alcuni di loro nel frattempo sono deceduti. Mancano anche eventuali nuovi ingressi.

CALTANISSETTA MAFIOSA.

Sergio Lari, procuratore capo di Caltanissetta, racconta senza timore quella che definisce "nuova mafia", attiva soprattutto nel territorio di Gela, una città che il magistrato, con il proprio impegno e quello dei colleghi e delle forze dell'ordine, sta cercando di riportare alla normalità e al rispetto della legalità. "A Gela e nel territorio circostante - racconta Lari - è in ascesa una nuova forma di criminalità organizzata con nuove dinamiche. Si tratta di un clan del tutto indipendente da Cosa Nostra che dalla cosiddetta 'Stidda', come la immaginiamo tradizionalmente. Quelle che erano le organizzazioni di una volta sono state decimate dalle numerose ed efficacissime operazioni della magistratura e dell'Antimafia. Oggi i clan emergenti impongono ai fruttivendoli perfino il prezzo delle angurie e puntano ai guadagni per finanziare la crescita e lo sviluppo delle azioni criminali. Recuperano anche il ferro vecchio e inutilizzato dalle officine meccaniche, che poi rivendono. Insomma, non trascurano nemmeno la più piccola nicchia dalla quale sia possibile ottenere profitti. Hanno anche il controllo dei furti negli appartamenti, dispongono di armi con le quali minacciano commercianti e imprenditori, gestendo incontrastati il business delle estorsioni".

CALTANISSETTA. LA CITTA’ DEI BOSS BAMBINI.

Un arresto a settimana per mafia, scrive Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”. A meno di 15 anni d'età, Mario ha una sfilza di capi d'accusa che spaziano dal furto aggravato al danneggiamento, passando per una falsa attestazione di generalità. E quasi se ne mostra fiero. Come ti chiami? «Totò 'u curtu», risponde beffardo al magistrato e ai compagni del carcere minorile in cui è rinchiuso, paragonandosi a Totò Riina. Franco invece diventerà maggiorenne tra pochi giorni, e risponde di reati più gravi; al furto si sommano rapina, violazione di domicilio, percosse e lesioni procurate alla signora derubata nel novembre scorso. Lui è stato arrestato, i suoi complici riuscirono a scappare, e quando gli investigatori gli chiesero chi fossero rimase in silenzio, sibilando solo: «'Un sugnu infame », non sono un infame. Giuseppe compirà 17 anni in estate, ed è stato arrestato per omicidio e occultamento di cadavere. Ha confessato di aver sparato alla vittima, ma gli inquirenti sospettano che sia stato spinto a farlo dai coindagati maggiorenni (tra i quali il patrigno), nel tentativo di addossare al minorenne un reato che per loro significherebbe l'ergastolo. Sono alcune delle storie che alimentano la criminalità minorile nel distretto giudiziario di Caltanissetta, dove si giudicano i delitti commessi tra Mussomeli, Gela, Riesi, San Cataldo e altri centri in cui Cosa nostra si confronta con i «separatisti» della stidda. Delitti commessi da ragazzini che, anche quando non hanno direttamente a che fare con i traffici delle cosche, ne ereditano i metodi. Da Mario che vorrebbe essere Riina all'orgogliosa omertà di Franco (i nomi sono di fantasia per via della minore età, ma i fatti sono rigorosamente veri), passando per Massimo, che comunicava dal carcere attraverso pizzini, alla maniera di Bernardo Provenzano e altri boss. Accadde nel dicembre del 2010. Un appuntato della polizia penitenziaria vide un braccio sporgersi da una finestra al secondo piano del tribunale minorile e lanciare un biglietto, subito raccolto da un ragazzo che si aggirava nel cortile. L'appuntato lo seguì e si fece consegnare il pezzo di carta dov'era scritto, con calligrafia infantile e poco rispetto della grammatica: « Sono messe nella villetta del manachè entri sempre dritto alla fine della villetta a destra ci sono delle sbarre di sotto ce un sachetto sotto lerba ». Dall'immediato sopralluogo nella località di Gela indicata saltarono fuori 72 dosi di hashish pronte per essere vendute. Una rapida indagine attribuì il manoscritto a Massimo che fu condannato, «concesse le attenuanti generiche e applicata la diminuente della minore età», a due anni di reclusione e 4.500 euro di multa. Al disagio di una fra le zone più depresse della Sicilia e del Paese, aggravato dalla crisi economica che da queste parti si sente più che altrove e costringe molti alla fame, si aggiunge il reclutamento dei clan, denunciato dal procuratore generale Roberto Scarpinato all'inaugurazione dell'anno giudiziario: «Arruolano tra le proprie file un numero sempre crescente di minorenni incaricati di eseguire atti di intimidazione violenta, estorsioni, omicidi, spaccio di stupefacenti e altri reati che presentano per i criminali maggiorenni un elevato rischio penale». Seguendo una trafila ben delineata: «Gli uomini della criminalità organizzata selezionano i minori più violenti e capaci, e li pongono sotto la protezione di un padrino, il quale viene incaricato del loro apprendistato. L'iniziazione viene in genere avviata con l'incarico di eseguire incendi e altri atti di intimidazione, e prosegue con il coinvolgimento nelle estorsioni». Quando si tratta di riscuotere il «pizzo» un ragazzino accompagna i mafiosi, e le volte successive sarà lui a presentarsi alla vittima per farsi consegnare il denaro. Così i boss realizzano lo sfruttamento minorile che si spinge fino all'ultimo gradino. Conclusione del pg Scarpinato: «Il distretto di Caltanissetta detiene il triste record nazionale di minorenni incriminati per reati di mafia, tra i quali anche decine di omicidi, numerose estorsioni aggravate e un numero elevatissimo di danneggiamenti a scopo intimidatorio». L'avamposto del contrasto a questo tipo di baby criminalità - dove la distinzione con ciò che avviene nelle metropoli del nord deriva proprio dal diverso contesto, strutturalmente legato alle tradizioni mafiose del territorio - è una Procura per i minorenni dov'è rimasto a lavorare un solo pubblico ministero. Il sostituto procuratore Simona Filoni, coadiuvata da un drappello di collaboratori e investigatori, corre dietro a indagini, processi e statistiche: 46 arresti nel 2011, 59 nel 2012 e 7 nel primo mese di quest'anno. La curva è in costante crescita, e la dottoressa Filoni lancia l'allarme: «Un tempo c'era un aumento graduale della gravità dei reati, le prime segnalazioni erano per scippo o un furtarello di poco conto; adesso invece scopriamo minorenni sconosciuti al casellario che compiono rapine gravi o addirittura uccidono». La stesso pm segue i procedimenti dove le storie dei piccoli malavitosi si mescolano con la «mafia dei grandi»: alla fine del 2012 c'erano 40 minorenni o neomaggiorenni accusati per fatti commessi quando non lo erano (divisi tra richieste di rinvio a giudizio, dibattimenti in corso o condanne già pronunciate), imputati per associazione a delinquere, appartenenza all'associazione mafiosa o favoreggiamento a una famiglia di Cosa nostra o della stidda. Due rispondono addirittura di strage, per l'incendio con sbarramento di porte dell'appartamento di una vittima del racket che non voleva pagare, avvenuto nel 2005. Altri delitti risalenti agli anni Novanta sono stati scoperti grazie agli stessi autori che hanno raccontato tutto agli inquirenti. Omicidi d'iniziazione compresi. Il «pentito» Francesco Vella ha svelato che quando lui era diciassettenne il suo padrino, Alessandro Emmanuello, dell'omonima cosca gelese, lo portò con sé a un'esecuzione: «La vittima si è messa a piangere, e allora Davide Emmanuello gli dice "va bene, non ti preoccupare, te ne vai a casa", ma poi gli ha messo una corda al collo e l'ha strangolato. Nel tempo che lo stava strangolando, Alessandro Emmanuello gli ha detto "fallo strangolare da mio figlioccio", ma quando sono arrivato là per tirare la corda quello era già morto». Di solito, però, le indagini procedono senza collaboratori. Come quella in cui il pm Filoni ha chiesto il processo per cinque imputati per spaccio di stupefacenti. Tra loro c'è una ragazza che ha appena compiuto vent'anni, ma non ne aveva ancora diciotto al tempo dei pomeriggi trascorsi al bar di San Cataldo dove - secondo l'accusa - vendeva hashish a chiunque. Anche a ragazzini come lei.

QUANDO I BUONI TRADISCONO. DI CHI CI SI PUO' FIDARE?

Slot machine truccate: in manette i poliziotti, scrive "Il Corriere della Sera". Con un telecomando o un codice segreto manipolavano le macchinette a discapito dei giocatori. 42 misure cautelari. Sei appartenenti alle forze dell'ordine sono stati arrestati dalla Squadra Mobile di Caltanissetta assieme ad altre quindici persone accusate a vario titolo di aver imposto e gestito slot machine truccate e controllate dalla mafia, con un danno di svariati milioni per l'erario. Ad altre 21 persone, responsabili dei bar e dei circoli ricreativi dov'erano installati i videogiochi illegali, è stato notificato un provvedimento di interdizione dall'esercizio dell'attività d'impresa a bar e circoli ricreativi coinvolti nell'inchiesta. Le 42 misure cautelari sono state emesse dal gip del Tribunale di Caltanissetta su richiesta della Dda. Tra gli arrestati ci sono un sostituto commissario di polizia, un assistente capo della polizia penitenziaria, un assistente capo della polizia di Stato, due marescialli della Guardia di Finanza e un vigile urbano. Avvisi di garanzia hanno raggiunto altri militari della Guardia di Finanza e alcuni dipendenti civili del ministero dell'Interno. Secondo gli inquirenti, a capo del milionario giro d'affari ci sarebbero tre fratelli imprenditori, Matteo, Salvatore e Luigi Allegro, arrestati anche con l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Dello stesso reato risponde il sottufficiale degli agenti di custodia. Corruzione, concussione e frode informatica i reati contestati. Per 19 degli arrestati è stata disposta la custodia in carcere, mentre agli altri due sono stati concessi gli arresti domiciliari. La presunta organizzazione avrebbe monopolizzato il settore dei videogiochi, costringendo gli esercenti a installarli nei loro locali. Con un telecomando o un codice segreto, gli apparecchi si trasformavano in slot machine o videopoker, che eludevano il fisco con incassi in nero e nello stesso tempo riducevano l'ammontare della vincita a discapito dei giocatori.

DIPLOMIFICIO.

Era una vera e propria “fabbrica di diplomi” quella che i finanzieri della Compagnia di Gela (Caltanissetta) hanno chiuso oggi, concludendo un’indagine durata tre anni, che ha portato a denunciare 158 professori di scuola superiore e a mettere i lucchetti a 10 istituti paritari siciliani e calabresi, scrive “La Repubblica”. Scuole in cui bastava pagare bene per conquistare la maturità, e senza la seccatura delle lezioni e dei compiti. Una gallina dalle uova d'oro, capace ogni anno di sfornare 500 diplomati ignoranti e garantire entrate in nero per un milione di euro ai burattinai. Gli organi di controllo sapevano ma tacevano. C'erano vantaggi anche per loro. Gli inquirenti hanno scoperto che la figlia del direttore dell’ufficio scolastico provinciale di Caltanissetta era nel corpo docente di una delle scuole sequestrate, e che due ispettori inviati da Palermo per verificare l'andamento degli istituti paritari avevano ottenuto la maturità per un figlio e l'assunzione di un cognato come segretario nelle strutture che avrebbero dovuto controllare. A indirizzare gli studenti svogliati e danarosi verso le scuole dei loro sogni era una serie di aiutanti esterni che procacciavano iscrizioni da tutta Italia, ricevendo una percentuale per ogni alunno reclutato. I maturandi dovevano pagare una somma oscillante da 3 a 4 mila euro a seconda dell'indirizzo di studi, ma i finanzieri hanno scoperto una sorta di “piano tariffario”, secondo il quale più era alto il voto finale che si desiderava, più rapido sarebbe stato il tempo impiegato per ottenere il diploma. Maggiore, ovviamente, era anche la cifra da versare. Trattamenti speciali e sconti erano previsti per amici particolari o parenti. Un gioco facile, con il risultato garantito. Compiti svolti copiando da soluzioni prestampate, interrogazioni fittizie, prove scritte fatte dagli insegnanti e tutte uguali, lezioni disertate e voti falsificati. Fino alla messa in scena dell'esame di maturità, senza intoppi. Un meccanismo che ha evidentemente bisogno della complicità dei professori, che infatti si prestavano all'inganno e avevano la loro contropartita. Non soldi, visto che con una massiccia evasione fiscale i capi tenevano per sé le somme che dichiaravano di impiegare per gli stipendi e la gestione. I docenti chiudevano invece un occhio in cambio di punteggio prezioso, acquisito con ore di lezione fasulle e utile per scalare le graduatorie statali ed evitare magari le temute supplenze a molti chilometri da casa.

MAGISTROPOLI. EDI PINATTO: 8 ANNI PER SCRIVERE LE MOTIVAZIONI.

Condannato "giudice lumaca", otto mesi di carcere, pena sospesa. Aveva impiegato otto anni per le motivazioni di un processo di mafia, i cui imputati nel frattempo sono stati rimessi in libertà, scrive “La Repubblica”. Dopo la radiazione, è arrivata anche la condanna. Edi Pinatto, l'ex giudice del tribunale di Gela, in provincia di Caltanisetta, da 5 anni pm a Milano, è stato condannato a otto mesi di reclusione, con pena sospesa, per decisione del gup di Catania, Antonino Fallone, che ha accolto la richiesta del pm Antonino Fanara. Pinatto era accusato del reato di omissione e di ritardo di atti d'ufficio per aver impiegato otto anni per depositare la motivazione di una sentenza in un processo di mafia, i cui imputati nel frattempo sono stati rimessi in libertà. Una vicenda per la quale il Csm lo ha recentemente radiato dall'ordine giudiziario. Oggi il gup ha disposto per l'ex giudice anche la sospensione temporanea dai pubblici uffici, pena accessoria sospesa, e un risarcimento danni allo Stato per i danni arrecati all'immagine della magistratura. Il suo ritardo provocò, infatti, la scarcerazione di alcuni esponenti del clan dei Madonia imputati nel processo "Grande Oriente", essendo scaduti i termini di custodia cautelare. Solo nel marzo scorso Pinatto aveva depositato le motivazioni della sentenza emessa nel 2000 dal tribunale di Gela contro i sette componenti del clan mafioso, condannati complessivamente a 90 anni di carcere. Ma ormai gli imputati erano usciti dal carcere, il giudizio di appello non aveva potuto essere celebrato, in assenza delle motivazioni del primo grado. Nel frattempo la vicenda era diventata un caso nazionale, su cui era intervenuto anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. E il Csm aveva avviato il procedimento a carico di Pinatto, che poi si è concluso con la sua radiazione dall'ordine giudiziario, una sanzione severissima e raramente applicata. I difensori del magistrato avevano chiesto l'assoluzione sostenendo che era oberato di lavoro e per questo non aveva potuto dedicarsi alla sentenza del processo.

PARLIAMO DI CATANIA.

IL RACKET TOGATO. L’OMBRA DEL MONOPOLIO NELLE DIFESE D’UFFICIO.

Avvocati contro altri avvocati, arrivano al Tribunale come se stessero prendendo servizio; indossano la toga e si “piazzano” davanti ai giudici, nella speranza di accaparrarsi il numero maggiore di difese d’ufficio, scrive Antonio Spitaleri su “Gruppo Radio Amore” il 4 dicembre 2015. E’ un’immagine che ci fa pensare più a dei braccianti in fila davanti ai caporali nella speranza di guadagnarsi il pane che a seri professionisti consapevoli del proprio ruolo. Ma è quanto accade ogni giorno nelle aule del Tribunale etneo. Da mesi serpeggia il malcontento tra le toghe che su internet hanno denunciato più volte – pur senza fare nomi – la presenza di colleghi che sfruttano una momentanea assenza degli avvocati di fiducia per farsi nominare d’ufficio senza comunicare le date dei rinvii, proseguendo i processi per conto loro e decidendo in alcuni casi all’insaputa dei colleghi se appellarsi a una decisione. In sostanza il cliente spesso non sa nulla fino a quando non arriva la parcella del legale sconosciuto. Sembra uno scenario assurdo, ma in realtà (etica a parte) gli avvocati si muovono al limite della legalità. Chi viene beffato è il cliente, sulla cui pelle guadagnano professionisti spregiudicati. Vorrei quindi chiedere all’Ordine degli Avvocati di Catania se la “lealtà, l’onore e la diligenza” che vengono richiesti agli iscritti al momento del giuramento valgano sempre. E, soprattutto, se valgano per tutti.

Nomina delle difese d'ufficio. Segnalati casi di "anomalie", scrive Sabato 12 Dicembre 2015 Laura Distefano su “Live Sicilia”. Il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Catania da tempo lavora per tracciare un percorso risolutivo. Il presidente della Camera Penale, Enrico Trantino: “Vi è una sorta di monopolio delle difese d'ufficio”. Al Palazzo di Giustizia di Catania ci sarebbe una sorta di “monopolio” delle difese d’ufficio. Sono molti i casi di anomalie segnalate a diverse associazioni forensi che operano nel territorio e che hanno “trasferito” la patata bollente al Consiglio dell’Ordine degli avvocati che in realtà già da tempo sta lavorando per trovare una soluzione in merito. Trovare un percorso risolutivo però non è semplice vista anche la farraginosità della procedura della nomina del difensore d’ufficio disciplinata all’articolo 97 del codice di procedura penale: un sistema che prevede che i difensori d’ufficio siano inseriti in un apposito elenco e vengano nominati secondo la reperibilità attraverso un call center. La designazione può avvenire anche direttamente dal giudice, dal pm o dal funzionario di polizia giudiziaria. Il presidente della Camera Penale “Serafino Famà”, Enrico Trantino conferma che si sarebbero verificate delle anomalie in alcune udienze, ma è consapevole che questa situazione è figlia di diversi errori compiuti nel passato. “Noi avvocati non sempre abbiamo proceduto in modo virtuoso” – ammette Trantino. Ma entriamo nel cuore del sistema. “Se funzionasse – spiega il presidente - l’imputato dovrebbe essere sempre assistito dal difensore d’ufficio originariamente nominato in mancanza di fiducia o da quello di fiducia successivamente nominato. Per un difetto di comunicazione – aggiunge - che è dipeso soprattutto da nostre responsabilità la nomina fiduciaria non è stata mai comunicata al difensore precedentemente nominato d’ufficio il quale dava per presupposto che l’imputato avesse poi nominato un proprio difensore di fiducia e non si recava in udienza. Questo ha fatto sì – afferma Trantino - che molti imputati non siano assistiti da un difensore in udienza ingenerando la necessità di un giudice di nominare un difensore d’ufficio”. Una comunicazione poco efficace avrebbe dunque causato il fatto che molti imputati arrivino davanti ai giudici senza un’assistenza legale. E senza assistenza legale un processo non si può celebrare ed è qui che nascerebbe “l’intoppo” e la generazione delle anomalie. “Qua purtroppo sorge un problema – spiega l’avvocato Trantino - che devo dire stiamo cercando di risolvere con il Consiglio dell’Ordine innanzitutto che è l’organo istituzionalmente deputato a trovare una soluzione. Stiamo cercando di porre rimedio e di fronteggiare una condizione di anomalia che si registra in moltissime udienze, soprattutto nel caso di giudici monocratici”. “Vi è una sorta di monopolio delle difese d’ufficio da parte di soliti colleghi – afferma il presidente della Camera Penale di Catania - i quali le acquisiscono presidiando di fatto l’aula d’udienza e quindi ottenendo queste nomine d’ufficio. Se a ciò aggiungiamo che spesso capita che questi difensori d’ufficio sono quei difensori d’ufficio che prestano il consenso all’acquisizione di atti, quindi consentendo l’accelerazione del processo nella violazione dei diritti però dell’imputato il quale è assente o anche se presente ovviamente non conosce il codice di procedura penale, ci rendiamo conto che insorge una combinazione pericolosa perché il giudice è ovviamente invogliato a nominare chi gli consente di velocizzare il processo”. Da tempo si sta cercando, come detto, una formula che possa bloccare questa “combinazione pericolosa”. Ma per Trantino chi viene meno ad alcune regole deontologiche dell’avvocatura deve essere sanzionato. “E’ un fatto che abbiamo più volte segnalato – spiega ancora il presidente - e devo dire che il Consiglio dell’Ordine per espressione del presidente Magnano di San Lio e dell’avvocato Ignazio Danzuso si sono dimostrati molto sensibili e stanno anche loro cercando di porre rimedio. Ho l’impressione – ammette l’avvocato Trantino - che in assenza di ulteriori coefficienti risolutivi la cosa migliore sia provvedere a monitorare le singole udienze e segnalare questi casi che noi riteniamo anomali. Eventualmente, ove si dovesse effettivamente verificare che i colleghi si sono mossi in violazione del diritto di difesa degli imputati e quindi venendo meno al dovere deontologico, sollecitare l’adozione di misure disciplinari per evitare il protrarsi di questo genere di anomalie. La difesa d'ufficio deve essere presidio di legalità a tutela di chi è sprovvisto di difensore di fiducia. Non può diventare – conclude Trantino - un "mestiere" volto alla realizzazione di un guadagno da conseguire tradendo le ragioni per cui si è nominati”.

IL CALCIO TRUCCATO.

Calcio, partite comprate dal Catania. Blitz della polizia, dirigenti arrestati. Sette ordinanze di custodia cautelare. In manette il presidente Pulvirenti, l’ad Pablo Cosentino, il dg Delli Carri e altri quattro. Indagati in 19, c’è il proprietario del Messina, scrive " Il Corriere della Sera” il 23 giugno 2015. «Stamu avvulannu!». Un grido esploso in catanese - «stiamo volando!» - che al telefono raccontava la gioia incontenibile per quella serie di quattro vittorie consecutive valse la salvezza. Ma per ottenerle la squadra di calcio del Catania pagava vere e proprie mazzette. Una farsa. E soprattutto un giro di corruzione, legato anche alle scommesse, sul quale è piovuta una raffica di arresti che ha falcidiato la società. Un ennesimo scandalo, dopo quello che a maggio ha investito la Lega Pro, che minaccia di estendersi in modo imprevedibile. Per ora a essere sconvolta è la serie B. In manette il presidente Antonio Pulvirenti, imprenditore con interessi vastissimi: alberghi, supermercati, la compagnia aerea WindJet. Fermati anche l’amministratore delegato della società Pablo Cosentino e direttore generale Daniele Delli Carri, ex calciatore del Torino e della Fiorentina. Indagato pure il proprietario del Messina Pietro Lo Monaco. Stando alle carte giudiziarie, l’obiettivo dei dirigenti del Catania era quello consentire alla squadra di vincere ed evitare così la retrocessione. Ma inevitabilmente i meccanismi di corruzione vera e propria hanno favorito anche il giro delle scommesse clandestine, altro filone indagato dagli investigatori coordinati dal procuratore di Catania Giovanni Salvi. Di certo c’è l’ammontare delle mazzette: 10 mila euro consegnati a ciascun giocatore corrotto per favorire la sconfitta della propria squadra, avvantaggiando il Catania. A questo riguardo sono chiare le parole di Salvi che parla di «improvvisi sbalzi nelle quotazioni che possono indicare operazioni anomale derivanti dalla conoscenza e dalla consapevolezza che il risultato sarebbe stato già noto». «L’inchiesta nasce dal fatto che il presidente del Catania Calcio era pressato dai tifosi e temeva anche per la sua incolumità e si è rivolto alla Procura» ha detto Salvi. «Le indagini hanno in realtà preso un filone diverso che ci ha portato a questo risultato cioè all’individuazione di 5 partite quasi tutte consecutive che sono state comprate con i risultati in favore del Catania». Pulvirenti si sbraccia per infilare quel filotto di quattro vittorie consecutive. «Ormai l’ho inquadrato il campionato di serie B - lo sentono dire i poliziotti - ...l’anno prossimo arrivo primo». In un’altra intercettazione è Giovanni Impellizzeri - l’agente di scommesse on line che, secondo gli inquirenti, metteva a disposizione le «consistenti risorse economiche» che servivano per comprare le partite - a spiegare l’attesa salvezza del Catania. Incolpando i giocatori: «sono dei deficienti...troppo scarsi...se non ci pensavamo noi per queste cinque partite... eravamo retrocessi veramente». E poi aggiunge: «Ho caricato pure..altre 1.500 euro con la carta di credito...e non li ho potuti manco giocare ...comunque viva lo sport». Sarebbero - almeno sinora - cinque le partite finite nelle carte dell’inchiesta della Dda di Catania. Ci sono anche calciatori indagati e in totale sono 19 le persone raggiunte da avvisi di garanzia, compresi i fermati. Tra le partite sotto inchiesta:Catania-Livorno, Catania-Trapani, Catania-Latina, Catania-Ternana, Catania-Livorno. Accertamenti anche su Catania-Avellino e, per una questione separata - hanno spiegato gli investigatori nella conferenza stampa - anche Messina-Ischia. Anche la squadra dello Stretto è entrata pesantemente negli atti dell’inchiesta. Tra gli indagati c’è infatti il proprietario della squadra Pietro Lo Monaco, l’adAlessandro Failla. Avvisi di garanzia anche per i giocatori Alessandro Bernardini(Livorno) Riccardo Fiamozzi (Varese), Antonio Daì (Trapani) e Matteo Bruscagin(Latina). Non sono indagati giocatori del Catania. Tutto crolla all’indomani della sconfitta del Catania con la Virtus Entella per 2-0 del marzo scorso. Un risultato che fece sprofondare la squadra in zona retrocessione. Minacce a Pulvirenti dagli ultrà. Ma anche il piano per risollevare la squadra. L’operazione, denominata «I treni del gol», ha preso spunto da intercettazioni telefoniche tra gli indagati che utilizzavano sempre lo stesso modus operandi parlando in codice. I «treni in arrivo» erano i giocatori da avvicinare; gli «orari di arrivo» le maglie che i calciatore avrebbero indossato in campo, così come gli investigatori hanno accertato per la partita contro il Varese. «Estraneo» alle accuse contestate e «certo di potere dimostrare la totale estraneità ai fatti». È la posizione del presidente del Catania, Antonino Puvirenti, che attraverso il suo avvocato, il professore Giovanni Grasso, esprime «massima fiducia nella magistratura». La squadra del Catania era già stata pesantemente coinvolta nell’indagine «Dirty Soccer» avviata dalla procura di Reggio Calabria sulle scommesse che avevano alterato i risultati del campionato di Lega Pro. Sotto la lente d’ingrandimento degli investigatori era finita la partita Catania- Crotone del 16 febbraio 2015, serie B. Ne parla chiaramente un capitolo dell’ordinanza che riporta un’intercettazione tra il direttore sportivo de «L’Aquila» Ercole Di Nicola e uno dei finanziatori del giro illecito di scommesse, l’albanese Edmond Nerjaku. Il primo chiedeva al secondo se era disposto ad incontrarlo per discutere di una nuova frode sportiva da mettere in atto. Senza tanti giri di parole il dirigente abruzzese lo informava che la partita sulla quale stava «lavorando» era quella del Catania del giorno seguente. Appunto: il 16 febbraio 2015, match contro il Crotone nel posticipo della ventiseiesima giornata di B. I sette provvedimenti di arresti domiciliari sono stati eseguiti nei confronti del presidente del club, Antonio Pulvirenti, dell’amministratore delegato Pablo Cosentino, del direttore generale Daniele Delli Carri, e di altre quattro persone: si tratta di due procuratori sportivi e altrettanti gestori di scommesse on line. Si tratta di Giovanni Luca Impellizzeri, di 44 anni, agente di scommesse sportive online; Piero Di Luzio, 51, tesserato del «Genoa Cricket and Football Club»;Fabrizio Milozzi, 44, di Roma, e Fernando Antonio «Michele» Arbotti, 55 anni, assai noto procuratore sportivo e agente Fifa. Dall’ordinanza firmata dal gip Fabio Di Giacomo, emerge che il club etneo, tramite Giovanni Impellizzeri, che avrebbe agito come finanziatore, avrebbe pagato da dieci a ventimila euro a ciascun giocatore «corrotto» per ogni singola partita truccata. Le somme versate da Impellizzeri sarebbero poi rientrate con le scommesse sulle gare il cui risultato era stato già «sistemato» e sulle quali si puntava quindi a colpo sicuro. Il tramite con i giocatori sarebbe stato il procuratore Arbotti. Delli Carri è stato arrestato ai domiciliari nella sua abitazione di Francavilla al Mare. Da ex direttore sportivo del Pescara è stato protagonista con il Pescara di Zeman nella promozione di tre anni fa in serie A. Dopo questa esperienza aveva lavorato con il Genova e poi con il Catania. «Il rischio di invalidare il campionato non esiste. Per definizione la responsabilità è individuale, quindi risponde chi paga». Così il presidente della Lega di Serie B Andrea Abodi a Sky TG24 HD, in merito alla possibilità che l’inchiesta che ha colpito alcuni dirigenti del Catania possa invalidare il campionato di Serie B appena concluso. In ogni caso «la prima reazione è sicuramente un grande dolore perché lavoriamo ogni giorno per rendere comunque credibile il nostro contesto e questa è una notizia che ci lascia sgomenti». «Ho letto le agenzie, non ne so niente. Ma si commenta tutto da solo. È una vergogna. È imbarazzante. In giornata forse sapremo qualcosa di più. Certo, non c’è mai limite al peggio». Così il presidente del Coni, Giovanni Malagò, commenta l’inchiesta giudiziaria che coinvolge il calcio con il caso Catania.

Calcio truccato, arresti a Catania: partite comprate per non retrocedere. Ecco l'elenco dei 5 match (forse 6) incriminati. Arrestati Pulvirenti e i vertici del club etneo, ma la valanga rischia di travolgere altre squadre, scrive Giovanni Capuano su "Panorama". Caos sul Catania Calcio e sulla serie B. La Polizia ha infatti eseguito all'alba di martedì 23 giugno 2015 un'operazione che ha portato all'arresto di sette persone legate in maniera diretta o indiretta al club che nell'ultima stagione ha conquistato la salvezza in extremis: dirigenti e non solo che avrebbero comprato parte delle ultime gare del torneo per evitare lo spettro di una retrocessione che a un certo punto era parsa a rischio. L'inchiesta è condotta dalla Digos e coordinata dalla Dda di Catania. Tra le persone sottoposte a ordinanza di custodia cautelare ci sono Antonino Pulvirenti, presidente della società, Pablo Cosentino, amministratore delegato e il direttore generale Daniele Delli Carri. Le accuse per loro sono di frode sportiva e truffa. Secondo gli investigatori il Catania avrebbe truccato cinque delle ultime partite per evitare la Lega Pro. Gli altri due arrestati sono due procuratori sportivi (uno è l'avvocato 50enne Fernando Arbotti e l'altro Fabrizio Milozzi) e due gestori di scommesse on line (Giovanni Impellizzeri e Pietro Di Luzio), perchè anche il calcioscommesse ha avuto un ruolo in una vicenda che getta discredito su tutto il calcio italiano e sulla serie B, già provata dall'inchiesta sul Teramo, accusato di aver comprato la vittoria decisiva per salire dalla Lega Pro, sulla Salernitana, altra promossa, e dal fallimento del Parma che potrebbe portare al ripescaggio del Brescia. L'inchiesta coinvolge, però, anche altri personaggi del mondo del calcio a partire da Pietro Lo Monaco, in passato amministratore delegato del Catania e poi proprietario del Messina. Con lui anche Fabrizio Ferrigno (ds Messina), l'amministratore delegato Alessandro Failla e alcuni giocatori: Alessandro Bernardini (Livorno), Riccardo Fiamozzi (Varese), Antonio Daì (Trapani) e Matteo Bruscagin (Latina). In tutto sono 19 le persone alle quali sono state notificate informazioni, tra arresti e semplici iscrizioni nel registro degli indagati. Pulvirenti, attraverso il suo legale, si è detto "certo di poter dimostrare la totale estraneità ai fatti" avendo "massima fiducia nella magistratura".

Quali partite coinvolte?

Sono cinque che la Procura di Catania ritiene sicuramente combinata più una sesta su cui proseguono le indagini. Ecco l'elenco: Varese-Catania 0-3 (2 aprile) Catania-Trapani 4-1 (11 aprile) Latina-Catania 1-2 (19 aprile) e Catania-Ternana 2-0 (24 aprile) Catania-Livorno 1-1 (2 maggio) più i dubbi su Catania-Avellino 1-0 (29 marzo). Si tratta della fase stagionale in cui glòi etnei riuscirono a fare un deciso balzo avanti in classifica arrivando alla quasi certezza della salvezza. Dopo la 32°, infatti, infilarono un filotto di 5 vittorie consecutive (e 4 di queste partite sono sotto accusa più quella che ha aperto la serie contro l'Avellino sotto indagine) al termine delle quali la squadra si trovò undicesima a quota 47 e con 6 lunghezze di vantaggio sulla zona caldissima. Un'accelerazione inaspettata, visto che nelle precedenti 8 giornate la vittoria era stata una chimera (5 punti su 24 disponibili dopo il successo sul Perugia della 24°). Da lì in poi un altro crollo: 2 punti nelle ultime 5. Sorprendente.

"Prove sulla combine da un'inchiesta nata su denuncia di Pulvirenti"

"Riteniamo che gli elementi raccolti indichino che 5 o forse 6 partite siano state truccate attraverso il pagamento di denaro ai calciatori" hanno spiegato i magistrati. Un atto d'accusa durissimo e che coinvolge anche altre persone, al momento non ancora informate di essere al centro di una bufera giudiziaria. Indagine nata da una denuncia dello stesso Pulvirenti, preoccupato per eventuali ritorsioni della tifoseria del Catania nella fase calda della stagione; gli uomini della Digos sono partiti da lì, però, e sono arrivati ad altre conclusioni. Pulvirenti si era allarmato dopo la sconfitta contro l'Entella (21 marzo 2015) che fa sprofondare la squadra all'ultimo posto della classifica. Da subito emerge, però, l'esistenza di una rete criminale al servizio del Catania. Da qui i primi sospetti sulla gara contro il Varese, confermati da colloqui intercettati e l'allargarsi a macchia d'olio dell'inchiesta.

Come operavano?

Prima l'ideazione della combine da parte del presidente Pulvirenti e poi la realizzazione con la consegna del denaro necessario per pagare i calciatori avvicinati. "Le intercettazioni sono solo un pezzo di questa inchiesta, ci sono anche video e pedinamenti che testimoniano le fasi salienti della corruzione" hanno spiegato i magistrati. Pulvirenti otteneva l'ok da Giovanni Impellizzeri, finanziatore della combine e che poi rientrava piazzando scommesse tarocche, contattava Delli Carri perché questi si attivasse attraverso Di Luzio per rendere esecutiva la frode con l'aiuto del procuratore e agente Fifa Arbotti che aveva relazioni e conoscenze utili per avvicinare i calciatori considerati sensibili alle offerte in denaro. Il prezzo della corruzione era da 10 a 20mila euro per giocatore a seconda della partita.

Varese-Catania e l'autodenuncia dei lombardi

Nell'elenco delle partite sospette c'è anche Varese-Catania del 2 aprile 2015. Una gara già salita alla ribalta perchè oggetto di un'autodenuncia da parte dei dirigenti varesotti che, attraverso il monitoraggio di Federbet, erano arrivati a conoscenza del crollo delle quote sul '2' della partita (da 2,85 a 1,60 in poche ore per poi arrivare al blocco delle giocate). Alla vigilia della sfida era partita la segnalazione alla Procura federale ed erano stati avvisati i calciatori, poi sentiti al termine della partita. Un modo innovativo per mettersi al riparo dalla responsabilità oggettiva, anche se a seguire il ragionamento dei magistrati di Catania non sarebbe stato sufficiente ad evitare la combine. Federbet è una società che si occupa del monitoraggio dei flussi di scommesse e che lavora con alcuni club in Italia oltre che all'estero. Uno strumento preventivo utile, ma ancora poco usato.

Abodi: "Grande dolore, ma non è tutto marcio"

"La prima reazione è un grande dolore, perchè lavoriamo ogni giorno per rendere credibile e aumentare la reputazione del nostro contesto, quindi questa è una notizia che lascia sgomenti" è stato il commento di Andrea Abodi, presidente della Lega di Serie B: "Bisogna reagire immediatamente, continuare il nostro lavoro. L'impegno verrà ulteriormente moltiplicato. Mi auguro che le cose vengano chiarite e che si sappia la verità il prima possibile. Di fronte a certi fenomeni la risposta sia dura e faccia capire che il nostro mondo non è disposto ad accettare nessun tipo di accomodamento o accordo che mortifichi il campo e il valore sportivo di una competizione".

Catania sotto choc: dall’arresto di Pulvirenti ai sequestri a Ciancio. In pochi giorni tre inchieste nella «Milano del Sud»: da quella sulla squadra di calcio agli accertamenti sull’editore de «La Sicilia» e sul sottosegretario Giuseppe Castiglione, scrive Felice Cavallaro su “Il Corriere della Sera”. E’ come se l’Etna avesse cominciato ad eruttare lava travolgendo stavolta le case dei potenti di sempre. Perché l’arresto del gran capo del calcio catanese, del poliedrico imprenditore Antonino Pulvirenti, con sei dei suoi dirigenti per frode sportiva e truffa, segue solo di pochi giorni il sequestro di beni per 17 milioni di euro al gran capo dell’editoria, Mario Ciancio. Al patron ed editore de «La Sicilia». Inchiesta partita addirittura per sospetto concorso in associazione mafiosa. Un boato. Come l’indagine aperta sempre dalla procura etnea contro Giuseppe Castiglione, il sottosegretario di Renzi in quota alfaniana, sul quale pendono adesso pure due mozioni di sfiducia del M5Stelle e di Sel per i pasticci legati al mondo dell’immigrazione. Sembra la «masculiata» della Festa di Sant’Agata, quando nella notte della patrona i botti dei giochi di fuoco concludono processioni e baldoria illuminando a giorno la città. Un compito che, con i carabinieri del Ros, sta assolvendo proprio alla fine del suo mandato il procuratore della Repubblica Giovanni Salvi, le valigie pronte per la Procura generale di Roma, sul tavolo gli ultimi e più delicati fascicoli intestati ai potenti siciliani scrutati da un paio d’anni. La botta per Catania è tremenda. Bisognerà completare le inchieste e fare i processi per avere le sentenze, ma la botta per Catania è tremenda. La vergogna di una compravendita delle partite per restare aggrappati alla serie B è un dubbio che si trasforma comunque in vergogna per l’orgoglio dei tifosi già da mesi lanciati in filippiche contro Pulvirenti, assedi ai giocatori, spalti vuoti. Ancora peggio con Ciancio, raffinato collezionista di arte antica, oltre che di decine di milioni di euro ben custoditi in Svizzera. Peggio perché per la Procura di Salvi sarebbero stati ricostruiti numerosi affari «infiltrati da Cosa nostra sin dall’epoca in cui l’economia catanese era sostanzialmente imperniata sulle attività delle imprese dei cosiddetti cavalieri del lavoro, tra i quali Graci e Costanzo». Ovvio che a preoccuparsi siano per primi i giornalisti che lavorano per Ciancio. Ma ad indignarsi e tuonare sono in tanti, a cominciare dal vice presidente della Commissione antimafia Claudio Fava che in quell’epoca vide assassinare il padre, inviso ai «cosiddetti cavalieri». La «Milano del sud» e la caduta degli dei. Aspettando i processi, i sospetti vengono bilanciati dalla certezza dello stesso Ciancio di una estraneità totale con ogni misfatto e che i suoi beni sono «eredità antiche», peraltro «oggetto di scudo e collaborazione volontaria, secondo le leggi italiane». E, attraverso i suoi avvocati, respinge ogni accusa Pulvirenti. Come fa Castiglione in una città che s’interroga sul passato di una ormai dimenticata «Milano del Sud» dove si assiste comunque a una sorta di caduta degli dei.

Cavalli, concessionarie, scommesse: gli scandali senza fine del calcio italiano. Catania non è che l’ennesimo episodio di illecito sportivo nel pallone nostrano: una storia torbida che inizia già nel 1927, con lo scudetto revocato al Torino, scrive Matteo Cruccu su “Il Corriere della Sera".

1. Quello scudetto revocato. La bolla esplosa a Catania, coni sette arresti per le partite truccate, è l’ennesimo caso di illecito sportivo, di un calcio che, possono passare le mode e le stagioni, ma ricade sempre negli stessi vizi e nelle stesse scorciatoie. Ecco, in rassegna alcuni degli scandali più gravi degli ultimi 80 anni. Già, le cattive abitudini che non sono cominciate l’altro ieri, ma affondano agli albori del nostro calcio, al tempo dei pionieri. Nel 1927, per esempio, al Torino verrà revocato uno scudetto per un tentativo di corruzione del terzino bianconero Allemandi (il secondo in piedi da destra), un caso nebuloso che non verrà mai chiarito fino in fondo.

2. Catania primo round. Finisce la guerra, il Napoli verrà investito dal sospetto di corruzione dal Bologna nel 1947, ma è il 1954-55 la stagione dello scandalo. L’Udinese incanta a sorpresa per tutta la stagione e alla fine si piazza seconda dietro il Milan. Mentre il Catania si salva con agio. Ma è un’illusione. Perché il giocatore della Pro Patria, Rinaldo Settembrino, rivela di aver ricevuto 150.000 lire insieme ad altri compagni, un anno e mezzo prima, per truccare la partita e far vincere l’Udinese, cosa che effettivamente accade. I bianconeri chiedono invano la prescrizione, ma vengono retrocessi d’ufficio. La dirigenza del club siciliano viene invece accusata di aver corrotto l’arbitro Scaramella con un milione e mezzo per due gare: anche il Catania scende in B.

3. Per una concessionaria d’auto. Nel 1974 il giocatore Italobrasiliano del Napoli, Sergio Clerici viene contattato da Saverio Garonzi, presidente del Verona, in cui l’attaccante ha militato in precedenza. Gli avrebbe promesso una concessionaria d’auto in Brasile in cambio di un aggiustamento della partita con gli azzurri. La telefonata viene scoperta da un quotidiano e il Verona viene retrocesso d’ufficio in Serie B, mentre il Foggia, anch’esso coinvolto in un tentativo di corruzione nei confronti dell’arbitro Menicucci (che rifiuta) avrà sei punti di penalizzazione.

4. Terremoto 1980. Ma è il 1980 l’anno zero del calcio italiano: il 23 marzo, gazzelle dei carabinieri entrano in campo e arrestano, tra lo choc generale, tredici giocatori mentre altri quattro ricevono un ordine di comparizione. La piovra delle scommesse investe per la prima volta una buona metà delle squadre della A. E costa la retrocessione al Milan, come mai era successo prima. Mentre fior fior di professionisti ricevono squalifiche durissime: Paolo Rossi, totem in quel momento del pallone nostrano, sarà punito con uno stop di tre anni (poi ridotto a due).

5. Il bis sei anni dopo. Ma la lezione serve a poco, passano sei anni e un nuovo scandalo, il totonero bis, travolge la credibilità del sistema calcio: se questa volta non sono coinvolte squadre di primissimo piano, tantissimi sono i club sotto inchieste, in tutte le categorie. L. R. Vicenza non viene ammesso in serie A che pure aveva conquistato Serie A, mentre le altre, dall’Udinese al Cagliari (il suo allenatore Ulivieri viene squalificato per tre anni), ricevono diversi punti di penalizzazione.

6. Darsi all’ippica. Nel 1993 il Perugia di Luciano Gaucci viene promosso in Serie B dopo sette anni: ma gli arbitraggi di Emanuele Senzacqua sembrano assai sospetti, soprattutto in due casi, Siracusa Perugia 0-0 e Perugia-Nola 4-1. Si scoprirà poi che l’arbitro è un grande appassionato di ippica e che Gaucci, proprietario di una scuderia, ha regalato un cavallo al suocero di Senzacqua, invitandolo poi a pranzo. Il direttore di gara, una volta sentito dalle forze dell’ordine, confessa il tentativo di illecito sportivo. Il Perugia non viene ammesso alla Serie B e inizia già nel 1927, con lo scudetto revocato al Torino.

7. La busta gialla. Il 14 giugno i carabinieri fermano il dirigente del Venezia Giuseppe Pagliara, nei pressi dell’azienda del presidente del Genoa, Enrico Preziosi, con una busta contenente un modulo di contratto di vendita intestato al Genoa CFC e 250.000 euro in contanti: i lagunari già retrocessi hanno perso la partita coi rossoblù, tre giorni prima, tornati in A dopo dieci anni di attesa. La procura stabilirà che il Genoa è colpevole di frode sportiva, condannando il presidente a 5 anni di squalifica e la società alla retrocessione in C1. Sette anni dopo la Cassazione stabilirà che in realtà Preziosi aveva reagito alle offerte del Torino al Venezia perché tentasse di battere in tutti i modi i rossoblù. Sbagliando però, poiché «vittima di una aggressione aveva agito in propria difesa da solo senza rivolgersi alle autorità federali che lo avrebbero tutelato.

8. Calciopoli. Nel 2006 il campionato italiano viene azzerato di nuovo: scoppia «Calciopoli» alla vigilia dei Mondiali di Calcio. Alla Juventus vengono revocati due titoli per illecito sportivo e viene retrocessa per la prima volta nella sua storia in Serie B, mentre altre squadre vengono penalizzate a vario titolo. Iniziano lunghi processi in sede sportiva e penale: il primo è stato chiuso nel 2012, con la radiazione, tra gli altri, dell’ex dg della Juventus Luciano Moggi, mentre il secondo è arrivato in Cassazione nel marzo di quest’anno.

9. Scommesse, ancora loro. Infine il terzo e ultimo scandalo calcioscommesse: nel 2011 le procure di Bari e Cremona coinvolgono calciatori, dirigenti, società di serie A, B, Lega Pro e dilettanti con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla frode sportiva. Il processo si basa sulle testimonianze di diversi collaboratori tra cui ex giocatori che ammettono di aver truccato partite per incassare soldi dalle puntate. Da Doni a Signori, vengono coinvolti nomi notissimi del panorama italiano. Ora Catania. E gli scandali non sembrano finire mai.

NICOLE DI PIETRO E LORIS ANDREA STIVAL: STORIE DI MALASANITA’ E DI MALAGIUSTIZIA?

Catania, Nicole uccisa da un’incredibile serie di errori. La morte della bimba diventa un caso. Dieci persone sotto inchiesta dalla Procura. E mentre ospedali, 118 e Regione si difendono la mamma accusa: “Non è stata una fatalità”, scrive Fabio Albanese su “La Stampa”. Malasanità, fatalità o malapolitica? Perché è morta Nicole, perché nessuno è riuscito a salvare una bimba nata da appena tre ore e morta sull’ambulanza che la stava trasportando a 120 km di distanza dalla clinica dove era venuta alla luce? La procura di Catania ha confermato che ci sono i primi indagati - si parla di una decina di persone, 4 solo della clinica - ma ha subito messo le mani avanti: «Ci sono responsabilità diverse - ha detto il procuratore Giovanni Salvi - noi ci occupiamo di quelle penali di singole persone. Per quanto riguarda i profili organizzativi e la disponibilità delle sale bisogna chiedere a chi è competente, a partire dall’assessorato regionale alla sanità». L’assessore Lucia Borsellino ha convocato a Palermo i manager degli ospedali catanesi coinvolti nella vicenda, i vertici della clinica e i responsabili del 118, e ha poi precisato: «Siamo al di sopra degli standard previsti dalle linee guida ministeriali sotto il profilo delle urgenze neonatali. I nostri posti letto sono in numero superiore. Va accertato quanto è stato fatto in rispetto dei protocolli». Insomma, per spiegare la morte di Nicole, emergono profili diversi: quelli penali e quelli amministrativi. Su tutto, il nodo politico della gestione della sanità in Sicilia. E ora bisogna ricostruire quanto successo in quelle drammatiche tre ore nella notte tra mercoledì e giovedì scorsi nella clinica Gibiino, tra le più blasonate di Catania. La Gibiino, come tutte le cliniche private in Sicilia, non ha un’unità di rianimazione neonatale, e questo nonostante tratti centinaia di parti ogni anno. Secondo l’Aiop (Associazione italiana ospedalità privata) perché la Regione non vuole autorizzarle. A Catania ci sono quattro ospedali pubblici che ne hanno una. Alla Gibiino dicono di aver «stabilizzato» la bimba per poterla trasferire in una rianimazione neonatale (Utin): «Dagli esami autoptici emergerà che il decesso è stato causato da fattori che esulano dall’attività dei medici della struttura, che hanno fatto di tutto per salvare la vita alla neonata». Nessuno degli ospedali catanesi aveva posti disponibili nelle Utin. «Il problema non è medico ma politico, questo è solo un boomerang dei tagli sconsiderati alla sanità - dice Vincenzo Di Benedetto dell’Utin del Policlinico - a Catania nascono 12 mila bambini l’anno e abbiamo, fra tutti gli ospedali, soltanto 38 posti di terapia intensiva». Quando è apparso chiaro che a Catania non c’era posto, la clinica ha contattato il 118. È stata la sala operativa del servizio di emergenza a trovare un posto all’ospedale Paternò Arezzo di Ragusa, città a due ore da Catania. Perché lì e non a Taormina o Messina, più vicine e collegate da un'autostrada? Pare, ma è parte dell’inchiesta, che i posti letto vadano cercati negli ospedali della stessa area di competenza del 118. E Catania sta con Siracusa e Ragusa. La morte di Nicole ha fatto emergere un’altra assurdità: l’elisoccorso di stanza a Catania da 2 anni non decolla di notte. Per volare fino a Ragusa bastavano venti minuti. Tutto questo al momento ha poca importanza per i familiari di Nicole, all’obitorio di Ragusa in attesa dell’autopsia. Il papà, Andrea Di Pietro, è accanto alla moglie Tania che su Facebook ha scritto: «Non mi hanno permesso di stringerla, di accarezzarle la manina e farle sentire che le ero vicina. Me l’hanno portata via senza averla potuta salutare. La nostra bimba non c’è più e non per cause naturali ma per tanti errori umani. Presto si avrà giustizia e la mia bambina avrà pace». 

«Non c’è posto» la bimba muore in ambulanza, scrive Antonello Micali su “Il Garantista. La domanda, seppur retorica, nasce spontanea, quantomeno nell’uomo della strada: ma è mai possibile che una persona in Italia muoia, semplicemente, perché non si trova un posto dove ti curino e dopo aver provato invano in tre ospedali di una grande città? Evidentemente la risposta è sì. Se poi questa persona è pure una neonata…Sì, perché ieri una bimba con poche ore di vita alle spalle è morta proprio così, in ambulanza, prima di potere raggiungere l’ospedale, quello di Ragusa, cui era stata indirizzata dopo che a Catania, la città dove la piccola vittima era appena nata, non c’erano più posti letto di Rianimazione disponibili. A nulla è valsa la disperata corsa nella notte (oltre un’ora di viaggio) verso il centro Ibleo che dista un centinaio di chilometri da quello etneo: la piccola che aveva appena poche ore di vita e che era venuta alla luce in una clinica privata, in quel nosocomio, viva, non ci è mai arrivata. E dire che era andato tutto bene: un parto regolare in una clinica privata, la Gibino di Catania, che non faceva presagire quello che si è invece consumato nelle ore successive, quando la bimba ha iniziato ad accusare seri problemi respiratori; da lì l’odissea e il tragico epilogo. Su quello che si candida a pieno titolo come ennesimo caso di malasanità italiana, la polizia di Ragusa ha avviato un’indagine che in queste ore viene coordinata dal sostituto procuratore Serena Minicucci. Contestualmente i famigliari della neonata hanno depositato presso la procura di Catania la loro denuncia. Ora spetterà al magistrato, che ha già sequestrato la cartella clinica della piccola, se disporre l’autopsia: a questo punto un’ipotesi tutt’altro che remota. Accertamenti della magistratura a parte, la dinamica della vicenda appare comunque abbastanza chiara: appena sono insorte le difficoltà a respirare della bambina è stato chiesto l’intervento del 118, che ha a sua volta avviato un monitoraggio nei tre ospedali catanesi dotati di Terapia intensiva pediatrica: il Garibaldi, il Santo Bambino e il Cannizzaro. Riscontrata l’assenza dei posti letto, la clinica ha quindi provveduto, con un’ambulanza privata, al trasporto della neonata a Ragusa, con al seguito i propri medici. La direzione della Gibino ha diramato un comunicato con cui esprime profonda amarezza e grande dolore per quanto accaduto alla famiglia della bimba. «La clinica- si legge inoltre nel documento – sta collaborando con le autorità competenti e gli investigatori per fornire nel dettaglio il quadro clinico delle bimba al momento e dopo la nascita». Tra i familiari la prima e finora unica parlare è stata la nonna paterna della piccola, puntando il dito delle possibili responsabilità, oltreché sulla mancanza dei posti, anche sul tempo che sarebbe stato perso dai medici già a Catania: «E’ assurdo – ha detto la donna – dall’una alle 4 i medici hanno perso del tempo prezioso. Ora vogliamo sapere se c’è stata negligenza». La piccola Nicole, così si chiamava, era la prima figlia di una giovane coppia che ora è assistita dall’avvocato Giuseppe Miceli. Il legale in questa fase ha scelto di non rilasciare alcuna dichiarazione, consigliando di fare altrettanto ai suoi clienti. Cosa da cui invece non si è invece sottratto il sindaco di Catania Enzo Bianco: «Un episodio gravissimo, che conferma come sia un coordinamento non soltanto tra le strutture catanesi, peraltro avviato, ma tra quelle dell’intera città metropolitana».

Neonata morta a Catania: le responsabilità. "Le responsabilità sono dei singoli e non delle strutture", così dichiara il procuratore Salvi. Sotto sequestro gli atti amministrativi, scrive “Panorama”. Anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha espresso tutta la sua "incredulità" per la vicenda di Nicole, la bambina morta in Sicilia la notte del 123 febbraio 2015 scorsa. La neonata, che ha avuto gravi crisi respiratorie dopo la nascita nella clinica privata Gibiino di Catania, è stata trasferita d'urgenza in ambulanza nel reparto di rianimazione pediatrica dell'ospedale di Ragusa, distante 100 chilometri, perché nel capoluogo etneo non c'erano posti disponibili, ma è morta prima di arrivare a destinazione. Sull'episodio la Procura di Ragusa ha aperto un'inchiesta per accertare eventuali responsabilità mediche e sulla disponibilità di strutture cliniche non adeguate a Catania o nelle province più vicine. Nell'inchiesta "e' stata acquisita la documentazione medica e quella delle strutture amministrative deputate individuare il luogo dove doveva essere portata, e gli ospedali che hanno dichiarato di non avere posti". Lo afferma il procuratore Giovanni Salvi. "Le responsabilità penali - dice - sono dei singoli e non delle strutture". In pratica, gli errori sull'organizzazione del trasferimento e sul servizio, sarebbero imputabili a decisioni autonome, indipendenti dalla struttura. Prima di eseguire l'autopsia sulla piccola Nicole "dobbiamo avere più chiare le ipotesi di responsabilità". Lo ha detto il procuratore di Catania Giovanni Salvi. "Per potere svolgere accertamenti tecnici irripetibili come l'autopsia - ha spiegato il magistrato - prima devono essere individuate persone che domani possano essere chiamate a rispondere di questo reato, ma al momento non abbiamo elementi specifici che possano far ritenere accertate le responsabilità". Secondo una prima ricostruzione della vicenda, la neonata sarebbe entrata in crisi respiratoria dopo il parto, avvenuto la notte scorsa regolarmente in un clinica privata di Catania. Nella sala erano presenti, tra gli altri, il ginecologo di fiducia della donna, un anestesista, un rianimatore e un neonatologo. I medici si sono accorti subito della gravità del quadro clinico della piccola e hanno contattato le Unità di trattamento intensivo neonatale (Utin) di Catania per trasferirla d'urgenza. Ma erano tutte  senza disponibilità di posti. È stato così contattato il 118 che ha cercato e trovato una Utin disponibile nell'ospedale Paternò-Arezzo di Ragusa. La clinica ha quindi provveduto, con un'ambulanza privata, al trasporto della neonata a Ragusa, con al seguito i medici specialisti della struttura privata. Dopo Vizzini, e in territorio della provincia di Ragusa, prima dell'alba, la piccola paziente ha avuto una violenta crisi. I medici a bordo dell'ambulanza hanno tentato di rianimarla, ma la neonata è morta. La piccola Nicole era la primogenita di Andrea e Tania, giovani sposi da due anni. Vivono a Gravina di Catania. Lui, che ha presentato la denuncia ai carabinieri del capoluogo etneo, lavora in un bar, lei invece e' casalinga. Non parlano con i giornalisti nella clinica Gibiino. Si fa portavoce il loro legale, Giuseppe Miceli: "Questo non e' il momento di commentare - dice - Non possiamo dire alcunche', vi prego di rispettare il dolore della famiglia". Commenta però la nonna di Nicole, Giusi C: "È inconcepibile, quello che è successo è inconcepibile...". E avanza il sospetto che "dall'1 alle 4 si sia perso del tempo prezioso, forse i medici non si sono accorti che stava male, e per questo non hanno accelerato". La nonna chiede "giustizia e sapere se c'è stata negligenza, noi lo vogliamo sapere e ne abbiamo il diritto...""Si tratta di un episodio gravissimo, che conferma come sia assolutamente indispensabile un coordinamento non soltanto tra le strutture catanesi, che da tempo abbiamo avviato, ma tra quelle dell'intera città metropolitana" ha detto il sindaco di Catania, Enzo Bianco. "Non possiamo permettere - ha aggiunto - che si verifichino simili tragedie. Quando i posti in determinati reparti specialistici si esauriscono, deve immediatamente scattare un piano alternativo che consenta di trasportare il paziente nella struttura più vicina e nel più breve tempo possibile. Non si può giocare con delle vite umane e bene ha fatto l'assessore Borsellino ad avviare immediatamente un'indagine annunciando che non si guarderà in faccia nessuno". "I posti nelle Unità di terapia intensiva neonatale a Catania sono certamente meno di quelli che sarebbero necessari". Lo afferma la dirigente dell'Utin dell'ospedale Garibaldi-Nesina di Catania, Angela Motta, uno dei reparti che era senza posto. "Abbiamo ricevuto - ricorda la dottoressa mentre ha in braccio una delle due gemelle nate a sua figlia - la chiamata del 118 che ci ha chiesto la disponibilità di un posto impersonale. Il reparto è pieno, abbiamo 10 posti letto, e non c'era la disponibilità, Ci sono dei criteri per la priorità nei ricoveri nelle Utin, fissati da un protocollo del 2014, che noi applichiamo da due anni". A Catania sono ufficialmente all'incirca 35, distribuiti in quattro ospedali, i posti nelle Utin, due delle quali sono senza primario, sostituiti da pediatri, un neonatologo e un chirurgo. ''Abbiamo immediatamente inviato gli ispettori in Sicilia per fare luce sulla morte della neonata a Catania. Abbiamo chiesto una relazione dettagliata e in tempi brevi''. Cosi il Ministro della Salute Beatrice Lorenzin all'Ansa, esprimendo "profondo sdegno per la morte della neonata, una vicenda che lascia sgomenti''. Il ministro ha poi sottolineato che quello di oggi non è il primo caso del genere. ''Nei nuovi Livelli Essenziali di Assistenza, Lea, abbiamo inserito la parte prenatale come assistenza al parto. Per noi la rete di neonatologia è una priorità. ''Riferirò in aula - ha concluso il ministro - del risultato delle ispezioni, che ci saranno in tempi brevi, come in tempi brevi verificherò i Lea in Sicilia a la rete neonatale''. "Le notizie circolate in queste ultime ore sul conto della casa di cura sono assolutamente infondate". Lo afferma la clinica Gibiino sulla morte della piccola Nicole, ritenendo che sono "probabilmente frutto di una ricostruzione dei fatti certamente influenzata dall'emotività che ha caratterizzato i concitati istanti susseguiti alla nascita e dalla rabbia che giustamente sta sconvolgendo i parenti delle vittime". "Comprendiamo il dolore della famiglia - aggiungono dalla casa di cura di Catania - e siamo sconvolti per quanto accaduto, ma e' importante precisare che in questo momento occorre concentrarsi sul corretto accertamento delle cause che hanno realmente provocato la morte della piccola Nicole, affinchè ciò non accada mai più". "La ricerca morbosa di una storia da raccontare - conclude la nota della clinica catanese - e' certamente controproducente, dannosa e fonte di ostacolo per il lavoro degli inquirenti e delle autorità che stanno esaminando il caso”.

La mamma di Nicole racconta su FB il suo dolore: la tua vita era la mia vita. Un saluto alla sua bambina. E il passaggio dalla gioia al dolore, quello che "t'insegue” e che "ti svuota e ti toglie la voglia di vivere", scrive Marina Jonna su “Panorama”. L'attesa, la gioia dell'arrivo della bimba. E poi il dolore: un dolore che t'insegue e non ti da pace. La mamma della piccola Nicole, la neonata morta in ambulanza per cause ancora da accertare,Tania Laura Egitto, affida a una lettera su Facebook i suoi sentimenti e il suo dolore: "Ci sono tanti tipi di amore e noi abbiamo avuto la fortuna di provarli tutti, il più grande è senza dubbio quello per i propri figli ed io e Andrea lo proveremo per sempre per la nostra piccola Nicole che fin da subito dentro me ci ha regalato una gioia immensa e un amore infinito.......poi c è il dolore quello non vorresti mai provarlo sotto nessuna forma, ma lui t insegue..e noi siamo stati inseguiti e presi da quello più brutto, il dolore della perdita di un figlio..un dolore che ti spezza il cuore in mille pezzi, un dolore che ti svuota, ti toglie la voglia di vivere, perché la tua vita era la sua vita. La nostra bambina non c è più. . .e non per cause naturali, ma per un errore umano, tanti errori umani...quello che dicono i TG è solo una parte di verità...ma presto si avrà giustizia, presto tutto verrà alla luce e la mia bambina avrà pace. Non mi hanno permesso di vederla, di stringerla a me, di accarezzarle la manina e farle sentire che io le ero vicino, me l hanno portata via, senza averle potuto dare il suo primo e ultimo saluto. Piccola mia tu vivrai per sempre nei nostri cuori.... ricorderò ogni piccolo movimento che facevi dentro me fino a poco prima della tua nascita eri e sarai per sempre la mia piccola ballerina scatenata..Ti amo amore di mamma”.

Tutti i bambini morti per la malasanità. Dal latte iniettato via endovena al decesso della neonata Nicole. Da Nord a Sud Italia i casi vergognosi che hanno coinvolto i più piccoli, scrive Nadia Francalacci su “Panorama”.

Il terribile caso di Catania. Da Catania a Ragusa. E il suo cuoricino non ce l’ha fatta e ha smesso di battere. La neonata sarebbe entrata in crisi respiratoria dopo il parto, avvenuto poche ore prima, in un clinica privata di Catania. Le prime ore sono trascorse regolarmente poi, l’improvvisa crisi respiratoria. Così i medici hanno deciso il trasferimento in una struttura pubblica, tentando prima quelle presenti del capoluogo etneo poi presso quella di Ragusa. Ma in tutti i nosocomi catanesi per la piccola Nicole non c’erano posti in terapia intensiva. Così è iniziata la corsa in ambulanza verso Ragusa e proprio in territorio ragusano, prima dell'alba di giovedì, la piccola paziente ha avuto una violenta crisi, l'ultima. I medici a bordo dell'ambulanza hanno tentato di rianimarla, ma la neonata è morta. Eppure, il caso della piccola neonata di Catania che ha addolorato l’Italia e sul quale è intervenuto anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, non è l’unico caso di malasanità che riguarda un neonato. Purtroppo decine di bambini sono deceduti in pochi anni per diagnosi sbagliate o durante il parto per interventi non adeguati. Ecco quali sono.

Bimba morta a Tor Vergata. 11 settembre 2013: Una piccola di 2 anni muore in un ospedale di Roma durante un intervento preparatorio per un trapianto di midollo osseo. Il decesso avviene per l'utilizzo di uno strumento sbagliato che ne avrebbe provocato un'emorragia che ha invaso i suoi piccoli polmoni. Ma la direzione del nosocomio ha sempre smentito. La famiglia era arrivata da Gela per il trapianto al midollo osseo che si sarebbe dovuto realizzare a ottobre. La piccola era affetta da una brutta malattia dalla quale la piccina si sarebbe potuta salvare grazie al midollo compatibile del fratello. Un viaggio della speranza, dalla Sicilia alla capitale, dove il nemico da sconfiggere si chiamava anemia drepanocitica e non di certo un catetere.

Quella strana faringite...7 settembre 2012: Rebecca Balzarini muore a soli 8 anni, all'ospedale di Busto Arsizio. Una morte improvvisa che per settimane ha impegnato anche gli stessi medici nel tentativo di comprenderne la causa. La mamma aveva portato la piccola al pronto soccorso: i sintomi erano quelli dell'influenza, nulla che potesse far presagire un epilogo tragico. Aveva la febbre alta e dopo averla visitata i medici l'avevano rimandata a casa, diagnosticando una faringite.

Una morte inspiegabile. 28 gennaio 2011: Il dramma si consuma all'ospedale di Busto Arsizio, dove una piccola di soli dieci mesi muore a poche ore dal ricovero nel pronto soccorso pediatrico dove è entrata pochi minuti dopo la mezzanotte. Mamma e papà spiegano che la bimba ha vomitato per tre volte, ma i sanitari che la visitano la giudicano in condizioni buone. Trattenuta in osservazione per la nottata la tragedia arriva verso l'alba, con il peggioramento improvviso delle condizioni. Alle 6 la madre comunica ai medici del pronto soccorso che la piccola è pallida e respira a fatica. Nonostante un'ora e dieci minuti di manovre di rianimazione da parte del personale medico, nel disperato tentativo di salvarla, la bambina muore.

Il triste primato dell'ospedale di Bari. 22 settembre 2014: Diciassette anni per inaugurare l’Ospedale della Murgia e in pochi mesi tre casi di sospetta malasanità dove a perdere la vita sono stati dei bambini. Una neonata venuta al mondo senza vita, dopo un lungo travaglio. Era la primogenita di una giovane coppia di Altamura. Il parto era iniziato in modo naturale finché poi, con il trascorrere delle ore, si è deciso di procedere con il taglio cesareo. La bambina nasce morta. Pochi giorni prima, un errore nella diagnosi è stato fatale per un piccolo paziente di Gravina di 18 mesi la cui morte è avvenuta qualche ora dopo il ricovero: tre medici ed un infermiere sono stati iscritti nel registro degli indagati perchè non avrebbero riconosciuto la Seu (malattia a cui era affetto il bambino) scambiandola per gastroenterite. Ad agosto, invece, a perdere la vita è stata una bambina di tre mesi: i genitori l’avevano portata in ospedale perché la piccola aveva una febbre altissima. Ansie placate dai medici. Qualche giorno dopo i genitori hanno riportato la bambina in ospedale, cianotica, non riuscendo ad arrivare in tempo all’ospedale di Bari.

Bambino nato morto all'ospedale di Rivoli. Torino. Il bambino è venuto al mondo ma il suo cuoricino non batteva già più: colpa di una trombosi al cordone ombelicale. La Procura di Torino apre un'inchiesta. A portare a conoscenza il caso alla magistratura sono stati i carabinieri che hanno raccolto la denuncia presentata dalla madre. Una denuncia in cui la donna parla di qualcosa che è andato storto forse per un macchinario guasto. I genitori hanno raccontato di essere arrivati in ospedale alle ore 3.40 e di avere chiesto più volte un parto cesareo, ma i medici hanno fatto nascere il bambino - già deceduto - con il parto naturale.

Neonato morto al San Giovanni. 27 giugno 2012: Infermieri e medici continuano a negare che il neonato che avevano in cura al San Giovanni, abbia subito per sbaglio una trasfusione di latte in vena che l’ha ucciso. Ma gli esami istologici sugli organi vitali del piccolo Marcus, infatti, sembrano confermare che il bambino sia stato ucciso dal latte iniettato al posto della soluzione idrolipidica. In particolare, nei polmoni ci sarebbero le tracce di una crisi respiratoria da soffocamento, causata dall’occlusione dei vasi sanguigni polmonari. Contemporaneamente, il passaggio delle goccioline di grasso nel sangue avrebbe causato una emorragia cerebrale.

Tarquinia: bimbo dimesso muore a casa. 23 marzo 2014: il piccolo Leonardo di tre anni è morto dopo essere stato dimesso dall'ospedale di Tarquinia. Il bimbo era stato portato al nosocomio con la febbre alta. Dopo la somministrazione di alcuni farmaci per abbassare la temperatura lo avevano fatto uscire, ma una volta a casa è morto. I genitori quando si sono resi conto che il bambino non respirava più, hanno chiamato il 118 ma ormai non c'era più nulla da fare.

La drammatica morte del bimbo di Feltre. 30 ottobre 2014. Sedici gli indagati coinvolti tra il personale sanitario (medici ed infermieri) tra i reparti di ostetricia e ginecologia e tra quelli di anestesia e rianimazione per la morte di un neonato in provincia di Belluno. La mamma del bambino aveva già superato l’attesa dei nove mesi ed ha avuto un travaglio durato più giorni che purtroppo non è andato a buon fine. Una volta che il bimbo è nato, i sanitari hanno tentato di rianimarlo, ma senza riuscirci.

«Veronica Panarello è una donna agghiacciante», scrive “Il Garantista”. Il Tribunale del riesame ha depositato le motivazioni con cui ha confermato la custodia cautelare in carcere per Veronica Panarello, accusata dell’omicidio del figlio, il piccolo Loris Andrea Stival di 8 anni, avvenuto a Santa Croce Camerina, nel ragusano. Nelle 109 pagine delle motivazioni si parla di «una trama indiziaria fittissima che trova il suo addentellato principale nei comportamenti anche processuali della Panarello». La donna, si legge, nell’ ordinanza, «con agghiacciante indifferenza ha agito da lucidissima assassina manifestando una pronta reazione al delitto di cui si è resa responsabile», con la «volontà di organizzare l’apparente rapimento del figlio Loris». Per i giudici la madre del piccolo Loris avrebbe manifestato «una capacità elaborativa di una pronta strategia manipolatoria». «L’ enunciato di accusa non è sgretolato, come sostiene la difesa, da immagini sgranate ma confermato – secondo il Riesame – da un comportamento dell’indagata che, in questa fase incidentale, supporta ragionevolmente la consistenza dell’ipotesi accusatoria. Si delinea in tutta la sua dolorosa nitidezza, plausibilità, verosimiglianza la probabilità alta della fondatezza dell’accusa». Il delitto, secondo i giudici del riesame, sarebbe stato «verosimilmente propiziato da una circostanza oc-casionale, la discussione con Loris che quella mattina, sconvolgendo i piani di Veronica Panarello, vuole rimanere con la mamma, incuriosito dal suo look esteticamente curato». Veronica Panarello ha «una capacità elaborativa di una pronta strategia manipolatoria e una insospettabile tenuta psicologica che supportano il giudizio di elevatissima capacità criminale. Con agghiacciante indifferenza, ha agito da lucidissima assassina manifestando una pronta reazione al delitto di cui si è resa responsabile con la volontà di organizzare l’ apparente rapimento del figlio Loris». Così il Tribunale del riesame nelle motivazioni sulla conferma dell’ arresto della donna, accusata di aver ucciso il figlio Loris di 8 anni, il 29 novembre scorso, a Santa Croce Camerina, nel ragusano. Per il Tribunale del riesame emerge una «sconcertante glacialità nell’ordire la simulazione di un rapimento a scopo sessuale », e una «impressionante determinazione nel liberarsi del cadavere del figlio, scaraventandolo nel canalone per lucidamente occultare le prove del crimine». Per la donna, inoltre «sussiste il rischio di recidivanza », avendo dimostrato una «odiosissima crudeltà e assenza di pietà nel delitto con una totale incapacità di controllo della furia omicidiaria».

Sul caso di Veronica Panarello lite tra femministe buoniste e colpevoliste, scrive Lisa Turri su “Il Secolo D’Italia”. Lite tra femministe sul caso di Veronica Panarello, la donna che secondo gli inquirenti avrebbe ucciso il figlioletto Loris di 8 anni. Naturalmente sulla vicenda si fa un po’ di ideologia, partendo dalla sana e giustificabile indignazione che il delitto ha suscitato. Nel caso in cui fosse stata davvero la mamma (accusata peraltro anche da madre e sorella) non è davvero facile lenire l’orrore con parole di circostanza sulla maternità difficile di Veronica. Eppure ci prova Il Garantista, il giornale diretto da Piero Sansonetti che ormai “adotta” tutti i presunti colpevoli indiscriminatamente. Di Veronica scrive la vice di Sansonetti, Angela Azzaro, in questi termini:   “Se Veronica avesse davvero ucciso il figlio, meriterebbe ancora più attenzione e amore. Non è un’assassina incallita, una vendicatrice che va in giro ad uccidere le persone. Semmai avesse ammazzato il piccolo che ha generato, dovrebbe essere aiutata, non colpita e affondata. In ogni caso, è una persona bisognosa di aiuto, non di essere insultata. La Costituzione italiana parla di reinserimento per il reo, di una seconda possibilità che deve essere offerta a chiunque. Nel caso di Veronica lo stato di diritto sparisce, la Costituzione diventa un ricordo lontano. Si ritorna alle società barbare, all’occhio per occhio, dente per dente. Anni e anni di giustizialismo hanno cambiato la testa delle persone”. Azzaro è femminista tutta d’un pezzo, assai arrabbiata con le femministe “da salotto” del comitato Se non ora quando con le quali ha ingaggiato una battaglia a distanza che dura ormai da anni. Tutte quante pensano di difendere le ragioni delle donne, ma nel farlo se le danno tra di loro (mediaticamente) di santa ragione.

Una richiesta di impunità? Ed ecco che alla Azzaro, senza nominarla, replica Marina Terragni, giornalista di Io Donna e firma accreditata tra i blogger che non si occupano di solo gossip. Terragni non è pervasa da alcuna ansia di recupero sociale per Veronica, nel caso quest’ultima fosse davvero colpevole: “Quando una madre uccide – scrive – siamo scossi fino alle fondamenta, perché mater semper certa est, il suo amore non meno certo, gratuito e scontato, una madre deve sempre essere assolutamente buona. Si può scandagliare fino agli abissi. Ma non si può trarne, come mi pare di infraleggere in alcuni commenti, una richiesta di impunità. Se la ragazza Veronica ha ucciso il suo bambino , anche tenendo conto di un’eventuale instabilità mentale, è necessario che paghi il suo delitto”.

Si condanna al di là del ragionevole dubbio!

Veronica deve restare in cella, lo vuole il popolo, scrive Vincenzo Vitale su “Il Garantista”. C’era da aspettarselo: Veronica, la giovane madre accusata d’aver ucciso il piccolo figlioletto Loris, resta in stato di detenzione in carcere. Il Tribunale del Riesame di Catania, dopo una udienza particolarmente lunga ed una altrettanto durevole camera di consiglio, ha infatti rigettato la istanza di scarcerazione avanzata dal suo difensore. Ora, perché aspettarselo? Perché c’era da mettere in conto una sorta di costume, presente e diffuso all’interno della giurisdizione italiana, in forza del quale la tendenza a mantenere lo stato di detenzione rispetto a quello della piena libertà o – addirittura – della detenzione domiciliare è abbastanza intensa e tale comunque da prevalere su altre possibili interpretazioni delle norme vigenti. Ammettiamo pure che la rimessione in libertà di Veronica possa comportare un pericolo per le indagini che – come è stato ancora oggi affermato – sono in corso: cosa si sarebbe opposto a disporre la misura certo meno afflittiva della custodia cautelare domiciliare? Certo, non si conoscono ancora le motivazioni della ordinanza ap- pena depositata in cancelleria, ma non si riesce a comprendere – in base al buon senso – a quale presupposto si possa appellare il rigetto della istanza di liberazione. Eccettuando il potenziale inquinamento delle prove – di quelle ovviamente ancora da raccogliere – quale altro presupposto di legge non sarebbe stato soddisfatto, liberando Veronica? Forse la reiterazione del reato ? Sarebbe assurdo solo pensarlo, visto che si tratta di delitto a suo modo irripetibile. Forse il pericolo di fuga? Anche questo rischio, ammesso che possa considerarsi seriamente, sarebbe stato ampiamente evitato attraverso una misura meno afflittiva, quale la detenzione domiciliare. E allora? Come si concilierebbe il rigetto della istanza di scarcerazione con il principio del nostro codice di procedura penale che esige che lo stato di detenzione in carcere sia disposto soltanto quando ogni altra misura – meno afflittiva – risulta impraticabile ? In attesa della possibilità di conoscere le motivazioni del provvedimento del Tribunale di Catania, si vorrebbe qui esorcizzare un esito che sarebbe oggettivamente sbagliato, quello cioè secondo il quale il rigetto potrebbe essere stato disposto semplicemente per la presenza di gravi indizi di colpevolezza. Non voglio credere che così possa essere, perché – se fosse così – dovremmo dedurne che il Tribunale sia caduto in una sorta di pericoloso trabocchetto intellettuale in forza del quale si tiene una persona in carcere per una motivazione sostanzialmente scorretta, in quanto non voluta dalla legge: perché lo si ritiene già colpevole. Questo non può essere, per il semplice motivo che se un imputato – qualunque sia il delitto di cui possa essere accusato – debba essere considerato colpevole, lo si saprà alla fine del procedimento, e non all’inizio. Proprio per tale ragione, la presenza di gravi indizi di colpevolezza altro non è – secondo la legge – che la cornice generale all’interno della quale poi vanno ritrovati i singoli presupposti che possano legittimare lo stato di custodia carceraria. Occorre, insomma, che nell’ambito dei gravi indizi di colpevolezza sia rappresentabile seriamente il concreto pericolo di fuga o di inquinamento delle prove o di commissione di altro delitto. Se nessuno di questi presupposti sarà rintracciabile, allora l’imputato dovrà essere scarcerato o, quanto meno, posto agli arresti domiciliari. Per conoscere e capire cosa si trovi a supporto del provvedimento del Tribunale bisognerà dunque attendere, ma i dubbi e le preoccupazioni qui manifestati possono esserlo da subito. In proposito, non si ribadirà mai abbastanza come anche la recentissima riforma – salutata come la panacea della custodia cautelare – sia null’altro che l’ennesimo intervento senza né capo né coda. Ci si limita infatti a sostituire un aggettivo ad un altro (pericolo di fuga attuale invece che concreto), come bastasse cambiare aggettivazione per riportare il nostro sistema penale all’interno della cornice dello Stato di diritto, cosa che palesemente non è. Infatti, mai potrà dirsi esistente davvero lo Stato di diritto dove – come accade in Italia - oltre un terzo della popolazione detenuta è in attesa di giudizio.

Le immagini che accusano Veronica non sono vere, scrive Angela Azzaro su “Il Garantista”. Ci vuole il solito coraggio dei giudici inquirenti per spacciare indizi per prove e così tenere in carcere la povera Veronica Panarello, accusata di aver ucciso il figlioletto. Perché – fino a prova contraria – le immagini riprese dalla telecamere di sorveglianza non sono una prova certa, ma appunto in indizio, un segno tra tanti che va messo in relazione con altri indizi e soprattutto con il movente che continua a mancare. Come insegnano filosofi e teorici di cinema e tv, le immagini delle telecamere sono una rappresentazione del reale, non il reale vero e proprio, né la verità. Tra le prove principe con cui il pm e poi il gip hanno autorizzato rispettivamente il fermo e la conferma dell’arresto di Veronica Panarello, ci sono le immagini delle telecamere di sorveglianza. Alcuni video riprenderebbero Veronica mentre va e torna dal mulino, vicino a cui è stato ritrovato il cadavere del figlio, altre immagini smentirebbero la sua ricostruzione: quella mattina la mamma non avrebbe accompagnato il piccolo Lorys a scuola come lei ha dichiarato e continua a ribadire. «Sono innocente, io quella mattina ho portato Loris davanti alla scuola». Santa Croce Camerina, grazie a un finanziamento europeo, è un piccolo paese tappezzato di telecamere, tutto è sotto controllo, tutto mappato. L’idea che ha reso gli inquirenti, ancora a caccia del movente, così certi della colpevolezza di Veronica è che l’immagine ripresa è (l’indicativo è d’obbligo) la realtà. Ma questa è una grande truffa che qualsiasi studente di cinema sarebbe in grado di svelare: le immagini riprese sono una rappresentazione del reale, una sua trasposizione e come tutte le trasposizioni non è la realtà, né lo sarà mai. Invece ormai è passata questa idea ed è passata prima dal tubo catodico, oggi dai meandri delle procure. Si tratta di una ricaduta del giustizialismo, anch’esso fondato sull’intreccio tra televisione e magistrati, ma una ricaduta molto particolare, e come rivela il caso di Lorys determinante. La storia dell’immagine ci aiuta a capire questo processo di “naturalizzazione” dell’immagine, il suo diventare realtà oggettiva nella percezione comune. Già per la settima arte il problema esisteva. «Il cinema è la grana del reale», spiegava il grande inventore della nouvelle vague francese, Andrè Bazin, per spingere i registi a confrontarsi con il presente. Ma né lui, né nessun altro grande critico o teorico del cinema si è mai sognato di rinunciare all’elemento creativo, metaforico dell’immagine. Il cinema non è la realtà, non solo perché ci sono il montaggio, le storie, gli attori, uno sguardo che decide cosa riprendere e come, ma perché la stessa inquadratura è già un segno, qualcosa d’altro rispetto all’oggetto in sé. Il passaggio alla televisione, e nella storia della tv dall’analogico al digitale, ha reso la comprensione dello status dell’immagine ancora più problematico. La tv è diventata la realtà, in molti casi l’ha sostituita, l’ha divorata, prendendo per sempre il suo posto. E se questo valeva per le schermate un po’ sgranate delle vecchie tv, ora con il digitale cade ogni più piccola distanza. Ciò che vediamo non è una rappresentazione, una interpretazione del reale. Sarebbe la verità incondizionata. Ma invece non è così. Non lo era quando i fratelli Lumiérè filmavano l’arrivo del treno, non lo è oggi quando vediamo le immagini di un terremoto in tv. Quelle immagini, anche toccanti, anche vicine a ciò che abbiamo visto, sono altro da quello che percepisce il nostro occhio. Di più, sono diverse da ciò che sta realmente accadendo. Ciò che riprendono le telecamere (di sorveglianza o meno) non sono la realtà, sono un punto di vista che se viene estrapolato dal contesto rischia di falsificare e deviare. Nel caso dell’omicidio di Lorys, invece le telecamere sono diventate la prova principe, quella prova che incastrerebbe da subito e per sempre Veronica. Eppure, lo stesso papà di Lorys, intervistato dal Corriere, dice che le immagini riprese non sono chiare: «Di sicuro quella che si vede è la macchina di mia moglie, ma il resto sono ombre di difficile interpretazione. Sagome compatibili, ma non più di questo. Lorys s’intuisce che rientri a casa, quella mattina. Ma non si vede chiaramente che è lui». Sagome, ombre, come ha scritto su questo giornale Lanfranco Caminiti, che però inchiodano Veronica, la lasciano senza speranza e a noi senza pietà. Eppure, dovremmo preoccuparci, non solo perché c’è il rischio fondato che un’innocente resti in carcere e che non vengano mai condotte con la sufficiente perizia le indagini, ma anche perché – statene certi – le telecamere diventeranno la nuova moda. Si siederanno accanto alle intercettazioni per giudicare i vivi e i morti. E per noi umani, noi che crediamo allo stato di diritto e non alle verità assolute, sarà la fine. Senza appello.

Omicidio Loris, lo strano caso della vigilessa Schembari. In servizio vicino alla scuola ha detto di aver visto l'auto di Veronica Panarello e un bambino che le sembrava Loris. Ma per i giudici è inattendibile, scrive Carmelo Abbate su “Panorama”. Nell’inchiesta sulla morte del piccolo Loris Stival, che ha portato in carcere la mamma Veronica Panarello con l’accusa di essere l’assassina, sono tanti i punti che rimangono da chiarire. Tra questi, quello della vigilessa del paese, che si trovava vicino alla scuola dove la mamma dice di aver accompagnato il figlio, e che in un primo momento sostiene di aver visto il bambino con lo zainetto correre verso l’edificio, salvo poi entrare in confusione, correggere, ritrattare parzialmente fino a non essere ritenuta attendibile dagli inquirenti forti della loro certezza ricavata da immagini riprese da telecamere che sarebbero incompatibili con le dichiarazioni della poliziotta. Un caso, uno strano caso, lo strano caso della vigilessa Schembari, i cui tormenti sono fedelmente ricostruiti nell’ordinanza con la quale il tribunale del Riesame di Catania ha confermato la custodia cautelare in carcere per Veronica Panarello. Ma dopo una lettura attenta dei passaggi riportati nel documento ufficiale, e dell’interpretazione e delle conclusioni adamantine che ne traggono i giudici, le perplessità aumentano. Riavvolgiamo il nastro e ripartiamo dall’inizio. Il 30 novembre, il giorno dopo la scomparsa e il ritrovamento del corpo senza vita di Lorys, la vigilessa viene sentita dagli inquirenti, ai quali racconta che quella mattina si trovava in via Di Vittorio, angolo via fratelli Cervi. Leggiamo insieme il passaggio del verbale: "Ricordo soltanto di aver visto passare la macchina condotta dalla signora Panarello Veronica che si allontanava verso le scuole elementari, e di avere visto un bambino che stava correndo in direzione della via fratelli Cervi con uno zainetto che gli ballava sulla schiena, il quale mi è sembrato lo Stival Andrea Loris, ma non posso affermarlo con certezza e comunque non ricordo come fosse il suddetto bambino vestito in quanto è stato un attimo...". È vero, dice di non essere certa, ma nella sua dichiarazione ci sono due aspetti su cui fermarsi: ha visto la macchina della signora Veronica andare verso la scuola e ha visto un bambino che le è sembrato Loris. La vigilessa viene risentita qualche giorno dopo, il 3 dicembre, ribadisce quello che ha visto ma non è più certa sulla collocazione temporale: "Non sono certa che quella immagine potesse essere un ricordo di qualche giorno prima. Ho visto solo transitare la macchina, non ho notato una sua sosta per consentire eventualmente di fare scendere il figlio". Pure sul colore dell’auto le convinzioni vacillano: "Il colore dell’auto di cui parlo è scuro, anche se non posso affermare con certezza che sia di colore grigio scuro... che mi possa consentire di affermare con certezza che sia la stessa che la madre di Loris utilizza". Continuiamo a leggere il verbale. Poco più avanti c’è un passaggio che merita di essere riportato: "All’interno della polo di colore scuro, oltre alla donna, che posso affermare all’ottanta per cento fosse la mamma di Loris, vi era anche un bambino piccolo, seduto sul seggiolino di sicurezza sul sedile posteriore. Ricordo il movimento delle manine del bambino". Per i giudici, c’è un punto fermo: la Schembari non dichiara di aver visto Lorys. Anche se la donna in realtà dice di aver visto un bambino che le sembrava Loris. Poi, sempre per i giudici, ci sarebbero le perplessità sulla individuazione dell’auto, nonostante la donna dichiari di ricordare addirittura il bambino dentro che muove le mani. Ma non è finita qui. La Schembari viene sentita una terza volta, il 15 dicembre, quando la sua testimonianza riceve il colpo di grazia: "Ho un ricordo nitido del passaggio dell’autovettura, ma mi sono sorti dubbi relativi all’esatto giorno in cui l’ho vista transitare, non escludo che tale ricordo fosse riferito al giorno 27 novembre, in cui ho prestato servizio nel medesimo luogo". La prima considerazione che si può fare è che se la vigilessa fosse sentita oggi non sarebbe più sicura neppure del mese, e che se venisse riascoltata nel 2016 non sarebbe certa nemmeno dell’anno. Ma dal confronto delle sue dichiarazioni, i giudici ricavano un riscontro oggettivo di confusione mentale al punto da far ritenere inattendibile la testimonianza della Schembari. Peccato che le sue parole vadano in qualche modo a incastrarsi con le affermazioni di Veronica Panarello, che mentre cerca Loris all’uscita della scuola dice che la vigilessa le ha confermato di aver visto Loris attraversare la strada in direzione della scuola. Ma le frasi della Schembari combaciano soprattutto con le dichiarazioni verbalizzate della mamma di Loris sui suoi movimenti di quella mattina: “... Svoltavo a destra per via di Vittorio e giunta all’intersezione con via fratelli Cervi, svoltavo a sinistra, in direzione opposta all’ingresso della scuola di mio figlio, fermandomi poche decine di metri dopo. Lì scendeva mio figlio Loris che si avviava verso la scuola. Io proseguivo la marcia e, facendo il giro dell’isolato, ripassavo per via Di Vittorio notando, all’incrocio con la via fratelli Cervi, una vigilessa lì in servizio”. In linguaggio scientifico si userebbe la parola match: la versione della Panarello si allinea totalmente con quella della Schembari. Per i giudici non è così, la vigilessa non è credibile e la mamma è una bugiarda assassina. E qui si potrebbe discutere a lungo e ci si potrà affidare a esperti e periti. Qual è la dichiarazione più attendibile, quella resa nell’imminenza di un fatto oppure quella successiva a distanza di giorni?

Omicidio di Loris: e se la mamma Veronica fosse innocente? Le dichiarazioni dei condomini lasciano qualche dubbio, entravano e uscivano di casa in quei minuti, ma nessuno ha visto né sentito nulla, scrive Carmelo Abbate su “Panorama”. In tutto questo, Veronica è rimasta in prigione. Mentre noi siamo passati attraverso Natale, Capodanno, Epifania, tra regali sotto l’albero, tombole, panettoni, spumante e partite a mercante in fiera, la mamma di Santa Croce Camerina, accusata dell’omicidio del figlio Loris, è rimasta sola dentro la cella del penitenziario di Agrigento, dove si è vista sbattere le sbarre in faccia. La prima volta dal Tribunale del Riesame di Catania, che il 3 gennaio ha confermato la misura della custodia cautelare in carcere e ha rigettato la richiesta di annullamento presentata dal suo legale. Poi, qualche giorno più tardi, la chiusura che forse le ha fatto più male: quella del marito Davide Stival, che è andato a trovarla per la prima volta da quando è stata arrestata, e ha fatto due passi indietro quando lei ha provato ad abbracciarlo. "No, Veronica, per favore, non posso". Una sentenza definitiva, l’unica contro la quale non potrà appellarsi l'indomito avvocato Francesco Villardita, la roccia alla quale la donna si è attaccata nel momento in cui tutti le hanno voltato le spalle. Una donna con una infanzia difficile, dei rapporti non proprio idilliaci con la famiglia di origine, ma che aveva avuto la forza di voltare pagina e di ricostruirsi una vita con l’uomo che amava e con il quale aveva fatto due figli. Una donna che fino al 29 novembre scorso era descritta da tutti come un’ottima mamma. Perfino il marito, che oggi prende le distanze, ha raccontato al Corriere della Sera che nei dieci anni passati insieme non aveva mai notato una stranezza: "E guai assolutamente a chi le toccava Loris. Se capitava che io la rimproverassi, che accennassi soltanto a dargli uno schiaffo, lei prendeva subito le sue difese. Era il cocco di mamma. Eppoi era bravissima in casa, a noi tutti, a me e ai due bambini, non ci ha mai fatto mancare mai niente. Si occupava lei di tutto, pagava le bollette, le stanze sempre in ordine, i bimbi a scuola sempre pulitissimi, la spesa fatta, il pranzo pronto. E se qualche sera di usciva a mangiare una pizza con gli amici, Loris e Diego sempre con noi. Per lei i figli erano in cima a tutto, sempre». Una mamma perfetta che nel momento in cui tutto sembra convergere contro di lei non merita neppure il beneficio del dubbio. Chissà. Proviamoci noi, proviamo per un momento a metterci nei panni di Veronica Panarello e facciamo finta, almeno per un attimo, che non sia l’assassina. Neppure nel peggior incubo accadono cose come queste: ti ammazzano tuo figlio, vieni sbattuta in carcere tra la folla che ti urla assassina, tua sorella va in televisione a dire che sei stata tu perché da piccola eri una mezza pazza, tuo marito non ti rivolge più la parola, tu non vedi più l’altro figlio, il giornale con un titolo a tutta pagina ti definisce una "buttana", non ti viene permesso di partecipare al funerale del tuo bambino, e la corona di fiori che gli hai mandato non viene ammessa in chiesa ma lasciata fuori, per terra. C’è da augurarsi soltanto che sia davvero colpevole, perché se così non fosse, allora quello che noi popolo italiano avremmo commesso attraverso chi esercita la giustizia sarebbe un crimine contro l’umanità. Eppure i giudici non hanno avuto alcun dubbio e hanno confermato la ricostruzione della procura, per la quale la dinamica dell’omicidio è chiara. I fatti sarebbero andati in questo modo: Veronica quella mattina non porta il figlio a scuola, va con la macchina alle 8,33 nella strada poderale che porta al vecchio mulino, dove poi verrà ritrovato il corpo del bambino. Che cosa ci va a fare? Un sopralluogo, ha deciso che lo ammazzerà e che quello sarà il posto dove getterà il suo corpo. Poi torna a casa, sono le 8,48, infila la macchina in garage, sale in casa, ammazza il figlio con delle fascette di plastica strette al collo, lo spoglia, lo riveste senza mutandine, se lo carica sulle spalle, lei gracile il bambino di otto anni, lo trascina a piedi per tre pani di scale, torna in garage, lo carica sul cofano, esce alle 9,23 e lo va a gettare nel canalone. Ha programmato tutto, mossa da quella che i giudici hanno definito “indole malvagia, priva del più elementare senso di umana pietà”, eppure ha scelto di uccidere il figlio nel luogo più rischioso, dentro casa, con la vicina di pianerottolo che sente anche il rumore di una posata che cade per terra, e con tutti gli abitanti del condominio, senza ascensore, che a quell’ora del mattino entrano ed escono di casa. Nessuno di loro ha visto o sentito nulla, nessuno di loro ha visto o sentito il bambino neppure quando, secondo la procura, sarebbe rientrato a casa da solo dopo la lite in strada con la madre. Veronica Panarello ha dichiarato di essere tornata a casa quella mattina, di aver fatto il letto, sistemato i vestiti, raccolto i giochi sul tappeto, passato l’aspirapolvere. Poi ha ricevuto la telefonata del marito. La vicina di casa, Giuseppa Bareffato, sentita due volte, ha confermato il racconto della donna: "Ricordo di aver udito quella mattina il rumore di un aspirapolvere provenire dal suo appartamento, ritengo potessero essere tra le 8,45 e le 9". È logico pensare che in quei minuti Loris fosse ancora vivo. Alle 9,01 squilla il telefono, è il marito. "Mia moglie mi ha risposto che era tutto a posto, che aveva accompagnato i bambini a scuola e, dopo aver fatto un po’ di ordine a casa si sarebbe diretta a Donnafugata. Il dialogo sarà durato un paio di minuti”. Alle 9,03, presumibilmente, Loris è ancora vivo, stando alla procura, magari con le fascette ai polsi legato al letto. Mancano 20 minuti alle 9,23, il momento cui l’auto di Veronica esce dal garage. In quel lasso di tempo sarebbe stato compiuto il delitto, senza che nessuno degli inquilini nei cinque appartamenti del condomio senta o veda qualcosa. Una vicina, Angela Iurato, rientra a casa al secondo piano alle 9,15 ed esce con il marito 5 minuti dopo. Nulla. Un altro condomino, Carmelo Emmolo: “Sono uscito verso le 9,15, non ho visto né sentito nulla di strano”. Veronica dunque avrebbe dovuto agire tra le 9,03 e le 9,14, uccidendo Loris, mettendo in atto il piano di depistaggio e portando il corpo senza vita nel bagagliaio dell’auto, per poi magari risalire a casa, far sparire ogni traccia nei minuti tra le 9,15 e le 9,23. Tutto senza che nessuno abbia mai visto nulla. Possibile?

Loris, la testimonianza ignorata dai giudici del Riesame. Tutto quello che non convince nell'ordinanza che ha confermato il carcere per Veronica Panarello, scrive Carmelo Abbate su “Panorama”. Abbiamo letto l’ordinanza del Tribunale del Riesame di Catania che ha confermato la misura della custodia cautelare in carcere per Veronica Panarello, la donna di Santa Croce Camerina accusata di aver ucciso il figlio Loris Stival. Ci abbiamo trovato gli aggettivi evidenziati dai giornali in questi giorni: bugiarda, glaciale, crudele. La mamma del bambino viene definita una lucidissima assassina che ha agito con agghiacciante indifferenza. L’abbiamo letta tutta, fino alla fine delle 109 pagine. Dove abbiamo trovato questo passaggio che ci ha lasciati esterrefatti. Viene riportata la testimonianza della signora Giovanna Portelli. La donna racconta cosa ha visto la mattina del 29 novembre alle 9,15, ovvero nei momenti in cui Loris è stato ucciso e poi gettato nel canalone. Parla di un’auto di colore grigio chiaro, un vecchio modello squadrato simile a una vecchia Lancia delta, secondo modello, che imbocca la strada del vecchio mulino a forte velocità con una manovra talmente azzardata che la signora Portelli teme possa essere successo qualcosa di grave. Le sue parole vengono riportate nell’ordinanza, ma i giudici le liquidano così: “In difetto di qualunque collegamento in atti con i fatti con cui si procede, non sono idonee a scalfire il significato gravemente indiziante nei confronti dell’indagata”. In buona sostanza, per i giudici il fatto che un’auto sfrecci a tutta velocità nella strada dove verrà ritrovato il corpo del bambino, nei minuti compresi nella fascia oraria dalle 9 alle 10, indicata dall’autopsia come orario della morte, non merita un approfondimento investigativo. Questo perché non si lega in alcun modo con la linea principale seguita, ovvero l’assassina è la mamma. Punto. Il commento più tenero che si può fare al riguardo è che si tratta di una linea di condotta inquirente alquanto discutibile. Primo perché, anche ammettendo che l’accusa abbia ragione e che Veronica Panarello sia davvero l’aguzzina del figlio, la persona dentro l’auto grigia potrebbe aver visto qualcosa, potrebbe aver avuto un ruolo, potrebbe addirittura essere stato il complice. Ricordiamo che manca un qualsiasi elemento probatorio che leghi in modo diretto la donna alla morte del figlio, una traccia, un fotogramma, una testimonianza. Niente. Quindi, non si può neppure escludere che la persona alla guida dell’auto grigia possa anche essere stato l’assassino. Di certo, la sua identificazione, non certo difficile in un contesto come quello ragusano, dovrebbe rappresentare un momento indispensabile anche soltanto per sgomberare il campo da ipotesi alternative nella terribile accusa contro la mamma di Loris. Sarebbe anche un atto dovuto a sua garanzia, che evidentemente non è stato ritenuto opportuno dagli uomini della polizia, dalla magistratura e perfino dai giudici. Che a leggere l’ordinanza sembrano procedere in un’unica direzione, con i paraocchi, scartando episodi come quello appena descritto, perché non servono a rinforzare il quadro probatorio contro Veronica Panarello, e dando un valore accusatorio spropositato a comportamenti della donna totalmente ingiudicabili. Nello specifico, viene contestato a Veronica Panarello l’atteggiamento tenuto con il marito nei momenti successivi alla scoperta della sparizione del figlio. Ricordiamo che il marito Davide Stival fa l’autotrasportatore e la mattina del 29 si trova per lavoro in Veneto. Ricordiamo anche che, si legge sempre nell’ordinanza, quella stessa mattina, mentre Veronica ammazza il figlio, trova anche il tempo e la freddezza di ricevere e fare delle telefonate al marito. Torniamo alla sparizione del bambino. Veronica è disperata, tanto che, si legge “chiama i suoceri, chiama il padre, chiama l’amica e vicina di casa, contatta l’azienda dove lavora il coniuge, ma non avverte mai Davide”. Un silenzio al quale viene assegnata “un’eloquenza accusatoria specifica perché, nel complessivo contesto esaminato, è un silenzio denso di equivocità e di diabolica consapevolezza dell’orribile misfatto”. Una donna che in quel momento non trova il bambino che credeva a scuola, perché di questo si tratta in quel preciso istante e non certo della sceneggiata di un’assassina, e che lo cerca disperatamente per tutto il paese, probabilmente non pensa che la prima persona che può aiutarla sia il marito dal nord Italia. Del quale però si preoccupa, tanto che, si legge più avanti nell’ordinanza, chiama il suo datore di lavoro per informarlo che “era scomparso Loris e che il marito doveva rientrare al più presto”. Dopo questa telefonata, si attivano per “informare lo Stival e far cì che cambiasse itinerario per farlo rientrare a Ragusa, senza allarmarlo”. Giusto, sbagliato? Se ne può discutere, ma per i giudici non c’è dubbio: “concorre a ispessire la gravità giudiziaria nei confronti dell’indagata”. Ed ecco che allora si tocca con mano la farina con la quale sembra essere stata impastata questa ordinanza, la fustigazione morale prima che penale, la condanna contro una cattiva mamma che non accompagna il figlio dentro la scuola nonostante sia in ritardo, perché quella mattina si era truccata per andare chissà dove: “Una mamma, secondo una massima di comune esperienza, giova ribadirlo, non avrebbe lasciato il bambino solo e soprattutto in un orario in cui è solitamente richiesta la presenza del genitore”. Certo, questo non toglie che contro Veronica Panarello ci siano una serie di contraddizioni, anomalie, incongruenze e perfino menzogne. Ma contro di lei sembra ci sia anche una incostituzionale presunzione di colpevolezza. Sulla base di bugie si parte dall’assunto che sia l’assassina e si produce una inversione dell’onere della prova: tocca a lei dimostrare la sua innocenza. Ai giudici e perfino al marito.

Loris, parla la testimone dell'auto grigia ignorata dai giudici. Giovanna Portelli racconta cosa ha visto quella mattina nella strada che porta al canalone, proprio nella fascia oraria in cui il piccolo Stival veniva ucciso, scrive Carmelo Abbate su “Panorama”. Ha visto un’auto grigia fare una manovra azzardata e sfrecciare a tutta velocità per la strada che conduce al canalone dove è stato trovato il corpo senza vita di Loris Stival, il bambino di otto anni di Santa Croce Camerina. I giudici del tribunale del Riesame di Catania hanno riportato la sua testimonianza, ma non hanno ritenuto di approfondire i fatti perché non si legano con la linea principale seguita, ovvero l’assassina è Veronica Panarello, mamma di Loris. Abbiamo raggiunto al telefono la signora Giovanna Portelli.

Cosa ha visto?

«Una macchina che ha sbandato e poi ha imboccato la stradina che porta al mulino vecchio».

Lei era dentro la sua macchina?

«Sì, in direzione opposta».

Nella strada provinciale?

«».

Se ho capito bene se l’è trovata di fronte e ha girato per imboccare la via del vecchio mulino.

«».

Perché l’ha colpita?

«Perché è stata una manovra anomala, sembrava che avesse perso il controllo dell’auto».

Addirittura.

«Sì, ha sbandato prima di imboccare la stradina».

E lei cosa ha pensato?

«Che fosse un ubriaco. A quell’ora non si sapeva nulla del bambino».

Quando ha saputo di Loris?

«La sera alle sette».

Si ricorda invece a che ora ha incrociato questa auto?

«Alle 9,15».

Come fa a essere sicura?

«Perché avevo guardato l’orologio, dovevo andare in un negozio. Poi abbiamo rivisto le immagini insieme con gli inquirenti, e gli orari coincidevano».

Ricorda che auto fosse?

«Un modello vecchio, poi ora non posso confermare nulla, sono certa soltanto del fatto che fosse una manovra strana».

Era una persona da sola dentro l’auto?

«Non sono riuscita a vedere nulla, ero a 300 metri di distanza. E non guardavo con occhio critico, era una giornata come tutte le altre».

L’auto era grigia?

«Era una giornata brutta, pioveva, ero distante, non escludo che possa essermi fissata con un colore, ma non sono certa».

Ma nel verbale si parla di modello squadrato simile a vecchia Lancia secondo modello.

«Evidentemente quella mattina avevo visione fresca, se l’hanno scritta sul verbale sarà così».

È andata lei dagli inquirenti?

«Certo».

Quando l’ha fatto?

«Il lunedì mattina successivo».

Che lei sappia gli inquirenti hanno approfondito quello che lei ha detto di aver visto?

«Sono stata chiamata una seconda volta dalla Squadra Mobile, mi hanno mostrato la mia auto ripresa dalle telecamere».

Hanno verificato che la sua auto fosse davvero dove lei aveva detto.

«».

Ma le hanno mostrato un fotogramma di altre auto per provare a identificarla?

«Ho visto delle immagini molto sfuocate».

Quando ha collegato la sparizione e l’uccisione del bambino con l’auto che aveva visto quella mattina, che sensazioni ha avuto? Che cosa ha pensato?

«Che qualcuno avesse rapito il bambino e l’avesse portato lì, ma questo non stava a me, io ho fatto soltanto il mio dovere di cittadina».

Quella mattina ha incrociato l’auto della signora Panarello?

«No, assolutamente».

Gli inquirenti le hanno fatto questa domanda?

«Non ricordo, ma credo di no».

LA VICENDA MAJORANA.

"Majorana visse in un convento del Sud Italia. Ecco le prove". Foto mai viste e lettere inedite del genio della fisica scomparso nel 1938 aprono nuovi e clamorosi scenari Rolando Pelizza, che fu suo allievo: "Si nascose grazie al Vaticano", scrive Rino Di Stefano su “Il Giornale”. Sciascia aveva ragione: Ettore Majorana non sarebbe morto suicida, né tanto meno sarebbe fuggito in Venezuela. Lo scienziato scomparso nel nulla il 27 marzo del 1938 a poco più di 31 anni, mentre era docente di Fisica teorica presso l'università di Napoli, non si sarebbe mai mosso dall'Italia. Per essere più precisi, avrebbe chiesto e ottenuto di essere ospitato in un convento del Sud Italia, dove sarebbe rimasto fino alla fine dei suoi giorni. A rivelare questa nuova verità su uno dei più grandi geni che l'Italia abbia mai avuto, è Rolando Pelizza, 77 anni, l'uomo che da sempre sostiene di essere stato l'allievo di Majorana e di averlo aiutato a costruire una macchina in grado di annichilire la materia, producendo quantità infinite di energia a costo zero. Pelizza, però, non si limita a raccontare la sua storia. Questa volta tira fuori delle prove concrete, e cioè lettere e foto, che dimostrerebbero, al di là di ogni ragionevole dubbio, che in effetti avrebbe realmente conosciuto e frequentato colui che, ancora oggi, chiama il «suo maestro». Le foto sono due: la prima risale ai primi anni Cinquanta, la seconda agli anni Sessanta. La somiglianza con il giovane Majorana è impressionante. La più importante delle lettere risale al 26 febbraio del 1964, quando in una missiva di sette facciate, lo scienziato scomparso riconosce al suo allievo il merito di aver terminato cum laude il ciclo delle lezioni che egli gli ha impartito. La lettera ha un riscontro concreto. In data 28 gennaio 2015 è stata affidata alla dottoressa Sala Chantal, grafologa specializzata in ambito peritale/giudiziario, con ufficio a Pavia, la quale, paragonando la calligrafia degli scritti lasciati a suo tempo da Majorana con il testo della lettera stessa, ha effettuato una completa perizia calligrafica di 23 pagine, conclusa con le seguenti parole: «Detta lettera è sicuramente stata vergata dalla mano del sig. Majorana Ettore». «Dal 1° maggio 1958 al 26 febbraio 1964 sono stato allievo di Ettore Majorana - racconta Rolando Pelizza - e negli anni successivi sono stato suo collaboratore nella realizzazione del progetto di costruzione della macchina produttrice di antiparticelle. Posso affermare senza tema di smentita che Ettore Majorana non è morto nel 1938: l'ho conosciuto e frequentato e mi ha insegnato la "sua matematica" e la "sua fisica" e poi mi ha accompagnato con i suoi insegnamenti per molti anni. Per onestà intellettuale, voglio affermare che la paternità dello studio che sta alla base della macchina è opera esclusiva di Majorana». Prendendo dunque per buona e corretta la perizia della dottoressa Chantal, esaminiamo che cosa c'è scritto in quella lettera del 1964. Tanto per cominciare, il testo inizia con una dichiarazione che non lascia dubbi circa il ruolo di allievo che avrebbe avuto Pelizza. Singolare che, per evitare di dire dove si trovi, la lettera si apra con l'intestazione «Italia, 26-2-1964». Questo espediente verrà usato anche nelle altre lettere. «Caro Rolando - scrive il presunto Majorana - Ti ricordi il nostro primo incontro, avvenuto il 1° maggio 1958? Ne è passato di tempo. Oggi si può dire terminato il periodo delle mie lezioni. Ti promuovo a pieni voti, sia in fisica sia in matematica. Come ben sai, quanto hai appreso va molto oltre le attuali conoscenze; per tanto non misurarti con nessuno, perché potresti scoprirti. Anche se qualcuno conoscendoti, ti provocherà, tu ascolta e fingi di non capire; so bene che questo sarà molto difficile, ma credimi: se, dopo aver sentito quello che ti dirò, accetterai di realizzare la macchina, dovrai fare questo e molto di più. Ora sei sicuramente pronto per affrontare il compito di realizzare la macchina; conosci perfettamente ogni particolare, hai appreso dettagliatamente la formula necessaria per il funzionamento della stessa; ora ti consegno disegni e dati per il montaggio. Solo una cosa ti chiedo: devi essere molto prudente. Disegni e dati non sono tanto importanti; la formula, invece, va ben custodita. Per nessun motivo deve cadere in mano di altre persone: sarebbe la fine, di sicuro». A rendere ancora più verosimile il tono della lettera, sono le raccomandazioni che il professore rivolge al suo studente, in vista della realizzazione della macchina. Il mondo è quello che è, per cui lo invita alla prudenza: «Prima di decidere se accettare o meno il compito di realizzarla, devi sapere bene a cosa andrai incontro - avverte -. Almeno questo è il mio parere, ricordalo bene. Nonostante il mio desiderio di vedere questa macchina realizzata sia immenso (per il bene dell'umanità, che purtroppo sta andando incontro ad un terribile disastro a causa del nefasto impiego delle varie scoperte), voglio che tu rifletta prima di decidere: da questo dipenderà la tua esistenza. Se, ultimata la macchina, sarai scoperto prima della sua presentazione, secondo i dettagli che più oltre ti fornirò, sarai sicuramente in pericolo di vita; potrai essere vittima di un sequestro, come minimo, ma ci potranno essere molte altre gravi ripercussioni. Se dopo tutto questo, deciderai di realizzarla comunque, te ne sarò eternamente grato e sono contento di aver intuito subito che tu eri la persona giusta». Passati gli avvertimenti, il professore elenca nel dettaglio le precauzioni da prendere. Ed è molto scrupoloso nel farlo: «Dopo la riuscita del primo esperimento - spiega - dovrai predisporre vari dossier da depositare in luoghi ed a persone varie di piena fiducia. Dovrai costituire una fondazione alla memoria dei tuoi cari (in questo modo non solleverai sospetti). Di questa fondazione, tu sarai il fondatore e il presidente, mentre nel consiglio dovrai cercare di inserire nomi conosciuti e di fiducia; dovranno essere persone di varie categorie, ad esempio: un avvocato, un medico, uno psicologo, un professore di storia dell'arte, ed altre professioni; io ti farò avere il nome di uno o più fisici. Dovrai organizzare almeno due o tre convegni differenti. Poi, un convegno di Fisica sull'argomento che io proporrò al fisico, o forse più fisici, del consiglio. Nel frattempo, dovrai presentare la macchina che hai realizzato, adducendo di aver effettuato il lavoro con la collaborazione dei sopra citati fisici (o fisico?). Penserò io ad informare questi ultimi su come comportarsi al momento opportuno. Poi presenterai il piano d'azione da intraprendere successivamente. La macchina sarà presentata solo dopo la realizzazione della seconda fase, che consiste nel riscaldamento della materia, una fonte inesauribile di energia sotto forma di calore». A leggere la lettera si evince che il Majorana che si nasconde in convento non è poi così lontano dal mondo come sembrerebbe. A quanto pare, continua a tenere contatti con l'esterno e comunica con altri fisici che lo conoscono bene. Il professore continua ricordando all'allievo il giuramento fatto e gli ricorda che, al momento, la macchina è ancora in fase sperimentale. «Tieni sempre presente il giuramento che abbiamo fatto - ammonisce - per nessun motivo, anche a costo della vita, sarà ceduta come strumento bellico, ma dovrà essere usata esclusivamente al fine di migliorare la nostra esistenza». Il professore non manca di mettere in guardia l'allievo dalle conseguenze che potrebbero aspettarlo: «Non pensare che siano manie mie - mette le mani avanti -. Se verrai scoperto prima del tempo, cosa che spero tanto non succeda, tutto quanto detto finora, che ora può sembrare paranoico, è solo la minima parte del reale pericolo a cui andrai incontro. Investimento: so benissimo che provieni da una famiglia benestante, però pensaci bene. Sai quanto materiale pregiato serve per una sola macchina. Inoltre, prevedi che certamente ne andranno distrutte parecchie e dalla loro distruzione non ricaverai nulla, perché nulla rimane se non circa il quattro per mille, del materiale, ecc. Verificherai bene di quanto puoi disporre: è preferibile non iniziare che rimanere senza nulla e di conseguenza non poter terminare, per te e soprattutto per la tua famiglia, che andrebbe incontro a problemi molto seri. Avrei ancora molte altre cose da aggiungere per sconsigliarti di accettare, ma credo che bastino quelle dette, PENSACI BENE. In attesa della tua decisione. Tuo amico e maestro, Ettore». C'è da dire che, con un alto grado di preveggenza, il professore ha anticipato tutto ciò che è realmente accaduto a Pelizza nel corso degli anni. Infatti, dal 1976, anno in cui egli fece gli esperimenti che il professor Ezio Clementel, presidente del Cnen e ordinario di Fisica presso l'università di Bologna, gli commissionò per incarico del governo italiano, i guai di Pelizza non hanno avuto fine. A quel tempo era presidente del Consiglio Giulio Andreotti, al suo terzo mandato governativo. Anche se l'esperimento andò bene, e la macchina dimostrò tutta la sua efficacia, Andreotti decise di rompere ogni rapporto con Pelizza quando seppe che il governo americano, allora presieduto da Gerald Ford, si stava interessando al caso. Il presidente Ford inviò in Italia il suo rappresentante personale, l'ingegner Mattew Tutino, per prendere contatti con Pelizza. Da notare che nella società di quest'ultimo, la Transpraesa, i servizi segreti italiani (per la precisione il Sid, Servizio informazioni difesa) avevano infiltrato due colonnelli dei carabinieri: Massimo Pugliese e Guido Giuliani. Nonostante il governo degli Stati Uniti avesse offerto un miliardo di dollari per entrare a far parte della società, Pelizza si rifiutò di collaborare con gli americani quando questi gli chiesero, a titolo di prova, di abbattere alcuni loro satelliti geostazionari. In altre parole, utilizzare la macchina come un'arma. Subito dopo fu la volta del governo belga. Venne chiamata Operazione Rematon e prevedeva che Pelizza, il cui interlocutore era il primo ministro Leo Tindemans, brevettasse e depositasse il brevetto della sua macchina in Belgio. L'accordo fallì quando nell'aeroporto militare di Braschaat, nei pressi di Bruxelles, i belgi chiesero a Pelizza di distruggere un carro armato. Ancora una volta, dunque, la macchina veniva interpretata come un'arma. Il risultato fu che Pelizza fece intenzionalmente implodere la sua macchina e pretese di essere riaccompagnato in Italia. Da allora la vita di Rolando Pelizza è trascorsa in modo molto movimentato, con l'emissione di tre mandati di cattura internazionali, tutti ritirati nel corso del tempo. Fece molto parlare l'accusa che nel 1984 gli rivolse il giudice Palermo per aver costruito illegalmente «un'arma da guerra chiamata il raggio della morte». Ma al processo Pelizza venne assolto con formula piena. Di lui parlarono spesso anche i giornali. Ecco, per esempio, un brano tratto da un articolo della rivista OP del 15 luglio 1981: «Come non definire "l'operazione Pelizza" un best seller della letteratura gialla internazionale? Purtroppo si tratta di una vicenda vissuta, di una storia tutta italiana iniziata nel 1976 e non ancora conclusa. Siamo in possesso di informazioni dettagliate, con tanto di nomi e date, che ci inducono a ritenere che quella che può essere catalogata come "l'operazione Pelizza" non è il parto di Le Carré o di Fleming e che la sua scoperta non è "la macchina per fare l'acqua calda" come qualcuno ha voluto dire». Ma ci fu anche chi lo attaccò duramente. Nel 1984, in una serie di articoli, La Repubblica definì Pelizza «fantasioso traffichino di provincia», paventando che dietro la presunta invenzione di quello che veniva definito «raggio della morte» ci fosse una colossale truffa. Ovviamente nessuno spiegava che, in presenza di un'eventuale truffa, ci dovesse essere anche un eventuale truffato. Ma il messaggio era comunque lanciato. Stanco di questa continua battaglia, adesso Pelizza ha deciso di vuotare il sacco. Ed ecco quindi le lettere e le foto di Majorana in convento: «Già nel 2001 il mio maestro mi aveva autorizzato a rendere pubblico il mio contatto con lui. Non l'ho fatto perché speravo di far conoscere questa verità in modo molto più morbido e graduale. Ma purtroppo non è stato possibile: troppe maldicenze e calunnie sono state messe in giro contro di me in questi anni. Adesso, dunque, ho deciso di dire tutto e di far conoscere la verità sulla sorte di Ettore Majorana». Una lettera illuminante, a questo proposito, è quella che Pelizza mostra con data 7 dicembre 2001. Gliela inviò, sostiene, il suo maestro proprio per autorizzarlo. «Da ora - si legge - se lo riterrai opportuno, sei libero di usare il mio nome, di divulgare i nostri rapporti, gli scritti e fotografie; se lo farai ti prego di rivelare i veri motivi che mi hanno spinto nel 1938 ad allontanarmi da tutti, per dedicarmi allo studio, nella speranza di arrivare in tempo e poter dimostrare al mondo scientifico che esistevano alternative importanti e senza pericoli. Purtroppo tu ben sai che non sono arrivato in tempo, pur avendo alternative migliori, che a tuttora non sono servite a nulla. Riservati l'ultimo segreto, dove e come mi hai conosciuto, il luogo e i fratelli che da sempre mi hanno segretamente ospitato». Pelizza, infatti, si rifiuta categoricamente di dire in quale convento Majorana sia stato ospitato per oltre mezzo secolo e dove, ancora oggi, sarebbe sepolto. «Il mio maestro non ha mai preso i voti - sostiene Pelizza -. Egli è stato ospitato in convento e lì, grazie alla protezione del Vaticano, è riuscito a vivere e a studiare per tanti anni, senza essere disturbato. Conoscevano la sua situazione e sapevano del suo dramma interiore, che rispettavano. Comunque, so che anche durante la sua vita conventuale, si è messo in contatto con personalità scientifiche che si sono occupate di lui. Non so quanti abbiano realizzato che il loro interlocutore fosse proprio lo scomparso Ettore Majorana, ma così è stato». A dimostrazione di questa corrispondenza tenuta con il mondo accademico, c'è la copia di una lettera che Majorana avrebbe scritto al professore Erasmo Recami, ordinario di Fisica presso l'università di Bergamo e conosciuto per essere il maggior biografo di Majorana. La data della lettera è del 20 dicembre del 2000: «Egregio Professor Erasmo Recami (...) mi permetto di rivolgermi a lei come un collega, chiederle un parere ed eventualmente un aiuto, nel caso lei ritenga valido il consiglio che ho dato al mio collaboratore e che leggerà nello scritto a lui indirizzato. Conoscendo molto bene il mio allievo, sono sicuro che dei miei consigli inerenti all'abbandono del progetto, non si curerà; quindi la pregherei di provare a convincerlo, per il suo bene. Se proprio non sentisse ragioni e volesse continuare, veda se, una volta letti tutti i documenti inerenti ai rapporti tra me e lui fino ad ora, ritiene opportuno pubblicarli, per il bene futuro del nostro mondo. Quando parlo del futuro del nostro mondo, mi riferisco al surriscaldamento del pianeta, cosa che io avevo previsto già nel 1976, quando diedi a Rolando una relazione dettagliata sul tema, e le sue conseguenze: dai primi sintomi, all'inizio del 2000, all'incremento del problema a partire dal 2010, in seguito al quale è lecito aspettarsi delle vere e proprie catastrofi ambientali. Relazione che Rolando, a sua volta, consegnò al Dott. Mancini, il quale, in quel momento, era stato incaricato dal governo di occuparsi dello sviluppo della macchina. «La macchina in oggetto, oggi è in grado di rigenerare l'ozono distrutto, semplicemente tramutando l'anidride carbonica in ozono nella quantità mancante, e l'eccesso in qualsiasi altro elemento da noi voluto. Ma le sue possibilità sono infinite: ad esempio, essa è in grado di produrre calore illimitato senza distruggere la materia, quindi senza lasciare residui di nessun genere. Con la pubblicazione di questi studi, l'umanità verrà a conoscenza che, per la volontà di poche persone (comportamento che a tutt'oggi non riesco ancora a comprendere) sta perdendo l'opportunità di un futuro migliore. «Solo per il fatto di aver letto quanto da me scritto, le sono infinitamente grato. I miei più cordiali saluti, Suo Ettore Majorana». Inutile dire che il professor Recami restò molto impressionato da questa lettera, ma come ci ha poi dichiarato, non basta una lettera a dimostrare che sia stata scritta proprio da lui. Insomma, mancando una precisa evidenza scientifica, non riusciva ad accettare l'idea di essere in contatto con colui che per anni è stato l'oggetto dei suoi studi. Pelizza mostra un dossier di una dozzina di lettere inviate dal suo maestro tra il 1964 e il 2001, anno in cui smise di avere contatti. A quel tempo Majorana aveva 95 anni. Stanco e malato, si preparava a rendere la sua anima a Dio e non volle mai più ricevere il suo allievo in convento. Su sua precisa disposizione, le sue spoglie sarebbero state seppellite in terra consacrata, sotto una croce anonima, come si usa per i frati di clausura. Il Vaticano ha sempre mantenuto il segreto e non ha mai reso pubblico nulla sulla sua vita in convento. Pare invece che tutte le carte appartenenti a Majorana siano state spedite in Vaticano, dove ancora oggi sarebbero in corso di archiviazione.

Lo scienziato e la cittadina vaticana. La Procura chiude i gialli storici. L’archiviazione sulla scomparsa del fisico catanese precede la conclusione di un’altra indagine pluridecennale, quella sulla «ragazza con la fascetta». Analogie e retroscena, scrive Fabrizio Peronaci su “Il Corriere della Sera”. Le analogie - dando per scontate le ovvie specificità dei due casi - sono numerose: le scomparse di Ettore lo scienziato catanese e di Emanuela la figlia del messo pontificio hanno segnato periodi importanti del Novecento italiano; su entrambe ha aleggiato lo spettro di deviazioni e di oscure ragioni di Stato; sia per l’uno sia per l’altra si è fatta l’ipotesi di una segregazione in ambiente religioso, fosse esso un monastero in Calabria o un convento di clausura sperduto tra l’Alto Adige, il Lussemburgo e il Liechtenstein; in ambi i casi sono state offerte consistenti somme di danaro (30 mila lire da Mussolini, un miliardo dagli Orlandi) a chi fosse stato in grado di fornire notizie utili e decisive; le relative inchieste sono andate avanti per decenni. Ora, per un bizzarra coincidenza che forse proprio casuale non è, il caso Majorana e il caso Orlandi arrivano nello stesso periodo al loro esito giudiziario presso la stessa Procura, quella di Roma. Per il giallo del fisico svanito nel nulla dopo aver lasciato Napoli nel 1938 a bordo di un piroscafo diretto a Palermo i magistrati, dopo averne accertato la presenza in Venezuela negli anni Cinquanta, hanno optato per la richiesta di archiviazione, sentendosi certi di poter escludere «condotte delittuose o autolesive», vale a dire l’omicidio o il suicidio. Appurato che il genio degli studi sull’atomo era in vita molti anni dopo, e non essendo emersi elementi sospetti, il giallo è stato insomma considerato chiuso, anche se la fine non è nota. Diverso, almeno nel paradigma conclusivo, appare il quadro investigativo legato alla scomparsa della «ragazza con la fascetta», avvenuta nel giugno 1983. L’inchiesta per sequestro aggravato dalla morte dell’ostaggio (che sta per concludersi con la richiesta di rinvio a giudizio davanti a una Corte d’assise o, al contrario, con un’archiviazione) ha infatti portato nel corso degli ultimi sette anni all’iscrizione di sei persone sul registro degli indagati. Lo scenario di un’azione violenta ai danni della vittima, nell’ambito di un presunto ricatto attuato contro il Vaticano di Giovanni Paolo II e del capo dello Ior Marcinkus, con la partecipazione «operativa» di elementi della banda della Magliana, è stato ritenuto concreto, sulla base di precisi indizi. Tre dei sei indagati erano infatti agli ordini del boss «Renatino» De Pedis: uno avrebbe guidato la macchina in cui c’era Emanuela, al Gianicolo, prima della consegna a un non meglio specificato prelato, mentre gli altri due «sgherri» avrebbero pedinato la ragazza nei giorni precedenti il rapimento. Oltre a monsignor Pietro Vergari, discusso rettore della basilica di Sant’Apollinare dove fu poi inspiegabilmente sepolto il boss, e Sabrina Minardi, l’ex amante di «Renatino»che ha confusamente ricordato di aver visto gettare due sacchi (con dentro, forse, il corpo di Emanuela), in una betoniera, la conta degli indagati chiama in causa l’ultimo arrivato (nel 2013), il più sorprendente, reo confesso: quel Marco Fassoni Accetti che si è autoaccusato di aver avuto un ruolo come organizzatore e telefonista nel sequestro Orlandi (e in quello collegato di un’altra quindicenne, Mirella Gregori), per conto di un gruppo di laici ed ecclesiastici favorevoli alla Ostpolitik del cardinale Casaroli, all’epoca impegnati in una guerra di potere contro il fermo anticomunismo di papa Wojtyla e la (mala) gestione dello Ior da parte dello spregiudicato Marcinkus. Erano i tempi – giova ricordarlo, per inquadrare il duplice fronte di tensioni all’ombra del Vaticano – delle indagini sull’attentato al Papa polacco avvenuto due anni prima (maggio 1981) per mano del turco Alì Agca e del crack dell’Ambrosiano dal quale era derivata la morte del banchiere Calvi sotto il ponte londinese dei Frati Neri, l’anno precedente (giugno 1982). Il duplice sequestro Orlandi-Gregori, secondo il supertestimone più recente, che ha detto di aver atteso le dimissioni di papa Ratzinger per farsi avanti, sarebbe dovuto durare pochi giorni con un primo obiettivo concreto: indurre Agca a ritrattare l’accusa ai bulgari di essere stati i mandanti dell’attentato, in cambio della falsa promessa di una sua scarcerazione in tempi brevi attraverso la grazia, ottenibile proprio in seguito al ricatto operato su Santa Sede e Stato italiano con il rapimento delle quindicenni. Sta di fatto che, sei giorni dopo la scomparsa di Emanuela, il 28 giugno 1983, effettivamente il Lupo grigio cambiò versione, «scagionando» la Bulgaria (e quindi la Russia) da uno degli eventi più drammatici del periodo della Guerra Fredda. Ma questo è solo uno dei tanti passaggi al vaglio dei magistrati, in questa inchiesta-monstre anch’essa degna della penna di Leonardo Sciascia. Per sciogliere l’enigma Orlandi, adesso, la Procura di Roma è chiamata a valutare uno ad uno centinaia di indizi, riscontri, prove; dovrà essere definito il ruolo avuto dagli indagati o, in caso di archiviazione, andrà motivata la loro uscita di scena dalla cerchia dei sospettati. Procedere per sottrazione, come nel caso Majorana, non è possibile. Anche perché, purtroppo, quella ragazzina dal viso simpatico e i lunghi capelli scuri nessuno l’ha mai più rivista.

Il nipote e la verità su Majorana: non si uccise, io credo a Sciascia. «Lui in Venezuela? Non escludiamo nulla, aveva capacità enormi». «Giocava a calcolare chi avrebbe vinto una guerra: un umorismo para-matematico», scrive Massimo Sideri su “Il Corriere della Sera”. «Non credo che il mio prozio Ettore Majorana si sia ucciso, nessuno di noi lo ha mai pensato. Ha voluto fare una scelta precisa - è questa l’opinione in famiglia - più in linea con le sue capacità intellettuali, i fatti che conosciamo e anche l’opinione delle persone che gli erano più vicine al tempo, cioè la zia Maria, sua sorella». Salvatore Majorana, 43 anni nato a Catania dove quel cognome ancora oggi rappresenta una dinastia (Salvatore Majorana Calatabiano, nonno di Ettore, era stato ministro dell’Agricoltura e dell’Industria ai tempi di Giolitti) è il pronipote del famoso fisico scomparso nel ‘38 e lavora all’Iit di Genova dove guida l’ufficio di Technology Transfer. Rassomiglia a Ettore in maniera impressionante.

Come avete reagito alla notizia che secondo la Procura di Roma Ettore Majorana fosse vivo tra il ‘55 e il ‘59 in Venezuela?

«Era noto che ci fosse un’indagine sulla scomparsa di Ettore ma non pensavo che fosse ancora aperta e che fosse in mano alla Procura. Comunque l’ipotesi della scomparsa di Ettore era già circolata da anni e anche la fotografia non è nuova. Ciò che è nuovo è il collegamento della fotografia all’amico meccanico, Francesco Fasani, tant’è che sarei curioso di vedere il fascicolo».

Veniamo agli elementi probatori. La fotografia: lei rassomiglia moltissimo al suo prozio. Ritrova i tratti della sua famiglia in questa foto scattata in Venezuela?

«Non mi ci ritrovo neanche un po’. Ettore era del 1906 dunque nella fotografia avrebbe 49 anni. Anche ipotizzando che possa avere avuto una vita difficile non trovo in quel volto un legame con la foto diffusa che se non ricordo male era quella del libretto universitario. La sensazione è che ci sia la voglia di attribuire una soluzione al confronto».

Però le conclusioni della Procura sono compatibili con la vostra convinzione, cioè che Ettore Majorana quel giorno non si sia ucciso.

«Non discuto il risultato finale ma siamo perplessi sul metodo».

Il cognome Bini, usato secondo Fasani dal suo prozio, vi dice qualcosa in famiglia?

«Su due piedi no».

Altro elemento usato dalla Procura è una cartolina del 1920 di Quirino, zio di Ettore, altro famoso fisico.

«Non trovo plausibile che avesse quella cartolina in automobile 35 anni dopo».

In famiglia avete cercato delle prove su cosa possa avere fatto dopo la scomparsa nel ‘38 Ettore Majorana?

«Tutti noi in famiglia siamo sempre stati persuasi delle sue grandissime capacità di collegare i suoi studi agli eventi bellici. Ricordiamoci che stiamo parlando degli anni poco prima della Seconda guerra mondiale. I cargo che portavano le persone in America erano diffusi. In quell’epoca se volevi sparire ci riuscivi anche senza essere un genio».

L’ipotesi di Sciascia era che potesse essersi ritirato in un convento della Calabria. Cosa ne pensa?

«Dopo il libro qualcuno andò anche a controllare. Dai registri non risultava nulla. Ma questo, evidentemente, non significa che non ci sia stato. Di certo Sciascia fece un lavoro di inchiesta».

Un testimone ha raccontato di averlo incontrato a Roma, nell’81, insieme al fondatore della Caritas romana, monsignor Luigi Di Liegro.

«Sono tutte ipotesi che hanno del verosimile. Mi sembra strano però che la famiglia non abbia avuto traccia di una sua permanenza in Italia».

Un aneddoto che vi tramandate in famiglia?

«Faceva giochi matematici per calcolare come sarebbe andata a finire una guerra sulla base di cannoni e navi: aveva un suo umorismo para-matematico».

Giallo Majorana: testimone, era clochard a Roma, scrive “L’Ansa”. Visto nel 1981 con il fondatore della Caritas romana. Poi in convento. Si infittisce il giallo su Ettore Majorana. Dopo la conferma da parte della Procura di Roma che il fisico catanese scomparso nel 1938 era vivo nel periodo 1955-1959 e si trovava nella città venezuelana di Valencia, oggi è il turno di un testimone oculare che, in un'intervista all'ANSA, assicura di aver incontrato lo scienziato all'inizio degli anni '80 a Roma. "Majorana era sicuramente vivo nel 1981 ed era a Roma. Io l'ho visto", riferisce il testimone spiegando di averlo incontrato nel centro della Capitale insieme a monsignor Luigi Di Liegro, fondatore della Caritas romana. Era un senzatetto, che poi è stato riportato nel convento dove era ospitato, afferma il testimone. "Sono stato tra i collaboratori più vicini di monsignor Di Liegro e con lui abbiamo incontrato Majorana probabilmente il 17 marzo 1981. E non è stata l'unica volta, l'ho incontrato in tre-quattro occasioni", prosegue l'uomo - un programmista regista originario della Calabria, ma trasferitosi a Roma da giovane - che chiede di mantenere l'anonimato. "Majorana stava in piazza della Pilotta, sugli scalini dell'Università Gregoriana, a due passi da Fontana di Trevi. Aveva un'età apparente di oltre 70 anni", racconta ancora il testimone. L'uomo, che all'epoca faceva parte di un gruppo che assisteva i senzatetto, rimase colpito dal fatto che uno dei clochard disse, inserendosi in una conversazione, che quel clochard aveva la soluzione del "Teorema di Fermat", l'enigma del '600 che per secoli è stato un rompicapo per i più grandi matematici e che all'epoca non era stato ancora risolto. La soluzione, infatti, risale solo al 2000. "A quel punto gli dissi di farsi trovare la sera seguente perche volevo farlo incontrare con Di Liegro". L'incontro avvenne e il sacerdote portò via il senzatetto con la sua auto. "Dopo un'ora e mezza tornò e mi disse: 'sai chi è quell'uomo? E' il fisico Ettore Majorana, quello scomparso. Ho telefonato al convento dove lui era ospite e mi hanno detto che si era allontanato. Ora ce l'ho riportato'". Il testimone racconta di aver saputo da don Di Liegro, che a sua volta lo aveva appreso dal responsabile del convento, "che Majorana aveva intuito che gli studi che stava facendo avrebbero portato alla bomba atomica e ha avuto una crisi di coscienza e voleva essere dimenticato. Sempre il responsabile del monastero gli disse che prima Majorana era ospite di un convento di Napoli e poi andò a finire in questo nei pressi di Roma. Erano certi che fosse lui anche per una cicatrice su una mano, la destra. Chiesi a don Luigi di riferirlo ai parenti di Majorana, ma lui disse che non potevamo. Io per tanti anni ho provato a tornare sull'argomento, ma don Di Liegro, che non lo riferì a nessuno, nemmeno ai suoi più stretti collaboratori, non voleva saperne e mi raccomandò di tacere. Mi disse di non dire niente a nessuno almeno per 15 anni dopo la sua morte, avvenuta il 12 ottobre 1997. Ormai il tempo è passato".

ABUSI DI POLIZIA. LA STORIA DI PAOLO RINO TORRE.

Calunnia e violenza. Tutto per 20 centesimi. Ed hanno avuto la sfrontatezza di archiviare. In che mani siamo…..

"Contro di me false accuse. Io vittima di un'ingiustizia", scrive di Laura Distefano su “Catania-Live Sicilia”. I fatti risalgono al 2012. Il titolare di un bar di Acireale ha inviato un esposto al Capo della Polizia, al Questore di Catania, al Prefetto e al Procuratore Generale per raccontare la sua storia. Chiede di essere ascoltato dalle Istituzioni Paolo Rino Torre, titolare di un bar di Acireale. Il suo appello lo lancia tramite un esposto inviato al prefetto, al Procuratore Generale a al Capo della Polizia. Il giovane imprenditore, assistito dall'avvocato Giuseppe Lipera, ha inviato una copia della missiva alla redazione di LiveSiciliaCatania. La vicenda. E' il carnevale del 2012. Nel bar di Torre entra un gruppo di persone, tra cui un uomo, che poi si scoprirà essere un poliziotto in servizio nel nord Italia. Nell'esposto, firmato dal legale del commerciante Giuseppe Lipera, è descritto nei minimi particolari quello che sarebbe accaduto nell'arco di poche ore. Uno scontrino con un errore di venti centesimi sarebbe stato il motore scatenante di questa disavventura. Una delle ragazze che accompagnavano il giovane avrebbe notato i venti centesimi in più, la cassiera e moglie del titolare, si sarebbe scusata per l'errore e avrebbe restituito il disavanzo all'uomo. Si sarebbe scatenata l'ira del poliziotto che avrebbe minacciato di chiamare la finanza. L'uomo, dopo qualche istante, avvicinandosi alle casse avrebbe mostrato il tesserino da poliziotto e avrebbe chiesto i documenti alla coppia. Torre, che non avrebbe subito capito che si trattava di un poliziotto, avrebbe esortato l'uomo a spostarsi in un'ala del locale per parlare. Qualche minuto dopo sarebbero arrivati due agenti che avrebbero chiesto lumi su quanto accaduto, il collega avrebbe raccontato di essere stato aggredito e minacciato da Torre, che ha smentito ogni accusa. Nonostante questo sarebbe stato accompagnato al Commissariato. Solo la notizia che esistevano le immagini del sistema di videosorveglianza (di cui LiveSicilia vi mostra alcuni frame) che potevano dimostrare la sua innocenza avrebbe convinto i due agenti a visionare i filmati e a permettergli intorno mezzanotte di poter tornare a casa. I familiari lo hanno accompagnato al Cannizzaro, dove gli sono stati diagnosticati 10 giorni di prognosi. Il commerciante acese ha querelato il poliziotto, che - è scritto nell'esposto - sarebbe stato indagato per calunnia, ma il procedimento sarebbe stato archiviato. Dall'altra parte Torre si è visto accusare dall'uomo - come risulta da una nota di servizio - di lesioni, minacce e resistenza a pubblico ufficiale. Inoltre, visto che una volta andato in ospedale dal referto risultavano 10 giorni di prognosi, non ha potuto lavorare per diverse settimane. Per questo motivo il commerciante acese ha trovato nella sua cassetta della posta una richiesta di risarcimento danni in quanto il poliziotto a causa dell'aggressione non avrebbe potuto prestare servizio. L'esposto di 13 pagine si chiude con un appello affinché siano presi i necessari provvedimenti. "Un povero innocente non può sopportare e tollerare di essere accusato falsamente" scrive Torre al Capo della Polizia, al Procuratore Generale di Catania, al Questore Longo e al Prefetto Federico.

Poliziotto accusato di calunnia. Procura generale chiede giudizio, continua Laura Distefano. Lo scorso ottobre aveva presentato un esposto alla Procura Generale per denunciare di “essere vittima di un’ingiustizia”. La lettera ha portato ad un indagine nei confronti di tre poliziotti che ora dovranno presentarsi davanti ad un giudice.  Paolo Rino Torre, proprietario di un bar di Acireale, nella sua missiva raccontava l’episodio avvenuto durante il carnevale del 2012 dove un agente fuori dal servizio lo avrebbe accusato “ingiustamente – secondo l’imprenditore – di minacce e aggressione”. Accuse di cui Torre rispose anche davanti ad altri due poliziotti che “intervenirono durante la lite avvenuta all’interno del locale e registrata dalle telecamere di video sorveglianza”. La Procura Generale ha chiesto la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti dell’agente di polizia che dovrà rispondere delle accuse di calunnia e falsità ideologica commessa da un pubblico ufficiale. L’avvocato generale Salvatore Scalia ha chiesto il rinvio a giudizio anche per il titolare del bar di Acireale e della moglie “per non aver dato indicazioni sulla propria identità personale”. Ora dovrà essere il Gup Laura Benanti, che ha fissato l’udienza per il prossimo 7 maggio, a decidere se il poliziotto dovrà affrontare il processo. Per gli altri due poliziotti, che nel 2012 erano di servizio ad Acireale, è stato disposto dalla Pm Sabrina Gambino il giudizio immediato e dovranno presentarsi davanti al Tribunale monocratico il 20 giugno prossimo. Nel decreto di citazione diretta si legge che i due sono accusati in concorso del reato di lesioni per “aver colpito Rino Paolo Torre con uno schiaffo facendolo cadere dalla sedia, colpendolo, una volta a terra, con dei calci, una volta rialzatosi, con dei pugni in facci, gli cagionavano lesioni personali clinicamente refertate in diversi traumi giudicate guaribili in 10 giorni. Con le aggravanti di aver commesso il fatto per motivi abbietti e futili e abusando dei poteri e della funzione da loro rivestita”. Nella richiesta di rinvio a giudizio per il poliziotto e i due titolari del bar si leggono in modo preciso le accuse mosse dalla Procura Generale. “Il disegno criminoso” riguarda le false attestazioni che l’agente avrebbe fornito ai colleghi prima affermando di “essere stato aggredito da Paolo Rino Torre” circostanza evidenziata anche in un’annotazione di servizio (non veritiera secondo l’accusa) che “aveva tentato di identificare, per motivi di servizio, la cassiera del bar ed era stato raggiunto da Torre che, opponendosi, usava violenza nei suoi confronti strattonando e prendendolo per il collo” e incolpava Torre “pur sapendolo innocente – scrive la Procura generale – dei reati di resistenza a pubblico ufficiale e lesioni aggravate”.  Accuse respinte dal poliziotto che a sua volta ha avanzato richiesta di risarcimento danni nei confronti dell’imprenditore acese per l'aggressione subita che, viste le ferite subite e refertate dall'ospedale con una prognosi di 10 giorni, non gli ha permesso di poter tornare a lavoro e prestare servizio. In merito alla posizione del titolare del Bar, difeso dall’avvocato Giuseppe Lipera, la Procura Generale parla di offesa all’onore e al prestigio dell’agente e si fa menzione di diverse frasi pronunciate nelle fasi concitate dell’alterco all’interno del locale. “Se non ti ni vai subitu da qui ti vegnu a ciccari a casa e t’ammazzu”, “Non mi darò pace finché non ti vedrò morto..”. E altre frasi dello stesso tenore. Di queste accuse i due “protestano la propria assoluta innocenza – si legge in una nota del difensore Lipera -  e chiariranno la propria posizione in sede di giudizio”. L’avvocato Lipera inoltre ha annunciato che nel corso del procedimento ai due poliziotti accusati di lesioni “si costituirà parte civile, al fine di richiedere tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali patiti dal titolare dell’esercizio commerciale”.

Sono stati riuniti e saranno celebrati davanti alla terza sezione del tribunale di Catania i processi a tre agenti di polizia: Rosario Rapisarda, imputato per falso ideologico e calunnia, e Giovanni Brischetto e Aurelio Paratore, per lesioni personali nei confronti di Paolo Rino Torre, 41 anni, titolare di un bar ad Acireale. La prima udienza si terrà 18 novembre 2014, scrive “La Sicilia Web”. I fatti risalgono al 18 febbraio del 2012. Secondo l'accusa Rapisarda avrebbe riferito ad agenti del commissariato di Acireale di essere stato aggredito da Paolo Rino Torre, redigendo una falsa relazione di servizio. Gli altri due poliziotti sono accusati di lesioni personali nei confronti del barista per averlo colpito "con uno schiaffo facendolo cadere dalla sedia, colpendolo, una volta a terra, con dei calci e con dei pugni in faccia", "con le aggravanti di avere commesso il fatto per motivi abietti e futili e segnatamente per punire il Torre responsabile, a loro avviso, di avere aggredito l'agente scelto Rapisarda Rosario, con abuso dei poteri e della funzione propri della qualifica di assistenti di polizia da loro rivestita".

Saranno tutti alla sbarra davanti ad un unico giudice i tre poliziotti Rosario Rapisarda, Giovanni Brischetto e Aurelio Paratore, difesi dal legale Enzo Mellia. Il primo si dovrà difendere dall’accusa di falso ideologico e calunnia mentre gli altri due per lesioni personali. A stabilire le loro sorti sarà il magistrato Giancarlo Vincenzo Cascino, scrive Giorgio Mosca su “New Sicilia”. A puntare l’indice è Paolo Rino Torre, 41 anni che è il titolare di un bar di Acireale. Ma ricostruiamo i fatti: accade tutto il 18 febbraio del 2012 ad Acireale quando entrano nel vivo i festeggiamenti per il famoso carnevale acese. L’agente Rapisarda è al bar con la moglie dove sta mangiando. Tutto precipita nel momento in cui il poliziotto va alla cassa. La dipendente dell’esercizio commerciale, stando a quanto ricostruisce l’avvocato penalista Giuseppe Lipera, sbaglia lo scontrino per dieci centesimi. Ed ecco che nasce un violento diverbio. Rapisarda incontrando i suoi due colleghi, Brischetto e Paratore, racconta di essere stato aggredito dal titolare del bar. Paolo Rino Torre viene portato in commissariato e, sempre secondo il racconto del suo legale Lipera, viene picchiato prima con uno schiaffo che lo fa cadere a terra e poi con calci e pugni in faccia. Stanno per portarlo in carcere quando il signor Torre con un filo di voce riesce a dire “Non è vero niente, io non ho aggredito nessuno e nel mio bar ci sono le telecamere che possono testimoniarlo“, quindi viene subito rilasciato. Lo scorso tre ottobre c’è stata l’udienza presieduta dal giudice Enrico De Masellis, il quale accogliendo la richiesta dell’avvocato Lipera ha rinviato gli atti al magistrato Cascino e il prossimo 18 novembre ci sarà il processo anche contro gli altri due poliziotti accusati di lesioni personali clinicamente refertate. I due procedimenti che vedono coinvolti gli agenti di polizia in un primo momento sono stati archiviati dalla procura della Repubblica ma con la avocazione tutto è passato nelle mani della procura Generale. E adesso si va avanti per ottenere giustizia con la richiesta di condanna al risarcimento dei danni morali e materiali.

LA NEGLIGENZA DEI PM. MARIANNA MANDUCA E LE ALTRE O GLI ALTRI.

La negligenza dei PM. Marianna Manduca e le altre o gli altri.

Per la Corte di Cassazione 12 denunce disattese valgono “la negligenza inescusabile” dei PM.

Commento di Antonio Giangrande. Scrittore e sociologo storico.

Trattare il caso di Marianna Manduca, anche in video, è come trattare miriadi di casi identici, così come ho fatto in “Ingiustiziopoli. Disfunzioni del sistema che colpiscono i singoli”, e mi porta ad affrontare un tema che tocca argomenti inclusi in vari saggi da me scritti e pubblicati su Amazon.it e su Lulu.com o su Createspace.com.

Per la verità la decisione della Corte di Cassazione, tanto enfatizza dai media, è intervenuta solo per affermare un principio giuridico formale. La Suprema Corte ha accolto il ricorso con il quale il tutore dei tre bambini (Carmelo Calì che è un cugino della loro mamma che vive a Senigallia, nelle Marche) ha fatto valere il diritto dei piccoli a ottenere giustizia. La Corte di Appello di Messina non potrà più respingere la richiesta sostenendo che sono scaduti i termini e che l’azione andava esercitata entro i due anni dalla morte di Marianna. Per la Cassazione invece le argomentazioni dei magistrati messinesi «non hanno giuridico fondamento» perchè - spiegano i supremi giudici - il termine biennale, in un caso del genere, non può decorrere dal giorno della morte della donna ma «dal momento in cui i minori stessi avessero acquistato la capacità di agire», ovvero dal giorno in cui un adulto veniva ufficialmente nominato loro tutore.

La Corte Suprema, sulla base della legge del 1988 sulla responsabilità civile dei magistrati, ha affermato che  i figli di Marianna ora potranno avere un risarcimento dallo Stato per la «negligenza inescusabile» dei pm che avrebbero dovuto invece occuparsi di quelle denunce.

Tanto si è parlato del caso di Marianna Manduca. Per la Cassazione i magistrati non diedero importanza alle denunce della donna poi uccisa dal marito ed è per questo che i suoi tre figli hanno diritto ad un risarcimento. Il padre uxoricida è stato condannato a soli venti anni di reclusione. Le aggressioni alla ex moglie erano tutte avvenute in pubblico. Ciò nonostante nessuno condusse indagini e nemmeno prese provvedimenti a tutela della donna in pericolo, nonostante le sue richieste di aiuto.

«Spesso la legge non tutela le donne, ma in questo caso anche quelle previste non sono state applicate - denuncia l'avvocato Corrado Canafoglia - è incredibile che 12 dodici aggressioni avvenute in strada, pubblicamente e alla presenza di testimoni l'uomo non sia stato allontanato». Ergo: sbagliano le toghe, pagano gli italiani, muoiono le vittime.

Ma a tutti è sfuggito un particolare importante che porta a chiederci: per le toghe quante denunce insabbiate valgono una vita umana? Una, due, tre, dieci…Oppure fino a che punto lo stantio o l’inerzia provoca l’inevitabile evento denunciato?

E perché, come ai poveri cristi, alle toghe omissive non viene applicato il reato di omissione d’atti di ufficio, ex art. 328 C.P.? Non si paventa il dolo omissivo?

Non si pensi che la morte di Marianna Manduca sia un caso isolato e riferito solo alla trinacride magistratura. Per i miscredenti vi è un dato, rilevato dal foro di Milano tratto da un articolo di Stefania Prandi del “Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano che puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. «La tendenza è di archiviare, spesso de plano, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di conflittualità familiare – spiega Francesca Garisto, avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico, che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano». Entrando nel merito della “leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: «Dopo una denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio».

La sua storia è esemplare: è il padre di Carmela. «Una ragazzina di 13 anni - scrive Alfonso - che il 15 aprile del 2007 è deceduta volando via da un settimo piano della periferia di Taranto, dopo aver subito violenze sessuali da un branco di viscidi esseri», ma poi anche le incompetenze e la malafede di quelle Istituzioni che sono state coinvolte con l’obiettivo di tutelarla», perché «invece di rinchiudere i carnefici di mia figlia hanno pensato bene di rinchiudere lei in un istituto (convincendoci con l’inganno) ed imbottendola di psicofarmaci a nostra insaputa». Carmela aveva denunciato di essere stata violentata; e nessuno, né polizia, né magistrati, né assistenti sociali le avevano creduto o l’avevano presa sul serio. Ma le istituzioni avevano anche fatto di peggio. Hanno considerato Carmela «soggetto disturbato con capacità compromesse» e, quindi, poco credibile.

Invece di perseguire chi l’aveva violentata, hanno di fatto perseguito una bambina rinchiudendola in vari istituti in cui Carmela non voleva stare. E, come ha denunciato il padre, usando il metodo facile di «calmarla» con psicofarmaci.

Fin qui la questione attinente al femminicidio.

L’uomo orco da scotennare? No! C’è un paradosso da non sottovalutare. Se i Pm insabbiano, i giudici sono punitivi.

«Giudici punitivi, sempre dalla parte delle madri. E padri disperati: troppe le storie quotidiane di sofferenza atroce». E’ agguerrito Alessandro Poniz di Martellago (Ve), coordinatore Veneto dell’associazione Papà Separati. Esprime la rabbia e la frustrazione che ogni giorno tanti genitori «vessati dall’ex coniuge» riversano su di lui. «Ci si scontra continuamente con madri “tigri” tutelate dalla legge - accusa Poniz - . Non mi stupisce il dramma del papà di Padova. Sì, sono convinto che per la disperazione si possa arrivare a togliersi la vita. Sapete quanti padri si presentano puntuali a prendere i figli, secondo le sentenze stabilite dai tribunali, suonano il campanello e vengono mandati via dalla madre con la scusa che il bimbo è ammalato? Escamotage simili vanno avanti per anni... E quanti scontano l’odio e il rancore di figli “plagiati” dalle madri?».

«Il sistema non è mai pronto a intervenire tempestivamente», sostiene Alessandro Sartori, presidente Veneto dell’associazione italiana avvocati per la famiglia e per i minori (Aiaf). «Ci vorrebbe una formazione specifica sia per i giudici che per i servizi sociali. A volte sono chiamati a pronunciarsi su questa materia delicatissima giudici che fino al giorno prima si occupavano di diritto condominiale...».

Divorzi e paternità: ecco come la donna violenta l'uomo. False denunce e false accuse tra violenze fisiche, verbali e paternità negate. Nella coppia la donna diventa sempre più violenta. Ecco i risultati sconcertanti del questionario, scrive Nadia Francalacci  su “Panorama”. “Sono prive di fondamento le teorie dominanti che circoscrivono ruoli stereotipati: donna/vittima e uomo/carnefice”. Ad affermarlo è la psicologa forense Sara Pezzuolo, dopo aver condotto in Italia la prima “Indagine conoscitiva sulla violenza verso il maschile”. “Dal questionario emerge come anche un soggetto di genere femminile sia in grado di mettere in atto una gamma estesa di violenze fisiche, sessuali e psicologiche - continua a spiegare a Panorama.it, l’esperta - che trasformano il soggetto di genere maschile in vittima”.

E quando gli affidi diventano scippi e le vittime sono i figli ed entrambi i genitori?

Ci sono i falsi abusi, ma che realizzano vere tragedie. Solo 3 denunce su 100 si concludono con una condanna.

Minori strappati dalle mura domestiche e rinchiusi all’interno di comunità.  Storie di sofferenze, abusi, maltrattamenti, ma anche di errori giudiziari, che segnano indelebilmente la vita di minori, costretti a vivere e crescere in comunità o famiglie affidatarie lontane dall’affetto dei genitori.

Da quanto detto si estrae una semplice conclusione. Il sistema esaspera gli animi ed il debole soccombe. Non vi è differenza di sesso od età. Solo i media esaltano il fenomeno del femminicidio. Lo fanno per non colpire i veri responsabili: i magistrati.

Bene. Anzi, male. Perché se è vero, come è vero, che  questo sistema della stagnazione delle denunce o la loro invereconda procedibilità viene applicato anche per qualsiasi altro tipo di reato violento, allora si è consapevoli del fatto che ogni vittima è rassegnata al peggio. Si badi bene. Qui si parla anche di vittime di estorsioni. Quindi vittime di mafia. Senza parlare poi delle vittime di errori giudiziari.

Ecco, allora, chiedo a Voi toghe. Quando scatterebbe la “la negligenza inescusabile” dei PM che provoca morte o rassegnazione, dopo una, due, tre, dieci…denunce? Ce lo dite con una vostra alta sonante pronuncia, in modo che noi vittime, poi, teniamo il conto di quelle già insabbiate. Se poi, in virtù dell’indifferenza sopravviene la morte, chissà, forse i nostri figli si potranno rivalere economicamente, non sui responsabili, come sarebbe giusto, ma, bontà vostra, sui nostri e vostri concittadini che pagano le tasse anche per quei risarcimenti del danno. Danni riferiti a responsabilità dei magistrati, ma non a questi addebitati. 

Giustizia per Marianna, uccisa dopo 12 denunce, scrive Gianluca Mercuri su “Il Corriere della Sera”. Marianna Manduca aveva 32 anni quando, il 3 ottobre 2007, il suo ex marito Saverio Nolfo la ammazzò con dodici coltellate. Dodici come le denunce che la ragazza aveva presentato alla Procura di Caltagirone, senza che nessuno prendesse sul serio le minacce e le aggressioni, perfino pubbliche, che subiva. Accadde a Palagonia, nel Catanese, e pochi giorni dopo Marianna avrebbe vinto la lunga battaglia giudiziaria per l’affidamento dei tre figli. L’uomo sconta una condanna a vent’anni, ma finora la vittima non aveva mai avuto vera giustizia, né in vita né in morte. Ora forse un inizio di giustizia c’è. Il 12 settembre la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso del cugino di Marianna, tutore dei suoi figli, che vivono con lui e la sua famiglia nelle Marche. In base a questa sentenza, la Corte di Appello di Messina non potrà più respingere per scadenza dei termini la richiesta di risarcimento ai tre ragazzi per la “negligenza inescusabile” dei pubblici ministeri che avrebbero dovuto prendere in esame le denunce della madre. Per i giudici messinesi, l’istanza andava presentata entro due anni dalla morte di Marianna. La Cassazione li costringerà a ragionare: la scadenza dei termini va calcolata «dal momento in cui i minori stessi avessero acquistato la capacità di agire», cioè dal giorno in cui un adulto è stato nominato loro tutore, cosa avvenuta solo nel dicembre 2010. Il rifiuto di ammettere la richiesta di indennizzo era stato solo l’ultimo affronto della giustizia di questo paese a Marianna Manduca e alla sua memoria. Prima c’era stata l’inerzia di fronte alle sue denunce, e prima ancora l’incredibile decisione di affidare i bambini al padre, nullatenente e tossicodipendente ma capace – dopo avere di fatto sequestrato i figli e impedito per mesi alla madre di vederli – di plagiarli fino a indurli a mostrarsi ostili a Marianna nelle udienze in cui si discuteva la loro sorte. La giustizia ci cascò: quando stava finalmente per rimediare, arrivarono le pugnalate di Saverio Nolfo. Alla ragazza non era bastato il coraggio di lasciare il marito dopo anni di violenze. La sua storia (raccontata da Amore criminale su Raitre e visibile su YouTube) ricalca le tante lette e ascoltate troppe volte: un amore ingenuo, l’errore di cedere alla richiesta di rinunciare al proprio lavoro, l’inizio dell’incubo, la vergogna e il terrore di ribellarsi: «Capisco che è difficile, a chi non ha mai vissuto nulla di simile, comprendere tutto ciò, soprattutto comprendere come sia possibile patire tutto e sempre in silenzio, ma avevo molta paura e il clima in cui vivevo era davvero pesante». Sono parole di Marianna. Poi Marianna la paura seppe vincerla, ma non le bastò. L’invito giusto e ovvio che viene sempre rivolto alle donne nella sua situazione – smettete di subire, affidatevi alle istituzioni – lei lo accolse ma le istituzioni la presero a botte come il marito. Ora che finalmente la Cassazione ha cambiato il corso di questa storia, sarebbe bello che la Corte di Appello di Messina e la Presidenza del Consiglio – nei cui confronti è stata avanzata la richiesta di risarcimento per gli orfani – si arrendessero al buon senso e la dessero vinta, senza il minimo ostruzionismo, a chi si prende cura di quei ragazzi. In nome di Marianna Manduca, sette anni fa vittima di femminicidio.

La Cassazione: «Dai pm negligenza inescusabile. Ora lo Stato risarcisca i figli di Marianna», scrive “La Sicilia”. Per la Cassazione i magistrati non diedero importanza alle denunce di donna poi uccisa dal marito ed è per questo che i suoi tre figli hanno diritto ad un risarcimento. La vicenda si riferisce all’omicidio di Marianna Manduca - uccisa il 3 ottobre del 2007 con dodici coltellate a Palagonia – vittima delle furia del marito nonostante essa l’avesse già denunciato dodici volte alla Procura di Caltagirone le intenzioni omicide dell’ex marito Saverio Nolfo. La Corte Suprema, sulla base della legge del 1988 sulla responsabilità civile dei magistrati, ora potranno avere un risarcimento dallo Stato per la «negligenza inescusabile» dei pm che avrebbero dovuto invece occuparsi di quelle denunce. La Cassazione ha insomma accolto la richiesta del legale dei tre adolescenti, l’ex pm antimafia Aurelio Galasso. La Suprema Corte ha accolto il ricorso con il quale il tutore dei tre bambini (che è un cugino della loro mamma che vive nelle Marche) ha fatto valere il diritto dei piccoli a ottenere giustizia. La Corte di Appello di Messina non potrà più respingere la richiesta sostenendo che sono scaduti i termini e che l’azione andava esercitata entro i due anni dalla morte di Marianna. Per la Cassazione invece le argomentazioni dei magistrati messinesi «non hanno giuridico fondamento» perchè - spiegano i supremi giudici - il termine biennale, in un caso del genere, non può decorrere dal giorno della morte della donna ma «dal momento in cui i minori stessi avessero acquistato la capacità di agire», ovvero dal giorno in cui un adulto veniva ufficialmente nominato loro tutore. La Corte di Appello ora deve considerare valida la domanda risarcitoria avanzata nei confronti della Presidenza del Consiglio dei ministri a nome dei tre figli di Marianna. Il padre uxoricida è stato condannato a venti anni di reclusione. La aggressioni alla ex moglie erano tutte avvenute in pubblico. Ciò nonostante nessuno condusse indagini, e nemmeno prese provvedimenti a tutela della donna in pericolo nonostante le sue richieste di aiuto. L’aggressione fatale avvenne alla vigilia della sentenza che doveva affidare i tre bambini alla mamma dopo la separazione. L’omicida accoltellò non solo la donna, ma colpì gravemente anche Salvatore Manduca (59 anni), il padre di Marianna, l’unico uomo che l’ha difesa.

Marianna Manduca, geometra di 32 anni di Pagonia, Catania aveva denunciato suo marito Saverio Nolfo ben 12 volte per percosse e minacce, tutte avvenute in pubblico, ma l'autorità giudiziaria non ha mai preso provvedimenti. Poi 12 coltellate hanno posto fine alla vita della donna, scrive Michele Pinoto su “Vivere Senigallia”. Ora i suoi tre figli, di 3, 5 e 6 anni, sono affidati ad una famiglia senigalliese. La storia di Marianna Manduca ha dell'incredibile. Dopo la separazione dal marito, Saverio Nolfo, 36 anni, tossicodipendente, è iniziato un vero e proprio inferno. Nolfo l'ha picchiata più e più volte, tanto che la donna ha presentato ai carabinieri ben 12 denuncie. Il presidente del tribunale ha in un primo momento affidato i tre figli della coppia al marito,  nonostante fosse nullatenente e tossicodipendente mentre Marianna aveva un lavoro fisso. Dopo una difficile e lunga battaglia legale la donna è riuscita a riprendere i bambini in via temporanea. A pochi giorni dalla sentenza che le avrebbe affidato i figli in via definitiva e le avrebbe quindi permesso di trasferirsi lontano, a Milano dove aveva dei parenti, il marito la tampona con l'auto, per costringerla a fermarsi, poi accoltella il padre della donna ed infine la uccide con 12 coltellate. "Spesso la legge non tutela le donne, ma in questo caso anche quelle previste non sono state applicate - denuncia l'avvocato Corrado Canafoglia - è incredibile che 12 dodici aggressioni avvenute in strada, pubblicamente e alla presenza di testimoni l'uomo non sia stato allontanato. Non appena sarà nominato il nuovo Ministro Guardasigilli chiederemo un ispezione ministeriale per sapere chi non ha svolto il proprio dovere e per intraprendere un'azione giudiziaria". Per rendersi conto dell'incubo vissuto dalla donna possiamo leggere alcune delle sue parole: "Ho riferito circostanze precise in merito all'ultima vile aggressione (non saprei definirla diversamente) perpetrata nei miei confronti culminata addirittura a colpi di sedia. Aggressione, che mi ha costretto ad abbandonare la residenza familiare per evitare ben più gravi conseguenze. In quella occasione i sanitari della guardia medica mi refertarono acchimosi in tutto il corpo. Ancora oggi porto i segni di tale aggressione. Purtroppo però quella non è stata l'unica volta che ho subito violenze. Mi ha sempre minacciato di morte se avessi raccontato a chiunque quello che mi faceva e a causa di ciò ho sempre temuto per la mia incolumità e per quella dei miei figli. Capisco che è difficile, a chi non ha mai vissuto nulla di simile, comprendere tutto ciò, soprattutto comprendere come sia possibile patire tutto e sempre in silenzio, ma avevo molta paura e il clima in cui vivevo era davvero pesante. Non ho mai raccontato prima di ora questi gravissimi episodi solo ed esclusivamente per paura ed anche perché mio marito minacciava ritorsioni contro i miei figli". Dopo l'omicidio Nolfo è stato arrestato ed i tre bambini sono stati affidati a Carmelo Calì, cugino di Marianna e residente a Senigallia. "Quando siamo andati a prendere i bambini, nell'ottobre del 2007, pochi giorni dopo l'omicidio di mia cugina, è stata necessaria la scorta delle forze dell'ordine, tale era il clima a Pagonia. Oggi i bambini stanno bene a casa mia, insieme ai miei due figli. Vorrei ringraziare il Comune di Senigallia per il sostegno: non è facile mantenere 5 figli, in particolare l'assessore Volpini e il dirigente Mandolini". La necessità di una scorta fa pensare che in questa storia non sia estranea la mafia, tanto che Calì ha anche oggi, a Senigallia, ha paura di ritorsioni.

MAGISTROPOLI. PROCESSO AI MAGISTRATI.

Chiese aiuto per nomina, Csm processa Pg Tinebra. Giovanni Tinebra davanti alle telecamere di Report si giustificava per la condotta dicendo “Tu hai un amico, gli parli dei tuoi problemi, non c’è niente di male”, scrive Sigfrido Ranucci su “Il Corriere della Sera”. Il procuratore generale di Catania, Giovanni Tinebra, il 17 luglio 2014 sarà sottoposto a un procedimento disciplinare con l’accusa di avere fatto un “uso strumentale” della propria qualità di pg della città etnea “per conseguire un ingiusto vantaggio e per condizionare il libero esercizio delle funzioni costituzionalmente previste” del Csm sul conferimento degli incarichi direttivi. In particolare, si legge nell’atto di incolpazione nei confronti di Tinebra, firmato dalla Procura generale della Cassazione, il magistrato “sollecitava” Massimo Ponzellini, all’epoca presidente della Banca popolare di Milano e un suo uomo di fiducia, Antonio Cannalire, perché “si attivassero presso persone di fiducia per contattare” il laico del Csm, Ettore Albertoni (Lega) “al fine di indurlo ad esprimere il voto favorevole” alla nomina di Tinebra a capo della Procura di Catania, incarico poi andato a Giovanni Salvi. Lo stesso Tinebra davanti alle telecamere di Report aveva sminuito l’importanza della sua condotta dicendo: “Tu hai un amico, gli parli dei tuoi problemi, non c’è niente di male”. E in risposta alla domanda di cosa c’entrasse Ponzellini con il Csm, Tinebra replicò: “niente. Lui ha un sacco di amici, a un certo punto ha detto ‘vabbè’...dico io chi sei, illustro la tua personalità”. E concludendo osservo’: “ma poi non sono pressioni...il Csm, si parte cosi’, funziona così” Di parere contrario invece la procura generale della Cassazione che ritiene che si è trattato comunque di una condotta “gravemente lesiva dell’immagine di magistrato” e dello stesso Csm” .

L’accusa è pesante: aver chiesto aiuto, “avvalendosi dell’autorità derivante dal proprio ruolo istituzionale”, all’allora presidente della Banca popolare di Milano Massimo Ponzellini perché attraverso suoi contatti inducesse il consigliere laico del Csm Ettore Adalberto Albertoni (Lega) a sostenere la sua nomina a procuratore di Catania, scrive “Blitz Quotidiano”. E rischia di gettare un’ombra a fine carriera su uno dei magistrati più noti anche ai non addetti ai lavori: il procuratore generale di Catania Giovanni Tinebra, che ha guidato a lungo la procura di Caltanissetta, da dove ha gestito le indagini sugli omicidi di Ciaccio Montalto, Antonino Saetta e Rosario Livatino e sulle stragi di Capaci e via D’ Amelio. E che in seguito è stato anche a capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Da questa contestazione, formulata dalla procura generale della Cassazione, il Pg di Catania dovrà difendersi il 17 luglio prossimo davanti alla sezione disciplinare del Csm. E a difenderlo sarà un’altra “toga” di una certa visibilità: il pm della procura nazionale antimafia Antonio Patrono, che è stato presidente dell’Associazione nazionale magistrati negli anni di più acuto scontro tra giudici e politica. La vicenda che fa finire l’alto magistrato sotto processo disciplinare risale a tre anni fa, quando il Csm doveva appunto nominare il nuovo procuratore di Catania. Ma è venuta alla luce un anno dopo, a seguito delle intercettazioni compiute dalla procura di Milano nell’ambito dell’inchiesta a carico dell’ex numero uno della Bpm. Secondo la ricostruzione contenuta nel capo di incolpazione, fu lo stesso Tinebra a sollecitare “in numerose occasioni”, Ponzellini e il suo uomo di fiducia Antonio Cannalire (poi finito anche lui sotto inchiesta), perchè “si attivassero” per arrivare ad Albertoni. Lo scopo era preciso: indurre il consigliere della Lega “a esprimere il voto favorevole alla nomina di Tinebra”, nella partita che lo vedeva contrapposto a Giovanni Salvi e a Giuseppe Gennaro. L’obiettivo era dunque quello di alterare “a proprio vantaggio, a seguito di pressioni di ambienti politico-finanziari del tutto estranei all’ordine giudiziario, la scelta dell’organo di autogoverno”. Un piano che comunque non riuscì: alla fine il plenum scelse sia pure sul filo di lana, Salvi, che passò per un pugno di voti, non rispetto a Tinebra, che ne prese solo due, ma rispetto al terzo concorrente Gennaro. Si è trattato comunque di una condotta “gravemente lesiva dell’immagine di magistrato” – sottolinea la procura generale della Cassazione – di cui peraltro lo stesso Tinebra parlò, “minimizzandola”, nel corso di un’intervista a Report: “tu hai un amico, gli parli dei tuoi problemi, non c’è niente di male”, disse allora il Pg. E in risposta alla domanda di cosa c’entrasse Ponzellini con il Csm, Tinebra replico’: “niente. Lui ha un sacco di amici, a un certo punto ha detto ‘vabbe’…dico io chi sei, illustro la tua personalità”. Il Pg escluse però che si trattasse di “pressioni” perchè “il Csm funziona così”.Tra 15 giorni si vedrà se la sua tesi reggerà davanti al “tribunale delle toghe”, come auspica il suo “difensore” che si dice “fiducioso” su un esito favorevole per il suo assistito.

CONCORSI TRUCCATI. PATOLOGICO? NO, FISIOLOGICO!

Giunge al suo epilogo la vicenda dei  concorsi truccati al Comune di Catania. Il Tribunale ha condannato alla pena di anni due (la Pubblica Accusa aveva chiesto 1 anno e mezzo) l’ing. Troia ed i componenti della Commissione di concorso Cavallaro e Gubernale. Assolto Reale che al tempo era dirigente dell’area del personale. Riconosciuto il risarcimento per le parti civili costituite, scrive Dario De Luca su “Sud Press”.

Il giudice monocratico, Giuseppe Cavallaro, ha sciolto ogni riserva condannando tre imputati - Salvatore Troia ( Presidente della commissione esaminatrice), Antonio Cavallaro (membro della commissione esaminatrice), Francesco Gubernale (membro della commissione esaminatrice). Assoluzione, invece, per Carmelo Reale, ex direttore del personale al Comune di Catania, in quanto non componente della commissione del concorso e Salvatore Nicosia che per errore materiale era stato detto essere condannato. Accettate, inoltre, le richieste di risarcimento per i quattro dipendenti del Comune di Catania e partecipanti al concorso (Di Mauro, Catania, Portale e Pagano), che si erano costituiti parti civili. A sostenere l'accusa il Pubblico Ministero Marisa Scavo, che durante la sua requisitoria ha usato parole durissime sia nei confronti dell'Ingegnere Troia “E' stato il deus ex machina” che della vicenda in generale. “Si è agito nell'arbitrio più assoluto, con correzioni fatte in maniera vergognosa, potremmo definirlo un concorso scolastico dove si apprende come commettere un reato”. La storia del concorso: Era il dicembre del 2004 quando al Comune di Catania iniziava il concorso interno per 89 posti di istruttore direttivo cat. D1. Selezione questa che ebbe poca fortuna. SUD mostrò in anteprima le presunte irregolarità del concorso stesso: voti modificati in un secondo momento, alterazioni nei compiti, giudizi affiancati da diciture di dubbia natura (9 e zitto). Poco dopo si ebbe l’iniziale approdo nelle aule giudiziarie del Tribunale Amministrativo Regionale, era il 2005 quando diversi dipendenti dell’amministrazione Comunale chiedevano la sospensione dell’efficacia degli esiti del concorso, poiché ritenevano evidenti le troppe incongruenze. Nonostante il Tribunale Amministrativo Regionale abbia però rigettato il ricorso, la presa visione di quei documenti, portò il presidente/relatore della 4^ sezione Biagio Campanella (la prima che visionò la documentazione, poichè la sentenza venne rigettata in realtà dalla 2^ sezione) a trasmettere gli atti, presumendo quindi dei possibili illeciti penali, alla Procura della Repubblica presso il tribunale di Catania. Da qui l'avvio delle indagini e il successivo procedimento penale.

ESAME DI AVVOCATO A LECCE: ACCUSA DI PLAGIO PER OLTRE 100 CANDIDATI

INTERROGAZIONE A RISPOSTA SCRITTA

presenta da Antonio Giangrande in data 1 luglio 2013

al Ministro della Giustizia ed ai Parlamentari

Al Ministro della Giustizia. — Per sapere – premesso che:

alla fine di giugno 2013 si apprendeva dalla stampa che a Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di esame di avvocato presso la Corte d’Appello di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati dell’esame di avvocato sessione 2012 tenuta presso la Corte d’Appello di Lecce. Più di cento scritti sono finiti sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati.

Tenuto conto che le notizie sono diffamatorie e lesive della dignità e dell’onore non solo dei candidati accusati del plagio, ma anche di tutta la comunità giudiziaria di Taranto, Brindisi e Lecce coinvolta nello scandalo, si chiede di approfondire alcune questioni (in relazione alle quali l’interrogante ritiene opportuno siano comunicati con urgenza dati certi) per dimostrare se di estremo zelo si tratti per perseguire un malcostume illegale o ciò non nasconda un abbaglio o addirittura altre finalità –

Per ogni sede di esame di avvocato ogni anno qual è la media degli abilitati all’avvocatura ed a che cosa è dovuta la disparità di giudizio, tenuto conto che i compiti corretti annualmente presso ogni sede d’esame hanno diversa provenienza.

Se per l’esame di avvocato è permesso usare codici commentati con la giurisprudenza;

Se le tracce d’esame di avvocato indicate del 2012 erano riconducibili a massime giurisprudenziali prossimi alla data d’esame e quindi quasi impossibile reperirle dai codici recenti in uso i candidati e se, quindi, i commissari, per l’impossibilità acclamata riconducibile ad errori del Ministero, hanno dato l’indicazione della massima da menzionare nei compiti scritti;

Nella sessione di esame di avvocato 2012 a che ora è stabilita la dettatura delle tracce; presso la sede di esame di avvocato di Lecce a che ora sono state lette le tracce; se in tal caso la conoscenza delle stesse non sia stata conosciuta prima dell’apertura della sessione d’esame con il divieto imposto dell’uso di strumenti elettronici;

Quali sono le mansioni delle commissioni d’esame di avvocato: correggere i compiti e/o indagare se i compiti sono copiati e quanto tempo è dedicata ad  una o all’altra funzione;

Quali sono i principi di correzione dei compiti, ed in base ai principi dettati, quali sono le competenze tecniche dei commissari e se corrispondono esattamente ai criteri di correzione: Chiarezza, logicità e metodologia dell’esposizione, con corretto uso di grammatica e sintassi; Capacità di soluzione di specifici problemi; Dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati e della capacità di cogliere profili interdisciplinari; Padronanza delle tecniche di persuasione.

Tra i principi indicati qual è la figura professionale tra avvocati, magistrati e professori universitari che ha la perizia professionale adatta a correggere i compiti dal punto di vista lessicale, grammaticale, sintattico,  persuasivo ed ogni altro criterio di correzione riconducibile alle materie letterarie, filosofiche e comunicative.

Quanti e quali sono le sottocommissioni in Italia che da sempre hanno scoperto compiti accusati di plagio e in base a quali prove è stata sostenuta l’accusa;

Quante e quali sono le sottocommissioni di Catania che hanno verificato il plagio de quo e quanti sono gli elaborati accusati di plagio ed in base a quali prove è sostenuta l’accusa.

Se le Sottocommissioni di Catania coinvolte erano composte da tutte le componenti necessarie alla validità della sottocommissione: avvocato, magistrato, professore.

Se tutti i compiti di tutte le sottocommissioni di esame di avvocato di Catania (contestati, dichiarati sufficienti, e dichiarati insufficienti) presentano segni di correzione (glosse, cancellature, segni, correzioni, note a margine);

Quanto tempo, in base ai verbali apertura-chiusura sessione, per ogni compito tutte le sottocommissioni di Catania (anche quelle che non hanno scoperto le plagiature) hanno dedicato alla fase di correzione (apertura della busta grande, lettura e correzione dell’elaborato, giudizio e motivazione, verbalizzazione e sottoscrizione);

Quanto tempo, in base ai verbali apertura-chiusura sessione, per ogni compito tutte le sottocommissioni di Catania (quelle che hanno scoperto le plagiature) hanno dedicato alla fase di correzione e quanto tempo alla fase di indagine con ricerca delle fonti di comparazione e quali sono stati i periodi di pausa (caffè o bisogni fisiologici).

Al Ministro si chiede se si intenda valutare l'opportunità di procedere ad un indagine imparziale ed ad un’ispezione Ministeriale presso le sedi d’esame coinvolte per stabilire se Lecce e solo Lecce sia un nido di copioni, oppure se la correzione era mirata, anzichè al dare retti giudizi,  solo a fare opera inquisitoria e persecutoria con eccesso di potere per errore nei presupposti; difetto di istruttoria; illogicità, contraddittorietà, parzialità dei giudizi.

Se vogliamo dirla tutta, nè i Parlamentari si sono interessati, nè tutti coloro che, candidati o commissari che avrebbero dovuto sentirsi offesi per motu propriu o perchè considerati conniventi, hanno ritenuto di reagire in alcun chè.

Ed a proposito del plagio, proprio a Lecce intervenuto il TAR. Esame avvocato: plagio escluso se riguarda principi giurisprudenziali consolidati. TAR Puglia-Lecce, sez. I, sentenza 24.10.2011 n° 1837. La nota di Alfredo Matranga su “Altalex” spiega bene. Esame avvocato: è illegittimo l’annullamento della prova scritta per plagio se le parti incriminate concernono principi giurisprudenziali consolidati o previsioni normative fondamentali. E’ questo il principio con cui il TAR Lecce, con la sentenza in commento ha accolto il ricorso proposto da un candidato le cui prove erano state prima valutate tutte e tre 30/50, per un totale di 90, e poi annullate a causa di una presunta identità con quelle di altro candidato. Per il TAR adito, infatti, le parti dell’elaborato che hanno portato all’annullamento della prova d’esame, più che alla fattispecie del plagio, sembrano riportabili all’esposizione di principi giurisprudenziali consolidati o dello stesso contenuto di previsioni normative fondamentali, come l’art. 56 c.p..In siffatte ipotesi, ha proseguito il TAR salentino deve pertanto trovare applicazione il principio già affermato dalla Sezione (T.A.R. Puglia Lecce, sez. I, sentenza 21 ottobre 2010, n. 2147), relativo all’impossibilità di considerare come espressione di univoca corrispondenza con altri elaborati l’utilizzazione di formulazioni presenti in giurisprudenza (sempre possibile, in considerazione dell’utilizzazione di codici commentati) o la mera “copiatura” della formulazione delle norme; è, infatti, possibile presumere, come spesso avviene in procedure d’esame o concorsuali, che i passi “incriminati” possano trovare giustificazione nel ricorso a fonti (leggi, giurisprudenza) comuni o nelle <<ordinarie capacità mnemoniche>> dei candidati, che indubbiamente utilizzano testi di studio diffusi e comuni. Ha infine concluso il TAR, ritenendo che l’elaborato del ricorrente e quello contrassegnato con il numero n. 404, al di là del necessario e inevitabile riferimento all’istituto del tentativo, sono caratterizzati dall’utilizzo di tentativi ricostruttivi talmente divergenti (nel caso del ricorrente, il riferimento alla possibile mancanza dell’elemento soggettivo e, nel caso dell’elaborato contrassegnato con il numero 404, all’accordo non punibile ex art. 115 c.p.) da portare a ritenere non credibile l’ipotesi del plagio che, si esaurirebbe, in buona sostanza, nella semplice parafrasi della formulazione e dell’elaborazione giurisprudenziale dell’art, 56 c.p. Annullamento degli elaborati per plagio: vanno individuati i passi copiati, così dice il TAR. La giurisprudenza relativa all’annullamento degli elaborati dell’esame di avvocato che risultino copiati non può, in alcun modo, prescindere dall’individuazione delle parti dell’elaborato che possano giustificare l’applicazione delle sanzioni previste per l’ipotesi del plagio, ma deve invece tendere al riscontro dell'effettiva conformità degli elaborati, tale da far presumere che sia il risultato dell'iniziativa o dell'accordo di più candidati. TAR Puglia-Lecce, sez. II, sentenza 21.10.2010 n° 2147 come spiega bene Alfredo Matranga su “AltaLex”. L’annullamento degli elaborati dell’esame di avvocato che risultino copiati non può, in alcun modo, prescindere dall’individuazione delle parti dell’elaborato che possano giustificare l’applicazione delle sanzioni previste per l’ipotesi del plagio. E’ questo il principio con cui il TAR Lecce, I sez., ha accolto, con sentenza 20.10.2010, n. 2147 il ricorso proposto dal ricorrente avverso la mancata ammissione agli esami orali di avvocato a causa della presunta copiatura da altro candidato. In particolare, ha osservato il TAR salentino come, ai sensi dell’art. 23, ult. comma del r.d. 22 gennaio 1934, n. 37, la giurisprudenza amministrativa ha rilevato che, l’applicazione della previsione (che sanziona la violazione degli obblighi dei partecipanti all’esame di non comunicare tra di loro e di portare nella sede degli esami libri, scritti ed appunti di qualsiasi genere, previsti dagli artt. 20 e 21 del r.d. 37 del 1934) non possa, in alcun modo, prescindere dall’individuazione delle parti dell’elaborato che possano giustificare l’applicazione delle sanzioni previste per l’ipotesi del plagio: <<il limite che la commissione incontra nell'esercizio del potere di annullamento deve essere, invece, individuato nella riscontrata effettiva conformità degli elaborati, che faccia ragionevolmente presumere che essa sia il risultato della iniziativa o dell'accordo di più candidati>> (Consiglio di stato, sez. IV, sentenza 17 febbraio 2004, n. 616 che si pone nel solco di una giurisprudenza assolutamente consolidata). Nella vicenda in esame, infatti, il primo elaborato relativo alla prova di diritto civile non recava assolutamente l’individuazione delle parti o dei passi dell’elaborato che possano aver indotto la Commissione a concludere per la necessità di procedere all’annullamento dell’intera prova, a seguito della presunta conformità dell’elaborato 611 con l’<<elaborato contenuto nella busta n. 782>>, rendendo così praticamente impossibile qualsiasi controllo in ordine alla correttezza sostanziale della valutazione operata dalla Commissione, con consequenziale violazione di pacifici criteri di motivazione degli atti amministrativi desumibili dall’art. 3 della L. 7 agosto 1990, n. 241.

Dopo l’invito a denunciare e l’interrogazione parlamentare da presentare al Ministro della Giustizia inviata al Parlamento, né i cosiddetti rappresentanti del popolo, ne i minchioni dei candidati accusati di plagio hanno fatto qualcosa. La cosa che più dovrebbe far imbarazzare i benpensanti e gli ipocriti è che, per un motivo o per un altro, una coltre di omertà è calata sulla vicenda dei 100 presunti copioni. Se i scribacchini e pennivendoli per parlar male dell’avversario politico o del povero cristo, lo sbattono come mostro in prima pagina, per codesti signori nessuna attenzione è stata data, né la notizia è stata divulgata. Censura ed omertà assoluta: “minchiaaaa……nudda sacciu”.

CATANIA MASSONE.

La Massoneria occulta comanda a Catania?

I giochi di potere oggi aprono torbidi scenari. Autorità e cittadini devono scoprire se è vero, scrive Vito Padula. Su “La Voce dell’Isola”. In diversi ambienti pubblici catanesi, da qualche tempo a questa parte, serpeggiano tensioni e preoccupazioni: il leit motiv è "la Massoneria si è impadronita della città. La Massoneria comanda a Catania. Questa è una città che non ha scampo!". Ma esiste la Massoneria a Catania? E se la risposta è affermativa, di quale Massoneria si tratta? Sicuramente abbiamo a che vedere con una leggenda metropolitana. Un rebus: c'è chi vuole creare allarmismi, o gli allarmismi sono giustificati? Dicerie controverse, ma c'è chi sostiene che di dicerie non si tratti in quanto la "leggenda" presenta varie sfaccettature. C'è da aggiungere, infatti, che anche negli ambienti massonici gira, da qualche tempo a questa parte, un'altra più interessante, quanto inverosimile, "leggenda metropolitana", che, al momento, non comprendiamo cosa possa significare: che l'erede di Licio Gelli sia un attempato e ben posizionato catanese. Anche questa "leggenda" sa di panzana, figurarsi! A nostro avviso, senza nulla togliere ai catanesi-massoni (visibili o coperti che siano) ci viene difficile ritenere che proprio nel capoluogo etneo risieda e viva un "erede" spirituale del noto venerabile di Arezzo. E come dire che a Catania c'è un gemello di Andreotti. Impossibile. Se avessero affermato che a Catania c'è qualcuno pronto a prendere il posto del maestro Gelli, ad aspirare ad una posizione di "comando" come quella che, soprattutto, per una questione anagrafica il Licio internazionale non può più sostenere, la "leggenda" allora avrebbe potuto avere una sua credibilità. Così come è stata diffusa questa "voce" insidiosa non si presta che a commenti sarcastici: c'è da dubitare fortemente che possa corrispondere a realtà. Ciò non significa che la massoneria occulta non abbia il suo peso nella vita di questa capoluogo e della Sicilia nel suo complesso sociale, politico ed economico. Anzi: siamo convinti che è l'occulto che forse domina incontrastato su ogni cosa che possa produrre danaro. Ma state attenti, con questi discorsi c'è il pericolo di addentrarsi in un campo minato e pericoloso: se osaste chiedete ai "soliti" noti detentori del potere economico e politico di Catania (e non solo) se facciano parte della Massoneria, state sicuri che risponderanno con un secco "no". Se poi voleste spingervi ancora oltre e chiedere a costoro se sono massoni "coperti", cioè che non appaino in alcuna lista (ufficiale o no) correreste un bel rischio: di ricevere una immediata denuncia per diffamazione, oppure peggio. Nella migliore delle ipotesi, a fronte di dati inconfutabili, i "soliti" noti potrebbero confermarvi una superficiale appartenenza "passata", errori di gioventù. Del passato, infatti, volenti o nolenti, "qualche" traccia rimane sempre. Nulla da dire in merito a quella Massoneria che opera "per il progresso e per il bene dell'Umanità", tanto da dire, al contrario, per la massoneria occulta, quella che non appare che a tutto pensa, ma di certo non "al bene ed al progresso dell'Umanità". La Massoneria costituisce, per sua intrinseca natura, un grande potere che, per principio fondamentale, dovrebbe scorrere sul preciso binario delle regole che possono condurre l'Uomo al suo miglioramento interiore, alla consapevolezza del suo essere in riferimento ai "doveri" verso se stesso, verso gli altri, verso la propria patria. Paesi come gli Stati Uniti d'America hanno fondato la loro Costituzione sui principi massonici; anche la Costituzione italiana ha trovato la sua base nelle radici di questa Istituzione. E pur tuttavia, quando il potere è finito nelle mani di chi ne ha fatto soltanto un uso personale, le regole e i doveri sono stati accantonati e sepolti sotto enormi strati di nefandezze. Sarebbe la massoneria occulta a dominare da tempo Catania. Questa "leggenda" dovrebbe spiegare razionalmente tutti i danni che sono stati provocati alla città e gli arricchimenti sproporzionati di molti personaggi. Questa massoneria occulta si sarebbe impadronita dei gangli produttivi, si sarebbe accaparrata i posti chiave della politica, occupato le principali rappresentatività, invaso molti Consigli di enti e società. Il tutto in nome di un profitto sfrenato. Nei tempi recenti i cosiddetti "meccanismi di difesa" della Massoneria, quelli che avrebbero dovuto garantire la "riservatezza" degli affiliati, sono stati manipolati per creare dei comparti impenetrabili, all'interno dei quali pochi adepti (pochi in riferimento al gran numero di massoni attivi in tutto il mondo) si sono arrogati il diritto (?) di decidere a loro piacimento le sorti (economiche e politiche) di un Paese. Un potere immenso, difficilmente contrastabile per le innumerevoli ramificazioni sviluppate nelle complicità e nei ricatti reciproci chi di fa parte, nei vari livelli, di questi gruppi. Se voi dite che questo scenario può essere applicato a Catania, noi potremmo essere disponibili a pensare che nel fondo di una "leggenda metropolitana" possa scoprirsi qualche verità. Occulta, ovviamente. Certo non si potrà mai sapere quanti e quali politici siano passati da una loggia prima di raggiungere il successo e conquistare una poltrona, costantemente al servizio dei !"potenti" e in una struttura dove le gerarchie vengono rigorosamente rispettate. Potrebbe venire il dubbio che anche la mafia ne sia stata (e sia) al servizio...

"Un patto fra mafia e massoneria per gestire affari e processi", scrive Antonio Condorelli su “Live Sicilia”. Santo La Causa, il superlatitante, si è pentito e parla dell'alleanza fra massoni e mafiosi. E spuntano gli uomini d'onore "riservati".  “Esistono uomini d'onore riservati, che nessuno conosce, per consentire l'infiltrazione mafiosa negli appalti e attuare strategie precise anche all'interno della stessa organizzazione”. Intelligence mafiosa e massoneria nelle parole del superpentito catanese Santo La Causa, ex reggente militare della famiglia Ercolano-Santapaola, che ha iniziato a collaborare da quindici giorni con la giustizia. Quindici giorni in cui si sta delineando, attraverso un interrogatorio in gran parte secretato, l'esistenza di stretti rapporti tra la Cosa nostra catanese e la massoneria per l'affiliazione in gran segreto di uomini fidatissimi. Non solo armi, droga ed estorsioni, La Causa parla del livello superiore, quello dei colletti bianchi della famiglia mafiosa.

Mafia e massoneria. I componenti della cupola catanese, per primo Vincenzo Santapaola, figlio di Nitto, ritenuto il “vero capo”, avrebbe intrattenuto stretto contatti, attraverso alcuni avvocati, con logge massoniche di altissimo livello. Logge che avrebbero consentito al capomafia catanese di ottenere persino l'assoluzione in un importante processo. La Causa va dritto al cuore del noto “Caso Catania”, tirando in ballo i Riela, massoni e mafiosi legati dalla "fratellanza" con potenti catanesi. "Ho saputo da Enzo Santapaola, il figlio di ‘Nitto’, - dice La Causa ai pm - che l’avvocato che lo difese nel processo per l’omicidio del figlio di Riela e che era stato pagato dal padre della vittima, era massone al pari di Riela, fratello della vittima, attualmente detenuto". Il boss Enzo Santapaola avrebbe fatto "capire" a La Causa "che l’avvocato avrebbe potuto aiutarlo nella vicenda giudiziaria anche in ragione delle sue conoscenze derivanti dall’appartenenza alla Massoneria. Non so dire comunque -conclude il pentito - se il Santapaola, che era colpevole, sia stato assolto per le amicizie del difensore o per una buona difesa”.

Il sistema dei “riservati”. “Dice il superpentito: “L'uomo d'onore riservato viene fatto dai familiari stretti ed è noto solo a chi lo ha ritualmente affiliato che poi decide quando e se presentarlo”. Un'affiliazione che serve, secondo La Causa, a “utilizzarli in modo occulto evitando di “bruciarli” e se il caso anche contro taluni esponenti della medesima organizzazione”. Il boss Antonio Motta e lo stesso Enzo Santapaola avrebbero riferito a La Causa che Ciccio Napoli, nipote di Giuseppe Ferrera, “è un uomo d'onore riservato”. “La stessa qualità - continua La Causa- ha avuto Lucio Tusa (nipote del boss Piddu Madonia) per quanto mi ha riferito Aiello Vincenzo e mi confermò, sostanzialmente, lo stesso Tusa in una falegnameria in via Crispi a Catania”. Il nipote di Piddu Madonia, arrestato nel novembre 2011, pochi giorni dopo l'arrivo a Catania del procuratore capo Giovanni Salvi, avrebbe parlato a La Causa “di un grosso affare che stava per avviarsi alla Playa e che voleva consegnare al nostro gruppo, chiedendo contestualmente di utilizzare anche proprie imprese”. Il rito dell'affiliazione “riservata”, ha riguardato anche tale “Luciano”, uomo di fiducia di Angelo Santapaola. Un'affiliazione di cui La Causa parlò direttamente con Enzo Santapaola: “Si poteva accontentare il Santapaola - racconta il super-pentito ai pm - perché in realtà sia lui che i suoi uomini erano destinati a morire; per evitare di farlo presentare in giro io proposi ad Enzo Santapaola di affiliarlo con questa particolare modalità e così fece”. La Causa conclude questa parte dell'interrogatorio ricordando che, nel 1998, durante una cerimonia ufficiale, Nino Santapaola, detto “U pazzu”, fu il suo padrino.

CATANIA MAFIOSA.

Quando leggo di mafia, non capisco mai molto, scrive Leandro Perrotta. La cosa è legata al fatto che negli articoli scritti sul tema, si danno per scontate delle conoscenze “storiche” dei territori e dei vari gruppi malavitosi che li operano, del contesto sociale, dei nomi degli arrestati eccellenti… E anche se si conoscono le grandi vicende “storiche” legate ai territori in oggetto, arrivare al quadro attuale è pressoché impossibile se non con lunghe ricerche che richiedono molto molto tempo. In questi giorni però, almeno per quanto riguarda il territorio catanese, ho potuto comprendere meglio la situazione leggendo la relazione che la Direzione Distrettuale Antimafia di Catania ha prodotto a giovamento della Commissione Parlamentare Antimafia, in cui si fa il quadro dei gruppi mafiosi presenti nel territorio catanese, come si chiamano e in quali limiti territoriali agiscono… Qui di seguito riporterò i nomi delle famiglie che attualmente operano nel territorio di Catania così come riportate sulla relazione.

“Cosa Nostra” attraverso la famiglia Santapaola (Ercolano) con le sue articolazioni sia a Catania centro che in altri paesi della provincia e del distretto. Nel circondario del Tribunale di Catania, sono collegati al gruppo Santapaola, i seguenti clan mafiosi:

a Paternò il gruppo ASSINNATA

ad Adrano il gruppo SANTANGELO

ad Acireale, il gruppo diretto da SCIUTO Sebastiano (ala Ercolano)

a Giarre il gruppo diretto da BRUNETTO Paolo

a Bronte il gruppo facente capo a CATANIA Salvatore

a Nicolosi e Piano Tavola, il gruppo SQUILLACI

a Caltagirone con il gruppo LA ROCCA Francesco

Laudani, particolarmente presente nei paesi pedemontani. Ed, inoltre, a Paternò in collegamento con la famiglia Morabito; a Piedimonte Etneo con il gruppo diretto da DI MAURO Paolo; a Randazzo con il gruppo diretto da ROSTA e Sangani

Mazzei, nel quale è confluito il gruppo Cursoti milanesi. Gruppo diretto da Santo Mazzei, detenuto e da Di Benedetto Santo, arrestato il 24 giugno 2007

Cappello: operanti in alcuni quartieri catanesi (Civita e San Cristoforo), nel siracusano (Porto Palo) e a Calatabiano con il clan Cintorrino.

Pillera/Puntina, presenti in Catania – città, guidati da Corrado Favara e Nuccio Ieni.

Sciuto – Tigna

La relazione, che (non l’ho detto prima) porta la firma del Procuratore Distrettuale della Repubblica Vincenzo D’Agata, non contiene ovviamente solo questo breve elenco, ma è molto più lunga e articolata. In particolare è interessante riportare la premessa che si trova all’inizio della relazione su quale sia la natura dei gruppi mafiosi catanesi. Giova premettere, sebbene si tratti di circostanza nota, che la criminalità organizzata che opera nel territorio di Catania si distingue per sue caratteristiche strutturali dalla criminalità organizzata che opera nella città di Palermo. Mentre, infatti, i gruppi che operano a Palermo hanno un momento di convergenza unificante in “Cosa Nostra”, la criminalità catanese è strutturata in gruppi o famiglie che operano sul territorio in maniera autonoma le une dalle altre, pur annoverando alcune di esse (Santapaola – Mazzei) uomini d’onore (N. D’Emanuele, G. Ercolano e S. Mazzei). Le anzidette famiglie quindi, in una realtà che registra frequenti cambiamenti, a volte si trovano in contrapposizione tra loro, a volte stringono alleanze, a volte, infine raggiungono un tacito accordo di non belligeranza e non interferenze – pax mafiosa (…) (…)L’intensa opera di repressione che si è condotta negli anni precedenti, lo stato di detenzione dei capi storici delle singole famiglie, ed infine l’immediata individuazione ed intervento repressivo nei confronti dei soggetti che in successione hanno assunto la leadership dei vari gruppi, hanno determinato uno stato di grave difficoltà per le singole famiglie mafiose, delle quali tuttavia, si colgono forti ed inequivoci segnali di riorganizzazione, agevolata anche dalla remissione in libertà, per fine pena o per effetto dell’indulto, di alcuni soggetti dalla notevole caratura criminale.

Il boss La Causa racconta la mafia catanese: da Nitto all'"incontinente", scrive Andrea Intonti su “Info Oggi”. Santo La Causa, tra i più importanti esponenti della famiglia mafiosa catanese dei Santapaola, ha deciso di collaborare con la giustizia, ed il terremoto che era stato annunciato, nonostante le conferme delle sue parole debbano ancora arrivare, sembra essere iniziato. «A Catania il capo dell'organizzazione Cosa Nostra è Vincenzo Santapaola», ha raccontato nei verbali posti al centro della seconda udienza del processo ordinario nato da uno dei filoni dell'inchiesta Iblis, il più importante processo attualmente in corso sulle presunte collusioni tra mafia, imprenditoria e politica cominciato ieri davanti al Tribunale di Catania e che vede interessati ventitré dei cinquantatré imputati iniziali. I verbali – risalenti alle prime dichiarazioni dell'ex boss, rilasciate il 5 ed il 15 maggio – saranno resi al più presto disponibili, stando a quanto assicurato dal procuratore aggiunto Carmelo Zuccaro. È stata Agata Santonocito, sostituto procuratore, ad aprire alle prime indiscrezioni. «Esistono due livelli» - ha spiegato il magistrato - «Uno basato sul controllo del territorio e la forza bruta e un altro che punta alle infiltrazioni nella politica e nell'imprenditoria». Secondo l'accusa, ai vertici della famiglia ci sarebbero Vincenzo Santapaola – figlio di “Nitto” e non presente nella prima udienza dell'altro giorno perché colpito da dolori e incontinenza dopo una caduta in cella - e Giuseppe Ercolano. I due sarebbero stati coadiuvati da Natale Fillocamo, Rosario Di Dio e Pasquale Oliva - questi ultimi due referenti delle diramazioni provinciali della famiglia – insieme a Vincenzo Aiello, rappresentante provinciale di una famiglia il cui potere si estende, lungo la fascia jonica, fino a Siracusa e Ragusa e fino a Caltagirone ed Enna. Fotovoltaico, parco tematico di Regalbuto, grande distribuzione – in particolare il parco commerciale Tenutella, oggi Centro Sicilia e la Safab, «su cui si sono concentrati gli interessi di diverse famiglie mafiose siciliane e che dimostra l'influenza sovraprovinciale di Cosa Nostra etnea» – ed edilizia pubblica i principali filoni d'affare seguiti dal clan. Proprio sulla Tenutella La Causa ha tirato in ballo Nino Strano, ex assessore al Turismo regionale del Popolo della Libertà oggi transitato nel gruppo Futuro e Libertà, il quale «si adoperò per sbloccare le autorizzazioni necessarie». Affermazioni definite calunniose dal senatore.

Importanti inoltre gli interessi della famiglia mafiosa nella politica la quale, come evidenziato dall'accusa, non avrebbe visto grande resistenza, come nel caso dell'ex sindaco di Palagonia e deputato regionale dei Popolari di Italia Domani Fausto Fagone, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e concussione. Oltre a questo, La Causa ha parlato anche dei rapporti tra la famiglia catanese e la massoneria, come riporta il sito delle Iene Siciliane, parlando poi del fatto che le famiglie palermitane non avrebbero mai gradito il “basso profilo” di Enzo Santapaola, definito un “fantasma” dai Lo Piccolo. Il processo, cominciato a gennaio in Corte d'Assise, era stato trasferito per competenza al Tribunale di Catania. Non è detto, però, che il procedimento non ritorni indietro, in quanto secondo il Tribunale di Catania sarebbe proprio la prima a mantenere la competenza. Sarà ora la corte di Cassazione a decidere. Se ciò avvenisse il processo dovrebbe ripartire da capo, per l'ennesima volta.

Pacifico svela il "Sistema Catania": Mafia, politica e colletti bianchi, scrive Laura Distefano su “Live Sicilia”. I rapporti della mafia con i politici catanesi, la mappa dei clan, il traffico di droga, il ruolo dei colletti bianchi implicati nel riciclaggio di fondi illeciti. Tutti i segreti di Cosa Nostra svelati durante una lunga intervista a Pasquale Pacifico, il Pm più temuto dalla mafia alle falde dell'Etna.

 "Ammazzate quel cesso". Un ordine per uccidere un personaggio scomodo, un magistrato che con le sue indagini ostacolava la sua scalata. Tre pizzini, però, che finirono proprio nelle mani di chi doveva essere crivellato con 32 colpi in testa. Pasquale Pacifico, sostituto procuratore della Dda catanese, svela a LiveSiciliaCatania, un particolare, da film, dell'inchiesta della procura di Messina che portò, lo scorso mese di marzo, all'ordinanza di custodia cautelare per Orazio Finocchiaro.

«Ho provato sconcerto in un primo istante, ma scegliendo questo mestiere lo avevo messo in conto". Senza tracce di esitazione il suo commento. Oggi Pasquale Pacifico vive sotto scorta. Tra le sue operazioni più importanti, l'inchiesta Revenge che nel 2009 fermò sul nascere una guerra tra il Clan Cappello e Bonaccorsi. Sebastiano Lo Giudice, capo storico dei Cappello insieme ad altri vertici di cosa nostra, finì dietro le sbarre. Pacifico, immerso dalle carte del suo ufficio in procura, scatta una lucida fotografia della mafia catanese oggi, con tutte le sue proiezioni: nella politica, nella finanza, senza dimenticare il contributo attivo dei colletti bianchi. "Una cosa è certa - afferma il magistrato - la crisi economica rappresenta un'occasione storica per la mafia».

Mafia e politica. E' appena terminata la campagna elettorale per le regionali e ci stiamo avvicinando alle comunali e alle politiche. C'è un rischio concreto di collusione?

"A mio avviso il rischio c'è sempre, nel senso che la campagna elettorale è un periodo sensibile per il politico perché è in cerca voti. La storia ci insegna, così come dimostrano le ultimi indagini, che le organizzazioni criminali sono in grado, specie in alcuni quartieri disagiati, di condizionare pesantemente il voto e, quindi, di indirizzare i consensi. Noi come autorità giudiziaria abbiamo il compito di monitorare quelle che possono essere le potenziali situazioni di rischio e di inquinamento».

Mafia, finanza e "colletti bianchi". Una relazione esistente, lo hanno dimostrano molte inchieste condotte da questo Ufficio. Ma come agisce la criminalità organizzata, soprattutto in questo periodo di crisi?

«Un momento storico come quello attuale, con una crisi economia molto forte da un lato e forti difficoltà, soprattutto, per la piccola e media impresa di accesso al credito bancario, rischia di diventare un'occasione storica per la criminalità organizzata. Le organizzazioni criminali hanno la possibilità di disporre di grossa liquidità che può essere inserita nel settore produttivo mediante finanziamenti di imprese in crisi attraverso formule diverse: si va dalla tradizionale usura fino alla totale acquisizione dell'azienda. Va detto, però, che queste operazioni richiedono la presenza di professionisti, i cosiddetti "colletti bianchi", che con la loro consulenza riescono a creare queste società che, in parole povere, servono per riciclare il denaro frutto dell'attività illecita. Come io dico spesso per la mafia il problema non è l'accumulo di capitali illeciti, ma è quello di riciclare e giustificare questi movimenti di denaro, per prevenire il rischio di sequestri preventivi o altre misure di prevenzione».

Quale scenario si profila all'interno di Cosa Nostra dal punto di vista "militare" a Catania?

«Siamo in un periodo di pace. Non c'è una guerra in corso tra i vari clan per il controllo del territorio. Negli ultimi due anni, infatti, non si sono registrati omicidi eccellenti. La situazione è caratterizzata dalla presenza di diverse organizzazioni, il Clan Santapaola ha un po' il predominio essendo per tradizione la famiglia legata a cosa nostra palermitana. Va detto, però, che negli ultimi anni gruppi, anche rilevanti, legati alla famiglia Santapaola si sono staccati dalla cosca. Questo fenomeno è emerso nel corso del processo Revenge: ci riferiamo alla famiglia Martiddina di Monte Po e alla famiglia Strano. Movimenti che hanno causato un mutamento negli equilibri interni della criminalità organizzata etnea. Questi gruppi, infatti, si sono avvicinati al Clan Cappello, e precisamente al gruppo dei Carateddi. Dopo le operazioni Revenge e Iblis, che la Dda ha condotto, c'è un momento di stasi all'interno di Cosa nostra, c'è solo qualche frizione causata soprattutto dal controllo del traffico di droga».

E possibile disegnare una mappa?

«A Picanello, quartiere limitrofo al borgo marinaro di Ognina, è sempre predominante la presenza del Clan Santapaola, ma opera anche qualche propaggine del Clan dei Laudani. Librino, zona popolare adiacente all'aeroporto, vede la famiglia dei Nizza (affiliata ai Santapaola) che si contendeva la gestione del traffico di stupefacenti con la famiglia Arena che faceva riferimento al superlatitante Giovanni Arena, arrestato nel novembre 2011. A San Cristoforo è forte la presenza del gruppo dei Carateddi, collegata alla cosca Cappello che è presente a macchia d'olio in molte altre zone della città come Corso Indipendenza e San Berillo Nuovo. Quartiere dove operano anche i Cursoti Milanesi. I clan, invece, maggiormente operanti in provincia sono i Laudani per i comuni pedemontani ed i Santapaola, ma abbiamo notizie che anche il Clan Cappello ha dei gruppi che controllano territori fuori dai confini della città».

I settori criminali?

«Mi verrebbe da dire che i settori sono quelli tradizionali. Le estorsioni continuano ad avere un certo peso ma non dal punto di vista economico. Con l'imposizione del pizzo, infatti, il clan più che cercare un introito monetario, si garantisce il controllo del territorio. Negli ultimi anni il settore di maggiore rilevanza è sicuramente il traffico di drogai. Un affare potremmo dire globalizzato, in quanto viene gestito dai vari clan, soprattutto per quanto riguarda il rapporto con i fornitori, consorziandosi tra loro. E' frequente trovarsi davanti a clan apparentemente contrapposti o distinti che acquistano insieme lo stupefacente per poi dividerlo nelle varie piazze di spaccio. Il traffico di droga produce l'entrata più rilevante dal punto di vista economico per la criminalità organizzata».

I numeri del giro d'affari della droga?

«Dalle indagini emerge che una piazza di spaccio frutta in una serata ad un clan tra i 10 e i 15 mila euro, cifre che si raggiungono anche con hascisc e marijuana. Per il traffico di cocaina i numeri sono molto più elevati».

I canali di rifornimento?

«Per la cocaina registriamo rapporti con fornitori calabresi o provenienti dalla camorra campana. Marijuana e hascisc provengono o dalla Calabria o dai legami intrapresi con la criminalità organizzata albanese».

Da marzo lei vive sotto scorta. La mafia stava organizzando la sua esecuzione. Quello che nessuno, forse, sa è che a scoprire il pizzino dove si dava l'ordine di ammazzarlo è stato lei stesso.

«L'episodio con cui l'ho scoperto è quasi banale. Durante un colloquio con un soggetto detenuto in una struttura carceraria della Sicilia, fu lui stesso a chiedermi di essere sottoposto ad interrogatorio. In quel frangente mi consegnò dei biglietti, in gergo i cosiddetti pizzini, che provenivano da un altro detenuto dove, in effetti, erano contenute delle minacce nei miei confronti, più che di minacce si trattava proprio di un progetto di attentato alla mia persona».

Cosa ha provato ad avere in mano quel pizzino?

«Indubbiamente un po' di sconcerto all'inizio, ma facendo questo lavoro sono rischi che un magistrato mette in conto».

Cosa significa vivere sotto scorta? E' una sorta di carcere senza sbarre?

«Non mi definirei un carcerato, ma sicuramente queste misure limitano la libertà personale e la privacy, non solo mia, ma anche dei miei cari».

Ultima domanda, forse la più difficile. Come si può sconfiggere la mafia?

«Le dirò una cosa che, forse, le sembrerà strana. La risposta giurisdizionale, quella cioè di polizia giudiziaria, è l'ultima spiaggia. La lotta alla mafia parte da una battaglia di educazione alla legalità. Soltanto partendo dalle scuole dove si deve promuovere una cultura di legalità si può sperare un giorno di sconfiggere il crimine organizzato. Non a caso io ricordo una frase celebre di Giovanni Falcone che affermava: la mafia teme la scuola più della giustizia. Serve uno scatto da parte di tutti, la mafia non è un problema solo di polizia giudiziaria».

MALAGIUSTIZIA ED IMPUNITA’

Catania “circolo degli amici”, scandalo Tribunale Lavoro, l’avv. Maccarrone: “avvocatura genuflessa alla casta dei magistrati”, scrive la iena di strada Marco Benanti su “Iene Sicule”. L’ultimo “colpo” del “Sistema Catania”. Il legale: “sono disposto a fare scoppiare la terza guerra mondiale”. Non c’è solo silenzio a Catania attorno all’ “operazione manicomio” come è stato anche definito il trasferimento del Tribunale sezione lavoro da via Verona a via Guardia della Carvana. Una storia surreale, che vede sconfitto l’interesse pubblico a vantaggio del privato. Alla Procura della Repubblica non si archivia, anzi, ci potrebbero essere novità presto. E chi si batte contro questo scandalo, come l’avv. Ignazio Maccarrone, non molla. Anzi. A lui abbiamo rivolto qualche domanda.

Avv Maccarrone, malgrado il silenzio di tanti, la Procura della Repubblica non ha archiviato il fascicolo su via guardia della carvana. Cosa si attende dall’indagine?

«Dall’indagine non mi aspetto nulla in quanto ciò che doveva essere evidenziato dagli accertamenti disposti dalla Procura della Repubblica non è stato fatto. Invero occorreva a mio avviso un accertamento più accurato sul rilascio del nulla osta da parte dei vigili del fuoco per tutto il materiale cartaceo che è stato trasferito nei garages inerenti l’archivio».

In particolare, teme eventuali insabbiamenti?

«Più che insabbiamenti, parlerei di stasi del procedimento, in quanto mi sembra che dopo il rilascio della concessione in sanatoria da parte dello stesso comune, non verranno effettuati altri accertamenti».

In generale, quali aspetti della vicenda del trasferimento, a suo avviso, non sono stati sufficientemente evidenziati?

«Gli aspetti che andavano maggiormente approfonditi, riguardavano essenzialmente l’idoneità dei locali scelti per trasferirvi degli uffici giudiziari, in particolare se tali locali sono in grado di supportare un carico di arredi e persone sicuramente superiori agli immobili costruiti per civile abitazione. Inoltre non si è capito in base a quale indagine di mercato sono stati scelti proprio questi locali, così come non si comprende in base a quale criterio l’Agenzia del Territorio abbia potuto ritenere congrua la somma annuale di Euro 800.000,00 per l’affitto di mq 1800. Ed infine, sarebbe stato opportuno appurare come è stata ottenuta l’abitabilità per i locali posti sotto il livello dell’area condominiale e della strada, ove dovrebbero essere allocate le aule di udienza».

Attualmente, cosa sta materialmente avvenendo nella sede prescelta in via guardia della carvana? C’è solo il trasloco in corso o altro?

«Attualmente sono stati trasferiti nei garages posti al piano -2 i fascicoli cartacei dell’archivio, dopodichè tutto si è fermato ed attualmente si vede il commesso che viene a prendere i fascicoli richiesti».

Come giudica l’operato dell’avvocatura catanese di fronte a questo scandalo? E’ vero che lei ha avuto scontri con qualche collega?

«L’avvocatura catanese ed in particolare il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Catania, come sempre, si è genuflesso al potere della casta dei magistrati. Invero non è la prima volta che mi capita di assistere a tale atteggiamento da parte del Consiglio dell’Ordine, che quando deve sbattere i pugni sul tavolo si piega con fare ossequioso ai potenti di turno perché ovviamente è sempre meglio fare come gli struzzi e mettere la testa sotto la sabbia.
E’ vero, ho avuto degli scontri con qualche collega, ed in particolare col mio amico o ex amico, Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati, che ho tacciato di inerzia e che mi ha risposto dicendomi che essendo una cosa mia personale io ritenevo di avere necessariamente ragione. Credo che i fatti abbiano dimostrato che io ho ragione se lo stesso sindaco di Catania che ha avallato questa vicenda dichiara testualmente: ‘che il trasferimento del Tribunale lavoro è uno scandalo’, ed infatti avevo chiesto al Presidente del Consiglio dell’Ordine di prendere posizione su questa affermazione».

L’Anf di Catania rivendica un ruolo nella vicenda. Quale relazione c’è stata con lei e in generale quale ruolo nella vicenda?

«L’Anf di Catania nella persona dell’avvocato Pirrone e dell’avvocato Pasquale Pappalardo, hanno cercato di supportare la mia denuncia, presentando a loro volta un esposto a sostegno di quanto da me denunciato e indicendo alcune conferenze con la partecipazione dell’allora assessore Pasqua, che poco o nulla hanno prodotto».

Sono stati rivelati dalla stampa, come “Magma”, alcuni aspetti della vicenda che lasciano trasparire possibili favoritismi. Lei cosa ne pensa?

«Ciò che ‘Magma’ ha rivelato non è altro che l’evidenza di come a Catania tutto si muove per favorire qualcuno. Infatti basta leggere le dichiarazioni dell’avv. Marco Petino, che è colui che ha materialmente sottoscritto il contratto di locazione per conto del Comune di Catania, che ha dichiarato come fu nel 2009 l’allora Presidente della Corte di Appello di Catania, dott. Marletta, ad indicare quei locali come idonei per il trasferimento del Tribunale del Lavoro e a sollecitare la locazione. Probabilmente perché la nuora del dott. Marletta lavorava presso la Banca Base di cui è azionista Toscano Domenico che è il costruttore degli immobili locati».

Qualcuno dice che lei ha reagito con tale veemenza perchè interessato in quanto proprietario di un immobile nel condominio di via Guardia della Carvana. Cosa risponde?

«Ho reagito con tale veemenza in quanto proprietario di un immobile nel condominio in questione e non ho fatto altro che tutelare i miei diritti. Infatti quando ho avuto il colloquio ‘de visu’ con il sindaco di Catania avv. Stancanelli, gli ho semplicemente chiesto se lui avrebbe acconsentito ad un trasferimento nel suo condominio del Tribunale del Lavoro. Non mi è stata data nessuna risposta. Credo che tale silenzio si commenti da solo. E questa domanda la giro a tutti coloro che mi hanno criticato. Io ho difeso e sto difendendo il mio diritto a vivere tranquillo e sereno con la mia famiglia nell’abitazione che ho acquistato con grossi sacrifici dopo 30 anni di attività professionale. Inoltre vi sono plurimi esempi di come sia impossibile una commistione tra immobili destinati a civile abitazione ed uffici giudiziari. A tutti gli ipocriti che mi contestano in quanto interessato precipuamente alla vicenda, rispondo che è meglio che stiano zitti, perché io non faccio affari con le lobby e non mi piego ai potenti di turno».

In generale, che città viene fuori da questa storia, a suo avviso?

«Da questa storia emerge come oggi Catania sia nelle mani dei soliti potenti, che decidono a tavolino le sorti dell’amministrazione cittadina. Purtroppo questo degrado siè manifestato e si è acuito negli ultimi dieci anni con due amministrazioni comunali che hanno lasciato Catania nelle mani dei potenti di turno per far calpestare i diritti dei cittadini. Io credo che anche quando venga calpestato il diritto di un singolo cittadino, tutta la città perde, perché è importante, se si vuole crescere, che venga affermato il principio che i diritti sono uguali per tutti. E quando le legge viene violata per far contento il funzionario o il potente di turno, è una sconfitta che coinvolge tutta la città».

Come giudica la reazione della politica a questo scandalo?

«Per quanto riguarda le ultime reazioni della politica a questo scandalo, mi sono chiesto dove si trovava la dott.ssa Acagnino, aspirante sindaco, nel 2010, quando ho denunciato questi gravissimi fatti. Oggi assurge a paladino della giustizia definendo scandalosa la vicenda ed implicitamente attaccando i suoi colleghi che ovviamente non hanno investigato a fondo. Ancor più sorprendente è la reazione dell’altro aspirante sindaco, Berretta, che in un recente articolo che ho letto sul quotidiano La Sicilia, ha fatto un sunto della vicenda non facendo altro che ripetere le stesse cose che io avevo denunciato nel giugno del 2010. Sembra quasi che all’aspirante sindaco Berretta, che tra l’altro non ho mai incontrato qualcuno abbia suggerito e magari fornito copia della mia denuncia, per poter attaccare l’attuale sindaco. Per quanto riguarda invece l’attuale sindaco, avv. Stancanelli, credo che le sue parole si commentano da sole. Invero il primo cittadino di Catania definisce scandalosa una vicenda che lui stesso ha avallato, lavandosene le mani, come Ponzio Pilato, sostenendo che ormai il contratto è stato firmato. Ricordo all’avv. Stancanelli, qualora lo avesse dimenticato, che il conduttore di un contratto di locazione può sempre recedere dal contratto, qualora lo stesso non sia più idoneo agli scopi prefissi. Ovviamente pagherà una penale ma mi permetto di suggerirgli di fargliela pagare a chi ha materialmente sottoscritto il contratto».

Cosa si aspetta in prospettiva? Crede che ci potranno essere colpi di scena?

«In prospettiva mi attendo che una volta tanto questa città e tutti gli organi preposti vogliano far prevalere la giustizia, perché se questa vicenda dovesse andare in porto col trasferimento del Tribunale del Lavoro sarebbe una sconfitta non solo per me, ma per tutta la città. Io personalmente sono fiducioso perché mi consta che quasi tutti i lavoristi di Catania hanno predisposto una petizione da inviare al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, dove hanno manifestato la loro volontà di non trasferirsi in Via Guardia della Carvana. Inoltre so per certo che anche il Presidente della Corte di Appello di Catania –Sez. Lavoro, non vuole trasferirsi in Via Guardia della Carvana. In ultimo, qualora qualcuno lo avesse dimenticato, ho già dichiarato che sono pronto a far scoppiare anche la Terza Guerra Mondiale, perché non ho nessuna intenzione di farmi prevaricare nei miei legittimi diritti dai potenti di turno. Perché a differenza di altri, io posso camminare a testa alta perché coerente con me stesso e con le mie idee».

MAGISTROPOLI.

Denunce, querele, rinvii a giudizio, scrive Giambattista Scidà il 14 gennaio 2011 su Antimafia duemila. "Anni addietro indirizzai all'on. Forgione, Presidente della Commissione Antimafia, della XV legislatura, da poco entrata in funzione, la lettera aperta che si può leggere nel blog http://scida.wordpress.com, proponendogli, in fine, una pubblica discussione... ...sul tema da me affrontato: alla quale partecipassero l'on. Anna Finocchiaro e don Luigi Ciotti. Forgione non rispose; la Finocchiaro e Ciotti non interloquirono; e i media, sia locali che nazionali, fecero attorno al mio scritto una specie di vuoto pneumatico: uniche eccezioni un sito internet (www.terrelibere.org) e il quotidiano L'Unità. Il magistrato, del quale criticavo la chiamata a consulente della Commissione, mi denunciò e querelò: per calunnia; per diffamazione; e per diffamazione a mezzo stampa, come concorrente con l'autore dell'articolo apparso sul citato quotidiano. La Procura Repubblica di Roma escluse di potermi incriminare per calunnia (era certo il mio convincimento di sussistenza dei fatti affermati), ma mi accusò di diffamazione, perchè i fatti stessi, da me creduti reali, non erano, per essa, tali (non mi è noto, perchè non risulta dal fascicolo, da quale indagine mai avesse ricavato ragione di negarli), e anche mi accusò di diffamazione a mezzo stampa, in concorso col giornalista (che non conoscevo e del cui articolo avevo avuto la prima notizia solo dopo la pubblicazione). Il dibattimento avrà inizio in marzo, ed io sono lieto che il querelante e il quotidiano La Sicilia (12/01/2011 p.8) ne abbiano dato annuncio: è bene, per Catania, per la Giustizia e per me, che delle udienze diano conto le cronache, mettendo i concittadini nella condizione di poterne seguire lo svolgimento: all'opposto di quanto avvenuto, sinora, nel processo a carico di Travaglio, Giustolisi e Flores – querelante altro magistrato della Procura Repubblica etnea; corpo del reato un articolo di MicroMega – che i media locali e nazionali hanno tenuto a fasciare di silenzio (come da me deplorato, sul citato blog, con lo scritto “Il Caso Catania davanti al Tribunale di Roma”). Un bel “grazie!”, dunque, a chi ne ha scritto. La vicenda arricchisce e completa, mentre raggiungo l'ottantunesimo anno d'età, la mia già ricca esperienza: della quale evoco qui due capitoli non ancora remoti. Nel dicembre 2000 (continuavo nel mio servizio di Presidente del Tribunale penale dei Minori) tornai a rivolgermi al CSM – del quale faceva parte, dal '98, un ex Pretore di Catania, ed ex Sostituto Procuratore della Repubblica nella stessa sede; e chiesi di nuovo, come già nel '96, che si volesse far luce sul processo per il grandioso appalto di viale Africa (Centro Fieristico Le Ciminiere) e su certo suo antecedente (l'appalto, a suo tempo aggiudicatosi da quello stesso imprenditore per la costruzione della Pretura di via Crispi). Il processo era stato impostato da quel tale componente del CSM. E tornai a richiamare, come durante il quadriennio '94 – '98, altro processo, a carico di giornalisti, nel quale avevano deposto come testi (Trib. di Roma, VII Sezione; 1992, 9 febbraio) due magistrati entrambi in servizio a Catania: qualcuno dei quali aveva mentito. Uno dei due ero io. La I Commissione del CSM fu dissuasa dal sentirmi, e persuasa ad agire contro di me. Venne impalcata, pur nella palese mancanza di motivi, una procedura di trasferimento d'ufficio per incompatibilità con l'ambiente e con la funzione; la proposta in mio danno fu deliberata il 9 novembre 2000 e subito resa nota con un “lancio” ANSA. Fulminea, la nemesi piombò su quella dismisura. La reazione della coscienza pubblica, a Catania e fuori Catania – in seno alla Commissione Antimafia, tra i giudici minorili italiani riuniti a congresso, e sulle testate giornalistiche – fu tale che gli stessi proponenti corsero a bloccare con un pretesto la marcia di quella loro creatura verso il plenum. L'ispezione ministeriale, che essi chiesero in alternativa, confermò l'impossibilità di contestarmi addebiti fondati. Per la Commissione, l'avventura esitò in un disastro. Ma inutilmente io la sfidai o ad archiviare gli atti o a mandarmi, finalmente, davanti al plenum: essa schivò sia l'umiliazione dell'archiviare, sia la rotta del “giudizio”, pubblico e di certamente incontenibile risonanza, aspettando che io uscissi dal campo per raggiunti limiti d'età (72 anni il 22/01/2002). Il cortese lettore vorrà a questo punto notare: sulla mia vecchia testa, prima che i fulmini delle querele e denunce del magistrato catanese, quelli del CSM. Ma in mezzo, tra fulmini e fulmini, i disegni, a mio riguardo, della malavita. “Presidente Sciatà, la sua vita è in pericolo perchè si è messo contro le persone sbagliate..........”: così una lettera indirizzatami, il 25 agosto 2001, da un detenuto nel carcere catanese di piazza Lanza. Che cosa avevo mai fatto? il 7/12/2000, chiamato dalla Commissione Antimafia (come auspicavano migliaia e migliaia di catanesi), avevo deplorato l'acquisto di un alloggio in villa, in San Giovanni la Punta, fatto da un magistrato della Procura Repubblica di Catania: costruttore e venditore un affiliato al clan Laudani (Rizzo Carmelo), poi fatto uccidere dai capi. Ma il magistrato fece presto a smentirmi, producendo al CSM e in altre sedi l'atto di compravendita: costruttore e venditore tutt'altra persona affatto estranea alla mafia: il cavaliere A. Il CSM (quella stessa Commissione I che aveva voluto perseguire me) intervenne allora, senza sentirmi, a tutela di lui, che di tutela faceva richiesta, e contro di me. Il plenum ne accolse a maggioranza le proposte. Il seguito fu sconvolgente. Il cavaliere A svelò ai CC di non aver costruito nulla e di non avere intascato alcuna parte del prezzo: si era prestato ad una finzione. E consegnò la dichiarazione, a firma del magistrato compratore, da costui rilasciatagli perchè si prestasse a fingere. Di tutto ciò, la causa prima ero stato io, con le mie dichiarazioni all'Antimafia. Quando mi giunse la lettera del detenuto, la situazione del magistrato compratore, già difficile sino ad un momento prima del voto consiliare che lo salvava, si era fatta difficilissima, e gli affiliati al clan dei Laudani avevano buon motivo di volermi punire. Chiesi, ma non potei ottenere, che si desse corso alle indagini del caso. L'uomo, del quale doveva essere disposto l'immediato trasferimento in altro carcere, per lui sicuro, fu lasciato lì, tra quelle mura, in mezzo a quelle temibili e ormai allarmate presenze; e si comportò come ognuno al suo posto avrebbe fatto. Riconobbe, sì, lettera e firma, indicando nel “caso Catania”, l'origine del pericolo segnalatomi, ma eluse la domanda circa le fonti del suo sapere, asserendo di non averne avuto altra che l'animo suo stesso. La lettera fu separata dagli atti delle indagini, provocate dalle rivelazioni del cavaliere A, e venne avviata all'archivio, come già le dichiarazioni mie all'Antimafia, e come in sèguito le stesse indagini. Il catalogo, cortese lettore, è questo: all'assalto di Scidà, negli ultimi dieci anni, il CSM; all'assalto la malavita; all'assalto, dato che ancora egli non si risolve a tacere, denunce e querele. Ma le attenzioni per lui erano cominciate ben prima, all'inizio degli anni '80, e avevano riempito di sè gran parte di quel decennio. Le rivisiterò per chi ha la bontà di leggermi."

La Verità nel nome del popolo italiano, scrive Giorgio Bongiovanni l'11 gennaio 2011 su Antimafia duemila. "Una fotografia di diversi anni fa pubblicata oggi dal Fatto Quotidiano, a margine di un articolo firmato da Giuseppe Giustolisi, ha riacceso i riflettori sul cosiddetto “caso Catania”, una vicenda giudiziaria attraversata da ibride connessioni tra criminalità e frange della magistratura etnea. Nell'immagine riprodotta si distingue l'attuale procuratore aggiunto di Catania, Giuseppe Gennaro, seduto accanto all'imprenditore di San Giovanni La Punta (CT), Carmelo Rizzo, affiliato al potente clan Laudani e ucciso da Cosa Nostra nel 1997. Immediata è scattata la polemica e la relativa levata di scudi da parte del diretto interessato che ha annunciato querela per l'autore dell'articolo. “La foto pubblicata ritrae me presso un'abitazione, diversa dalla mia – ha affermato Gennaro ai microfoni dell'Ansa – in occasione della prima comunione del figlio del mio vicino di casa cui ero stato invitato insieme alla mia famiglia: non so dire chi fossero le persone ritratte insieme a me, invitati dal mio ospite, quindi una potrebbe anche essere il Rizzo di cui parla il giornalista, io continuo ad ignorarlo. Non sapevo allora ed ignoro ancor oggi quali fossero le sembianze del Rizzo che non mi è stato mai presentato da alcuno. Sfido chiunque a dimostrare il contrario con prove certe e non con mere suggestioni”.  “È opportuno ribadire – ha sottolineato poi il procuratore aggiunto di Catania – che l'intera vicenda riguardante l'acquisto della mia casa è stata valutata dal Gip di Messina che ha accolto la richiesta di archiviazione del Procuratore della Repubblica”. Parole sante, ma nella richiesta di archiviazione per concorso esterno in associazione mafiosa nei confronti dello stesso Gennaro, firmata il 18 luglio 2003 dal magistrato messinese Rosa Raffa (attuale procuratore capo di Patti), la procura di Messina afferma: “Che il dottore Gennaro abbia negato di conoscere Rizzo Carmelo, in ciò smentito dalle dichiarazioni di Caruso Carmelo, Gemma Antonino, Villaggio Giuseppe e dall'assegno di c/c dell'importo di £. 9.000.000 emesso nel febbraio 1991 dal magistrato all'ordine di se stesso e poi girato alla 'G.C. F.lli Rizzo s.n.c.', non appare significativo sotto il profilo probatorio. Si tratta infatti di una scelta difensiva del dottore Gennaro tesa a prendere le distanze da un malavitoso”. La gravità di tale menzogna sposta quindi l'intera questione dal piano penale a quello etico e deontologico. Gennaro continua a ribadire di non aver mai conosciuto Rizzo, ma un dispositivo giudiziario lo smentisce inequivocabilmente. Con la pubblicazione della foto che lo riguarda la sua versione perde quel minimo di credibilità accettabile. Per onore del vero la storia di questa fotografia inizia il 4 gennaio scorso a Palazzolo Acreide (SR), città natale del giornalista ucciso dalla mafia nel 1984 Pippo Fava. Quel giorno Pino Finocchiaro, giornalista di RaiNews24, modera un dibattito che precede la consegna del premio giornalistico Pippo Fava-giovani a Gaetano Alessi, fondatore della testata giornalistica Ad Est. Ed è lo stesso Finocchiaro a mostrare per la prima volta al pubblico in sala la foto che ritrae Giuseppe Gennaro insieme a Carmelo Rizzo. Il giornalista di RaiNews24 racconta ai presenti l'episodio dell'acquisto di una villa da parte di Giuseppe Gennaro; l'immobile è di fatto della ditta “Di Stefano Costruzioni”, uno dei soci è la moglie di Carmelo Rizzo che in realtà era colui che gestiva l'impresa. Finocchiaro specifica poi che Gennaro ha sempre negato di avere mai acquistato quella villa direttamente da Rizzo e soprattutto di avere mai incontrato l'imprenditore mafioso. Nell'atto di compravendita non risultano infatti i nomi della “Di Stefano”, né tantomeno di Carmelo Rizzo, ma bensì di un certo signor Arcidiacono che dichiarerà poi a verbale davanti agli investigatori di aver svolto la funzione di prestanome. Martedì 4 gennaio al fianco di Pino Finocchiaro c'è anche Nicolò Marino, attuale sostituto procuratore a Caltanissetta, già pm alla Dda di Catania. Marino non commenta la fotografia, preferisce rammentare la sua denuncia del 2001 alla Commissione Antimafia su quegli ibridi “connubi” del “caso Catania”; una denuncia avvenuta a distanza di qualche settimana da quella dell'ex presidente del tribunale dei minori, Giovanbattista Scidà, che per primo aveva puntato il dito su gravi comportamenti di alcuni magistrati catanesi. La foto incriminata comincia quindi a circolare su Facebook, viene ripresa dal blog di Pino Finocchiaro, dal blog di Riccardo Orioles U Cuntu e dal sito di Liberainformazione, per poi approdare sulle pagine del Fatto Quotidiano. Negli stessi giorni la Corte di Appello di Catania, dopo una precedente assoluzione in I° grado, emette la sentenza di condanna all'ergastolo nei confronti del boss mafioso Alfio Laudani, ritenuto il mandante dell'omicidio di Carmelo Rizzo (assassinato prima che si potesse pentire, ndr). A tutt'oggi pesa l'incognita del successore alla poltrona di procuratore capo di Catania. Nel giro di un mese quella poltrona sarà libera in vista del pensionamento dell'attuale procuratore Vincenzo D'Agata. E non è un dettaglio. Giuseppe Gennaro è fra coloro che ambiscono a questo posto. Per l'attuale procuratore aggiunto di Catania resta da sciogliere il nodo etico-morale (di cui si fa riferimento nella richiesta di archiviazione che lo vedeva indagato per concorso esterno in associazione mafiosa) che, ora più che mai, lo costringe a fare definitivamente chiarezza su un episodio imbarazzante che compromette l'integrità del ruolo che svolge o che potrà svolgere. Per chi come lui va nelle aule di giustizia e parla “in nome del popolo italiano” è indispensabile rendere conto delle proprie azioni “al popolo italiano” verso il quale ha il dovere morale di dire la verità. Altrimenti non resta che dimettersi dalla magistratura per non infangare la memoria di Falcone, Borsellino e di tutti gli altri magistrati uccisi nel nome del principio sacrosanto della giustizia."

Atto Camera. Interrogazione a risposta scritta 4-05864 presentata da ANGELA NAPOLI giovedì 27 marzo 2003 nella seduta n.288

ANGELA NAPOLI. - Al Ministro della giustizia. - Per sapere - premesso che:

fin dal 27 marzo 2000, con atto ispettivo n. 4-29179 l'interrogante ha denunziato la triplice reciprocità d'indagine tra le procure di Messina, Reggio Calabria e Catania con chiari e vicendevoli condizionamenti;

infatti, il tribunale di Messina è sede di inchiesta su alcuni magistrati catanesi; il tribunale di Reggio Calabria è sede di inchiesta su alcuni magistrati messinesi e catanesi; il tribunale di Catania è sede di inchiesta su alcuni magistrati messinesi e reggini;

all'interrogante appariva, ad esempio, già allora inquietante la circostanza che uno degli inquirenti catanesi, titolare delle indagini sui colleghi messinesi e reggini, fosse egli stesso indagato a Messina;

durante i lavori svolti dalla Commissione nazionale antimafia nella XIII Legislatura era già emerso il "caso Catania", con il coinvolgimento di magistrati della procura della Repubblica di Catania per i quali era stata aperta una fase di indagine da parte della procura della Repubblica di Messina;

la fine della XIII Legislatura ha impedito alla precedente Commissione nazionale antimafia di fare piena luce sulle dichiarazioni rese alla stessa da Giambattista Scidà, ex Presidente del tribunale dei minori di Catania e dal dottor Nicolò Marino relative ad ipotetiche collusioni tra alcuni magistrati catanesi con uomini politici ed uomini della criminalità organizzata;

il Presidente Scidà aveva, infatti, denunziato che "la procura di Catania avrebbe assunto una posizione di vero dominio, incamerando notizie di reato senza approfondirle" ed in particolare ha sottolineato il fatto che il processo sull'ospedale "Garibaldi", "sarebbe stato bloccato per mesi dal dottor Carlo Busacca, Procuratore capo presso il tribunale di Catania, allo scopo di non sottoporre ad indagini Ignazio Sciortino, cognato del sostituto procuratore Carlo Caponcello";

il dottor Nicolò Marino divenne, invece, vittima del "caso Catania", in quanto, da titolare dell'inchiesta sull'ospedale "Garibaldi", ha attenzionato la relativa Commissione anomalie incaricata di valutare le offerte per la gara, che avrebbe escluso irregolarmente la ditta Costanzo per aggiudicare l'appalto alla cooperativa rossa di Giulio Romagnoli;

della Commissione faceva parte anche Sciortino e mentre gli altri componenti furono arrestati, questo fu invece lasciato libero;

peraltro nel comune di San Giovanni La Punta Giuseppe Gennaro, procuratore aggiunto di Catania ha comprato una villa che, secondo un'informativa della polizia, gli sarebbe stata ceduta da un costruttore legato al clan Laudani;

così oggi a Messina sono in corso indagini sul Capo della procura di Catania Mario Busacca, sul procuratore aggiunto Giuseppe Gennaro e sul PM Carlo Caponcello, e contemporaneamente a Catania si celebrano processi a carico dell'ex sostituto procuratore della DNA, Giovanni Lembo e dell'ex Capo del GIP Marcello Mondello (vedi notizie stampa giugno-luglio 2002);

della procedura penale del conflitto insorto in seno agli uffici giudiziari catanesi è stata quindi interessata la procura della Repubblica di Messina che ha elevato imputazioni nei confronti del dottor Busacca, per le quali è stata successivamente richiesta l'archiviazione;

proseguono, invece, le indagini che riguardano il dottor Giuseppe Gennaro;

le reciprocità delle due procure di Catania e Messina sono state evidenziate anche dal fallimento "Ceruso C. e F. srl" in cui è stato coinvolto l'imprenditore Angelo Scammacca di Catania che aveva denunziato il magistrato della città Francesco D'Alessandro;

nell'esposto dello Scammacca è stato denunciato che il fallimento sarebbe stato trattato in modo illecito per favorire alcuni personaggi collusi con la mafia;

il giudice D'Alessandro, all'interno dello stesso fallimento, ha svolto le funzioni di giudice delegato, giudice istruttore e consigliere estensore della sentenza in appello;

il giudice D'Alessandro presiede il processo Lembo-Sparacio;

un procedimento nei confronti del giudice D'Alessandro, dopo essere transitato dalle procure di Messina e Reggio Calabria confluirà, per competenza, a Catania;

l'assemblea della camera penale di Catania ha chiesto, inoltre, un'ispezione alla procura della Repubblica in merito alla gestione del collaboratore di giustizia Angelo Mascali, il quale durante la sua collaborazione avrebbe continuato a controllare il racket delle estorsioni e dell'usura con alcuni familiari legati alla cosca Santapaola -:

se non intenda dover avviare urgentemente adeguate visite ispettive presso le procure di Catania, Messina e Reggio Calabria, così come già richiesto dall'interrogante con l'atto ispettivo n. 4-29179;

se non ritenga, altresì, di dover fornire all'interrogante ed alla Commissione nazionale antimafia le risultanze di precedenti visite ispettive effettuate presso le tre procure in questione;

se non ritenga, ancora, di voler salvaguardare l'autonomia e l'immagine della magistratura richiedendo gli opportuni interventi nei confronti di coloro che si rendono responsabili di tali situazioni a discapito della vera giustizia.(4-05864)

Atto Camera. Interrogazione a risposta scritta 4-05317 presentata da VINCENZO FRAGALA' martedì 4 febbraio 2003 nella seduta n.258.

FRAGALÀ. - Al Ministro della giustizia. - Per sapere - premesso che:

dall'inchiesta svolta dalla Commissione Parlamentare Antimafia nel corso della XIII legislatura sul cosiddetto "caso Catania" sono emerse ipotesi gravissime di rapporti tra magistrati della Procura della Repubblica di Catania, esponenti politici ed associazioni mafiose che hanno dato luogo all'apertura di fascicoli d'indagine a carico di detti magistrati presso la competente Procura della Repubblica di Messina;

in particolare, come riportato da notizie di stampa (La Gazzetta del Sud del 18 giugno 2002, pagina 33, Il Giornale del 19 giugno 2002, pagina 7 e Il Giornale del 15 luglio 2002, pagina 8), risultano essere sottoposti ad indagine, tra gli altri, il Procuratore capo, dottor Mario Busacca (per il reato di abuso d'ufficio) ed il suo aggiunto, per altro coordinatore della direzione distrettuale antimafia, dottor Giuseppe Gennaro (da fonti giornalistiche anche per il reato di cui all'articolo 416-bis del codice penale);

mentre proseguono le indagini che riguardano il dottor Gennaro, pare siano state concluse quelle relative al dottor Busacca (Controvento, mensile in attesa di registrazione, pubblicato a Catania nel dicembre 2002, pagina 3) con una richiesta di archiviazione del procedimento n. 4748/02 N.R. nella quale, in modo circostanziato, si afferma che il dottor Busacca in effetti ha posto in essere tutti gli elementi costitutivi del reato per il quale è stato indagato ad esclusione solo del perseguimento di un vantaggio patrimoniale;

essendo la condotta contestata al dottor Busacca, attinente alle pressioni dallo stesso esercitate per impedire l'iscrizione nel registro degli indagati di un congiunto di altro magistrato del suo stesso ufficio per reato connesso a reati di mafia, finisce per essere evidente che si è avuta una gravissima interferenza nell'ordinaria gestione dell'ufficio, così come è avvenuto per altri comportamenti tenuti dallo stesso magistrato per altri processi (in particolare, esternazioni ed interviste rilasciate in delicatissime fasi di indagine per il procedimento contro Scuto Sebastiano e la mafia di S. Giovanni La Punta) pure esplicitamente presi in considerazione nella richiesta di archiviazione;

pur richiedendo l'archiviazione per i fatti suddetti, i magistrati della procura della Repubblica di Messina hanno ritenuto che tali comportamenti, penalmente siano rilevanti sotto il profilo disciplinare e, per tale motivo, hanno trasmesso copia degli atti ai titolari dell'azione disciplinare e cioè al Ministro della giustizia e al Procuratore Generale presso la Suprema Corte di Cassazione ed al CSM, che ne sono quindi legittimamente a conoscenza;

risulta all'interrogante che il Ministro avrebbe intenzione di avviare un'ispezione del Ministero della giustizia presso gli uffici giudiziari catanesi e, pur potendo i fatti dar luogo a specifica inchiesta, tuttavia dovrebbero essere riscontrati dagli ispettori per le gravi, documentate e riconosciute (anche in sede giudiziaria) interferenze sull'ordinaria gestione dell'ufficio della procura della Repubblica di Catania, peraltro oggetto di numerosi e circostanziati esposti e relazioni versate agli atti della Commissione Parlamentare Antimafia, del CSM e della Procura Generale di Catania -:

quali siano le iniziative urgenti che il Ministro della giustizia, a fronte di tali gravissimi e documentati fatti, intenda adottare;

se e quali iniziative intenda assumere per salvaguardare l'onorabilità, l'indipendenza e l'autonomia della magistratura, e specificamente di quella catanese, non coinvolta e di quella di Messina che ha il diritto/dovere di operare nel rispetto che le è dovuto;

se agli ispettori in opera a Catania sia stata fornita la documentazione già in possesso del ministero della giustizia, per verificare se, come affermano i magistrati di Messina, ci siano effettivamente state pressioni ed interferenze attinenti alla corretta gestione della procura della Repubblica di Catania da parte dei vertici dell'ufficio;

se, in ogni caso, non ritenga opportuno disporre l'apertura di specifica inchiesta amministrativa.(4-05317)

Atto Camera. Interrogazione a risposta scritta 4-05257 presentata da NICHI VENDOLA giovedì 30 gennaio 2003 nella seduta n.256.

VENDOLA. - Al Ministro della giustizia. - Per sapere - premesso che:

da notizie di stampa si apprende che:

il 23 gennaio 2001 il dottor Nicolò Marino, sostituto procuratore presso la Direzione Distrettuale Antimafia del tribunale di Catania, rendeva alla Commissione parlamentare antimafia dichiarazioni con le quali denunciava comportamenti anomali da parte del procuratore distrettuale dello stesso ufficio di procura, dottor Mario Busacca;

in particolare, il dottor Marino denunciava la condotta abusiva del dottor Busacca relativamente ad una indagine di una certa delicatezza: e cioè un reiterato intervento favoritistico nei confronti di tale ingegner Ignazio Sciortino, cognato di altro sostituto della stessa procura (dottor Carlo Caponcello), denunciato per gravi reati in materia di appalti;

il dottor Busacca tentava ripetutamente di scongiurare persino l'iscrizione, da parte del dottor Marino, dell'ingegner Sciortino nel registro degli indagati: non vale la pena di sottolineare quanto quella iscrizione fosse, a norma di legge, un atto obbligatorio;

in data 15 marzo 2001 il procuratore Mario Busacca rilasciava un'intervista al quotidiano La Sicilia sulle vicende catanesi nella quale sminuiva la consistenza degli indizi a carico dell'imprenditore Sebastiano Scuto, coimputato dell'ingegner Sciortino; l'intervista precedeva di pochi giorni la fissazione dell'udienza presso il tribunale del riesame di Catania relativa alla richiesta di revoca della misura cautelare emessa dal gip nei confronti dei due suddetti coimputati;

la procura distrettuale della Repubblica presso il tribunale di Messina, interessata ex articolo 11 del codice di procedura penale del conflitto insorto in seno agli uffici giudiziari catanesi, elevava imputazione nei confronti del dottor Busacca per il reato di abuso d'ufficio in relazione alle resistenze dapprima opposte nei confronti del dottor Marino per non fare iscrivere l'ingegner Sciortino nel registro degli indagati (atto dovuto per legge), e, successivamente, perché non ne fosse richiesta la cattura nell'ambito del procedimento penale relativo all'appalto per i lavori del secondo lotto dell'ospedale Garibaldi di Catania, provvedimento eseguito solo per gli altri coimputati;

con provvedimento dell'11 luglio 2002 l'ufficio di procura di Messina richiedeva l'archiviazione della posizione del dottor Busacca;

scrivono i magistrati che "appare evidente la sussistenza di atti idonei ed univocamente posti in essere in violazione di legge", ma nei fatti addebitati a Busacca mancherebbe, tuttavia, il vantaggio di naturale patrimoniale dell'ingegner Sciortino, cioè l'elemento oggettivo del reato;

è evidente quindi, che le condotte del dottor Busacca sono sicuramente meritevoli di valutazione sotto il profilo penale e disciplinare;

alla luce del provvedimento adottato dal pubblico ministero di Messina sull'operato del dottor Busacca emerge chiara, ad avviso dell'interrogante, la violazione dell'articolo 18 del regio decreto-legge 31 maggio 1946 n. 511 (ordinamento giudiziario) per avere il dottor Busacca mancato ai suoi doveri, rendendosi perciò immeritevole di fiducia e considerazione e compromettendo il pregio dell'ordine giudiziario e ciò per aver impedito al dottor Nicolò Marino l'iscrizione dell'ingegner Sciortino nel registro degli indagati per interessi non di giustizia -:

quali iniziative disciplinari intenda adottare nei confronti del dottor Mario Busacca, procuratore capo presso il tribunale di Catania. (4-05257)

Ed a proposito di insabbiamenti.

QUANDO I BUONI TRADISCONO. LA VICENDA DI VALENTINA SALAMONE.

Ad uccidere Valentina Salamone, una bella ragazza di 19 anni con un volto da bambina e una tormentata storia d’amore con un uomo più grande di lei di undici anni, sarebbe stato proprio il suo amante, Nicola Mancuso, sposato e padre di tre figli. Avrebbe inscenato un finto suicidio, facendo trovare la ragazza impiccata alla trave di una villetta alla periferia di Adrano dove si era recata con alcuni amici per il week end, per liberarsi di Valentina che stava mettendo a repentaglio il suo menage coniugale. Un cold case dai risvolti sconcertanti, risolto dopo due anni e mezzo, scrive “La Stampa”. Il delitto, che risale al 24 luglio del 2010, è stato scoperto grazie alla determinazione dei genitori della ragazza, che non hanno mai voluto credere alla tesi del suicidio, e ai nuovi spunti d’indagine offerti anche dalla trasmissione televisiva Quarto grado. Così il caso archiviato frettolosamente è stato riaperto e ha portato oggi a una svolta clamorosa: l’arresto di Nicola Mancuso, 30 anni, disoccupato, accusato di omicidio in concorso con ignoti. Secondo i carabinieri, infatti, l’uomo non avrebbe potuto fare tutto da solo. Gli investigatori stanno cercando adesso di identificare i suoi complici, mentre non sembrano nutrire dubbi sul movente del delitto. Mancuso avrebbe deciso di sbarazzarsi di Valentina, la cui presenza era ormai diventata troppo «ingombrante» a causa delle continue richieste di lasciare la moglie e delle frequenti scenate di gelosia. L’ultima lite sarebbe avvenuta durante una festa, alla presenza di alcuni amici, proprio nella villetta dove è stato poi trovato il corpo senza vita della ragazza. Inizialmente gli inquirenti pensarono a un suicidio legato allo stato di profonda prostrazione della ragazza, che si era allontanata da casa dopo la decisione dell’amante di troncare quel rapporto così travagliato. Una ricostruzione contestata dai genitori di Valentina, che continuarono a sollecitare la riapertura delle indagini poi avocate dalla Procura generale di Catania. E dai nuovi accertamenti, affidati ai carabinieri del Ris, sono emersi alcuni particolari che hanno finito con l’indirizzare i sospetti verso Mancuso. Innanzi tutto il fatto che la ragazza non avrebbe potuto fare da sola alcuni nodi sulla corda trovata stretta attorno al collo e dalla quale avrebbe anzi cercato di liberarsi con tutte le sue forze. Ma la prova che inchioderebbe il presunto assassino alle sue responsabilità sono alcune macchie di sangue trovate sotto le scarpe della vittima. L’esame del Dna ha infatti accertato che quelle tracce ematiche appartengono a Valentina ma anche a Nicola, che evidentemente si trovava sul luogo dell’omicidio al momento della morte della sua giovane amante. Tutte circostanze che suscitano l’indignazione del legale della famiglia Salamone, l’avvocato Dario Pastore: «È evidente che ci sono state delle lacune clamorose, evidentissime all’inizio delle indagini. Chiederemo agli organi competenti di accertare le responsabilità e, in tal caso, di punire e perseguire i responsabili di queste condotte». Mentre i genitori di Valentina, Antonino Salamone e Dina Ventura, pur dicendosi «sollevati» perché finalmente è emersa la verità chiedono giustizia: «queste persone non meritano di vivere», dicono riferendosi ai carnefici della figlia.

Arriva una svolta nelle indagini sulla morte di Valentina Salamone, la diciannovenne trovata impiccata il 24 luglio del 2010 in una villetta alla periferia di Adrano, in provincia di Catania. Con l'accusa di omicidio è stato arrestato dai carabinieri del comando provinciale etneo Nicola Mancuso, 30 anni. Secondo gli inquirenti l'uomo, all'epoca del delitto, aveva una relazione con la vittima. L'accusa, per lui, è di omicidio pluriaggravato in concorso con ignoti, scrive “Il Corriere della Sera”. Valentina, originaria di Biancavilla (Catania) venne trovata impiccata ad una trave delle tettoia di una villetta nella quale si era recata con alcuni amici per trascorrere il week end. I genitori della ragazza vennero avvisati della sua morte circa dieci ore dopo la scoperta del corpo e trovarono Valentina avvolta in un sacco della spazzatura, dentro una bara bianca. La tesi del suicidio, alla quale la Procura approdò dopo la prima indagine, e che spinse i pm a chiedere l'archiviazione del caso, è stata da sempre contestata dai familiari della giovane, che in questi anni, con l'aiuto del proprio legale, si sono battuti strenuamente per arrivare a scoprire la verità. «L'arresto di Mancuso è un primo passo», ha commentato oggi l'avvocato Dario Pastore, legale della famiglia Salomone. «Sicuramente c'è molto rammarico», ha aggiunto, «perché a questo risultato si sarebbe potuti arrivare ben prima, in maniera molto più celere, se soltanto le indagini fossero state effettuate in maniera puntuale, precisa e scrupolosa, cosa che purtroppo non è avvenuta». Il padre della ragazza, Antonino Salamone, aveva sempre sostenuto che la figlia non aveva ragioni per un gesto estremo: «Valentina non me la potrà più restituire alcuna giustizia terrena: ma venire a capo della verità sarà quantomeno un atto d'amore nei confronti di mia figlia. Valentina non avrebbe mai potuto compiere quel gesto». In un'intervista disse anche che di averla trovata «in una bara bianca come un pacchetto postale pronta per essere portata via. A casa noi ci siamo accorti che aveva un dito del piede rotto, un'unghia spezzata ematomi alle braccia». Dopo la richiesta di archiviazione inoltrata dal pm al gip, e l'opposizione dei familiari della giovane, l'inchiesta era stata avocata dall'Avvocatura generale dello Stato e dalla Procura generale. Alla fine dello scorso anno il gip Francesca Cercone aveva disposto nuove indagini, in seguito alla richiesta inoltrata ad ottobre dalla Procura generale, che aveva così motivato: «Alla luce delle nuove acquisizioni può affermarsi che Valentina Salamone fu uccisa e chi pose in essere tale delitto ebbe a simulare con notevole abilità il suicidio». L'inchiesta avrebbe dimostrato che i testimoni furono reticenti se non addirittura che avevano dichiarato il falso e che Nicola Mancuso, l'uomo arrestato oggi per l'omicidio, era sposato e aveva una relazione con la vittima. Proprio da questo tormentato rapporto sarebbe scaturito il delitto.

Un assassinio camuffato da suicidio, scrive Anthony Distefano su “Live Sicilia”. Una storia atroce: l'uccisione di una ragazza di appena 19 anni in una villetta alla periferia di Adrano nella notte tra il 24 ed il 25 luglio. “Valentina non me la potrà più restituire alcuna giustizia terrena: ma venire a capo della verità sarà quantomeno un atto d’amore nei confronti di mia figlia”. Parlava così appena qualche mese fa, Antonino Salamone, il papà di Valentina la 19enne biancavillese rinvenuta morta il 24 luglio di tre anni fa in una villetta alla periferia di Adrano: penzolante e con una corda fitta al collo che la strangolò a morte. Quella casa avrebbe ospitato la sera precedente una festa tra amici. Ed il papà e la famiglia di Valentina, oggi, ben più di un barlume di verità l’hanno ottenuto. Il giorno stesso della scoperta della tragedia il caso della bella e solare Valentina venne liquidato e spietatamente derubricato in tutta fretta alla voce "suicidio". Una tesi alla quale il papà di Valentina non ha mai voluto credere. E non soltanto per un inevitabile istinto paterno. "Era assolutamente impossibile che mia figlia si fosse suicidata – ha raccontato a più riprese papà Antonino –: ogni genitore conosce i propri figli e Valentina non avrebbe mai potuto compiere quel gesto. Ma, poi, c’erano dei fatti evidenti che portavano ad escluderlo categoricamente”. Circostanze che hanno convinto gli stessi magistrati prima ad affermare che “Valentina Salamone fu uccisa e chi pose in tale in essere tale delitto ebbe a simulare con notevole abilità il suicidio". Infine, oggi, ad incastrare il presunto colpevole. Immediatamente dopo, non venne disposto alcun sequestro della casa per una eventuale ispezione ed in meno di ventiquattr’ore il caso era già stato chiuso e praticamente archiviato. Ma il supplemento d’indagine ed il successivo sopralluogo alla villetta eseguito dai carabinieri del nucleo investigativo di Catania e del Ris di Messina, hanno di fatto smontato l’approssimativa ipotesi di suicidio. Oggi, la svolta. Oggi, la verità. O, perlomeno, una parte di una verità ancora da completare.

Omicidio Salamone, rivelazione shock: "Valentina è stata uccisa dal suo amante", scrive Antonio Condorelli e Laura Distefano su “Live Sicilia”. E' stato il dna a incastrare Nicola Mancuso, accusato dell'omicidio di Valentina Salamone. Per gli inquirenti l'avrebbe uccisa perchè la sua relazione extraconiugale con la giovane stava mettendo in pericolo il suo matrimonio. Coinvolto nel delitto un'altra persona ancora da identificare.  Non era un suicidio: Valentina Salamone è stata assassinata, e forse da chi le aveva conquistato il cuore. Il corpo della bella 19enne fu ritrovato il pomeriggio del 24 luglio 2010 da alcuni operai dell'Enel in un cortile nelle campagne di Adrano. Suicidio per impiccagione fu la drammatica e, a questo punto, frettolosa ricostruzione. Le indagini sono state riaperte e oggi sono arrivati a un passo dalla giustizia chiesta, anzi urlata, dalla famiglia di Valentina. Oggi il suo presunto assassino ha un nome e un volto. Nicola Mancuso, 30 anni, è stato arrestato questa mattina dai carabinieri del Comando provinciale eseguendo un ordine di custodia cautelare in carcere emessa dal Gip etneo, su richiesta della procura generale. Nel corso di una conferenza stampa l'avvocato generale dello Stato Salvatore Scalia ha focalizzato ogni dettaglio di questa indagine che ha portato a mettere le manette all'uomo che gli inquirenti ritengono aver avuto una relazione con la giovanissima biancavillese. Le indagini svolte dai Carabinieri e dai Ris di Messina, sotto il coordinamento della procura generale, hanno portato a sollevare interrogativi importanti sul caso. Il primo elemento è stato il nodo utilizzato: non era adatto, secondo gli investigatori, a procurare il soffocamento. Le tracce rinvenute sul corpo di Valentina sono lesioni che erano state causate dopo il decesso. E poi la posizione delle mani della 19enne, strette alla corda: segno della voglia di liberarsi e di sfuggire alla morte. Erano state quelle dita attorcigliate in quello strumento di morte a far capire ad Antonino Salomone che sua figlia aveva compiuto l'ultimo gesto per aggrapparsi alla vita. La perizia medico legale ha demolito l'ipotesi del suicidio. Secondo la ricostruzione degli inquirenti Valentina sarebbe stata afferrata, strattonata e costretta a mettersi il cappio al collo: una persona girava la corda in gola mentre un altra (o più) la sollevava per le gambe. Poi l'ultimo respiro e la giovane viene lasciata lì così: impiccata. La simulazione di un perfetto suicidio. Le analisi dei Ris forniscono l'ultima risposta utile a far capire agli investigatori e ai magistrati che Valentina non si è tolta la vita. Dai sopralluoghi nella scena del crimine si è accertato che in quel cortile c'erano più persone e non solo la giovane Salamone. Dai test di laboratorio sono stati isolati due dna prelevati dalle suole delle scarpe della vittima: una era riconducibile alla 19enne e l'altro a una persona di sesso maschile. La sera del delitto Valentina Salamone avrebbe fatto una bella lavata di capo a Nicola Mancuso, uomo sposato con cui la giovane aveva da qualche tempo una relazione amorosa. Una scenata di gelosia davanti ad altre persone che avrebbe fatto infuriare il 30enne che, infatti, a fine serata avrebbe fatto intendere agli amici che il rapporto con la giovane stava mettendo a serio repentaglio il suo matrimonio. A inchiodare Mancuso anche i controlli del traffico telefonico. Il cellulare dell'arrestato sarebbe stato, secondo quanto accertato, sempre vicino alla villetta anche negli orari in cui l'uomo ha raccontato di essere in un posto diverso. La prova del Dna. Una volta acquisiti tutti gli elementi probatori, su disposizione della Procura generale, è stato prelevato un campione di Dna di Mancuso che è risultato compatibile con quello estratto dalle tracce ematiche presenti sulla scarpa di Valentina. Sangue, dunque, che avrebbe permesso di ricostruire la dinamica del delitto in tutti i suoi drammatici particolari. Una lite violenta tra Mancuso e la giovane Salamone, tanto violenta da ferire la 19enne innamorata. Il raptus di ira avrebbe scatenato la mano omicida che aiutata da un'altra persona, ancora da identificare, avrebbe prima ucciso Valentina e dopo inscenato il suicidio. Perchè ammazzarla? La sua amante sarebbe diventata un problema, un ostacolo al suo rapporto coniugale. Mancuso avrebbe tentato di mettere fine alla sua relazione ma Valentina non si sarebbe rassegnata anche perchè illusa dalle false promesse del 30enne che aveva espresso più volte l'intenzione di lasciare la moglie e vivere liberamemente la loro storia. Nicola Mancuso da questa mattina è dietro le sbarre, in una delle celle del carcere di Piazza Lanza, in attesa di essere interrogato dai magistrati. Sarebbe stato l'amore dunque, se fossero confermate le accuse degli inquirenti, a portare Valentina alla morte. Un cuore innamorato che ha smesso di battere a 19 anni.

Le reazioni.

Il dramma e il dolore dei familiari. "Non ho parole, ma potete immaginare quello che provo, provo pena e pietà per queste persone. Queste persone non devono nemmeno vivere". Sono le frasi pronunciate con gli occhi lucidi e la voce rotta dall'emozione da Antonino Salomone, padre di Valentina . I familiari della giovane uccisa hanno incontrato i giornalisti nello studio del loro legale, Dario Pastore. Ai cronisti che gli hanno chiesto se si aspettava una svolta nelle indagini come quella di oggi Antonino Salomone ha risposto: "Ce l'aspettavamo perché ultimamente, nelle seconde indagini, abbiamo avuto fiducia nel nostro avvocato. Nelle prime indagini non avevo per niente fiducia". "L'idea di chi possa essere il complice - ha aggiunto - non ce l'abbiamo però non ha agito da solo, non poteva agire da solo dato quello che è successo". Antonino Salomone aveva accanto la moglie, Dina Ventura, gli altri due figli, Rosanna e Nicola e l'investigatore privato che li ha aiutati nel caso, Salvo Licciardello. "Questi due anni per noi - ha detto la madre di Valentina - non sono stati belli. Non abbiamo vissuto e non vivremo più: come dire sopravviviamo. Sono stati due anni tremendi. Per me è finita quel giorno. Gli amici di Valentina, questi amici, sono spariti, non li ho più visti".

L'avvocato della famiglia. "E' evidente che ci sono delle lacune clamorose, evidentissime. Chiederemo agli organi competenti di accertare le responsabilità e, in tal caso, di punire e perseguire i responsabili di queste condotte". Lo ha detto parlando con i giornalisti l'avvocato Dario Pastore, legale di Antonino e Dina Salomone, commentando la svolta che oggi ha portato all'arresto del presunto assassino della figlia Valentina. "La scena del delitto che si è presentata di fronte agli investigatori che per primi sono intervenuti sulla scena del crimine - ha osservato il legale - era quella di un corpo appeso a una trave, le mani avvinghiate attorno al collo, i piedi che poggiavano perfettamente per terra con i talloni appena sollevati, un corpo pieno di ecchimosi, una pozza di sangue alla base di un piede a causa di un'alluce fratturato. Tutto si può dedurre da questa scena tranne che si tratti di suicidio". "Il 4 agosto del 2010 il pm titolare delle indagini - ha continuato - ha emesso un decreto di intercettazione ambientale in via d'urgenza per omicidio. I carabinieri della compagnia di Paternò hanno ritenuto non doverlo eseguire perché vi era una concomitante altra attività di indagine". "Vogliamo sapere - ha concluso il legale - qual è questa attività di indagine tanto urgente, perché il pm non ha delegato questo compito ad altra forza dell'ordine e perché dopo il 4 agosto del 2010 il pm non ha delegato alcuna attività di indagine. Vogliamo sapere inoltre perché, nonostante i tabulati telefonici fossero stati depositati il pm non si sia accorto che non erano stati acquisiti quelli di Valentina, che non erano stati acquisiti per il periodo di riferimento quelli di Mancuso e che non erano stati neppure richiesti quelli della persona che successivamente si è accertato aver toccato la ragazza dopo la morte".

Il sindaco di Biancavilla, Giuseppe Glorioso: “Gli sviluppi nell’indagine sulla morte di Valentina Salamone lasciano ben sperare che il contesto nel quale è maturato un fatto così tragico per la comunità biancavillese, si stia chiarendo e venga a galla la verità e le responsabilità. Rivolgo un attestato di stima agli inquirenti e a quanti hanno creduto di poter giungere alla esatta ricostruzione dei fatti e sono vicino alla famiglia di Valentina che ha lottato, senza mai arrendersi, per cercare quella verità e quella giustizia che tutta la nostra comunità auspica.”

Omicidio Salamone, il grido della famiglia: "Togliete la divisa a chi ha iniziato le indagini", scrive Antonio Condorelli su “Live Sicilia”. Lunga intervista ad Antonino e Nicola Salamone, rispettivamente padre e fratello di Valentina, la ragazza biancavillese uccisa ad Adrano nel 2010: “Abbiamo passato due anni d'inferno col sospetto che era un omicidio, adesso devono arrestare tutti i colpevoli e togliere le divise agli investigatori che hanno iniziato le indagini”. Il fratello: “I nostri sono piccoli paesi, quando succedono queste cose si prova anche vergogna, nessuno parla, nessuno sente, nessuno vede. Non ci sono lacrime che possono bastare per Valentina Salamone, dopo che ieri è stato confermato che non si trattava di un suicidio, ma di un inquietante omicidio, con un movente presumibilmente passionale. Il padre Antonino ha deciso di passare all'attacco. Non che in questi anni si sia fermato un attimo, con al fianco la moglie e i figli, Antonino Salamone è stanco, ma pensa alle prossime mosse e si toglie, finalmente, qualche sassolino dalle scarpe: “Abbiamo passato -dice a LivesiciliaCatania - due anni d'inferno col sospetto che era un omicidio. Noi lo abbiamo ripetuto in continuazione, ma nessuno ci credeva: grazie a Dio avevamo ragione”. Nella mente del padre della giovane biancavillese è rimasto scolpito quel giorno del ritrovamento, direttamente dentro una bara, della figlia. Il colpevole, secondo la magistratura, sarebbe Nicola Mancuso, suo ex amante all'interno di una relazione clandestina. Sposato, padre di famiglia, Mancuso aveva una doppia vita. “Questo ragazzo non l'abbiamo mai conosciuto - spiega il padre di Valentina - vorrei guardarlo negli occhi”. Dal momento dell'omicidio di Valentina la famiglia è rimasta isolata: “Gli amici - continua Antonino Salamone - si sono comportati da nemici, sono scomparsi tutti, stesso discorso per i rispettivi genitori, scomparsi anche loro, nessuno è venuto a trovarci, evidentemente non erano veri amici”. Non è facile rompere il muro di gomma che esiste all'interno dell'hinterland etneo. “I nostri - spiega Nicola Salamone - sono piccoli paesi, quando succedono queste cose si prova anche vergogna, nessuno parla, nessuno sente, nessuno vede”. Terra bruciata intorno ai Salamone e abbandono, anche e soprattutto da parte delle istituzioni. La Procura di Catania aveva chiesto l'archiviazione pensando che si trattasse di un suicidio. Ipotesi smentita categoricamente quando la Procura Generale ha avocato l'indagine, cioè l'ha tolta alla Procura e ha iniziato a lavorare. La frecciata di Antonino è diretta agli investigatori che inizialmente si sono occupati del caso: “Se hanno sbagliato in buona fede – tuona - qualcuno deve togliere loro la divisa; se hanno sbagliato in mala fede devono essere arrestati tutti”. Dal buio delle investigazioni che sostenevano che Valentina si era suicidata con i piedi che toccavano per terra e il collo poggiato ad una corda non stretta, la famiglia Salamone è uscita grazie all'inchiesta della trasmissione Quarto Grado, condotta dal catanese Salvo Sottile: “A loro va il mio ringraziamento e anche all'avvocato Pastore”. L'attenzione adesso dovrebbe essere puntata sui ragazzi che la notte dell'omicidio erano presenti in quella villa, del resto anche la Procura Generale ha parlato di possibili complicità nell'esecuzione del delitto. “Noi crediamo - aggiunge il fratello di Valentina - che molte persone sanno, mi auguro che decidano presto di parlare”. Il padre non ha pace: “Ci hanno tolto la cosa più bella che avevamo, devono pagare tutti, tutti, nessuno deve scappare. La battaglia comincia adesso non ci fermeremo fino a quando non avranno arrestato tutti i complici”.

FISCO E SPRECHI, OSSIA MALAMMINISTRAZIONE

La Provincia a 40 anni di distanza rischia il crac per una truffa del 1972, così scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera”. A dare la mazzata finale non sarà la legge che dovrebbe ridurre il numero delle Province. Anche perché è difficile dire se e quando accadrà. Piuttosto, la Provincia di Catania rischia di essere stroncata da un fantasma che arriva dal passato con un conto astronomico da pagare, in grado di far saltare il banco: 23 milioni 258.682 euro e 39 centesimi. I fatti, per la serie «quando la realtà supera la fantasia», risalgono al 1972. Il 16 ottobre di quell’anno, una settimana esatta dopo che dalle catene di montaggio della Fiat era uscita l’ultima Cinquecento, l’allora assessore «all’economato e al patrimonio» firmava un accordo con una società finanziaria chiamata Istituto finanziario italiano. L’intesa era questa: l’Ifi avrebbe concesso piccoli prestiti ai dipendenti della Provincia, da rimborsare con le trattenute sulle buste paga che l’amministrazione provinciale avrebbe dovuto rimborsare alla finanziaria. Una tipica cessione del quinto dello stipendio, per capirci. Ma nessuno poteva immaginare che cosa sarebbe accaduto. Perché nemmeno due anni dopo, nel maggio del 1974, saltò fuori che dei 1.318 prestiti concessi dall’Ifi, soltanto 187 erano regolari. Gli altri 1.131 riguardavano persone inesistenti o anche dipendenti dell’ente in carne e ossa, ma che non avevano mai presentato la domanda. Della clamorosa truffa vennero riconosciuti responsabili due dipendenti della Provincia, uno che lavorava all’ufficio economato e l’altro addetto alla corrispondenza. Come avessero fatto da soli a congegnare e portare a termine tale diabolica macchinazione, appare ancora oggi incredibile. Anche perché i moduli di richiesta dei prestiti dovevano essere sottoscritti dall’assessore, al quale spettava il compito di certificare l’esattezza delle dichiarazioni. Ma tant’è. Alla fine i due vennero condannati per truffa aggravata. In un paio d’anni si era volatilizzata una somma per l’epoca astronomica: un miliardo 828 milioni 50 mila lire. Proprio la cifra che nel 1984, ben dieci anni dopo la scoperta del raggiro, l’Ifi chiese come risarcimento. Sette anni più tardi, nel 1991, arrivò la prima sentenza: il tribunale di Catania condannava i due dipendenti a pagare, in solido con la Provincia. Di fatto, la decisione dei giudici colpiva in pieno l’ente, considerato responsabile contrattualmente. Inevitabile l’appello, che si concluse ben cinque anni dopo, nel 1996, con ribaltamento della sentenza di primo grado. La Provincia era salva. Ma in Cassazione, nel 2000, un’altra sorpresa: la suprema corte accolse il ricorso del curatore dell’Ifi, nel frattempo fallito, rinviando tutto a un nuovo giudizio d’appello. Dal quale, a distanza di ben otto anni, la Provincia uscì condannata. Inutile l’ennesimo ricorso in Cassazione, sfociato nell’estate del 2011 nella conferma di quella sentenza. Trascorsi quarant’anni, con le rivalutazioni e gli interessi legali la somma iniziale si è moltiplicata per 25 volte. E ora siamo alla resa dei conti. Tutti i tentativi di conciliazione sono falliti. Anche la proposta avanzata dalla Provincia, nel tentativo di contenere le proporzioni del disastro pagando 12 milioni e mezzo, è caduta nel vuoto. I curatori fallimentari dell’Ifi vogliono tutto. Così a marzo hanno pignorato i conti dell’ente. E il 2 ottobre la sezione distaccata di Mascalucia del tribunale di Catania, a 28 (ventotto!) anni dall’inizio della causa, ha reso esecutiva la sentenza. Non serve nemmeno che la Provincia paghi materialmente, visto che il giudice dell’esecuzione, Giorgio Marino, ha autorizzato la sua banca tesoriera «a prelevare » la somma «da quanto dovuto al debitore escutato». Traduzione: i soldi possono essere trattenuti direttamente dal conto dove vengono depositati i trasferimenti provinciali. Non si è commosso, il tribunale, nemmeno di fronte al grido di dolore del presidente della Provincia Giuseppe Castiglione, esponente del Pdl. Opponendosi al pignoramento, il suo avvocato aveva fatto presente che quei 23 milioni e rotti di euro avrebbero reso impossibile il rispetto del patto di stabilità, con le conseguenze terribili del caso. E Marino, niente. Anzi: nella decisione del 2 ottobre gli ha risposto che il patto di stabilità «opera con riferimento al contenimento delle spese, ma non può certo operare quale limite per pagamenti discendenti da provvedimenti giurisdizionali, per di più passati in giudicato e per di più in danno di legittime pretese creditorie ». Amen.

CONCORSO TRUCCATO ALL’AGENZIA DELLE ENTRATE.

Di cosa si meravigliano. Succede perennemente in tutta Italia: al concorso per diventare magistrato, notaio, avvocato. Nell’assoluta omertà, però. Di questo concorso, invece, ne parla la stampa nazionale, "Il Corriere della Sera" e "La Repubblica". Forse perchè siamo a Catania e passa la parvenza che sia la solita furbata meridionale. Infatti il concorso è nazionale e la credibilità è minata nel sistema generale di cooptazione dei funzionari pubblici. Credibilità minata anche dalle cronache che ci parlano di corruzione dei funzionari delle Agenzie delle Entrate in tutta Italia, sì, ma anche dei giudici Tributari.

La mattinata dell’8 giugno 2012 è iniziata presto, in fila dalle 9.30 per un posto da funzionario nella pubblica amministrazione. Dopo le registrazioni e la classica attesa da concorso pubblico, gli oltre 1500 candidati si sono tutti seduti per ricevere dalla commissione i questionari. Ma qualcuno a quanto pare, prima ancora della distribuzione del materiale, aveva già le domande e le risposte a portata di cellulare. Ed è scattato il caos a Catania, nel centro fieristico «Le Ciminiere», sede del concorso per 25 funzionari all'Agenzia delle Entrate (855 posti a livello nazionale, 25 nella Regione Sicilia). «Erano più o meno le 13 - racconta al telefono uno dei candidati - ed eravamo in ritardissimo rispetto alla tabella di marcia. Eppure aspettavamo con ansia di ricevere i questionari. Eravamo tutti seduti quando a un tratto abbiamo visto una calca e un gruppo di ragazzi che urlavano: da quello che abbiamo potuto capire, accusavano un ragazzo di avere già tutte le domande del quiz. Forse perchè in altre città d'Italia dove si teneva lo stesso concorso, le prove erano finite già da un pezzo ed erano state messe pure online». Fatto sta che a un certo punto arrivano le forze dell'ordine, carabinieri, polizia e i gli oltre mille candidati vengono bloccati nel centro fieristico. Dopo ore di attesa, arriva poco prima delle 16.30 l'annuncio dalla voce di un altoparlante: «Il concorso è stato sospeso». Tra gli applausi, i ragazzi, sfiniti, lasciano il centro fieristico. Da stabilire quando e dove dovranno ripresentarsi.

Diversa la versione dell'Agenzia delle entrate: «Si è trattato di un gruppo di facinorosi - fanno sapere - che non ha consentito il proseguimento della prova: in nessuna delle altre 10 sedi c'è stato alcun problema, compresa quella di Palermo dove tutto si è svolto regolarmente. A Catania questi candidati asserivano che le domande erano già su Internet, ma è assolutamente impossibile visto che gli unici che avevano accesso ai quiz erano i membri della Commissione centrale di Roma e le prove a quell'ora, anche nelle altre città, non si erano ancora concluse. Queste persone invece hanno bloccato senza alcuna giustificazione il concorso di Catania e non hanno consentito a nessuno di farlo».

Alle 16 il presidente della vigilanza Alfio Angelo Caruso ha annunciato che il concorso è stato sospeso. Le procedure di identificazione sono iniziate regolarmente alle 10 come nel resto d'Italia, ma l'esame, un questionario con 80 domande da completare in 50 minuti, non si è mai svolto. Nel frattempo, però, il concorso veniva espletato regolarmente nelle altre città. "È uno scandalo, intorno alle 13 sono cominciate a circolare le risposte provenienti da Palermo", denuncia Valentina, una delle partecipanti. Erano circa 3 mila i candidati che si sono presentati nella sede di Catania per provare ad aggiudicarsi uno dei 250 posti da funzionario amministrativo tributario banditi a livello nazionale dall'agenzia delle entrate. Due le sedi di esame per la Sicilia: oltre a Catania, Palermo dove tutto si è svolto regolarmente. Tuttavia non si sa ancora se il concorso sarà invalidato in tutta l'Isola, a cui sono destinati 25 posti, o solo per la parte relativa a Catania, dove hanno svolto l'esame i concorrenti con cognome dalla lettera A alla G. "Credo che a Palermo non dovrà essere ripetuto - anticipa il presidente Caruso - ma non sta a me dirlo, la comunicazione ufficiale arriverà dall'Agenzia delle entrate". Il caos al complesso fieristico Le Ciminiere è iniziato intorno alle 13. "Ci dicevano continuamente di rimanere seduti - denuncia Valentina - ma quando si è sparsa la voce che qualcuno aveva già le risposte è successo il finimondo". La commissione si è giustificata parlando di problemi nella fase di identificazione dei partecipanti. In particolare, secondo alcuni concorrenti, ci sarebbero state difficoltà con l'assegnazione dei codici a barre. "Alle 14,30 - racconta Ilaria - quando ancora non era stata ufficializzata la sospensione dell'esame hanno aperto le porte e sono entrati amici e parenti. Per ore ci hanno comunicato che il concorso sarebbe iniziato a breve, ma ormai non ci credeva più nessuno". La commissione si è riunita nel bar al primo piano dell'edificio e solo alle 16, quando è arrivata la conferma da Roma, uno speaker dall'altoparlante ha dato l'ufficialità della sospensione, senza specificarne i motivi. Sul posto è intervenuta la Digos ed erano presenti anche carabinieri e guardia di finanza.

Il segretario provinciale della Cgil Funzione Pubblica, Armando Garufi, difende l'operato degli addetti alla vigilanza: "Probabilmente - denuncia - c'è stato qualche intoppo nella macchina organizzativa, ma la direzione centrale ha sbagliato la scelta delle sede. È impossibile controllare tutti i partecipanti in una struttura così grande". "In riferimento alla bagarre occorsa durante la prova per il concorso all'Agenzia delle Entrate, a Catania, l'associazione dei consumatori conferma la necessità di annullare il concorso e prevedere la sua ripetizione".

Un concorso dove i candidati sono seduti da ore, nonostante i test non siano mai iniziati. Accade anche questo a Catania dove circa duemila persone arrabbiate hanno inscenato una rivolta alla sede delle Ciminiere perchè avrebbero dovuto svolgere un concorso nazionale dell'Agenzia delle Entrate con posti di funzionario amministrativo contabile, ma mentre in tutte le altre parti d'Italia tutto è già terminato, qui la selezione deve ancora cominciare. Gli studenti hanno quindi lasciato le penne sul tavolo e hanno inveito contro la commissione che non riesce a risolvere il problema. «Anche qui - spiega uno dei candidati, Gianpiero D'Arrigo - eravamo seduti per espletare il concorso dalle 9, 30 del mattino, ma in altre città entro le 14 hanno concluso, qui ancora niente. La motivazione ufficiale è che ci sarebbero stati problemi con l'anagrafica, ma da quanto siamo riusciti a sapere c'erano due pacchi contenenti le domande che dovevano essere chiusi ed invece erano aperti. Abbiamo chiesto più volte spiegazioni, ma i membri della commissione non ci hanno dato delle risposte convincenti, dicendoci solo di aspettare. Ora addirittura asseriscono che o facciamo il concorso e aspettiamo che si inizi o andiamo via e abbiamo perso anche questa possibilità. Qualcun altro ci dice che dobbiamo restare qui finché non inizia, anche se si dovesse fare mezzanotte. Ma come hanno fatto notare altri candidati già su internet ci sono domande e risposte da ore, come pensano sia regolare ora il concorso?». Intanto, agenti della Digos sono andati sul posto per risolvere la situazione.

Il concorso è stato infine sospeso. Il presidente della commissione ha invitato i candidati a guardare il sito internet per sapere quando potrà tenersi nuovamente. Dopo 8 ore di attesa vana, tutti sono tornati a casa.

«Il caos di oggi alle Ciminiere di Catania, che ha portato alla sospensione del concorso per 250 posti alle Agenzie delle entrate, deve essere letto in tutta la sua drammatica realtà - spiegano in una nota Mariella Maggio segretario generale Cgil Sicilia ed Angelo Villari, segretario generale Cgil Catania - L'ansia che accompagna ogni prova concorsuale, soprattutto nell'ambito del sistema pubblico, è frutto di una sfiducia nelle possibilità di una democrazia in grado di assicurare lavoro dignitoso per tutti. Il timore di prove truccate dimostra una grande e preoccupante sfiducia nelle istituzioni. La Cgil è preoccupata per questo clima duro e al limite della pericolosa tensione sociale. Bisogna che le istituzioni intervengano subito e che si rendano consapevoli di quanto stia accadendo a Catania come nel resto d'Italia.» 

DAL CONCORSO TRUCCATO AL RAPPORTO TEMPESTOSO TRA CITTADINI E FISCO

Il 7 giugno 2012 alle ore 10.30 si è tenuta la Conferenza Provinciale Permanente presso la Prefettura di Taranto. E’ stato invitato il Presidente della Provincia ed i sindaci delle maggiori città, tra cui Taranto. Sono state invitate le massime autorità cittadine, (polizia, carabinieri e Guardia di Finanza). Sono stati invitati i rappresentanti delle associazioni di categoria economica e sociale e di difesa del consumatore. E’ stato invitato il dr Antonio Giangrande, quale presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, iscritta presso alla Prefettura all’elenco antiracket ed antiusura. Il Prefetto ha aperto ed inoltrato i lavori con una sua relazione sui problemi della Comunità: crisi economica, instabilità e disagio sociale, rischio di usura. Il dr. Antonio Giangrande riguardo agli aspetti trattati ha comunicato ai presenti che, data la sua esperienza nazionale, con Tele Web Italia, la sua web tv nazionale, che ospita tutte le web tv locali, dà visibilità gratuita al territorio ed alle aziende che ivi producono per superare la crisi di mercato; considerando che le vittime del racket e dell’usura non hanno bisogno di visibilità, ha reso noto che ha predisposto uno sportello telematico affinchè le vittime, senza ausilio di intermediari, possano accedere agli strumenti di autotutela più adeguati previa informazione senza filtri sui benefici di legge, questo perché gli sportelli antiracket aperti a Lecce, Taranto e Brindisi sono solo strumenti di propaganda politica e di speculazione economica per attingere ai progetti POR; ha invitato ad una collaborazione reale la Camera di Commercio e le associazioni di categoria attraverso l’accesso ai Cofidi o gli Interfidi per superare l’ostacolo della mancata fruizione di finanziamenti dalle banche, per evitare il fallimento delle aziende o l’accesso al mondo usuraio dei cittadini. Il Prefetto ha replicato che l’intervento non era in tema. Meno male che Giangrande, esperto anche di economia, non ha fatto cenno all’usura bancaria ed all’usura di Stato con i tassi ed emolumenti riconosciuti ad Equitalia; non ha fatto cenno alle cartelle pazze, non ha fatto cenno alle esecuzioni giudiziarie con mancato diritto di reciprocità: cioè le esecuzioni di Equitalia sono reali, quelle contro Equitalia sono bloccate. Certo non per colpa di Equitalia, ma dei parlamentari che approvano norme che dovrebbero rappresentare i cittadini e non i poteri forti.

Dalle prime battute, però, è stato chiaro che la conferenza era solo incentrata, secondo l’intento di stabilire la pace sociale e garantire allo Stato ed agli statali i sovvenzionamenti, sul gettare acqua sul fuoco riguardo i rapporti burrascosi tra il sistema sociale ed economico con Equitalia, che, purtroppo sfocia in vessazioni e disservizi da una parte e suicidi dall’altra. L’esordio del Prefetto è stato: niente polemiche, se no tolgo la parola; per cui il susseguirsi degli interventi è stato sulla falsariga intimata. Gioco facile per i rappresentanti di Equitalia replicare alle inconsistenti contestazioni dicendo che si impegneranno ad aprire centri di ascolto ed ad ampliare e dilazionare le riscossioni. Troppo poco per le aspettative di alcune associazioni presenti, che magari avrebbero voluto parlare delle sofferenze dei loro iscritti. Bene per i soliti personaggi genuflessi che fanno del lisciare il pelo al potere la loro missione quotidiana, anziché tutelare i loro associati. Molto bene per Equitalia che si è sentita a casa sua, ospite tutelato, al di là dei suoi meriti. La conferenza è stata chiusa dal Prefetto, istituzione a difesa di altra istituzione Equitalia con capitale Inps ed Agenzia delle Entrate, con un invito a vittime e carnefici di morandiana memoria: stiamo uniti e niente polemica. Subisci e taci, direbbe qualcuno.

CATANIA, 850 MILIONI DI EURO SPRECATI.

Report accusa Scapagnini: "Dilapidati i fondi post terremoto". Megaparcheggi mai ultimati, strade anti-tsunami ferme, scuole che crollano. Che fine hanno fatto gli 850 milioni di euro, disposti nel 2002 dal governo Berlusconi per mettere in sicurezza la città di Catania dai rischi sismici e risolvere l'emergenza traffico? Si chiede Concetto Vecchio su "La Repubblica". Una montagna di soldi che piovvero sul sindaco Umberto Scapagnini - medico del premier, la cui amministrazione ha portato il Comune a un passo dalla bancarotta - senza che dovesse passare dal consiglio comunale. Scapagnini fu nominato commissario dell'Ufficio speciale e il tesoretto poté essere speso "per cassa e non per competenza": in altre parole, senza alcuna rendicontazione. Sette anni dopo il bilancio è desolante. Gli 850 milioni sono stati spesi per costruire cinque megaparcheggi scambiatori: tutti abbandonati. Il più grande, il parking Fontanarossa, attaccato all'aeroporto, appaltato al consorzio Uniter, è costato 13 milioni, dopo i 5 milioni 700 mila euro sborsati per espropriare il terreno: è fermo da anni. Temendo lo tsunami - lo tsunami! - fu realizzata in alternativa al lungomare un'ipotetica via di fuga, ma la strada, il viale De Gasperi, finisce sfortunatamente in un vicolo cieco. Le scale antincendio nelle scuole penzolano nel vuoto, le crepe nei muri mascherate da una passata di intonaco, com'è avvenuto alla scuola Brancati, sul punto di crollare. E le caserme, gli ospedali, i palazzi strategici della città più sismica d'Europa? Perché non sono stati messi a norma? Il destino incerto di questi 850 milioni - ma secondo una relazione del capo della Protezione civile Guido Bertolaso si tratterebbe di una cifra compresa tra 1,5 e 2 miliardi di euro: fondi avanzati dalla legge 433/1990 - è stato denunciato da "Report" domenica 15 marzo 2009, la trasmissione di Milena Gabanelli su Rai3, con un'inchiesta di Sigfrido Ranucci, "I Viceré". Quando piove il Villaggio Goretti sembra il Canal Grande e gli abitanti lo circumnavigano in gondola con amaro fatalismo: "Semu consumati". Siamo rovinati. Si poteva sistemare con i fondi Fas, ma i 140 milioni concessi ad ottobre dal Cipe sono stati utilizzati per salvare il municipio dalla bancarotta. Un salvataggio che fa ancora piangere di rabbia i sindaci virtuosi. Catania è una buona metafora del Mezzogiorno d'Italia. Benché sul lastrico, impazzita di traffico - i pochi vigili stanno al cellulare mentre tutt'intorno gli scooter transitano impuniti senza casco - sommersa da cumuli d'immondizia e con i cani randagi che percorrono indisturbati il centro storico, come denuncia un fotoservizio dell'onorevole Enzo Bianco, da sempre vota per Berlusconi. "Report" rivela che la società dedita alla riscossione dei tributi dell'acqua, la Sidra, vanta crediti con il Comune per 22 milioni di euro poiché le varie giunte si sono rifiutate per anni di riscuotere la tassa nei quartieri popolari, serbatoi di voti del centrodestra. La Sidra spende migliaia di euro per singolari sponsorizzazioni: il concorso di Miss Muretto, le feste dei zampognari di Lentini, castagne e ciondoli. "Ma lo volete capire che l'83 per cento della città non sta con voi" urla il sindaco Raffaele Stancanelli (An), durante un incontro con l'associazione Cittàinsieme, punta avanzata della società civile. Stancanelli ha appena stanziato 553 mila euro per contribuire alla festa di Sant'Agata. Un miliardo di vecchie lire sono un mucchio di quattrini in un municipio che aveva accumulato debiti per quasi un miliardo di euro, le cui aziende partecipate lamentano passivi pari a 120 milioni di euro. La mafia governa molti gangli vitali della città. Il 12 marzo è cominciato il processo al clan Santapaola, che sino al 2005 avrebbe controllato la rutilante festa di Sant'Agata per accrescere così il proprio prestigio. Nel circolo Sant'Agat la tessera numero uno era di Nino Santapaola, la numero due di un altro mafioso, Enzo Mangion. "Che significa? Sempre un cittadino catanese è?", commentano i devoti. I Santapaola e i Mangion sorreggono le reliquie, dirigono la processione dal cereo, come dimostrano le foto allegate agli atti del dibattimento. Nel 2004 la candelora venne fatta fermare nei pressi dell'abitazione di Giuseppe Mangion, detto "U zu Pippu", scarcerato tre mesi prima dal carcere di Pisa. Esplosero fuochi d'artificio, spararono botti. Una città dove le regole del gioco sono truccate, denuncia la Gabanelli. Ogni tanto nel filmato fa capolino Scapagnini, affabile, suadente. "Berlusconi vivrà più di cent'anni in buone condizioni". Il premier, rivela una farmacista del centro, si rifornisce da loro. Lei prepara con le sue mani un farmaco miracoloso. A che serve, le chiede Ranucci con la telecamera nascosta: "Ha anche un'azione tipo endorfine che rasserena e poi potenzia anche il coso muscolare...".

CATANIA: COMUNE AL DISSESTO, MA I DIRIGENTI RICEVONO PREMIO DI UN MILIONE.

Ancora guai per il comune di Catania, vicino al dissesto finanziario. La Procura della Repubblica di Catania ha aperto un'inchiesta conoscitiva sulla concessione di premi di produzione, di circa 18 mila euro ciascuno, ai dirigenti del comune del capoluogo etneo, per un ammontare  complessivo di poco meno di un milione di euro. Militari della guardia di finanza, su disposizione del procuratore capo Vincenzo D'Agata e del sostituto Barbara Laudani, hanno acquisito copia dei provvedimenti. La disposizione del pagamento era stata contestata anche dal sindaco, Raffaele Stancanelli, che l'ha ritenuta «forse legittima ma certamente inopportuna visto che il Comune rischia il dissesto finanziario».

L'elefantino simbolo di Catania è salvo: una mano pietosa ha rimosso l'asta su eBay («Causa dissesto finanziario vendesi statua raffigurante un elefante conosciuta come U Liotru») indetta da un feroce burlone. Resta da salvare Catania, scrive Gian Antonio Stella su "Il Corriere della Sera". Il che, al momento, appare più complicato. Basti dire che i cittadini risultano avere un debito municipale di 3.379 euro a testa. Pari quasi a quello dei tarantini, il cui Comune è sprofondato nell'abisso umiliante del dissesto finanziario. Abisso che i catanesi vedono ormai prossimo. Di giorno, s'intende. Di notte, infatti, non vedono più niente: stufa di aspettare il pagamento delle bollette, l'Enel ha tagliato la luce a larga parte dei lampioni cittadini. Anche e soprattutto nei quartieri a rischio. Al punto che La Sicilia, qualche settimana fa, è arrivata a esultare amara per il ritorno dell'illuminazione il giorno della festa della patrona: «Sant'Agata “riaccende” Catania / Ma subito dopo è tornato il buio». «Chi di munnizza ferisce di munnizza perisce», sospirava venerdì sera qualche passante in piazza Duomo, davanti ai cassonetti di spazzatura rovesciati in mezzo al salotto buono della città dai dipendenti di una delle cooperative di netturbini senza stipendio da un mese. E questo è il tema al quale si aggrappano i cittadini etnei: possibile che Silvio Berlusconi, dopo aver fatto un figurone rimuovendo la spazzatura nelle strade di Napoli, si esponga davvero al rischio che proprio Catania, cioè la città dove nella primavera 2005 la destra riuscì ad arroccarsi e a resistere dopo una serie di vittorie della sinistra che sembrava inarrestabile, sia sommersa dai rifiuti e travolta dalle proteste di piazza? Possibile che non riesca a fare un miracolo per salvare dalla catastrofe il municipio governato dall'aprile del 2000 e fino a tre mesi fa proprio dal suo medico di fiducia, Umberto Scapagnini? «E che c'entro io? — è sbottato ieri con Il giornale di Sicilia l'ex sindaco, famoso anche per le sue fortune galanti, presentandosi alla riunione convocata dal suo successore con tutti i parlamentari cittadini —. La situazione era già grave prima e noi siamo stati martirizzati dal governo di centrosinistra che ci faceva arrivare in ritardo i finanziamenti. Colpa loro e della Sovrintendenza, che ha impedito che vendessimo degli immobili che ci avrebbero permesso di tenere i conti in ordine ». Dunque? «Dunque sono d'accordo: facciamo una commissione d'inchiesta e vediamo ». Un rapporto della Corte dei Conti, datato a giugno nei giorni delle dimissioni di quello che la sinistra ha ribattezzato per l'effervescenza «Sciampagnini », offre una versione diversa. E denuncia «gravi irregolarità », «carente attendibilità delle scritture contabili », «indeterminatezza delle risorse », «insufficienza delle risorse destinate al bilancio 2003»... E così via. Fino a precisare che la Sovrintendenza, a proposito di quegli immobili che il Municipio voleva vendere per tappare un po' di buchi (resta indimenticabile il dirottamento alle casse catanesi di soldi tolti dai fondi dell'8 per mille per pagare tra l'altro i ballerini brasiliani che avevano danzato sotto l'Etna per la gioia di Surama De Castro, la bella carioca che allietava il primo cittadino) aveva verificato la loro «appartenenza al patrimonio indisponibile». Di più, bacchettavano i magistrati contabili: la situazione già a giugno appariva «fortemente compromessa » per la «mancata tempestiva soluzione dei gravi problemi manifestatisi ben prima del 2003». Quando al governo, per capirci, non c'era la sinistra ma la destra. In una recentissima lettera a Berlusconi, Raffaele Stancanelli, il sindaco che proviene da An, chiede aiuto per «la difficilissima e gravissima situazione in cui versa il Comune di Catania per l'enorme situazione debitoria che ho ereditato e che ammonta a euro 357.000.000 a cui va aggiunto l'indebitamento complessivo delle società partecipate pari, al 31/12/2007, a euro 100.511.475; ed in queste somme non è compreso il debito residuo». Il quale, come si legge in una relazione della Ragioneria Generale alla Corte dei Conti, firmata mercoledì dallo stesso sindaco, aggrava il buco di altri 549.709.272 euro. Totale: oltre un miliardo e sette milioni di euro. Pari, appunto, a quei 3.379 euro di «rosso» pro capite di cui dicevamo. Quasi seicento (dati Standard & Poor's) più di ogni milanese, quasi mille più di ogni romano. «Dalle fredde cifre che ho elencato si evince una situazione che pesa come un macigno sulla città», scrive Stancanelli. E si sfoga: «Un'Amministrazione che non riesca a soddisfare i tanti fornitori che vantano crediti per oltre 170 milioni di euro (con inevitabili ricadute sulla stessa vivibilità, con mezza città al buio, strade dissestate, servizi sociali allo sbando, notevoli ritardi nei pagamenti degli stipendi, scuole sfrattate per morosità, etc. etc.) non può aspirare ad alcun futuro». Gli esempi del progressivo degrado, sotto l'occhio di Francesco Bruno che fa insieme il ragioniere generale del Comune e della Provincia fino a ieri governata dal potente Raffaele Lombardo, non si contano. Vigili urbani che per motivi elettorali sono stati via via promossi in massa col risultato che oggi su 540 poliziotti municipali solo 5 sono vigili semplici e 535 ispettori i quali, sia pur carichi di onori, devono uscire in strada il meno possibile perché spesso mancano i soldi per la benzina. Organici gonfiati a dismisura tanto che oggi, dopo la sistemazione di altri duecento Lsu per l'80% stipendiati dalla Regione e presi in carico nonostante mancasse la copertura finanziaria, c'è un dipendente comunale ogni 72 catanesi. Stipendi distribuiti facendo i salti mortali o non distribuiti affatto, come quelli dei tre revisori dei conti ai quali il Municipio (così imparano a volere mettere il naso...) non solo ha tolto l'ufficio ma ha smesso di pagare il dovuto. Due milioni di premi di produzione (il responsabile del personale è stato sospeso solo ieri) distribuiti ai funzionari per i «brillanti» risultati. Consulenze strampalate come quella da 24 mila euro data («consulente per lo sviluppo industriale ») a una sventola ventenne nota per essere stata Miss Eritrea. Per non dire delle municipalizzate. Lo scrive, nel suo sfogo a Berlusconi, lo stesso sindaco: «Con quale autorevolezza si potrà intervenire drasticamente sulle società partecipate, vera piaga non solo del bilancio, sol che si consideri come l'energia, fattore di ricchezza e di guadagno in tutto il mondo, sia diventata a Catania causa di dissesto economico e di diffuso clientelismo?» L'ultimo bilancio consuntivo dell'Amt, l'azienda municipale dei trasporti, si riassume in poche cifre: tre milioni di viaggiatori (il 10%) persi in un anno, una vendita di biglietti che non arriva a coprire neppure un quinto dei costi (oltre un terzo, a Milano), un buco salito nei soli ultimi cinque anni a quasi 83 milioni di euro. Vale a dire 83 mila euro per ogni dipendente. Insomma: un disastro tale che perfino Enzo Bianco, cioè l'uomo che aveva sfidato la destra alle comunali del 2005 e che dell'amministrazione di «Sciampagnini» pensa il peggio del peggio, si è spinto a scrivere a Tremonti pregandolo, al di là delle responsabilità del dissesto che devono essere accertate, di «adoperarsi, in quanto titolare del dicastero azionista di riferimento della Cassa Depositi e Prestiti, affinché questa possa dare una riposta positiva alla richiesta di dilazione dei mutui». Quanto sia profondo il precipizio spalancato davanti, del resto, lo ammette lo stesso sindaco Stancanelli (confortato da Berlusconi con parole rassicuranti) che nella missiva alla Corte dei Conti di mercoledì, dopo essersi lamentato di come il ministero dell'Economia abbia liquidato la sua richiesta di un via libera sul piano di risanamento dicendo di «non essere l'autorità deputata ad esprimere pareri» e dopo aver criticato la durezza dell'Istat che quel piano gli ha bocciato, paventa che Catania precipiti entro settembre «in uno stato di dissesto ineludibile ». Una crisi, scusate la battuta, al buio.

CATANIA È TUTTA UN BUCO.

Municipio in bancarotta, senza più soldi per la luce. Cantieri incompiuti ovunque. Opere inaugurate e abbandonate. Vita di una città con l'acqua alla gola. Uno squarcio lungo 508 metri e largo 176, nel cuore della città. Terriccio sbancato cinquant'anni fa, palizzate cadenti, arbusti rinsecchiti, e in mezzo al buco le ultime tre baracche di rom rimaste dopo lo sgombero. Ora pare davvero che ci metteranno mano, alla ricostruzione di Corso Martiri della libertà. Ma 'il cratere', come lo chiamano, è così da quando, 35 anni fa, il ricorso di un ingegnere bloccò a metà l'orrenda cementificazione con cui Istica, allora società di emanazione vaticana, aveva spianato e rifatto l'intero corso Sicilia. Desolante immagine di una città vitale ma inconcludente. Bellissima nel suo barocco settecentesco ma all'abbandono. Fiera della sua movida notturna e delle famiglie a spasso fino alle ore piccole a ingollare granite di mandorla, orgogliosamente indicate persino dalla ragazza del trenino per turisti; ma incapace di portare a termine alcunché. Lavori fermi, vite sospese, inaugurazioni fasulle, soldi al vento, questa è Catania. E casse vuote: il neosindaco Raffaele Stancanelli, di An ma legatissimo al presidente della Regione Raffaele Lombardo "fin dai tempi in cui eravamo compagni di banco ai Salesiani", si ritrova sulle spalle il mostruoso buco finanziario, specchio di quello fisico di corso Martiri, accumulato nei sei anni di gestione dell'ex-sindaco Umberto Scapagnini, il medico di Berlusconi ora senatore di Forza Italia. La fotografia che Stancanelli fa della sua città è impietosa: "Abbiamo debiti per novecento milioni di euro, mezza Catania è al buio perché dobbiamo 16 milioni alla società che gestisce l'erogazione, i fornitori aspettano 140 milioni, le cooperative che assistono anziani e malati non pagano gli stipendi da mesi. E i debiti fuori bilancio neanche sappiamo a quanto ammontano. Nel disastro c'è di buono che non mi si può ricattare: i soldi sono finiti, non ce n'è per nessuno!". Spera di salvarsi trattando con la Cassa depositi e prestiti l'allungamento della restituzione del debito, tagliando 18 milioni di rate all'anno: ci sarebbero due istituti di crediti pronti a rifinanziare, Hsh e Banca di Scozia. Sempre che Tremonti non gli faccia lo sgambetto. Sennò il Comune dovrà dichiarare il dissesto, i fornitori saranno pagati al 30 per cento, duecento aziende falliranno, le addizionali locali saliranno alle stelle. E Catania sprofonderà peggio che sotto l'eruzione del 1669. Da senatore non s'è dimesso, Stancanelli: "Ma se appena insediato mi hanno iscritto nel registro degli indagati per occupazione abusiva di suolo demaniale!". Vero. Alla prima uscita pubblica aveva inaugurato il solarium, grande piattaforma in legno sul lungomare, fatta perché i catanesi si godessero i bagni, senza ingolfarsi in un traffico infernale per arrivare fino a Plaja. Per una settimana ci si sono stipate duemila persone al giorno, incuranti, come l'amministrazione che li ha messi, dei due cartelli a lato che recitano uno 'divieto di balneazione' e l'altro 'attenzione, non ci sono bagnini'. Poi è arrivata la Guardia costiera che ha chiuso e sequestrato il solarium fuorilegge: e adesso se appena t'azzardi a oltrepassare il nastro che lo circonda ti blocca uno dei 540 vigili in forza al Comune: per la cronaca, 5 semplici e 535 ispettori. Così si campa, in una città con l'acqua alla gola. È il regno dell'una tantum. Nel senso che, come il solarium, le cose si usano una volta e via. È penoso ficcare il naso nel teatro di viale Moncada al quartiere Librino: struttura modernissima, la inaugurarono dieci anni fa, ci fecero una rappresentazione il primo Natale, poi fine dei giochi e delle recite. Ora lì dentro, in quelli che erano i camerini ormai senza infissi, ci smantellano i motorini rubati, e un puzzo ti prende alla gola perché ci bruciano i fili elettrici per liberarli dalla plastica e vendersi il rame. Ma il muraglione di palazzi del Librino è così, quasi una incontrollabile deformazione umana dell'algido piano architettonico disegnato da Kenzo Tange nei primi anni settanta: come Secondigliano a Napoli, come lo Zen a Palermo. "Lo vede? Venti milioni di euro sono costati quel palasport e quella villa coi campi di calcio. Crede che mio figlio ci abbia mai potuto mettere piede?", indica Armando Battaglia, lavoratore sull'autostrada e sindacalista. All'altro lato della strada, sul marciapiede del famigerato Palazzo di cemento, stazionano spacciatori in passamontagna, e sono le 11 di mattina. Ma quando con un minimo di circospezione chiedi ai ragazzi del posto qualche dritta per aggiornare lo schemino delle cosche, i Santapaola e i Laudani, i sottoclan, le spartizioni, le guerre e le tregue, il ventiquattrenne Totò ti guarda col sopracciglio all'insù e ti dice: "Scusa, ma perché dovrei mettermi a spacciare quando posso aiutare un politico e poi candidarmi alle prossime elezioni per la circoscrizione, che se mi va dritta arrivo in Comune, e se mi va storta un posto comunque quelli prima o poi me lo danno?" Ecco la politica, l'amministrazione, a Catania. Del tutto assente quanto ai servizi che dà a cittadini abituati a farne a meno. Onnipresente e pervasiva come rete di sottolavori, mance, piccoli scambi preelettorali, luccichìo di ipotetiche chance personali, imbuto obbligato di aspirazioni e speranze. Tutto dipende da quello che il politico ti lascia o non ti lascia fare: come le centinaia di bancarelle abusive che ogni martedì circondano la caserma dei vigili e la sede della municipalità del Librino, dove Scapagnini lo acclamavano perché non mandava mai un controllo e non lasciava aprire neanche un piccolo supermercato. C'è un'altra Catania? Forse. Ma debole, incerta, comunque dipendente e penalizzata dalla politica: come la libreria caffetteria Tertulia di fianco al Teatro Massimo, punto d'incontro di fotografi, giovani artisti, ragazzi che suonano, cineasti di belle speranze tutti presi a organizzare una rassegna di cortometraggi per settembre, e buone forchette: "Fino a due anni fa avevamo una serata jazz ogni mercoledì", raccontano il libraio Ciccio Distefano e il giovane ristoratore Giovanni Pistritto: "poi il Comune ha smesso di fare teatro e concerti in piazza, e s'è spento anche il resto. Ora c'è un po' di ripresa. Vedremo". Oppure sta, l'altra Catania, sulla carta. Nei grandi progetti, legati anch'essi a doppio filo alla politica, da questa dipendenti e insieme pesantemente in grado di orientarla e manovrarla. Il clou è il cratere di corso Martiri descritto all'inizio. Dove stanno per edificare 400 mila metri cubi, 5 a metro quadro: non pochi, ma meglio dei 18 dei palazzacci di corso Sicilia. Di verde a Catania c'è solo il lussureggiante giardino settecentesco di Villa Bellini, in ristrutturazione da tre anni: perché nel cratere non ci fanno invece Central park? "Creda, non c'è catanese che non abbia fantasticato su cosa farci: foresta urbana di sequoie, bambinopoli, ripristino delle case chiuse che qui imperavano quand'ero ragazzino e mio padre non mi ci faceva neanche avvicinare. Ma altre sono le logiche di rinascita di una città": Aldo Palmeri, sessant'anni e una storia da amministratore delegato Benetton, privatizzatore della Centrale del latte di Roma con Rutelli sindaco, liquidatore della Gepi che trasformò in Itainvest, consulente con una sua 'boutique finanziaria', è da febbraio amministratore delegato di Istica e Cecos, del costruttore romano Alessandro Parnasi che rilevò l'area quando la società vaticana fallì. "Il nostro", rivendica, "è un intervento di alto profilo, mica una volgare lottizzazione! Rilancerà l'intero quartiere circostante di San Berillo, darà lavoro a sei-ottomila addetti fino al 2014, doterà la città di strutture come il nuovo mercato coperto, la Questura (ma il ministero degli Interni ne pagherà l'affitto, ndr.), 37 mila metri quadri di verde pubblico e altrettanti di parcheggio pubblico sotterraneo a due piani. E farà da volano per il recupero del waterfront. L'intera Catania cambierà volto!". Il planivolumetrico è pronto, e l'architetto Massimiliano Fuksas è all'opera per stendere sia il masterplan dell'area, completamente pedonalizzata, sia il progetto del mercato, che cancellerà l'attuale baraonda di bancarelle nella vicina piazza Carlo Alberto: "Caratteristico? Ma è una schifezza, un covo di illegalità. Diventerà il nostro Campo dei fiori!", dice Palmeri. La scuola esistente verrà abbattuta, dicono che gli studenti sono in calo. Improbabile anche la chiesa sul terreno della Curia: pare preferiscano monetizzare. Previsti un grande mall commerciale di lusso, un albergo a 5 stelle, un teatro. Per un quarto del totale si farà edilizia residenziale. Costruttori gli altri due gruppi che gestiscono il business: Eurocostruzioni di Giuseppe Garraffo, imprenditore catanese; e Risanamento San Berillo, società del consorzio Uniter che ha mille dipendenti in tutta Italia, e per figure chiave Mimmo Costanzo, ex assessore di centrosinistra con Bianco, e Santo Campione, ex uomo di fiducia di Mario Rendo, negli anni Ottanta uno dei Quattro Cavalieri di Catania. Se si aggiungono l'altro grande costruttore catanese Ennio Virlinzi e Mario Ciancio Sanfilippo, editore de 'La Sicilia' e di due tv, si ha la mappa del nuovo potere economico catanese. Ciancio, poi, è uno che deve avere la sfera di cristallo, se quasi tutti i terreni da lui acquistati come agricoli riesce poi a rivenderli come edificabili una volta approvati progetti di centri commerciali, ospedali, residence. Ciancio e Virlinzi entreranno nel business di corso Martiri? "Vedremo più in là", risponde suadente Palmeri. Intanto comprano nel circostante quartiere San Berillo. Dove i prezzi salgono a vista d'occhio. Anche quell'area è tutta da risanare e recuperare. È il business prossimo venturo.

TRUFFOPOLI. TRUFFA AL SERVIZIO SANITARIO, SCOPERTI 21MILA PAZIENTI "MORTI".

Catania, medici pagati da anni, ma i loro pazienti erano morti. La Guardia di Finanza scopre una maxitruffa: 21mila i casi. Il danno all'erario sarebbe di circa 4 milioni e 200 mila euro, scrive "La Repubblica". Erano morti da anni, alcuni anche da diversi decenni, ma i loro medici di famiglia hanno continuato ad essere pagati per la loro assistenza dall'Azienda sanitaria. Sono circa 21 mila i casi di persone decedute ancora in 'cura' scoperti dalla guardia di finanza di Catania che ha eseguito controlli incrociati su oltre un milione di cittadini. Secondo le Fiamme gialle il danno all'erario sarebbe di circa 4 milioni e 200 mila euro, per gli ultimi cinque anni. Gli accertamenti hanno permesso di scoprire che molti pazienti passati a miglior vita hanno goduto dell'assistenza medica per un periodo superiore a 35 anni, senza che nessuno si accorgesse della loro morte. Per le indagini i militari si sono avvalsi dei dati forniti dalla stessa Ausl 3 relativi agli assistiti e quelli provenienti dai vari uffici Anagrafe dei Comuni della provincia. I medici di famiglia incassano mensilmente circa 6 euro per ogni paziente assistito. I dati delle indagini sono stati trasmessi al vaglio della Corte dei conti per le valutazione dei profili di responsabilità amministrativa per danno erariale, mentre si sta valutando l'ipotesi di profili di rilievo penale.

PARLIAMO DI ENNA

MAFIOPOLI

La storia della città di Enna affonda le sue radici nella leggenda, dove si narra che Proserpina, figlia di Cerere e di Giove, fu rapita da Plutone mentre raccoglieva fiori proprio presso la cittadina  siciliana. Al di là dei miti e delle leggende, questa città ha comunque un passato storico glorioso, dovuto soprattutto alla sua posizione geografica al centro della Sicilia. Non a caso era soprannominata dagli antichi “umbilicus Siciliae”.

Occupata da Dionisio il vecchio nel 396 a.C. e da Agatocle nel 307, divenne poi cartaginese. Parteggiò per i romani durante la prima guerra punica e durante la seconda pagò con lo sterminio dei suoi abitanti il tentativo di ribellarsi a Roma. Nel Medioevo fu importante fortezza. Occupata a tradimento nell’859 d.C. dagli arabi, che la chiamarono Kasr Yani (poi Castrogiovanni), fu residenza di Federico II di Svevia e più tardi quartier generale di Federico II D’Aragona. Conobbe un periodo di ricchezza e prosperità nei secoli XVI-X-VII, un crollo economico nel XVIII secolo e un ritorno alla prosperità economica agli inizi di questo secolo. Attualmente la città sta vivendo una crisi economica rilevante: basti pensare che la disoccupazione raggiunge il 31 per cento sulla popolazione residente e sfiora il tetto del 46 per cento sulla popolazione attiva (16-60 anni).

La provincia di Enna è da sempre ritenuta immune dalla presenza mafiosa. Ma, tra Stidda e Cosa Nostra, una nuova realtà si sta facendo avanti e il piccolo capoluogo siciliano comincia a confrontarsi apertamene con la grande criminalità organizzata, scrive Giuseppe Bascietto su "Antimafia 2000".

E’ tutto da spiegare il caso Enna, ombelico di Sicilia secondo un’antica definizione, grosso centro agricolo e minerario almeno fino al 1993, anno in cui sono state chiuse le miniere di zolfo e sali potassici, che hanno causato la perdita secca di mille posti di lavoro. Adesso è rimasta solo la coltivazione del grano, che resiste da migliaia di anni, da quando i romani distrussero il patrimonio boschivo e forestale per dare spazio all’attività cerealicola. Enna, che oggi conta 28.000 abitanti, è ultima in tutto, dal reddito pro capite all’occupazione, ma è tra le prime città in Italia per l’apertura di sportelli bancari: solo nel capoluogo se ne contano ben sedici. Qui, contrariamente a quanto si può pensare, la mafia è presente e ben radicata su tutto il territorio. Ma per poter parlare di mafia a Enna è necessario risalire alla fine degli anni Settanta. Se fino a questa data non si registrano episodi che potrebbero far pensare a una presenza mafiosa sul territorio, la ragione sta forse nel fatto che la provincia si estende su un’area economicamente povera e non aperta a possibili sviluppi dell’economia locale su larga scala. Il fenomeno della criminalità organizzata, quindi, era ritenuto limitato a una radicata quanto endemica attività mafiosa di tipo agro-pastorale. Solo nell’agosto 1983, grazie alle indagini portate avanti dalla magistratura e dalle forze dell’ordine per individuare gli autori dell’omicidio di Giovanni Mungiovino, presidente della U.S.L. di Enna, si è messo in evidenza che la tranquillità registrata fino a quella data era solo apparente. Emerse, infatti l’esistenza di alcuni personaggi di notevole spessore criminale che erano riusciti a creare un gruppo molto stabile ed efficiente. L’obiettivo principale di queste presenze era costituito dal controllo del territorio, attraverso il quale erano in grado di svolgere in maniera indisturbata qualsiasi tipo di attività illecita.

UNA CALMA SOLO APPARENTE

Verso la fine degli anni Ottanta il quadro della situazione veniva ulteriormente ampliato dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia catanese Antonino Calderone. Dalle sue affermazioni emergeva con chiarezza che Giovanni Mungiovino era considerato il capo della famiglia mafiosa di Enna e il rappresentante provinciale di Cosa Nostra per quella provincia. Attraverso quelle dichiarazioni, inoltre, fu ricostruito l’organigramma delle famiglie mafiose in tutto l’Ennese. Secondo quanto affermato da Antonino Calderone, le cosche mafiose attive a Enna fino agli inizi degli anni Novanta erano state quattordici e controllavano quasi tutti i comuni della provincia. Da quegli stessi interrogatori si evinceva poi la presenza di gruppi criminali emergenti, che agivano sullo stesso territorio, ma che non appartenevano a Cosa Nostra. Si trattava di gruppi criminali legati alla Stidda, che in questa zona – contrariamente a quanto è avvenuto nelle altre province, dove la contrapposizione tra Stidda e Cosa Nostra ha lasciato sul terreno centinaia di morti ammazzati - sono riusciti a convivere pacificamente, o meglio sono stati tollerati dall’organizzazione principale. E proprio grazie a questa situazione gli stiddari sono riusciti a consolidare nel tempo le loro posizioni e a creare una vasta rete di interessi criminali in tutta la provincia.

LA SCALATA DELLA STIDDA

Tutto ha inizio nella seconda metà degli anni Ottanta, quando gruppi di emergenti iniziano a imporsi nel panorama criminale ennese taglieggiando le imprese che già erano sotto il controllo di Cosa Nostra e facendo arrivare droga e armi senza il consenso dell’organizzazione che qui fa capo a Piddu Madonia. A Enna non si verificano episodi di violenza, anzi iniziano una serie di contatti tra Cosa Nostra e gli emergenti per risolvere in modo pacifico la frattura che si era creata. Si arriverà addirittura a proporre agli emergenti di entrare a far parte dell’organizzazione. Alcuni di loro però si rifiutano e continuano nel taglieggiamento e nello spaccio. Solo dopo l’ennesimo rifiuto scatta la rappresaglia da parte della mafia che uccide in un colpo solo tre membri della famiglia Prestianni. Successivamente mafia ed emergenti iniziano a convivere pacificamente, sempre però sotto il diretto controllo di Cosa Nostra, che ha fatto della provincia ennese una vera e propria zona franca, utilizzabile per ogni genere di cose, dai summit mafiosi, allo smistamento di armi, al traffico di cocaina al riciclaggio di denaro sporco, alla creazione di rifugi sicuri per i latitanti. A Enna e nel resto della provincia la criminalità organizzata ha potuto agire indisturbata grazie a una densa cortina di omertà che da sempre la protegge.

Non è un caso che lì nessuno parli del fenomeno mafia, né i cittadini, né gli amministratori, i quali anzi affermano che, non essendoci episodi di violenza esplicita come furti, rapine, attentati a persone e cose od omicidi, non è possibile parlare di mafia. Qualcuno si spinge oltre affermando che, fino a quando non ci saranno sentenze definitive passate in giudicato, non è lecito parlare di crimine organizzato a Enna. Eppure in questa città la mafia c’è e fa sentire la sua presenza, controllando tutto il territorio. Le sue attività principali riguardano il settore degli appalti pubblici, il settore edilizio, le estorsioni alle imprese, il riciclaggio e l’investimento di capitali di provenienza illecita. Lo spaccio e il traffico di droga sono invece lasciati agli emergenti.

VIDEOPOKER E SLOT-MACHINES

In particolare, le estorsioni alle imprese avvengono sotto varie forme. I gruppi criminali che agiscono nel territorio, impongono alle imprese, che vincono la gara d’appalto o vogliono lavorare, l’acquisto di materiale presso aziende che sono sotto il loro controllo. L’estorsione, però, si può fare anche imponendo determinati servizi o facendo assumere all’interno delle imprese uomini di fiducia dei gruppi criminali. Questo comporta sicuramente una distorsione del mercato, in quanto le aziende – in buona parte dei casi sotto il controllo di Cosa Nostra – che lavorano fornendo materiali e prestando servizi, non utilizzano i legittimi canali di competizione economica ma la violenza. Inoltre, le imprese vincitrici degli appalti provengono quasi tutte dall’entroterra agrigentino. Sono imprese che hanno proposto prezzi molto più bassi di quelli delle imprese locali, prezzi che – a detta degli imprenditori del luogo – non avrebbero consentito neanche di completare i lavori. A questo punto sorgono alcune domande: com’è possibile per le imprese esterne giocare al ribasso quando gli imprenditori locali dicono che a quei prezzi non si possono portare a termine i lavori? Come mai le amministrazioni locali non si sono mai poste il problema e addirittura hanno permesso la presenza di queste imprese, consentendo loro di lavorare legittimamente sul territorio? Nessuno si è domandato se tali imprese, consapevolmente o inconsapevolmente, siano coinvolte nel riciclaggio del denaro sporco?

Eppure la CGIL ha denunciato in modo chiaro e inequivocabile che tutto questo poteva servire alla mafia per investire capitali di provenienza illecita, in una zona che grazie alla sua tranquillità si presta benissimo a simili operazioni. Altrimenti non si spiegherebbe perché, in una provincia economicamente povera, c’è un tale numero di sportelli bancari. Questo ci porta a ipotizzare che Cosa Nostra, nel corso degli anni, abbia spostato l’attenzione verso zone dove i livelli di guardia, di attenzione e di vigilanza sono molto più bassi.

Naturalmente non è solo tramite le imprese esterne che la mafia ricicla soldi nell’Ennese; un secondo canale di riciclaggio è costituito dalle slot-machines o videopoker. Non c’è bar o locale pubblico che non le abbia. Tutti accettano, non per paura di ritorsione o minacce, ma perché l’affare conviene. Rischio zero, guadagni enormi, perché la platea di potenziali clienti è vastissima. Così accade che quando qualcuno si presenta al gestore di un locale per proporre la macchinetta, questo accetta subito, perché i proventi vengono divisi a metà tra il gestore stesso e il proprietario delle slot-machines. Quindi un vero e proprio affare che vede la mafia ennese, ma non solo, in prima linea nella gestione delle macchinette mangia soldi, i cui guadagni servono a ripulire il denaro, ma anche a mantenere le famiglie dei detenuti.

DROGA IN TRANSITO

Come si diceva, la mafia si occupa quindi dei grandi appalti, mentre gli emergenti, i giovani stiddari, si occupano del traffico e dello spaccio di droga. A Enna non si spaccia eroina, ma cocaina in grosse quantità. Le operazioni antidroga condotte da polizia e carabinieri hanno fatto luce sulle rotte di questo traffico. Inizialmente la droga veniva fatta arrivare dal Brasile, ma dopo l’operazione “Leopardo”, scaturita dalle dichiarazioni di Leonardo Messina, il traffico dal Brasile venne stroncato. Allora i gruppi criminali iniziarono a rifornirsi a Torino e Reggio Calabria. A Torino presso esponenti della famiglia Nicosia di Villarosa, mentre a Reggio Calabria presso il ristoratore Giuseppe Barreca e il suo braccio destro Carmelo Leonardo. Ma i collegamenti e le rotte del traffico di droga e armi cambiano continuamente. Infatti l’operazione denominata “Scarface” del 3 novembre 1999, che ha portato all’arresto di sedici persone, tra cui un consigliere comunale di Forza Italia, ha stroncato solo una parte del traffico di droga che arriva nel capoluogo siciliano. Secondo una nota informativa del Comando generale dell’Arma dei Carabinieri, esisterebbe a Malta un’organizzazione criminale che farebbe sbarcare armi e droga, destinate alle cosche siciliane, in tratti di costa non controllati dalle forze dell’ordine. Secondo il rapporto, si tratterebbe delle coste ragusane: qui armi e droga, dopo lo sbarco, verrebbero caricate in gran segreto su alcuni  mezzi e scortate fino ad Enna, per essere poi smistate e destinate alle varie cosche criminali dell’isola.

Ciò nonostante a Enna si continua a far finta di niente. E la situazione, complici il silenzio e l’indifferenza, non fa che peggiorare. Le cifre però parlano chiaro: sei operazioni di polizia e carabinieri tra il 1992 e il 1999; quasi duecento persone arrestate a fronte di una popolazione di 180 mila abitanti; oltre quattro miliardi  di beni confiscati (appartamenti, ville, terreni, automobili e persino un impianto per la produzione di calcestruzzo con tre autobetoniere); un consigliere provinciale arrestato con l’accusa di essere un rappresentante di Cosa Nostra; il vice sindaco di Calascibetta arrestato con l’accusa di essere membro della commissione provinciale di Cosa Nostra; un consigliere comunale del gruppo di Forza Italia arrestato con l’accusa di essere un corriere della droga. E le amministrazioni cosa fanno? Nulla.

NESSUNO VUOLE I BENI CONFISCATI

Naturalmente le agenzie collettive (comuni, province e regioni) non hanno il potere di impedire l’avanzare impetuoso delle mafie, ma possono intervenire nelle zone a rischio in maniera ferma e decisa, svolgere un lavoro educativo all’interno e all’esterno delle scuole, dare segnali di speranza alla collettività: in altre parole possono contribuire a impedire la diffusione delle cosche nel territorio.
Un segnale importante potrebbe arrivare dall’acquisizione dei beni confiscati ai gruppi criminali divenuti patrimonio dello Stato – un patrimonio che ammonta per ora a oltre quattro miliardi di lire – ma sino a oggi non risulta nessuna richiesta dell’amministrazione a riguardo, con buona pace di chi si batte per l’applicazione della legge sull’utilizzo sociale dei beni confiscati ai mafiosi approvata nel marzo 1996. Ma a Enna non c’è una vera e propria presa di coscienza del fenomeno. C’è chi dice che la mafia non si può sconfiggere perché è sempre esistita e sempre esisterà. Si dimentica però che Enna, città dal passato importante, non è ancora nelle condizioni di Palermo, dove Cosa Nostra è radicata da oltre un secolo. Qui la mafia ha venticinque anni o poco più: un fenomeno, tutto sommato, ancora giovane.

ENNA: MAFIA E MASSONERIA.

Tutto il vertice di Cosa nostra, a cominciare dal capo della Cupola, Toto' Riina, e dal suo numero due, Giuseppe Madonia, sarebbero massoni, scrive Maria Antonietta Calabrò su “Il Corriere della Sera”. I capi della mafia avrebbero deciso di aderire alle logge già alla fine degli anni Settanta, con una decisione strategica che coinvolse sia i vincenti (i Greco, ad esempio) sia i perdenti (Bontade) della Grande guerra tra le cosche che ha visto la vittoria dei Corleonesi. Questa scelta sarebbe da collegare al fatto che all' interno delle logge i boss possono incontrare in modo segreto magistrati, imprenditori, politici, tutti coloro che servono per concludere affari, asservire l'economia, comprare assoluzioni giudiziarie, e fare leggi. Questo il quadro davvero inquietante dipinto da Leonardo Messina, il terzo grande pentito di mafia che e' stato ascoltato ieri in una località segreta dalla Commissione antimafia. Messina è stato l'ultimo uomo di Cosa nostra a offrire collaborazione al giudice Borsellino. L'audizione è durata sei ore. Uno spezzone di un'ora e mezzo è stato fatto ascoltare ai giornalisti ieri sera, il resto sarà trasmesso oggi. Ma le rivelazioni non sono finite. Messina sarebbe stato da lungo tempo un informatore del Sisde, fornendo tra l'altro notizie sui terroristi dei Nar ("Cosa nostra ha rapporti con i ragazzi dei Nar a Roma"). In febbraio il pentito avrebbe voluto avvisare lo 007 con cui era in contatto che ad Enna si sarebbe tenuta una riunione di vertici mafiosi. Un incontro al massimo livello cui avrebbe partecipato Riina e in cui si sarebbe deciso di cominciare una stagione di stragi e di uccidere Falcone. Ma . ha affermato il pentito . chi doveva far da tramite per un appuntamento con il funzionario si sentì rispondere da quest'ultimo che non era Messina a dover fissare gli appuntamenti. E l'abboccamento saltò. Testuale: "Io ho detto a un capitano: vieni che ti incontro. E quello non è venuto perché ha detto all' emissario: "Dicci a 'o boss che gli appuntamenti li do' io". Se lui fosse venuto all'appuntamento, molti magistrati, molti poliziotti che sono morti sarebbero ancora vivi". Messina ha anche raccontato di un "prezzario" per la cattura dei latitanti, ma ha aggiunto: "Dalla polizia non ho mai avuto offerte di soldi". Riina "valeva" 800 milioni, Greco 600, Madonia 400. Ma quando capitò di poter "offrire" Riina, la cosa fu lasciata cadere. Affermazioni gravissime che esigono, come hanno già chiesto alcuni commissari (da Galasso della Rete all'antiproibizionista Taradash) una risposta del governo e del ministero dell'Interno. Messina (che ha precisato di parlare per esperienza diretta in Cosa nostra) ha anche illustrato un progetto politico che la mafia vincente sta cercando di attuare in questi mesi e che mira a separare la Sicilia e il Sud dal resto del Paese. In questo quadro andrebbero analizzati i nuovi contatti politici e imprenditoriali che Cosa nostra sta allacciando, sempre grazie alla massoneria. Vere e proprie dichiarazioni bomba che oggi avranno effetto di detonatore su una riunione importantissima fissata a Villa Medici del Vascello, sede della massoneria ufficiale, il Grande Oriente d'Italia, per decidere la pubblicazione delle liste degli affiliati dopo la clamorosa istruttoria aperta dalla Procura di Palmi alla fine di ottobre che portò tra l'altro al sequestro del computer del Grande Oriente. Il presidente dell'Antimafia, Violante, ha chiesto: "Vuol spiegare il rapporto con la massoneria?". Messina: "Molti degli uomini d'onore, quelli che riescono a diventare capi, appartengono alla massoneria. Questo non deve sfuggire alla commissione, perché è nella massoneria che si possono avere contatti totali con gli imprenditori e con le istituzioni". Domanda: "E' nella massoneria che sta sorgendo questa idea del separatismo della Sicilia?". Risposta: "Sì  . E voglio precisare che quello che dico non è interpretazione personale, deduzione, è conoscenza diretta". Domanda: "Quanti erano alla riunione di Enna?". Messina: "Quattro, cinque, la commissione interprovinciale, che da fine novembre sono i rappresentanti di tutte le organizzazioni criminali del mondo. Perché il nostro contesto è sempre stato mondiale, ma Salvatore Riina ne è il rappresentante da novembre". "Ci sono forze nuove alle quali ci si rivolge?". Risposta: "Sì, ci sono formazioni nuove, non tradizionali. Che vengono da fuori, che ancora non sono presenti in Sicilia, ma che avranno come alleati quelli che hanno sempre avuto". Infine, sempre secondo il pentito, i Corleonesi stanno già costruendo una Cosa nostra parallela, iniziando i nuovi adepti al di fuori delle regole stabilite e senza che nessuno conosca il volto delle nuove leve. Inoltre le "famiglie" sarebbero scavalcate da Riina mediante alcuni "ambasciatori", veri e propri intermediari tra il capo dei capi e gli uomini d'onore. Riina, sempre secondo Messina, "vuole azzerare ogni memoria storica del passato, una logica che spiegherebbe alcuni delitti eccellenti come quello di Salvo Lima". Quindi, ha detto, "Cosa nostra così come la si conosce è destinata a scomparire". "Ci sono magistrati molto vicini a Cosa nostra" ha detto inoltre il pentito, precisando poi, in risposta a una domanda, che da questi la mafia "riesce ad avere favori". Messina infine ha fatto riferimento all' esistenza di una "lunga mano" della mafia che dal Sud si estende anche alle regioni del Nord, tra cui il Piemonte e la Lombardia ("Qui Cosa nostra non è ancora padrona del territorio ma lo sarà tra 5 o 6 anni") e in Toscana ("Qui ci sono molti uomini d'onore ma non c'è ancora un rappresentante"). Messina ha incominciato a collaborare con la giustizia all' inizio di giugno, disegnando l'attuale organigramma di Cosa nostra: alla guida ha confermato Totò Riina, mentre ha indicato come numero due non più Bernardo Provenzano, ma Giuseppe Madonia. Il boss è stato poi arrestato proprio in seguito alle indicazioni di Messina. Al nome del pentito è legata l'ultima grande operazione antimafia denominata Leopardo.

MALAGIUSTIZIA

Procure scomode per giudici comodi. Molti tribunali, soprattutto al Sud, non hanno abbastanza magistrati. E non si trovano volontari per coprire i posti vacanti. Risultato: enormi ritardi nelle inchieste, prescrizioni, processi senza fine. Quindi senza giustizia, scrive Antonio Rossitto su “Panorama”.

"Li vede quei fascicoli lì?" domanda il procuratore. Drizza l'indice verso una pila di cartellette gialle che giacciono sulle poltroncine per gli ospiti. "Sono tutte le nuove notizie di reato. In mezzo ci potrebbero essere cose importanti, indagini da avviare. Ma noi qui possiamo solo occuparci di udienze, arrestati e morti. Quando li dovrei studiare i nuovi casi? So quello che faccio, ma non quello che potrei fare".

Il capo della procura di Ragusa, Carmelo Petralia, 57 anni, dà un'altra tirata al suo toscano. Si è insediato tre mesi fa, dopo una vita passata alla Direzione nazionale antimafia, dove si è occupato anche delle stragi di Capaci e di via D'Amelio. A Ragusa ha trovato due sostituti invece che sei.

Il Csm , su indicazione del ministero della Giustizia , il 13 maggio ha cercato di ovviare: ha pubblicato un bando con l'elenco di 41 sedi disagiate che prevede incentivi economici ai magistrati pronti a trasferirsi. Sono arrivate 77 domande.

Però a Ragusa, probabilmente, non andrà nessuno. Come a Enna, Nicosia e Barcellona Pozzo di Gotto. Procure di frontiera in cui nessuno vuole amministrare la giustizia. E c'è chi ci tenta di scappare il prima possibile. Esito: fascicoli che si accumulano, indagini che non partono, processi compromessi.

La procura di Ragusa è, dopo quella di Modica , la più a sud d'Italia. Petralia dice di sentirsi solo e insoddisfatto: "Qui gli unici a non lamentarsi sono gli imputati. Alla fine il danno non ce l'ho io, ma la comunità, la sua aspettativa di giustizia". Si passa una mano nella barba. "Ci hanno segnalato un caso grave: l'inquinamento di alcune falde acquifere. Dovrei aprire un'inchiesta. Ma a chi la delego?". Un'altra boccata al toscano, un altro sguardo amaro.

Come gran parte dei suoi colleghi, ha un'idea chiara di che cosa ha causato questi buchi nell'organico: la legge che vieta ai magistrati di prima nomina di lavorare nelle procure. "Il principio poteva pure essere giusto, ma l'esito era prevedibile: la desertificazione di posti come questo".

Per gli uffici in cui latitano ancora i volontari il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, pensa di riproporre incentivi. Extrema ratio sarebbe il trasferimento d'ufficio di giudici ai primi anni di carriera. A Ragusa una terza possibilità ci sarebbe: a 15 chilometri c'è la procura di Modica. Da anni i pm delle due sedi chiedono l'accorpamento, nessuno dà loro retta.

Una situazione simile c'è pure nel Messinese. C'è Mistretta, sui Nebrodi: 5.200 persone e tre magistrati. Poi Patti: 13.320 abitanti e cinque togati. Infine, a 20 minuti di macchina, la sede più grande, Barcellona Pozzo di Gotto: un altro di quei posti che godono della fama da "lasciate ogni speranza o voi ch'entrate".

"Avere tre uffici così vicini non ha senso. Non siamo un ospedale" dice caustico il procuratore Salvatore De Luca, 55 anni. "I potentati locali però vogliono mantenere le cose come sono. I politici per far contenti i paesani. Gli avvocati e i magistrati per far felici loro stessi: più sono le sedi, più sono le poltrone". De Luca vede fosco: "Qui non ci viene anima. Il carico di lavoro è enorme: la città è l'epicentro della criminalità organizzata del Messinese". Non si potrebbe allora fare appello al senso del dovere? "I magistrati, nella maggior parte dei casi, non sono eroi né santi. Ma persone come le altre, che vogliono mettere su famiglia e campare tranquille".

Per Barcellona Pozzo di Gotto al Csm non è arrivata alcuna domanda di trasferimento. Tra due mesi rimarranno solo due sostituti su cinque. "E fra un anno, se la situazione non cambia, resterei solo io".

A Gela si rischierebbe lo stesso: su cinque pm, quattro andranno via nei prossimi mesi. Non a caso, nella lista delle sedi disagiate ci sono quattro posti da coprire. Il procuratore Lucia Lotti, 52 anni, è però fiducioso: "Questo è un ottimo ufficio. Sono sicura che riusciremo a farcela". Ammette che la città dei miasmi e del petrolchimico gode di una nomea che tiene lontano ogni teorico aspirante. Per questo ha scritto un'email a tutti i colleghi, mettendo a disposizione "dati statistici, assetto, regole interne, profili operativi, prospettive".

Molto più istituzionale del suo omologo di Palmi, in Calabria, Giuseppe Creazzo, ingegnoso autore di un messaggio in cui pubblicizzava le bellezze locali: "Magnifica spiaggia con vista sullo Stretto di Messina e le Isole Eolie sullo sfondo". Ha funzionato: sei domande per quattro posti. Del resto anche Sergio Lari, a Caltanissetta, ammette di aver fatto una "vera e propria campagna acquisti", provando a convincere gli interessati. Anche lui è stato efficace: 15 richieste.

A Nicosia, invece, non c'è stato verso: nessun pretendente. Nella città spersa nella provincia di Enna, poco meno di 15 mila abitanti, da un anno e mezzo mancano due sostituti su tre. Nelle stanze dei magistrati rimasti le luci non si spengono mai prima delle 10 di sera. Nel giro di qualche mese andranno via anche loro. La percentuale di avvicendamento, ha calcolato il Csm, è altissima: tutto l'ufficio è cambiato due volte in sette anni.

Anche Carmelo Zuccaro, il capo, 52 anni, si trasferirà a ottobre: "Da quarant'anni l'organico si copre solo con i magistrati di prima nomina" precisa.

La scarsità di pubblici ministeri finisce per incidere su tutto. "La stragrande maggioranza delle udienze viene coperta dai viceprocuratori onorari, che non hanno seguito le indagini" racconta Zuccaro. "Questo ci fa ridurre le pendenze, ma fa scadere la qualità del dibattimento. Che senso ha svolgere inchieste lunghe e laboriose se poi al processo non siamo efficaci?". Zuccaro si sistema la cravatta a righe. "Le assoluzioni sono aumentate. E i reati fiscali sempre più spesso finiscono in appello: lì ci vuole una competenza che non si improvvisa".

A Enna le cose vanno ancora peggio. Il procuratore Calogero Ferroti, 65 anni, da tempo è costretto a rinunciare a seguire  anche i processi più importanti, quelli finiti sulle prime pagine dei giornali. Come l'omicidio del tredicenne Francesco Ferreri, ucciso a dicembre del 2005 a Barrafranca. Ad aprile del 2009 è stato chiesto un ergastolo e pene a 20 e 18 anni per quattro persone. Ma la richiesta non è stata fatta dai magistrati di Enna, che avevano seguito le indagini ricostruendo movente e dinamiche. Ferroti ha delegato tutto ai colleghi di Caltanissetta: "Noi non potevamo garantire la presenza al processo" spiega mentre si sistema sul naso rotondi occhiali marrone chiaro. "Noi": cioè lui e un sostituto. Mancano tre pm su quattro: va così dall'agosto scorso.

I problemi non ci sono solo in procura. Il tribunale di Enna ha metà dell'organico previsto. E statistiche poco invidiabili. Davanti al gip si discute dopo 359 giorni; a Gela ci mettono quasi un quinto del tempo. A Enna la durata media dei processi penali è 949 giorni; sempre a Gela ce ne vogliono 271.

Ferroti rendiconta: pubblici ministeri costretti a chiedere rinvii su rinvii, la metà dei procedimenti prescritta, misure cautelari depositate a sei mesi dalla richiesta, banali sentenze scritte dopo tempi interminabili. E riti abbreviati che durano quattro anni.

Come quello che vede indagato per abuso d'ufficio l'ex sindaco di Enna, Rino Ardica, nell'inchiesta (partita nel 2004) su un buco nel bilancio del Comune. "Ormai siamo ai limiti della prescrizione" si rammarica Ferroti. "Ma del resto anche per le indagini in corso se ne riparlerà tra cinque anni per il processo. Se tutto va bene".

L'amaro sorriso si trasforma in smorfia di rabbia. In autunno andrà via anche l'ultimo sostituto. Ferroti allora rimarrebbe solo. Procuratore, se tornasse indietro, verrebbe ancora a Enna? La risposta è un'occhiata impotente e desolata. Il magistrato scuote la testa, abbassa lo sguardo e si raddrizza nuovamente gli occhiali rotondi sul naso: "La ringrazio per avere ascoltato il mio sfogo".

PARLIAMO DI RAGUSA

LA “SVIZZERA” OMERTOSA DELLA SICILIA.

Mafia, la “Svizzera” della Sicilia. Fra “personaggi ambigui”, omertà e negazione della realtà, scrive Paolo Borrometi su “La Spia”. C’era una volta la Provincia “babba” ed era proprio Ragusa. Ma forse è venuto il momento di non considerarla più tale e, senza provocare allarmismi, fare però un excursus sulla provincia che fra i “si dice” e l’omertà, annovera tante storie a dir poco “anomale”. Storie di persone e personaggi che stanno lontani dai riflettori, ma controllano decine di attività economiche. Storie di quella che potrebbe essere considerata quasi la “Svizzera” della Sicilia.  Storie di imprenditori con rapporti “al limite” (e spesso anche oltre) con certi ambienti della criminalità organizzata e con la politica che, casualmente, sono riusciti ad arricchirsi e a diventare importantissimi. Storie, come quelle che riguardano i “cugini Salvo” mafiosi e considerati come gli “esattori di Salemi” che, anni fa, acquistarono ad Acate, fra la (ragusana) Vittoria e la (nissena) Gela, più di mille ettari di vigneti e serre. Ottimo luogo di rifugio per latitanti, dal nipote del capomafia di New York Joseph, Gaspare Gambino alla presunta (ma mai confermata) ospitalità nel ragusano del boss di Catania, Nitto Santapaola (è di questi giorni l’arresto di due latitanti europei nel ragusano, con numerosi mandati di arresto internazionali). Addirittura, sempre stando ai “si dice”, c’è chi riferisce che Santapaola andasse a caccia di conigli in provincia e che, fra i cacciatori che si conoscono tutti, fosse riconosciuto e molto ossequiato senza mai essere (ovviamente, purtroppo!) denunciato. Il giornalista Giorgio Ruta racconta come a Pozzallo e Ragusa “sono state scovate, anni fa, due grandi aziende metallurgiche dirette da un prestanome di Tano Badalamenti, boss di Cinisi”. Il colonnello della Finanza, Francesco Fallica (al clandestino), nel maggio del 2012, dichiarava: “Nella zona di Ragusa ci sono stati interessi nell’eolico di alcuni personaggi ambigui, con vicinanze mafiose. Questi soggetti si sono infiltrati in provincia tramite passaggi societari che abbiamo osservato. Questo ci fa riflettere e ci stiamo lavo­rando. Nel settore del vino io avevo colto, in tempi non sospetti, alcune intromissioni di alcuni soggetti che vanno approfonditi. La Procura ci sta lavorando”. Partiamo dai fatti odierni. L’ultima relazione semestrale della Direzione Investigativa Antimafia, afferma che: “In provincia di Ragusa emergono fenomeni criminali di tipo mafioso soprattutto sul versante occidentale (nei comuni di Vittoria, Comiso e Acate), dove si risente dell’influsso esercitato dei gruppi presenti nell’area di Caltanissetta, in particolare i sodalizi gelesi. Risultano attivi elementi del clan Dominante, affiliato alla stidda, e una cellula denominata clan Piscopo, di diminuita capacità operativa”. Eppure la Provincia di Ragusa, divisibile per comprendere meglio in tre “macro aree”, pur non essendo mai stata una provincia particolarmente violenta negli anni “caldi” della tensione mafiosa, oggi è da molti identificabile come “un’ottima e grande lavatrice”, dove il “denaro sporco verrebbe reinvestito”.

Zona Vittoria – Comiso – Acate: Gli interessi nel mercato di Vittoria. Nella relazione del 2008 si legge che per i mercati di Fondi e Vittoria «i punti più sensibili per le infiltrazioni malavitose sono costituiti dai servizi di trasporto su gomma dell’ortofrutta da e per i Mercati; dalle imprese dell’indotto; dalla falsificazione delle tracce di provenienza dell’ortofrutta; dal livello anomalo di lievitazione dei prezzi». Ed ancora: “traffico di droga finalizzato al fabbisogno locale, estorsioni, gestione di bische clandestine, controllo del territorio, gestione delle macchinette video poker, i cui proventi, che si aggirano sui 5 mila euro a settimana per macchinetta, servono spesso per riciclare denaro“. Il primo ottobre del 2012, in un’operazione denominata “Chimera”, i carabinieri di Ragusa, su ordine della Direzione Distrettuale Antimafia di Catania, in collaborazione con la Procura della Repubblica di Ragusa, ha decapitato  capi e luogotenenti di una pericolosa cosca armata della «Stidda», attiva a Comiso e riconducibile a quella già denominata clan “Dominante” di Vittoria. Portando così all’arresto di 5 persone, accusate di associazione per delinquere di stampo mafioso (aggravata dal fatto di essere l’associazione armata) e estorsione e tentate estorsioni aggravate e detenzione e porto abusivo di armi da guerra e comuni. Le manette scattarono, fra gli altri, per Mario Campailla, detto “Mario ‘u checcu”, ovvero «Mario Saponetta», che dal 9 aprile dell’anno scorso è addirittura al 41bis nel carcere di Novara. Il 18 luglio un grave agguato nel pieno centro di Vittoria, trivella di colpi i tre fratelli Nigito (ritenuti – secondo la relazione della DIA – esponenti della “Stidda” a Vittoria, più precisamente del clan “Carbonaro-Dominante”), nel quale perde la vita Francesco e rimangono feriti gli altri due fratelli Nigito, Giuseppe e Giancarlo. Alla base dell’agguato vi sarebbe un dissidio sulla gestione dei videogiochi. Fatto sta che i due fratelli Nigito forniranno agli inquirenti indicazioni contraddittorie e fuorvianti sulla sparatoria, tanto da essere in un primo momento arrestati insieme ad altri. La famiglia Nigito a Vittoria mantiene il controllo di videopoker e macchine distributrici di bevande e caffè. I due Nigito saranno nuovamente coinvolti in un atto di sfregio nel luglio del 2013 (pare sempre per la gestione del territorio) ed arrestati il 6 novembre scorso. Ciò fino ad arrivare al 10 novembre (cioè al mese scorso) quando, l’operazione condotta dalla Polizia di Stato e denominata “Whatchman”, portò all’arresto di 4 persone, con l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso, nei confronti di presunti affiliati alla famiglia “Piscopo” della cosa nostra gelese, oltre ad una quinta, nei confronti di un poliziotto che è stato raggiunto dallo stesso provvedimento con l’accusa di favoreggiamento. Si tratta dei vittoriesi Massimiliano Avola, Francesco Guastella e dei cugini Enzo e Gianluca Rotante. Ed anche del sovrintendente di polizia, Santo Ruggieri. Operazione per la quale un plauso particolare va fatto proprio alla Polizia che, nonostante un proprio uomo fosse coinvolto, ha saputo bene operare. E proprio gli inquirenti e gli investigatori hanno dichiarato come l’omertà in città, non abbia assolutamente aiutato (e non aiuta ancora oggi) le indagini. Pochi, troppo pochi, gli imprenditori che hanno confermato o denunciato.

Zona di Scicli – Modica: “la nettezza urbana, i servizi funebri, la droga”. La città di Scicli è stata da sempre “particolarmente turbolenta”, tanto da essere indicata da Saviano (in una puntata di “Che tempo che fa” su Rai Tre, il 17 ottobre del 2012), come un Comune sciolto per Mafia. Effettivamente il consiglio comunale della città fu sciolto per mafia il 17 luglio del 1992, ma una sentenza del Tar del 9 marzo del 1994 reintegrò il massimo consesso cittadino di Scicli, perché il decreto di scioglimento fu dichiarato illegittimo per “violazione di legge e totale travisamento dei presupposti di fatto”. Ma tutto viene rimesso in discussione e la città ripiomba nel “buio del sospetto mafioso”, con le indagini della Dda di Catania, mirate ad accertare eventuali infiltrazioni mafiose nel comune di Scicli. Secondo gli inquirenti, gli interessi del clan Cappello si sarebbero estesi al settore della raccolta dei rifiuti nel piccolo centro ibleo. La “bomba” scoppia il 4 settembre di quest’anno quando, all’improvviso, viene effettuata un perquisizione al Comune di Scicli da parte dei carabinieri della Compagnia di Modica, delegati dalla Procura Distrettuale antimafia di Catania nell’ambito di un’indagine volta ad accertare eventuali legami fra poteri della malavita locale, politica ed istituzioni. L’indagine prenderebbe le mosse relativamente a fatti che hanno origine nel 2007 e “non escluderebbe neanche le ultime due campagne elettorali del 2008 e del 2012 per il rinnovo degli organismi elettivi dell’ente e cioè l’elezione del sindaco, della giunta e del consiglio comunale” (virgolettato fonte GdS – 5/9/’13). Per andare ai fatti, quelli importanti, ci sarebbero due filoni: quello relativo alla gestione dei rifiuti e quello riguardante l’affissione dei manifesti. Nel 2007 il sindaco Falla denunciò pubblicamente che “alcuni consiglieri si aggiravano insieme a soggetti con la fedina penale sporca”. Falla denunciò anche il fatto che durante la campagna elettorale ci furono delle “minacce ed azioni violente, nei confronti di rappresentanti di partito”. E non sarebbe da escludere la “lunga mano della criminalità organizzata catanese e “inquietanti” similitudini con le numerose indagini nella città di Palagonia. Secondo i colleghi catanesi del giornale on line “ctzen.it”,  “Il gruppo catanese dal 2007 avrebbe esercitato il controllo delle assunzioni del personale addetto alla nettezza urbana, la gestione degli ambiti posti nei mercatini e quella delle affissioni elettorali”. Ma non solo, appunto, alcuni “nomi” rimanderebbero alle inchieste di Palagonia. Ad esempio, proprio la “ditta Busso”, addetta alla raccolta dei rifiuti, è di Sebastiano Busso, figlio di Giuseppe. Anche in questo caso, sottolineano i colleghi di “ctzen.it”, “nel 2009, è stato coinvolto nell’operazione Full trash che ha visto protagonista anche l’ex sindaco di Palagonia, Fausto Fagone”.

Modica. “Spazzatura, racket del “caro estinto” e rapporti al limite”. Luglio 2008, l’operazione “Trash”, condotta dalla Guardia di Finanza del Comando provinciale di Ragusa porta in manette, fra gli altri, il titolare dell’impresa affidataria dell’appalto per la raccolta dei rifiuti a Modica, Giuseppe Busso. Anno 2013, è sicuramente il “racket del caro estinto”, uno degli affari più preoccupanti a Modica, in una città nota per le proprie contraddizioni sfociate in tanti anni. L’ombra della mafia e di alcune famiglie “importanti”, sulla gestione e la spartizione dei defunti. Sicuramente comportamenti mafiosi ne caratterizzano e ne fanno presagire la presenza in città. Due Agenzie di onoranze funebri ed almeno un paio di mezzi di altre agenzie, sono state date alle fiamme in questo anno e nessuno si è più di tanto indignato. Perché? Cosa sta succedendo in città? E soprattutto, perché nessuno collabora? Perchè questa omertà? Il 19 agosto del 2013, un’inchiesta proprio sul “caro estinto” scuote l’ospedale Maggiore di Modica. Agli arresti domiciliari finiscono l’infermiere Vincenzo Giummarra e la titolare di un’agenzia di onoranze funebri, Raffaela Palladino. Altri 3, fra cui il marito di Raffaela Palladino, Gaetano Puccia, vengono sottoposti all’obbligo di firma in caserma. Nell’inchiesta ci sono altri 18 indagati, tra medici, infermieri, titolari e dipendenti di agenzie di pompe funebri.

Zona di Ragusa: E’ proprio nel comune capoluogo che scoppia l’indagine relativa alle Aste Giudiziarie. Un sistema sul quale, dopo la tragedia di Guarascio, e dopo alcune denunce di casi analoghi, ha acceso i riflettori la Procura guidata da Carmelo Petralia. Tre inchieste con decine di indagati e un reato-guida: quello di estorsione. Già le cifre parlano da sole: 300 mila abitanti e 1281 immobili all’ asta, uno ogni 230 abitanti. Negozi, terreni, capannoni industriali, ma soprattutto immobili rurali e case. Prime case. Ottocento imprenditori sul lastrico, strangolati dalla crisi economica e dagli usurai, costretti a chiudere aziende agricole un tempo fiorenti massacrate dalle tasse e dai costi del lavoro e dei trasporti e ora messi all’ angolo da una nuova “mafia” che qui, a Ragusa, sembra aver trovato la gallina dalle uova d’ oro: è la “mafia” delle aste giudiziarie, una vera e propria associazione per delinquere alla quale partecipano, con disinvoltura, professionisti e impiegati dello Stato, avvocati e commercialisti, funzionari di banche e finanziarie, e tutto un sottobosco che va a braccetto con la criminalità. È un vero e proprio sistema ormai strutturato. Le armi, la droga e la prostituzione: E’ questo uno dei maggiori problemi della zona. Le armi e la droga costituiscono un vero e proprio reticolo di rapporti intessuti nel territorio ragusano, da filiere estere. Basti pensare, ad esempio, alle organizzazioni internazionali che si dividono il territorio. Le organizzazioni Tunisine si occupano di portare eroina e cocaina nella zona (su tutte, l’operazione del 5 novembre u.s., quando la Polizia sgominò una banda di sette tunisini, intenti in un intenso traffico di eroina proveniente da Napoli e Palermo, diventati punto di riferimento delle piazze di spaccio). Invece gli Albanesi, dominano nel campo della marijuana e dell’hashish. Il 27 maggio del 2012, venne arrestato un albanese con ben 44 chili di droga, destinati al commercio nella provincia Iblea e sequestrati dalla Guardia di Finanza in uno degli imbarcaderi privati a Messina. Oppure ancora il 30 marzo del 2013 quando, la Polizia di Stato arrestò due corrieri della droga albanesi e il loro complice italiano. Avevano oltre 35 chili di marijuana da smerciare nel ragusano. Il 6 aprile del 2013 la Squadra Mobile è riuscita ad individuare un altro ingente quantitativo di droga che, da Catania, veniva trasferito alla “base operativa” di Donnalucata, in contrada Timperosse, nella proprietà di Magro, all’interno della quale vennero rinvenuti ulteriori 40 chili di marijuana. Capitolo armi: Il 22 novembre scorso, un vero e proprio arsenale è quello ritrovato dalla Polizia di Ragusa. Rinvenuti oltre 600 cartucce, 100 cartucce da caccia, un fucile, 1 rivoltella a tamburo, 2 rivoltelle a sette colpi, 3 semi automatiche. Possibile – secondo il racconto degli inquirenti -, che le armi siano state utilizzate per delitti non soltanto in provincia. “Proprio per questa ragione invieremo le armi rinvenute, tutte funzionanti e particolarmente insidiose, al gabinetto regionale a Catania. Saranno loro, grazie alla banca dati delle armi – dichiara il  dirigente della Squadra Mobile, Nino Ciavola -, a verificare dove e se siano state utilizzate”. Il 5 dicembre, invece, è stato scoperto dalla guardia di finanza di Ragusa e dalla divisione della polizia amministrativa della questura, all’interno di un casotto adiacente ad un poligono di tiro a segno sportivo, un altro “ammasso di armi”. Sei pistole di vario calibro, due carabine calibro 22, un fucile da caccia calibro 12, circa mezzo chilo di polvere da sparo, quasi 18mila cartucce a palla per pistola vario calibro, 625 cartucce per fucili da caccia caricate a pallini e attrezzatura idonea ad effettuare la ricarica delle munizioni. Capitolo prostituzione: Anche se pochi ne parlano, i “bene informati” raccontano del giro pazzesco di prostituzione in provincia di Ragusa, che andrebbe da Vittoria a Ragusa, fino a Modica. Anche in questo caso, come nella fattispecie dei corrieri della droga, sarebbero le organizzazioni internazionali a comandare i mercati, legati sempre alla mafia (non solo siciliana). Complici alcuni insospettabili del luogo che agirebbero non solo come basisti, ma anche come favoreggiatori. Insomma, se ancora qualcuno la reputasse come la “provincia babba”, non vorremmo si celasse dietro questa definizione, per coprire l’omertà dei comportamenti. Omertà che, va ricordato, è il vero ed unico nutrimento della mafia.

L’omertà già di per sé è mafia”. Aggredito il giornalista Paolo Borrometi, scrive Valeriano Cappello su “Articolo 21”. Può risultare più arduo di quanto non sembri fare giornalismo in una bella e tutto sommato tranquilla provincia come quella di Ragusa (o in ciò che ne rimane, al netto di riforme amministrative vere, preannunciate o presunte…) Lo sa bene Alberto Spampinato, quirinalista dell’Ansa e fratello di Giovanni, corrispondente da Ragusa de “L’Ora de l’Unità” ucciso nel 1972: “ Mi colpisce la disinvolta smemoratezza di questa città e dei suoi abitanti ” scrisse, parlando dello sgomento che prova nel tornare ogni volta nella terra in cui pure è nato e ha vissuto per vent’anni. Eppure qui operano giovani e coraggiosi giornalisti (alcuni talentuosissimi) affatto rassegnati all’apatia e al disinteresse tipiche di una provincia del profondo sud. E’ di Modica, per esempio, il celebre, pluripremiato (e rimpianto) mensile “Il Clandestino”, che ha fatto da apripista a numerosi e vivaci progetti editoriali e stimolato l’interesse per il giornalismo d’inchiesta, e promosso quello indipendente. Modica è anche la città di Paolo Borrometi, il corrispondente dell’Agi e direttore del sito online “La Spia”, che mercoledì 16 aprile 2014 pomeriggio è stato aggredito e malmenato brutalmente da due individui a volto coperto, nei pressi di una proprietà di famiglia, in una zona periferica della città. Al giovane cronista, chino ad accudire il suo cane, è stato teso un vero e proprio agguato: i due malviventi lo hanno sorpreso alle spalle pestandolo e procurandogli forti contusioni ad una spalla e al dorso, prima di dileguarsi lasciandolo a terra; Il giornalista è stato poi soccorso dal padre, allertato al telefono, e condotto in ospedale dove è giunto in stato di shock. Avvocato e scrittore trentunenne, Paolo Borrometi, in passato ha collaborato con “La Sicilia” e “Il Giornale di Sicilia” ed è stato dal 2004 al 2007 segretario regionale dei giovani della Margherita. Nel 2010 ha abbandonato la politica per dedicarsi all’attività forense e al giornalismo. Sull’aggressione indaga la squadra mobile di Ragusa, ma il buon senso la riconduce inevitabilmente alla sua attività giornalistica, e ad un atto intimidatorio subìto lo scorso ottobre, quando ignoti composero con un oggetto appuntito la scritta “stai attento” sulla fiancata della sua auto in sosta. Borrometi si è occupato di varie inchieste: dalla gestione del cimitero di Modica agli interessi che gravitano attorno alle case popolari della provincia iblea. Ma recentemente il suo nome si è legato soprattutto alla vicenda di Ivano Inglese, il trentaduenne di Vittoria il cui corpo senza vita fu rinvenuto dalla polizia nel settembre del 2012, in aperta campagna. Un’ esecuzione spietata, sei colpi di arma da fuoco, ma anche un delitto che attende ancora giustizia sul quale è calata una inesorabile coltre di silenzio che il giornalista modicano ha provato a smuovere con passione e determinazione, coinvolgendo anche i media nazionali. Proprio recentemente, infatti, aveva lanciato risoluti appelli dai microfoni della trasmissione di Raidue “I fatti vostri”: “L’omertà già di per sé è mafia. Qualcuno avrà visto qualcosa in più ed è arrivato il momento che parli” e dal suo profilo di facebook «Se pensavate che, dopo un anno e mezzo, ve la foste fatta franca, vi sbagliate di grosso. Ognuno col suo ruolo: noi giornalisti che abbiamo il dovere di denunciare e di sensibilizzare, gli inquirenti che stanno indagando, Vi faremo mancare l’aria». Nella prima intervista rilasciata dopo aver subito l’aggressione, ad un quotidiano online locale Paolo Borrometi ha detto: “Non mi lascerò intimidire da questa vile aggressione. Sono ancora più determinato e voglioso di andare avanti con la mia attività di denuncia dei casi rimasti insoluti nella nostra provincia per conto di chi non ha voce (…)Un giornalista dovrebbe essere libero di parlare. credo che quando viene attaccato si colpisce l’intera collettività.” Ci piace pensare che quella stima e quella vicinanza espresse in queste ore da colleghi e istituzioni (con alcune, rare titubanze) Paolo possa sentirle davvero, scoprendosi meno solo nella sua battaglia.

Da L'Ora del 27/11/1972 riportato da “Archivio 900”. L'uccisione di Giovanni Spampinato. Campria coinvolge nello scandalo anche i magistrati di Ragusa di Franco Nicastro. Gravi accuse contro i colleghi: si parla di indagini insabbiate, mandati di cattura revocati "per riguardo". Il presidente è sotto inchiesta. Un mandato di cattura per l'omicidio Tumino era stato già disposto per Roberto Campria ed altre quattro persone, ma il provvedimento è stato poi ritirato per un riguardo al presidente del tribunale, padre di quello che poi doveva diventare l'assassino di Giovanni Spampinato. La grave rivelazione è contenuta in uno dei due documenti presentati dall'alto magistrato sotto forma di "memoriale" al consiglio superiore della magistratura il cui contenuto è al centro della campagna difensiva scatenata dal presidente stesso con il sostegno del giornale scelbiano di Catania. Campria è sotto inchiesta per il modo come ha retto finora il suo ufficio, ma le accuse che lancia contro i suoi colleghi coinvolgono in un grave scandalo tutta la magistratura ragusana. Lettere anonime, corruzione e "congiure", indagini insabbiate, concorsi truccati, un'inchiesta della magistratura superiore e chi più ne ha più ne metta. Insomma le manovre del dr. Campria cominciano a travolgere lui e tutto l'ambiente giudiziario di Ragusa. I fatti sono noti. Nel tentativo di intorbidare le acque sulle responsabilità dirette e indirette dell'uccisione del nostro collega, il presidente del tribunale ha iniziato una campagna diversiva ma che rivela una serie di incredibili retroscena. L'alto magistrato, che solo ora si è deciso a chiedere il trasferimento di cui si sta occupando in questi giorni il Consiglio superiore della magistratura, ha fatto sapere di avere presentato qualche tempo addietro i due esposti in cui si parla di "congiura" nei suoi confronti, arrivando a sostenere perfino che tutti i sospetti appuntati sul figlio Roberto in relazione al delitto Tumino erano in realtà "la canna di un fucile puntata" contro di lui. Una campagna denigratoria sarebbe stata addirittura organizzata contro la sua persona e la sua stessa famiglia dai colleghi d'ufficio e da "un magistrato della Corte di Caltanissetta" (il riferimento ad un giudice ragusano è però fin troppo chiaro) il quale avrebbe diretto questa battaglia perché "si ritiene sicuro di riuscire ad essere destinato quale presidente del tribunale di Ragusa" quando Campria sarà finalmente cacciato. La prova di questa "congiura" è addirittura una lettera anonima, e bisogna subito dire, indipendentemente dall'attendibilità o meno di queste "rivelazioni", che poiché i fatti hanno una loro estrema gravità, il "canto del cigno" del presidente travolge lui e tutta la Magistratura ragusana in uno scandalo senza limiti. Una delle che occupano gran parte del "memoriale" di Campria riguarda certe ostilità dimostrate nei suoi riguardi dall'ambiente: menzogne, malignità, ingiurie. La questione ha un suo risvolto. Giungendo a Ragusa, il dottor Campria trovò subito modo di far montare critiche abbastanza pesanti per il modo con cui iniziò il suo lavoro e per i compromessi stabiliti con certe personalità politiche per trovare un posto aal figlio Roberto. Le accuse provenivano direttamente dal consiglio dell'Ordine degli avvocati che per protesta contro il suo operato e sollecitando la moralizzazione della vita pubblica del presidente, si dimise ed inoltrò una documentata denuncia al Consiglio superiore della magistratura. L'inchiesta che ne seguì accertò fatti abbastanza gravi, che erano alla base del clamoroso gesto degli avvocati e mise in luce i compromessi che il dottor Campria aveva stabilito con l'ambiente (negli atti trovano larga citazione anche i nomi di certe personalità politiche e religiose). I risultati di questa inchiesta confermarono anche che per il concorso alla Provincia al quale partecipò il figlio Roberto furono commesse delle scorrettezze nei riguardi degli altri concorrenti fatti ritirare con sottili pressioni. Rimasto solo, Campria-figlio vinse quindi il concorso e venne destinato all'ufficio di Igiene mentale retto dal prof. Pisana. Successivamente un intervento fortemente critico, che andò a finire anche al Ministero di Grazia e Giustizia, venne pronunciato contro il presidente del tribunale da un avvocato ragusano mentre nell'ambiente giudiziario il dottor Campria dava modo di distinguersi per la sua litigiosità, che lo portava ad avere scontri aperti con i colleghi (sono noti a tutti i rapporti tesi avuti con il procuratore della Repubblica) e per il suo autoritarismo. Era negato, secondo il giudizio dato da alcuni avvocati, ai rapporti sociali e vedeva dappertutto tentativi di "congiure", di cui ora parla nel suo memoriale. A dimostrazione dell'isolamento in cui si era cacciato, basta citare due fatti significativi che lo hanno visto come protagonista di recente. Si tratta di due vicende giudiziarie promosse dalla sua famiglia contro un inquilino che aveva "imbrattato i panni stesi sul balcone" (aveva fatto cadere dell'acqua innaffiando dei fiori: il processo si tenne a Caltanissetta ed il "responsabili" venne assolto) e contro la fidanzata di Roberto, quando questa decise di rompere la relazione, quando questa decise di rompere la relazione, per "appropriazione indebita" di una rivista (anche in questo caso gli andò male perché la ragazza venne prosciolta in istruttoria). Certe ostilità, quindi, a parte le gravi compromissioni rilevate dall'inchiesta a cui venne sottoposto dalla magistratura superiore, il dottor Campria se le andava cercando e probabilmente anche le "congiure" sono frutto delle sue manie di persecuzione. A questo proposito, proprio per il contesto in cui va collocato alla luce di questa grave accusa contro i colleghi magistrati, non può passare sotto silenzio l'altra sortita del giudice istruttore Ventura (che conduce l'istruttoria sul caso Tumino) il quale ha rotto il segreto istruttorio per annunciare, quando l'inchiesta non è ancora conclusa,anzi è nota l'intenzione del sostituto procuratore generale della Repubblica di Catania, dottor Auletts, di unificare questo processo e quello per l'uccisione di Giovanni Spampinato, che "non hanno trovato alcuna conferma nei fatti" i sospetti sul giovane assassino del nostro collega per il giallo di contrada "Ciarberi". Allora dove sta la verità: Campria era innocente, come dice Ventura, o era colpevole come dimostrerebbe il mandato di cattura revocato per un riguardo al padre? Campria si lamenta anche che una istruttoria tutt'altro che sollecita ha originato due tragedie: quella di Spampinato e l'altra, morale, del figlio assassino. E' vero e di questo la magistratura ragusana dovrà rendere conto oltre che spiegare l'insabbiamento del rapporto dei carabinieri sulla poszione dal giovane nell'ambito delle indagini sul delitto Tumino. Ma, d'altra parte, anche il presidente non ha fatto nulla per evitare questo dal momento che ha preferito, quando tutti ne chiedevano il trasferimento, rimanere a Ragusa. Ecco perché, per responsabilità sua e dei suoi colleghi, l'inchiesta su quel caso non ha avuto non solo un corso sollecito ma anche gli sviluppi che doveva avere. Sia il presidente quanto tutta la magistratura ragusana, dopo questa serie di accuse e contraccuse, stanno dando uno spettacolo davvero deprimente. Un grave scandalo li sta travolgendo.

Censura, parla Carlo Ruta: “Ecco perché sono stato oscurato. E da chi”, scrive Francesco Cicerone su “Reporter Associati” e su “Peacelink”. Nei giorni scorsi “accadeinsicilia.net”, il sito d’informazione giornalistica, storica e civile, schierato apertamente e coraggiosamente contro la mafia, è stato oscurato con un’ordinanza del giudice di Ragusa, Vincenzo Saito. Come illustrato in un precedente articolo, pubblicato sempre su Reporter Associati, duemila documenti divisi fra letteratura civile, documentazione storica, inchieste sulla mafia, testimonianze, cronache, reportages, sono come "svaniti" nel nulla. La redazione del giornale siciliano aveva svolto diverse inchieste, sempre impavidamente, raccolto testimonianze dirette, parole dure e circostanziate. Registrato denunce coraggiose - sempre in una terra "difficile" come la Sicilia - alle quali non erano, non sono seguite indagini (ufficiali o conosciute) o azioni della magistratura competente. Ho deciso così di capire, di andare a fondo, di intervistare lo scrittore e giornalista Carlo Ruta: per intendere il motivo dell’oscuramento di “accadeinsicilia”, se esista un motivo diverso da quello ufficiale, per comprendere cosa stia accadendo a Ragusa.

Chi è Carlo Ruta, dove vive, di cosa si occupa?

"Sono un siciliano che cerca di seguire un percorso di autonomia. Lavoro da parecchi anni nel campo della scrittura. Mi occupo di storia, ma anche di fatti. Mi coinvolgono le cause che ritengo obiettivamente giuste. Tempo fa ho scoperto internet e ho deciso di mettermi in gioco, con un sito di documentazione storica e di inchiesta civile. Così è nato “accadeinsicilia.net”.

“www.accadeinsicilia.net” è stato oscurato il 7 dicembre scorso dal Tribunale di Ragusa. Lei alcuni giorni prima aveva lanciato l’allarme: ”I poteri forti del sud-est vogliono oscurare il sito “www.accadeinsicilia.net” . Può spiegarci cosa intende per poteri forti, esistono a Ragusa, e da chi sono costituiti?

"La cuspide ibleo-siracusana è una delle aree più ricche della Sicilia, in virtù soprattutto delle filiere ortofrutticole che si spandono lungo la fascia cosiddetta trasformata. E l’istituto di credito che meglio ha saputo dirigerne i processi finanziari è la Banca Agricola Popolare di Ragusa, forte di oltre un secolo di storia e di radicamento". "Proviamo allora a identificarla. Retta da un cartello di famiglie del sud est, a partire dai Cartia di Ragusa, conta oggi novemila soci sparsi in tutta l’isola e oltre. Per capitalizzazione è una delle prime Popolari e, in assoluto, la quarantesima banca italiana: cosa non irrilevante se si considera che prende le mosse dal sud estremo. Mai andata in passivo, in via ufficiale almeno, nell’ultimo decennio è riuscita a contrastare i trend nazionali, cercando spazio in Lombardia, dove ha acquisito la società d’intermediazione Concordia Sim dalla famiglia Negri". "Sul piano territoriale: accudisce i club d’affari più importanti, con una studiata somministrazione del credito; risulta collegata con numerose amministrazioni pubbliche, riuscendone a condizionare la politica; reca agganci forti con la magistratura ragusana, da cui non ha mai subìto una vera inchiesta, malgrado sia stata più volte denunziata. Cucendo tali dati, alla luce comunque di taluni fenomeni opachi, di cui si è cercato di dar conto negli ultimi mesi, si può avere allora un quadro coerente dei poteri forti che controllano gli Iblei e Ragusa in particolare".

La richiesta del provvedimento è stata chiesta dall’avvocato Carmelo Di Paola. Lo stesso avvocato Di Paola, mi corregga se sbaglio, è presidente dei probiviri della Banca Popolare di Ragusa, patrocinatore di un’impresa del Sud Est siciliano, ed anche il patrocinatore legale del Procuratore della Repubblica, Agostino Fera, in alcuni processi che lo interessano, in Sicilia e fuori la Sicilia. Cosa significa tutto questo? In merito a ciò, in una recente intervista ha affermato che si è arrivati a delle conclusioni, supportate da documenti e testimonianze. A cosa si riferiva?

"L’avvocato Carmelo Di Paola è in effetti uno dei maggiori elementi di contatto dei potentati che reggono l’area. E’ socio forte, presidente dei probiviri e patrocinatore legale della BAPR. E’ risultato patrocinatore della Ellepi srl di Ragusa in un fosco affare miliardario contratto con esponenti della destra berlusconiana sotto l’egida della Provincia Regionale. E’ infine patrocinatore legale del procuratore della Repubblica Agostino Fera in processi che, a vario titolo, interessano quest’ultimo". "E da tali nessi discendono ovviamente dei fatti e delle condotte, come quelle della Procura ragusana, che non tiene in alcun conto le denunzie alla BAPR per transazioni illecite e falso in bilancio, mosse da alcuni soci storici, e archivia disinvoltamente il fascicolo sull’affare Ellepi-Provincia, malgrado la documentata testimonianza di un ex funzionario pubblico, che per altro, nelle ultime settimane, da “accadeinsicilia” e poi da una emittente radiofonica, proprio il Di Paola ha chiamato in causa per tangenti. Che dire di più?"

La Procura di Ragusa le ha fornito un motivo Ufficiale per l’oscuramento? Ed il gestore dello spazio web come si è comportato? Perché il giudice Vincenzo Saito ha emesso tale ordinanza con "provvedimento d'urgenza"?

"La Procura di Ragusa, posta sotto accusa nell’ambito dell’inchiesta per i motivi anzidetti e per altro, non si è espressa ufficialmente perché non poteva farlo. E’ stata adottata quindi una via alternativa, assai veloce, quella cioè di un provvedimento in sede civile, dietro istanza del Di Paola che ha chiesto espressamente l’oscuramento preventivo. Si tratta evidentemente di un gesto gravissimo, atto realmente a tutelare non tanto il “buon nome” del Di Paola quanto gl’interessi della banca ragusana e del palazzo di giustizia, al centro del lavoro investigativo di “accadeinsicilia”. "Per evitare lo scandalo che già montava, si è fatto ricorso a un mezzo estremo, fortemente intimidatorio, sicuramente scandaloso. E da qui si può intendere cos’è e cosa nasconde in realtà il sud-est".

“accadeinsicilia” è on-line da tre anni. Avevate raccolto e scritto duemila documenti. Mi pare fosse organizzato a sezioni, tra cui quella su “Giuliano e lo Stato”, comprendente la sentenza romana del processo d’ appello del 1956 su Portella della Ginestra. Come, perché, e con quale intento avete portato avanti tutto ciò? Di cosa vi siete occupati finora?

"Sin da subito l’obiettivo è stato quello di fornire documenti utili, preferibilmente originali e inediti nel web, per la conoscenza storica e del presente, a partire dalla Sicilia, cercando di privilegiare comunque aspetti che, pur significativi e ricchi di sollecitazioni, per motivi vari non trovano un adeguato riscontro in sede storiografica e informativa". "E nel fare tutto questo si è cercato di seguire un canovaccio. Si sono scartate anzitutto impostazioni di tipo “generalista”, che a tanti siti riescono benissimo, puntando invece su una serie di specificità, rese attraverso il vaglio delle fonti archivistiche e testimoniali, l’inchiesta sul campo, la denunzia civile. Con tale impostazione nascono allora le sezioni di “accadeinsicilia”, a partire da quella dedicata a “Giuliano e lo Stato” che ha raccolto parecchie decine di documenti inediti o poco conosciuti in stretta collaborazione con “Non solo Portella” e in particolare con il presidente di tale associazione, lo storico Giuseppe Casarrubea".

Lei si occupava personalmente del giornale on-line, avendo come collaboratori diverse persone di spessore, intellettuali, tra cui lo storico Casarubea e l’ex direttore del mitico l’Ora, Fidora. Avete portato avanti, molto coraggiosamente, un’inchiesta che riguarda la Banca Agricola Popolare di Ragusa, la condotta di alcuni magistrati della Procura della Repubblica presso il tribunale di Ragusa; l'assassinio del giornalista de L'Ora Giovanni Spampinato. Era in corso inoltre un'inchiesta su alcune voci di spicco della finanza italiana. Quale di queste pensa possa aver dato maggiore "fastidio"?

"Negli ultimi anni sono state curate numerose inchieste, alcune delle quali restano aperte. Si è fatta informazione sui “movimenti” dei poli commerciali da Misterbianco, nel Catanese, a Modica, sulle presenze e gli intrighi mafiosi di Scicli e di Vittoria, sull’irruzione del gruppo Antonveneta in Calabria e in Sicilia. Le inchieste che hanno determinato le repliche più avventurose e intimidatorie sono tuttavia le ultime, quelle che lei cita nella domanda". "Evidentemente i potentati che ne sono al centro si sono sentiti smascherati".

Il suo ultimo libro "Segreti di banca". L'Antonveneta dai ‘miracoli’ del nord-est agli intrighi siciliani è andato letteralmente a ruba in Veneto. E questo è già di per sé strano. In seguito alla pubblicazione ha ricevuto diversi attestati di stima, anche di addetti del settore finanza. Quali sono insomma i miracoli dell’Antonveneta e quali gli intrighi Siciliani?

"Segreti di banca" si inscrive in un percorso d’indagine avviato da qualche anno, riguardante i lati in ombra di un certo mondo finanziario nelle situazioni di cosiddetta normalità. E ho puntato l’attenzione sull’ Antonveneta perché tale gruppo, fiore all’occhiello della finanza del nord-est, rappresenta al riguardo una vicenda emblematica". "Protagonista indiscusso ne è stato infatti Silvano Pontello, uomo di fiducia di Michele Sindona alla Banca Privata negli anni che ne precedettero il tracollo. Ho cercato di individuare quindi le permanenze di un metodo, di un modo di fare finanza, che ha radici lontane e che tuttavia, appunto con Pontello, un innovatore nel senso schumpeteriano, è riuscito a liberarsi delle scorie più gravose e compromettenti, con il benestare dell’Abn Amro e delle famiglie della Delta Erre che hanno firmato il patto di sindacato". "Gli intrighi al sud e in Sicilia nascono in fondo dalla combinazione di tale metodo con taluni ambienti, da cui sono derivati atti estremi".

Si parla molto poco di Sicilia dell'est, sia nelle cronache locali che nazionali, e di Ragusa in particolare. Di mafia non si parla più, si dice che si sia inabissata. E' come se fosse evaporata ma, soprattutto, scomparsa dall'agenda politica. Uno dei suoi libri, Edizioni La Zisa di Palermo, si intitola Politica e mafia negli Iblei. Cosa ne pensa, "Cosa Nostra" esiste nella Sicilia dell'est?

"Se parliamo di Sicilia, sicuramente si è inabissata la mafia armata, delle lupare e dei kalashnikov, per il ritrovamento, dopo gli anni ruggenti e quelli del ripiego, di un necessario e durevole equilibrio, che invece, per esempio, si è tragicamente rotto nel Napoletano. Ma rimane in auge quella, assai più mimetica, che raggiunge i suoi scopi con il ricatto e l’ intimidazione, con il controllo stringente sui cittadini e sulle città". "A tenere largamente il campo è in sostanza la mafia, tradizionalmente discreta ma vitale, delle situazioni “normali”. E tale presenza la si ritrova in Sicilia come nel Veneto, a Napoli come a Milano, nell’ovest dell’isola come nell’est. Proprio nelle aree che si mostrano più dimesse essa ritrova anzi l ’ambiente più consono per mantenere i propri affari e il controllo sulle cose". "Cosa Nostra rimane un bubbone irriducibile e resta il modello di riferimento per tante realtà territoriali: l’universo dei poteri criminali e del malaffare organizzato, nel paese già ampio e variegato, si mostra nondimeno in espansione, garantito per altro quanto basta dall’attuale quadro governativo. Sullo specifico dell’est siciliano si può dire allora che esiste un radicamento criminale non indifferente, che ha invaso la politica, l’economia, le istituzioni". "Non si tratta di mafia in senso classico, anche se in talune occasioni può diventarlo, ma le metodologie di fondo, quelle della coartazione, dell’attacco al diritto con gli strumenti della minaccia e della rappresaglia, sono del tutto convergenti. Il Procuratore della Repubblica di Ragusa, in un’udienza al tribunale di Messina, ha affermato: "I giornali potevano scrivere quello che volevano". "I giornali purtroppo hanno causato poi il secondo omicidio (quello di Spampinato ndr). Scusi avvocato se lo dico, ma è così".

E il riferimento era naturalmente all’Ora e all’Unità. In merito a tali affermazioni molti intellettuali ma anche tanti semplici cittadini, d’ogni parte d’Italia, si sono indignati. Ed hanno criticato apertamente l’operato di chi rappresenta nella sua veste lo Stato. Stima che la posizione del suo giornale, il fatto di registrare e riportare integralmente le sdegno, abbia influito, in qualche modo, nell’azione della Procura di Ragusa?

"Il rilievo che “accadeinsicilia” ha dato alle frasi del procuratore Agostino Fera, tanto più scandalose se si considera che in quegli eventi degli anni settanta fu parte in causa, e allo sdegno provocato nel paese, ha sicuramente contato sulla decisione di oscurare il sito. Ma, come detto, hanno influito in modo risolutivo le inchieste in corso su Ragusa. Il senso rimane comunque quello della rappresaglia, nelle logiche sopra evidenziate. Tanti cittadini si chiedono, dopo quanto è successo, come possa tale magistrato rimanere al suo posto, che è di alta responsabilità. Ma anche tale condotta è un correlato della “normalità” di cui si diceva".

Chi era, su cosa indagava Giovanni Spampinato? E soprattutto, cosa resta di oscuro sull’assassinio del giornalista? Ci sono gli elementi per riaprire l'inchiesta?

"Govanni Spampinato era un giovane cronista de “L’Unità” e de “L’Ora” che da Ragusa, usando il fiuto oltre alla razionalità, nei primi anni settanta aveva perfettamente compreso che nell’est siciliano, da Catania a Siracusa, da Ragusa a Gela, c’erano troppo conti che non tornavano, troppe cose da capire e da scoprire. E s’impegnò in tal senso, firmando inchieste memorabili". "Fu il primo a indagare su aspetti degenerativi tradizionalmente taciuti e rimossi, come il contrabbando di reperti archeologici fra la Sicilia e la Grecia, che in quegli anni avveniva con l’ausilio di importanti emissari dei colonnelli a Siracusa. Fu, con altri cronisti de “L’Ora,” fra i primi in Italia ad avvertire e a spiegare i nessi che andavano stabilendosi fra ambienti malavitosi, mafia e trame neofasciste". "E non è poca cosa se si considera che solo negli anni ottanta, dopo le prime deposizioni di alcuni rei confessi, venne ufficialmente alla luce l’esistenza di un patto eversivo fra il neofascista Valerio Borghese e i vertici della mafia siciliana. Ovviamente ci sarebbe tanto altro da dire sul giornalismo di Giovanni Spampinato"."Per tanti motivi andrebbe meglio ricordato in questo paese, come Placido Rizzotto, Peppino Impastato e numerosi altri. Su “accadeinsicilia” si è cercato quindi di rendergli giustizia. D’altra parte, reggono ancora troppi insoluti sulla sua uccisione e su quella di un ingegnere del MSI, Angelo Tumino, che ne fu in diretto antecedente. Ed esistono in effetti gli elementi perché si possa riaprire l’intero caso in senso giudiziario. Ma chi dovrebbe farlo oggi? Il procuratore della Repubblica Fera, che, con i suoi colleghi, già allora, da sostituto, fu denunziato dalla stampa democratica italiana come insabbiatore?"

Ha mai percepito di essere andato al di là del Rubicone ovvero del consentito? Che le Vostre inchieste fossero andate oltre? Ha colto qualche segnale”, come avviene spesso in Sicilia, avuto minacce? Quali sono o saranno le vostre prossime azioni? Giuridiche, di mobilitazione civile? Carlo Ruta si sente solo, ha paura, cosa vuole dire a tutti coloro - giornalisti, società civile, politici, semplici e onesti cittadini con la “schiena dritta” - che stanno leggendo in questo istante?

"Sì, questa percezione c’è stata e c’è, ma è una ragione in più per continuare. Segnali, più o meno preoccupanti, se ne sono colti abbastanza, nelle chiavi implicite di cui si è detto, ma non hanno condizionato il lavoro informativo. Per quanto riguarda le azioni prossime, l’impegno primo è quello di continuare le inchieste, a partire da quella sulla BAPR. Riguardo alla situazione odierna, direi che si presenta varia". "Sono giunte numerose attestazioni di stima e di solidarietà, cosa che mi onora, e da tanti è stata espressa una decisa volontà di mobilitazione. Si riscontra tuttavia, fino a oggi almeno e tranne pochi casi, l’assenza della politica e del mondo ufficiale dell’informazione". "Riguardo all’oscuramento, si sa che sarà lungo perché questo è l’intendimento dei magistrati ragusani. Ai primi di gennaio si sarà tuttavia on-line e si sta già lavorando in tal senso. Sicuramente, nessuna parte dell’archivio andrà perduta, malgrado il giudice Vincenzo Saito, cosa davvero allarmante e sintomatica, abbia imposto al server Aruba.it-Technorail di Arezzo la distruzione degli oltre duemila documenti. Su questo è altri fatti scandalosi, provvederemo comunque a informare i lettori di “accadeinsicilia” con delle news letter". "Cosa vorrei dire alla società civile? Spero che faccia sentire il più possibile la sua voce in difesa della libertà d’informazione, oggi sempre più a rischio nel nostro paese".

VIOLENZA E SCHIAVITU’. Violentate nel silenzio dei campi a Ragusa. Il nuovo orrore delle schiave rumene. Cinquemila donne lavorano nelle serre della provincia siciliana. Vivono segregate in campagna. Spesso con i figli piccoli. Nel totale isolamento subiscono ogni genere di violenza sessuale. Una realtà fatta di aborti, “festini” e ipocrisia. Dove tutti sanno e nessuno parla, scrive Antonello Mangano su “L’Espresso”. «Possono prendere il mio corpo. Possono farmi tutto. Ma l’anima no. Quella non possono toccarmela». Alina mi indica un locale in mezzo alla campagna. «Lì dentro succede tutte cose possibili». È uno dei pochi edifici che interrompe la serie infinita di serre. Il bianco dei teli di plastica va da Acate a Santa Croce Camerina. Siamo a Sud di Tunisi, terra rossa e mare azzurro che guarda l’Africa. Siamo nella “città delle primizie”, uno dei distretti ortofrutticoli più importanti d’Italia. Il centro di un sistema produttivo che esporta in tutta Europa annullando il tempo e le stagioni. Gli ortaggi che altrove maturano a giugno qui sono pronti a gennaio. Un miracolo chimico che ha ancora bisogno di braccia. I tunisini arrivarono già negli anni ’80, a frontiere aperte. Le dune di sabbia, il clima rovente, le case cubiche più o meno incomplete ricordavano la nazione di provenienza. Hanno contribuito al miracolo economico della provincia – l’oro verde - e poi sono stati sostituiti senza un grazie. Dal 2007 arrivano nuovi migranti che lavorano per metà salario. I rumeni. E soprattutto le rumene. Nell’isolamento della campagna sono una presenza gradita. Così è nato il distretto del doppio sfruttamento: agricolo e sessuale. Una cascina in aperta campagna. Ragazze rumene sui vent’anni. Un padrone che offre carne fresca ai parenti, agli amici. Ai figli. Tutti sanno e tutti tacciono. Don Beniamino Sacco è il sacerdote che per primo ha denunciato i “festini agricoli”. «Sono diffusi soprattutto nelle piccole aziende a conduzione familiare», denuncia il parroco. Tre anni fa ha mandato in carcere un padrone sfruttatore. Ha subito minacce e risposto con una battuta: «Non muoio neanche se mi ammazzano». La solidarietà è scarsa, anche tra rumeni. Come è possibile che tutto questo succeda nel silenzio generale? Secondo Ausilia Cosentini, operatrice sociale dell’associazione “Proxima”, «la mancanza di solidarietà tra i rumeni, e la loro mentalità omertosa, si incastra con quella altrettanto omertosa del territorio. In più, da qualche mese noto un aumento dell’intolleranza». «Se non ci fossero i migranti, la nostra agricoltura si bloccherebbe», dice all’Espresso Giuseppe Nicosia, sindaco di Vittoria. «C’è una buona integrazione, ma la violenza sulle donne è un peso sulla coscienza di tutti. Un fenomeno disgustoso, anche se in regressione». Giuseppe Scifo della Flai Cgil spiega che allo sfruttamento lavorativo si aggiunge la segregazione. Per questo è stato avviato il progetto “Solidal Transfert”, un pulmino che permette di spostarsi senza dipendere dai padroni. «Ho conosciuto rumeni che non erano mai stati in paese», dice. «Se sei abituato dalla Romania, qui non è tanto più pesante», spiega Adriana con un sorriso. Non è facile crederci ascoltando la storia di Luana, quaranta anni. I due figli l’hanno raggiunta dopo il suicidio del marito in Romania. Lavora in una serra sperduta nelle campagne di Vittoria, vive in un casolare fatiscente nei pressi. La scuola è difficile da raggiungere a piedi. Il tragitto è lungo e pericoloso per due bambini soli. Il padrone è un signore di Vittoria. Si offre generosamente: «Li accompagno io». La sua non è una richiesta disinteressata. In piena notte la chiama. Chiede se i bambini si sono addormentati. Le dice di raggiungerlo sotto un albero. Anche il padrone vive lì, a due passi. Con la moglie e un figlio. Luana teme soprattutto le minacce dell’uomo, ha paura per i bambini. A volte si nega. Lui subito minaccia. «Non li porto più a scuola. Niente acqua da bere. Neanche a te. Qui c’è caldo e l’acqua che diamo alle serre è avvelenata. Vuoi andare al supermercato? È molto lontano». Luana sopporta tutto. Persino quando lui perde la testa e la minaccia con la pistola. Ma quando dice che non porterà più i bambini a scuola, condannandoli all’isolamento più assoluto, pensa che può bastare. Decide di fuggire. Di notte prepara la valigia, prende i bambini per mano. Luana è stata accolta e protetta nel centro di accoglienza dell’associazione “Proxima”. È inserita nei programmi destinati alle vittima di tratta. Come se fosse una storia di prostituzione. Si tratta invece di lavoratrici che producono ortaggi. Quelli che tutti compriamo al supermercato. Dopo un mese ha deciso di andare via. Ora lavora nuovamente nelle serre. Sfruttamento estremo significa anche mancanza di alternative. La storia di Luana è stata raccolta da Alessandra Sciurba, ricercatrice dell’Università di Palermo. Perché le donne accettano queste condizioni? «In genere sono consapevoli di quello che le aspetta. Ma lo fanno per tenere unita la famiglia». Nelle serre puoi vivere coi bambini. A casa di un anziano no. Meglio quindi fare la contadina che la badante. Per questo ci sono nelle serre tante mamme rumene coi bambini. «Possiamo parlare di un estremo esercizio del diritto all’unità familiare». Le rumene vengono da Botosani, una delle zone più povere del paese. Anche lì lavoravano in campagna. «Non potevo stare lontana da Seva, sono troppo attaccata», dice Adriana. Sciurba spiega che le rumene possono essere definite bread winner. Sono le prime a partire. I mariti, se arrivano, arrivano dopo. Intanto gli italiani diventano padroni della loro vita e della loro morte. Sono padroni in tutti i sensi. Le rumene hanno una “considerazione inferiorizzata” di tutti gli uomini: tunisini, rumeni, italiani. «Qualunque cosa possono farci, loro sono niente», conferma Adriana. Un’altra storia raccolta da Sciurba è quella di Cornelia e Marco. Cercavano una situazione tranquilla. Una serra dove portare la bambina e un padrone che tiene le mani a posto. Hanno trovato un lavoro vicino Gela. Dieci ore al giorno, pochi soldi e in nero. La “casa” è una stanza spoglia nel magazzino. «Ma non devi guardare mia moglie», ha chiarito Mario al padrone. Va bene, ha risposto lui. Anche perché c’è un’altra rumena, sposata, che assecondava le sue voglie. Il marito fa finta di niente per non perdere il lavoro. Nella serra ci sono cani da guardia molto aggressivi. Sono addestrati per sorvegliare e controllare i lavoratori. Un giorno un dobermann azzanna Cornelia e la bimba, ferendo gravemente alla coscia la piccola. «Ci sono voluti quasi 100 punti», dice mostrando la gambetta della bimba. «Io la tenevo in braccio e ho cercato di proteggerla ma è stato impossibile fermare il cane». Arrivano i carabinieri, il padrone dice che l’animale passava per caso. Intanto il dobermann viene nascosto. La rumena che ha una relazione col padrone conferma. Cornelia e Marco devono ricevere ancora 5000 euro. Denunciano l’uomo. La bambina dovrà essere sottoposta a intervento chirurgico per fare in modo che il muscolo possa svilupparsi correttamente. Almeno i due non pagavano l’affitto. C’è anche chi chiede fino a 300 euro al mese per un rudere. «Ci sono abitazioni piccole e senza infissi», rivela una ricerca condotta dall’“Associazione per i diritti umani”. «I buchi nel soffitto fanno passare l’acqua piovana. Le mura sono erose dall’umidità. Proliferano i miceti, con conseguenti patologie come l’asma in soggetti, soprattutto in tenera età, prima perfettamente sani. Il tutto nel totale disinteresse del locatario». Nella zona sono intervenuti sia Emergency che Medici Senza Frontiere. Come fosse una zona di guerra e non un distretto produttivo. Spesso gli operatori affermano che certe cose (letti di cartoni, cucine col fornelletto a gas, magazzini adattati ad abitazione) non le hanno viste nemmeno in Africa. È il più spaventoso dei metodi contraccettivi. Vittoria è il primo comune in Italia per estensione delle coltivazioni plastificate e per numero di aborti in proporzione al numero di abitanti. Va avanti così da anni. Spesso le rumene sono giovanissime. Arrivano in ambulatorio accompagnate da uomini, in genere italiani ma a volte anche tunisini e albanesi. «Restano sedute con lo sguardo fisso a terra e gli uomini parlano al posto loro», racconta un’operatrice dell’Asl. «Anni fa un tunisino mi ha portato tre ragazze rumene, tutte incinta, per farle abortire. Parlavano poco. Quando sono rimasta sola con loro mi hanno detto di lavorare nelle serre di cui lui era proprietario». «Nel caso specifico di Vittoria le donne si trovano impossibilitate ad interrompere la gravidanza poiché tutti i medici sono obiettori di coscienza», spiega la ricerca dell’“Associazione Diritti Umani”. Solo all’ospedale di Modica sono presenti medici non obiettori, ma la crescita esponenziale di richieste di aborto porta un allungamento dei tempi di attesa, rendendo impossibile l’aborto entro i tre mesi previsti dalla legge. Alcune donne sono costrette a ritornare nei loro paesi d’origine per abortire. Altre, invece, si affidano a strutture abusive e a persone che, sotto cospicuo pagamento, praticano l’aborto senza averne competenza». Per le vittoriesi la colpa è delle rumene. Sono loro a tentare il maschio siciliano, per sua natura focoso. C’è una fortissima rivalità tra donne. L’“uomo cacciatore”, ovviamente, è orgoglioso delle “conquiste”. Vantarsi di queste cose dentro le serre è normale. Molto complessa la figura del marito rumeno, a volte presente anche lui in serra. Sa e non sa, vede e non vede. Se non accetta la situazione, è il primo a essere cacciato. Di fronte a certi orrori lo sfruttamento sul lavoro passa quasi in secondo piano. Anche se significa salari da dieci euro al giorno, temperature di fuoco sotto i teloni, veleno che può rovinare i polmoni, la pelle, gli occhi. Per non parlare delle “fumarole”. Quando di notte bruciano piante secche e fili di nylon, di mattina si soffoca. Così si produce l’ortofrutta che troviamo in tutti i supermercati. «Abbiamo circa 3000 aziende agricole di piccola e media dimensione», spiega il sindaco Nicosia. «È la più grossa espressione dell’ortofrutta meridionale, oltre che il mercato è il più importante d’Italia di prodotto con confezionato». Nel 2011 risultavano regolarmente registrati 11845 migranti, una stima di quelli che lavorano nelle serre oscilla tra 15mila e 20mila. Migliaia di schiavi che ci permettono di mangiare ortaggi fuori stagione.

FALSI INVALIDI. Ragusa, scandalo falsi invalidi, scrive “Blog Taormina”. Intrecci “viziosi” tra Politica e Sanità: falsi invalidi e raccomandazioni. Un vero ciclone giudiziario si abbatte sugli intrecci tra politica e sanità. La Procura della Repubblica di Modica, guidata dal procuratore Francesco Pulejo, e che qualcuno vorrebbe sacrificare sull’altare della spending review, ha indagato 197 persone tra falsi invalidi, medici e politici, accertando un danno erariale di circa 1 milione di euro. I militari della Guardia di Finanza, nell’ambito dell’inchiesta Guido Tersilli, coadiuvati da un perito medico, tramite intercettazioni telefoniche ed ambientali e lo studio di quasi mille cartelle cliniche hanno scoperto che le invalidità riconosciute dalle Commissioni Mediche ragusane sia dell’ASP, sia dell’INPS sia dell’allora Commissione Medica Provinciale di Verifica venivano spesso artificiosamente aggravate a seguito della segnalazione da parte di esponenti politici con l’aiuto anche di medici estranei alle Commissioni che redigevano certificazioni all’uopo “sistemate”. L’inchiesta era stata resa nota nel giugno scorso quando la Procura di Modica presentò ricorso al Tribunale del riesame di Catania contro il rigetto da parte del Gip dell’emissione di un’ordinanza di custodia cautelare per due ex parlamentari regionali, Innocenzo Leontini (Pdl) e Riccardo Minardo (Mpa) oltre alla richiesta di sequestro di beni, anch’essa rigettata. Tanto è che si aspetta di conoscere l’esito del giudizio da parte della Corte d’Appello di Catania sul ricorso presentato dalla Procura di Modica in ordine al rigetto da parte del G.I.P. dell’applicazione delle misure cautelari di carattere personale nei confronti di 9 degli indagati. Più specificatamente, la spartizione clientelare degli incarichi in seno alle diverse Commissioni da parte delle diverse forze politiche, permetteva ai rispettivi uomini di riferimento, nel caso specifico politici locali e i due ex parlamentari regionali, di “avere una corsia preferenziale per il riconoscimento delle invalidità”. “I medici – dice la GdF – che spesso si proponevano in prima persona o suggerivano propri familiari per ricoprire i prestigiosi e lucrosi incarichi, non perdevano poi occasione per ringraziare e dichiararsi a totale disposizione del loro sponsor. Le segreterie dei due politici raccoglievano in maniera scientifica le richieste di aiuto del proprio elettorato ed attivavano i medici compiacenti perché certificassero prima e poi riconoscessero invalidità inesistenti o percentuali d’infermità più alte di quelle reali, permettendo ai ‘falsi invalidi’ di godere benefici sociali ed economici non dovuti. Gli indebiti riconoscimenti permettevano, infatti, di ottenere ex novo o di veder aumentare l’importo degli assegni mensili erogati dall’Inps, nonché di usufruire di servizi pubblici in esenzione, posti di lavoro riservati alle categorie protette o, più semplicemente, di ottenere agevolazioni ai fini assistenziali da parte dei propri familiari”. Settantaquattro tra medici e dipendenti dell’Azienda Sanitaria, e 9 tra politici e personale di segreteria, sono accusati di associazione per delinquere, truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche e falso ideologico, mentre i 114 falsi invalidi sono accusati di concorso in truffa aggravata, e dovrebbero risarcire il milione di euro fino ad oggi indebitamente percepito. I falsi invalidi, precisa la Guardia di Finanza, saranno sottoposti ad una nuova e più attenta visita medica per accertare le loro reali condizioni di salute, vedendosi comunque bloccati i pagamenti delle indennità da parte dell’ente previdenziale. La Guardia di Finanza di Ragusa non è nuova a queste indagini sui falsi invalidi; ricordiamo che nel novembre del 2012 ha già brillantemente scoperto due coniugi che avevano simulato e aggravato la propria condizione per ottenere i benefici previsti dalla legge per gli invalidi al 100% e per i ciechi civili con le relative indennità di accompagnamento; in questo caso però la Procura di Ragusa non sembra aver rintracciato responsabilità mediche.

LE SCHIAVE RUMENE, LA MAGISTRATURA ORBA ED IL SOLITO RAZZISMO DEL NORD PER UN PROBLEMA COMUNE.

Le schiave e la magistratura orba. Il caso delle schiave rumene è l’esempio eclatante di come la magistratura si muova solo dietro alle telecamere. Come mai le istituzioni nel palese nulla vedevano? Come mai le denunce presentate sono state insabbiate?

Schiave romene: La situazione è gravissima, adolescenti violentate e costrette ad abortire. Prosegue la nostra inchiesta nell'inferno delle campagne vicino a Ragusa. "Mia moglie ha subito continue molestie dal padrone" racconta un uomo alle nostre telecamere. Gli operatori delle Onlus sono stati minacciati. E le interruzioni di gravidanza sono in aumento: "In ospedale arrivano delle bambine, quindicenni che dopo il parto abbandonano i figli", scrive Duccio Giordano su “L’Espresso”. Anche ragazze minorenni potrebbero essere state violentate nelle campagne vicino Ragusa. È difficile dirlo con certezza, ma sono molti i sospetti di abusi sulle lavoratrici straniere costrette dai proprietari di alcune serre a subire violenze: secondo alcune associazioni di volontari gli  aborti nell’ospedale di Vittoria sono in netto aumento. Le richieste, in media, sono circa una mezza dozzina a settimana solo al Riccardo Guzzardi di Vittoria, a cui vanno aggiunte quelle degli ospedali vicini di Ragusa e Modica. Ecco: la maggior parte delle interruzioni di gravidanza riguardano ragazze romene. Alcune, che hanno superato il terzo mese, dopo il parto abbandonano i figli in ospedale. «Quasi tutti i casi che mi sono capitati di trattare - racconta Don Beniamino Sacco, parroco di Vittoria -   riguardano vicende che coinvolgono uomini italiani con giovani ragazze romene». «La situazione qui è gravissima – racconta informalmente un medico dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Ragusa che preferisce rimanere anonimo – i proprietari delle serre sono contadini che vivono nelle campagne, e spesso approfittano della loro posizione. Avendo spesso una moglie a casa, la prima cosa che fanno se nasce un problema con una ragazza romena è quella di costringerla a interrompere la gravidanza. Il meccanismo purtroppo è questo». «Mia moglie ha subito continue molestie dal padrone, le toccava sempre il sedere,  è arrivato a toccarla anche in macchina in mia presenza», ci dice Victor (nome di fantasia)   rumeno di quarant’anni che vive in Italia da nove».

Sicilia, sulle schiave romene si muove il Parlamento. Dopo l’inchiesta dell’Espresso, due interrogazioni parlamentari sul caso delle immigrate dalla Romania violentate e seviziate. Avviato in prefettura a Ragusa l’iter per un protocollo d’intesa che coinvolgerà anche gli agricoltori. E la stampa della Romania si interessa al caso, scrive Antonello Mangano su “L’Espresso”. Dieci deputati hanno presentato due interrogazioni parlamentari sul caso delle donne rumene abusate nelle serre del ragusano. La vicenda è stata portata alla luce da un'inchiesta pubblicata qualche settimana fa sul sito dell'Espresso. Gli esponenti di Sel (Nicchi, Costantino, Palazzotto, Duranti, Bordo, Ricciatti, Pannarale) si rivolgono al ministro della Salute, a quello del Lavoro e dell’Interno: occorre «intervenire affinché ogni presidio ospedaliero sia in grado di garantire la possibilità di abortire alle donne» vittime di violenza. Quattro onorevoli del Pd (Agostini, Lenzi, Pollastrini, Albanella), invece, chiedono ai ministri competenti «quali misure ritengano di dover predisporre al fine di proteggere queste donne». Il caso è stato citato anche durante un intervento alla Camera dell’onorevole Celeste Costantino: «Si devono fare violentare come e quando pare ai [padroni] e siccome mettere un preservativo è cosa fastidiosa meglio portarle a Modica ad abortire. Tanto mica sono, come piace dire alla Lega, “le nostre donne”, sono donne rumene...». Parole che hanno scatenato la contestazione dei deputati leghisti, placati solo dopo l’intervento del presidente dell’aula.

Se vuoi i soldi dammi tua moglie”. Ricatti come questo sono all’ordine del giorno nel silenzio dei campi a Vittoria, in provincia di Ragusa, scrive “Blitz Quotidiano”. Qui vivono circa cinquemila schiave rumene, lavorano nelle serre, vivono segregate nelle campagne isolate e sono spesso costrette ad assecondare le voglie dei “padroni”. Gli italiani, padroni in tutti i sensi, della loro vita, del loro corpo e della loro morte. Le prime querele risalgono a quattro anni fa: alcune coppie di braccianti rumeni tentarono coraggiosamente di sporgere denuncia. Ma quei verbali, oggi riportati alla luce in un’inchiesta del settimanale l’Espresso, caddero nel dimenticatoio. Quelle coppie persero il lavoro e finirono a vivere in un tugurio, nella miseria più totale. Molte altre donne preferiscono tacere. In genere sono consapevoli di quello che le attende. Ma si sacrificano per tenere unita la famiglia. Nelle serre puoi vivere coi bambini. A casa di un anziano no. Meglio fare la contadina che la badante. Ma il guaio è che arrivate in queste campagne diventano schiave: non è solo il loro lavoro ad essere svenduto per pochi soldi, ma anche il loro corpo e la loro dignità. Esiste un programma di protezione anti-tratta, in soli due anni sono stati riempiti ben 12 fascicoli, storie di ricatti e di violenze. Si chiama Solidal Transfert ed è promosso da Cgil e Medici senza frontiere: un pulmino a nove posti copre l’area tra Vittoria, Scoglitti, Acate e Santa Croce Camerina. Accompagna le donne a fare la spesa o alle visite mediche. Per rompere l’isolamento ed evitare i ricatti del padrone. Grazie al programma molte donne si sono fatte avanti e hanno raccontato le loro storie. A chi denuncia viene offerta protezione e l’immediato allontanamento dal luogo della violenza. In modo discreto per evitare che il racket delle schiave rumene le raggiunga ma spesso alcune di loro tornano indietro: “Queste donne mantengono le loro famiglie. Se non si offrono loro alternative credibili allo sfruttamento il circuito non potrà essere spezzato”, ha spiegato all’Espresso, Alessandra Sciurba, che ha curato una ricerca sul tema per “L’altro diritto”, centro di documentazione dell’Università di Firenze. E il progetto va avanti a colpi di proroghe e ad ogni scadenza rischia di chiudere.

"Se tua moglie non sta con me non vi pago". Romene nel ragusano tra ricatti e soprusi. Dopo la nostra inchiesta sulle violenze sessuali nelle campagne ragusane, il territorio si mobilita. Padre Beniamino: “Mi accusano di rovinare il paese, ma non posso tacere”. Le aziende si difendono. Troppi sapevano e hanno taciuto. Ci sono denunce di donne che risalgono a quattro anni fa. Cadute nel vuoto, scrive Antonello Mangano su “L’Espresso”. «Se non mi dai baci, andate via tu e tuo marito». Risale a quattro anni fa la denuncia di una coppia rumena al commissariato di Vittoria. «Finché tua moglie non fa un giorno d’amore con me, non vi pago gli arretrati». Il ricatto finisce nel verbale. Nulla di segreto, la testimonianza si trova anche nel video “Solidal”, prodotto dalla Cgil e reperibile in rete. Ma la denuncia cade nel vuoto, la coppia rimane senza lavoro e va a vivere in un tugurio in campagna. Non tutti denunciano. Il programma di protezione anti-tratta ha raccolto dodici fascicoli in due anni di attività. E qualche rumena è tornata in serra. Perché? «Queste donne mantengono le loro famiglie. Se non si offrono loro alternative credibili allo sfruttamento il circuito non potrà essere spezzato», spiega Alessandra Sciurba, che ha curato una ricerca sul tema per “ L’altro diritto ”, centro di documentazione dell’Università di Firenze. Dopo l’inchiesta de l’Espresso sulle lavoratrici rumene sfruttate sessualmente, il territorio si è mobilitato. Molti in difesa del comparto produttivo e della serietà della maggior parte delle aziende. Ma c’è chi chiede interventi risolutori. «Per i cittadini comunitari è necessario sganciare residenza e reddito, permettendo quindi a tutti di iscriversi all’anagrafe e da lì cominciare a rivendicare diritti», propone Sciurba. «Occorre distribuire meglio la ricchezza che nel territorio c’è. Ci sono aziende che rispettano i contratti e altre che fanno concorrenza sleale con i sottosalari. E bisogna potenziare i programmi anti-tratta», spiega il sindacalista Peppe Scifo della Flai. «Abbiamo pochissime risorse per fronteggiare un problema di dimensioni sempre più vaste». Il progetto “Solidal transfert” promosso da Cgil e “Medici senza frontiere” ha permesso l’emersione di molte donne. Grazie a quel programma conosciamo le loro storie. Eppure va avanti a forza di proroghe. Se non ci saranno novità rischia di fermarsi a fine anno. Un pulmino a nove posti copre l’area tra Vittoria, Scoglitti, Acate e Santa Croce Camerina. «Accompagniamo le donne a fare la spesa o a una visita medica. A volte persino a cercare acqua potabile», dice a l’Espresso Emanuele Bellassai della cooperativa Proxima. Così si rompe l’isolamento, si evitano i ricatti del padrone. E si ascoltano storie terribili. Le donne che denunciano vengono inserite in un programma di protezione che prevede l’allontanamento dal luogo della violenza e l’ospitalità. In maniera più discreta possibile, per evitare che le vittime possano essere rintracciate e subire altre intimidazioni. Il rapporto di Proxima fa venire i brividi: «Le donne si lamentano delle aberranti condizioni igieniche in cui versano gli alloggi, spesso messi a disposizione dei datori di lavoro. Veri e propri tuguri, angusti e, in alcuni casi, senza neanche l’energia elettrica». Anche la Chiesa non fa mancare il suo impegno. «Abbiamo accolto alcune donne rumene in stato di gravidanza in parrocchia», racconta Padre Beniamino Sacco, il primo a denunciare i “festini agricoli”. «Dicono che c’è il consenso della donna? In stato di disagio economico non hai diritto a dire no. Si tratta di violenza. La dignità di queste donne è offesa dall’atteggiamento di “padronanza”. C’è chi pensa di poter usufruire della vita degli altri come vuole e quando vuole». «La direttiva europea sulla tratta, che certamente ricomprende casi come quello del ragusano, dice che la “posizione di vulnerabilità” di queste donne deriva dal fatto di non avere altre alternative che cedere all’abuso. La questione del consenso è irrilevante», conclude Sciurba. «Nessuno vuole generalizzare, la maggioranza dei produttori è onesta. Ma questi fenomeni non sono isolati», spiega padre Beniamino. «Qualcuno mi accusa di aver rovinato il paese per aver difeso gli immigrati. Sono orgoglioso di essere stato dalla loro parte. Non potevo tacere». Le violenze sessuali sono solo la punta dell’iceberg. Ad agosto un lavoratore del Bangladesh è stato ucciso in piena campagna con una coltellata all’altezza del cuore. Misterioso il movente, forse legato al racket delle giornate agricole. Sicuramente la spia di una violenza ormai diffusa. «Nei nostri viaggi col pulmino incontriamo troppi lavoratori in nero, non contrattualizzati», racconta Bellassai. «Ho visto migranti con crediti da riscuotere per 4mila euro. Per mesi hanno ricevuto solo acconti. I soldi si accumulavano. “Quando vendiamo i prodotti al mercato ti pagheremo”, rispondevano i padroni». Anche gli uomini subiscono prevaricazioni. Un rumeno è caduto dalla scala su cui lavorava, per lui una frattura al braccio. «Da 22 mesi aspettiamo un’ispezione in quell’azienda» conclude Bellassai. «Registriamo troppa lentezza nella burocrazia».

Arrivate per fare le braccianti, vivono in baracche senz'acqua potabile accanto alle serre. Alcune finiscono a fare le prostitute nelle discoteche rurali, la maggior parte resta intrappolata in un concubinato con i padroncini.

I festini agricoli e gli aborti delle mille schiave romene, scrive  Dario Di Vico su “Il Corriere della Sera”. Nell’epoca di Facebook, del tutto-in-Rete e dei conflitti gridati, esistono ancora i drammi sordi. Quelli che si consumano nel silenzio, nello scorrere uguale di giorno/notte e trasformano gli scandali in abitudini. Dopo le accuse di don Beniamino Sacco e della Cgil sullo sfruttamento delle romene nelle campagne di Vittoria, capitale del pomodoro ciliegino e datterino, ci si comincia a chiedere cosa succeda veramente nella zona che va da Scoglitti ad Acate, su su fino a Ragusa. Vista dall’alto la piana del pomodorino appare un’immensa distesa di plastica che ricopre migliaia di serre. Qui si sta consumando uno di quei drammi sordi: un migliaio e più di romene immigrate in Sicilia, isolate nella campagne è vittima di un assoggettamento che non è più solo economico ma ha invaso la sfera sessuale. Don Sacco denuncia i «festini agricoli» che si tengono di quando in quando, un triste bunga bunga del ceto medio proprietario in cui il piatto ricco sono le donne venute dalla Romania. Ma anche a non ascoltare il parroco basta girare per il Vittoriese per imbattersi in discoteche rurali dai nomi ammiccanti come «Sesto senso» e «Dolce vita». Mancano solo «Colpo grosso» e Umberto Smaila. Purtroppo c’è poco da ridere e la dimostrazione sta nel nuovo fenomeno che inquieta i religiosi e non solo. Vittoria sta diventando terra di aborti, nessuno sa con precisione i numeri ma si parla di una crescita esponenziale (5-6 a settimana per una città di 60 mila abitanti) e perfino l’avvocato Giuseppe Nicosia, sindaco piddino di Vittoria, che alle prime voci aveva difeso il buon nome della città oggi ammette che «mi sono stati riferiti numeri pesanti e ho chiesto all’azienda sanitaria un riscontro ufficiale». Le serre hanno rappresentato una svolta per l’agricoltura locale, hanno destagionalizzato la produzione e permesso di entrare nel ricco mercato delle primizie. Da qui la nascita di un imprenditorialità diffusa che il Pci, egemone in città, aveva favorito con lo slogan «qui la terra si acquista, non si conquista». A Vittoria sono 3 mila le piccole aziende agricole e diventano 5 mila con i comuni limitrofi. La maggior parte ha dai 2 ai 4 dipendenti, pochissime vanno oltre i 50. I padroncini lavorano come muli presentandosi in azienda alle 5 e tornando in paese non prima delle 18, ma nel tempo hanno potuto comprare case in città e al mare, mandare in giro mogli e figli griffati di tutto punto. Oggi il Bengodi non c’è più, il pomodorino alla produzione rende 10 cent al chilo e poi lo si trova sui banchi dei supermercati anche a 1,5 euro. La pressione sul lavoro si spiega anche così, si scarica in basso la competizione sui prezzi e negli anni c’è stato un ricambio totale della forza lavoro. I tunisini che avevano popolato le campagne ragusane sono stati sostituiti dai romeni diventati comunitari nel 2008. I maghrebini erano più professionalizzati, attenti a esigere salari regolari e costituivano una comunità coesa e solidale. I romeni sono il contrario. Accettano salari più bassi (massimo 25 euro e in piena evasione Inps), spesso vengono saldati solo a fine stagione ma soprattutto non costituiscono una comunità capace di difendersi. Oltre il 40% della manodopera romena è fatta di donne, arrivate in autobus dalla zona di Botosani perché hanno da mantenere qualcuno in patria: quasi sempre un bambino nato presto da una relazione instabile o finita male. Se in tutto i romeni di questa zona sono 4 mila le donne saranno 1.600-1.800, hanno un’età che va dai 20 ai 40 anni e faticano nelle serre per 11 ore sei giorni alla settimana. Il pomodoro cresce in altezza, va curato e accudito con i fitofarmaci, legato con lo spago, messo al riparo dalla muffa. Il guaio è che i braccianti venuti dall’Est vivono accanto alle serre. Le abitazioni sono ex depositi attrezzi o baracche, i muri sono senza intonaco, i pavimenti in terra battuta, i servizi all’esterno. Si vive e si dorme in una condizione di degrado e isolamento: nella Sicilia sud-orientale città e campagna sono mondi distanti tra loro un secolo. Vittoria ha i suoi negozi alla moda, ristorantini e locali per l’aperitivo, tantissimi voti per i 5 Stelle. Nelle contrade i soldi bastano alle romene appena per sopravvivere e mandare qualcosa in patria ai figli e alle zie vere/presunte che li tengono con loro. È questa la base materiale del ricatto implicito dei padroncini, l’assoggettamento si è allargato e le braccianti sono diventate vittime delle attenzioni maschili. Don Sacco sa molte cose e le racconta, i fedeli con lui si aprono più che con il sindacato e le autorità. Ne viene fuori uno spaccato in cui la proprietà sessuale è diventata fenomeno di costume. Mancano episodi di violenza gridata, casi da cronaca nera e ambulanze che corrono in ospedale, il sopruso è perversa e grottesca abitudine. Il sacerdote non ha peli sulla lingua: sarebbero tra le 1.000 e le 1.500 le donne romene in balia dei loro padroni. Alcune avrebbero addirittura preso la strada della prostituzione, altre (poche) all’opposto sarebbero diventate buone mogli di campagna, qualcuna aspetta sempre che il padrone lasci la moglie ma il grosso è catalogabile in un’area grigia di concubinato forzoso dalla quale non si esce. Chi perde il lavoro perde anche l’alloggio. L’arroganza machista dei padroncini si spinge al punto di non usare il preservativo e la consuetudine diventa dramma con il ricorso all’aborto. In qualche caso (raro) i tempi-limite sono trascorsi e sono nati dei bambini. Le signore di Vittoria non hanno preso di petto la questione, vivono lontane dal luogo dei misfatti, sono coetanee dei loro mariti e figlie di altri padroncini, tutte casalinghe e in fondo anche loro non possono giocarsi il posto di moglie. Qualcuna va dal parroco e se la prende con le romene accusate di lavorare in abiti succinti (nelle serre ci sono anche 50 gradi!), le altre chiudono le orecchie se l’uomo spiega che d’estate preferisce dormire in campagna. I mariti hanno tra i 50 e i 60 anni, un livello di istruzione bassa e sanno che negli affari la pacchia è finita. Sono abituati a comandare e via via hanno trovato naturale impadronirsi anche della libertà sessuale delle dipendenti. Il sindaco Nicosia ha paura che ne derivi una campagna contro la città o che il ciliegino diventi sinonimo di schiavismo e venga boicottato. Il primo articolo scritto sul sito dell’Espresso dal giornalista siciliano Antonello Mangano lo ha colpito, le successive telefonate delle tv lo hanno allarmato. Oggi con sincerità dice: «Ammiro e rispetto Don Sacco per quello che fa in città con la sua casa accoglienza, non parla mai a caso e anche quando mi critica penso che faccia bene perché accende i riflettori sullo sfruttamento e l’incultura». Il parroco nell’azione moralizzatrice ha come alleata la Flai-Cgil locale. Uno dei segretari, Beppe Scifo, conosce tutto delle campagne ragusane, non sta in sede ad aspettare i migranti ma con un pullmino gira quando cala il sole, è un piccolo Di Vittorio che ne sa anche di sociologia. Non ama le espressioni roboanti, preferisce il sindacalismo dei gesti concreti. Con lui nella rete della solidarietà per i migranti lavora anche la cooperativa Proxima che si occupa dei casi più spinosi, ragazze madri di varie etnie vittime di violenza e abbandono. Tra loro c’è solo una romena. Il grosso resta invisibile nella segregazione e nella promiscuità. Sarà difficile farle uscire da questo tunnel, l’eco delle polemiche sul caso di Vittoria forse non arriverà alle loro orecchie. Chi le volesse salvare dovrebbe portarle fuori dai tuguri in cui vivono, ospitarle in case albergo e portarle al lavoro con i pullmini. Costa ma non è impossibile. L’Italia del 2014, la società civile che ha imposto le quote rosa, sarà capace di questo gesto di civiltà?

Braccianti e schiave sessuali a Ragusa. Il Parlamento indaga sui festini agricoli, scrive Luisa Pronzato su “Il Corriere della Sera”. Difficile farle denunciare. Le operaie agricole rumene che lavorano nella “fascia trasformata” del ragusano sono sfruttate, segregate, abusate. E ricattate dai loro padroni. Violenza economica e sessuale oscurate da omertà, impossibilità di scelta, isolamento, pregiudizio. Quella che sta emergendo in questi giorni è una storia di donne in schiavitù. Alla mercè delle voglie di padroni che usano i figli e l’acqua potabile (in quelle zona l’acqua del rubinetti è avvelenata) in cambio di sesso per sé e per gli amici. Di festini a cui non ci si può negare pena il licenziamento. Di donne che hanno scelto il lavoro in campagna perché fare le badanti o le colf non permette di portare con sé i figli e perché erano già contadine nelle campagne rumene. Sono violenze non scoperchiate perché non ci riguardano e perché avvengono in luoghi remoti. Piccole, piccolissime proprietà sparse nelle campagne tra Vittoria, Acate e Santa Croce Camerina, in provincia di Ragusa, sulle quali le culture stagionali sono state sostituite da quelle intensive nelle serre, appunto terre “trasformate” dove il lavoro, e la presenza immigrata, dura tutto l’anno, le temperature sono altissime d’estate e basse d’inverno, i fitofarmaci dei diserbanti ammorbano l’aria. Le abitazioni sono catapecchie di pietra o legno e cellofan di cui spesso si paga l’affitto che il padrone detrae dalla paga giornaliera, 15-20 euro distribuiti ad acconti che spesso restano in sospeso. Diventando merce di scambio e costrizione per prestazioni sessuali delle donne che di giorno lavorano in serra. I “festini agricoli”, denunciati nel 2011 da un parroco, don Beniamino Sacco e dalla Flai-Cgil (il sindacato dei lavoratori dell’agro-industria), avevano dato anche altri frutti: Vittoria è tra i primi comuni per il numero di richieste di interruzioni di gravidanze in proporzione al numero di abitanti. A Vittoria, però, tutti i medici sono obiettori. E all’ospedale di Modica dove sarebbe possibile effettuarle, la lista di attesa si è allungata rendendo impossibile l’aborto nei primi tre mesi. Quelle che stanno emergendo sono storie di sfruttamento raccolte sul Social Transfer, il pulmino allestito da Flai-Cgil e Proxima per limitare l’isolamento di chi lavora nelle serre. Come quella di Luana, raccontata sul sito di Melting Pot Europa da Alessandra Sciorba, ricercatrice dell’Università di Palermo che si occupa di donne migranti. «La scuola è lontana dalla serra, difficile e pericolosa da raggiungere a piedi e spesso i bimbi approfittano del passaggio offerto dal datore di lavoro. In cambio di questo “favore”, e per mantenere il lavoro e l’alloggio, Luana asseconda le richieste sessuali di quest’uomo la cui abitazione, dove vive con la moglie e un figlio, è all’interno della serra. Luana è esasperata da questa situazione e terrorizzata dalle continue minacce, teme soprattutto eventuali ritorsioni sui bimbi. Una notte, grazie all’aiuto del Solidal Transfert riesce a raccogliere tutte le sue cose e a scappare e con i suoi figli. La molla che ha fatto scattare la ribellione è stata la minaccia di non portare più i ragazzi a scuola. Lui aveva smesso di farlo perché la scuola era l’unico contatto che loro potevano avere con la realtà cittadina e quindi avrebbe potuto fare emergere il problema». Nell’assenza delle istituzioni locali, il Solidal transfer – il mezzo se non hai i mezzi, trasportando verso i centri abitati offre consulenze, raccoglie testimonianze. Un progetto realizzato dalla cooperativa Proxima impegnata nella lotta alla tratta, dalla Flai e da Medici senza frontiere. Un servizio di trasposto come primo soccorso all’isolamento che collega le campagne sperdute con i centri abitati e su cui oltre agli operai e alle operai agricole viaggiano operatori sociali, sindacalisti, medici e da qualche mese anche una mediatrice culturale rumena. Piccoli viaggi verso supermercati, medici o solo per fare quattro passi tra la gente. «Percorrendo in lungo e in largo le contrade dove lavorano e vivono i lavoratori e le lavoratrici rumeni in totale isolamento abbiamo potuto fare qualche azione di tutela individuale nei confronti di lavoratori che non venivano pagati», racconta Pepe Schifo del Flai Ragusa che ha messo in campo il sindacato di strada. «Durante questi percorsi ci hanno colpito alcune donne e in seguito abbiamo registrato casi di abusi sessuali per questo ci siamo collegati alla rete nazionale anti-tratta del dipartimento delle Pari Opportunità. Ma non è la tratta che conosciamo». È più subdola. Una coercizione da cui è difficile uscire perché le serre sono isolate e chi ci lavora è totalmente dipendente dal “padrone” o dai suoi emissari. Negli ultimi giorni i festini e la schiavitù delle terre della fascia trasformata sono arrivate alle cronache. Dieci deputati hanno presentato due interrogazioni parlamentari. Gli esponenti del Sel si sono rivolti al Ministero della Salute, del Lavoro e dell’Interno, quattro onorevoli del Pd chiedono ai ministri «quali misure ritengano di dover predisporre al fine di proteggere queste donne». Celeste Costantino è intervenuta alla Camera «Si devono far violentare come e quando pare ai padroni e siccome, mettere un preservativo è cosa fastidiosa, meglio portarle a Modica ad abortire. Tanto mica sono le nostre donne, sono donne rumene». Lo stesso motivo per cui nei paesi della “fascia” la gente sapeva, le donne sapevano. Maa, si sa, “le rumene tentano”… e “l’uomo è cacciatore”… (come riporta L’Espresso in un’ inchiesta partita dai racconti di  Alessandra Sciorba). Oltre a “cacciare” gli uomini, come si andava dicendo nei paesi coinvolti, si erano «innamorati della campagna», avevano smesso di tornare a casa alle 5, come in passato. E vantavano orgogliosamente le bravate erotiche. Il fatto tra gli abitanti e le istituzioni locali non ha mosso né indignazioni né azioni. Oggi una delegazione di dieci parlamentari accompagnata dalla Flai  arriva in provincia di Ragusa. Una visita conoscitiva. «Cercheremo di stipulare i primi protocolli di intervento», dice Erasmo Palazzotto (Sel) che lunedì ha incontrato il prefetto di Ragusa. «Non si possono pensare risposte solo repressive. Attiveremo prime soluzioni tampone, prendendo contatto con i servizi per assicurare assistenza sociale e sanitaria e volontariato anche perché i finanziamenti a Proxima, come tutti quelli che riguardano l’articolo 18 e dell’articolo 13 che hanno sostenuto la lotta anti-tratta, scadono il 31 dicembre. E poi chiederemo alle organizzazioni dei produttori di fare la loro parte: espellere dalla categoria chi non rispetta i diritti sindacali, fa violenza e abusa delle lavoratrici». I riflettori mediatici, le interpellanze e la visita dei parlamentari riusciranno a sconfiggere quello che il pregiudizio ha tenuto sotto terra?

La «brava gente» italiana e le schiave di Vittoria, scrive Massimiliano Perna direttore de il megafono.org. Il mio amico e (ottimo) collega Antonello Mangano, poco più di due settimane fa, ha pubblicato su l’Espresso un’inchiesta su Vittoria e sulla condizione terribile delle lavoratrici rumene nelle campagne della omonima piana, nella parte occidentale della provincia di Ragusa. Lavoratrici a bassissimo costo, ma soprattutto vittime di un ricatto mostruoso, fatto di ripetute violenze sessuali da parte dei padroni, dei familiari e degli amici di questi. Una storia che conoscevo e che va avanti da anni, nell’indifferenza dell’opinione pubblica, delle istituzioni, di una parte della stampa. Per fortuna, però, non di tutti. Perché c’è stato anche qualcuno che a tutto ciò si è ribellato. Padre Beniamino Sacco (di cui anche Antonello scrive nel suo articolo) ha denunciato già anni fa il fenomeno, dandosi da fare per liberare queste moderne schiave e subendo per questo numerose intimidazioni. L’orrore, però, continua ugualmente, perché il fenomeno è diffuso e si svolge nel silenzio e nel buio delle campagne, dei casolari, delle serre che danno i prodotti che finiscono sulle nostre tavole. Prodotti spesso sporchi di sangue, lividi e graffi, segni indelebili della violenza di sfruttatori senza scrupoli, di maschi bestiali che azzannano la carne e l’anima di queste donne. Il tutto in un’Italia che toglie diritti e dignità, un’Italia in cui accade perfino che le signore (?) del posto diano la colpa alle vittime, alle “rumene”, indicazione geografica che viene di colpo trasformata in etichetta dispregiativa. Donne italiane, dunque, che alla violenza di uomini bruti aggiungono quella verbale e psicologica nei confronti delle vittime con cui, invece, dovrebbero solidarizzare e che dovrebbero anzi aiutare a ribellarsi. L’ho respirato tante volte il puzzo marcio di questo razzismo, questo irritante verdetto “etnico” di colpevolezza all’incontrario. Lo sento spesso anche qui al nord, sulla bocca crudele di ragazze e signore italiane (soprattutto quelle con le borse firmate, le scarpe lussuose e l’indifferenza a prezzo di saldo), le quali, per coprire la sporcizia morale dei loro fidanzati, mariti, padri, figli e fratelli, cuciono un velo di offese e di accuse razziste rivolte a donne provenienti dall’estero, anzi da una precisa area geografica a cui attribuire usi e comportamenti totalmente falsi. Mai una volta che pensassero alla violenza subita, a cosa significhi uno stupro, a quanto sia disumano trovarvi una giustificazione di qualsiasi tipo. La solita ipocrisia dell’italiano (o italiana) che di solito strepita di fronte a un reato, anche meno grave, commesso da un cittadino straniero, e poi rifiuta di prendere coscienza delle proprie responsabilità e della crudeltà della propria gente, quando lo straniero (o straniera) ne è la vittima. A Vittoria, come in altre parti d’Italia (basti pensare a quanto raccontato, in passato, da Fabrizio Gatti a Foggia), sono tantissimi e frequenti gli stupri nei confronti di lavoratrici straniere, senza diritti, sotto ricatto, costrette a subire per non perdere l’unico diritto a cui provano ad aggrapparsi: quello alla sopravvivenza. Lavoro sottopagato e alloggio misero, in cambio di qualsiasi servigio sessuale. Se ti rifiuti ti minacciano e rischi, come minimo, di non lavorare più e di non poter far mangiare i tuoi figli. Schiavismo sessuale, in cui i carnefici sono maschi, soprattutto italiani, che poi possono raccontare le loro avventure e sentirsi forti e belli, “machi”, magari omettendo la parte fondamentale: il ricatto. Un’abitudine che il maschio nostrano evidentemente non ha perso. Una volta, gli italiani medi (e anche parecchio schifosi) partivano verso l’Est europeo, che era ancor più povero di adesso, con le valige piene di calze da donna e di penne. Andavano lì e sfruttavano la miseria della gente, regalavano qualcosa in cambio di favori sessuali di cui poi vantarsi al ritorno in patria. Qualcuno ancora pare faccia lo stesso a Cuba, in alcune zone del Brasile, in Asia e in tante altre parti del mondo, se è vero che gli italiani di qualsiasi età risultano avere il primato del turismo sessuale (con vittime sempre più giovani e spesso bambini) e nello sfruttamento sessuale della povertà altrui. La testa non è mai cambiata. Il maschio, ossessionato dall’idea di sentirsi “conquistatore”, si compra la preda con qualsiasi mezzo. Adesso lo fa direttamente in Italia, a casa propria, ampliando l’ambito di applicazione della costrizione e del ricatto. Don Sacco e le associazioni che da anni si battono contro questo squallore, contro questa violenza terribile, sono riusciti a salvare molte donne dall’inferno, ma lo Stato, quello che dovrebbe intervenire con retate, condanne, celle che si chiudono e sequestri di campagne e aziende agricole, non c’è. D’altra parte siamo nel Paese che odia le donne, la patria del femminicidio, delle norme che non consentono ancora di fermare in anticipo un potenziale assassino, delle sentenze della Cassazione che riducono le pene per lo stupro e ammettono assurde attenuanti. Siamo soprattutto nel Paese nel quale del destino dei migranti, alla maggior parte dei cittadini, non importa niente, e nel quale davanti alle vittime di una violenza terribile come quella di Vittoria si ragiona con un agghiacciante “ben gli sta!”. Perché è chiaro che, nonostante i fatti di cronaca di cui tv e giornali sono pieni, gli italiani continuano a considerarsi “brava gente”, incapace di compiere misfatti di tal genere. Così, nel perverso immaginario collettivo, i carnefici diventano vittime e sulle vittime si scarica il peso di una colpa che non hanno. Le istituzioni e la politica, specchio triste di questo Paese, ripropongono la stessa logica senza far nulla per ristabilire un minimo di giustizia e garantire il rispetto dei diritti umani in aree che, da anni, sono teatro di tale inaccettabile miseria morale. Allora ci sarà sempre qualcuno che ne scriverà, qualche altro che si indignerà per un paio d’ore o un giorno, la maggioranza che se ne infischierà. E poi, sul campo, ci saranno quei pochi giusti che, con mezzi ridotti e spirito di sacrificio, faranno il possibile, tra difficoltà e minacce, per salvare qualcuno e restituirgli un po’ di libertà e di vita. Ma la violenza non si scompone, li mette in conto questi “disturbatori”, perché sa che, tanto, molte altre vittime rimarranno costrette a saziarla. Nel silenzio complice di un’Italia indifferente e di uno Stato immobile.

Caporalato e mafie: “700mila schiavi nell’agricoltura italiana”. Il Flai-Cgil presenta il primo rapporto su un fenomeno che non tocca solo le regioni del Sud. Dietro il cibo che arriva sulle nostre tavole ci sono stagionali stranieri pagati 4 euro l'ora in condizioni fuori da ogni regola. E spesso sotto il controllo mafioso, scrive Elena Ciccarello su “Il Fatto Quotidiano”. In Italia vive una popolazione di “invisibili”. Stranieri che lavorano nelle campagne, lontano dagli occhi dei centri abitati, spesso alloggiati in tuguri fatiscenti, sfruttati e mal pagati da caporali e imprenditori nostrani. Da nord a sud, il loro impiego nelle campagne è capillare. È anche grazie alle loro braccia se certi prodotti arrivano sulle nostre tavole, eppure la loro vita resta confinata nel silenzio. Secondo il primo Rapporto su caporalato e agromafie realizzato da Flai Cgil, si tratta di circa 700mila lavoratori tra regolari e irregolari, di cui circa 400mila coinvolti in forme di caporalato. Braccianti che si riversano ogni anno nella campagne in arrivo da altre nazioni o spostandosi internamente, tra le regioni italiane, per soddisfare i picchi della produzione e della lavorazione di prodotti agro-alimentari su tutta la penisola. Spesso protagonisti, loro malgrado, di storie di vulnerabilità e sfruttamento, al limite della schiavitù. Diversamente da quel che si può credere però lo sfruttamento non riguarda solo il mezzogiorno, ma anche le zone più floride del nord, come Piemonte, Lombardia, provincia di Bolzano, Emilia-Romagna e Toscana (guarda la mappa completa). In tutti questi territori, come in Campania, Basilicata, Puglia, Calabria e Sicilia, i ricercatori della Flai Cgil hanno scovato datori di lavoro e imprenditori che truffano o ingannano i lavoratori stranieri, non corrispondendo loro i salari maturati, o facendoli lavorare in nero, accompagnando il trattamento con minacce più o meno velate e forme di violenza psico-fisica (manifeste o paventate). In Italia il mondo del caporalato si è evoluto, lo racconta nel rapporto Yvan Sagnet, portavoce dei braccianti che hanno organizzato lo sciopero di Nardò (Lecce) nell’estate del 2011 e oggi impegnato nella Flai-Cgil in Puglia: “Ci sono i caporali e ci sono i sotto-caporali. Perché i caporali non possono gestire tutto. Il caporale può avere quattro o cinque campi di raccolta e manda i suoi assistenti a gestire i lavoratori. Ha una squadra, ha gli autisti, degli assistenti, ha i cuochi. A Nardò c’era il ‘capo de capi’, era un tunisino. Poi c’erano altri caporali che lavoravano per lui. Nell’agro di Nardò erano tra 15 e 20 e controllavano tra i 500 e i 600 lavoratori”. Le paghe per i lavoratori sono però sempre da fame. “Un bracciante agricolo che lavora nelle campagne di Foggia in Puglia, a Palazzo San Gervasio in Basilicata o a Cassibile in Sicilia verrà pagato a cottimo, ovvero 3,5 euro il cassone (per la raccolta dei pomodori), mentre verrà pagato 4 euro l’ora nelle campagne di Saluzzo nel Piemonte, di Padova, nel Veneto o a Sibari in Calabria per la raccolta degli agrumi. Il tutto in nero, su intere giornate comprese tra 12 e 16 ore di lavoro consecutive a cui vanno sottratti: i 5 euro di tasse di trasporto, 3,5 euro di panino e 1,5 euro di acqua da pagare, sempre al caporale”. A questa situazione di sfruttamento si somma la voracità dei gruppi mafiosi. Il caporalato, che è entrato nel codice penale solo nel 2011, è infatti un “reato spia” di infiltrazioni criminali nel settore. Una presenza significativa, ma ancora quasi del tutto inesplorata a livello giudiziario. Si stima che il giro d’affari connesso alle agromafie sia compreso tra i 12 e i 17 miliardi di euro, il 5-10% di tutta l’economia mafiosa. Quasi tutto giocato tra la contraffazione dei prodotti alimentari  e il caporalato. Solo la contraffazione è cresciuta negli ultimi dieci anni del 128%, per un valore di 60 miliardi di prodotti che ogni anno vengono commercializzati nel mondo come falso Made in Italy. “L’agricoltura è anche uno dei settori prediletti per il riciclaggio dei soldi dalle organizzazioni criminali tradizionali – scrive Yvan Sagnet – Ad esempio l’agricoltura foggiana subisce forti condizionamenti da parte della camorra. Durante la stagione agricola centinaia di camionisti partono quotidianamente dalla Campania verso le campagne foggiane, affittano le terre ai contadini con il cosiddetto fenomeno del “prestanome”, e trasportano la merce verso le imprese del salernitano”. Le mafie si occupano anche dei mercati dell’ortofrutta, infiltrando la grande distribuzione. “Le inchieste analizzate in quest’ultimo anno, svolte in particolare dalla Direzione distrettuale antimafia di Napoli, hanno visto implicate imprese di tutto il sud Italia con ramificazioni anche nel nord del Paese e hanno disvelato l’esistenza di un sistema di gestione dei grandi mercati agricoli nazionali pesantemente influenzati dalle organizzazioni mafiose”, scrive nel rapporto Maurizio De Lucia, magistrato della Direzione nazionale antimafia.Purtroppo neppure le nuove, e importanti, misure varate nel settembre del 2011 (introduzione del reato di caporalato) e nel luglio del 2012 (concessione del permesso di soggiorno ai lavoratori che denunciano i propri sfruttatori), sono riuscite ancora ad incidere significativamente sulla grave situazione delle campagne. Eppure i dati rilevati sono già significativi. Da gennaio a novembre del 2012 sono 435 le persone arrestate per riduzione in schiavitù , tratta e commercio di schiavi, alienazione e acquisto di schiavi. Dall’entrata in vigore della norma che istituisce il reato di caporalato le persone denunciate o arrestate sono solo 42. La metà degli arresti al centro-nord. “Parliamoci chiaramente, per gli imprenditori il costo del lavoro italiano è altissimo. Ciò non giustifica l’assunzione di personale in nero, ma è indubbio che questo fenomeno esiste proprio per sfuggire alle maglie di questo meccanismo, soprattutto in questa grave crisi”. Il Procuratore di Foggia, Vincenzo Russo, non usa mezzi termini. “È come l’evasione fiscale. Quanto più alta è la tassazione, tanto più i soggetti sono invogliati ad evadere. Questo è indubbio. Quindi, se il costo del lavoro diminuisse, probabilmente diminuirebbero anche questi fenomeni”.

Sfruttamento nei campi: succede anche al nord, scrive Luigi Riccio su “Corriere Immigrazione Franciacorta, Chianti, Castelnuovo Scrivia: anche qui migranti vessati e ricattati. Rosarno non è poi così lontana. Lavoro nero, caporalato e sfruttamento dei migranti rappresentano un elemento per così dire strutturale nell’agricoltura del mezzogiorno d’Italia. E’ un fatto risaputo e documentato nel tempo da molti articoli e da studi e ricerche. Una delle più recenti è quella coordinata da Enrico Pugliese (Diritti violati, coop Dedalus). Ciò che è decisamente meno noto è che anche al Nord, in regioni e contesti insospettabili, questo costume si è ormai radicato e migranti sottopagati, costretti a orari impossibili e sforzi abnormi fanno sempre più spesso da sfondo al paesaggio agricolo. Succede, per esempio, in Franciacorta, sulle colline tra Brescia e il lago d’Iseo, dove si concentrano aziende vitivinicole tra le più celebri d’Italia e si producono bollicine di elevata qualità, in grado di competere con quelle francesi. Qui non ci sono rotonde con immigrati assonnati ad attendere il caporale ma questo non significa che il caporalato sia assente. La vendemmia in Franciacorta impegna ogni anno circa 4000 lavoratori stagionali, in maggior parte (70%) stranieri. Sono polacchi, romeni, moldavi. A portarli in Italia decine di pullman organizzati da non meglio precisate cooperative. Le aziende si affidano alla loro intermediazione perché risparmiano, ma non è chiaro come queste possano offrire contratti così vantaggiosi. “Queste cooperative- spiega Daniele Cavalleri, segretario della Fai Cisl di Brescia -offrono alle aziende contratti compensati di 14-15 euro a quintale raccolto, invece dei 19 soliti. In una giornata di lavoro (otto ore) un bracciante raccoglie in media sei quintali di uva. La paga giornaliera, in questo modo, dovrebbe attestarsi intorno ai 90 euro. Ma è poco probabile che guadagnino queste somme”. Le cooperative devono infatti coprire anche i costi (in media 40 euro al giorno) per il trasporto, il vitto e l’alloggio dei braccianti. In più, c’è il guadagno loro e quello dei caporali, che seguono i migranti dal paese di origine fino alla Franciacorta. Il sospetto, ovvio e scontato, è che ai braccianti vada solo una parte minima della paga nelle loro tasche, mentre il resto serve a coprire i costi di intermediazione. In altre parole, i costi del caporalato. “Ma è un aspetto difficile da dimostrare”, osserva Cavalleri, che con la Fai Cisl ha sollevato per primo la questione la scorsa estate. “Anche per effetto dei meccanismi di registrazione e di denuncia delle giornate lavorative in agricoltura. La legge prevede che il datore di lavoro abbia nove mesi di tempo dalla fine della prestazione lavorativa per presentare i dati all’Inps. Un sistema come questo consente qualsiasi tipo di abuso. Sarebbero necessari strumenti più efficaci per misurare la reale portata del lavoro sommerso”. Uno di questi è fare il raffronto tra le giornate di lavoro dichiarate e quelle che sarebbero state effettivamente necessarie basandosi sul raccolto. “Dai risultati, non ancora ufficiali- ci anticipa Giancarlo Venturini, segretario della Flai Cgil -pare che risulti una denuncia della metà, se non di un terzo, delle giornate effettivamente svolte”. Ecco quindi come si ammortizzano i costi: versando solo una parte dei contributi all’Inps. “Ai lavoratori restano non più di 3 o 4 euro l’ora – continua Venturini -mentre le aziende che si affidano alle cooperative risparmiano fino al 15%”. Il Consorzio Vini Franciacorta, interpellato sull’argomento, afferma di non conoscere il dettaglio dei contratti stipulati dai propri associati, ma che al momento non è emerso niente di irregolare. Restando in tema di vendemmia e vini, vistose e preoccupanti irregolarità si registrano anche in Toscana. “La situazione delle colline del Chianti non è ovviamente paragonabile a quella di Rosarno”, dice Roberto Bacci della Flai Cgil. “Ma anche da noi non mancano migranti abbondantemente sfruttati e bisogna stare attenti a non abbassare la guardia”. I braccianti, in questa terra dove si producono essenzialmente vino e olio, sono soprattutto senegalesi, romeni, albanesi, kosovari e serbi. Le situazioni più problematiche riguardano le piccole aziende. “L’irregolarità più frequente è il fatto che il direttore dell’azienda, nonostante il migrante abbia lavorato per quasi un anno intero, denunci in busta paga soltanto poche settimane. Chi prova a ribellarsi viene minacciato o licenziato”, prosegue Bacci. “Mi sono capitati esempi allarmanti nel corso degli ultimi anni, con lavoratori migranti che hanno lavorato per mesi interi e in busta paga avevano segnate soltanto poche giornate”. Anche la Bassa Padovana, con le sue coltivazioni di radicchio, ortaggi, mele, ha una forte vocazione agricola. I migranti, pagati dai 4 ai 6 euro all’ora, sono principalmente marocchini. Arrivano in Italia regolarmente, attraverso permessi per formazione o stagionali. “Ma l’utilizzo di questi viene abusato”, ci dice Alessandra Stivali, responsabile immigrazione Cgil Padova. Con la prima tipologia, il migrante dovrebbe fare un tirocinio formativo di un certo numero di ore e poi ritornare nel paese di origine. “In realtà – continua Stivali -viene spesso usato come stratagemma per impiegare le persone in maniera irregolare”. A farli arrivare nel padovano sono gli stessi datori di lavoro, spesso con l’intermediazione dei connazionali dei braccianti. Il permesso non è convertibile, e il migrante, che non rientra nel paese di origine dopo la sua scadenza, va a rinforzare le file dei lavoratori sfruttati. Lo stesso uso distorto si ha con il permesso stagionale. Capita che i lavoratori arrivino con questo, e poi non vengano assunti e si ritrovino a fare altri impieghi. “Un lavoro grigio”, in cui lo sfruttamento si alimenta della stessa paura degli sfruttati a segnalarlo. C’è però chi, esasperato, é costretto a farlo: nel padovano, sarebbero stati denunciati casi di violenze, trattenimento dei documenti, riduzione in schiavitù di migranti senza permesso di soggiorno. Delle vertenze legali in corso dovrebbero fare luce a breve su questi episodi. Ma la vicenda probabilmente più clamorosa riguarda Castelnuovo Scrivia, in provincia di Alessandria. Qui 39 braccianti, impiegati nella raccolta di ortaggi e a cui da mesi veniva negato il pur decurtatissimo stipendio, hanno organizzato un presidio di protesta, rischiando di essere denunciati per violenza privata. Dopo vari alti e bassi e varie intermediazioni (che vi raccontiamo in un articolo specifico) sembrava essere stato trovato una soluzione di compromesso ma il datore di lavoro, Bruno Lazzaro, con un colpo di scena ha cambiato le carte in tavola, sostituendo i braccianti “ribelli” con una squadra di indiani importati grazie a una cooperativa, guarda un po’,  proprio della Franciacorta. p.s. di caporalato e sfruttamento del lavoro migrante nel nord di Italia (ma non specificatamente in agricoltura) si è occupata Stefania Ragusa nel libro “Rosarno d’Italia” (Vallecchi, 2011).

LE DONNE IMMIGRATE PER I GIORNALISTI? MEGLIO SCHIAVE CHE PUTTANE. Processo alla stampa. Un nuovo capitolo riempie il saggio “MEDIOPOLI. DISINFORMAZIONE. CENSURA ED OMERTA’”. Il libro di Antonio Giangrande. La cronaca è fatta di paradossi. Noi avulsi dalla realtà, manipolati dalla tv e dai giornali, non ce ne accorgiamo. I paradossi sono la mia fonte di ispirazione e di questo voglio rendere conto. In Italia dove tutto è meretricio, qualche ipocrita fa finta di scandalizzarsi sull’esercizio della professione più antica del mondo. L’unica dove non si ha bisogno di abilitazione con esame di Stato per render tutti uniformi. In quell’ambito la differenza paga. Si parla di sfruttamento della prostituzione per chi, spesso, anziché favorire, aiuta le prostitute a dare quel che dagli albori del tempo le donne danno: amore. Si tace invece della riduzione in schiavitù delle badanti immigrate rinchiuse in molte case italiane. Case che, più che focolare domestico, sono un vero e proprio inferno ad uso e consumo di familiari indegni che abbandonano all’ingrato destino degli immigrati i loro cari incapaci di intendere, volere od agire. Di questo come di tante altre manchevolezze dei media petulanti e permalosi si parla nel saggio “Mediopoli. Disinformazione. Censura ed omertà”. E’ da venti anni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”, letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it. Un esempio. Una domenica mattina di luglio, dopo una gara podistica a Galatone in provincia di Lecce, nel ritorno in auto lungo la strada Avetrana-Nardò insieme a mio figlio ed un altro amico intravediamo sedute sotto il solleone su quelle sedie in plastica sul ciglio della strada due figure familiari: le nostre vicine di casa. Non ci abbiamo mai parlato, se non quando alla consuetudinaria passeggiata serale di uno dei miei cani una di loro disse: che bello è un chow chow! Ciò me li rese simpatiche, perché chi ama gli animali sono miei amici. Poi poverette sono diventate oggetto di cronaca. I loro nomi non c’erano. Ma sapevo trattarsi di loro. “I carabinieri di Avetrana hanno denunciato un 31enne incensurato poiché sorpreso mentre prelevava due giovani rumene dal loro domicilio di Avetrana per condurle a bordo della sua autovettura, nella vicina località balneare di Torre Lapillo del comune di Porto Cesareo (Le), dove le donne esercitavano la prostituzione – scrivevano il 22 agosto 2014 “La Voce di Manduria” e “Manduria Oggi” – I militari, che da diversi giorni monitoravano gli spostamenti dell’uomo, ieri mattina, dopo aver pedinato a bordo di auto civetta, lungo tutto l’itinerario che dal comune di Avetrana conduce alla località balneare salentina, decidevano di intervenire bloccando l’autovettura con a bordo le due giovani ragazze ed il loro presunto protettore, proprio nel punto in cui le donne quotidianamente esercitavano il meretricio. Accompagnati in caserma, le rumene di 22 anni sono state solo identificare mentre l’uomo è stato denunciato in stato di libertà alla Procura della Repubblica di Taranto, con l’accusa di favoreggiamento della prostituzione. Lo stesso è stato inoltre destinatario del foglio di via obbligatorio dal comune di Avetrana per la durata di tre anni.” Tutto a caratteri cubitali, come se fosse scoppiato il mondo. E’ normale che succeda questo in una Italia bigotta e ipocrita, se addirittura i tassisti sono condannati per aver accompagnato le lucciole sul loro posto di lavoro e ciò diventa notizia da pubblicare. Le stesse ragazze erano state oggetto di cronaca anche precedentemente con un altro accompagnatore. “Ai domiciliari un 50enne di Gallipoli per favoreggiamento della prostituzione. Le prostitute, che vivono ad Avetrana, venivano accompagnati lungo la strada per Nardò,” scriveva ancora il 18 luglio 2014 “Manduria Oggi”. “Accompagnava le prostitute sulla Nardò-Avetrana in cambio di denaro. Ai domiciliari 50enne gallipolino”, scriveva il 17 luglio 2014 il “Paese Nuovo”. “I militari della Stazione di Nardò hanno oggi tratto in arresto, in flagranza di reato, MEGA Giuseppe, 50enne di Gallipoli, per il reato di favoreggiamento della prostituzione. Nell’ambito dei controlli alle ragazze che prestano attività di meretricio lungo la provinciale che collega Nardò ad Avetrana, i Carabinieri di Nardò, alcune settimane orsono, avevano notato degli strani movimenti di una Opel Corsa di colore grigio. Pensando potesse trattarsi non di un cliente ma di uno sfruttatore o comunque di un soggetto che favorisse la prostituzione, i militari hanno iniziato una serie di servizi di osservazione che hanno permesso di appurare che il MEGA, con la propria autovettura, accompagnava sul luogo del meretricio diverse ragazze, perlopiù di etnia bulgara e rumena. I servizi svolti dai militari di Nardò hanno permesso di appurare che quotidianamente il MEGA, partendo da Gallipoli, si recava in Avetrana, dove le prostitute vivevano e ne accompagnava alcune presso la provinciale Nardò – Avetrana, lasciandole lì a svolgere il loro “lavoro” non prima però di aver offerto loro la colazione in un bar situato lungo la strada. Per cui, avendo cristallizzato questa situazione di palese favoreggiamento dell’attività di prostituzione, nella mattinata odierna i militari di Nardò, dopo aver seguito il MEGA dalla sua abitazione e averlo visto prendere le due prostitute, lo hanno fermato nell’atto di lasciarle lungo la strada e lo hanno portato in caserma assieme alle due ragazze risultate essere di nazionalità rumena. Queste ultime hanno confermato di svolgere l’attività di prostituzione e di pagare il MEGA per i “passaggi” che offre loro. Viste le risultanze investigative, il MEGA è stato tratto in arresto per favoreggiamento della prostituzione e, su disposizione del P.M. di turno, dott. Massimiliano CARDUCCI, è stato posto ai domiciliari presso la sua abitazione”. Come si evince dal tono e dalla esposizione dei fatti, trattasi palesemente di una velina dei carabinieri, riportata pari pari e ristampata dai giornali. Non ci meravigliamo del fatto che in Italia i giornalisti scodinzolino ai magistrati ed alle forze dell’ordine. E’ un do ut des, sennò come fanno i cronisti ad avere le veline o le notizie riservate e segrete. Fatto sta che le povere ragazze appiedate, (senza auto e/o patente) proprio affianco al dr Antonio Giangrande dovevano abitare? Parafrasi prestata da “Zio Michele” in relazione al ritrovamento del telefonino: (proprio lo zio lo doveva trovare….). Antonio Giangrande personaggio noto ai naviganti web perché non si fa mai “i cazzi suoi”. E proprio a me medesimo chiedo con domanda retorica: perché in Italia i solerti informatori delegati non fanno menzione dei proprietari delle abitazioni affittate alle meretrici? Anche lì si trae vantaggio. I soldi dell’affitto non sono frutto delle marchette? Silenzio anche sui vegliardi, beati fruitori delle grazie delle fanciulle, così come il coinvolgimento degli autisti degli autobus di linea usati dalle ragazze quando i gentili accompagnatori non sono disponibili. Un fatto è certo: le ragazze all’istante sono state sbattute fuori di casa dal padrone intimorito. Che fossero prostitute non si poteva intuire, tenuto conto che il disinibito abbigliamento era identico a quello portato dalle loro italiche coetanee. Lo stesso disinibito uso del sesso è identico a quello delle loro italiche coetanee. Forse anche più riservato rispetto all’uso che molte italiane ne fanno. Le cronache spesso parlano di spudorate kermesse sessuali in spiaggia o nelle piazze o vie di paesi o città. Ma questo non fa scandalo. Come non fa scandalo il meretricio esercitato dalle nostre casalinghe in tempo di crisi. Si sa, lo fanno in casa loro e nessuno li può cacciare, nè si fanno accompagnare. Oltre tutto il loro mestiere era usato dalle ragazze rumene per mangiare, a differenza di altre angeliche creature che quel mestiere lo usano per far carriere nelle più disparate professioni. In modo innocente è la giustifica per gli ipocriti. Giusto per saltar la fila dei meritevoli, come si fa alla posta. E magari le furbe arrampicatrici sociali sono poi quelle che decidono chi è puttana e chi no! Questa mia dissertazione non è l’apologia del reato della prostituzione, ma è l’intento di dimostrare sociologicamente come la stampa tratta alcuni atteggiamenti illegali in modo diseguale, ignorandoli, e di fatto facendoli passare per regolari. Quando il diavolo ci mette la coda. Fatto sta che dirimpettai a casa non ne ho. C’è la scuola elementare. Ma dall’altro lato della mia abitazione c’è un vecchio che non ci sta più con la testa. Lo dimostrano le aggressioni gratuite a me ed alla mia famiglia ogni volta che metto fuori il naso dalla mia porta e le querele senza esito che ne sono conseguite. Però ad Avetrana il TSO è riservato solo per “Zio Michele Misseri”, sia mai che venga creduto sulla innocenza di Cosima e Sabrina. Dicevo. Queste aggressioni sono situazione che hanno generato una forte situazione di stalking che limita i nostri movimenti. Bene. Il signore in questione (dico quello, ma intendo la maggior parte dei nostri genitori ormai inutili alla bisogna tanto da non meritare più la nostra amorevole assistenza) ha da sempre delle badanti rumene, che bontà loro cercano quanto prima di scappare. Delle badanti immigrate nessuno mai ne parla, né tanto meno le forze dell’ordine hanno operato le opportune verifiche, nonostante siano intervenuti per le mie chiamate ed abbiano verificato che quel vecchietto le poverette le menava, così come spesso tentava degli approcci sessuali. Rumene anche loro, come le meretrici. Ma poverette non sono puttane e di loro nessuno ne parla. In tutta Italia queste schiave del terzo millennio sono pagate 500 o 600 euro al mese a nero e per 24 ore continuative, tenuto conto del fatto che sono badanti di gente incapace di intendere, volere od agire. Sono 17 euro al giorno. 70 centesimi di euro all’ora.  Altro che caporalato. A queste condizioni non mi meraviglio nel vedere loro rovistare nei bidoni dell’immondizia. A dormire, poi, non se ne parla, in quanto il signore, di giorno dorme e di notte si lamenta ad alta voce, per mantenere sveglia la badante e tutto il vicinato. Il paradosso è che il signore e la sua famiglia sono comunisti sfegatati da sempre, pronti, a loro dire, nel difendere i diritti del proletariato ed ad espropriare la proprietà altrui. Inoltre non amano gli animali. Ed è tutto dire. Le badanti, purtroppo non sono puttane, ma semplici schiave del terzo millennio, e quindi non meritevoli di attenzione mediatica. Delle schiave nelle italiche case nessuno ne parla. Perché gli ipocriti italiani son fatti così. Invece dalle alle meretrici. Zoccole sì, ma persone libere e dispensatrici di benessere. Se poi puttane non lo sono affatto, le donne lo diventano con l’attacco mediatico e gossipparo.

«Marita Bossetti massacrata con il gossip. Accusata gratuitamente di avere due amanti. Ma cosa c’entra questo con l’omicidio di Yara? - si chiede Vittorio Feltri su “Il Giornale” il 21 agosto 2014 – Siamo basiti. Ieri apriamo il Corriere della Sera a pagina 17 e leggiamo il seguente titolo: «Due uomini dai pm: siamo stati amanti di Marita Bossetti». Chi è costei? La moglie di Massimo Giuseppe Bossetti, sospettato di essere l’assassino di Yara Gambirasio, l’adolescente di Brembate (Bergamo), in galera da un paio di mesi per via del suo Dna rilevato sul corpo della vittima. Non riassumiamo la vicenda perché è stata raccontata mille volte e supponiamo che il lettore ne sia a conoscenza. Ci limitiamo a esprimere stupore e indignazione davanti a questa ennesima incursione nella vita privata di una famiglia – quella dei Bossetti, appunto – che avrebbe diritto a essere lasciata in pace, ammesso che possa trovarne, avendo il proprio capo chiuso in una cella senza che esista la minima probabilità che questi reiteri il reato attribuitogli, inquini le prove (che non ci sono) e si appresti a fuggire, visto che in quattro anni non ha mai provato a farlo. Stando a Giuliana Ubbiali, la cronista che ha rivelato quest’ultimo particolare piccante sui coniugi, due gentiluomini si sono presentati (spontaneamente? ne dubito) in Procura e hanno confidato agli inquirenti di avere avuto rapporti intimi con la signora Marita. Hanno detto la verità o no? Non è questo il punto. La suddetta signora ha facoltà di fare ciò che vuole con chi vuole e quando vuole senza l’obbligo di giustificarsi con nessuno, tranne il marito. Perché le toghe ficcano il naso nelle mutande di una sposa già distrutta dagli eventi? A quale scopo? Sarebbe interessante che qualcuno ci spiegasse che c’entrano due supposte (non accertate) relazioni avute dalla donna in questione con il delitto di Yara commesso – forse – dal coniuge. Il gossip non ha alcuna importanza – fondato o infondato che sia – ai fini di accertare la verità. Questo lo capisce chiunque. Nonostante ciò, gli investigatori hanno infilato negli atti processuali che due linguacciuti asseriscono di essersi divertiti, sessualmente parlando, con la consorte di Bossetti. Cosicché questi, oltre a essere inguaiato per un omicidio, nonché detenuto, adesso è anche formalmente cornuto agli occhi di chi si pasce di pettegolezzi. Non solo. Marita ha il suo uomo agli arresti, tre figli da mantenere (in assenza di un reddito), un futuro nebuloso, gli avvocati da pagare e, dulcis in fundo, ci ha smenato pure la reputazione passando ufficialmente (zero prove) per puttana. A voi, cari lettori, questa sembra un’operazione legittima? Comprendiamo la necessità degli investigatori di non trascurare alcun dettaglio nel tentativo di arrivare a capo dell’orrenda matassa, siamo altresì consapevoli che dal quadro familiare di Bossetti sia facile ricavare qualche indicazione utile all’inchiesta, ma prendere per buone le vanterie di un paio di tizi onde avvalorare l’ipotesi che la famiglia Bossetti fosse una specie di bordello, in cui ogni crimine poteva maturare, incluso un omicidio, è troppo. Trattasi di scorrettezza e di crudeltà. Un conto è sondare la vita di un imputato nella speranza di trovare una chiave per aprire la sua scatola nera, un altro è ricorrere a mezzucci degni di un giornaletto scandalistico e indegni, viceversa, di una giustizia decente. I giudici non devono guardare dal buco della serratura e raccogliere materiale da portineria, ma costruire un impianto accusatorio credibile, basato su indizi concreti e non su chiacchiericci volgari che distruggono l’immagine di gente innocente, comunque non direttamente implicata in un fatto di sangue. Alla signora Marita Bossetti e ai suo poveri figli, esposti al pubblico ludibrio a causa di una sciatteria istituzionale imperdonabile, va la nostra solidarietà. Siamo con loro in questo momento tormentato. Un’ultima osservazione. Noi del Giornale spesso siamo stati additati quali manovratori della macchina del fango. Faceva comodo a molti liquidarci così. Ora, davanti alla macchina produttrice di letame gossiparo, che massacra e lorda tante persone, tutti zitti. Zitti e complici».

«Yara, un caso nel caso: gossip estremo o strategia mediatica? Seguendo il corso delle indagini, la cronaca passa ora ai “raggi X” la vita della moglie di Bossetti: per soddisfare la curiosità dei lettori o per qualcos’altro? –Si chiede invece Marco Ventura su “Panorama” - “Massimo Bossetti, il presunto assassino di Yara”. Questa didascalia sul sito del Corriere della Sera, cronaca di Bergamo, dice tutto. Dice più di qualsiasi gossip allungato a giornalisti compiacenti che si prestano a fare da megafono dell’accusa pur di continuare a beneficiare di “presunti” scoop (dico “presunti” perché il giornalismo d’inchiesta all’americana, quello vero, non si affida a una sola fonte, non sposa acriticamente una sola parte, soprattutto si sviluppa anticipando le indagini, non si riduce a diffondere le veline degli inquirenti). Quella didascalia è un insulto alla Costituzione (e ai diritti di tutti noi in quanto potenziali Bossetti), perché “il carpentiere di Mapello”, come viene sbrigativamente inquadrato dai media, agli occhi della legge e a tutti gli effetti è l’opposto del “presunto assassino”. È, invece, un “presunto innocente”, sospettato di aver ucciso l’adolescente Yara Gambirasio. La didascalia accompagna le foto tratte dalla pagina Facebook dell’uomo (che non è neppure imputato ma solo indagato). Altri scatti inquadrano la moglie Marita in macchina che un po’ si vede, un po’ si copre la faccia per evitare i fotografi il giorno in cui va a farsi interrogare. Sono una, due, tre, quattro, cinque istantanee pressoché identiche, per soddisfare il “presunto” voyeurismo compulsivo del lettore. Dico “presunto”, perché a scorrere i commenti alla notizia delle “presunte” relazioni extraconiugali di Marita sul sito dell’Huffington Post che riprende il Corriere (un bell’esempio di complicità mediatica tra il gruppo L’Espresso e il “Corsera”), la gran parte dei lettori si dice più o meno schifata e indignata, e se la prende con un certo giornalismo gossiparo che massacra le persone per fare cassetta. Ma la foto peggiore è quella che campeggia più grande di tutte: Marita a viso aperto, al mare, circondata dai tre figli avuti con Massimo (già, ci sono pure dei figli minori, i volti sono graficamente irriconoscibili, ma basta?). In realtà, dietro quel giornalismo c’è forse qualcosa di più: una strategia mediatica da parte di chi lavora sulle indagini. È singolare che nei giorni scorsi sia apparsa la notizia del rifiuto di Marita a farsi interrogare senza il difensore, Marita che continua a difendere il marito e a proclamare anche pubblicamente la sua fiducia (ricambiata da Massimo di cui sappiamo, dalle indiscrezioni dei suoi già cinque interrogatori nessuno conclusivo, che ai magistrati che lo incalzavano sulle “presunte” avventure della consorte avrebbe replicato: “Impossibile. Sento il suo amore, ho piena fiducia e rispetto di lei”). È mai possibile che di fronte a quella che viene presentata come prova regina, definita dalla stessa difesa di Bossetti come indizio grave, cioè la “presunta” corrispondenza del Dna del “carpentiere di Mapello” con quello ritrovato sugli indumenti intimi di Yara (dico “presunta” perché non c’è al momento una controperizia, una perizia di parte, una ripetizione del test, né un contraddittorio o dibattimento e tante volte abbiamo visto le prove regine perdere la corona nei processi), è mai possibile dicevo che vi sia un simile accanimento sulla famiglia Bossetti, tale da far sospettare (o presumere?) una disperazione dell’accusa, un’angoscia di non riuscire, nonostante tutto, a trovare la verità cioè incastrare il “presunto colpevole”? E mi chiedo: se la moglie (e la madre) di Massimo Bossetti lo avessero “scaricato”, dicendo ai Pm quello che i Pm vorrebbero tanto sentirsi dire, avremmo ugualmente letto notizie così orribilmente intrusive della vita privata di persone che non sono neppure indagate e la cui vita intima non serve probabilmente a far luce sull’ipotizzato crimine del “carpentiere di Mapello”? Massimo Bossetti ha saputo dai magistrati di essere figlio illegittimo, ora sa che forse la moglie gli ha messo le corna (e tutto questo lo sappiamo anche noi). È costretto in carcere a un isolamento totale, anche nell’ora d’aria, perché gli altri detenuti gliel’hanno giurata (per loro è il “presunto assassino” di Yara, anzi per dirla con il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, è “l’assassino” e basta). La moglie si trova a dover fronteggiare non solo i magistrati, ma anche i giornalisti che sanno e partecipano allo scandaglio impietoso della sua privacy (grazie a chi?) e se si azzarda a dire la sua al settimanale Gente, c’è subito pronto il solerte cronista di giudiziaria, nello specifico Paolo Colonnello de La Stampa, che si dedica a sottolineare sotto il titolo “Yara, le contraddizioni della signora Bossetti”, le “presunte” (il virgolettato è mio) discrepanze tra le parole della “bella moglie che rilascia interviste ai settimanali popolari” (stavolta il virgolettato è di Colonnello) e quelle che Marita ha pronunciato davanti ai Pm. A Paolo vorrei ricordare quanto lui stesso ha scritto su Facebook tempo fa, in quello che appariva come un post di encomiabile ma evidentemente “presunta” autocritica, dopo aver premesso che dubitava dell’innocenza di Bossetti: “Ciononostante mi piacerebbe che i giornali avessero il coraggio di distinguersi dal trash delle trasmissioni televisive smettendo di occuparsi di questo caso day by day, proprio per rispetto dei protagonisti e della loro sofferenza. Piccoli dettagli, elucubrazioni, fughe di notizie cui io stesso ho partecipato (con assoluta controvoglia, credetemi) non aggiungono nulla di più a questo punto alla tragedia che si è ormai consumata. La solita tragedia, verrebbe da dire. Perché purtroppo, anche grazie alla nostra morbosità, statene certi che si ripeterà”».

«Dai lettore, prova a metterti nei panni del mostro. Massimo Bossetti non è soltanto accusato di essere l’assassino di Yara. Contro di lui si muove uno tsunami distruttivo, massacrante, implacabile. Domandina: e se poi, invece, fosse innocente? – Si chiede, invece Maurizio Tortorella su “Panorama” - Caro lettore, stavolta ti propongo un gioco: ma fa’ attenzione, perché è un brutto gioco. Facciamo finta che due anni fa un bruto, un maniaco sessuale, abbia ucciso una povera ragazzina a una decina di chilometri da casa tua. E facciamo finta che una mattina arrivi da te la polizia, che ti ammanetta e ti accusa di quell’orribile delitto. Dai magistrati inquirenti, che t’interrogano, scopri che sul cadavere della poveretta è stato trovato materiale organico che i periti sostengono sia compatibile con il tuo Dna. Tu non sai proprio spiegartene il motivo, perché sai perfettamente che sei innocente e in realtà non hai mai nemmeno visto la ragazzina. Ma gli inquirenti non vogliono sentire ragione: il colpevole sei sicuramente tu. Così finisci in prigione. I giornali, contemporaneamente, vengono inondati di carte dell’accusa. Il tuo nome esplode su tutti i mass media, la tua vita viene passata al setaccio. Il tuo avvocato è in difficoltà: non riesce a fare passare nemmeno il minimo dubbio. Poi gli inquirenti ti dicono che sono arrivati a te per vie d’indagine complicatissime. E ti spiegano che grazie a quelle indagini hanno scoperto, anche, che tuo padre non è quello che tu hai avuto accanto per decenni, perché in realtà tua madre ti ha concepito con un altro. Aggiungono che tutto questo è provato con certezza dallo stesso Dna. A questa rivelazione, ovvio, resti senza fiato. Sui giornali che ti arrivano in cella leggi che tua madre nega disperatamente, giura che sei figlio di tuo padre, quello che hai sempre creduto che lo fosse. Ma chissà se dice la verità… La vita, che già ti è stata sconvolta dall’arresto e dalle terribili accuse che ti vengono rivolte, ti viene così letteralmente sradicata dall’anima: anche per via sentimentale. Intanto passi i giorni in cella, dove ti disperi leggendo i giornali che parlano del caso e cercando di sfuggire alle violenze degli altri reclusi, tradizionalmente molto ostili a chi viene accusato di aver fatto del male a donne e a bambini. Pensi e ripensi alla tua vita distrutta, ai tuoi figli che inevitabilmente in paese vengono additati come «figli del mostro», a quella poveretta di tua moglie che inutilmente grida alla tua innocenza. I giorni trascorrono, diventano settimane e mesi. Non sai che fare. Dentro sei come morto. Ti aggrappi ai tuoi poveri affetti, in questo momento fragili come e più di te. Pensi solo a tua moglie e ai tuoi figli: sono l’unica cosa che ti resta. Poi una mattina ti svegli, sempre in cella e sempre terrorizzato, e sul primo quotidiano italiano leggi un titolo che ti tramortisce. Perché rivela che due uomini sono stati appena ascoltati dai pm e hanno raccontato loro di essere stati entrambi amanti di tua moglie (che hai sposato nel 1999): uno nel 2009 e uno anche più di recente. Ti domandi se sia vero. Come sia possibile. Ti interroghi anche sul perché gli inquirenti abbiano deciso di ascoltare i due uomini, che cosa c’entrino le loro relazioni con l’accusa che ti viene rivolta. L’articolo ti spiega che i pm vogliono indagare nella tua vita sessuale, per capire se tutto era «normale». La tua disperazione a questo punto è totale: non hai più nulla cui aggrapparti. Che ti resta, al mondo? Pensi alla tua vita, annichilita, e forse vuoi soltanto morire. Ecco, caro lettore. Io non so se Massimo Bossetti sia colpevole o innocente dell’orribile delitto di cui è accusato da oltre due mesi. Ti domando, però, di porre mente a un’ipotesi: e se non fosse colpevole? A quest’uomo la giustizia italiana ha distrutto tutto: vita, famiglia, affetti. Gli è accaduto tutto quello che hai appena finito di leggere, e anche molto di più. È stata una devastazione implacabile, assoluta, senza scampo alcuno. Certo: è possibile che Bossetti sia colpevole. E tu allora mi dirai, in un impeto di violenza: si merita tutto quel che sta soffrendo. Ma che cosa accadrà se invece, in un regolare processo condotto stavolta non sui giornali ma in un’aula di tribunale, davanti a una corte puntigliosa e con tutti i crismi di legge, si dovesse appurare che Bossetti è innocente, magari perché l’analisi del Dna condotta sul corpo della povera Yara è stata sbagliata? In questi casi ho sempre pensato che sia pratica onesta provare a mettersi nei panni dell’accusato, ovviamente ipotizzandosi innocenti. Io l’ho fatto, e confesso la mia debolezza: non so se saprei sopravvivere allo tsunami, alla gogna mediatica e al disastro esistenziale che mi è stato gettato addosso. Proverei forse a impiccarmi in cella. Però l’idea mi sconvolge e mi disgusta profondamente. Perché non è questo il finale giusto, nemmeno nella peggiore vicenda giudiziaria; non può e non deve esserlo: equivale a dichiarare che la giustizia non esiste. È una soluzione abietta, vergognosa, indecente, indegna di uno Stato di diritto. Prova a fare altrettanto. Non ci vuole molto, soltanto un po’ di fantasia. Mettersi nei panni dell’accusato è sempre un esercizio utile: solletica sensibilità intorpidite dalla voglia di sangue. E magari fa pensare… ».

GIOVANNI GUARASCIO. MORIRE DI DEBITI O DI ASTE TRUCCATE?

Giovanni Guarascio e il suicidio per i debiti a Servizio Pubblico, scrive Alberto Sofia su “Giornalettismo”. La vicenda dell'uomo morto per essersi dato fuoco, dopo che la sua abitazione era stata venduta. La battaglia dei figli. Durante l’ultima puntata di Servizio Pubblico è stato ricordato il caso di Giovanni Guarascio, il muratore di 64 anni di Vittoria che si è dato fuoco, dopo aver visto vendere all’asta la propria casa, per colpa di un debito di 10mila euro. Un gesto drammatico, di fronte all’ufficiale giudiziario, arrivato per eseguire l’ordine di sfratto. Il 22 maggio scorso l’uomo non ce l’ha fatta, a causa delle gravissime ustioni riportate in tutto il corpo. A lanciare un appello ai telespettatori è stato ieri Michele Santoro, per aiutare Martina, la figlia del muratore. La famiglia Guarascio sta cercando di salvare quella casa che il padre stesso aveva costruito con le sue mani, riacquistandola dal nuovo proprietario – il signor Sciagura – per 60mila euro circa. E’ stato aperto anche un conto corrente per raccogliere il denaro necessario, ma mancano però ancora 30mila euro: “Vi invitiamo tutti a contribuire, anche in ricordo di Franca Rame, che tante volte ha aiutato chi aveva bisogno”, ha spiegato il giornalista. E’ stato Sandro Ruotolo a ricordare, dalla casa di Giovanni Guarascio, questa storia drammatica, insieme ai figli Martina, Carlo e Claudia. Servizio Pubblico spiega come l’uomo abbia deciso di ricorrere a un gesto estremo per difendere quella casa che stava costruendo e che la banca gli aveva tolto per un mutuo che non riusciva a pagare mensilmente. Si ricorsa come la casa sia stata venduta all’asta, alla cifra irrisoria di 26 mila euro: “Giovanni faceva il muratore – spiega Ruotolo – e la stava costruendo, come capita in tutti i paesi del Sud”. Le scale sono ancora da rifinere, manca la ringhiera. In tutto, tre piani per i tre figli. Per ora si vive soltanto nel primo: insieme ai tre figli, il giornalista ricorda la vicenda. Giovanni non ce l’ha fatta, ma a Catania, nell’ospedale dei grandi ustionati, restano in prognosi riservata la madre e Antonio Terranova, un ufficiale di polizia. Viene mandato in onda il filmato della celebrazione del funerale dell’uomo in Chiesa, dove la figlia ha ricordato come cercheranno di salvare quella casa che l’uomo aveva costruito con il proprio sudore. La figlia rivela come la madre non sappia ancora nulla della morte del marito: “Peggiorerebbe la sua situazione”, spiega. Anche Terranova, operato per un’emorragia al braccio, resta in prognosi riservata. Martina racconta la storia che ha spinto Giovanni a darsi fuoco. Tutto è cominciato con un mutuo concesso da una banca, nel 1990, di 45 milioni di vecchie lire. Soldi necessari per comprare il materiale per costruire l’abitazione. Per 5 anni non ci sono problemi, poi, iniziano le difficoltà: “Fino al 1995 ha sempre pagato senza problemi la rata del mutuo. Poi con la crisi tutto è cambiato”, ha spiegato la ragazza. Aveva già pagato circa 35 milioni di lire, poi comincia a versare fondi a stralcio. La cifra di 45 milioni viene pian piano quasi coperta, ma ci sono gli interessi del mutuo. Alla vigilia della messa all’asta Giovanni Guarascio arriva anche a fare un’offerta di 25mila euro (50 milioni circa delle vecchie lire, ndr) alla Banca Agricola Popolare di Ragusa. Non è bastato: la casa è stata comunque data all’asta, per 26mila euro. L’istituto ha però spiegato come, oltre a un debito di 10 mila euro, ci fossero anche 9 mila euro di spese legali. Eppure l’offerta era stata fatta, ma non è stata ritenuta congrua. Eppure Martina ha ribadito come lei e i suoi fratelli non vogliano abbandonare la casa che il padre ha costruito per loro: “E’ il ricordo che abbiamo di lui, non ce ne andremo via”, ha spiegato la ragazza, che ha aggiunto che farà di tutto per mantenere la promessa. “Mio padre ha fatto di tutto per noi, mi pagava anche gli studi che ho dovuto interrompere: ha fatto  quel gesto disperato perché ha trovato soltanto muri. Nessuno ha capito le difficoltà”, ha aggiunto. Servizio Pubblico svela anche come  la casa di Giovanni Guarascio fosse stata pignorata, dodici anni fa. E’ stata messa all’asta diverse volte, ma sempre andate a vuoto. Nessuno si è presentato, finché il valore della casa è sceso a circa ventisei mila euro (dai 106 mila euro originari). “La banca ha rifiutato la nostra offerta a stralcio. C’erano due buste chiuse, dopo la messa all’asta. Una signora si ritira, dall’altra busta chiusa è stata accettata la stessa cifra che avevamo proposto noi”, spiega l’altro figlio, Antonio. Una situazione strana sulla quale indaga anche la magistratura.

VITTORIA: MORTE DI GUARASCIO, TUTTI SOTTO ACCUSA. DUE I TRONCONI DELL'INCHIESTA DELLA PROCURA DI RAGUSA. scrive Gianfranco Pensavalli su “Magma7”.

Quel darsi fuoco alla maniera dei bonzi tibetani. Che non vuol dire semplicemente ammazzarsi. Ha un significato che sa tanto di difesa dei diritti di un’etnia: quella di chi non sopporta più un certo andazzo di vita. Ma se Giovanni Guarascio, 64 anni, da Vittoria, oggi ha forse trovato pace al cimitero un’intera comunità ha ricevuto una frustata sul viso che l’ha riportata sulla terra. Merito, soprattutto, dell’accelerata alle indagini imposta dal procuratore capo di Ragusa, Carmelo Petralia. Con relativo spacchettamento dei fascicoli perché s’indaga su più fronti. Con stralcio a Messina, sede naturale per decisioni sul comportamento dei giudici del Distretto giudiziario di Catania, di cui fa parte Ragusa, procura competente su Vittoria. Già. Dagli atti visionati da «Magma», tra i pochissimi sui quali non soggiace il segreto istruttorio, ferreamente imposto da Petralia per evitare di inquinare la complessa attività giudiziaria, saltano fuori due nomi di giudici dell’esecuzione «coinvolti» come firmatari di atti, Vincenzo Saito e Claudio Maggioni.

Chiariamo subito. La Procura di Ragusa ha aperto un’inchiesta, con indagati, sul procedimento che ha portato al pignoramento e alla vendita della casa del muratore disoccupato Giovanni Guarascio, che si è dato fuoco per difendere la propria abitazione, per poi morire al centro Grandi ustionati dell’ospedale Cannizzaro di Catania. Dove sono ancora ricoverati la moglie Giorgia Famà e il poliziotto Antonio Terranova, anche loro rimasti gravemente ustionati. Il reato ipotizzato, dal procuratore Petralia e dal sostituto Federica Messina, è di turbativa d’asta. Sarebbero due i tronconi dell’inchiesta: uno riguarda l’aggiudicazione «tecnica» della casa all’asta, e l’altro la storia e l’evoluzione del rapporto debitorio bancario e dell’esecuzione immobiliare. In merito a quest’ultimo fascicolo, in mano al procuratore Petralia, la Guardia di finanza del comando provinciale di Siracusa ha acquisito atti su disposizione della magistratura iblea. Perché Siracusa? Per via di un atto che farebbe risalire a un notaio con studio professionale in quel territorio. Dunque, la storia della casa all’asta e il passaggio precedente «all’immissione in possesso dell’acquirente» dopo il contestuale sfratto diventano il crocevia dello smistamento giudiziario dei fascicoli. Ma, come afferma l’avvocato Giulia Artini, che da qualche giorno cura ufficialmente gli interessi della famiglia Guarascio – al momento del raptus del muratore aveva solo una delega orale della moglie, Grazia Famà – non è davvero il caso di avviare processi alle intenzioni, usare i media per cercare giustizia che, al contrario, è da delegare al suo ambiente naturale. Che è un’aula di tribunale.

Detto che il procuratore Petralia – che ha subìto ingiuste accuse «grilline» di aver tardivamente attivato l’attività di sua competenza non percependo le «paure» di Guarascio – ha nel mirino anche il sistema oppressivo della Serit nella zona, e che vuol sfidare il «cartello» costituitosi in loco con avvocati e altri attori che piloterebbero le aste giudiziarie e si trova a fianco l’agguerritissimo colonnello Francesco Fallica, comandante provinciale della Guardia di finanza, è necessario far chiarezza su moltissime imprecisioni che, a Vittoria, ritengono frutto di guerra tra bande… giornalistiche. Pienamente coinvolte per via dell’imputato numero uno, ovvero la Bapr, la Banca Agricola Popolare di Ragusa. Seimila soci, una lussuosa sede di filiale in piazza del Popolo, dove altri due istituti bancari arrancano e alla Bapr, alle tre del pomeriggio, ci sono 34 persone in fila in un venerdì qualsiasi. Banca capace di tirare fuori un documento a difesa – il primo a farne il nome in tv a «Quinta Colonna» è stato Antonio, il figlio di Guarascio – dopo giorni, «annullarlo» e rimetterne in circuito un altro. Dal chiaro sapore promozionale. Tanto che il quotidiano «La Sicilia» l’ha ospitato solo a pagamento.

Torniamo a quel tragico 14 maggio. E a qualche riflessione. Uno si costruisce la casa con le sue mani, ci mette tutti i suoi risparmi, il sangue e il sudore, è l’impresa della vita sua. Poi ci va ad abitare con la sua famiglia, con i suoi affetti, con le sue cose più care. Poi perde il lavoro, non lo prende più nessuno come manovale, troppo vecchio. Non ha più soldi, non riesce a mantenere agli studi sua figlia (in questo caso, la più piccola che si chiama Martina e studiava giurisprudenza a Ferrara). Per un debito di diecimila euro, sì diecimila, con una banca, che è appunto la Bapr, lo sfrattano da casa sua, sua fin dentro le fondamenta, e l’aggiudicano a uno che si chiama, vedi caso, Sciagura. Sciagura Orazio, origini gelesi, residenza a Scoglitti. Che è poi il borgo marinaro dei vittoriesi, circa undici chilometri dal «capoluogo». Si affaccia sul Canale di Sicilia, nei pressi della foce del fiume Ippari, possiede ampie spiagge, ricoperte da dune, di una finissima sabbia dorata e gode di pesca, agricoltura in serre, e soprattutto turismo.

A Sciagura, che dice di essere un bracciante agricolo, Scoglitti sta stretta e vuol «conquistare» Vittoria. Così punta la casa messa all’asta che è di Guarascio. Anzi, era. Casa al numero civico 214 di via Brescia. Abusiva con varie attività di sanatoria in corso. E che non è stata sequestrata, come detto e scritto. Il cronista lo ha costatato di persona. Vi si accede, invero, attraverso un garage. Che era il fortino di Guarascio. Fortino che aveva resistito a tutti gli assalti fino a quando l’ufficiale giudiziario Anna Cannizzaro ha tentato il quinto «accesso» per dare la casa a Sciagura. Che quell’immobile lo aveva acquistato all’asta il 26 maggio 2012 per 26.750 euro. Un percorso complesso, relativamente lungo. Perché contrariamente a quel che asserisce la Bapr, si «parte» con atto del giudice Saito il 9 luglio del 2002, con la banca che avvia le procedure, quindi nuova udienza nel luglio 2003. E nove anni non sono un’eternità. Anche perché c’è il tempo per un paio di udienze andate a vuoto e poi, con il nuovo rito, l’affidamento a un curatore esterno. Sciagura è difeso dallo studio Drago. Agguerritissimo. Specie Daniele. Che, come conferma l’avvocato Artini, ha respinto ogni possibile tentativo del Guarascio di un accordo che rinviasse a fine dicembre l’esecuzione con immissione in cambio di un fitto.

Il sindaco di Vittoria, avvocato Giuseppe Nicosia, ha un diavolo per capello. Chi verga queste righe l’ha incontrato mentre inaugurava un nuovo tratto della pavimentazione dell’isola pedonale. «Alla solidarietà sociale non c’è un fascicolo sui Guarascio. Non ho mai avuto sentore dei loro problemi, sapevo solo che non volevano perdere la casa. E hanno respinto tutte le nostre offerte di curare a spese del Comune il funerale e di dar sepoltura degna al loro congiunto. Due cognati di Guarascio sono l’uno dipendente comunale, l’altro lavora al Mercato ortofrutticolo. Forse un eccesso di dignità ha impedito che Vittoria li aiutasse… Mi impegno a riacquistare la casa, con un bonus del 10% da girare all’acquirente e ridarla ai Guarascio».

Dignità. E’ un po’ anche quello che ha detto nell’omelia padre Beniamino. Che ha ammesso di aver fatto poco. E con lui un dirigente bancario, che opera nel sociale, che ha negato un credito a Giovanni Guarascio perché «la banca non fa beneficenza». Dunque, gli tolgono le chiavi, lui è disperato, si sente uscire pazzo, però non uccide nessuno, alla fine si dà fuoco in mezzo ai suoi cari. E muore. Anche perché gli hanno raccontato un sacco di stupidaggini. Poi girate ad arte ai media. Così «Magma» prova a rendere giustizia terrena a chi è volato in Cielo. Annotate la data: 14 giugno. Nemmeno venti giorni dopo aver acquistato all’asta la casa di Guarascio, Sciagura, attraverso lo studio Drago, inoltrerà a un tecnico di fiducia del muratore, l’architetto Giovanni Di Martino, un fax con scritto «Facendo seguito al precedente abboccamento, dopo aver sentito il cliente, Ti significo che la vicenda in epigrafe (l’immobile di via Brescia 214, ndr) potrebbe definirsi alle seguenti condizioni». Sì, totale da 42.000 euro. Così suddivisi. Prezzo d’acquisto comprensivo di spese d’asta 33.000 euro; spese e competenze legali 2.000 euro; prima rata mutuo e spese istruttoria pratica 3.500 euro (rata mensile di 300 euro); risarcimento forfettario relativo all’impegno e al tempo impiegato dal primo acquirente 500; plusvalore 3.000 euro.

Sì, la storia di Giovanni Guarascio da Vittoria è la drammatizzazione, come ne li «cunti siculi», della tragedia di un popolo: la perdita della casa. Gli italiani, popolo casalingo per eccellenza, che tutto ha investito sulla casa, intesa come affetti e solidità, cioè familismo immobiliare, il popolo più proprietario di case al mondo, si vede strappato dal suo bene principale, la sua «tana». Tasse sulla casa, ipoteche, pignoramenti e sfratti, crollano le vendite ma vendi casa per pagare i debiti o per offrire quel capitale alla speculazione finanziaria… Piovono bombe sulle case. Cioè sulla famiglia, architrave d’Italia. Perciò Giovanni il muratore ci tocca il cuore: sacrifica la vita sua al bene più sacro e più tangibile, il «punto fermo». Non puoi togliere a un uomo casa e lavoro, minargli la famiglia e pretendere che lui dica: che ci vuoi fare, è il trend globale, così va il mercato.

Annotazioni in corsa: il signor Sciagura ha chiesto nei giorni scorsi circa 63.000 euro per restituire la casa ai Guarascio. Lo ha confermato lo stesso sindaco di Vittoria, Nicosia. L’intervento dell’avvocato Giulia Artini per un tentativo di «ritorno all’umanità» è fallito per l’intransigenza dello studio legale Drago. Antonio, il figlio più grande di Guarascio, che vive a Lido delle Nazioni, frazione di Comacchio nel Ferrarese, che fa lo stesso mestiere del padre e che lo ha pure tenuto per quattro anni in busta-paga, è stato durissimo: «Perché la Bapr non dice quanti soldi ha incassato da mio padre negli anni? Perché non abbiamo un rendiconto che induca a escludere un clamoroso caso di anatocismo? Non mi è stato possibile capire il ruolo dei cronisti locali. Forse si sono fatti influenzare dagli eventi. Specie alcune saputelle di redazione (?) che hanno deliberatamente stravolto la verità. Meno male che le mie sorelle Maria e Martina hanno trovato la giusta sponda nell’inviata de La 7». Che ha spazzolato il territorio e ha seguito il consiglio del colonnello della Guardia di finanza, Fallica: «Indaghi sulle Immobiliari e su una casa su due all’asta in questa zona». Battuta che ha terribilmente offeso il sindaco Nicosia durante i funerali. «Da dove saltano fuori certe cifre? Ho duecento clienti, solo in tre casi hanno problemi con il giudice dell’esecuzione».

Chiusura per la signora Giorgia Famà, diabetica, vedova Guarascio. Alle 21,17 del 13 maggio, ovvero la sera prima della tragedia, era stata visitata al Pronto soccorso dell’ospedale di Vittoria – referto a firma Strazanti – per grave crisi d’ansia, lipotimia in seguito ad attacco d’ansia e diarrea profusa. L’avvocato Drago e l’ufficiale giudiziario Anna Cannizzaro fecero spallucce: «Può lasciar casa, all’ambulanza provvediamo noi…».

La casa per la quale l’operaio Giovanni Guarascio si era dato fuoco, per evitare lo sfratto, alla fine è stata affidata alla vedova dell’uomo, scrive “Blitz Quotidiano”. La Procura di Ragusa ha infatti sequestrato la casa di Guarascio, il muratore di 64 anni che il 14 maggio 2013 si diede fuoco a Vittoria per evitare lo sfratto dalla abitazione. L’uomo morì 7 giorni dopo. L’immobile è stato affidato in custodia con facoltà d’uso alla vedova. Il decreto è stato adottato dal procuratore di Ragusa, Carmelo Petralia, che coordina l’inchiesta su procedura e messa all’asta della casa. La procura infatti ha riscontrato alcune irregolarità nella procedura. Tre gli indagati per turbata libertà degli incanti, estorsione e falsità ideologica. La casa era stata venduta all’asta e Giovanni Guarascio si diede fuoco il 14 perché privato dell’immobile non aver onorato un debito con una banca. La proprietà, che era passata a Orazio Sciagura, è stata adesso affidata in custodia, in via provvisoria, e con facoltà d’uso alla vedova del muratore, Giorgia Famà, che dal giorno della tragedia, assieme alle sue due figlie, non ha lasciato la casa di via Brescia a Vittoria. Le indagini delle Fiamme gialle, avviate per accertare eventuali irregolarità nell’iter di aggiudicazione all’asta dell’immobile, si legge una nota degli investigatori, avrebbero permesso di individuare “numerose e vistosissime anomalie nella procedura svolta dal professionista delegato dal giudice per l’esecuzione ai fini dell’aggiudicazione dell’immobile”. Oltre al decreto di sequestro preventivo, la guardia di finanza e la Procura di Ragusa stanno valutando anche la posizione dei professionisti che a vario titolo sono intervenuti nella transazione allo scopo di verificare responsabilità, oltre che amministrative, anche di carattere penale. I reati ipotizzati nei confronti di tre indagati sono, a vario titolo, di turbata libertà degli incanti, estorsione e concorso in falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale in atti pubblici. Il procuratore Petralia ha delegato altre indagini alla guardia di finanza per “acquisire altri elementi di riscontro utili per la definizione della vicenda”.

L'immobile, già venduto all'asta, è stato affidato alla moglie su disposizione della procura. “Numerose e vistosissime anomalie” sono state riscontrate nella procedura svolta dal professionista delegato dal giudice per la vendita all’asta della casa del muratore di Ragusa Giovanni Guarascio, che per evitare lo sfratto si diede fuoco e morì alcuni giorni dopo in ospedale, scrive “horsemoonposta”. Questo è quanto emerso dalle indagini della Guardia di Finanza, che su disposizione del procuratore di Ragusa, Carmelo Petralia, ha sequestrato l’immobile, ancora in uso alla famiglia, e lo ha affidato alla vedova di Guarascio. Tre persone sono state iscritte nel registro degli indagati per diverse ipotesi di reato: turbata libertà degli incanti, estorsione, falso ideologico commesso da pubblico ufficiale in atti pubblici in concorso. Il tragico episodio risale al maggio del 2013, quando nel tentativo di respingere l’aggiudicatario della casa venduta all’asta, Orazio Sciagura, il muratore si versò addosso liquido infiammabile e si diede fuoco. A causa delle gravi ustioni mori nell’ospedale “Cannizzaro” di Catania dopo una settimana di ricovero in terapia intensiva. Il fatto turbò molto l’opinione pubblica e mosse gli inquirenti a compiere alcune prime verifiche, in maniera del tutto riservata e senza clamori sulla stampa. Cominciarono a circolare indiscrezioni su “visite” dei finanzieri in diverse agenzie di credito, per raccogliere informazioni e documenti. Oggi l’epilogo che mostra come una vita sia stata sacrificata sull’altare del vile denaro. Resta tuttavia un tragico dubbio: gli inquirenti avrebbero ascoltato Guarascio come avrebbe meritato? Questa storia non è forse una tragica conferma della sfiducia dei cittadini verso lo Stato?

Casa sotto sequestro affidata alla vedova. Le indagini giudiziarie condotte dalla Guardia di finanza sul dramma del muratore vittoriese che si è suicidato nel mese di maggio del 2013 per non farsi togliere la casa di via Brescia messa in vendita all’asta giudiziaria, hanno accertato irregolarità sulle procedure d’asta, scrive Giuseppe La Lota su “Il Corriere di Ragusa”. Nuovi sviluppi sul caso Giovanni Guarascio. La casa di via Brescia è stata messa sotto sequestro e consegnata in affidamento alla signora Giorgia Famà, moglie della vittima. Le indagini giudiziarie condotte dalla Guardia di finanza sul dramma del muratore vittoriese che si è suicidato nel mese di maggio del 2013 per non farsi togliere la casa di via Brescia messa in vendita all’asta giudiziaria, hanno accertato irregolarità sulle procedure d’asta attuate dal consulente Giuseppe Cassarino. Irregolarità che hanno indotto il procuratore capo della Repubblica Carmelo Petralia a firmare nei giorni scorsi l’ordinanza di sequestro dell’immobile. Stamani inquirenti della Guardia di finanza hanno proceduto a mettere i sigilli all’immobile per affidarlo alla vedova del muratore. Per la cronaca va detto che la casa era già stata venduta all’asta all’acquirente Orazio Sciagura, vittoriese residente a Scoglitti. In attesa che si completino le indagini, la Procura, avendo ravvisato irregolarità circa le modalità tecniche e farraginose della vendita all’asta, ha messo sotto sequestro l’immobile. Il caso Guarascio diede il «là» a un sistema contorto e nebuloso nel mondo della aste giudiziarie, scoperchiando una pentola dentro la quale non tutto ciò che bolliva era pulito e cristallino. Un fenomeno che ha coinvolto diversi professionisti e che adesso ha subito una brusca frenata proprio perché l’autorità giudiziaria mantiene il fiato sul collo degli attori che tentano di acquistare beni che valgono molto di più approfittando delle disgrazie finanziarie dei proprietari originari. Oltre all’atto di sequestro, Finanza e Procura, stanno valutando anche la posizione dei professionisti che a vario titolo hanno avuto un ruolo determinante nella transazione allo scopo di verificare se ci sono responsabilità, oltre che amministrative, anche di carattere penale. Il 22 febbraio 2013 scorso, i due poliziotti che rimasero gravemente feriti nel tentativo di strappare alla morte Giovanni Guarascio e la stessa moglie Giorgia Famà, come giusto riconoscimento del loro gesto eroico, hanno ricevuto la cittadinanza onoraria da parte del sindaco Giuseppe Nicosia.

Le sorelle Guarascio: “Rimaste senza aiuti, proviamo a riscattare la nostra casa”, scrive Valentina Frasca su “Ragusa24”. Nove mesi dopo la tragedia di via Brescia, le figlie di Giovanni Guarascio si sfogano: "Sappiamo che c'è un'indagine sulle aste, ma siamo sempre le ultime a sapere le cose. Chiesa e istituzioni ci hanno lasciate sole". Quanto a lungo si può lottare prima che la disperazione abbia il sopravvento? E cosa resta “dopo”? Quando i riflettori si spengono, quando gli attestati di solidarietà ufficiali diminuiscono fino a sparire del tutto e restano solo quelli segreti e forse più sinceri. Come si sopravvive al dramma e al dolore che ne consegue? Sono tornata a casa Guarascio, senza saperlo proprio nei giorni in cui Giovanni e la moglie avrebbero festeggiato i loro 40 anni di matrimonio. Saranno il tempo e la legge a dire cosa ne sarà di quest’abitazione ma è strano incontrare Martina e Claudia Guarascio, 28 e 32 anni, e fare quattro chiacchiere con loro proprio all’interno del garage di via Brescia che il 14 maggio scorso fu teatro di quell’assurda tragedia.

Iniziamo dalle condizioni di salute della vostra mamma. Come sta?

«Rispetto a prima un po’ meglio. Lei ha 64 anni, ha riportato ustioni gravissime su tutto il corpo e solo grazie a chi ci ha aiutate a portarla a Catania è ancora viva perché ci dicevano che al centro grandi ustioni di Catania e Palermo non c’era posto. E’ rimasta all’ospedale di Vittoria 24 ore, ha rischiato l’amputazione delle braccia, era in pericolo di vita e solo quando abbiamo lanciato un appello attraverso i media nazionali è stata finalmente trasferita al Cannizzaro. Ha ancora problemi al collo, nonostante sia stata operata, e i movimenti non sono fluidi, soprattutto quelli delle mani; le ferite si devono ancora cicatrizzare e forse tra un anno o due dovrà essere sottoposta a nuovi interventi chirurgici. Le ustioni non sono del tutto guarite, quelle al volto e alle mani sono le più gravi e poi soffre di pressione e di diabete (quest’ultimo le è venuto a seguito di quel terribile spavento). Oltre alle ferite del corpo ci sono quelle dell’anima. Soffre molto per la mancanza del marito e a maggior ragione in questo periodo dato che si sono sposati il 9 febbraio di 40 anni fa, ieri quindi doveva essere la loro grande festa. La sua vita ormai per lei non ha senso, è tutto finito».

Voi non lavorate, come pagate i suoi farmaci?

«Ogni tubetto di pomata costa 30 euro e mia mamma ne deve usare almeno 4 tipi a settimana. Viviamo con poco. Nostro fratello Antonio, che vive in Emilia Romagna e lavora nel settore edile, ci dà una mano. Un’altra persona che sin dall’inizio ci è stata accanto in modo straordinario pur senza conoscerci è Don Vincenzo, un prete di Pompei. Lui ci ha chiamati, ci è stato vicino e poco tempo fa siamo andati nella sua parrocchia a trascorrere qualche giorno e abbiamo avuto modo di conoscere una realtà che, a differenza di quella nostra, aiuta concretamente le persone bisognose senza pensare a un tornaconto personale».

Parliamo un po’ di vostro padre. Quali insegnamenti vi ha lasciato?

«Ci ha inculcato i valori della sincerità, della schiettezza e dell’onestà e per questo non abbiamo problemi quando diamo merito alle persone che ci sono state vicine nei momenti di bisogno, cioè una parte dei parenti e gli amici, ma anche quando denunciamo la mancanza della chiesa locale e delle istituzioni».

In che senso?

«Abbiamo sempre creduto in Dio e nella Chiesa ma nel momento in cui ci siamo rivolti ad essa, sia prima che dopo la tragedia, molti preti ci hanno chiuso le porte in faccia perché “volevano fatti concreti”.  Quanto ai rappresentanti istituzionali ci dispiace dirlo ma, a parte l’assessore Piero Gurrieri che ha scritto all’assessore Borsellino e che si sta impegnando anche per una legge che tuteli la prima casa, quasi nessuno ci è stato realmente vicino e, anzi, qualcuno è stato perfino sgradevole in alcune espressioni.  Le tasse continuano ad arrivarci puntualmente, l’ultima proprio oggi: 315 euro per l’acqua e la spazzatura del 2013!»

Si è messo in moto, per fortuna, anche un meccanismo grazie al quale tante gente del nord Italia vi ha aiutato…

«Grazie alla stampa nazionale la nostra storia è arrivata a tanti normalissimi cittadini che vivono dall’altra parte del Paese e che non smetterò mai di ringraziare per tutti i messaggi, le mail, le lettere. Anche a Natale persone di Roma e di Milano hanno chiamato per farci gli auguri e per infonderci coraggio, ci hanno chiesto di trovare la forza di andare avanti per combattere questa battaglia che sicuramente non avrà fine perché era la stessa che per anni ha combattuto nostro padre. Lui semplicemente non voleva lasciare la propria casa frutto di 40 anni di sacrifici, la casa che ha costruito nei week end da solo. Non poteva sopportare di vedersela portare via. Noi sapevamo che c’erano problemi seri e che la situazione non era molto limpida ma nessuno ci ha voluto ascoltare anche se chiedevamo aiuto a gran voce».

A che punto sono le indagini e l’iter della magistratura?

«Paradossalmente noi siamo sempre le ultime a sapere le cose e spesso le notizie le apprendiamo dalla stampa o dal nostro avvocato. Sappiamo solo che ci sono tre indagati per turbativa d’asta, estorsione e falso in atto pubblico e confidiamo nel lavoro dei magistrati. La casa penso sia ancora del proprietario di Scoglitti che se l’è aggiudicata all’asta per una cifra irrisoria».

La vostra vita com’è cambiata da quel maggio maledetto? Cosa vi manca di più?

«Ci manca solo il nostro papà, lui per noi era tutto. Eravamo tutti legati a lui, ci è crollato il mondo addosso, sopravviviamo ma non viviamo, senza di lui nulla ha più senso. Eravamo una famiglia unita che col sorriso andava avanti nonostante le difficoltà. Ci mancano i piccoli gesti, le piccole cose, il pranzo la domenica, la vigilia di Natale insieme. Ormai per noi non c’è più niente di tutto questo, sono solo dei ricordi. Papà era il pilastro di casa e senza di lui ci manca la serenità. Ci portiamo dentro un dolore che ci rimarrà a vita e l’indifferenza della gente (quando non addirittura la cattiveria di chi ci guarda male perché pensa che abbiamo ricevuto chissà quali aiuti economici) ci fa davvero male. La verità è che noi viviamo con quel poco che abbiamo e se riusciremo a riscattare un giorno questa casa sarà indubbiamente solo grazie all’aiuto dei nostri amici del nord Italia, gente di buon cuore che ha contribuito. La cosa che ci fa più male è quando veniamo considerati “un caso fra tanti”. A Vittoria non c’è una bella situazione con tutte queste case messe all’asta e si deve fare qualcosa per risolvere il problema. Il gesto di papà non deve rivelarsi  inutile”».

Chi delle due era in casa la mattina della tragedia?

«Entrambe ma eravamo al piano di sopra. Ricordiamo il fuoco, mentre scendevamo le scale abbiamo visto delle vampate e poi papà che sembrava una scheggia impazzita, correva avanti e indietro, cercava di liberarsi dalle fiamme perché sicuramente non voleva arrivare a tanto. Sono accorse tantissime persone, c’era chi chiamava i soccorsi, chi cercava di spegnere le fiamme e purtroppo anche chi guardava senza fare niente con gli occhiali da sole e le cartellette in mano”. Martina ricorda anche come quei momenti concitati siano stati gli ultimi in cui ha visto suo padre. “E’ salito sull’ambulanza con le proprie gambe e poi l’ho visto portare via con mia mamma. Mia sorella Claudia li ha seguiti in auto e mentre andavano via mi gridavano di rimanere a casa perché sennò se la sarebbero presa…»

In futuro cosa farete?

«Martina: “Io studiavo giurisprudenza e appena avrò la serenità mentale vorrei riprendere, abbiamo preso atto della situazione che c’è a Vittoria e del fatto che nessuno ci aiuta quindi sicuramente prenderemo in considerazione l’eventualità di raggiungere nostro fratello definitivamente non appena avremo sistemato un po’ di cose e nostra madre starà meglio”.

Cosa vi ha insegnato o lasciato tutta questa storia?

«Tanto dolore, neanche a dirlo…ci ha insegnato che non ci si deve mai fidare del prossimo, purtroppo. Mio papà da lassù ci sta dando la forza per andare avanti e combattere anche a nome suo per avere giustizia.»

Da Ferrara, dove si è trasferito da anni, anche Antonio ci conferma come sia stata forte la solidarietà di tantissima gente comune con la quale è nato un rapporto di gratitudine, stima e amicizia. “Mio padre era una persona buona, generosa, umile, un lavoratore, uno che non riusciva a dire no, sempre disponibile verso il prossimo. Quel maledetto giorno – racconta – dovevo trovarmi a Vittoria ma a causa di un piccolo infortunio ad un occhio, qualche giorno prima, dovetti restare a Ferrara. Il destino, a volte, sembra pianificare nei minimi particolari gli eventi! Ricordo che quella mattina ho chiamato ripetutamente mia madre per avere notizie fino a quando mi ha risposto mia sorella in lacrime raccontandomi dell’accaduto ma rassicurandomi  sullo stato di salute dei miei genitori per non farmi preoccupare. Mi sentivo impotente, mi trovavo a 1400 km di distanza e non potevo far niente né tantomeno conoscevo realmente la gravità dei danni fisici di mio padre e di mia madre. Dopo qualche minuto la notizia iniziò a fare il giro dei siti web, lessi che mio padre era stato trasferito in elisoccorso al Cannizzaro di Catania e che versava in condizioni gravissime. Lo rividi l’indomani nel reparto di rianimazione e quasi non credevo ai miei occhi. 7 giorni dopo ci lasciò. La più brutta chiamata della mia vita arrivò poco dopo le 3 di notte e il mio primo pensiero fu come dirlo alle mie sorelle che dormivano nella camera accanto. Mi vestii e iniziai a girare per casa. Poco dopo cominciarono ad arrivare i parenti… Mia mamma ha saputo della morte di nostro padre solo un mese dopo, nel giorno delle dimissioni dall’ospedale, in quanto anche lei versava in condizioni gravi e una notizia del genere avrebbe potuto pregiudicare il suo stato di salute”.

Probabilmente tra qualche tempo la tua famiglia ti raggiungerà a Ferrara. Pensi sia un bene allontanarsi dalla propria città di origine?

«Questo avverrà non prima dell’esito delle indagini, per adesso sono io che faccio la spola tra Ferrara e Vittoria ma una cosa è certa: non abbasseremo mai la guardia, vogliamo che venga fatta chiarezza su tutta la vicenda! Vogliamo risposte e attendiamo fiduciosi l’esito del lavoro della magistratura. Allontanarsi da Vittoria penso sarà un bene per la mia famiglia che deve rifarsi una nuova vita, lasciandosi alle spalle i brutti ricordi. In Sicilia le mie sorelle da tanti anni cercano un’occupazione ma non la trovano e la città sembra essere in ginocchio sotto tutti i punti di vista».

MAFIOPOLI.

La provincia di Ragusa, per dettagli storici legati alla non presenza della mano armata di Cosa Nostra, si è meritata negli anni l’appellativo di “babba” correlato all’idea di un’isola di purezza all’interno del contesto siciliano, scrive Simone Lo Presti su “Generazione Zero”. Ma la logica spinge sempre più verso l’opposta versione dei fatti e, perfino, si arriva sostenere che la provincia di Ragusa non sia altro che una grande lavatrice, in cui il denaro sporco viene reinvestito. Risulta, però, complicato riuscire a trovare il bandolo della matassa in un contesto economico, quello ragusano, così tanto articolato e vario: basterebbe però ricordare il boom della fine degli anni ’70, con il pullulare di imprenditori di dubbia onestà. Si tratta del periodo in cui le famiglie mafiose del palermitano e del trapanese cominciano ad acquistare ettari di terreno attorno ad Acate, Santa Croce, Vittoria e Comiso. Si tratta dei Teresi, degli Aiello di Bagheria, i Salvo di Salemi, i Rollo, gli Amoroso e i Greco di Cianculli, i quali non entrando in contrasto con il clan dei Dominante, già presente nel panorama ibleo, ma sicuri degli appoggi politici, si dedicano ad una fitta attività imprenditoriale. Ciò che, invece, sta emergendo, ai giorni nostri, è la presenza sempre più capillare di gruppi armati proto-mafiosi con il proprio giro di estorsioni e racket, evidenziato dal recente arresto di 5 “stiddari”: Mario Campailla, di 50 anni, detto “Mario Saponetta”, il quale aveva già scontato otto anni di carcere per associazione finalizzata al traffico di stupefacenti; Francesco Razza, di 53 anni e fratellastro di Campailla; Salvatore Servo, 38enne originario di Palagonia ma residente a Comiso; Silvio Izzia 36enne anch’egli fratellastro di Campailla e Massimo Scalambrieri, 25 anni. Tutti gli arrestati avevano precedenti specifici, più un sesto fermato, Salvatore Adamo, di 36 anni, per porto abusivo d’armi. La “Stidda” è un’organizzazione mafiosa, o proto-mafiosa, oggi diffusa prevalentemente nelle province di Caltanissetta, Agrigento, Enna e Ragusa, che annovera nella sua “Hall of Fame” iblea i fratelli Gallo (uccisi nel 1987 da Biagio Gravina, professore dell’attuale IPSIA di Ragusa); lo stesso Biagio Gravina e il clan, cosidetto dei Dominante, formato anche dai tre fratelli Carbonaro, già attivi al fianco di Turi Gallo. Ma questi precedenti storici sono forse caduti nell’oblio per la cultura omertosa della provincia babba: “cu si fa i fatti so, campa cent’anni”. Ma i fatti odierni non permettono ed evidenziano come questo modo di comportarsi sia a rischio sopravvivenza, con tutte le problematiche che lo scardinamento di una cultura sociale comporta: l’operazione, denominata “Chimera”, è stata, infatti, portata a termine grazie alla denuncia di tre imprenditori comisani ed alle intercettazioni telefoniche e ambientali. Il Procuratore di Ragusa, Carmelo Petralia, ha voluto sottolineare “l’attività che prosegue in sinergia tra la procura iblea e la Dda, in un territorio che ha dimostrato la persistenza del fenomeno mafioso e con un giro d’affari non indifferente”. A caratterizzare il ritorno degli stiddari a Comiso, come spiega il procuratore aggiunto della Dda Amedeo Bertone, “era la grande disponibilità di armi da guerra, provenienti dalla Calabria e la capillare organizzazione che Campailla aveva dato al gruppo sin dagli ultimi mesi della sua detenzione”.

Ragusa. L'altra faccia della mafia.  Sullo sfondo della crescita economica, un'evoluzione delle strategie criminali e l'esplosione di insolite ricchezze, scrive Claudio Fava e Miki Gambino su “Terre Libere” . Agenzia di Ragusa della Banca di Credito San Giuliano, ore 10 del mattino di un giorno qualunque: allo sportello dei versamenti, puntuale come un orologio svizzero, si presenta il solito ragioniere, anonimo completo grigio con cravatta azzurra, una busta rigonfia e un pò sgualcita stretta tra le mani. Dentro ci sono denaro contante ed assegni intestati alla ditta per la quale il ragioniere lavora; la cifra, complessivamente, varia di giorno in giorno ma, particolare curioso, non supera mai i venti milioni. Solo al di sopra di questa cifra, infatti, scattano i controlli previsti dalle nuove norme antimafia in materia di depositi bancari. E dalla Finanza la ditta preferisce tenersi alla larga, per prudenza. Può cominciare da qui il nostro viaggio nella Ragusa che cambia. Poichè, per quanto complessa sia la trasformazione che questa provincia sta subendo, tutto riconduce, alla fine, a questa immagine: la banca, il ragioniere, la busta rigonfia tra le sue mani. E sullo sfondo, immobili come un presagio, alcuni signori in divisa da finanzieri. “Sicilia babba” dicono i catanesi per indicare questa parte della Sicilia; e nel loro codice babba vuol dire tranquilla, ma anche onesta; una placidità che odora di benessere contadino, di salotti nuovi con la plastica trasparente che ricopre ancora il divano, e il servizio buono del caffè. Un “miracolo economico” che nasce da un intelligente sfruttamento delle risorse della terra, dal paziente lavoro di anni, da una saggezza contadina che ricorda la formica della fiaba di Esopo. E dalla capacità di saper aderire alla propria cultura originaria cultura della terra anche se in banca i libretti di risparmio si moltiplicano. Un'immagine che viene tuttora accreditata, ma con sempre maggiore difficoltà e con eccezioni ogni giorno più frequenti ed inquietanti: c'è da fare i conti con la crisi economica, che è arrivata fin qui ed ha colpito pesantemente un tessuto economico basato principalmente sull'iniziativa privata, soprattutto agricoltura ed artigianato: così accanto all'Anic che ha licenziato 900 operai negli ultimi sette anni, si assiste ad un continuo stillicidio di piccole e medie imprese, e quasi non passa giorno senza che un pastificio, un calzaturificio, un piccolo costruttore non chiuda bottega. Una crisi pesante, che ha prodotto nella provincia di Ragusa 25. 000 disoccupati e che fatalmente crea notevoli tensioni sociali in contrasto con l'immagine opulenta e quieta che questa zona ha sempre trasmesso di sè stessa. Ma se questi elementi di “novità” seguono tutto sommato il corso dei tempi, e si spiegano facilmente, ve ne sono altri che appaiono invece del tutto incomprensibili. Come alcuni improvvisi arricchimenti. Il primo a parlarne fu Pantaleone, lo scrittore siciliano più impegnato sui temi della mafia: parlando dell'avvento del fenomeno mafioso nella provincia di Ragusa, citò il caso di un bidello di Modica che nel giro di pochi anni era diventato titolare di una catena di pompe di benzina con un giro d'affari di miliardi. Pantaleone non conosceva il nome di quell'insolito personaggio, ma a Modica l'identificazione fu immediata: Salvatore Minardo, quarantenne, fino al 1976 gestore di una pompa di benzina e bidello delle scuole elementari di Modica; all'improvviso aveva abbandonato questo lavoro per gettarsi a corpo morto nel mondo degli affari. E del petrolio. Era cominciata, in quel modo, una fulminea scalata verso la ricchezza; attraverso licenze ottenute dall'Assessorato all'Industria in tempi record e l'investimento di notevoli capitali (sulla cui provenienza nessuno è riuscito a fornire plausibili spiegazioni), oggi l'ex bidello è diventato titolare di una catena di stazioni di rifornimento riunite sotto le sigle GIAP e MONTEDIPE, di un deposito carburante ad Augusta e di una ventina di autoarticolati. Ma gli interessi di Minardo non si fermano alla benzina: insieme ad un certo ingegner Frasca, l'ex bidello è infatti titolare della CAST, un'impresa di costruzioni che ha edificato alcuni complessi edilizi e che negli ultimi tempi ha acquistato parecchi terreni nei dintorni di Modica; si tratta di aree destinate ad uso agricolo, ma stranamente, subito dopo le cessioni dei terreni alla CAST, si è cominciato a parlare in consiglio comunale di possibili, “opportune” varianti al Piano Regolatore. Già in passato, d'altra parte, Minardo è riuscito a trarre vantaggi dalle decisioni degli amministratori di Modica (la città è stata governata da una giunta di centro sinistra): è il suo deposito, ad esempio, a rifornire di carburante per riscaldamento e per autotrazione la città, e qualche tempo fa l'ex sindaco del paese (Terranova, democristiano della corrente del catanese Nino Drago), andò contro il parere dell'ufficio tecnico comunale pur di dichiarare idoneo ad alloggiare gli uffici della locale USL un immobile di proprietà della CAST che Minardo non era riuscito ad affittare altrimenti. All'inizio dell'anno Minardo ha tentato un altro grosso colpo: aprire uno sportello-cambi all'interno della base di Comiso, ossia in una situazione di extraterritorialità, al riparo dei controlli della Banca d'Italia. Per portare a buon fine questa operazione per la quale la pratica è ancora in corso Minardo si è messo in società con Momi Cartia, socialista, proprietario di un albergo (il Miramare), venditore d'auto e titolare, con altri due amici, della SORACA, una società che già lavora all'interno della base americana (e di cui parliamo in altra parte del servizio). Amante dei viaggi, Minardo ha spesso sfruttato questa passione per consolidare utili amicizie: recentemente è stato in vacanza in Austria insieme al sostituto procuratore della repubblica di Modica, Ciarcià, e poi in Brasile in una comitiva di cui facevano parte anche il dr. Ciarcià e il segretario provinciale della Democrazia Cristiana, D'Urso. Altro fidato amico di Salvatore Minardo è Nino Sammito, anche lui democristiano (legato al deputato dell'Ars . . . Avola), ex assessore ai lavori pubblici e all'urbanistica, oggi dipendente dell'ufficio tecnico del comune di Modica. Ma il petroliere-ex bidello non è l'unico personaggio dalle grandi improvvise fortune e dalle solide amicizie politiche. Un altro protagonista delle cronache della provincia è Biagio Cutrale, comisano, proprietario di diverse decine di immobili a Milano ed in altre parti d'Italia e con interessi fino al Venezuela e al Canada (una testimonianza indiretta sono i suoi frequenti viaggi in quella parte dell'emisfero). Legato ad ambienti della NATO, con una propria società la SIEN Cutrale ha preso in subappalto numerosi lavori all'interno della base di Comiso. Le amicizie, d'altra parte, sono uno dei suoi punti di forza: ne vanta dappertutto, e in tutti gli ambienti che contano. Il suo biglietto da visita è nel portafogli di deputati dell'Ars, magistrati (si dice che abbia regalato una piscina ad un giudice), ma anche di personaggi inquietanti: un suo parente ebbe rapporti con il bandito milanese Renato Vallanzasca prima che questi venisse arrestato, e tra i suoi uomini di fiducia c'era anche Salvatore Inghilterra. Un personaggio ambiguo, legato ad ambienti equivoci della malavita comisana, Inghilterra fu assassinato in circostanze non ancora chiarite due anni fa, eppure riuscì egualmente a mantenere sempre un proficuo rapporto con i notabili democristiani locali: era stato candidato nelle liste della Dc nel 1978, nell'81 fu lui ad ospitare nella propria abitazione l'allora segretario democristiano Piccoli in visita a Comiso, e poco prima di essere ucciso era stato eletto consigliere nella locale USL. Pare che i rapporti tra Cutrale ed Inghilterra fossero notevolmente peggiorati negli ultimi mesi. Del resto, Cutrale non ha mai fatto mistero della propria amicizia o della propria ostilità. Estroverso, arrogante, chiassoso, un pò spaccone: una personalità opposta rispetto a quella di Giuseppe Cirasa, considerato, prima di essere ucciso, il boss della vecchia mafia ragusana. Specializzato in contrabbando di sigarette ed estorsioni, Cirasa, che all'epoca secondo qualcuno era componente di quella famosa commissione mafiosa interprovinciale di cui parla Buscetta, era stato arrestato nel dicembre del 1982 per scontare una condanna a tre anni e mezzo di carcere. Dopo soli sei mesi, durante i quali era già riuscito ad ottenere una licenza di 15 giorni, Cirasa chiese ed ottenne la grazia nonostante il parere sfavorevole di carabinieri e polizia, e nonostante avesse ancora da scontare tre anni di reclusione. Giuseppe Cirasa tornò al suo paese, a Vittoria: ma appena un mese dopo lo uccidevano. La sua morte segnò una improvvisa accelerazione nel processo che sta portando all'inserimento della provincia ragusana, e soprattutto della zona di Vittoria, nel grande giro del traffico di eroina. Un inserimento i cui effetti sono ormai drammaticamente evidenti: ella provincia di Ragusa ci sono 1. 000 tossicodipendenti accertati, 400 dei quali solo a Vittoria, e il fenomeno è in piena espansione. Qualche settimana fa ci sono stati i primi arresti, ma anche i primi morti. Non è da escludere che controllare il traffico, attraverso alcune Famiglie della criminalità ragusana, siano direttamente i catanesi (Nitto Santapaola, infatti, ha solide basi operative poco più a Nord, nella zona di Scordia, Militello, Palagonia e Francofonte, al confine con la provincia di Catania). In rapida espansione è anche il settore più “tradizionale” delle estorsioni, che sempre più spesso si serve dei tossicodipendenti, e della loro disperazione, per il taglieggiamento porta a porta. Una organizzazione particolarmente forte a Vittoria, Comiso, Acate, Scicli, Modica e Pozzallo, dove sfrutterebbe la presenza di alcuni “basisti” all'interno delle banche; una utilissima fonte di informazione per verificare la consistenza patrimoniale delle possibili vittime da taglieggiare. Un collegamento organico, in provincia di Ragusa, esiste poi fra i gruppi che controllano il traffico d'eroina e gli organizzatori del gioco d'azzardo. Un'attività, quest'ultima, che è sempre prosperata in Siclia offrendo alla borghesia medio-alta un canale illecito ma eccitante di “investimento”; oggi, però, le bische ed a Ragusa non fanno eccezione assumono una dimensione pericolosamente nuova come momento di “riciclaggio” del denaro sporco proveniente dal traffico d'eroina. Si tratterebbe in pratica di una riproduzione, su scala ridotta, di quanto avveniva nei casinò italiani al centro, l'anno scorso. Nel ragusano si gioca in diverse ville di campagna, con l'accortezza di assumere tutte le necessarie precauzioni (tutte le strade d'accesso alla bisca vengono attentamente controllate da uomini dell'organizzazione): una volta i carabinieri fecero irruzione in una villa sospetta, ma vi trovarono soltanto una ventina di persone innocentemente sedute attorno ad una tavola imbandita per la cena. Erano stati più svelti dei militari. Secondo stime approssimative, sui tavoli della roulette e dello chemin de fer di Ragusa girerebbero all'incirca settecento milioni al mese. La stessa cifra settecento milioni che recentemente sarebbe stata oggetto di una trattativa tra due grossisti di fiori di Scicli, i fratelli Guarino, e un dirigente della banca di Credito San Giuliano: in cambio di versamenti mensili garantiti per quell'ordine di cifre, i Guarino volevano negoziare tassi d'interesse particolarmente favorevoli. Grosse entrature i Guarino li hanno anche nel settore dei trasporti; un settore che nel ragusano è particolarmente florido (c'è la più alta densità italiana di ditte di trasporti), ma altrettanto turbolento; recentemente, sull'autostrada del Sole, in Calabria, la polizia stradale ha rinvenuto i corpi di due fratelli di Comiso, camionisti entrambi, uccisi a colpi di pistola. E quando a Ragusa e provincia si è tentato di crerae una cooperativa autonoma di trasportatori, il progetto è dovuto rientrare di fronte ad una serie di inequivocabili avvertimenti. Non si tratterebbe comunque, secondo gli inquirenti, di semplici questioni di concorrenza: su alcuni delle centinaia di camion che ogni giorno partono per il Nord carichi di prodotti delle serre, ci sarebbe anche eroina, probabilmente raffinata in un laboratorio che si troverebbe nella zona e che da tempo si cerca di individuare. Droga, estorsioni, gioco d'azzardo; e sullo sfondo pesanti compromissioni di certi ambienti politici con spregiudicati gruppi di potere economico. Se tutto questo non è ancora definitivamente mafia, il merito è solo della gente, in larga parte non ancora assimilata a quella “cultura del silenzio” che è l'humus del quale la mafia ha bisogno per crescere. Da queste parti la “questione morale” conta molto, ed è attorno ad essa, ad esempio, che si creano e si sciolgono le giunte comunali. Il 5 novembre dello scorso anno a Vittoria 8. 000 persone sono scese in piazza per manifestare contro mafia, droga ed estorsioni. E la reazione, sia pure emotiva, è stata immediata e positiva: nelle settimane successive le forze dell'ordine hanno registrato un considerevole aumento delle denunzie contro i tentativi di estorsione. Ci si mobilita, ma si teme anche di esorcizzare il problema. La mafia dicono da queste parti è un prodotto d'importazione, non appartiene alla nostra cultura. E' arrivata con i palermitani, aggiungono gli addetti ai lavori. Una “invasione” discreta ma inevitabile, che inizia una decina di anni fa con l'acquisto di alcuni terreni nella zona di Acate: i primi ad intuire le enormi possibilità di investimento offerte dalla zona sono alcuni mafiosi inviati da queste parti al soggiorno obbligato: Gaspare Gambino, i Girgenti, i Rallo, gli Amoroso, seguiti poi da personaggi oggi clamorosamente alla ribalta come i Salvo e i Greco. L'espansione, che è favorita dall'assenza di “anticorpi” in una zona che ignorava allora il problema mafioso (e dunque anche le adatte contromisure), si è attuata attraverso due specifici filoni d'intervento: da una parte l'acquisto massiccio di terreni, che consente un riciclaggio di denaro sporco attraverso sicuri investimenti; i Salvo, da soli possiedono nella zona di Acate oltre mille ettari di terreno produttivo, e si calcola che in mano alle famiglie palermitane ci siano oggi circa diecimila ettari di terra, per un valore di 50 miliardi. Sull'altro versante la mafia palermitana ha operato attraverso l'acquisto di aree edificabili, o da rendere tali attraverso compiacenti modifiche dei piani regolatori. Operazioni, queste, per le quali le famiglie di Palermo si sono servite quasi sempre di prestanome locali. Alcuni esempi: nel blitz di “San Michele”, il 29 settembre scorso, è stato arrestato Giovanni Di Pace, 53 anni, agricoltore palermitano da tempo residente a Vittoria, cognato di Salvatore Greco e già coinvolto con società ragusane in una truffa ai danni della Cee. Ci sono poi strane società palermitane molto interessate a speculazioni immobiliari nel ragusano. Come la FEBO spa, iscritta al registro del tribunale di Palermo (numero 18. 985), capitale sociale iniziale 200 milioni, poi elevato ad un miliardo. Soci della FEBO, che sta comprando numerosi terreni agricoli nella zona di Vittoria, sono tre anonimi palermitani, il ragioniere Vincenzo Romano, il dottor Claudio Bella e la signorina Lucia Carnevale. Sono in molti, a Vittoria, a chiedersi da dove provengano i capitali utilizzati dalla società palermitana. Accanto a cospicui investimenti di marca palermitana, anche nella provincia di Ragusa ci sono significative tracce del passaggio dei cavalieri del lavoro catanesi che hanno realizzato le più imponenti opere pubbliche della zona; due giganteschi viadotti (Costanzo e Rendo) e l'ampliamento del porto di Pozzallo, un discusso appalto che l'impresa Graci è riuscita ad aggiudicarsi usufruendo anche di una sostanziosa revisione del prezzo base. La gente, abbiamo detto, fa fronte all'emergenza scendendo in piazza a manifestare. E lo Stato? Dopo aver denunziato l'assalto “palermitano” ad Acate, Comiso e Gela, De Francesco è tornato alla carica: recentemente ha convocato alcuni sindaci della zona per metterli sull'avviso contro il pericolo di nuovi investimenti di capitali mafiosi nel ragusano, soprattutto nel settore turistico-edilizio. Ma si tratta di grida nel deserto. La tendenza, infatti, è quella di minimizzare. E si racconta un episodio significativo: nell'estate dello scorso anno l'ex capo squadra mobile di Ragusa, Saverio Albo, subì un attentato: gli spararono contro alcuni colpi di pistola, ferendolo per fortuna solo di striscio. Il giorno dopo il questore Borgese (lo stesso che ordinò la carica contro i pacifisti di Comiso. Oggi è il responsabile dell'ordine pubblico all'assemblea regionale) aveva in programma un incontro con l'Alto Commissario per la lotta alla mafia; ma, quando lo vide, preferì evitare di riferirgli il gravissimo episodio. Negli ultimi mesi i vertici delle forze dell'ordine e delle istituzioni, a Ragusa, sono stati quasi interamente rinnovati. Oltre al capo della mobile (oggi in forza presso la questura di Caltagirone) ed al questore, sono stati sostituiti il comandante della Guardia di Finanza, quello dei Carabinieri ed il Prefetto. Nel frattempo, però, negli uffici giudiziari di Ragusa e provincia, la legge La Torre continua ad essere pressocchè ignorata; ed accanto a magistrati moto attivi e preparati (come il giudice istruttore Duchi, costretto da alcuni mesi a girare sotto scorta), ci sono giudici che non sono ancora riusciti a cogliere il profondo mutamento che l'assetto sociale di Ragusa (e la qualità del suo livello criminale) sta subendo. La lotta alla mafia, da queste parti, non è ancora una battaglia di tutti. Ma a Comiso c'è chi spia. Ma la provincia di Ragusa vuol dire anche base militare di Comiso, cioè una presenza non dichiarata ma certa dei servizi segreti nelle principali città della zona. E' sicura la “presenza operativa” del Sisde, con un ufficiale e due sottufficiali della Guardia di Finanza, del Sismi, con alcuni ufficiali e sottufficiali dell'Aeronautica, e del controspionaggio americano. Si racconta ancora un episodio piuttosto grottesco accaduto questa estate, quando alcuni pacifisti del campo di Comiso furono avvicinati da un signore che tirò fuori dal taschino un tesserino di giornalista e disse di essere un inviato della Literaturnaia Gazeta, uno dei più diffusi quotidiani dell'Unione Sovietica. “Intervistò” quei ragazzi, prese molti appunti, disse che si sarebbe fatto vedere dopo qualche giorno. Ma non torno più. E pare che sulla Literaturnaia non sia uscito nessun articolo sui pacifisti di Comiso. Aneddoti. Più prosaici sono stati i tentativi di mettere le mani sulla grossa fetta di appalti che erano in gioco per la costruzione della base di Comiso. Molti appalti sono stati concessi in seguito a trattativa privata, ed a beneficiarne sono state spesso ditte create ad hoc per quei lavori. L'ICI, ad esempio, ha un solo operaio e pochi impiegati; la SORACA (che ha preso numerosi appalti per la costruzione di impianti per servizi, all'interno della base) invece non dispone di nessun operaio: è stata costituita, quando a Comiso vennero banditi i primi appalti, da un gestore di ristoranti, un commerciante di automobili e un agente di viaggi. Altro problema è costituito dalla sostanziale vanificazione della normativa della legge La Torre. Buona parte dei lavori sono stati eseguiti in subappalto, da imprese diverse rispetto a quelle che avevano vinto le gare d'appalto, senza alcuna possibilità di controllo. Anche nei confronti dei lavoratori assunti alla base Nato, si registra la disapplicazione di buona parte della normativa sul diritto del lavoro. La giustificazione adottata è l'extraterritorialità della base, e dunque la sottrazione dei rapporti di lavoro al controllo dei nostri ispettorati: il mese scorso ad un funzionario dell'ispettorato del lavoro di Ragusa fu impedito senza molti complimenti l'accesso alla base militare. Negli atti dell'Antimafia (si tratta di una deposizione raccolta dalla Commissione nel maggio scorso) si legge: “La realizzazione della base (di Comiso) rappresenta un elemento che accelera in modo impressionante i processi di degenerazione e di inquinamento della vita sociale e politica di questa città”. Ed ancora: “La pratica dei doppi o dei tripli passaggi, dei subappalti è la regola dominante; la stragrande maggioranza dei lavori viene affidata in base a presunte leggi e regolamenti stranieri che non sono controllabili da nessun organo dello Stato”.  

“A Ragusa la mafia si nasconde dietro ai soldi”. A Ragusa la mafia non si vede ma si sente la puzza dei soldi sporchi. Francesco Fallica, comandante della Guardia di Finanza di Ragusa, ripete ogni giorno che qui è una lavanderia. E le banche devono fare qualcosa. Intervista di Giorgio Ruta su “I Siciliani”. Colonnello Fallica, lei ha fatto della lotta al riciclaggio a Ragusa una que­stione di primaria importanza.

Che succede a Ragusa?

«Nessuno deve sentirsi escluso dal cancro del riciclaggio, tantomeno Ragusa. Oggi i soldi viaggiano veloce e lo fanno attraverso flussi non sempre controllabili. È importante il ruolo delle banche perchè sono il primo momento in cui i soldi entrano nel sistema. Quindi se la banca è attenta, segnalando le operazioni sospette, il riciclaggio si può attenuare.»

Incuriosisce che queste segnalazioni sono poche nel ragusano, anzi pochissime, nonostante gli scandali che sono scoppiati in provincia. Facciamo parlare le cifre. In un anno quante segnalazioni sono partite dalle banche?

«Nell’ultimo anno circa 130. Sono poche, dovrebbero essere molte di più. Nell’ultimo periodo sono cresciute ma non basta. La segnalazione è un aspetto culturale. Molti non segnalano perchè c’è un rapporto personale con il soggetto che compie un’operazione sospetta. Solitamente, abbiamo notato, si segnala quando il soggetto cambia banca, quasi per vendetta. I funzionari sanno quello di cui parlo, e sanno pure perchè non si fanno le segnalazioni. Ma questo comportamento arreca un danno a loro stessi con possibili sanzioni, ma soprattutto perchè si inquina l’economia.»

Come e chi ricicla a Ragusa?

«Si ricicla attraverso la banca, oppure attraverso i professionisti o tramite attivi­tà commerciali. Anche se non penso, quest’ultimo, sia al momento il sistema principale per pulire il denaro. Ragusa è stata definita la capitale del riciclaggio in Sicilia, non penso che questa definizione sia molto lontana dalla realtà. La vicinanza con Malta è un fattore importante. E poi ci sono state e ci sono presenze di soggetti con precedenti mafiosi che fanno riflettere. Questo ci incuriosisce e stiamo compiendo attività su questo.»

Mafia e riciclaggio. Il mito della Ragusa “babba” si sgretola sempre più. Le vostre indagini sull’eolico e sul settore vinicolo sembrerebbero confermare questa tesi.

«Nella zona ci sono stati interessi nell’eolico di alcuni personaggi ambigui con vicinanze mafiose. Questi soggetti si sono infiltrati in provincia tramite passaggi societari che abbiamo osservato. Questo ci fa riflettere e ci stiamo lavorando. Nel settore del vino io avevo colto, in tempi non sospetti, alcune intromissioni di alcuni soggetti che vanno approfonditi. La Procura ci sta lavorando.»

Perchè Ragusa è una zona franca per gli investimenti sospetti?

«Perchè c’è un tessuto economico diverso dal resto dell’Isola. Perchè il cittadino ragusano è solitamente per bene, lavoratore, proprietario. Sta bene curando il proprio giardino, non ha tendenze distruttive. Questo aspetto nel tempo è stato colto da gruppi criminali che hanno fiutato l’affare che si poteva nascondere dietro questa tranquillità. Soggetti nel tempo si sono infiltrati e hanno fatto determinati interessi. È sotto gli occhi di tutti la presenza di colonie di palermitani e trapanesi. Stiamo parlando di persone con profili criminali interessanti. Qui non si è immuni ma ancora non abbiamo capito il quadro generale. Convinciamoci che qui c’è stata e c’è la criminalità organizzata. La tranquillità paga.»

Chi comanda a Ragusa? La vicinanza farebbe pensare ad un’influenza dei catanesi.

«Qualcuno racconta della presenza di catanesi di massimo livello sul posto. Si racconta che Santapaola abbia fatto parte della latitanza qui. Va detto che qui la mafia non è quella dell’estorsione. È una mafia esterna fatta con presenze forti e io penso sia soprattutto palermitana.»

MAGISTROPOLI

Clamoroso. L'ex ministro di Grazia e Giustizia Oliviero Diliberto, attuale segretario nazionale del PdCI, e i deputati Gabriella Pistone e Cosimo Sgobio, presentano una interrogazione al ministro della Giustizia in cui viene chiesta la rimozione di Agostino Fera da procuratore della Repubblica di Ragusa.

Tale richiesta di allontanamento viene avanzata in relazione alle nuove gravissime emergenze sul caso Tumino e sull'uccisione del giornalista Giovanni Spampinato, all'oscuramento del sito AccadeinSicilia, a numerosi episodi denunziati da esponenti della società civile come esempi di malagiustizia, a vicende giudiziarie in cui il magistrato ragusano risulta nelle vesti di indagato. La società civile, in tutte le sue espressioni, si mobiliti per l'affermazione di una giustizia giusta.

Atti parlamentari - Camera dei Deputati - XIV legislatura - Allegato B ai resoconti - Seduta del 4 ottobre 2005. ( Gazzetta Ufficiale del 5 ottobre 2005)

GIUSTIZIA

Interrogazione a risposta scritta:

PISTONE, DILIBERTO e SGOBIO. - Al Ministro della giustizia. -

Per sapere - premesso che:

la permanenza presso il Tribunale di Ragusa del dottor Agostino Fera, attuale Procuratore della Repubblica, costituisce un problema non più eludibile in ordine al regolare funzionamento della giustizia nella circoscrizione giudiziaria di sua competenza;

nella sua lunga carriera di magistrato tutta trascorsa nel palazzo di giustizia di Ragusa, ove ha operato per quasi quarant'anni, ha potuto radicarsi, stringere amicizie con la classe imprenditoriale e politica della città e legarsi a circoli esclusivi come il Lyons Club. Come può avvenire in simili circostanze, tale presenza duratura ha finito con l'alimentare inimicizie e ostilità particolari. Alle voci legittimamente critiche sul conto del magistrato e della sua imparzialità, da tempo si rincorrono voci eterogenee, che oltre a lederne la dignità personale, alimentano confusione ed ulteriori pregiudizi sui restanti magistrati del distretto che invece conducono una vita privata consona al ruolo dagli stessi rivestito;

la spregiudicata ed inefficiente gestione della procura di Ragusa ha oramai superato il limite della tolleranza. Gli uffici requirenti del tribunale di Ragusa non hanno dato esempio di buona amministrazione. Sono infatti documentabili decine di casi di denunce, querele ed esposti per i quali, inspiegabilmente, non si è mai proceduto e che hanno finito con l'avvalorare il giudizio, sempre più diffuso tra la comunità iblea, di una giustizia monca;

nei confronti del dottor Agostino Fera sono in atto indagini preliminari disposte dalla Procura della Repubblica di Messina per il reato di cui agli articoli 323 e 110 del codice penale ("abuso di ufficio in concorso ") e quella di Palermo per il reato di cui all'articolo 368 del codice penale ("c calunnia"). Inoltre quattro magistrati di Reggio Calabria sono in atto indagati per "abuso di ufficio in concorso";

nel 1972 il dottor Fera, in veste di sostituto procuratore delegato dall'allora procuratore capo dottor Francesco Puglisi, si occupò dell'istruttoria riguardante il delitto Tumino da cui sarebbe poi derivata la uccisione del giornalista Giovanni Spampinato il quale in ordine ai sospetti che ricadevano su Roberto Campria, figlio dell'allora presidente del tribunale di Ragusa, ebbe modo di ipotizzare in un suo articolo pubblicato dal quotidiano di Palermo L'Ora, omissioni gravissime;

i deficit gravissimi di quell'istruttoria, allora subdorati e condannati con asprezza all'indomani dell'omicidio Spampinato da esponenti della cultura, del giornalismo e della politica del calibro di Giorgio Chessari, Miriam Mafai ed Achille Occhetto, vengono oggi conclamati, ad oltre trent'anni di distanza, dal libro-dossier " Morte a Ragusa " ed. Edi.bl.si;

nel corso di un processo tenutosi a Messina e conclusosi il 23 ottobre 2004, il dottor Fera avrebbe accusato quali responsabili dell'uccisione del giornalista Spampinato le stesse testate giornalistiche, L'Ora e L'Unità sulle quali scriveva il cronista ragusano offendendo, a seguito di tali dichiarazioni, la memoria dello stesso e la dignità dell'informazione civile e per le quali non ha neanche avvertito la necessità di rispondere alle relative censure mossegli pubblicamente da esponenti della cultura italiana e della società civile;

il foglio on-line "accadeinsicilia", che ha reso pubbliche le dichiarazioni infamanti del dottor Fera e le testimonianze di sdegno che ne sono seguite, è stato oscurato in via preventiva in sede di accertamento civile, dal giudice del tribunale di Ragusa dottor Vincenzo Saito, su istanza di un avvocato strettamente legato al dottor Fera per ragioni di patrocinio professionale. L'oscuramento, fortemente lesivo dell'articolo 21 della Costituzione, che sotto l'aspetto della competenza territoriale risulta essere illegittimo perché ricadrebbe sotto la diversa competenza dei fori di Modica (sede del responsabile del sito internet) e di Arezzo (sede del provider Aruba Technorail), alimenta, in via oggettiva, gravissimi dubbi circa l'influenza che il dottor Fera, forte del ruolo rivestito presso il tribunale, possa aver avuto su questo ed altri provvedimenti palesemente illegittimi;

a seguito di nuove testimonianze, assumibili anche in via giudiziaria, sussistono oggi le condizioni perché venga riaperta l'istruttoria sul delitto Tumino e si faccia piena luce sulle circostanze che portarono alla uccisione del cronista Giovanni Spampinato. Tuttavia il ruolo di pm delegato che ricopriva all'epoca della vicenda il dottor Fera e quello di procuratore della repubblica che ricopre oggi presso lo stesso tribunale di Ragusa costituiscono, secondo l'interrogante, un ostacolo oggettivo alla riapertura del caso giudiziario seppure fortemente voluta, coram populi, dall'intera società civile ragusana;

secondo l'interrogante, per le ragioni fin qui esposte ricorrono gli estremi per procedere alla rimozione del dottor Fera dal palazzo di giustizia di Ragusa; la condizione di plurindagato del dottor Agostino Fera per fatti inerenti la sua funzione è incompatibile con il ruolo rivestito dallo stesso, ruolo che si presterebbe all'inquinamento delle indagini in corso a suo carico; la permanenza per oltre trentasette anni nella sede del Palazzo di Giustizia di Ragusa del predetto procuratore, alternando le funzioni di inquirente a quelle di giudicante, costituisce già da sé una forma di incompatibilità ambientale e funzionale -:

quali iniziative urgenti intende adottare al fine di riparare ai danni irreversibili che cagiona all'intero ordine giudiziario il permanere oltremodo del procuratore Fera presso il Tribunale di Ragusa. (4-17118)

MODICA. PARADISO DEGLI ASSENTEISTI.

Il paradiso degli assenteisti. Al Comune di Modica 8 impiegati su 10 a giudizio. A processo nella città siciliana per truffa e falso, scrive Fabio Albanese su “La Stampa”. L’assenteista più organizzato era in grado di entrare nel sistema informatico del Comune e modificare l’orario di ingresso e uscita dall’ufficio, anche se quel giorno lì dentro non ci aveva mai messo piede. Al municipio di Modica non era il solo. Secondo la procura, che ieri ha chiesto il rinvio a giudizio di 106 dipendenti per truffa aggravata e falso ideologico, lasciare l’ufficio per dedicarsi ai fatti propri era ormai prassi consolidata per molti, troppi. L’inchiesta, partita nel 2009 dalle segnalazioni indignate di cittadini utenti del comune, si è concentrata solo su Palazzo San Domenico, la sede centrale del Comune, dove lavorano 126 dei 542 dipendenti. Dunque, fa sapere la procura, l’86 per cento dei dipendenti di quell’edificio non rispettava gli orari di servizio e il 7 marzo dell’anno prossimo dovrà presentarsi davanti al gup Maria Rabini. «Ma per il momento restano tutti in servizio - chiarisce il sindaco pd Antonello Buscema che ha annunciato la costituzione di parte civile - a tutti abbiamo notificato provvedimenti disciplinari ma l’efficacia è sospesa fin quando non ci sarà il giudizio». Il sindaco, che da quando si è insediato nel 2008 cerca di fronteggiare una grave crisi che ha portato il comune di Modica sull’orlo del dissesto finanziario, teme ulteriori danni per l’amministrazione: «Non vorrei che finisse come per quel dipendente della presidenza del Consiglio comunale che, avendo ammesso le sue responsabilità davanti ai giudici, avevamo licenziato e il tribunale del lavoro ha reintegrato». È proprio lui l’uomo dell’orologio segna-presenze. Procura, polizia e guardia di finanza sapevano bene che si allontanava spesso dal lavoro ma il suo badge era sempre in ordine. Fu lui stesso, alla fine, a chiarire che aveva la password d’accesso al sistema informatico; vi accedeva, modificava l’orologio giusto quei pochi secondi che gli servivano a strisciare la sua tesserina magnetica, e poi rimetteva tutto a posto. Licenziato, reintegrato, ora in pensione, ma ugualmente nella lista dei 106 indagati. Un’inchiesta complicata, che ha avuto necessità di molti uomini in campo, visto che poi poliziotti e finanzieri dovevano seguire gli assenteisti: uno era solito chiudersi nel garage di casa ad ascoltare musica; un altro una sera venne visto entrare nel municipio ormai chiuso, timbrare l’uscita in straordinario, e tornarsene a casa; una dipendente abitualmente se ne stava seduta ai tavolini di un bar del centro, un’altra andava a far visita ad amici assieme al marito. «Era un fenomeno di malcostume e liceità - dice il procuratore di Modica Francesco Pulejo - talmente diffuso e allarmante che certo è spia di qualcosa che non va, e non solo per l’atteggiamento di tolleranza spesso mostrato dai loro capi».

PARLIAMO DI SIRACUSA

MALAGIUSTIZIA.

Una storia esemplare di ordinaria ingiustizia perpetrata a danno di un cittadino. Uguale, non simile, a migliaia di storie in tutta Italia.

Egregio Direttore, mi chiamo Massimo Prado e vivo a Noto (SR). Sono un ex Ispettore capo della Polizia di Stato il quale, a causa di un devastante intreccio fra Mobbing e persecuzione Giudiziaria, è stato costretto, per le condizioni di salute da ciò provocate, a lasciare la Polizia di Stato e transitare nei ruoli civili del Ministero dell'Interno con la qualifica di Funzionario Amministrativo. Oggi presto servizio presso il Commissariato di P.S. di Avola (SR). Il Mobbing è stato consumato da un Questore ed una Commissaria i quali, oltre a reiterati e gravi atteggiamenti sul posto di lavoro, hanno poi inoltrato numerose denunce pretestuose che hanno purtroppo trovato terreno fertile in due P.M. della Procura della Repubblica di Siracusa i quali sono arrivati ad istruirmi ben 12 procedimenti penali, 11 dei quali in meno di un anno. Al 12° avviso di garanzia mi sono permesso di inoltrare un esposto al capo dello Stato, al CSM ed al Ministro della Giustizia per metterli a conoscenza di questa particolare attività Giudiziaria contro un Ispettore della Polizia di Stato mai destinatario di procedimenti disciplinari ma, anzi, pluripremiato per meriti di servizio. Ebbene, venutone a conoscenza, un P.M. di Messina, Tribunale competente per i Magistrati di Siracusa, decideva di farmi pentire di averlo fatto. Infatti, richiesta copia del mio esposto al Ministero della Giustizia e al CSM, mi ha indagato per calunnia e diffamazione contro i suoi due compagni di giubba di Siracusa. Senza che questi ultimi avessero mai presentato denuncia o querela nei miei confronti. Così, di sua iniziativa, a tutela della casta. E siamo così arrivati al 13° procedimento penale. Ad oggi ne ho chiusi 12, quelli su Siracusa, senza mai riportare una condanna, nemmeno in primo grado. Rimane vivo quello a Messina il quale, a breve, andrà in prescrizione. Una particolare anomalia, è il fatto che l'amministrazione Polizia di Stato, nonostante fossi stato dipinto come il "Totò Riina" dei poliziotti Italiani e con l'invidiabile record di Poliziotto più indagato d'Italia, non ha mai preso nei miei confronti alcuna iniziativa disciplinare. Se si considera che a volte ad un appartenente alle FF. O. basta un semplice avviso di garanzia per essere trasferito o sospeso dal servizio, capirà cosa avrebbero dovuto fare a me con 13 procedimenti penali sulle spalle. Ma l'allora capo della Polizia, Prefetto De Gennaro, volle vederci chiaro e, avute sul tavolo le carte giudiziarie e il mio fascicolo personale, ebbe ad esclamare : " Delle due una, o l'Isp. Prado è impazzito nell'ultimo anno, o qua c'è qualcosa che non va"! Optò senza indugiare per la seconda ipotesi manifestandomi grande vicinanza e sostegno. Senza considerare l'enorme danno economico per l'assistenza legale, quantificabile in circa 100.000,00 ?, che mi ha costretto ad accendere un mutuo con ipoteca sulla casa ove vivo insieme ai miei figli. Lo scorso giugno, è stata presentata una interrogazione parlamentare sul mio caso ai ministri della Giustizia e dell'Interno. Dopo l'ultima sentenza di assoluzione, ho deciso di scrivere un libro che ho intitolato Le mie "scampate" prigioni. Per la particolarità degli argomenti trattati, il libro ha ricevuto il patrocinio dell'Osservatorio Nazionale sul Mobbing c/o l'Università "La Sapienza" di Roma, avendolo definito un caso di rilevanza nazionale. Ho già presentato il libro, uscito lo scorso 26 aprile, in diverse città italiane ed altre ne sono in programma, riscuotendo grande interesse. Già nella premessa del libro, viene rimarcata l'assoluta assenza di responsabilità, in questi fatti, delle istituzioni magistratura e polizia di Stato, addebitando l'accaduto al solo ed esclusivo comportamento di carattere personale di uomini e donne appartenenti alle precitate istituzioni. La invito a consultare il mio sito www.massimoprado.it e leggere la premessa del libro nella quale è descritta la genesi della storia. In attesa di un Suo cortese riscontro, La saluto cordialmente. (Lettera Pubblicata su “Libero Quotidiano”.

Atto Camera. Interrogazione a risposta scritta 4-00894 presentato da AMODDIO Sofia.

testo di Lunedì 17 giugno 2013, seduta n. 34

AMODDIO. — Al Ministro della giustizia, al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:

l'ispettore Massimo Prado nato a Noto il 15 giugno 1964, nel ruolo della polizia di Stato dal 1985 ed ispettore della polizia di Stato dal 1995 in servizio dall'ottobre 1997 al 23 aprile 2004 presso il commissariato di pubblica sicurezza di Noto è stato imputato in tredici procedimenti penali e segnatamente: Proc. Pen. R.G.N.R. 83/02; Proc. Pen. R.G.N.R 7737/02; Proc. Pen. R.G.N.R 2753/04; Proc. Pen. R.G.N.R 1222/04; Proc. Pen. R.G.N.R. 3430/04; Proc. Pen. R.G.N.R 10826/04; Proc. Pen. R.G.N.R. 12329/04; Proc. Pen. R.G.N.R. 7922/04; Proc. Pen. R.G.N.R. 1113/05; Proc. Pen. R.G.N.R. 278/05; Proc. Pen. R.G.N.R. 273/05; Proc. Pen. R.G.N.R. 405/05; Proc. Pen. R.G.N.R. 2309/05;

per ben undici procedimenti penali gli avvisi di garanzia venivano notificati all'ispettore Prado dalla procura della Repubblica di Siracusa in meno di un anno;

tutti i procedimenti penali – ad eccezione di quello iscritto al R.G.N.R 7922/2004 – tutt'ora pendente innanzi al tribunale di Messina sezione penale – si sono conclusi senza alcuna condanna dell'ispettore Prado – o con sentenza di non luogo a procedere da parte del giudice per le indagini preliminari o con sentenza di assoluzione emessa al dibattimento; altri con richiesta di archiviazione;

per alcuni processi le sentenze di assoluzione di primo grado, sono state impugnate dai pubblici ministeri con ricorso in appello ed in Cassazione – e si definivano con pronuncia confermativa dell'assoluzione;

in seguito alle indagini da parte della procura di Siracusa l'ispettore Massimo Prado è stato oggetto di numerosi procedimenti disciplinari tutti conclusi con l'archiviazione;

in data 10 marzo 2005 l'ispettore Massimo Prado inviava al Ministro della giustizia un esposto a sua firma che perveniva alla segreteria particolare dell'onorevole Ministro in data 16 marzo 2005;

in data 6 maggio 2005 inviava altro esposto al Ministro di grazia e giustizia, al Consiglio superiore della magistratura, al Presidente della Repubblica anche nella qualità di presidente del C.S.M., al Ministero dell'interno, al Presidente del Consiglio dei ministri, al Presidente della Commissione giustizia della Camera al Presidente della commissione giustizia del Senato; l'esposto perveniva alla segreteria particolare del Ministro della giustizia in data 10 maggio 2005 ed al Consiglio superiore della magistratura;

i richiamati esposti pervenivano anche al Consiglio superiore della magistratura il 16 marzo 2005 n. protocollo 12360 ed il 13 luglio 2005 n. protocollo 34158;

in data 12 settembre 2007 l'ispettore Prado inviava altro esposto al Ministro della giustizia ed al procuratore generale della Corte di cassazione pervenuto al Ministro in data 17 settembre 2007;

i pubblici ministeri indicati negli esposti e coinvolti a vario titolo nei procedimenti penali dall'ispettore Massimo Prado sono il dottor Giuseppe Toscano – all'epoca dei fatti procuratore capo aggiunto presso il tribunale di Siracusa – il dottor Roberto Campisi – all'epoca dei fatti procuratore capo presso il tribunale di Siracusa – il dottor Maurizio Musco – all'epoca dei fatti sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Siracusa – il dottor Giancarlo Longo – sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Siracusa;

per fatti diversi da quelli oggetto della presente interrogazione, ma correlati all'esercizio delle funzioni giudiziarie presso il tribunale di Siracusa nei confronti di alcuni dei menzionati magistrati – e segnatamente il dottor Roberto Campisi, ed il dottor Maurizio Musco – sono stati esercitati dal Ministro di giustizia nel 2012 i poteri di ispezione amministrativa, al fine di verificare la condotta dagli stessi tenuta nell'esercizio della funzione giudiziaria nei procedimenti penali segnalati da altro parlamentare nella precedente legislatura;

a seguito dell'ispezione amministrativa disposta dal Ministro è stato avviato un procedimento disciplinare allo stato pendente nei confronti del dottor Maurizio Musco – trasferito in via cautelare presso la procura della Repubblica di Palermo dal mese di ottobre 2012;

per fatti che coinvolgono l'esercizio della funzione giudiziaria – diversi da quelli oggetto della presente interrogazione – la procura della Repubblica di Messina ha chiesto il rinvio a giudizio del dottor Roberto Campisi e del sostituto procuratore Maurizio Musco per abuso d'ufficio e l'udienza innanzi al giudice per l'udienza preliminare è fissata per il 20 settembre 2013;

per fatti diversi da quelli oggetto della presente interrogazione il giudice per l'udienza preliminare del tribunale di Messina ha disposto il rinvio a giudizio per tentata concussione del sostituto procuratore Maurizio Musco ed è pendente il relativo giudizio innanzi al tribunale penale di Messina;

negli esposti dell'ispettore Massimo Prado sono contenuti rilievi di assenza di imparzialità nelle condotte di alcuni magistrati ed è altresì contenuta una richiesta di audizione per riferire personalmente fatti che non ha ritenuto di riportare negli esposti –:

se a seguito degli esposti presentati dall'ispettore Massimo Prado sia stata avviata dal Ministero della giustizia una qualsivoglia attività ispettiva al fine di verificare quanto contenuto negli stessi;

nell'ipotesi in cui sia stata avviata dal Ministero della giustizia un'attività ispettiva quali siano stati gli esiti degli accertamenti compiuti;

nell'ipotesi in cui non è stata avviata dal Ministero della giustizia alcuna attività ispettiva per quali motivi ciò non sia avvenuto. (4-00894)

Premessa del Libro

Mi sono determinato a scrivere questo libro, dopo lunga riflessione e indicibile sofferenza interiore, per far conoscere a tutti, colleghi e normali cittadini, una vicenda che, credo, non abbia precedenti nella storia giudiziaria e delle forze di Polizia della nostra cara Italia. Mi riferisco all’istruzione, a carico di un Ispettore capo della Polizia di Stato, mai destinatario di procedimenti disciplinari ma, anzi, pluripremiato per meriti di servizio, di ben 13 procedimenti penali, undici dei quali in meno di un anno. Protagonisti di questa intensa e particolare attività giudiziaria, due P.M. della Procura della Repubblica c/o il Tribunale di Stanusa – in Sicilia – i quali, come vedremo, in questa triste ed avvilente vicenda (allucinante, traumatica, angosciosa per chi è stato costretto a subirla), si sono passati il testimone stranamente, ma poi non tanto, in coincidenza con la scoperta della preparazione, da parte mia, di un esposto nei confronti di uno di loro – il primo – al C.S.M. Esposto che, successivamente, ha riguardato anche il secondo P.M., il quale, venutone a conoscenza, si è anch’egli prudentemente messo da parte. A costoro è subito dopo subentrato un terzo, il Dr. Spalla, che, defilatisi i primi due, ne ha gestito l’accusa con inspiegabile quanto sconfinato livore, senza mai perdersi un’udienza, nonostante non avesse svolto alcuna indagine preliminare in nessuno dei procedimenti. E quando era impossibilitato a presenziare, non c’era come logica e normale alternativa il P.M. di turno in quella occasione – come succede in quasi tutti i processi presso tutti i Tribunali d’Italia. Niente affatto, si rinviava l’udienza! E che finiva sempre col chiedere, alla conclusione del processo, la mia condanna a pene esemplari e spropositate. Eppure, evidenti motivi di opportunità, da me segnalati al Ministro della Giustizia, al C.S.M. ed al Procuratore Generale c/o la Corte di Cassazione, avrebbero dovuto ragionevolmente sconsigliare un tale modo di agire. Purtroppo, sono precisamente la ragione e la logica che non trovano posto in questa sconfortante storia di vessazioni.

Ma come dice quel famoso detto : “Ci sarà un Giudice a Berlino !”.

Infatti, una notizia sconvolgente mi giunge proprio quando sto terminando di scrivere questo libro. È il 2 agosto 2012 e tutti gli organi di stampa nazionali riportano fatti clamorosi dei quali non posso non riferire in questa sede. Il Ministro della Giustizia Paola Severino, dopo aver letto la relazione degli ispettori ministeriali mandati a Stanusa nei primi mesi dell’anno, a seguito di interrogazioni parlamentari su delle anomale situazioni che avrebbero visto coinvolti dei Magistrati di Stanusa, ha chiesto al C.S.M. l’immediato trasferimento cautelare del Procuratore capo e di un Sostituto Procuratore, proprio il Dr. Spalla, mentre per un terzo – l’ex Procuratore capo di Stanusa – l’accusa è di aver coperto delle azioni disciplinarmente rilevanti del citato Sostituto Procuratore Spalla, suo subalterno, quando erano entrambi in servizio a Stanusa. Al termine dell’istruttoria, il C.S.M. ha deciso di trasferire il Dr. Spalla a 300 Km. di distanza, sempre in Sicilia, mentre per il Procuratore capo ha disposto il trasferimento in un’altra provincia siciliana con il ruolo di semplice Sostituto Procuratore. Agghiacciante la motivazione che, in riferimento al primo, viene testualmente riportata dai quotidiani: “Per quanto riguarda il Dr. Spalla, nell’atto promosso dal Ministero – poi confermato dal C.S.M. – si riferisce, “della indubbia gravità e consistenza del quadro indiziario acquisito”, considerato “sintomatico di un reiterato e distorto uso della delicata funzione ricoperta dal Magistrato”. Il Dr. Spalla avrebbe “consapevolmente” violato l’obbligo di astenersi da indagini in cui poteva avere un interesse diretto o indiretto”.

Inoltre :

- è stato rinviato a giudizio dal G.I.P. del Tribunale di Aresa, in Sicilia, per     “Tentata Concussione” in merito ad altri fatti. Definizione di concussione : “ La concussione è un reato. Lo commette il   Pubblico Ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, con abuso dei propri poteri, delle proprie qualifiche o qualità, e quindi strumentalizzando la funzione che esercita, costringe o comunque porta una persona a dargli o a promettergli indebitamente denaro o un qualche altro vantaggio(codice penale art. 317 ;

È indagato, sempre dal Tribunale di Aresa, per abuso d’ufficio, omissione ed altro.

Ora, dopo le tribolazioni cui ho dovuto far fronte e che rimangono impresse per sempre nel mio animo duramente provato, io gli auguro di poter dimostrare la sua innocenza ed estraneità alle gravissime accuse mossegli. In ogni caso, leggendo questo libro e constatando come egli ha agito nei miei confronti, ci si renderà conto che la motivazione alla base del suo allontanamento sembra proprio suggerita da me… Chissà se negli atti che lo riguardano non vi sia inserita pure la mia segnalazione nei suoi confronti! In questa dolorosa vicenda ho quindi  sempre avuto l’onore di avere un P.M. personale che mi controllava passo dopo passo, con la speranza, per grazia di Dio andata delusa, che, condizionato dall’angoscia o dalla disperazione, conseguenze dirette della persecuzione, ne commettessi uno falso. Come se non bastasse, a questa incredibile attività giudiziaria, già da sola devastante per chi l’ha subita e per la propria famiglia, si è aggiunta, nello stesso periodo, una collaterale ed altrettanto sconvolgente attività di Mobbing,  messa in atto dal Questore di Stanusa all’epoca dei fatti, e da una avvenente Commissaria che, in quel periodo, era stata chiamata a dirigere il Commissariato di P.S. di Roto ove io, da ben 7 anni, lavoravo. Insomma, come già appare dalle premesse, mi sono trovato nella condizione di un topolino costretto a combattere contro una mandria di elefanti.

Un Davide inerme contro cinque agguerriti Golia.

Una battaglia, anzi una guerra all’ultimo sangue, senza esclusione di colpi e, come appare evidente, ad armi sommamente impari. In particolare, dopo che i miei antagonisti erano diventati un unico ed affiatato “gruppo di fuoco”, assetato di vittoria totale contro l’inerme e incolpevole Davide. Non vi anticipo l’esito finale, vi toglierei il gusto della curiosità. La narrazione degli accadimenti, è corredata da stralci di documenti giudiziari, disciplinari ed articoli di stampa, che aiuteranno chi legge a capire fino in fondo il modus operandi di chi ha provato ad annientare un innocente e le motivazioni che ne stavano alla base. Vi invito a ripercorrere, capitolo dopo capitolo, questa incredibile vicenda, sperando che mai, in futuro, nessun altro collega (ma anche nessun normale cittadino) debba vivere una esperienza così devastante. Che la mia storia possa servire da conforto e sprone a tutti coloro i quali non riescono a trovare la forza per reagire a soprusi e vessazioni gratuite sul posto di lavoro! In questo terribile frangente, oltre alla mia famiglia, ho avuto accanto diverse persone; dai colleghi, di ogni ordine e grado, che numerosi e spontaneamente sono venuti a testimoniare nei processi, a semplici cittadini. Ed ho avuto alle spalle – passo dopo passo – un grande Sindacato, il S.A.P. (Sindacato Autonomo di Polizia), senza l’aiuto del quale sarebbe stato molto più duro far valere le mie ragioni. Principalmente nelle persone di due grandi amici ed uomini, prima ancora che eccellenti sindacalisti: Francesco Quattrocchi, Segretario Nazionale Aggiunto e Saro Indelicato, Segretario Regionale della Sicilia. Due uomini veri, di quelli abituati a vivere ed agire “a schiena dritta”, come consigliava ai cittadini onesti il Presidente Ciampi nei suoi illuminati discorsi. Grande e costante è stata, da parte di entrambi, la dimostrazione di affetto, solidarietà e sostegno: Francesco più riflessivo, Saro più sanguigno. Entrambi molto efficienti e ricchi di dignità umana. Ricordo simpaticamente che, ogni qualvolta comunicavo telefonicamente all’amico Saro la notifica di un nuovo avviso di garanzia, questi, grandemente amareggiato, rimanendo senza parole, non trovava di meglio che rispondermi : “Tranquillo…., devi stare tranquillo!”. “Una parola!”, gli rispondevo io, mentre riflettevo sulla mia vita sconvolta per fatti inesistenti. Il termine “tranquillo” diventò poi un simpatico tormentone. E come non ricordare poi i colleghi sindacalisti della segreteria provinciale del S.A.P. di Stanusa, con me coimputati in uno dei 13 procedimenti, gli amici Enzo, Giovanni, Gaetano e Francesco! Nel narrare i fatti parlerò quindi dell’operato di tre Magistrati della Procura di Stanusa e di uno della Procura di Aresa (competente per i Giudici di Stanusa), ai quali ho cambiato il cognome. Allo stesso modo, ho stravolto i nomi delle città, ove i fatti sono accaduti. Ne citerò le gesta, mostrerò in maniera inconfutabile gli atti da loro compiuti nei miei confronti e lascerò al lettore eventuali giudizi. Certo, nel mio racconto trasparirà un pizzico – o forse qualcosa di più – di pessimismo e di amarezza, ma mi sembra il minimo per una persona che ha ricevuto 13 Avvisi di Garanzia, 11 dei quali, come già detto, in meno di un anno. Anche il capo della Polizia dell’epoca, insospettitosi, dopo aver richiesto ed esaminato il mio fascicolo personale – contenente solo riconoscimenti per meriti di servizio – ed il riassunto di questa incredibile storia, ebbe ad esclamare : “Delle due una : O Prado è impazzito nell’ultimo anno, o qui c’è qualcosa che non va”.  Come vedremo, optò senza tentennamenti per la seconda ipotesi. Il mio non vuole essere né sarà un attacco alla nobile Istituzione della Magistratura; non sarebbe corretto da parte mia, avendo sempre trovato Magistrati giudicanti competenti, sereni ed attenti. Lo posso affermare con cognizione di causa, avendo collaborato, per 20 anni, con decine di Magistrati inquirenti. Con alcuni di loro, oltre ad un rapporto di lavoro, è nata una sincera amicizia, fondata sulla stima, tuttora viva, e… sulla competizione sportiva, materializzatasi con la realizzazione di frequenti incontri di calcio Polizia – Magistrati, che si concludevano con una cena finale. Più volte, tra l’altro, ho avuto l’onore di ricevere da loro attestati orali e scritti per la professionalità dimostrata nelle indagini da loro delegatemi. Mi asterrò anche dall’esprimere giudizi sull’operato dei suddetti tre Magistrati, perché non è compito, questo, che spetta a me, bensì ad altri organi ai quali mi sono rivolto o, se del caso, mi rivolgerò. Tuttavia, come mi è stato anche consigliato da più parti, questa storia non può rimanere soltanto dentro di me. Il mio animo, che pur non nutre sentimenti di rivalsa e meno che mai di vendetta, grazie all’educazione ricevuta, non ha la forza di contenerla ; per questo va fatta conoscere.

Ed ogni lettore potrà, dopo averla letta, esprimere la propria valutazione. Questo mio libro vuole altresì attirare l’attenzione su un fenomeno che, come è tristemente noto, ha non pochi precedenti nella storia giudiziaria italiana. Parlo del potere che un Magistrato – che, come tutti gli esseri umani è soggetto ad umori e sentimenti, simpatie ed antipatie – può esercitare su persone, se decide di mettere da parte la serenità d’animo e l’obiettività. Parlo anche dei gravi danni che queste persone possono ricevere nel corpo, nella mente e nello spirito rimanendone segnate a vita (vedi le assoluzioni arrivate dopo vari lustri e magari dopo una custodia cautelare in carcere). Il tutto senza trascurare il lato economico che, in taluni casi, getta letteralmente sul lastrico le vittime e le induce per disperazione a compiere gesti eclatanti verso i loro persecutori o, non di rado, addirittura autolesionistici. È appena il caso di segnalare che, nel mio caso, la cifra per l’assistenza legale ha già superato i 100.000,00 €. Chiunque sa che cosa significa questa somma per la famiglia di un onesto lavoratore. D’altra parte, ci sarebbe pure da riflettere sull’impossibilità, per un cittadino, di richiamare alle sue responsabilità il Magistrato che lo ha danneggiato, appartenendo egli all’unica categoria di lavoratori che non risponde personalmente dei suoi errori, dato che vige il principio del “LIBERO CONVINCIMENTO DEL GIUDICE”. Per non parlare poi dell’organo C.S.M., al quale mi sono rivolto per ben due volte senza che nessuno si degnasse, quantomeno, di comunicarmi l’avvenuta ricezione dei miei esposti. Anzi, come leggerete, un Magistrato di Aresa, competente per territorio sui Magistrati di Stanusa, è determinato a farmi pentire di averlo fatto, cioè di aver esercitato un diritto sacrosanto di cittadinanza.  Almeno, la segreteria del Capo dello Stato, pur nella evidente disattenzione di quest’ultimo, è stata così gentile da comunicarmi l’avvenuta ricezione e l’inoltro dei miei due esposti, per competenza, al C.S.M.

Per il resto, da ogni parte, lo stesso assordante silenzio.

Dei tredici procedimenti, ne ho già definiti 12; rimane soltanto quello di Aresa. Le accuse : “Calunnia e diffamazione” nei confronti dei due Magistrati oggetto dei miei esposti al C.S.M.. Allorché anche l’ultimo procedimento sarà definito, mi rivolgerò alla Corte di Giustizia Europea per i Diritti dell’Uomo, dato che chi mi doveva tutelare nella mia amata Patria italiana – Capo dello Stato e C.S.M. – non ha ritenuto di farlo. Vi è poi l’altro cupo lato della medaglia, cioè il Mobbing messo in atto contro di me, in maniera scientifica, nello stesso periodo della particolare attività giudiziaria, da parte di un Questore e di una Commissaria. Attività di Mobbing di natura eccezionale, tanto da farla definire, da un illustre docente, Ordinario di Diritto del Lavoro della facoltà di Giurisprudenza di una prestigiosa Università siciliana, che predispose il ricorso al T.A.R., “un caso da studio che farà Giurisprudenza”. La copia del ricorso da lui preparata è stata poi distribuita, come materiale didattico, per l’esemplarità dei fatti, ad un corso di aggiornamento sul Mobbing per Avvocati presso il Tribunale di Stanusa. La stessa è stata poi presa in carico dall’Osservatorio Nazionale sul Mobbing istituito presso l’Università “La Sapienza” di Roma che ha ritenuto opportuno inserirne la storia nel proprio sito istituzionale.

E nonostante ciò, come vedremo, il T.A.R. di Paruta…

Prima di iniziare il mio racconto, ritengo doverosa una ulteriore precisazione: questo volume, così come non è per nulla un attacco alla istituzione Magistratura,  altrettanto non lo è per la gloriosa Istituzione Polizia di Stato. Ciò sia per solida convinzione personale sia perché, in tutta questa crudele traversia, ne ho registrato la grande e fondamentale prossimità umana, dai vertici centrali a quelli periferici. Polizia di Stato che, a mio parere, in questa storia, è da considerare parte lesa perché, a causa dell’atteggiamento di natura “assolutamente personale” di due suoi funzionari, ha ricevuto, con continui articoli di stampa, un grave danno di immagine. Pertanto, sento il dovere di ribadire l’assoluta estraneità, nella mia vicenda,  del Dipartimento di Pubblica Sicurezza che, invece, resosi conto delle reali motivazioni alla base di questo perfido atteggiamento di due suoi rappresentanti e dei due P.M., ha deciso di tutelarmi senza intraprendere nei miei confronti, nonostante fossi da loro rappresentato come il Totò Riina dei Poliziotti Italiani, alcuna iniziativa disciplinare. Con ciò dimostrando grande correttezza, profondo senso di giustizia e vicinanza ai “suoi Uomini”. Il tutto degno di un grande Corpo.

Dedico questo libro alla mia famiglia che ha duramente sofferto, il più delle volte in silenzio, ma che tanta forza mi ha dato riuscendo a farmi resistere, pur in condizioni terribilmente disumane, e a non mollare, ed a tutti i colleghi che, spontaneamente, si sono alternati a testimoniare a mio favore e, spesso, a condividere la mia sofferenza. Sento altresì di dovere di ringraziare anche Qualcuno che, dall’alto, mi ha dato la forza di sopravvivere nei più duri momenti di sconforto.

LA MASSONERIA A SIRACUSA.

Massoni a Siracusa Breve storia della loggia Archimede pubblicata da Pachinos. Le prime notizie della presenza della Massoneria a Siracusa si hanno nel 1785, allorché il danese Federico Münter, massone teologo luterano mandato in missione in Sicilia dall’Ordine della Stretta Osservanza, incontrò i massoni Don Ciccio Paternò Castello appartenente alla Loggia Ardore di Catania e con il Cav. Francesco Saverio Landolina, Capitano di Giustizia e cultore di archeologia e di filologia classica. Landolina era stato negli anni precedenti al 1785 Maestro Venerabile di una Loggia di Siracusa, della quale non si hanno notizie certe se non quella che fu fondata dal Principe di Lorena. Nel 1785, peraltro, a Siracusa funzionava una loggia dipendente da un gruppo irregolare di Napoli, facente capo al Principe di Sansevero, i cui lavori e le relative ammissioni avvenivano in maniera poco ortodossa. Münter, ignorò tale loggia ed anzi, il 10 luglio del 1788 scriveva a Landolina sull’opportunità della costituzione di una loggia massonica professante il Regime Scozzese Rettificato, considerando anche il fatto che la città, per le sue caratteristiche marinare, era punto di incontro di gente di nazionalità diversa. Già nella vicina cittadina di Augusta, nel 1766, era stata fondata una loggia dal titolo distintivo di Fidele, posta all’obbedienza della Gran Loggia Provinciale Olandese per Napoli e la Sicilia e successivamente all’obbedienza della Gran Loggia Provinciale Inglese. In ogni caso, la data di costituzione della prima loggia massonica a Siracusa è il 1825, allorché si hanno le prime notizie della loggia chiamata Timoleonte. Alla loggia appartennero tutti i patrioti siracusani che si batterono contro il regno borbonico e fu luogo importante di cospirazione antiborbonica. Formò, infatti, le classi dirigenti che guidarono le sorti della città anche dopo l’unità. Nomi come quelli di Chindemi, Pancali, Greco Cassia, Bufardeci, personaggi cui la città ha dedicato vie ed edifici, erano massoni e nella massoneria trovarono facile humus per le loro idee. L’aneddotica massonica narra che il canonico Emilio Bufardeci fu in grado di non fare intercettare dalla flotta inglese, che navigava lungo le coste siciliane i piroscafi di Garibaldi che veleggiavano verso la Sicilia per compiere l’impresa dei Mille, grazie ai suoi contatti massonici che arrivavano fino alla monarchia inglese. La Loggia Timoleonte - da subito all’obbedienza del neo costituito Grande Oriente d’Italia - fu l’unica loggia cittadina. Almeno fino al 1894, anno in cui per la prima volta fu fondata la Loggia Archimede. Le due logge si fusero nel 1898 in un’unica loggia dal titolo distintivo Timoleonte-Archimede. All’alba del nuovo secolo il titolo distintivo della loggia sarà definitivamente quello di Archimede. L’Archimede, come tutte le logge del Grande Oriente d’Italia, fu protagonista anche a livello locale del dibattito politico e sociale volto al miglioramento delle condizioni del paese che contraddistinse la vita italiana a cavallo dei due secoli. All’interno della Loggia erano presenti, infatti, molti elementi di quella classe borghese e socialista: professionisti, impiegati e commercianti che si battevano per migliorare le condizioni di vita della Siracusa di quegli anni. I massoni dell’Archimede presero, per esempio, parte in maniera fattiva al dibattito politico che si venne a creare circa la possibilità dell’elettrificazione cittadina e sulla costruzione del nuovo acquedotto. Il maggiore politico socialista locale dell’epoca - Edoardo Di Giovanni - che sarà più volte onorevole oltre che sindaco della città, era presente nel pié di lista della Loggia e diventerà, in seguito, Gran Maestro Onorario del Grande Oriente d’Italia. Puranche Giovanni Francica Nava, più volte deputato e senatore del collegio Siracusa, uno dei maggiori protagonisti della scissione del 1908 che portò alla costituzione della cosiddetta Comunione Massonica di Piazza del Gesù, era uno dei fratelli appartenenti al piè di lista dell’ Archimede. Testimonianza della partecipazione alla vita cittadina della Loggia si trova ancora oggi nei monumenti che furono fatti erigere dai fratelli. Primi fra tutti quello a Giuseppe Garibaldi, allocato nel centro storico di Ortigia, all’interno della cosiddetta villetta della Marina e quello a Cesare Battisti, posto nell’omonima piazza che fronteggia il mare. Nel 1925, a seguito della promulgazione delle leggi che mettevano al bando la Massoneria, la Loggia e comunque tutte le logge del Grande Oriente d’Italia, furono costrette a sospendere le proprie attività. Tale fatto comportò, purtroppo, la perdita di tutto l’archivio della Loggia, perdita che ancora oggi rappresenta uno dei più grandi rimpianti di tutti i fratelli. Clandestinamente, però, l’Archimede continuo a svolgere le proprie tornate rituali: alcuni fratelli riuscirono comunque a riunirsi, in assoluta segretezza e con mezzi di fortuna, all’interno di una falegnameria posta in pieno centro cittadino. Nel 1947, con la ripresa della vita democratica, la Loggia Archimede fu ricostituita e si pose nuovamente all’obbedienza del Grande Oriente d’Italia, che conferì alla Loggia il numero distintivo 342. Da quel momento la loggia Archimede è stata sempre attiva e ha visto passare tra le sue colonne centinaia di fratelli che ne hanno sempre alimentato lo spirito e che sono sempre stati orgogliosi di farne parte. Questo scritto vuole solamente essere una prova, un esercizio, una riflessione sui propri ed intimi convincimenti ma, nello stesso tempo, vuole anche essere una semplificata risposta alle legittime domande che si pone e pone agli altri un profano che, venuto a conoscenza della Massoneria, viene roso dal tarlo della curiosità e dalla sete del sapere.

CHE COS’È LA MASSONERIA?

La Massoneria, della quale fanno parte uomini liberi e di buoni costumi, è un ordine iniziatico tradizionale che persegue il Bene dell’Umanità, senza distinzioni di razza, di religione e di credo politico. I suoi adepti sono uomini che credono fermamente nei valori della Patria e della Costituzione.

COSA SIGNIFICA ESSERE MASSONE?

Essere massone vuol dire:

fare della condotta morale una regola di vita;

fare della tolleranza il proprio credo;

fare della fratellanza un dovere non solo verso i propri “fratelli”, ma verso tutta l’umanità;

fare dell’uguaglianza il proprio traguardo;

fare della libertà d’ognuno il primo obiettivo.

Da queste affermazioni deriva che i massoni sono adusi, ovvero sono tenuti ad ascoltare senza controbattere e senza assumere atteggiamenti non consoni anche quando ciò che ascoltano li lascia interdetti, vagliano, esaminano tutto ciò che sentono per prendere e fare proprie le parti di un discorso e le idee migliori con il solo fine di accrescersi moralmente e di liberarsi dalle “scorie profane” e cercano di partecipare agli altri le proprie idee con l’esempio e con una integerrima condotta morale. Tutto ciò è ovviamente difficile da praticare, quindi i “fratelli” lavorano indefessamente per sgrossare, squadrare quella pietra grezza rappresentata dal proprio “IO”, il quale è tronfio, megalomane ed egoista. Il libero muratore, con un ininterrotto lavoro, aiutato dal continuo confronto con i propri fratelli ed anche con sé stessi, procede alla levigatura di detta pietra, la quale potrà in tal modo essere accostata perfettamente a quella degli altri in modo da edificare il tempio comune rappresentato da quei valori universali e sempiterni come la fratellanza, la tolleranza, la libertà e la verità. Gli adepti ed iniziati della Massoneria, unica istituzione esoterica che persegue la via iniziatica tradizionale, fanno proprio questo insegnamento e cercano di darne dimostrazione nella vita profana con un adeguato comportamento; in-fatti si obbligano, tra l’altro, ad ascoltare senza controbattere, specialmente se hanno ragione, coscienti e sicuri che il silenzio è più eloquente di tante grida. Questi sono obiettivi lontani da raggiungere, in quanto la strada che conduce alla vetta della verità è lunga, tortuosa, insidiosa ed oscura, ma il premio per tutto ciò è grande e si può riassumere nelle parole che gli altri pronunzieranno quando parleranno dei massoni e che sicuramente saranno queste: «Sono uomini duri, principalmente con sé stessi, ma sono uomini liberi e di buoni costumi, giusti, onesti e tolleranti.»

QUAL È IL SEGRETO DELLA MASSONERIA?

Il segreto della Massoneria è che non c’è alcun segreto.

Il maggior segreto dei liberi muratori, infatti, è che non ne hanno alcuno. In un antico rituale si legge: «La Libera Muratoria è un sistema particolare di morale, insegnato sotto il velo dell’allegoria per mezzo di simboli, ed è altresì essenzialmente un’ascesi, un modo di perfezionamento umano; solo le cerimonie massoniche rimangono riservate perché questa è la condizione prima affinché si effettui, veramente, in profondità l’ascesi. La Libera Muratoria ha avuto la sua leggenda dorata, per gli antichi Massoni la loro arte si collegava misticamente alla costruzione del tempio di Gerusalemme ed al Re Salomone, donde il termine di Arte Reale per qualificare la Massoneria. Al lavoro muratorio operativo della costruzione in pietra si sostituì l’ideale di un cantiere simbolico; il lavoro sulla pietra informe allo scopo di renderla cubica assunse il significato spirituale e morale di lavoro su sé stessi, scopo principe di tutti i fratelli appartenenti all’Ordine, la Massoneria quindi passava da operativa a speculativa. Essa si richiama agli Antichi Doveri ed ai Landmarks della Fratellanza, con particolare riguardo all’assoluto rispetto delle tradizioni specifiche dell’Ordine, un Ordine al quale possono appartenere soltanto uomini liberi, rispettabili e di buoni costumi che si impegnino a mettere in pratica un ideale di pace, di amore, di fraternità, prescindendo dalla loro condizione sociale. I liberi Muratori credono nel Grande Architetto dell’universo e coltivano nelle Logge l’amore per la Patria, l’obbedienza alle leggi ed il rispetto delle Autorità costituite. Essi considerano il lavoro il primo dovere dell’essere umano e l’onorano in tutte le sue forme. La Libera Muratoria, attraverso il perfezionamento morale dei Fratelli, si propone di conseguire quello della intera umanità e richiede a tutti suoi membri il rispetto delle opinioni e della fede di ognuno; proibisce nel suo seno ogni discussione politica e religiosa. La Massoneria è un centro permanente di unione fraterna ove regnano tolleranza e armonia tra uomini che, senza di essa, rimarrebbero estranei gli uni agli altri. I liberi muratori devono mutuamente, con onore, aiutarsi e proteggersi fraternamente. Essi praticano l’arte di conservare in ogni circostanza la calma e l’equilibrio indispensabile a una perfetta padronanza di sé stessi. Esercitano e professano la tolleranza in modo convinto e senza sconfinare nell’acquiescenza. Un grande uomo, Voltaire, che ha fatto della tolleranza la sua bandiera, rivolgendosi verso chi aveva delle idee del tutto contrarie alle sue, si esprimeva con termini il cui significato si può così riportare:

“Io non condivido minimamente le tue idee, ma mi farei uccidere perché tu abbia la libertà di professarle in ogni momento ed in ogni luogo”. Quanta grandezza in queste poche parole, quanto rispetto per le idee ed i convincimenti altrui.

MASSONERIA E MAFIA.

"Io, la massoneria e gli appalti". Parla il geologo Barbagallo. Dalle intercettazioni in carcere del geologo Giovanni Barbagallo, arrestato con l'accusa di associazione mafiosa perchè avrebbe fatto da “tramite” tra i fratelli Lombardo e Cosa Nostra, gli investigatori intercettano confidenze sui rapporti tra mafia e politica: spunta la massoneria, scrive Antonio Condorelli su “Live Sicilia”.

“Cosa sono gli scuri che girano all'orecchio?”. Una domanda che non è proprio come le altre fatte dai pm di Iblis al geologo Giovanni Barbagallo. È contenuta nel secondo interrogatorio del 16 aprile, frutto dell'ascolto di ore e ore di intercettazioni in carcere che Livesicilia è in grado di svelare. “Io sono massone - dice Barbagallo - ma sono "all'orecchio", nel senso che la mia affiliazione non è nota. Con altro termine si dice che sono 'spurio'”.

Davanti ai pm Barbagallo esclude che ci siano altri indagati massoni in Iblis, per lo meno “massoni all'orecchio”. Ma subito dopo lascia il dubbio, visto che afferma che se ci fossero stati non avrebbe potuto conoscerli: “Quando si è massoni all'orecchio – spiega - non ci si conosce uno con l'altro e ci si presenta con un saluto particolare, ossia stringendosi la mano due volte”.

Poi il racconto di grembiulini e riti di iniziazione. “Il mio referente diretto - spiega Barabagallo - è stato il dottor Salomone, un politicante di Palermo forse originario della provincia di Agrigento, che ho incontrato fino a circa dieci anni fa. Io mi sono "affiliato" quando avevo circa 40/44 anni. Salomone l'ho conosciuto a Palermo in quanto volevo essere nominato al Cru (Consiglio regionale urbanistico ndr) e si trattava di una persona vicina al Partito Socialista e, segnatamente, vicino all'onorevole Placenti. La mia nomina al Cru non avvenne”.

Nella sua affiliazione Barbagallo non avrebbe partecipato “a nessun rito per entrare in massoneria, né ho partecipato mai a riunioni tra massoni”. Poi aggiunge che “è vero che io ho sperato che tramite i fratelli massoni potessero risolversi i miei problemi giudiziari, anche se in realtà non ho neanche tentato di prendere contatto con nessuno di essi”.

C'è anche un altro passaggio sui rapporti con Lombardo. Sotto interrogatorio Barbagallo conferma di aver fatto da tramite, durante le europee, per l'organizzazione di incontri tra alcuni politici e Raffaele Lombardo, direttamente nelle sedi istituzionali. “Nell'anno 2009 - racconta ai pm - portai numerosi sindaci da Raffaele Lombardo. Io andai all'Ufficio di Presidenza della Regione, previo contatto con Angelo Lombardo, insieme al sindaco di Patti, a quello di Torregrotta, a quello di un paese, Frazzanò, e al sindaco di Falcone. È stata questa la stessa occasione in cui io rappresentai a Raffaele Lombardo la necessità di contattare Cocina per il rifacimento di un ponte a Falcone”. In quel periodo, insomma, Barbagallo dice di essere “conosciuto come persona che poteva favorire un contatto con il presidente della Regione Siciliana”.

Cocina, secondo Barbagallo, sarebbe “persona dapprima vicina a Firrarello che però in epoca successiva si è avvicinato a Lombardo Raffaele”. L'intesa col presidente della Regione avrebbe prodotto qualche risultato nel settore della Protezione Civile: “Quando accompagnai il sindaco di Falcone alla Presidenza della Regione per perorare il finanziamento di un punto di una strada provinciale, Lombardo si mise a disposizione e disse a Cocina di procedere. L'espressione da me utilizzata nella conversazione relativa al fatto che Cocina aveva dovuto 'abbassare le ali' è relativa proprio a questo passaggio del Cocina dalla sfera di influenza di Firrarello a quella di Lombardo”.

Sempre in campagna elettorale, stavolta nel 2008, Giovanni Barbagallo avrebbe partecipato ad una riunione organizzata alla Playa nel camping di Nino Fargione. Non ci sarebbe stata alcuna persona “appartenente alla mafia”, secondo Barbagallo, soltanto “molti cacciatori e presidenti di associazioni venatorie. Un mio conoscente mi disse che tra gli invitati vi era tale Turi u Beddu, persona che io non so chi essere. Alla riunione partecipò Angelo Lombardo”.

Poi torna sulla “messa a posto” del Pigno. Ne aveva parlato già nell'interrogatorio di gennaio svelato da Livesicilia: Barbagallo aveva raccontato ai pm di “seicento o settecentomila euro consegnati a Raffaele Lombardo per la campagna elettorale”. Sarebbe stato questo il contributo di Cosa Nostra alle elezioni del presidente della Regione secondo le parole del boss Enzo Aiello.

Il 16 aprile Barbagallo torna sulla storia del finanziamento. Lo fa in poche battute, ma ribadisce che i soldi che gli imprenditori "dovevano" dare alla mafia, sarebbero stati consegnati a Raffaele Lombardo per la campagna elettorale: “Sulla vicenda del Pigno mi sembra di essere stato abbastanza chiaro. Quello che so è che le somme di denaro che gli imprenditori dovevano all'organizzazione erano state date a Raffaele Lombardo”. Su questa vicenda, però, il presidente della Regione ha già annunciato querela: “È opportuno precisare – avevano scritto alcuni giorni fa i legali del governatore - che il Barbagallo ha semplicemente detto di avere sentito questa notizia, escludendo di poter fornire elementi in ordine all’attendibilità della stessa. Il nostro assistito ha già smentito in conferenza stampa questa affermazione, conferendoci mandato di perseguire per calunnia chiunque sostenga l’esistenza di detto fantasioso contributo”.

LA STORIA DELLA MAFIA SIRACUSANA.

(Wikipedia) Il fondatore vero e proprio della criminalità organizzata aretusea fu Agostino Urso, detto u prufissuri, perché durante la sua detenzione nel carcere di Augusta (detenzione causata da un accoltellamento ad un tunisino nella pizzeria in cui lavorava), dopo aver letto il libro La mano nera, decise di fondare il clan intestato a suo nome assieme al fratello Carmelo Urso e il cugino Carmelo Urso detto "Scacciata" ed altri personaggi storici della malavita siracusana tra cui Totuccio Schiavone, Nunzio Rizza e Clemente Alberto Leone anch'essi detenuti. Il suo clan per anni ha dominato la città gestendone il racket delle estorsioni e le altre attività illecite. Nell'estate 1981, si ruppero alcuni equilibri all'interno del clan, con le scissioni dal gruppo madre di Rizza e Schiavone fondarono due cosche distinte che portavano i loro nomi. Dopo questa mezza rivoluzione, il clan Urso non controllerà più l'intera città in quanto, dopo un apposito summit, i tre gruppi stabilirono di comune accordo di spartirsi le zone cittadine: ad Urso andò l'isola di Ortigia con il mercato ittico ed ortofrutticolo, mentre ai clan Rizza e Schiavone tutta la terraferma a partire dalla Borgata Santa Lucia fino al viale Teracati. Nemmeno gli accordi di spartizione del territorio bastarono a placare le faide che imperversarono al primo segno di tradimento, con l'estorsione di denaro presso un'attività commerciale nel territorio degli Urso. Quindi nell'estate del 1981 il boss Rizza venne eliminato con un plateale agguato ordinato da Agostino u prufissure.

Anni 80 e 90

Solo Totuccio Schiavone con il suo gruppo resistettero fino a quando il reggente si dette alla latitanza, sostenendo così la famiglia Urso che nel frattempo veniva affiancata dal clan Bottaro retto da Salvatore Bottaro. Le due cosche infatti presero la nuova denominazione di "Urso-Bottaro", e controllando quasi interamente Siracusa si resero protagonisti di una sanguinosa faida con i clan cittadini del boss Salvatore Belfiore detto u cinìsi e Santa Panagia. Fra le vittime di quella faida che insanguinò l'intero territorio aretuseo, vi fu l'omicidio del superboss Agostino Urso; dalla sua scomparsa iniziò l'ascesa del gruppo Bottaro che si prefissò l'obiettivo di colmare il vuoto lasciato da u prufissure.

L'espansione del fenomeno

Con la fine degli anni novanta e l'inizio del nuovo millennio i gruppi Bottaro e Santa Panagia decidono di monopolizzare insieme i settori delle estorsioni e del traffico di droga in città e nei comuni limitrofi; a questi si aggiungerà il gruppo Attanasio, capeggiato dall'emergente e spietato boss Alessio Attanasio (attualmente detenuto presso il carcere di Viterbo con la condanna definitiva di 18 anni), genero dello sopraccitato storico capomafia Salvatore Bottaro che assieme ad un gruppo di giovanissimi salì alla ribalta nella primavera del 1995 durante la guerra contro il gruppo di Santa Panagia che intendeva conquistare l'intera città a discapito degli Urso-Bottaro. Nel maggio 2005 il boss Bottaro, già condannato all'ergastolo e al regime del 41 bis, si suicida con alcuni colpi di pistola nella sua abitazione; questa morte inciderà non poco sulla criminalità siracusana, che da quel momento verrà pilotata dal clan Attanasio, che assieme ai clan dei quartieri Borgata (gruppo composto da vecchi e nuovi appartenenti del clan Bottaro che hanno dato i natali a tale organizzazione criminale) e Santa Panagia controllata da Giovanni Latino affiliato al Clan Aparo è divenuta la realtà mafiosa più potente della città e della Provincia, dato che i tentacoli dell'organizzazione si sono spinti oltre i confini di Siracusa. Negli ultimi mesi importanti operazioni della direzione distrettuale antimafia di Catania, hanno ridimensionato quasi completamente la mappa malavitosa siracusana: il 17 luglio 2007 viene smantellato sul nascere il nuovo gruppo di Santa Panagia rivitalizzato dai suoi più alti esponenti da poco scarcerati: la cosca aveva in serbo mire egemoni in città e non solo. Recentemente sono state colpite le famiglie Attanasio-Bottaro-Messina grazie a 70 arresti.

Riapertura dell'Irish Pub

Nel 2007 è stato riaperto (per la quarta volta) l'Irish Pub dopo i 3 precedenti incendi dolosi che lo hanno distrutto per mano della malavita organizzata. Sito nel centro storico aretuseo è divenuto subito il simbolo della lotta alla criminalità, in particolare contro il racket delle estorsioni. Il proprietario, Bruno Piazzese, attuale presidente dell'Associazione Antiracket di Siracusa, ha sposato la causa della legalità denunciando i suoi estortori. La ricostruzione ex novo del locale è stata finanziata dal fondo antiracket. Recentemente sono state colpite le famiglie Attanasio-Bottaro-Messina grazie a 70 arresti. Tuttavia l'intera provincia di Siracusa, soprattutto nella zona di Lentini, è ancora assoggettata ampiamente dal fenomeno dell'estorsione.

GIUSTIZIA: IN CHE MANI SIAMO MESSI.

L'INCHIESTA: TRE I MAGISTRATI COLPITI DALL'AZIONE DISCIPLINARE.

Parte da un’inchiesta di un coraggioso settimanale catanese, il reportage che ha terremotato la Procura della Repubblica di Siracusa. “C’è del marcio in Procura. Il Pm messinese Fabrizio Monaco ha richiesto, dal 7 luglio scorso, l’archiviazione del procedimento a carico di Maurizio Musco, sostituto procuratore a Siracusa, Alessandro Centonze, ex Pm alla procura di Catania e Pasquale Alongi, vice questore aggiunto ed ex dirigente del commissariato di polizia di Augusta. Tutti indagati per vari reati che vanno dall’abuso alla rivelazione di segreti d’ufficio. L’intreccio perverso tra magistrati indagati, poliziotti ed avvocati sfiora anche una delle società della famiglia dell’attuale ministro dell’ambiente Stefania Prestigiacomo”.

Un fatto di inaudita gravità che coinvolge in questo caso la procura di Siracusa, ma che è comune per tutti gli uffici giudiziari d’Italia. Procura che vai, usanza che trovi. Non vi aspettate condanne penali, si sa, “cane non mangia cane”, ma una riprovazione morale, questo sì, non ce la toglie nessuno. Basta conoscere i fatti. E chi ce li racconta? Meno male che ogni tanto si scopre qualche giornalista degno di questa funzione, che racconta i fatti senza timore.

In questo caso, pur essendoci tentativi di appropriazione indebita di prima genitura, con orgoglio la fa rilevare il suo direttore Salvatore La Rocca. “Magma”, questo il nome del settimanale, per un mese, ogni settimana, ha passato al setaccio fatti e misfatti della procura aretusea. D’altra parte “La Civetta” di Siracusa, una settimana dopo, ha dato ampio spazio all’inchiesta di Magma, sottolineando pure nei titoli come era stato un giornale catanese e non siracusano a denunciare quei fatti. E in relazione a questo il Procuratore Rossi nella prima conferenza stampa li accusava di gettare fango sulla Procura.

Ad avercene giornalisti così, che non hanno paura dei poteri forti, compresi i magistrati, e per questo si è orgogliosi di collaborare con loro e di dare rilevanza in tutto il mondo al loro lavoro, poi sì ripreso dagli organi di stampa nazionali.

Solo dall'azione disciplinare. Per i poveri cristi vi sarebbe stata anche l'azione penale, e magari l'arresto, per abuso d'ufficio, ma tant'è, siamo in Italia. Da "Il Corriere della Sera": Siracusa, ministro chiede il trasferimento del procuratore capo e di un sostituto. Avrebbero condotto  inchieste che coinvolgevano i propri familiari. L'azione riguarda anche un terzo magistrato. Il Ministro «Reiterato e distorto uso della delicata funzione».

Sono stati depositati al Csm gli atti di un'azione disciplinare promossa dal ministro della Giustizia Paola Severino nei confronti del procuratore capo di Siracusa Ugo Rossi e dei sostituti Maurizio Musco e Roberto Campisi. In particolare, da quanto si apprende, per i primi due si chiede anche l'immediato trasferimento cautelare. Motivo dell'istanza: la conduzione di inchieste che hanno visto coinvolti familiari e persone legate ai magistrati stessi e in cui erano in gioco interessi patrimoniali. «Mi difenderò con forza e determinazione in tutte le sedi opportune a cominciare dal Consiglio superiore della magistratura. Il resto lo dirò a fine vicenda», ha affermato all'Ansa il procuratore capo di Siracusa, Ugo Rossi. La richiesta di adozione dell'azione disciplinare sarà trattata dal Csm il  13 settembre 2012. Cinque giorni dopo Palazzo dei Marescialli si occuperà del procedimento per incompatibilità ambientale avviato dall'organismo di autotutela dei giudici nei confronti del procuratore Rossi e del sostituto procuratore Maurizio Musco. L'audizione era stata fissata per il 31 luglio ma è stata poi rinviata. Per Rossi e Musco l'azione disciplinare promossa dal guardasigilli è più pesante di quella ordinaria, perchè si chiede il trasferimento cautelare ad altra sede prima della conclusione dell'iter disciplinare. In particolare per il capo della Procura di Siracusa la richiesta di trasferimento cautelare - rilevano gli atti trasmessi al Csm e alla Procura generale presso la Cassazione, organi competenti sul piano disciplinare - è da ricondurre all'«allarmante preoccupazione di Rossi di proteggere i propri legami familiari e sociali», in particolare «in vari procedimenti in cui erano in gioco interessi patrimoniali dei suoi familiari o di persone a loro legate». Una condotta che va a discapito di quei principi di «correttezza e imparzialità» a cui il capo di un ufficio di Procura è tenuto nella gestione del proprio ruolo; e che getta «pesanti ombre sul prestigio della magistratura e mina nella fondamenta la fiducia nelle istituzioni». Per quanto riguarda Musco, nell'atto promosso dal ministero si riferisce, a quanto si apprende, della «indubbia gravità e consistenza del quadro indiziario acquisito», considerato «sintomatico di un reiterato e distorto uso della delicata funzione» ricoperta dal magistrato. Musco avrebbe «consapevolmente e reiteratamente» violato l'obbligo di astenersi da indagini in cui poteva avere un interesse diretto o indiretto. Inoltre si fa riferimento ai suoi rapporti con un avvocato cui è da ricondurre una serie di imprese attive nel territorio e che sono state, a vario titolo, oggetto di verifiche e indagini da parte dei magistrati al centro dell'azione disciplinare. Proprio questa «rete di piccole imprese» è stata al centro di una interrogazione parlamentare del senatore del Pd Francesco Ferrante presentata il 21 dicembre 2012. Nell'atto si riferisce tra l'altro che parenti dei magistrati sono diventati soci o ricoprono ruoli in queste società. Ma a Musco, a quanto risulta, viene addebitata anche un'altra circostanza: l'aver smentito, nel 2007, l'iscrizione di alcuni indagati nell'ambito dell'inchiesta per scommesse clandestine nel calcio su partite del Catania; e questo per creare, secondo l'atto di incolpazione, vantaggio alla società calcistica. Tanto più che l'inchiesta - è l'altro rilievo mosso - sarebbe dovuta andare per competenza alla Procura di Catania. Per quanto riguarda Campisi, gli addebiti nei suoi confronti sarebbero, tra l'altro, di aver omesso di comunicare fatti a lui noti su Musco (anche in merito alle dichiarazioni sul Catania calcio) e di aver iscritto due giocatori del Catania nel registro degli indagati senza comunicarlo a Catania, avendo così «leso il prestigio» dell'ordinamento giudiziario.

“La Repubblica” a firma di Saul Caia ed Andrea Ossino: Il ministero decapita la procura di Siracusa. Disposto il trasferimento del Capo e del sostituto. Strani intrecci familiari, inchieste in prescrizione dopo tre udienze. "Pesanti ombre sul prestigio della magistratura". Il ministro della Giustizia interviene sulla Procura di Siracusa, dopo diverse interrogazioni parlamentari. Paola Severino, si è espressa sui rapporti interni al tribunale, definiti da molti come "inopportuni" ed è intervenuta con appositi trasferimenti cautelari su cui si dovrà esprimere il Csm il 13 Settembre. Secondo la relazione ministeriale il capo della Procura, Ugo Rossi, si sarebbe "preoccupato di proteggere legami familiari e sociali" a "dispetto e discapito" della "corretta ed imparziale gestione del proprio ruolo", gettando "pesanti ombre sul prestigio della magistratura". I precedenti. Rossi non si astenne quando dovette occuparsi di un fascicolo riguardante la presunta evasione fiscale e le false fatturazioni a carico di Sebastiana Bona, moglie dell'avvocato Amara, e nei confronti di tre società, tra queste la "Gi. Da. Srl" in cui risulta socio Rossi Edmondo, figlio dello stesso procuratore. Secondo il documento ministeriale il capo della procura di Siracusa, avrebbe inoltre commesso un "atto abnorme" designando a se stesso un'inchiesta di competenza della procura di Catania. Si tratta del caso "Oro Blu", dove era indagato Salvatore Torrisi, figlio dell'attuale moglie di Rossi e amministratore delegato della Sai8, società Ato idrica di Siracusa gestita dalla Sogeas e dalla Saccecav. Il fascicolo, nel febbraio 2012 portò agli arresti domiciliari per Giuseppe Marotta ex amministratore delegato Sogeas, Monica Casadei, rappresentate legale Saceccav, Gianni Parisi, rappresentante legale Sogeas, e Gino Foti, sottosegretario nel Governo Goria e Andreotti. Fu in quell'occasione che nei confronti del presidente della provincia aretusea fu emesso un ordine di "divieto di dimora" con l'accusa di "abuso d'ufficio". In una nota diffusa dall'Ansa, Rossi ha fatto sapere che si difenderà "con forza e determinazione in tutte le sedi opportune a cominciare dal Consiglio superiore della magistratura". I reati ambientali. Il ministro della giustizia ha disposto anche il trasferimento del sostituto procuratore Maurizio Musco, lo stesso procuratore che indagò sui reati ambientali riguardanti le industrie dell'ex ministro Stefania Prestigiacomo. Le indagini finirono in prescrizione dopo sole tre udienze. Il pm fu invece chiamato dall'allora ministro come membro del comitato di studio ministeriale sul DL che si occupò di norme in materia d'ambiente. Nei suoi confronti adesso viene evidenziato un "reiterato uso distorto delle funzioni" di pm. Il magistrato fu amministratore della Panama Srl, dove si riscontrava anche il nome di Miano Sebastiano, praticante dello studio di Piero Amara. L'avvocato è figlio di Giuseppe Amara, descritto da un'informativa della Gdf come "personaggio intoccabile" appoggiato da amicizie politiche come quella di Giuliano Vassalli, ripetutamente ministro della giustizia sotto i governi Goria, De Mita e Andreotti, ed ex presidente della Corte costituzionale. Il figlio, Piero Amara è stato inoltre condannato a 11 mesi dal Gip Benanti per "rivelazione di segreti d'ufficio e accesso abusivo al sistema informatico" in quanto istigava Vincenzo Tedeschi, cancelliere del procuratore Centonze al tempo alla DDA di Catania, a fornire informazioni ancora coperte da segreto istruttorio. Amara, più volte controparte processuale del dott. Musco, è un legale del Calcio Catania e proprio in questo caso il procuratore avrebbe omesso l'iscrizione sul registro degli indagati dei giocatori Falsini, Biso e Pantanelli, all'epoca delle indagini atleti del Catania calcio, inchiesta che, per competenza, spettava ai pm catanesi. Per questa stessa indagine, finisce sotto azione disciplinare anche il pm Roberto Campisi, per aver "violato i doveri di correttezza" nei confronti dei colleghi di Catania dopo aver indagato due calciatori della squadra etnea. A carico di Campisi, il ministro evidenzia anche la "violazione dei doveri di vigilanza" per aver omesso di comunicare i fatti di rilievo disciplinare riguardanti il pm Musco, dei quali, secondo l'accusa, era a conoscenza. Il ruolo dei giornali locali. Già da molto tempo i giornali locali aretusei, come "La civetta di Minerva", denunciavano le strane relazioni interne alla procura evidenziando come, seguendo le visure camerali di oltre 20 società, si potevano tracciare legami tra avvocati, procuratori, sostituti e aggiunti, periti, presidenti di municipalizzate o figure influenti al loro interno. Legami che arrivano fino a Roma. Queste relazioni sarebbero risultati inopportune in diversi casi. C'è il caso Mare Rosso, quando le acque di Siracusa cambiarono colore per la presenza del mercurio, del cromo e de nichel. C'è l'inchiesta sulla Oikoten, società del gruppo Marcegaglia o quella del centro commerciale Open Land o dei supermercati Fortè. Poi ci sono i casi di poliziotti e giornalisti che indagarono sugli stessi procuratori e con uno strano tempismo si trovarono indagati a loro volta. In una piccola città certi legami possano andare avanti anni senza creare scandali o attirare attenzioni particolari. Evidentemente quel tempo è finito.

Così sei mesi prima "S" aveva sollevato il caso. Scrive Antonio Condorelli su “Live Sicilia”. La battaglia per la testa del procuratore capo di Siracusa Ugo Rossi si combatte da tre anni a suon di dossier anonimi, pedinamenti, articoli, querele e controquerele. Una ragnatela tanto fitta che è difficile tenere il conto delle decine di inchieste e fascicoli aperti da Siracusa a Roma grazie al fuoco incrociato dell’attività di magistrati e poliziotti, esponenti delle istituzioni e imprenditori, politici e parenti anche lontani degli uni e degli altri. Il risultato è che ad oggi sono stati intercettati tutti, dai massimi vertici della magistratura e dell’avvocatura siracusana, agli onorevoloni ed esponenti locali della destra e della sinistra. E così Ugo Rossi, che tenta di mantenere la barra dritta per lavorare come sempre ha fatto, al di sopra di ogni sospetto, oltre a guardarsi dai propri colleghi della corrente Unicost che pendono dalle labbra del Tar per la quantificazione della sua anzianità di servizio e le conseguenti promozioni a Catania, si è visto scandagliare ogni istante della propria vita privata. Per una guerra che ha messo nel mirino anche i suoi parenti. E la vicenda, dopo i dossier e le denunce anonime e i relativi passaggi su blog e giornali locali, è finita al centro di un’interrogazione parlamentare. A essere chiamati in causa sono tre magistrati – oltre a Rossi, Giuseppe Toscano, procuratore aggiunto prima in sella a Siracusa e adesso a Catania, e Maurizio Musco, pm di Siracusa – e l’avvocato Piero Amara, potente legale difensore dell’Eni. L’interrogazione, presentata a dicembre da Francesco Ferrante (Pd), chiama in causa l’avvocato e i congiunti dei tre magistrati, elencando società e presunti conflitti d’interesse. Accuse respinte però al mittente da Amara, l’unico fra gli interessati ad aver accettato di parlare con “S”. Non basta: negli ultimi giorni sotto attacco è finito anche Salvatore Torrisi, figlio della terza moglie del procuratore, divorziata da un importante assessore tecnico della giunta catanese di Raffaele Stancanelli, Claudio Torrisi. Dopo dieci anni di direzione della Sidra Catania, colosso pubblico della depurazione, l’ingegnere Torrisi è divenuto direttore tecnico alla Sai8 di Siracusa, la società che gestisce l’Ato idrico della provincia aretusea. Un’azienda finita al centro di un’inchiesta della Procura guidata dal compagno della madre. Il procuratore Ugo Rossi però non si è fermato, ha intercettato tutti, e adesso alcuni dirigenti dell’Ato idrico sono finiti in galera con l’accusa di aver gestito “a tavolino” gli appalti. E si attende una seconda operazione.

Vittime e carnefici. Il nodo della vicenda risiede in una srl che si chiama Gida. Amministrata da Carlo Lena, manager di Banca Nuova, vedrebbe tra i propri soci, secondo la ricostruzione di Ferrante, Edmondo Rossi, figlio del procuratore Ugo Rossi, Attilio Luigi Maria Toscano, figlio del pm Giuseppe Toscano, e Sebastiana Bona, moglie dell’avvocato Piero Amara. Ferrante sottolinea come nel processo Mare Rosso “fu presentata una denuncia (procedimento penale n. 5898/08) nella quale si lamentava il mancato rispetto degli accordi con i dipendenti dell’Eni (difesi da Piero Amara); il procuratore Toscano accertò che il denaro arrivato ad alcuni dipendenti era transitato dal conto della Gida srl”. In pratica, secondo Ferrante, attraverso una società partecipata da figli di pm che indagavano sull’inquinamento del petrolchimico sarebbero transitati fondi della principale azienda inquisita. Piero Amara bolla le accuse di Ferrante come “false a partire dal fatto che mai denaro dell’Eni è transitato nei conti della Gida”. E ancora, ad “S” spiega di non essere personalmente socio della Gida, ma di seguire l’attività imprenditoriale della moglie. “I fatti processuali citati da Ferrante risalgono al 2006-2007, quando Ugo Rossi non era a Siracusa e suo figlio non era titolare di quote, visto che è entrato in questa società soltanto nel 2010 a compensazione di un credito che lo stesso vantava per aver progettato un impianto fotovoltaico”. Carte alla mano Edmondo Rossi, figlio del procuratore capo, risulta amministratore delegato della A&M Global Solution srl, società costituita nel 2003 che si occupa della realizzazione di opere civili e industriali per Eurospin, Maltauro, Alstom e Siemens. La A&M Global Solution ha 25 dipendenti e si è specializzata nella progettazione e realizzazione di impianti fotovoltaici. Quello progettato per la Gida valeva 3 milioni e 140 mila euro e doveva essere realizzato a Melilli. “Per ragioni legate alle autorizzazioni - continua Amara - l’impianto fotovoltaico non è entrato in funzione immediatamente, per questo la quota del 20% è stata offerta, a titolo di compensazione per parte degli oneri di progettazione, all’ingegner Rossi, che adesso è pure uscito dalla società”.

I rapporti Toscano-Amara. “Attilio Toscano - scrive Ferrante - oltre ad essere socio della Gida Srl è un avvocato che in molti procedimenti giudiziari affianca l’avvocato Amara, quali ad esempio le vicende di Siracusa che riguardano Open Land e Sai8”. Una circostanza che Amara conferma: “Conosco Attilio Toscano dai tempi dell’università – spiega il legale – e lo ritengo uno dei migliori amministrativisti d’Italia. Spesso, per vicende che si riconnettono a profili di natura amministrativa, mi rivolgo a lui: lavoriamo insieme e siamo colleghi da tanto tempo”. Ricostruendo la vicenda Open Land, Ferrante punta l’attenzione sul fatto che “l’avvocato Piero Amara e Attilio Toscano”, come difensori dell’imprenditore Rita Frontino, denunciarono l’ingegnere comunale Natale Borgione, che pubblicamente si opponeva al progetto, perché avrebbe “premuto nei loro confronti per far nominare un suo tecnico di fiducia come direttore dei lavori”. Dopo la denuncia scattò la custodia cautelare per Borgione, poi annullata perché, secondo Ferrante, l’accusa della magistratura sarebbe stata “priva di fondamento” e il Tribunale del Riesame avrebbe delineato una “ipotesi di corruzione diametralmente opposta a quella configurata dai Frontino”. “Anche in questo caso - replica Amara – si tratta di falsità e insinuazioni. Innanzitutto io non difendo la denunciante Frontino, ma la stessa è assistita dai miei colleghi Calafiore e Fiaccavento. Io sono intervenuto soltanto in alcuni procedimenti amministrativi e non in quello penale. Aggiungo anche che non è vero che l’accusa era ‘priva di fondamento’: il Tribunale del Riesame ha qualificato i fatti come istigazione alla corruzione, reato che non prevede la custodia cautelare. Per Borgione è stato chiesto il rinvio a giudizio e l’udienza preliminare è stata fissata per il 20 aprile 2012”. Partendo dalla società Gida srl, Ferrante sottolinea che “il procuratore Toscano si era già occupato di altre vicende che interessavano direttamente l’avvocato Amara: il caso dell’ispezione di villa Corallo ad Augusta e la denuncia presentata contro il cugino dell’avvocato Piero Amara, Pietro, per infedele patrocinio”. “Ferrante - insiste Amara – dimentica di comunicare gli esiti di quei procedimenti. Il processo di villa Corallo rimase nelle mani del pm Maurizio Musco soltanto per poche ore. Musco decise poi di astenersi, e così divenne titolare il pm Giuseppe Toscano, che chiese la condanna per il mio assistito e l’assoluzione del poliziotto che avevamo denunciato. E il mio assistito è stato condannato. Il processo di mio cugino Pietro è rimasto sotto la titolarità del dottor Toscano solo nella fase iniziale perché lo stesso è stato trasferito a Catania. Divenne titolare il pm Andrea Norzi che chiese l’archiviazione per evidente infondatezza della notizia di reato e l’archiviazione venne accolta dal Gip di Siracusa”.

I rapporti Musco-Amara. Ma non c’è solo Toscano nel mirino di Ferrante. Secondo il parlamentare del Pd, Claudio Torrisi, figlio della terza moglie di Ugo Rossi, è stato “consulente” del pm Maurizio Musco. Sul quale aggiunge un altro particolare: secondo l’interrogazione, infatti, Musco e la sorella Pasqua sarebbero soci della Panama srl, amministrata da Sebastiano Miano, che a sua volta è un ex praticante avvocato dello studio di Amara. “La Panama srl – scrive Ferrante – ha chiesto al Comune di Augusta l’autorizzazione alla costruzione di un impianto sul terreno di proprietà di un’altra società, la Geostudi srl, di proprietà di Piero e Serafina Amara, ma amministrata da Roberto Formica”. “Anche questo è un grande bluff - replica Amara - il contratto che la Panama aveva stipulato con la Geostudi per la locazione del terreno sul quale costruire un impianto fotovoltaico è stato risolto prima dell’interrogazione perché non ottenne l’autorizzazione alla concessione Enel. Musco in questa vicenda è stato penalizzato perché ha pagato anticipatamente il primo semestre di locazione e poi l’Enel ha bloccato tutto”.

Diritto e potere. Siracusa è culla del potere e del diritto tanto che insigni giuristi, magistrati, accademici e numerosi avvocati fanno parte del comitato scientifico dell’Osservatorio Permanente sulla Criminalità Organizzata, organo di consulenza della presidenza della Regione e degli Enti locali territoriali, istituito come “strumento di garanzia e di trasparenza nella gestione dei fondi pubblici”. Presidente del Comitato Scientifico è Giovanni Tinebra, procuratore generale di Catania, tra i componenti del Comitato c’è l’avvocato Piero Amara, che insieme al pm Maurizio Musco e ad altri avvocati nel 2009 ha organizzato il convegno “La tutela penale dell’ambiente”. Amara e Musco fanno anche parte del comitato scientifico del Centro Siciliano di Studi sulla Giustizia, fondazione costituita a Siracusa nel 2006 che vede nel proprio comitato scientifico i massimi esponenti della magistratura italiana e del mondo accademico, ma anche gli avvocati dei principali fori del Sud Italia e non solo. Nel 2008 il pm e l’avvocato, in seguito a una denuncia anonima che segnalava “frequentazioni” tra i due, sono stati intercettati durante l’organizzazione di un convegno. “Nel corso della conversazione intercorsa tra l’avv. Amara e il dott. Musco - scrivono i carabinieri - gli interlocutori discutono di strutturare un convegno, dopo di che decidono di incontrarsi”. Il 25 ottobre 2008 Musco invia un sms ad Amara con scritto: “Ma quando ci vediamo per organizzare il convegno di febbraio? Eventualmente insieme al prof. Mangione. Io stasera sono libero, fammi sapere”. E ancora, si legge: “L’Avv. Amara parla con il dott. Musco in merito alla redazione di programma da stilare. Durante il colloquio telefonico i due decidono di vedersi più tardi”. Su queste basi la procura di Catania aveva chiesto l’archiviazione ritenendo che “tali rapporti, in assenza di ulteriori elementi da cui ricavare eventuali condotte illecite del dott. Musco finalizzate ad agevolare l’Amara, non assumono rilevanza penale”. “Il dottor Musco - precisa Amara – ha curato 8 procedimenti penali cui io potevo essere direttamente o indirettamente interessato. Questi procedimenti penali sono stati definiti con 6 richieste di rinvio a giudizio per i miei assistiti e due astensioni. Non spetta a me difendere Musco, ma posso dirvi che sino al 2008 era considerato un eroe, poi ha iniziato a occuparsi di alcuni reati ambientali di importanti colossi di Augusta ed è finito al centro della macchina del fango”.

PARLIAMO DI TRAPANI

LA GUERRA DEI VESCOVI.

La guerra dei due vescovi: monsignor Mogavero e monsignor Miccichè, scrive  C. Alessandro Mauceri, su “La Voce di New York”. Due vescovi come I Duellanti di Conrad. Il primo - monsignor Mogavero - è il vescovo di Mazara del Vallo. Il secondo - monsignor Miccichè - costretto a lasciare l’arcivescovado di Trapani. Il cattivo sembrava Miccichè. Ma adesso c’è il dubbio che l’ormai ex vescovo di Trapani possa aver creato fastidi alle due M della Sicilia: la Mafia e la Massoneria…  Qualcuno li ha definiti i duellanti della Chiesa siciliana. Due alti prelati. Anzi due vescovi. Due uomini di Dio che, da anni, si tirano fendenti tremendi. Proprio come i protagonisti di un celebre racconto di Conrad. Mentre i due protagonisti di questo singolare scontro, ora segreto, ora sotto le luci della ribalta, sono monsignor Francesco Miccichè, già vescovo di Trapani (oggi caduto in disgrazia) e monsignor Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo. L’uno accusa l’altro. E l’altro replica accusando l’uno. Un batti e ribatti che è finito sui tavoli dei magistrati. Così le vicende (forse sarebbe più corretto parlare di vicissitudini) sono finite sui tavoli dei magistrati trapanesi. Ma andiamo con ordine. Cominciamo con monsignor Francesco Miccichè, classe 1943, natali a San Giuseppe Jato, in provincia di Palermo. Negli anni ’80 era considerato un uomo di Santa Romana Chiesa molto dinamico. Il grande balzo in avanti lo compie nel 1988, quando l’allora Arcivescovo di Palermo, Cardinale Salvatore Pappalardo, su mandato del Papa Giovanni Paolo II nomina monsignor Francesco Miccichè vescovo di Messina-Lipari-Santa Lucia del Mela. Una diocesi storica, quella di Lipari, che solo da pochi anni è stata unificata a quella di Messina. A Lipari Miccichè (è il più giovane vescovo d’Italia, a soli 45 anni), comincia a farsi i primi nemici. A molti non piace la sua ostinazione nell’interessarsi attivamente di problemi sociali. Come ha confermato l’ex assessore di Lipari, Antonino Costa: “Gli uomini di quel tempo spesso gli furono ostili o tiranni, accusando il vescovo di fare il politico e non il pastore di anime”. Ciò nonostante, grazie ad un notevole riscontro (soprattutto tra i giovani), Miccichè riceve diversi riconoscimenti importanti tanto che, nel 1991, viene nominato delegato della Conferenza episcopale siciliana per i giovani. Un attivismo che lo porta ad essere trasferito, nel 1998, all’Arcivescovado di Trapani. Qui si trova di fronte a due fenomeni, tra loro interconnessi: mafia e massoneria. Per gli uomini di Chiesa che operano in Sicilia non è una novità. Alla fine degli anni ’80 monsignor Emanuele Catarinicchia, nel lasciare la guida dell’Arcivescovado di Cefalù, rilasciava alla stampa una pesantissima dichiarazione proprio contro le due emme: la mafia e la massoneria. Due “problemi” che in Sicilia, e in modo particolare in alcune province dell’Isola, sono radicati da decenni. Monsignor Miccichè (nella foto a sinistra tratta da trapanioggi.it) arrivando a Trapani - così si raccontava in quegli anni - sembrava un po’ accerchiato. Ed è proprio lo stesso vescovo di Trapani a raccontare le proprie impressioni su Trapani: ''La massoneria ha messo radici profonde nella nostra città, condizionandone la vita e lo sviluppo. Le diocesi della Sicilia occidentale, tra le quali quella trapanese, operano in un territorio che è storicamente la culla del fenomeno malavitoso tristemente noto con il nome di mafia”. Sono gli anni (ma la situazione non è molto cambiata da allora) in cui Trapani è “terra di frontiera” sia sotto il profilo religioso, sia sotto il profilo sociale: la mafia ha infiltrazioni profonde anche nel tessuto politico. Mafia e massoneria sono spesso colluse con i poteri forti presenti nel territorio di questa provincia. Il tutto avviene in un ambiente solo apparentemente pacifico, dove la violenza e la criminalità che impazzano in altre parti dell’Isola sembrano non essere arrivate. Ma, per l’appunto, è solo apparenza. Perché nel Trapanese non sono certo mancati i delitti eccellenti, dall’uccisione di Vito Lipari, il 13 agosto del 1980 (ex sindaco di Castelvetrano, candidato alle elezioni politiche nazionali nella Dc) all’assassinio del giudice Gian Giacomo Ciaccio Montalto (delitto avvenuto il 23 gennaio del 1983). A cui seguirà, il 2 aprile del 1985, la strage di Pizzolungo: una bomba che avrebbe dovuto uccidere il giudice Carlo Palermo e che, invece, provocherà la morte di Barbara Rizzo e i suoi figlioletti di sei anni, Salvatore e Giuseppe (l’automobile guidata dalla donna fece da scudo a quella del magistrato). Per non parlare dell’assassinio del giornalista Mauro Rostagno, ammazzato il 26 settembre del 1988 perché, con le sue inchieste, aveva iniziato a dare fastidio ad una provincia 'difficile', dove la mafia è presente dalla prima metà dell’800, come denunciava in un celebre scritto l’allora procuratore del Regno, Pietro Calà Ulloa. Una calma che è solo apparente, insomma, quella di Trapani e dintorni. Come dimostra il prosperare, nel territorio, di logge massoniche e mafia (basti pensare alle logge 'coperte' che operavano dentro il circolo 'Scontrino'). E dove molte banche aprono più sportelli di quanto sarebbe normale aspettarsi (visto il volume d’affari delle attività registrate). Anche qui, come era già successo a Lipari, la presenza del clero è tollerata. A patto, però, che non interferisca con gli “affari”. Altrimenti…Miccichè denuncia di avere subito pressioni dalla mafia: "Anch’io da subito arrivato in diocesi - ha raccontato monsignor Miccichè al settimanale l’Espresso, nell’ottobre dello scorso anno - fui avvicinato da persone di questo genere che mi chiesero con fare perentorio di interessarmi in loro favore presso la Procura di Trapani che aveva sequestrato i loro beni, reputandoli prestanome di potenti mafiosi di Alcamo. Il mio diniego fu secco e l’atteggiamento e le parole degli interessati suonarono come una minaccia. Ma non mi pento affatto di avere agito come ho agito e di non essermi piegato ai loro dictat”. Denunce pesanti che rischiano di smuovere le acque e di attrarre l’attenzione di molte, troppe persone (e delle autorità) su una parte della Sicilia da sempre ‘presidiata’ dalla mafia. Non passa molto tempo che cominciano a circolare voci strane sull’operato del prelato e del suo assistente, don Antonino ‘Ninni’ Treppiedi, personaggio dai contorni ancora pochi chiari in molte vicende. Don Treppiedi viene sospeso ‘a divinis’ (successivamente, la procedura verrà confermata dal Vaticano). È lo stesso Treppiedi, che secondo molti gode di appoggi potenti presso le altee sfere, che accusa il vescovo di aver sottratto più di un milione di euro nella fusione di due ricche fondazioni gestite dalla Curia trapanese. Il tutto avrebbe avuto inizio nel dicembre 2007, dopo la fusione, per incorporazione, della fondazione Campanile, gestita direttamente da Miccichè, con la Auxilium, gestita da suo cognato Teodoro Canepa. Scontri pesanti, all’interno della Curia di Trapani, che costringono Papa Benedetto XVI, nel giugno 2011, ad incaricare monsignor Domenico Mogavero (nella foto a destra tratta da youtube) di indagare come visitatore apostolico. “Le mie funzioni - dice monsignor Mogavero quando inizia ad occuparsi della vicenda - saranno di tipo istruttorio. Dovrò fare luce su una serie di fatti poco chiari nella diocesi trapanese segnalatimi dal Vaticano e riferirne quindi alla Santa Sede”. Da sempre, la Chiesa ha cercato di lavare in casa i propri panni sporchi (si pensi alle decine, anzi, alle centinaia di casi di preti pedofili e al ridotto numero di procedimenti penali che, invece, si sono svolti). Monsignor Miccichè, invece, con la sua scelta di denunciare i fatti alla magistratura rompe questa specie di vaso di Pandora. Quello che ne è uscito (e che continua a venire fuori) sembra non aver fine. L’altro prelato, nel tentativo di agevolare l’indagine condotta dai magistrati (nel frattempo la pratica è finita in Procura) consente agli inquirenti l’accesso ad alcuni luoghi di culto coinvolti nell’indagine per  transazioni immobiliari sospette. Cosa, questa, che peggiora la sua posizione nella procedura condotta dalla Santa Sede. A seguito delle indagini del Vaticano condotte da monsignor Mogavero, dopo nove mesi, nel maggio 2012, Miccichè riceve una nota, inviata dalla Santa Sede e classificata “segretissima” (tanto segreta che viene riportata in un articolo del settimanale ‘Panorama’), nella quale viene “invitato” a dimettersi. Pena, in caso di rifiuto, la destituzione d’ufficio entro 72 ore. Miccichè lancia un grido di protesta in cui si dichiara vittima sacrificale. Accusa la massoneria di aver esercitato pressioni affinché il Vaticano giungesse a questa decisione. Ad Antonio Giangrande, autore del volume “Appaltopoli: appalti truccati”, monsignor Miccichè riferisce anche di essere stato minacciato: “Mi venne detto da un padre della Società religiosa di San Paolo che, se non mi fossi convertito e iscritto alla massoneria, avrei fatto una brutta fine”. Con le sue dimissioni e con la sospensione ‘a divinis’ di Treppiedi sembrerebbe essere finito tutto. Ma se la vicenda religiosa sembra conclusa, quella giudiziaria non lo è di certo. Il nome di Treppiedi compare negli incartamenti di un’inchiesta della Procura di Trapani (14 indagati con ipotesi di reato che vanno da diffamazione, calunnia e falso, a truffa, appropriazione e riciclaggio): secondo gli inquirenti, Treppiedi, cosa anomala per un semplice sacerdote, avrebbe aperto alcuni conti correnti allo Ior (la banca del Vaticano, più volte finita nel mirino della magistratura). La Procura di Trapani avvia una rogatoria internazionale, ma senza ottenere l’accesso completo agli atti. Don Treppiedi decide di collaborare con gli inquirenti. Rilascia anche accuse pesanti durante il processo per concorso esterno in associazione mafiosa contro il senatore Tonino D’Alì (parla di pressioni dell’ex sottosegretario su commercianti e politici e dei suoi rapporti con Matteo Messina Denaro). Ma non viene ritenuto attendibile e, alla fine, D’Alì viene assolto da alcune accuse (altre cadono in prescrizione). Don Treppiedi se la deve vedere con la giustizia ecclesiastica: la Chiesa lo condanna a cinque anni di interdizione dal sacerdozio col divieto di portare l’abito talare e alla restituzione di soli 36 mila euro (in verità molti si attendevano una condanna più pesante). Intanto negli uffici della Procura di Trapani cominciano a girare dossier anonimi, lettere false, bonifici bancari transitati sui conti dello Ior e transazioni con firme apocrife. Pare che finiscano nelle mani degli inquirenti anche foto del Treppiedi in stanze del Vaticano vicine a quelle del Pontefice (foto messe in rete e poi oscurate). Un volume di informazioni difficile da gestire e da filtrare per comprendere quanto ci sia di vero e quanto, invece, sia falso. Una cosa è certa: si tratta di una vicenda che rimane oscura. Anche le dimissioni di monsignor Miccichè non chiudono una storia assai tormentata. Non passa molto tempo e la Procura di Trapani, guidata da Marcello Viola, viene chiamata a valutare altri dossier, presentati questa volta proprio dall’ex vescovo Miccichè. A finire sotto la lente d’ingrandimento dei magistrati, questa volta, è il vescovo di Mazara del Vallo, Domenico Mogavero, presidente del Consiglio per gli affari giuridici della Cei (Conferenza episcopale italiana) lo stesso che, solo pochi mesi prima, aveva gestito l’inchiesta del Vaticano su di lui. Secondo quanto riportato nella denuncia (e pubblicato dal settimanale Panorama), monsignor Mogavero sarebbe corresponsabile del ‘buco’ da sei milioni di euro nei conti della diocesi di Mazara del Vallo. Immediata la smentita del vescovo: “Questa notizia è priva di fondamento”, dice monsignor Mogavero. Che, però, rimuove immediatamente dal loro incarico chi si era occupato della gestione dei conti. Il vescovo dichiara che la situazione dei conti della diocesi di Mazara sarebbe perfettamente sotto controllo. E in una nota indirizzata al settimanale Panorama precisa: “Tutto è passato dal collegio dei consultori e dal consiglio degli affari economici. Financo il parere per stipulare i 4 milioni e 700 mila euro di mutuo che è stato autorizzato dalla Santa Sede”. Ancora una volta responsabilità spirituali e materiali si sovrappongono. Per questo monsignor Mogavero convoca tutti i preti della diocesi e distribuisce un documento in cui viene riportato lo stato delle economie della diocesi di Mazara del Vallo. Alla fine dichiara: “Siamo in una situazione di grande difficoltà: da questo momento cambieranno tante cose”. Dal documento emergono spese poco giustificabili, una gestione forse troppo “in grande” (specie per la sottoscrizione di mutui per realizzare chiese, come quella di Pantelleria, e per di più con spese reali che lievitano oltre il previsto), vendite di immobili gestite in modo quanto meno superficiale, disparità nei trattamenti tra una parrocchia e l’altra e molto altro ancora. Alla fine il vescovo riconosce le proprie responsabilità: “È colpa mia, lo so”, ma solo di non aver saputo. Per questo scarica la responsabilità di quanto avvenuto sui collaboratori. I quali, però, non ci stanno a fare la parte degli agnelli sacrificali e si danno da fare per smentire le dichiarazioni di Mogavero. Una storia dai contorni ancora non ben definiti che, come quella dell’ex vescovo di Trapani, Miccichè, avrebbe il difetto, secondo alcuni, di essere stata resa pubblica, cioè di essere finita sui giornali, invece di essere risolta nella privacy degli uffici del clero. Una vicenda alla quale, di recente, si è aggiunto un altro tassello (anche questo pubblico): monsignor Francesco Miccichè, ormai ex vescovo di Trapani, ha denunciato per diffamazione e violazione del segreto istruttorio monsignor Domenico Mogavero. “Ogni volta che lo stesso Mogavero veniva convocato presso la Procura di Trapani c’era inoltre la presenza del giornalista di turno pronto a divulgare la notizia. Grazie all’incarico di visitatore apostolico, Monsignor Mogavero ha avuto grande visibilità su determinati organi di stampa”, ha detto Miccichè. E ha aggiunto: ”Ciò gli ha consentito non solo di influenzare l’opinione pubblica, ma anche di esprimere idee ed opinioni in nome e per conto dell’episcopato siculo, di giudicare, con toni sferzanti, sia l’operato di Papa Benedetto XVI che del suo segretario di Stato, Cardinale Tarcisio Bertone”. Un’accusa, quella di monsignor Miccichè, che non è rivolta solo all’inquisitore (colpevole anche, secondo l’ex vescovo di Trapani, di non averlo mai interrogato e di averlo diffamato, divulgando i contenuti della relazione segreta consegnata al Papa). L’ex numero uno della diocesi trapanese ha anche più volte chiesto di parlare con il pontefice. Ma a quanto pare, fino ad oggi, non ha avuto molta fortuna. Ma non basta: nella sua denuncia, Miccichè parla anche del rapporto tra monsignor Mogavero e Treppiedi. “Rapporto che, invero, esisteva già in epoca antecedente al mandato di visitatore apostolico. Lo stesso si vantava di organizzare per conto di Mogavero conferenze e quant’altro”, dice Miccichè. "Il Vaticano ha sentenziato la mia condanna dipingendomi come un essere immorale da tenere alla larga, mi ha rottamato come pastore indegno, mi ha classificato mafioso, truffaldino e inaffidabile, mi ha trattato peggio di un delinquente, condannato all’inazione come un minus habens, un incapace”, ha scritto nel suo memoriale monsignor Francesco Miccichè. Vengono fuori anche altre note interne al Vaticano (riportate, però, solo in una nota firmata da un giornalista, S. Sarpi). Come il presunto giudizio lusinghiero espresso dal Collegio dei consultori, all’indomani dell’incontro con Monsignor Mogavero: “Fin dall’inizio del suo ministero episcopale in Diocesi, Monsignor Francesco Miccichè ha offerto ad essa un preciso progetto pastorale e non si è mai risparmiato nel rendersi presente ad ogni, seppur piccola, iniziativa in tutte le parrocchie. Ha voluto, con instancabile impegno, sempre animare e guidare le molteplici iniziative pastorali e s’è reso disponibile a soddisfare ogni richiesta d’incontro sia da parte dei presbiteri, sia di numerosi fedeli”. Un documento che reca la firma dell’allora vicario generale, Liborio Palmeri, e di altri sette sacerdoti. Ebbene questo documento, datato 9 novembre 2011, e fino ad oggi rimasto inspiegabilmente inedito, riporterebbe anche l’opinione secondo la quale il malessere all’interno della Diocesi di Trapani non sarebbe colpa di Francesco Miccichè, ma una campagna stampa orchestrata ad hoc contro di lui. Dalla massoneria? Dalla mafia? Ancora una volta appare evidente un problema senza precedenti nella storia recente della Chiesa cattolica: un vescovo che denuncia apertamente un altro alto prelato. Tanto che, per chiarire i fatti e per risolvere il contenzioso, il Pontefice ha deciso di nominare un collegio giudicante composto da tre vescovi (o cardinali). Una vicenda strana, fatta di intrecci e di comportamenti che non sarà facile ricostruire, né all’interno del Vaticano né in Procura. Una storia nella quale due vescovi si accusano a vicenda. Questo fino a febbraio scorso quando, con un colpo di scena inaspettato, i magistrati della Procura di Trapani hanno aperto una nuova inchiesta per appropriazione indebita e malversazione di fondi pubblici nei confronti di Miccichè. Per questo gli inquirenti hanno disposto il sequestro di argenteria, arredi sacri e altri oggetti di valore nella sua abitazione di Monreale. Non solo. Nei giorni scorsi è stato aggiunto una nuova puntata a quella che sembra sempre più somigliare ad un interminabile serial televisivo: nei confronti di Miccichè è stata mossa una nuova accusa: quella di essersi appropriato di fondi derivanti dall’8 per mille. Per questo motivo, uomini del Corpo forestale e della Finanza si sono recati nella sua abitazione e hanno posto sotto sequestro arredi sacri, argenteria e titoli di credito, per un valore complessivo di alcuni milioni di euro…Una vicenda che ha fatto emergere molti dubbi e molte domande. Per esempio: come mai quando si è trattato di monsignor Miccichè, accusato di aver provocato un buco di circa un milione di euro nella gestione delle casse della diocesi di Trapani è stata aperta un’inchiesta interna da parte della Santa sede, mentre ora che il buco nella diocesi di Mazara del Vallo sarebbe di sei volte superiore a quella della diocesi trapanese nessuno, in Vaticano, ha pensato di indagare? Due pesi e due misure? Di quella che ormai potrebbe essere chiamata La guerra dei vescovi non sembra ancora essere ancora il momento di scrivere la parola fine. Anzi.

Primo caso nella storia: un vescovo querela un collega. L’ex vescovo di Trapani, Francesco Miccichè, ha denunciato il vescovo di Mazara del Vallo, Domenico Mogavero. L’ex vescovo di Trapani, monsignor Francesco Miccichè, ha denunciato per diffamazione e violazione del segreto istruttorio il vescovo di Mazara del Vallo (Trapani), Domenico Mogavero. Lo rivela il numero di Panorama in edicola da giovedì 16 aprile 2015. Papa Francesco si trova così a dover affrontare un caso senza precedenti, nella storia della Chiesa italiana. Per chiarire i fatti e per risolvere il contenzioso, il pontefice ora dovrà nominare un collegio giudicante (una sorta di giurì) composto da tre vescovi o cardinali. Mogavero nel 2011 era stato inviato nella diocesi di Trapani come visitatore apostolico per indagare su un buco di oltre 1 milione di euro. Pochi mesi dopo, il vescovo Miccichè venne rimosso su ordine di Papa Benedetto XVI, in base al dossier redatto da Mogavero. Secondo quanto scrive Panorama, Miccichè, che ha sempre proclamato la sua innocenza e il 26 gennaio è stato ricevuto da Bergoglio, rimprovererebbe Mogavero di non averlo mai ascoltato, ma di averlo anzi diffamato, e in più avrebbe divulgato i contenuti della relazione segreta consegnata al Papa. Nel frattempo anche il vescovo di Mazara si è trovato alle prese con un debito della diocesi che ammonta a quasi 6 milioni di euro.

Nel nome del Padre, del Figlio e… del Giudice. Vescovo querela Vescovo, scrive “L’Eco del Sud”. A memoria d’uomo non era mai accaduto nella storia della Chiesa Cristiana: l’ex Vescovo di Trapani, monsignor Francesco Miccichè, ha denunciato per diffamazione e violazione del segreto istruttorio il Vescovo di Mazara del Vallo, Domenico Mogavero. Lo rivela il numero di Panorama, oggi in edicola, secondo cui Papa Francesco si trova così a dovere affrontare un caso senza precedenti, nella storia della Chiesa italiana. Per chiarire i fatti e per risolvere il contenzioso, il pontefice ora dovrà nominare un collegio giudicante (una sorta di giurì) composto da tre vescovi o cardinali. Mogavero nel 2011 era stato inviato nella diocesi di Trapani come visitatore apostolico per indagare su un buco di oltre 1 milione di euro. Pochi mesi dopo, il vescovo Miccichè venne rimosso su ordine di Papa Benedetto XVI, in base al dossier redatto da Mogavero. Secondo quanto scrive Panorama, Miccichè, che ha sempre proclamato la sua innocenza e il 26 gennaio è stato ricevuto da Bergoglio, rimprovererebbe Mogavero di non averlo mai ascoltato, ma di averlo anzi diffamato, e in più avrebbe divulgato i contenuti della relazione segreta consegnata al Papa. Nel frattempo anche il vescovo di Mazara si è trovato alle prese con un debito della diocesi che ammonta a quasi 6 milioni di euro. Debito che ha portato la diocesi di Mazara sull’ orlo della bancarotta. Nel maggio 2014, la clamorosa notizia, che Mogavero così commentava: “Nel bilancio è inserito l’importo di 4.402.604 che costituisce l’ammontare di due mutui – spiegava -, rispettivamente un mutuo chirografario di 3.692.360 presso Banca Prossima e di 728.144 euro per mutuo ipotecario presso Banca Unicredit”. Finanziamenti e non buchi – specificava inoltre l’Ufficio diocesano per le comunicazioni sociali – perché altrimenti si sarebbe dovuto registrare “un equivalente ammanco di risorse”. Si sarebbe trattato di due mutui contratti per rinegoziarne uno precedente “erogato da Banca Intesa tra il 2006 e il 2008 e per aggiornamenti dei prezzi nei cantieri di costruzione delle tre nuove chiese: Matrice di Pantelleria, San Lorenzo in Mazara del Vallo e San Giuseppe in Gibellina”, strutture la cui costruzione fu deliberata prima dell’insediamento del vescovo Domenico Mogavero che, sottolineava la diocesi: “ha portato a compimento quanto già deciso localmente e finanziato dai competenti organi della Cei”. Intanto, tornando ai giorni nostri, se tanto ci da’ tanto, rimane da aspettarsi che Mogavero a Miccichè porga l’altra querela.

Mazara del Vallo: la registrazione del Vescovo con le ammissioni sul crac. Un altro documento esclusivo di Panorama: la registrazione dell’assemblea dei sacerdoti della diocesi con il vescovo, monsignor Domenico Mogavero, che presenta il bilancio e ammette le responsabilità. Un buco da quasi sei milioni di euro. Dopo aver svelato i conti in rosso della Curia di Mazara del Vallo , Panorama è entrato in possesso di un altro documento esclusivo: la registrazione dell’assemblea dei sacerdoti della diocesi con il vescovo, monsignor Domenico Mogavero, svoltasi nell’aula magna del seminario della città lo scorso 14 maggio. Il presule presenta il bilancio e ammette le sue responsabilità ma per i preti l’incontro diventa una sorta di resa dei conti nella quale tutti si accusano a vicenda. E vengono alla luce dissapori, intrighi e cordate fino ad allora rimasti sopiti o nascosti. Il servizio con la trascrizione delle rivelazioni del vescovo ai suoi preti sul numero di Panorama in edicola dal 19 giugno 2014 .

Le “confessioni” del Vescovo Mogavero sul “buco” di Mazara. Il monsignore ammette, sul numero di Panorama in edicola il 19 giugno 2014, le sue responsabilità davanti ai preti ma chiama in causa anche il Vaticano. La nostra inchiesta che ha svelato il buco. «C’è un meccanismo perverso che sta emergendo a me, sta emergendo in queste settimane in cui io finalmente ho potuto accedere, nonostante io l’avessi chiesto 10 mila volte, alla effettiva situazione economica della diocesi», così monsignor Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo, si rivolge ai preti della diocesi nel corso di una drammatica riunione nella quale espone il bilancio con debiti che sfiorano i sei milioni di euro. È il 14 maggio scorso e nel corso di quella riunione, che suona come una resa dei conti, emergono i retroscena che hanno portato la diocesi di Mazara sull’orlo della bancarotta. Dopo aver anticipato in esclusiva le cifre del “buco” della diocesi siciliana, Panorama in edicola questa settimana pubblica la registrazione dell’assemblea del vescovo con i suoi sacerdoti in cui Mogavero ammette le sue responsabilità («È colpa mia lo so», afferma in un passaggio) ma contrattacca e chiama in causa anche il Vaticano: «Tutto è passato dal collegio dei consultori e dal consiglio degli affari economici. Financo il parere per fare i 4 milioni e 700 mila euro di mutuo che è stato autorizzato dalla Santa Sede».

La guerra dei vescovi. Miccichè querela Mogavero. Quanti veleni nelle Diocesi trapanesi, scrive "Trapani 24". Quale pace e misericordia. I prelati si fanno la guerra a suon di querele. Ora toccherà a Papa Bergoglio cercare di sbollentare la lite, unica nel suo genere, tra l’ex Vescovo di Trapani, monsignor Francesco Miccichè, e il Vescovo di Mazara del Vallo, Domenico Mogavero. Il primo ha denunciato il secondo per diffamazione e violazione del segreto istruttorio. La notizia l’ha rivelata Panorama, non nuovo a inchieste su quello che accade nelle diocesi di Trapani e Mazara. Papa Francesco si trova così a dover affrontare un caso senza precedenti, nella storia della Chiesa italiana. Il pontefice ora dovrà nominare un collegio giudicante (una sorta di giurì) composto da tre vescovi o cardinali. Mogavero nel 2011 era stato inviato nella diocesi di Trapani come visitatore apostolico per indagare su un buco di oltre 1 milione di euro. La Curia trapanese finisce nella bufera. Sotto la lente della Guardia di Finanza finiscono le attività di due fondazioni della diocesi trapanese. Le indagini interessano anche l’ex direttore amministrativo, don Ninni Treppiedi, che avrebbe aperto conti presso lo Ior, e non avrebbe potuto farlo. Ci sarebbero stati acquisti di auto di lusso, nell’indagine, che coinvolse 14 persone, spuntano le accuse di riciclaggio, appropriazione indebita, truffa, calunnia, diffamazione. Don Ninni Treppiedi viene sospeso “a divinis”. Nel frattempo collabora con la giustizia e accusa Miccichè. Pochi mesi dopo, il vescovo Miccichè venne rimosso su ordine di Papa Benedetto XVI, in base al dossier redatto da Mogavero. Intanto, un paio di mesi fa, viene fuori la notizia dell’indagine della Procura a carico dell’ex Vescovo di Trapani: secondo i pm si sarebbe intascato decine di migliaia di euro destinate dai contribuenti all'otto per mille. Il procuratore di Trapani Marcello Viola, ipotizza a carico del prelato il reato di appropriazione indebita aggravata. A carico del prelato ci sarebbero le accuse di Don Ninni Treppiedi, suo ex braccio destro, coinvolto in un'altra inchiesta in cui Micciche' e' parte lesa e sospeso a divinis, e quelle dell'ex direttore della Caritas, Sergio Librizzi, imputato in un'altra inchiesta di concussione e reati sessuali. Sia Treppiedi che Librizzi stanno rendendo dichiarazioni ai magistrati. Micciche' venne rimosso da papa Ratzinger dalla carica di vescovo di Trapani proprio a seguito dell'inchiesta in cui il prelato risultava parte lesa. L’indagine a carico di Miccichè non scaturirebbe tanto dall'indagine dove il prelato risulta parte lesa e che è relativa alle presunte malefatte del suo "braccio destro", ex direttore della Curia, don Ninni Treppiedi. Ma dalle dichiarazioni di Treppiedi e dell'ex direttore della Caritas, Sergio Librizzi, imputato in un'altra inchiesta di concussione e reati sessuali. Sia Treppiedi che Librizzi stanno rendendo dichiarazioni ai magistrati. Ed ecco la controversia con Mogavero, che fece il visitatore apostolico in quel difficile periodo. Secondo quanto scrive Panorama, Miccichè, che ha sempre proclamato la sua innocenza e il 26 gennaio è stato ricevuto da Bergoglio, rimprovererebbe Mogavero di non averlo mai ascoltato, ma di averlo anzi diffamato, e in più avrebbe divulgato i contenuti della relazione segreta consegnata al Papa. Nel frattempo anche il vescovo di Mazara si è trovato alle prese con un debito della diocesi che ammonta a quasi 6 milioni di euro. In bilancio ci sono mutui, spese per collaboratori, prestiti contratti da sacerdoti, contributi dati alle parrocchie. Su tutto ciò Mogavero è stato convocato in Vaticano per parlare direttamente con Papa Francesco, ha rivelato tempo fa sempre Panorama. Sotto accusa anche l’ex economo don Franco Caruso, rimosso dal Vescovo. Mogavero replicò all’inchiesta del settimanale con una nota, dicendo che non ci sono buchi, ma semplicemente due mutui per un totale di 4 milioni 400 mila euro. I destini dei due ora si incrociano, con Miccichè che accusa Mogavero di diffamazione e violazione del segreto istruttorio. E può cominciare un’altra puntata dell’interminabile storia di liti e veleni tra uomini di chiesa.

Mazara del Vallo: un "processo" per il buco nelle casse della diocesi. Il giornalista Nino Ippolito commenta l'iniziativa del vescovo Mogavero: riflessioni sulla "doppiezza", continua "Panorama". Dopo lo scoop di Panorama, il vescovo di Mazara del Vallo, Domenico Mogavero, annuncia l’apertura di un processo canonico a carico di un sacerdote e di un collaboratore della curia, che sarebbero i principali responsabili del buco di quasi 6 milioni di euro nelle casse della diocesi. L’11 febbraio Mogavero ha convocato tutti i preti per annunciare l’intenzione di aprire un procedimento canonico per l’ex economo, don Franco Caruso, e il suo più stretto collaboratore, il ragioniere Sergio Sardo. Il vescovo ha sempre sostenuto di essere stato all’oscuro dei debiti e dei prestiti della diocesi. Sulla vicenda, dopo gli articoli di Panorama, sta indagando la procura di Marsala che ha interrogato il vescovo. Mogavero ha illustrato ai preti anche il rendiconto degli ultimi due anni dell’attività economica della diocesi, predisposto da una commissione di sua fiducia. E ha promesso che saranno rendicontati anche gli altri tre anni precedenti. Il Papa e la Congregazione per i vescovi seguono attentamente il caso.

Panorama e il buco nei conti della diocesi di Mazara del Vallo: nuovi documenti, continua "Panorama". L'inchiesta del settimanale ha suscitato la reazione della diocesi guidata dal vescovo Domenico Mogavero che non aggiunge nulla né confuta i fatti raccontati. All'inchiesta di Panorama in edicola questa settimana dal titolo "Scandalo anche in Curia" (l'anticipazione ) e relativa ai 6 milioni di euro di debiti contenuti nel bilancio della diocesi di Mazara del Vallo, la diocesi stessa ha risposto con una nota di cui riportiamo alcuni stralci : "Sottoporrò all’esame di un esperto contabile da me nominato la documentazione dell’ultimo quinquennio  al fine di verificare la gestione economico-finanziaria della Diocesi e l’accertamento di eventuali responsabilità" ha dichiarato il Vescovo monsignor Domenico Mogavero dopo la pubblicazione su un settimanale nazionale di un servizio sulla situazione economico-finanziaria della Diocesi. Contestualmente alla dichiarazione del Vescovo, l’Ufficio diocesano per le comunicazioni sociali, diretto da don Francesco Fiorino, ha diramato una nota che chiarisce alcuni punti evidenziati nel servizio giornalistico. (.....) In merito al presunto asserito “buco” di circa 6 milioni di euro, questa notizia è priva di fondamento. Nel bilancio è inserito l’importo di 4.402.604 che costituisce l’ammontare di due mutui, rispettivamente un mutuo chirografario di 3.692.360 presso Banca Prossima e di 728.144 euro per mutuo ipotecario presso Banca Unicredit. Come si può evidenziare dal dettaglio del debito si tratta di un finanziamento erogato da istituti bancari e non di un “buco” finanziario. Se così fosse si sarebbe dovuto registrare un equivalente ammanco di risorse. I due mutui contratti sono serviti a rinegoziare un precedente mutuo erogato da Banca Intesa tra il 2006 e il 2008 e per aggiornamenti dei prezzi nei cantieri di costruzione delle tre nuove chiese: Matrice di Pantelleria, San Lorenzo in Mazara del Vallo e San Giuseppe in Gibellina. (...) A riguardo della costruzione delle tre nuove chiese si fa presente che la deliberazione relativa alla loro costruzione è stata adottata anteriormente all’inizio del ministero episcopale di monsignor Domenico Mogavero, il quale ha solo portato a compimento quanto già deciso localmente e finanziato dai competenti organi della Cei. Si puntualizza altresì che la Cei – coi fondi dell’8 per mille destinati in sede nazionale alla nuova edilizia di culto – ha finanziato anche i lavori d’abbattimento della vecchia chiesa. L’intera costruzione della chiesa a Pantelleria è costata 5.195.900 euro, di cui a carico della Diocesi 1.946.290,39 euro..." Tuttavia, in merito alle precisazioni fornite dall’Ufficio comunicazioni sociali della diocesi di Mazara del Vallo, la direzione del settimanale fa rilevare come tutte le cifre riportate nel comunicato della diocesi sono esattamente quelle citate nell’articolo. La nota della Curia non aggiunge alcun fatto nuovo in grado di confutare le oggettive difficoltà economiche in cui versa la diocesi e, anzi, le conferma in pieno. In merito all’incontro del Vescovo Mogavero con il Papa, è bene precisare che esso è stato richiesto nel febbraio scorso proprio a seguito dell’accertamento dei rilevanti debiti di bilancio e della conseguente sostituzione dell’economo diocesano. Ma c’è di più. Panorama è entrato in possesso di documentazione incontrovertibile - che è stata già verificata come pienamente attendibile - dalla quale emerge in maniera solare come la situazione debitoria della diocesi sia gravissima e ancora tutta da chiarire rispetto agli anni passati, così come riconosciuto senza mezzi termini dallo stesso monsignor Mogavero.

PIU' ADDETTI CHE VISITATORI, MA IL MUSEO RESTA CHIUSO.

Venticinque addetti “non posson bastare”. Il museo del Satiro resta chiuso nei festivi, scrive “Il Corriere della Sera”. Il sindaco di Mazara del Vallo: «Situazione paradossale: più impiegati che visitatori, la gestione passi al Comune». Sprechi e cattiva gestione, il primo cittadino scrive alla regione. Il sindaco di Mazara del Vallo: «Situazione paradossale: più impiegati che visitatori, la gestione passi al Comune». Venticinque addetti della Regione siciliana per la gestione di uno spazio di poco più di duecento metri quadri, non riescono ad assicurare l’apertura del Museo del Satiro di Mazara del Vallo nei giorni festivi o lo fanno solo in alcune ore. «È questo un segno tangibile di una Sicilia che non va», denuncia il sindaco di Mazara del Vallo Nicola Cristaldi, che ha chiesto al presidente della Regione Rosario Crocetta il trasferimento della gestione del Museo del Satiro dalla Regione al Comune. Cristaldi afferma che l'interesse turistico intorno a Mazara del Vallo è determinato dalla presenza del Satiro ma anche da una rete museale che il Comune ha messo in piedi e che è aperta tutti i giorni dell'intero anno. «Trovo paradossale - aggiunge il sindaco - che proprio la maggiore attrazione culturale della città divenga esempio di non funzionamento di un sistema economico e turistico essenziale per il territorio». I 25 dipendenti della Regione possono essere trasferiti ad altre funzioni ed in altri territori, stante che il Comune di Mazara del Vallo è disposto ad assumere ogni onere finanziario per la gestione del Museo del Satiro con addetti comunali che saranno in grado di assicurare l'apertura del Museo per ogni giorno di tutto l'anno. Le ristrettezze finanziarie, argomenta Cristaldi, costringono spesso la Soprintendenza per i Beni Culturali di Trapani, delegata alla gestione del Museo, a chiedere soccorso proprio al Comune anche per le cose più semplici "come la pulizia dei locali o la sostituzione di una lampadina". Quella di Mazara del Vallo, conclude Cristaldi, "non è la sola realtà da affrontare, stante che sono numerose le situazioni analoghe dove esistono più addetti che visitatori. Mi chiedo quanto costa alla gente una sub politica di tale portata".

IL PARADOSSO DELLA BUROCRAZIA. LAVORARE UN MINUTO A SETTIMANA.

Veterinario lavora un minuto a settimana. Ha convenzione con Asp, in straordinario per prestazioni extra, scrive l’ “ANSA”. Arriva in ufficio saluta e va via senza scambiare neppure una parola. Se deve lavorare è tutto straordinario. E' quanto prevede il contratto di Manuel Bongiorno, che svolge l'attività da veterinario convenzionato con l'Asp di Trapani. Da un anno Bongiorno ha una convenzione da un minuto settimanale valida fino a giugno del 2014. Lo prevede la lettera di incarico dell'Asp di Trapani, che ha trasformato il contratto di diritto privato in incarico ambulatoriale a tempo determinato.

Veterinario di Trapani pagato per lavorare un minuto a settimana. La vicenda paradossale è frutto di un decreto assessoriale del 2009. Sono cinque in tutto i sanitari pagati per prestare servizio pochi minuti al mese. "Mortificante", commentano gli interessati. Il caso sul tavolo dell'assessore Borsellino, scrive Giusi Spica su “La Repubblica”. Una volta a settimana va nella sede dell'Asp, passa il badge, saluta i colleghi, ripassa il badge e se ne torna a casa . "Va avanti così da mesi. A giugno e luglio sono dovuto andare a Trapani, penso che mi spetti anche un rimborso benzina". Manuel Bongiorno, veterinario di Castelvetrano e vicepresidente dell'Ordine di Trapani, da giugno si trova a vivere una vicenda paradossale. Ha una convenzione con l'Asp di Trapani che prevede un minuto di lavoro a settimana. Nel 2009, per delle prestazioni professionali fornite all'azienda, aveva guadagnato poche centinaia di euro. Ma un decreto assessoriale di quell'anno ha convertito l'originaria prestazione fornita in "debito orario". Un calcolo matematico applicato alla lettera che ha partorito per il veterinario un contratto da un minuto a settimana. "Ho chiesto di smettere per potere lavorare davvero - aggiunge Bongiorno - Io voglio dare il mio contributo all'azienda e non voglio essere mortificato". Bongiorno, 38 anni, non è solo in questa battaglia: altri veterinari hanno un monte ore che non permette di svolgere l'attività professionale: Cinzia Dunand, Piergiorgio Molinari, Salvatore Briganò e Daniele Marino. Tra loro c'è chi ha un contratto di pochi minuti a settimana, fino ad un'ora. "Abbiamo chiesto un plus orario - spiega Bongiorno - che ci consenta di dare il nostro contributo visto che a Trapani nel settore veterinario il lavoro non manca con le tante emergenze che ci sono come la blue tongue. Ma ci è stato detto di no". "Queste persone rappresentato paradossalmente solo dei costi, non delle risorse. Una vicenda che si commenta da sola", spiega Paolo Ingrassia, presidente nazionale del sindacato veterinari italiani. La vicenda paradossale nei prossimi giorni arriverà sul tavolo non solo del dirigente dell'Asp di Trapani, Fabrizio De Nicola, ma anche all'assessore alla Salute Lucia Borsellino.

Veterinario beffato dalla burocrazia. Assunto per un minuto a settimana, scrive Nuccio Natoli su “Il Quotidiano Nazionale”. SHAKESPEARE ci perdoni, ma dobbiamo correggerlo. Più che in cielo e terra ci sono cose nella burocrazia italiana. Non ci credete? E allora ecco a voi, sul palcoscenico del Belpaese, la storia di un veterinario di Castelvetrano (Trapani), il dottor Manuel Bongiorno, il cui contratto di lavoro a tempo determinato annuale (scadrà a giugno) prevede un impegno orario settimanale di un minuto. Pare di vederlo il dottore che entra in scena: arriva in ufficio, timbra il badge, conta fino a sessanta, ritimbra il badge, e se ne va. Tutto regolare, come da contratto. Può però accadere che nei fatali 60 secondi si presenti un’emergenza, una gatta con le doglie, una mucca senza latte. Il dottore non si tira indietro e interviene. Ma tutto il tempo oltre il minuto diventa lavoro straordinario e come tale verrà retribuito. A raccontare la storia è stato lo stesso dottor Bongiorno, il quale ha aggiunto di sentirsi «mortificato», e che altri quattro colleghi vivono situazioni simili anche se i loro contratti prevedono un orario più corposo: si va dai 4 ai 45 minuti. «Tutti noi abbiamo chiesto di allungare l’orario – ha spiegato Bongiorno – perché a Trapani nel settore veterinario il lavoro non manca e ci sono tante emergenze, ma ci è stato detto di no». Il paradosso burocratico risalirebbe a una norma introdotta dalla provincia di Trapani nel 2009. Quell’anno il dottor Bongiorno e i suoi colleghi, fornirono all’Asp (Azienda sanitaria provinciale) di Trapani prestazioni professionali per qualche centinaia di euro. L’Asp, in base alla norma del 2009, ha calcolato che quelle prestazioni davano diritto a un contratto a tempo determinato in «debito orario». Fatti tutti i conti, e valutati tutti i parametri con burocratica fermezza, il risultato ha prodotto i contratti da un minuto settimanale, fino a quello davvero faticoso da 45 minuti. «Troveremo una soluzione per accorpare i minuti e far svolgere l’attività tutta in un giorno», dice ora l’Asp che trova anche il colpevole: «Quanto successo a pochi veterinari è l’effetto del decreto assessoriale di stabilizzazione».

«Benarrivatodottore». «Allaprossimadottore», scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Una volta la settimana il veterinario Manuel Bongiorno è chiamato a superare «Beep-Beep», il pennuto più veloce del West nemico di Willy il coyote: deve timbrare il cartellino d’entrata e quello d’uscita in un minuto. Fatto quello, il suo lavoro «convenzionato» settimanale all’azienda sanitaria è finito. Direte: è uno scherzo? No, è il record planetario di delirio burocratico. In provincia di Trapani. Per capire come sia nato questo pasticcio, che quattro volte al mese obbliga quel professionista a sottoporsi a Castelvetrano a quel rito ridicolo, occorre fare un passo indietro. Dovete dunque sapere che da una ventina di anni la Sicilia abusa più di chiunque altro in Italia della possibilità di avere due tipi di veterinari. I «dirigenti» assunti a suo tempo dopo un concorso e chiamati a svolgere un orario settimanale di 38 ore, assimilabili ai medici degli ospedali o degli ambulatori di base, e i «convenzionati», professionisti che magari hanno un ambulatorio per conto loro ma che vengono pagati dalle aziende sanitarie regionali per alcuni compiti specifici. Primo fra tutti quello di combattere la brucellosi, una malattia bovina che può attaccare l’uomo e che è particolarmente diffusa al Sud. Per capirci: su 1.200 veterinari «convenzionati», 350 sono siciliani. La svolta arriva nel 2009. Quando la Regione decide di allargare a questi veterinari il contratto dei medici convenzionati esterni. Problema: l’impegno medio d’un otorino che lavora in ambulatorio può essere più o meno determinato. Ma come fissare dei parametri per i veterinari che girano le campagne e qui trovano la strada asfaltata e lì sterrata, qui le vacche nelle stalle e lì allo stato brado nei campi? Pensa e ripensa, decidono di fotografare la realtà e ripeterla nei nuovi contratti col copia incolla. Un veterinario ha fatturato all’Azienda sanitaria provinciale nell’anno di riferimento 20.000 euro? Calcolando che come i medici convenzionati deve avere 38 euro lordi l’ora, ecco un contratto annuale per 526 ore l’anno, dieci a settimana. Con un rinnovo automatico l’anno successivo. Nella speranza che un giorno, chissà, arrivi l’assunzione. Fatto sta che nella prima tornata, di «convenzionati», ne vengono imbarcati oltre trecento. «E noi?», saltan su gli esclusi. Tira e molla, nel 2012 la Regione decide di aprire anche a quelli che erano stati chiamati solo per lavori saltuari. E di distribuire loro contrattini piccoli piccoli. «Era chiaro che sarebbero venuti fuori dei pasticci», spiega il presidente nazionale del sindacato veterinari, Paolo Ingrassia, «Ma le nostre proposte per trovare soluzioni sensate, come un minimo di sei ore settimanali, sono state respinte». Risultato: alcuni veterinari, convinti che valesse la pena comunque di mettere un piede dentro il sistema, hanno accettato convenzioni mignon. Due ore la settimana, quarantacinque minuti, quattro minuti... Fino al record di cui dicevamo. La lettera su carta intestata del Servizio sanitario nazionale, che ha come oggetto «richiesta trasformazione del contratto di diritto privato in incarico ambulatoriale a tempo determinato», è un capolavoro di follia burocratica. Dato atto che il dottor Manuel Bongiorno ha le carte in regola per il nuovo contratto, il coordinatore e il responsabile amministrativi scrivono che «sulla base delle retribuzioni in godimento al 31 dicembre dell’ultimo anno di servizio le ore settimanali conferibili, calcolate in sessantesimi, risultano pari a 0,01 minuti». Che poi, per come è scritto, sarebbero un 100º di minuto. Nella lettera al neo «convenzionato», il coordinatore sanitario conferma: «In esecuzione della deliberazione (...) con la presente si conferisce alla Signoria Vostra incarico ambulatoriale a tempo determinato per n° 0,01 minuti settimanali per l’area funzionale di Sanità Animale con decorrenza...». «Una volta a settimana vado nella sede dell’Asp e devo passare il badge. Entro, aspetto che passi un minuto, e poi ripasso il badge. Va avanti così da mesi», si è sfogato Manuel «Beep-Beep» Bongiorno con Ignazio Marchese, che per primo ha raccontato la storia all’Ansa. «A giugno e luglio sono dovuto andare a Trapani, penso che mi spetti anche un rimborso benzina. Io voglio solo potere svolgere la mia attività e una condizione che mi amareggia...». Al di là del suo destino personale, il tema è: che futuro ha un Paese come il nostro se una Regione fissa regole così insensate, se dei dirigenti predispongono con trinariciuto ossequio formale una scemenza burocratica del genere, se un iter amministrativo così ridicolo viene a costare immensamente più di quanto valga quel contratto? Ma più ancora: possibile che per mesi vada avanti un delirio del genere senza che una persona di buon senso abbia l’autorità di scaraventare tutto nel cestino?

TRAPANI, BOSS E MASSONI.

Il primo della lista è un funzionario della prefettura, scrive Attilio Bolzoni su “La Repubblica”. Il secondo è un mafioso accusato di strage. Il terzo è un vicequestore di polizia. Il quarto è un big della Dc. E poi un lungo elenco di nomi: burocrati del Comune, sorvegliati speciali, ufficiali dell' esercito, imprenditori, trafficanti di eroina. Tutti fratelli, tutti insieme nella stessa loggia segreta dietro la copertura di un circolo, lo Scontrino, un centro di cultura in un bel palazzo barocco nel cuore di Trapani. Dopo un paio di anni di indagini i giudici scoprono uno degli intrighi della città a più alta densità mafiosa della Sicilia. Un'inchiesta che coinvolge personaggi di primo piano e mafiosi che volevano uccidere il giudice Carlo Palermo. Sullo sfondo c'è anche un misterioso viaggio di Licio Gelli a Trapani. I magistrati dell'ufficio istruzione hanno firmato 34 comunicazioni giudiziarie che ipotizzano un solo reato: costituzione ed appartenenza ad un'associazione massonica occulta. Gli indiziati: l'assessore regionale democristiano agli Enti locali Francesco Canino (che smentisce la sua iscrizione alla loggia), l'ex assessore provinciale dc alla Pubblica istruzione Salvatore Bambina, il vicequestore Saverio Bonura, il primo dirigente della prefettura, alcuni capi ripartizione del Comune, il comandante dei vigili urbani. Poi ci sono alcuni boss accusati di aver svolto un ruolo nell'omicidio del sostituto procuratore Giangiacomo Ciaccio Montalto o di avere preparato l'attentato contro il giudice Palermo. Un'inchiesta a Trapani e uno stralcio nel distretto giudiziario di Caltanissetta: secondo indiscrezioni nella loggia segreta ci sarebbero anche i nomi di alcuni magistrati. La storia della loggia coperta del circolo Scontrino inizia quasi per caso nella prima settimana del gennaio 1986, quando in questura arriva una lettera anonima sulla nuova nomina del comandante dei vigili urbani: Se decidete di indagare date un' occhiata a quelle logge del circolo Scontrino' .... Il blitz scatta un paio di giorni dopo. I poliziotti sequestrano gli elenchi di quattro logge ma tutto sembra in regola. La sorpresa è dentro un piccolo armadio blindato: ci sono tessere non registrate in un elenco ufficiale, appunti riservati, agende zeppe di nomi di boss latitanti per le stragi trapanesi. E poi una valanga di raccomandazioni, richieste di trasferimenti e favori, pratiche su grandi appalti, domande dei fratelli per avanzamenti e promozioni di tutti gli uffici statali di Trapani. Un piccolo centro di potere di una città di provincia? Gli investigatori sospettano la presenza di un vero e proprio comitato d' affari. Nella lista segreta ci sono i nomi di tanti mafiosi. Il giorno dopo la perquisizione allo Scontrino il capo della Squadra mobile Saverio Montalbano viene sospeso dal questore Gonzales. La motivazione ufficiale: uno scontro sull' uso delle auto blindate. I trapanesi ben informati sostengono però che il capo della Mobile non doveva indagare in quel circolo culturale. Le indagini si fermano così per qualche mese, ma sulla loggia si concentra poi l'attenzione della Criminalpol, dei carabinieri, dell'alto commissariato, della guardia di Finanza, dei servizi segreti. Sulla scrivania del procuratore capo Antonino Coci finiscono quattro rapporti giudiziari. In uno si ricostruisce la storia della loggia e si descrive lo strano rito di iniziazione degli affiliati: taglio dei polsi e baci in bocca per il nuovo fratello. Il secondo rapporto parla di un misterioso viaggio di Licio Gelli in Sicilia, durante la sua latitanza. Gli altri due dossier analizzano i rapporti tra i boss e gli altri fratelli nella loggia. Tra i trentaquattro indiziati ci sono anche due boss. Il primo è Mariano Agate, il capo della cosca di Mazara del Vallo imputato per l'uccisione del sindaco di Castelvetrano Vito Lipari. Il secondo è Natale Lala, un picciotto della mafia trapanese. Ma nella loggia c' erano altri mafiosi. Come Mariano Asari, un capoclan ricercato per aver organizzato la strage al tritolo di Pizzolungo. Tra i documenti sequestrati al circolo ci sono anche lettere di Gioacchino Calabrò, un mafioso imputato in queste settimane per l'auto-bomba che ferì Carlo Palermo e uccise una donna e i suoi due figli. Il gran maestro della loggia segreta di Trapani è in galera da qualche mese. Si chiama Giovanni Grimaudo, fa il professore, è stato arrestato per una vecchia truffa. L' inchiesta sulla loggia coperta è alla fase iniziale. Girano voci su contatti tra i fratelli e trafficanti di armi, su altri professionisti affiliati, su rapporti con servizi segreti dei paesi dell' Est. I magistrati non confermano e non smentiscono. A Trapani è certo solo un fatto: da quando è stata aperta l' indagine sono cambiati quattro questori e tre capi della Squadra mobile.

MAFIA, MASSONERIA...PURCHE' NULLA CAMBI.

E' tornato d'attualità il problema della presenza della massoneria a Trapani, scrive Aldo Virzì. Lo si deve, anzitutto, all'uscita – a dire il vero piuttosto audace – di un giovane giornalista-editore-tuttofare e tutto essere che, partecipando ad una riunione dei cespuglietti della sinistra, ha tuonato contro la presenza di massoni nelle liste delle ormai prossime elezioni per il rinnovo del consiglio comunale di Trapani. La polemica attorno a quel diktat è durata appena un paio di giorni. Anche quelli che avversano la massoneria infatti non ci stavano a generalizzare, anche perché, si sosteneva a torto o a ragione nei ristretti circoli della politica locale, si trattava di un proiettile con un ben definito obiettivo da colpire: Pietro Savona, candidato sindaco della Margherita. Costui, con grande eleganza rispondeva di non essere massone e che comunque non aveva nulla contro la massoneria, “quella pulita, da non confondere con quella deviata”. E' rimasto insoluto l'interrogativo su chi ha armato la mano del giornalista-editore-tuttofare e tuttoessere. Massoneria capitolo chiuso? Manco per nulla. Mons. Miccichè, Vescovo di Trapani, che dal secondo anno (peccato non dal primo, o meglio da subito, si era in periodo elettorale) della sua presenza in città, ha ingaggiato un vero e proprio braccio di ferro con la massoneria, ha subito ripreso il tema con il fervore di sempre, aggiungendovi la scomunica e la negazione della Comunione per chi si professa massone. Rimane da capire come faranno i preti officianti a negare la Comunione ai massoni che, se si esclude un ristrettissimo numero di adepti che non negano l'appartenenza e che, anzi, con orgoglio portano il distintivo di squadra e compasso, preferiscono nascondersi. Il limite della Massoneria è proprio questo: essere qualcosa di nascosto. Proprio per questo metodo vi hanno anche aderito persone che da quella appartenenza cercano solo di guadagnare favori. L'estensore di queste note non ama la massoneria in genere, è nemico – non avversario – di certa massoneria deviata e crede di avere acquisito, nel passato, qualche merito in tal senso. Premessa obbligata per aggiungere che non mi piacciono le generalizzazioni; quelle, per intenderci, del giornalista-editore-tuttofare e tuttoessere, ma neanche quella molto più particolareggiata e sofisticata del Vescovo. Bisogna saper distinguere e colpire nella giusta direzione, altrimenti si rischia di avere un effetto boomerang ed i massoni deviati rischiano di uscirne ancora una volta più forti. E' già successo in questa città. E' accaduto quando nell'aprile del 1985, un onesto funzionario di polizia, il dott. Saverio Montalbano, dirigente la squadra Mobile, indagando sul concorso per comandante dei vigili urbani si imbatteva nello pseudo Centro Studi Scontrino, all'interno del quale operavano ben sei logge massoniche (Iside, Iside2, Osiride, Ciullo D'Alcamo, Miriam Cafiero) e, soprattutto, una loggia massonica coperta, cioè segreta, la loggia “C”. Dietro la facciata del Centro Studi e delle logge massoniche si nascondeva una pericolosa accolita di mafiosi, politici ed alti funzionari pubblici. Un coacervo di interessi nascosti dalla comune osservanza massonica che giungeva a Licio Gelli, quello della P2, ma anche al palermitano Giuseppe Mandalari, a Padre Agostino Coppola, il prete mafioso che sposò segretamente Salvatore Riina, e si potrebbe continuare. Non solo la stampa regionale e nazionale, anche quella internazionale si occupò di quel gravissimo scandalo. C'era però anche chi localmente (soprattutto politici con l'appoggio di qualche giornale) cercava di ridimensionare il tutto, riconducendolo ad un semplice episodio di malcostume. Visti i risultati, questa tesi ha prevalso. Infatti, ci fu un lungo iter giudiziario iniziato con una richiesta di arresto per una trentina di aderenti che venne respinta dall'allora giudice istruttore; infine ci fu un processo con pochissimi imputati conclusosi con un paio di lievi condanne. E i funzionari pubblici coinvolti? Chi ha voglia di “conoscerli”, quelli che nel frattempo non sono andati in pensione, li troverà ancora al vertice di istituzioni pubbliche. Hanno anche fatto carriera. Il dott. Montalbano, invece, poco tempo dopo quella scoperta venne trasferito a Palermo, impossibilitato ad approfondire l'inchiesta; qualche tempo dopo ha lasciato, forse deluso, la polizia. Se la passò non proprio bene anche qualche rappresentante della carta stampata locale che non aveva avuto peli sulla penna a scrivere la realtà. Ecco, quella è la massoneria da combattere, distinguendo, per evitare delle solidarietà che potrebbero rafforzarla. Ma perché non si generalizzi, è anche opportuno che la massoneria, quella vera, esca da certo anonimato, ed anche la sua attività venga svolta alla luce del sole, possibilmente spogliata da certi riti cosiddetti esoterici. Massoneria deviata e mafia. Le due M in questa città hanno avuto, probabilmente svolgono ancora, un ruolo centrale di direzione. In questa città è ancora proibito parlare e scrivere di mafia. Basta vedere le polemiche che ancora in questi giorni animano i salotti bene della città. Ancora per la famosa puntata di “Anno zero”, la trasmissione di Michele Santoro. Ancora a “lamentare” l'onore della città che gli inviati di Santoro avrebbero calpestato. Ancora la ridicola accusa ai cosiddetti “professionisti dell'antimafia”. Tutto già visto e sentito. C'è però una novità: da rappresentanti delle istituzioni arrivano minacce: “dovrebbero essere espulsi dalla città coloro che hanno collaborato ad offendere il buon nome di Trapani”. Cioè coloro, qualche politico, un paio di giornalisti, che continuano ad avere il coraggio di parlare apertamente della presenza mafiosa in città e di combatterla. A tanto non eravamo ancora arrivati, neanche negli anni più bui. Affermazioni a mio avviso più gravi di quella storica di Erasmo Garuccio sulla non presenza della mafia in città. Ancora più gravi se, come si è letto sui giornali, a pronunziarle sono stati (non ci sono smentite ndr) uomini delle istituzioni che hanno - avrebbero ? - il compito di combattere la mafia, ignorando tutti gli orpelli circa il buon nome, l'onore e sciocchezze simili. Nei giorni scorsi riordinando vecchie carte e documenti ho riletto le relazioni della commissione antimafia e della “commissione per i problemi posti all'ammini-strazione della giustizia dalla criminalità organizzata” del Consiglio Superiore della Magistratura. Documenti datati, ma straordina-riamente attuali. Ne segnalo alcuni passaggi. Si parla di Trapani del controllo del territorio da parte della mafia. Scrive la commissione del CSM: “si tratta di una criminalità talmente invasiva da avere condizionato e frenato lo sviluppo economico e sociale incidendo perfino sul momento elettorale; di una criminalità che per perseguire i suoi scopi non ha esitato a stipulare alleanze con la massoneria deviata; di una criminalità che ha fatto della intimidazione e della corruzione il normale sistema per aggiudicarsi il controllo sugli appalti e che si è infiltrata nella Pubblica Amministrazione”. Scrive nella sua relazione la commissione antimafia. “In ordine al funzionamento della pubblica amministrazione ed alle responsabilità dell'ente locale sono state acquisite le opinioni del Sindaco e dei capigruppo del consiglio comunale di Trapani. Secondo alcuni di questi sarebbe strumentale accreditare una immagine di Trapani come Città collusa con la criminalità organizzata”. Incredibile, il tempo sembra non passare mai. La conclusione la lasciamo ancora alla Commissione parlamentare antimafia di molti anni fa. “……..Dall'incontro con gli amministratori della città non è emersa una valutazione adeguata al progressivo aggravamento delle condizioni della pubblica amministrazione e della civile convivenza…sembra prevalere una tendenza al ridimensionamento che non può non incidere negativamente sul fondamentale ruolo che l'ente locale deve avere nella complessiva azione di contrasto ad un crimine organizzato che proprio a Trapani si mostra quanto mai pericoloso”.

Mafia e massoneria a Trapani, Rostagno sapeva, scrive Rino Giacalone. Continua a Trapani il processo per l’omicidio del giornalista – sociologo Mauro Rostagno. E lo schema delle ultime udienze si ripete: da un lato ci sono gli avvocati della difesa che tentano di portare teste a sostegno di altre matrici del delitto, dall’altro invece i teste convocati che, di volta in volta, confermano le responsabilità degli imputati Vincenzo Virga e Vito Mazara. E’ andata così anche per l’ultima che ha portato in aula, lo scorso i giornalisti Luciano Scalettari e Andrea Palladino, autori di libri e reportage sugli affari “sporchi” condotti dall’intelligence italiana e non solo, in Somalia e in Italia, negli anni in cui furono uccisi i giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. I due reporter in questi anni si sono occupati dei segreti della cooperazione internazionale, della presenza dei servizi segreti tra le bande in lotta in Somalia, del traffico illecito di rifiuti finiti sepolti sotto le lunghe strade asfaltate di Bosaso. E in aula, i due giornalisti, hanno raccontato gli scenari di questi traffici illeciti. Le risposte di Scalettari e Palladino davanti alla Corte di Assise di Trapani hanno confermato, infatti, queste commistioni fra mafia, i servizi segreti, centrali di intelligence straniere, gruppi di spregiudicati affaristi. Convergenze che negli anni ’90 erano oltremodo potenti e che negli anni in cui Mauro Rostagno faceva il giornalista dalla tv privata Rtc stavano prendendo forma. La cronaca dell’udienza. Mercoledì scorso l’udienza del processo Rostagno si è aperta con l’attesa testimonianza di Anna Di Ruvo, ex ospite della Saman che avrebbe dovuto riferire dei contrasti dentro la Comunità, del famoso fax di forte rimprovero che Cardella mandò a Rostagno (che avrebbe portato alla cacciata dal Gabbiano qualche settimana prima del delitto) del ritrovamento dello stesso fax e la sua molto presunta distruzione, considerato che il fax come più volte ha rimarcato l’avvocato di parte civile Carmelo Miceli fa parte degli atti del processo (sebbene la difesa miri a dimostrare che sia stato distrutto su volere della compagna di Mauro, Chicca Roveri). La Di Ruvo tra tanti non ricordo una cosa precisa l’ha ricordata: il famoso verbale di interrogatorio reso dinanzi ad ispettori della Digos di Trapani (ai tempi dell’indagine denominata Codice Rosso, metà anni ’90) lo firmò senza rileggerlo e le cose lì scritte non corrispondono, a suo dire, al vero, almeno nelle risposte da lei date. La teste ha ricordato, infatti, un certo caos nel suo interrogatorio e affermato di aver firmato “senza avere il tempo di rileggere il verbale”. Le rivelazioni del finanziere Voza. Dopo di lei citato dalla parte civile rappresentata dall’avvocato Carmelo Miceli, parte civile per Maddalena Rostagno e Chicca Roveri, è entrato in aula l’investigatore della Guardia di Finanza Angelo Voza. A Trapani dal 1983, affianco per tanto tempo al pm Carlo Palermo, sfuggito ad un attentato nel 1985, Voza ha ripreso un argomento che già era emerso per la testimonianza di alcuni collaboratori di giustizia e cioè la forte e qualificata presenza della massoneria in città. E’ saltato fuori il nome di Licio Gelli, il capo della P2. Gelli e Trapani: P2 e Iside 2, due logge super segrete, la Iside 2 a Trapani era un “salotto” dove sedevano mafiosi e colletti bianchi, qui si decidevano le sorti della città. Elezioni, incarichi pubblici, gestione dei Palazzi del potere cittadino. Questo è il contesto in cui Mauro Rostagno da giornalista ha vissuto e respirato, andando persino a bussare alla porta di chi quei segreti li conosceva. Voza ha aggiunto – ai fatti già noti – che “nel 1981 Gelli, all’epoca latitante, partecipò ad una riunione indetta dai massoni trapanesi, presenti anche funzionari pubblici come un vice prefetto e un vice questore”. Ovviamente la circostanza venne appurata molto tempo dopo da un punto di vista investigativo. Mauro Rostagno, invece, la conoscenza di questo fatto l’avrebbe potuta avere fatto quando seppe della presenza di Gelli a Trapani. Il capo della P2, infatti, era tornato più volte nella provincia e si era visto con i mafiosi di Campobello di Mazara (piccolo paese ricco però di logge massoniche sino ad oggi come certificato dalla relazione che ha condotto allo scioglimento per mafia del Comune in tempi recentissimi) e di Mazara del Vallo. Un nome per tutti? Quello di Mariano Agate il capo mafia di Mazara, in carcere oramai dal 1992 e che secondo il qualificato giudizio di molti investigatori se oggi fosse libero sarebbe alla guida di Cosa nostra (uomo più potente del latitante Matteo Messina Denaro). Dal carcere Mariano Agate ha mostrato grande capacità per continuare a comandare. La testimonianza di Voza è stata ricca di particolari, i contatti tra Trapani e Catania a proposito di mafia e massoneria, le minacce che lui stesso ricevette per essersi occupato della Iside 2. Voza, inoltre, ha affermato “mentre era in corso il processo per il delitto del sindaco di Castelvetrano, Vito Lipari, durante una pausa Agate dalla gabbia dell’aula attirò l’attenzione di un operatore tv di Rtc mandato lì apposta da Rostagno a seguire l’udienza, per dirgli di riferire “a chiddo ca varva vistuto di bianco” che la finisse di dire minchiate”. Rostagno seguiva in modo attento quel processo: “Io ero un investigatore – ha detto Voza – lui un giornalista presto mi resi conto che stavamo dalla stessa parte e lui faceva il giornalista sul serio, giornalista che faceva indagini, il fare indagini ci univa”. Voza ha anche poi aggiunto un particolare sulla capacità che Rostagno aveva di essere ascoltato dall’opinione pubblica: “Quando alle 14 c’era il notiziario di Rtc era difficile incontrare qualcuno per strada a Trapani”. Gli anni ’80 a Trapani. La mafia cambiava pelle, diventava imprenditrice, cominciava a interessarsi direttamente di politica, la scalata dei corleonesi di Riina era già abbondantemente cominciata, il ministro dei lavori pubblici di Totò Riina, Angelo Siino, il regista di super appalti miliardari in mezza Sicilia veniva a Rtc a incontrarsi con l’editore Puccio Bulgarella e Rostagno aveva il suo ufficio a 5 passi da quello di Bulgarella. Gli investigatori cercavano ancora il boss Totò Minore, ritenuto latitante ma il capo mafia di Trapani era già morto e questo Rostagno deve averlo saputo perché in un appunto contenente un elenco di nomi di mafiosi, quello di Minore era depennato e già nel 1988 capo mafia di Trapani era Vincenzo Virga. Virga di mestiere faceva l’imprenditore e si occupava di rifiuti, diceva in giro commentando i suoi affari “trasi munnizza e nesce oro”. Scalettari e Palladino. L’inchiesta dei due giornalisti parte da lontano, dall’Africa e arriva in Sicilia. Armi, droga e rifiuti infatti sarebbero passati per Trapani con coperture eccellenti. Le stesse esistenti già negli anni ’80 che cominciavano a mettere il cappello su diversi affari che interessavano la mafia, che dalla sua avrebbe avuto complici importanti, gli uomini di Gladio, del centro Scorpione di Trapani. Gladio secondo Scalettari e Palladino – espressione dei servizi segreti – colloquiava con la mafia Uomo cerniera un ex ospite della Saman, Giuseppe Cammisa detto Jupiter, braccio destro del guru della Saman prima e dopo il delitto Rostagno, diventato imprenditore in Ungheria. Citato ampiamente nelle indagini sul delitto di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin “mai nessuno è andato a cercarlo per interrogarlo”. Protetto da qualcuno? Forse. Gladio e la mafia. Non è una novità che ci sia l’ombra di Gladio dietro al tentato omicidio di Falcone avvenuto all’Addaura, il 21 giugno del 1989 e che su questo episodio si intreccino i segreti mai svelati sulla morte dell’agente Agostino e sulla sparizione di un altro agente dei servizi Emanuele Piazza. Tutti e due facevano la spola con Trapani. Un testimone importante che avrebbe potuto raccontare questi rapporti era il maresciallo Vincenzo Li Causi morto però in circostanze strane in Somalia nel 1993, mentre la Procura di Trapani indagava su Gladio e dopo averlo sentito si stava preparando a rifarlo. Un particolare che spesso finisce dimenticato è quello che il tritolo usato all’Addaura nel 1989 è lo stesso usato nel 1984 e nel 1985 in altri due attentati, quello al treno rapido 904 e a Pizzolungo contro Carlo Palermo. Nel 1988 Rostagno stava cercando elementi su Pizzolungo, Carlo Palermo e sul delitto del 1983 di Ciaccio Montalto, comune denominatore tra Ciaccio Montalto e Carlo Palermo, i traffici di armi e droga dalla Turchia, indagini fermate dalle ingerenze della politica e in particolare per Palermo dall’allora primo ministro socialista, Bettino Craxi. E pezzi forti del Garofano erano di casa a Saman, ma i contatti con Craxi in quel 1988 erano gestiti direttamente da Francesco Cardella, il guru della Saman, le famose bobine delle intercettazioni sparite dal comando dei carabinieri pare contenessero le “chiacchiere” tra Cardella e Craxi, dopo il delitto Rostagno. Un’altra udienza insomma che riconduce il delitto di Mauro Rostagno all’unica matrice possibile, quella della mafia. Mauro Rostagno non taceva nulla in tv e certamente non avrebbe taciuto quello sul quale stava lavorando nel momento in cui avrebbe avuto ogni tassello al suo posto. E in quel settembre del 1988 mancava poco a lui per mettere apposto il puzzle. Il processo. A seguire l’udienza seduto al fianco di Maddalena Rostagno, in aula c’era l’ex leader di Lotta Continua Adriano Sofri…..L’udienza l’ha commentata così sulla stampa il giorno dopo: Nell’udienza del processo per l’assassinio di Mauro Rostagno a Trapani, cui ho potuto assistere (un’udienza del tutto ordinaria, come altre dozzine) ho trascritto alcune frasi di testimoni che vorrei riportare senza commento. Una è la semplice domanda che una testimone, che a suo tempo, ragazza, si misurò con questo problema, ha rivolto al difensore dei mafiosi che la interrogava: “Ma lei sa che cos’è un tossicodipendente?”. Le altre le ha pronunciate un sottufficiale della Finanza, che a suo tempo operava a Trapani. Domanda: “Ma lei come sa che il lavoro giornalistico di Mauro Rostagno era molto seguito?” Risposta: “Perché alle due meno dieci a Trapani, quando c’era il suo notiziario televisivo, non si vedeva più nessuno in strada”. Domanda: “Ma lei che tipo di conoscenza o di amicizia aveva col dottore Rostagno?” Risposta: “Venivamo da mondi diversi e ci siamo accorti che facevamo la stessa battaglia”. Oggi questa battaglia non è finita e per questa ragione c’è chi pensa che la mafia non c’entri col delitto. La mafia invece, fece da “service” – come in altre occasioni – a poteri più forti, ma nel contempo si levò di mezzo una “camurria” di giornalista come disse il patriarca della mafia belicina, don Ciccio Messina Denaro. Oggi la mafia non spara alle “camurrie” riesce ad emarginarle in altro modo: appoggi istituzionali, pressioni e intimidazioni mettono a tacere i giornalisti scomodi, senza fare rumore.

GIUSTIZIA O INGIUSTIZIA?

Signora Concetta Serrano (madre di Sarah Scazzi), dopo trentasette udienze e tanti testimoni, quali cose ha capito di questo processo? E che cosa si aspetta?

«Ho trovato eccellente la presidente della Corte d’Assise Rina Trunfio, bravi anche i pubblici ministeri Mariano Buccoliero e Pietro Argentino che hanno condotto indagini puntuali e puntigliose. Come andrà a finire non lo so, non ho molta fiducia nella giustizia degli uomini. I magistrati, anche loro, si devono attenere a certi dettami di legge che non ci proteggono. Anche se gli imputati prenderanno il massimo della pena, tra indulti e buona condotta li rivedremo in giro dopo pochi anni. Così, tanti sacrifici, tanto lavoro e tanti soldi di noi cittadini a che cosa saranno serviti? A niente. Ieri sono andata a comprare delle caramelle e il negoziante mi ha fatto notare la stranezza delle leggi: Fabrizio Corona deve stare in carcere cinque anni per reati tutto sommato banali, mentre mio cognato Michele, che ha gettato il corpo di una bambina in un pozzo, lo vediamo girare libero in paese come se niente fosse. Non solo io, ma tutto il paese è indignato per questo».

Critiche alla giustizia in senso lato ed apprezzamenti ai magistrati, che poi sono il corpo e l’anima della giustizia e per gli effetti gli unici responsabili dell’ingiustizia e della malagiustizia. La ricerca di un colpevole e non del colpevole pare che sia l’opinione di Concetta Serrano. Le convinzioni di Concetta Serrano sulla giustizia italiana non sono certo condivise da altre mamme come lei, certo non traviate dal turbinio mediatico, ma artatamente i media usate come strumento per una lotta dura e costante mirante alla ricerca della verità. Un testimone il 26 febbraio 2013 ha smentito Jessica Pulizzi, imputata del sequestro della sorellastra Denise Pipitone scomparsa da Mazara del Vallo a Trapani l’1 settembre 2004 quando aveva meno di quattro anni. La venticinquenne aveva dichiarato che la mattina della scomparsa, tra le 8.30 e le 9, era andata in un’officina meccanica per una riparazione. Oggi davanti ai giudici del tribunale, Stefano Di Bona, titolare della concessionaria Aprilia dove, nel maggio 2004, Jessica acquistò un ciclomotore Scarabeo 50, ha detto che “non risulta che l’1 settembre 2004 ci siano stati interventi nell’officina convenzionata per conto della Pulizzi ed essendo il mezzo ancora in garanzia non poteva rivolgersi ad altre officine, a meno che non volesse pagare per l’intervento”. E’ stato, poi, ascoltato anche il contitolare dell’officina convenzionata con il concessionario Aprilia, Giovanni Rallo, che ha detto che Jessica si recò in officina per il “tagliando” nel luglio del 2004. In apertura di udienza ha deposto Carla Ciriaco, il perito nominato dal Tribunale per la trascrizione dell’intercettazione ambientale effettuata il 24 novembre 2004 sullo scooter dell’imputata che ha detto: «Sono passati 42 secondi dal momento in cui si spegne il motore dello scooter di Jessica (parcheggiato sul marciapiedi di via Pirandello, davanti l’abitazione della ragazza) fino a quando si sentono due voci maschili. Una, piu’ vicina, dice: “Va pigghia a Denise. Ma Peppe chi ti rissi? Ma dunni l’ha purtari?” (Vai a prendere Denise, ma Peppe che ti ha detto, ma dove la devo portare?). L’altro uomo risponde: “Fora” (Fuori)». Furono, poi, interrogati dalla polizia tredici persone che avevano figlie che si chiamavano Denise. Ma lo spunto investigativo non ebbe seguito. La madre di Denise, Piera Maggio dice che «tutti i testimoni chiamati in causa da Jessica Pulizzi per la ricostruzione dei suoi movimenti nella giornata del primo settembre 2004 hanno fatto crollare il castello di sabbia degli alibi che si era costruita. E oggi è cascata anche la sua ultima carta. Abbiamo avuto la prova in assoluto che quanto abbiamo sempre detto su Jessica: sulla sua posizione bisognava prestare attenzione da subito. Quanto emerso oggi – aggiunge – è anche una prova in più per dire che Denise è viva, come ho sempre sostenuto. Anche perchè non c’è stato mai alcun elemento che provi il contrario. Se il 24 novembre 2004, infatti, si parla di uno spostamento di una bambina, e non abbiamo dubbi sul fatto che si parlasse di Denise nel dialogo intercettato, adesso c’è  anche l’elemento in più costituito da questo “fora”, e cioè fuori, in risposta a chi chiede “ma dunni l’ha purtari?”. Ma chi sono questi due uomini intercettati accanto allo scooter di Jessica? E’ questo il problema – dice la madre di Denise – Allora il procuratore Sciuto incaricò la polizia di piazzare telecamere sul quel tratto di via Pirandello. Ma quell’ordine non fu eseguito. Uno dei tanti gravi errori commessi in questi anni. Se le telecamere fossero state piazzate, avremmo saputo dove stava mia figlia». «Mi vedo costretta a inviare una lettera al Presidente della Repubblica e a organizzare una pubblica raccolta di consensi e sostegno, tramite il sito ufficiale e il blog, per richiedere con grande forza che si faccia al più presto giustizia per Denise, ma soprattutto voglio che sia data risposta alla domanda: a giudizio della procura di Marsala chi ha preso Denise?». Questo lo sfogo di Piera Maggio, madre della piccola scomparsa otto anni fa a Mazara del Vallo, alla richiesta di archiviazione per Anna Corona, madre di Jessica Pulizzi, sorellastra di Denise Pipitone e unica imputata del sequestro della bambina. Lo rende noto il sito “Cerchiamo Denise”. Anna Corona era indagata in un nuovo procedimento per la scomparsa di Denise. «Nonostante ciò che è emerso nel processo sulle responsabilità attribuibili ad Anna Corona - commenta Piera Maggio - incredibilmente la procura della Repubblica di Marsala ha richiesto l'archiviazione dell'indagine a suo carico.

«Qualcuno avrebbe contribuito a non far ritrovare mia figlia. Provo sdegno e delusione e al dolore si aggiunge tanta rabbia per ciò che non si è fatto per mia figlia. Sono passati quasi anni e la mia sofferenza non ha fatto altro che accrescere; e mi sento beffata sapendo che ci sono dei responsabili che addirittura possono aver contribuito a non far ritrovare mia figlia, esattamente come sostenuto dal consulente della Procura». Lo dice in una nota Piera Maggio, mamma di Denise Pipitone, la bimba scomparsa da Mazara del Vallo il primo settembre del 2004. In una nota l'Associazione Cerchiamo Denise spiega che alla diciottesima udienza del processo per il sequestro della bambina il consulente della Procura di Marsala, Gioacchino Genchi, ha riferito che una persona vicino alle forze dell`ordine di Mazara del Vallo, in contatto con la madre dell’imputata, agì ai fini di eludere il sistema di intercettazioni, della cui esistenza le due donne erano state poste a conoscenza. “Davanti al giudice - riferisce l'Associazione - Genchi ha precisato: 'Stefania Letterato fornì il suo telefono ad Anna Corona e questo emerge dalle intercettazioni'. Ai tempi la signora Letterato era fidanzata (ora sposata) con l`ex-dirigente del commissariato di polizia di Mazara del Vallo, Antonio Sfameni, mentre Anna Corona, madre di Jessica Pulizzi, è indagata ella stessa per il sequestro di Denise". «Tutto questo non mi da pace: se solo queste persone vivessero un giorno di quelli che io da anni sto attraversando sicuramente capirebbero quanto male sono riusciti a causare. Oggi dagli organi inquirenti non accetto più scuse perché i fatti sono gravi e i comportamenti vergognosi: chi ha colpa deve pagare», conclude Piera Maggio.

Nell'ottavo anniversario della scomparsa di sua figlia, Denise Pipitone, Piera Maggio ha tenuto una conferenza stampa nella quale ha fatto il punto sul processo e sulle sue iniziative a tutela delle famiglie dei bambini che, come Denise, sono scomparsi nel nulla. «Dopo questo calvario giudiziario qualcuno mi risarcirà degli errori commessi e di quelli che si continuano a commettere? », si è chiesta Piera Maggio. Piera Maggio, supportata dal suo legale, l’avv. Giacomo Frazzita ha attaccato l’attività investigativa e l’iter processuale. Secondo Piera Maggio «il processo dovrebbe procedere più speditamente, ma in realtà la conduzione delle udienze è spesso ostacolata non dalla burocrazia giudiziaria ma delle tensioni in aula tra le diverse parti. Va precisato inoltre che non si può chiedere al processo, o ai giudici del processo, di svelare il mistero di dove sia Denise, perchè - come è nella logica del diritto - è la Procura (a cui va tanta responsabilità, invece) a svolgere le indagini, mentre il giudice è chiamato solamente a decidere, sulla base delle prove, se gli imputati hanno commesso un reato. Da un anno e mezzo - ha detto Piera Maggio - non ho più notizie dell'indagine riaperta nel 2010. A giugno abbiamo depositato in Procura un sollecito per avere l'esito dell'indagine e sapere delle decisioni della Procura di Marsala. Non sono state approfondite le gravi affermazioni che il consulente Genchi fece su un poliziotto allora capo del Commissariato di Mazara e sulla vicinanza tra la moglie di quest'ultimo e Anna Corona». Sulla questione l'avv. Frazzitta ha aggiunto: «Due donne (alludendo a Jessica Pulizi e Anna Corona) vengono lasciate in una stanza, con le finestre aperte, del Commissariato e la microspia messa accanto a un condizionatore acceso al massimo, ovvio che non si senta bene la registrazione di quanto si sono dette. Le stesse, pur segnalate, a seguito dei sospetti di Piera Maggio, informalmente dopo un'ora dalla scomparsa di Denise, non sono state pedinate». «Non mi risulta - ha aggiunto Maggio - che siano stati effettuati posti di blocco. L'indagine è stata inquinata fin dalle primissime ore». Piera Maggio ha criticato aspramente la magistratura per i continui trasferimenti dei magistrati che hanno condotto l'indagine: 11 in 8 anni, e per la mancata valutazione di importanti aspetti peritali. Si è riferita in particolare al prof. Roberto Cusani, ordinario di telecomunicazioni alla Sapienza di Roma. «Potrebbe - ha detto - apportare un importante contributo al dibattimento, invece è stato messo da parte. Il Tribunale ha ritenuto ammissibili interrogazioni su sogni ed esoterismo, è scandaloso». Alla conferenza stampa era presente pure il padre naturale di Denise, Piero Pulizzi, che ha affermato: «Condivido le esternazioni di Piera, anche io ho forti dubbi sull'attività investigativa e processuale. Voglio la verità. La vittima di questa vicenda è la mia piccola Denise».

In aula sono stati ascoltati anche gli investigatori coinvolti nelle ricerche di Denise subito dopo la sua scomparsa. Ed è emerso nuovamente un dato da sempre denunciato da Piera Maggio, ovvero gli errori commessi durante la prima, delicatissima fase delle indagini. I carabinieri che avviarono le ricerche a Mazara del Vallo furono depistati dalla famiglia di Jessica Pulizzi (sorellastra di Denise per parte di padre): quando gli agenti si recarono per la prima volta ad ispezionare l'abitazione di Anna Corona, madre di Jessica ed indagata di reato connesso in un secondo filone investigativo, furono indirizzati verso la casa di una vicina credendo invece di trovarsi invece nell'appartamento di Corona. L'udienza - fiume è stata anche sospesa per qualche minuto a causa di uno scontro tra il legale Frazzitta e il padre naturale di Denise, Piero Pulizzi: uscito dall'aula, l'avvocato ha sorpreso il suo assistito mentre conversava nei corridoi del Palazzo di Giustizia con alcuni testi prima che questi fossero ascoltati. Dopo un diverbio piuttosto acceso, Frazzitta è rientrato in aula facendo presente al presidente del Tribunale Riccardo Alcamo la necessità di un controllo più severo sull'effettivo isolamento dei testi. "Cose simili non devono accadere anche se si tratta di un mio cliente", ha detto il legale, che era sembrato perfino in procinto di rifiutare il mandato affidatogli da Pulizzi.

«Ci sono in Italia "inefficienze gravi" nelle indagini che riguardano i sequestri dei bambini, "qualcosa che non funziona" su cui il governo deve intervenire, altrimenti "i bambini continueranno a sparire e non verranno mai trovati".» L’accusa arriva da Piera Maggio e Maria Celentano, rispettivamente la madre di Denise Pipitone  – scomparsa a Mazara del Vallo il 1 settembre del 2004 – e di Angela Celentano, sparita sul Monte Faito il 10 agosto 1996. Intervenute a ‘Buona Domenica’ su Canale 5 del 1 marzo 2008 le due madri hanno preso spunto dalla vicenda di Ciccio e Tore. «Il mio pensiero va a quei due bambini che purtroppo non ci sono più. Ringrazio Dio perché ho ancora la speranza di riabbracciare Angela e invece quei due bambini sono lassù - dice Maria Celentano per attaccare investigatori e inquirenti. «C’é in Italia un’inefficienza grave nelle indagini sui sequestri di bambini – afferma Piera Maggio – Nel 2007 abbiamo scoperto una cosa allucinante, ci sarebbe stata la risoluzione del caso di Denise, e nessuno se ne era accorto. La sfortuna maggiore di mia figlia è stata quella di avere delle persone che la cercavano che forse non avevano le competenze per svolgere determinate indagini. Ho perso e mi hanno fatto perdere la fiducia nella giustizia italiana. Le famiglie - aggiunge la mamma di Denise - possono fare poco e niente, non hanno mezzi, aiuti necessari. Sono sole psicologicamente e moralmente e a pagare sono sempre i bambini». Parole simili arrivano da Maria e Catello Celentano. «Forse dodici anni fa non c’erano i mezzi che ci sono oggi – dice Maria – ma la realtà e sempre quella: i bambini spariti non si trovano. Non so perché, forse c’é poco impegno e poca responsabilità da parte degli adulti, ma qualcosa che non funziona c’é perché i bambini continuano a sparire. E poi si ritrovano in questo modo qua che è una cosa veramente atroce». «In Italia - aggiunge il marito - ogni volta che scompare un bambino si impiegano persone che non sono attrezzate, non hanno capacità e mezzi. E invece bisogna fare di più per loro».

«Non so più nulla delle indagini. La giustizia ha commesso errori - dice il 2 settembre 2012 Piera Maggio - Troppi gli avvicendamenti dei pm sul caso di mia figlia: ogni volta bisognava ripartire da capo. E nemmeno le istituzioni mi sono state vicine in questo lungo calvario".

Sono trascorsi 8 lunghi anni dall'ignobile gesto commesso ai danni di mia figlia Denise e oggi come allora sento lontana la “Giustizia”, quella con la “G” maiuscola. Mi riferisco sia alle competenze della magistratura, ma anche più in generale agli impegni e alle promesse delle istituzioni italiane che avrebbero dovuto attivarsi per ritrovare mia figlia. Comunque procediamo per gradi, e partiamo dall’ambito giudiziario, perché è attualmente in corso il processo contro gli accusati per il rapimento di mia figlia. Ben 11 magistrati si sono alternati in questi 8 anni, ed in particolare cito: il Procuratore Sciuto a cui è succeduto l'attuale Procuratore Di Pisa ed inoltre in ordine cronologico i sostituti Dr. Boccia, Dr.ssa Angioni, Dr.ssa Puliatti ( della Procura presso il Tribunale per i minorenni di Palermo), Dr.ssa Avila, Dr. Imperato, Dr.ssa Sessa, Dr.ssa Cerroni, Dr. Brandini, Dr.ssa Carmazzi. Loro svolgono quella che io definisco la "giustizia dei magistrati", ma spesso questo tipo di lavoro non soddisfa i danneggiati: a titolo di esempio, troppi e continui cambiamenti non hanno certamente giovato al procedimento. Il processo per il sequestro di mia figlia Denise ha la stringente necessità di una particolare attenzione specialmente nella memoria storica degli atti giudiziari e di indagine, vista la mole di informazioni relative. E invece non appena i magistrati erano in sintonia con i 350.000 atti e avevano cominciato a districarsi nell'ingarbugliata matassa fatta dal consulente tecnico della Procura Dott. (oggi avvocato) Genchi, ecco che giungeva il trasferimento. I continui trasferimenti (anche richiesti dagli stessi magistrati) invalidavano definitivamente la possibilità di poter venire a capo della situazione. L’ultima partenza in ordine cronologico è stata quello del Dr. Brandini approdato alla vicina Procura di Termini Imerese. Ebbene ad oggi non ho più notizie dell'indagine riaperta nel 2010. A mezzo del mio legale abbiamo depositato in Procura nei mesi scorsi un sollecito diretto ad avere notizie sull'esito dell'indagine e sulle decisioni che la Procura ha preso. Abbiamo chiesto di sapere ufficialmente se l'indagine va avanti o se si deve procedere con una richiesta di rinvio a giudizio o con una richiesta di archiviazione nei confronti del filone che vede coinvolta la madre dell'attuale imputata Jessica Pulizzi, ossia Anna Corona. Nel processo principale a volte vengono fissate le udienze a cadenza temporale lentissima. Mi chiedo se sia normale o giusto che i magistrati possono lasciare indagini così laboriose e complesse (oltre che costose per lo stato) possano essere frammentariamente gestite da più persone e tutto ciò senza che gli organi di controllo della magistratura o del ministero intervengano a fare le verifiche del caso… Mi chiedo se dopo un calvario giudiziario come quello che sto passando qualcuno mi risarcirà degli errori commessi e di quelli che si continuano a commettere. Una giustizia senza continuità è di fatto un'ingiustizia legalizzata. Se i medici sbagliano devono rispondere dei loro errori, così come tutte le altre categorie sociali. Sono però a chiedermi: e se l’errore viene commesso da un magistrato, quest’ultimo sconterà i propri sbagli nel nostro paese? Durante il processo che si sta svolgendo come parte lesa ci sentiamo “menomati” dei nostri consulenti tecnici di parte che non sono stati ammessi a contro dedurre e mi riferisco in particolare al Prof. Roberto Cusani, ordinario di telecomunicazioni alla Sapienza di Roma, che potrebbe apportare un importante contributo alla verità o alle falsità che stanno emergendo in dibattimento, e che invece è stato messo da parte. Il Tribunale ha ritenuto ammissibili interrogazioni su “sogni ed esoterismo” piuttosto che sugli argomenti forniti come contributo da un luminare nel campo della telecomunicazioni. Spero che questo Tribunale possa rivedere la assurda posizione assunta processualmente nell'escludere il nostro consulente. Riassumendo non ho più notizie dell'indagine e il processo ristagna dall'inizio dell'anno sulla farraginosa consulenza dell'ex dottore oggi avvocato Genchi. Senza contare che non mi risulta che alcuno abbia approfondito le gravi affermazioni che Genchi fece su un poliziotto allora capo del Commissariato di Mazara del Vallo e sulla vicinanza tra la moglie di quest’ultimo e Anna Corona, madre dell'accusata... E' tutto scandaloso: sia i Procuratori che si trasferiscono sia i poliziotti che possono inquinare le indagini. Se questo è stato l’ambito giudiziario, non migliore sorte è toccata alle ricerche di mia figlia sotto il profilo delle istituzioni. Decine e decine di incontri, di promesse, di strette di mano; rassicurazioni di politici, parlamentari, ministri e delegati…. Ognuno ha fatto a gara per mostrare il proprio interessamento al caso di mia figlia, peccato però che pochissimi abbiano davvero deciso di “continuare” e insistere sull’argomento. Il caso Denise per molte persone è stato un evento “mordi e fuggi”, che ha rappresentato forse una opportunità di promozione personale. Ho sollecitato le istituzioni italiane a farsi carico della vicenda di Denise, come anche di tutti i bambini scomparsi. Inutili sono stati gli appelli alla Chiesa perché venisse lanciato un comunicato a favore di una bambina. Altrettanto inutile l’appello all’ex- Presidente della Repubblica a riconoscere ufficialmente Denise come “figlia di tutti gli italiani”. Era un messaggio forte di solidarietà nazionale, da esprimere a favore di tutti i bambini scomparsi, dei quali proprio il capo dello Stato dovrebbe essere il primo sostegno morale. Alcuni potranno dire che sono stata ricevuta al Quirinale, altri però sanno che ho dovuto incatenarmi per avere un po’ di attenzione… quindi non direi di aver trovato la porta spalancata. I nostri politici hanno altri pensieri, e quando vengono coinvolti direttamente nei problemi della gente comune, sono decisamente infastiditi e cercano di liquidare la situazione nel più breve tempo possibile e al “costo” più basso possibile (non mi riferisco affatto all’aiuto economico che non si è mai visto, ma a quello personale e morale). Ho lottato perché venisse approvata una modifica di legge per punire i responsabili di sequestri di minorenni in modo esemplare. Grazie all’interessamento di qualche saggio politico, la normativa ha fatto un piccolo passo avanti: ma quanti sforzi per muoversi nella direzione giusta, quanta fatica per un risultato la cui utilità era palese agli occhi di tutti ! Centinaia di appelli in televisione e trasmissioni di settore dedicate, con una forza costante applicata alle iniziative per la diffusione dell’immagine di mia figlia, hanno condotto il caso davanti all’attenzione dei media internazionali e ho avuto la possibilità di essere ospite al Parlamento Europeo, dove dinnanzi alla commissione che si occupa dei minori ho potuto esprimere un serio giudizio circa le modalità di intervento e di allerta nelle prime fasi delle “scomparse” dei minori. Soltanto che nulla di ciò che ho proposto è poi stato realmente recepito. Se un bambino viene rapito oggi, succede esattamente quello che è sempre successo in passato; non c’è stato in otto anni un miglioramento dell’efficacia della risposta delle istituzioni nelle prime fasi del sequestro di un minore. L’unica cosa che forse è stata cambiata è la risposta della gente comune, che forse dopo tante battaglie e impegno, ha capito che la voce di una madre non deve rimanere inascoltata, perché i fatti orribili capitano a tutti, in Sicilia e in Lombardia, e non si circoscrivono a quelli di cui viene detto “è nella famiglia”. E’ sempre “nella famiglia”, solo che sono tante le famiglie colpite e la gente ha cominciato a capire che non si può dormire sonni tranquilli quando si è genitori e senza le istituzioni che ti tutelano. Chiedo l'aiuto di tutti. Non abbandonate Denise, a un destino che lei non ha scelto di avere. Aiutatemi ad acquistare la fiducia, perché oggi io non so più chi sono i buoni e chi i cattivi. 

Due anni e tre mesi dopo, Yara resta un tragico ricordo. Pieno di misteri, rabbia, amarezza, frustrazione. Quella di non aver saputo trovare chi in una gelida sera di novembre la massacrò. Nessuna giustizia, nessun colpevole per la piccola ballerina di Brembate, 13 anni pronti a sbocciare in un tuffo nel fiore della vita, l'apparecchio ai denti, il corpo che cominciava a trasformarsi in quello di donna. Chi può dimenticare? I corsi della legge, le lentezze, i freni, con tempi che non sembrano oggi più adeguati a quelli degli uomini, però dicono, come avrebbe chiosato caustico Tortora a Portobello, «Big Ben ha detto stop». L'inchiesta è finita, l'indagine forse più dispendiosa nella storia d'Italia, ha fallito, intercettazioni, superesperti, 15mila campioni di Dna prelevati tra vallate e paeselli del Bergamasco non sono serviti a nulla. Hanno fallito polizia e carabinieri, un colonnello silurato e un questore mandato con piacere in pensione. Loro non hanno risolto il caso. Come la pm, Letizia Ruggeri, la signora che andava in vacanza nel pieno delle ricerche. Due anni e tre mesi dopo la scomparsa di Yara Gambirasio il 26 febbraio 2013 si sono chiuse definitivamente le indagini. Archiviato il fascicolo contro ignoti aperto il 27 novembre 2010, il giorno successivo la scomparsa della ragazza. La madre di Yara Gambirasio, Maura Panarese, ha scritto al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a più di due anni dalla morte della figlia. Il testo della lettera parla di "Scarsa collaborazione degli investigatori con la parte lesa". E' quanto rivela la puntata "Quarto Grado" andata in onda venerdì 25 gennaio 2013. Secondo quanto riferito dalla trasmissione, nella lettera inviata al Capo dello Stato, la madre di Yara esprime le proprie critiche nei confronti di chi ha eseguito l’inchiesta. Un’indagine che si è concentrata, prima sul cantiere di Mapello, poi sull’ipotetico figlio illegittimo di un autista bergamasco morto da anni, basandosi sul Dna. La donna manifesta dunque al Presidente Napolitano tutto il dolore e lo sconforto perchè, dopo anni d’indagini, la figlia non ha ancora avuto giustizia. Dolore e sconforto. Sentimenti troppo forti per continuare a rimanere chiusi a doppia mandata nel proprio cuore. Mamma Maura lo ha fatto per quasi due anni, ma adesso non ce la fa più. E lo scrive, in una lettera accorata, al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. L'assassino di sua figlia Yara non ha volto. Tante le piste, tante le supposizioni, tante le amarezze sopportate dal giorno in cui il corpo della ragazzina è stato trovato in un campo incolto di Chignolo d'Isola. Ma vedere che la Giustizia non approda a nulla è troppo anche per chi non ha mai perso occasione di manifestare fiducia negli investigatori e negli inquirenti. Proprio per questo l'iniziativa è clamorosa. Mamma Maura si rivolge direttamente al Capo dello Stato. Lo fa da semplice cittadina che si rivolge alla massima autorità. Il tono è pacato ma fermo. Le parole misurate, gli aggettivi calibrati. Ma da quelle poche righe emerge forte, senza inutili orpelli, l'insoddisfazione per il modo in cui finora sono state condotte le indagini sull'omicidio di Yara. Senza assumere i toni del «j'accuse», la lettera sottopone a Napolitano i dubbi e le perplessità che più volte sono state sollevate anche dagli organi di informazione. Le diverse piste battute: dal cantiere di Mapello ai sospetti su Mohamed Fikri fino al figlio illegittimo di un autista di Gorno morto ormai da parecchi anni. La battaglia, legittima certo, ma poco comprensibile all'uomo della strada, tra pubblico ministero e giudice per le indagini preliminari. I tempi infiniti per avere risposta anche sulle iniziative del proprio legale. Mamma Maura rende partecipe il presidente della Repubblica del dolore provato in questi due anni (Yara fu trovata cadavere a Chignolo il 27 febbraio del 2011) e gli esterna il suo sconforto. Non si aspetta che la soluzione arrivi dal Quirinale. Non cerca a Roma le risposte che tardano ad arrivare (se mai arriveranno) da Bergamo. È lo sfogo di una cittadina amareggiata e delusa. Il grido di dolore di un'intera famiglia che ha sempre tenuto un atteggiamento molto composto. I Gambirasio hanno dovuto farsi forza. All'inizio non avevano voluto nemmeno affidarsi a un avvocato, come pure qualcuno aveva consigliato loro anche solo per mantenere il controllo sull'operato degli inquirenti. Poi, si erano convinti ad affidarsi ad Enrico Pelillo, il legale che dal momento in cui fu effettuata l'autopsia li segue. Ed è toccato a lui sollecitare, come parte lesa, il pubblico ministero ad effettuare nuovi accertamenti. Di qui anche la soluzione di affidarsi a un consulente del calibro dell'ex ufficiale del Ris di Parma, Giorgio Portera, che ha portato nuovi elementi all'attenzione degli inquirenti. Ma era stata proprio Maura Gambirasio ad esternare, rompendo il silenzio fin lì rigorosamente osservato, in aula davanti al giudice per le indagini preliminari Ezia Maccora, lo sconcerto per la mancata verifica delle traduzioni della frase di Fikri che hanno ingenerato più di un sospetto. «Posso dire una cosa?» si era fatta avanti con tono fermo in Tribunale. «Da mamma mi chiedo com'è possibile che le traduzioni siano così diverse», aveva chiesto rivolgendosi al giudice. Un paio di mesi prima, ancora lei aveva sussurrato: «Se questo ragazzo non c'entra nulla, sarò io la prima a chiedergli scusa». E invece, rimane ancora tutto aperto. Il pubblico ministero che vuole l'archiviazione del marocchino. Il gip si oppone. E il mistero, insieme al dolore di una madre e di una famiglia, rimane profondissimo.

INGIUSTIZIA

Le nostre TV e i nostri giornali sono pieni di storie inutili di gente senza arte, né parte, riportate da giornalisti inutili senza arte, né parte. E’ doveroso da parte mia, Antonio Giangrande riportare ai posteri la vicenda di un eroe contemporaneo. Piccole e grandi storie di questa Italia alla rovescia. Tutta la Stampa ne parla. “Il Giornale”, “Il Corriere della Sera”, “La Repubblica”, “Libero Quotidiano”. A volte non basta una confessione per essere certi di avere un colpevole di un reato. Lo dimostra la sentenza della Corte d'appello di Reggio Calabria che dopo 21 anni, due mesi e 15 giorni di detenzione ha assolto per non aver commesso il fatto Giuseppe Gulotta, 55 anni, accusato della strage alla casermetta di Alcamo Marina, in Sicilia. Il fatto avvenne il 27 gennaio 1976, quando vennero uccisi due carabinieri, Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, all'epoca poco più che diciottenni. Dai loro armadietti sparirono divise e armi, e altri effetti personali. Dopo la strage, il 13 febbraio, venne fermato con due armi sull'automobile Giuseppe Vesco. Una delle pistole era una Beretta calibro 9, in dotazione alle forze dell'ordine. Il ragazzo disse che doveva solo consegnarle armi sulla spiaggia, fu interrogato e fece i nomi di Giuseppe Mandalà, che venne trovato in possesso di armi, e dei presunti complici, Gaetano Santangelo, Vincenzo Ferrantelli e Gulotta, diciannovenne all'epoca dei fatti. Quest'ultimo si è sempre dichiarato innocente, ma fu condannato all'ergastolo con sentenza definitiva nel 1990. Eppure dopo diversi anni a l'ex brigadiere Renato Olino, che si occupò del caso, ha rivelato che per far confessare Vesco erano stati usati metodi persuasivi "eccessivi", scagionando di fatto il condannato. Ci sono voluti però altri nove processi, tra rinvii della Cassazione e questioni procedurali, perché la Suprema Corte concedesse la revisione del processo, iniziata finalmente nel 2009. Nel frattempo, Vesco è stato trovato impiccato nell'infermeria del carcere di Trapani, ma l'ipotesi di una sua confessione forzata è stata confermata anche dalle parole di un collaboratore di giustizia siciliano, Vincenzo Calcara.

Gulotta, 21 anni all'ergastolo da innocente.

"Ho sempre sostenuto di non avere colpe". Giuseppe Gulotta è stato condannato all'ergastolo per l'uccisione di due militari ad Alcamo, nel 1976. Ha pagato questo reato con la propria libertà. Dal 1990 è in carcere. Negli ultimi mesi del 2007, un ex brigadiere dell'Arma dei Carabinieri, Renato Olino, membro del nucleo anti-terrorismo di Napoli, che partecipò allora alle indagini, ha raccontato la sua verità: "Confessò perché lo torturammo". Assolto dopo aver trascorso ventidue anni di carcere. Giuseppe Gulotta è stato scarcerato dopo la sentenza della Corte d’Appello di Reggio Calabria che l’ha ritenuto estraneo alla strage alla casermetta di Alcamo Marina, in Sicilia, avvenuta il 26 gennaio del 1976. «Aspettavo questo momento da 36 anni» ha detto Gulotta. L’uomo era stato accusato ingiustamente di essere l’autore della strage dove morirono due carabinieri diciottenni, Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta. La vicenda di Giuseppe Gullotta è articolata da una serie di processi. Il primo capitolo l’aveva scritto la Corte d’Assise di Trapani che aveva assolto l’imputato. La Corte d’Assise di Palermo però, ribaltò il verdetto e lo condannò all’ergastolo. I legali ricorsero in Cassazione che annullò quella condanna e trasferì gli atti nuovamente a Palermo, ad altra sezione. Nuova condanna all’ergastolo per Gulotta. Stessa decisione presero successivamente le Corti d’Appello di Caltanissetta e Catania, investite da altri rinvii trasmessi dalla Cassazione. Nel 1990 la sentenza è divenuta definitiva. L’imputato non si è mai arreso. I suoi difensori Baldassarre Lauria e Pardo Cellini hanno cercato e trovato nuovi elementi per far riaprire il caso. Una prima istanza di revisione del processo presentata a Messina fu annullata. I legali si rivolsero ancora una volta in Cassazione che ha accolto la revisione inviando gli atti alla Corte d’Appello di Reggio Calabria. Al processo i giudici reggini hanno raccolto nuove testimonianze, tra cui quella dell’ex brigadiere Renato Olino, all’epoca in servizio al reparto antiterroristico di Napoli che si occupò dell’inchiesta sulla strage. Il brigadiere ha fatto alcune ammissioni: in particolare ha riferito che ci furono dei «metodi persuasivi eccessivi» per far «cantare» un giovane Giuseppe Vesco, che finì con accusare Gulotta. Il pentito Vincenzo Calcara, poi, sentito in videoconferenza ha dichiarato di aver appreso in carcere dell’estraneità alla strage di Gulotta. Nella sua requisitoria il procuratore generale Danilo Riva ha chiesto l’assoluzione dell’imputato. «Spero che anche per le famiglie dei due carabinieri sia fatta giustizia» ha detto Gulotta, avvicinato dai giornalisti dopo la sentenza.

Ventuno anni all'ergastolo, era innocente.

"Chi mi ridarà la mia vita perduta?".Giuseppe Gulotta aveva 18 anni quando venne prelevato e portato nella caserma dei carabinieri di Alcamo come sospettato dell'omicidio di due militari dell'Arma. Venne picchiato e seviziato per ore finché non confessò quello che non aveva fatto. Poi ritrattò invano. Il processo nel '90 con la condanna a vita. Nel 2007, con il pentimento di uno dei carabinieri che parteciparono all'interrogatorio, il nuovo processo e, oggi, la sentenza: "Non è colpevole. Lo Stato deve restituirgli libertà e dignità". Dopo 21 anni, 2 mesi, 15 giorni e sette ore di carcere, Giuseppe Gulotta, adesso cinquantenne, ha ottenuto giustizia e dignità. Alle ore 17,35 di oggi la Corte d'Appello di Reggio Calabria dove si è celebrato il processo di revisione, ha pronunciato la sentenza. Giuseppe Gulotta è innocente, e da oggi non è più un ergastolano, non è l'assassino che il 26 gennaio del 1976 avrebbe ucciso, assieme ad altri complici, due carabinieri, Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo, in un attentato alla caserma di Alcamo Marina, un paese al confine tra le province di Palermo e Trapani.

"Gulotta non c'entra nulla; abbiamo il dovere di proscioglierlo da ogni accusa e restituirgli la dignità che la giustizia gli ha indebitamente tolto" ha detto oggi la pubblica accusa prima che la corte si riunisse in camera di consiglio per emettere una sentenza di assoluzione che Giuseppe Gulotta attendeva da troppo tempo. Da quando, 35 anni fa, appena diciottenne, fu arrestato, condotto in carcere e, più tardi, dopo la durissima trafila dei diversi gradi processuali, condannato all'ergastolo definitivamente. E con lui gli altri tre suoi presunti complici: due sono ancora latitanti in Brasile; il terzo, Giuseppe Vesco, si suicidò in carcere qualche anno dopo il suo arresto. Ad accusare Gulotta della strage fu appunto Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi - in circostanze non del tutto chiare - nelle carceri di ''San Giuliano'' a Trapani, nell'ottobre del 1976. A provocare la revisione del processo che si è finalmente concluso oggi con l'assoluzione di Gulotta, sono state le dichiarazioni, molto tardive, di un ex ufficiale dei carabinieri Renato Olino che nel 2007 raccontò che le confessioni di Gulotta e degli altri erano state ottenute a seguito di terribili torture da parte dei carabinieri. Olino, che si era dimesso dal'Arma proprio in seguito alla vicenda di Alcamo, non aveva retto al rimorso e aveva deciso di dire la verità. Gli altri carabinieri, oggi quasi tutti molto anziani, hanno fatto qualche ammissione o si sono rifiutati di rispondere. Ma la giustizia ha trovato elementi sufficienti per il processo di revisione e per questa assoluzione che, inevitabilmente, dovrebbe aprire la strada a un congruo risarcimento per gli imputati. Anche per gli altri due condannati, Vincenzo Ferrantelli e Gaetano Santangelo, fuggiti all'estero prima che la condanna diventasse esecutiva, ci sarà adesso la revisione. La notte del 27 Gennaio di quell'anno Carmine Apuzzo (19 anni) e l'appuntato Salvatore Falcetta, due militari dell'Arma, furono trucidati da alcuni uomini che avevano fatto irruzione nella piccola caserma di Alcamo Marina. L'attacco suscitò ovviamente forte impressione in Sicilia e in tutta Italia. Si puntò sulla pista politica e finirono nel mirino delle indagini alcuni giovani di sinistra. Pochi giorni dopo venne fermato un giovane alcamese, Giuseppe Vesco, trovato in possesso di una pistola in dotazione ai carabinieri. La sua casa venne perquisita e saltò fuori anche l'arma utilizzata per il delitto. Il giovane, però, si dichiarò estraneo ai fatti affermando soltanto che aveva avuto il compito di consegnare delle armi. In seguito alle pressioni dei carabinieri, Giuseppe Vesco cambiò rapidamente la sua versione: condusse gli inquirenti al luogo in cui erano conservati gli indumenti e gli effetti personali dei due agenti uccisi (in una stalla di proprietà di Giovanni Mandalà, un bottaio di Partinico), dichiarò di aver fatto parte del commando che aveva fatto irruzione nella casermetta e fece il nome dei suoi tre complici: Gulotta, Ferrantelli e Santangelo. Dopo poco tempo Vesco ritrattò tutto e dichiarò che quanto da lui affermato era stato ottenuto in seguito di terribili torture. Nelle sue lettere dal carcere San Giuliano di Trapani descrive minuziosamente il comportamento dei carabinieri e come erano state estorte le confessioni dei fermati. Ma pochi giorni prima di essere nuovamente ascoltato dagli inquirenti, venne trovato impiccato nella sua cella, con una corda legata alle grate della finestra, cosa resa abbastanza difficile dal fatto che a Vesco era stata amputata una mano a causa di un incidente. E proprio a questa vicenda si legano le confessioni del pentito Vincenzo Calcara, che lascia intravedere una verità fino ad ora soltanto accennata, ma resa più concreta anche da alcune rivelazioni in cui si attesta una collaborazione tra mafia e Stato. Calcara avrebbe affermato che gli venne intimato di lasciare da solo in cella Giuseppe Vesco e che lo stesso venne ucciso da un mafioso aiutato da due guardie carcerarie. Anche quanto affermato dal pentito Peppe Ferro libera i quattro dalle gravi accuse: "Li ho conosciuti in carcere quei ragazzi arrestati... Erano solamente delle vittime... pensavamo che era una cosa dei carabinieri, che fosse qualcosa di qualche servizio segreto". Dopo la chiamata di correità di Vesco, Giuseppe Gulotta fu arrestato e massacrato di botte per una notte intera. La mattina, dopo i calci, i pugni, le pistole puntate alla tempia, i colpi ai genitali e le bevute di acqua salata, avrebbe confessato qualunque cosa e firmò un documento in cui affermava di aver partecipato all'attacco alla caserma. Il giorno dopo, davanti al procuratore, Gulotta ritrattò tutto e provò a spiegare quello che gli era successo. Non venne mai creduto, neanche al processo che, nel 1990 lo condannò in via definitiva all'ergastolo. Poi, nel 2007, la confessione di Olino e la revisione chiesta e ottenuta dal suo avvocato Salvatore Lauria. Oggi l'assoluzione. Ma Giuseppe Gulotta ha trascorso gran parte della sua vita in carcere. Durante un breve periodo di soggiorno si è sposato con la donna che lo ha sempre "protetto" e che gli ha dato un figlio. Adesso, completamente libero, andrà a vivere a Certaldo, in Toscana, dove, da quando è in semilibertà, fa il muratore. "Sono felice di essere stato riconosciuto finalmente innocente. Ma chi potrà mai farmi riavere la gioventù che ho passato in carcere, chi potrà mai darmi quegli anni che ho perduto senza potere crescere mio figlio?". spettavo questo momento da 36 anni".  Giuseppe Gulotta, accusato ingiustamente di essere l'autore del duplice omicidio dei carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, avvenuto nella casermetta di Alcamo Marina il 27 gennaio 1976, lascia da uomo libero il tribunale di Reggio Calabria dove dopo esattamente 36 anni dal giorno del suo arresto (21 gli anni trascorsi in cella) è stato dichiarato innocente. Un nuovo macroscopico caso di malagiustizia. "Non ce l'ho con i carabinieri" - Alla lettura della sentenza, al termine del processo di revisione che si è svolto a Reggio Calabria, Gulotta è scoppiato in lacrime, insieme alla sua famiglia. Accanto a lui c'erano gli avvocati Baldassarre Lauria e Pardo Cellini che lo hanno assistito durante l'iter giudiziario. "Spero - ha dichiarato l'uomo parlando con i giornalisti - che anche per le famiglie dei due carabinieri venga fatta giustizia. Non ce l’ho con i carabinieri - ha precisato - solo alcuni di loro hanno sbagliato in quel momento". "Fatta giustizia giusta" - Giuseppe Gulotta, nonostante la complessa vicenda giudiziaria che lo ha portato a subire nove processi più il procedimento di revisione, non ha smesso di credere nella giustizia. "Bisogna credere sempre alla giustizia. Oggi è stata fatta una giustizia giusta", ha però aggiunto. Un ultimo pensiero va all’ex brigadiere Renato Olino, che con le sue dichiarazioni ha permesso la riapertura del processo: "Dovrei ringraziarlo perché mi ha permesso di dimostrare la mia innocenza però non riesco a non pensare che anche lui ha fatto parte di quel sistema". La vicenda - Il 26 gennaio 1976 furono trucidati i carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Ad accusare Gulotta della strage fu Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi nelle carceri di San Giuliano a Trapani, nell'ottobre del 1976 (era stato arrestato a febbraio). Gulotta, in carcere per 21 anni, dal 2007 godeva del regime di semilibertà nel carcere di San Gimignano (Siena). Venne arrestato il 12 febbraio 1976 dai militari dell'Arma dopo la presunta confessione di Vesco. Nel 2008 la procura di Trapani ha iscritto nel registro degli indagati con l'accusa di sequestro di persona e lesioni aggravate alcuni carabinieri, oggi in pensione, che nel 1976 presero parte agli interrogatori degli accusati della strage di Alcamo Marina: il reato contestato agli agenti è quello di tortura nei confronti degli interrogati. 

Venti anni in galera: Gulotta è innocente.

Le rivelazioni di un carabiniere: "Confessò perché lo torturammo". Giuseppe Gulotta è in carcere dal ’90 per l'uccisione di due militari ad Alcamo, avvenuta nel 1976: "Ho sempre detto delle sevizie. Nessuno mi ha mai creduto". Era poco più che maggiorenne, scrive Irene Puccioni su “La Nazione” Giuseppe Gulotta siciliano di Alcamo Marina (Trapani), quando iniziò il suo lungo calvario, che attraverso nove processi lo ha portato dietro le sbarre con l’accusa di duplice omicidio per la strage di Alcamo Marina del gennaio 1976. Condannato all’ergastolo per aver ucciso — in concorso con due complici tuttora latitanti — due carabinieri trucidati in caserma. Condannato ma innocente. Reo confesso, ma sotto tortura. L’ha gridata, la sua innocenza, attraverso 14 anni e 9 processi. Ma inutilmente: l’ergastolo lo sta scontando dal ’90, nel carcere di Ranza di San Gimignano (Siena). Una speranza si è accesa nell’autunno del 2007, quando Renato Olino, brigadiere in congedo dei carabinieri del Nucleo antiterrorismo, che indagò sul duplice omicidio, rivelò al sostituto procuratore di Trapani che la confessione di Gulotta, effettivamente, fu estorta con la violenza. Ci sono voluti tre anni di battaglie legali per ottenere la revisione del processo. Oggi, a distanza di 34 anni dai fatti, la testimonianza di Olino, sarà ascoltata dai giudici della Corte d’assise d’appello di Reggio Calabria (cui è stato affidato il nuovo processo). Gulotta, che adesso ha 53 anni, in tutto questo tempo si è sempre professato innocente. Per la sua buona condotta gli è stato concesso anche il regime di semilibertà: di giorno lavora come muratore a Poggibonsi, quando smonta raggiunge a Certaldo la sua compagna Michela (dalla quale ha avuto anche un figlio, William di 22 anni), ma a mezzanotte è costretto a tornare in cella. «Il mio calvario — racconta — cominciò quel maledetto giorno di molti anni fa quando insieme ad altri due giovani alcamesi fummo sospettati di aver ucciso l’appuntato Salvatore Falcetta e il militare Carmine Apuzzo che dormivano in caserma. Gli inquirenti che facevano parte di un commando antiterrorismo di Napoli, mandato apposta per indagare sul caso, ci arrestarono e ci sottoposero ad un terribile interrogatorio dove ci torturarono per farci confessare». I tre giovani, tra l’altro accusati dalla testimonianza di Giuseppe Vesco, un alcamense psicolabile, conosciuto con il nomignolo di «Peppe ‘u pazzu», davanti al magistrato ritrattarono tutto, ma nessuno li credette più. Tutti colpevoli, tutti condannati all’ergastolo. L’unico, però, che ha conosciuto il carcere è stato Gulotta, perché gli altri si sono dati alla latitanza in Brasile, da dove hanno chiesto inutilmente la grazia. A distanza di anni, però, Renato Olino è pronto a raccontare ai giudici gli sconcertanti retroscena sui metodi utilizzati durante l’interrogatorio di molti anni fa. Rivelazioni che l’ex carabiniere aveva già fatto al sostituto procuratore di Trapani nel 2007 e che hanno permesso agli avvocati, Baldassarre Lauria e Pardo Cellini, di chiedere alla Cassazione la revisione del processo a carico di Gulotta. Giuseppe Gulotta, condannato per la strage della casermetta  di Alcamo Marina del 27 Gennaio 1976, in cui furono uccisi barbaramente nel sonno i due militari Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, e furono rubate, dopo la strage, armi, munizioni e divise. La svolta sulle indagini avvenne il 13 febbraio. A un posto di blocco fu fermato un giovane alcamese, Giuseppe Vesco, su una Fiat 127 verde con una targa di cartone “Trapani 121”. Questi aveva in mano una pistola (si pensa che fosse scarica dato che il giovane aveva un arto amputato) e dopo una perquisizione ne venne trovata una seconda. Era una Beretta in dotazione ai carabinieri, probabilmente rubata durante l’omicidio della casermetta. Dopo una perquisizione a casa del ragazzo e attente analisi si dimostrò che Vesco era in possesso dell’arma del delitto. Fu dunque interrogato dai carabinieri ma questi negò in modo deciso la sua partecipazione all’agguato dicendo che doveva solo consegnare le armi a qualcuno. Dopo aver  negato in tutti i modi la sua partecipazione alla strage improvvisamente il fermato Vesco cambiò versione. Vesco fece ritrovare armi e divise in una stalla di proprietà di Giovanni Mandalà, un bottaio di Partinico. Vesco confessò di aver partecipato alla strage insieme ad altri tre ragazzi: Gaetano Santangelo, Giuseppe Gulotta e Vincenzo Ferrantelli. I tre ragazzi alcamesi più il partinicese Mandalà furono tutti tratti in arresto per omicidio e costretti a confessare firmando un verbale di riconoscimento di colpevolezza. La versione accertata dei fatti fu la seguente: Giovanni Mandalà, il bottaio di trentotto anni di Partinico, avrebbe forzato la porta della caserma con la fiamma ossidrica e a sparare invece sarebbero stati Giuseppe Gulotta e Gaetano Santangelo, due giovani alcamesi di diciannove e diciassette anni, mentre Vincenzo Ferrantelli, uno studente di sedici anni di Alcamo, avrebbe solo messo a soqquadro le stanze. 30 anni dopo, il colpo di scena. Negli ultimi mesi del 2007, un ex brigadiere dell’Arma dei Carabinieri, Renato Olino, membro del nucleo anti-terrorismo di Napoli, che partecipò allora alle indagini, ha spiegato come si sono svolti veramente i fatti. Dopo 32 anni dall’accaduto l’ex brigadiere Olino ha affermato chiaramente che sia a Vesco che agli altri ragazzi accusati, le confessioni furono estorte con violenza. Vennero messi nelle loro bocche imbuti e versati al loro interno grossi quantitativi di acqua e sale. Gli accusati furono anche picchiati  e venne usato anche un “telefono da campo” in grado di produrre scariche elettriche per torturare ulteriormente i fermati. Giuseppe Vesco però aveva dichiarato già nel 1976, dopo aver firmato la sua colpevolezza, di essere stato torturato. Dopo qualche mese da quel tragico gennaio 1976 Vesco aveva provato anche a scagionare i presunti complici, purtroppo senza riuscirci. Ma il 26 ottobre del 1976, pochi giorni prima di essere ascoltato dagli inquirenti: Giuseppe Vesco, nonostante avesse un arto imputato, viene ritrovato impiccato alle sbarre della finestra della sua cella. Gli accusati da Vesco, anche loro torturati, subiscono un’odissea di condanne dopo un iter giudiziario complicato. Ergastolo per il bottaio Giovanni Mandalà, che avrebbe aperto la porta della caserma con la fiamma ossidrica e custodito le armi, ergastolo a Giuseppe Gulotta, che avrebbe sparato, 20 anni a Gaetano Santangelo, che avrebbe sparato anche lui ma allora minorenne, e 20 anni anche a Vincenzo Ferrantelli, che ha rubato armi e divise anche lui minorenne. Mandalà è deceduto di morte naturale dopo essersi fatto diversi anni di carcere, Santangelo e Ferrantelli, tra un appello e l’altro, si sono rifugiati in un paese del Sudamerica che non ha accordi di estradizione con l’Italia. Il brigadiere Olino s’è presentato spontaneamente nel 2008 davanti al procuratore capo della Procura di Trapani e ha rivelato che furono mandati in galera degli innocenti. Gulotta ha chiesto e ottenuto la revisione del processo. Un collaboratore di giustizia, Leonardo Messina, della famiglia di San Cataldo di Caltanisetta, soltanto recentemente ha illustrato un’altra verità: quando era in carcere a Trapani venne a sapere da altri mafiosi di Alcamo che la strage della casermetta era stato un errore. Era stato stabilito di affidarla ad alcuni affiliati della famiglia di Alcamo ma poi era stato deciso di che non si sarebbe fatta più. Il contro-ordine purtroppo era arrivato troppo tardi e la mafia aveva ugualmente eseguito l’operazione. Perché la mafia doveva eseguire tale strage? Perché Cosa Nostra aveva pianificato una serie di attacchi allo Stato: era stata decisa una vera e propria strategia della tensione. Probabilmente accordi segreti tra mafia e servizi segreti deviati. Un altro mafioso della famiglia di Alcamo, Giuseppe Ferro, conferma che la strage della casermetta non fu eseguita da quei giovani accusati e che la mafia questo lo sapeva bene. Oggi dopo le rivelazioni di Renato Olino, i magistrati indagano ancora e sono tornati sulle tracce di GLADIO. La presenza di Gladio è documentata a Trapani negli anni 90 (con l’esistenza del misterioso Centro Scorpione) ma le indagini sulla casermetta inducono a ritenere che questa a Trapani ci fosse già da molto tempo prima. Il 26 gennaio 1976 Apuzzo e Falcetta avrebbero fermato un furgone. Danno l’alt, vogliono vedere cosa trasporta. La scoperta è incredibile: ci sono tantissime casse piene di armi e gladiatori della sede trapanese di Gladio. Tutti vengono portati nella casermetta per il verbale ma Apuzzo e Falcetta vengono uccisi. Un poliziotto del trapanese ha riferito recentemente alla magistratura che una fonte sicura gli riferì nel 1993 la vera storia della strage della casermetta: Il furgone fermato portava armi di Gladio, nella casermetta fu organizzata una messa in scena, forse i carabinieri furono portati altrove e poi riportati morti all’interno della caserma. Dagli armadi probabilmente sparì anche qualcos’altro. E per questo furono uccisi perché non venisse svelata «Gladio» che per vent’anni ancora sarebbe rimasta segreta, ma forse anche per non far svelare qualcos’altro… Le rivelazioni dell’ex brigadiere Olino hanno portato sotto inchiesta i componenti di quel gruppo: Elio Di Bona, Giovanni Provenzano, Giuseppe Scibilia, Fiorino Pignatella. Chiamati a rispondere davanti al pm nonostante la conclamata prescrizione si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. Da loro nessuna conferma ma neanche alcuna smentita.

AMMINISTRATOPOLI

A Trapani è bellissimo andarci per prendere un traghetto e raggiungere l’isola di Favignana, o per salire i tornanti che portano al brivido panoramico di Erice, o per vagare nei labirinti struggenti delle antichissime saline, scrive Cristiano Gatti su “Il Giornale”. Ma anche farci il vigile urbano è incantevole: in nessun altro luogo d'Italia e del mondo un agente municipale può trovare un habitat tanto confortevole. Secondo un rapporto Aci, pubblicato dal Sole 24 ore, il capoluogo della Sicilia più estrema e più abbagliante vanta un esercito comunale praticamente di soli generali. L'organigramma: 70 ispettori capo, 9 commissari, un funzionario e un comandante. Per una città di 70mila abitanti, 81 vigili con ruolo dirigenziale. Sotto di loro, perché non si dica che Trapani non è unica al mondo, i vigili normali ammontano a 7. Come una squadra di calcio all'oratorio, prima che inventassero il calcetto. O come i nani di Biancaneve, allegoria che rende meglio la ferocia dei servizi di controllo cittadino. Dieci generali per ogni soldato semplice. Wow, anche questa è eccellenza del made in Italy. Con termine molto garbato, gli analisti la chiamano piramide rovesciata. Ma è chiaro che a Trapani non hanno rovesciato solo la piramide gerarchica: c’è qualcosa di più penoso, è rovesciata la logica. Mi rendo conto che forse si sbaglia nel dire che Trapani è un paradiso per farci il vigile: per i sette che lo fanno davvero, effettivamente, può essere infernale. Una divisa ogni diecimila abitanti: lavoraccio. Però non bisogna drammatizzare: anche per loro, prima o poi, arriverà il momento della gloria, con la promozione al prestigioso ruolo dirigenziale. Anch'essi, prima o poi, andranno a comandare l'esercito che non c'è. «Il fatto è - spiega il comandante Francesco Guarano - che i Comuni non assumono, l'età media va verso i 55 anni, e con l'anzianità aumentano automaticamente i gradi...». È il meccanismo perverso che ad esempio porta Catania ad avere 4 vigili e quasi 500 ispettori, anche se lì risolvono il problema mandando per strada pure i graduati. La spiegazione, da sola, può mandare in terapia intensiva il ministro Brunetta. Ma la realtà resta questa: in attesa che l'Italia diventi un Paese dove si fa carriera con il merito e non con i compleanni, ci sono città in cui non si riesce a mandare il vigile all’incrocio neppure puntandogli un revolver alla nuca. Per strada vige la legge della giungla, negli uffici si accumula una calca di personaggi prestigiosissimi che svolgono mansioni importantissime. Nessuno comprende esattamente quali, ma così risulta ufficialmente. Inutile dire che il corpo dei vigili graduati di Trapani si risentirà moltissimo per questo primato nazionale. Anche lì si parlerà di dati travisati, falsati, manipolati. Eppure la statistica della Fondazione Caracciolo per l'Aci certifica che il primato è solido e inattaccabile. In Italia, i Comuni mandano mediamente in strada il 75 per cento dei propri vigili: Trapani l'8,6 per cento. Uno a dirigere il traffico, a staccare multe, a sedare risse, dieci in ufficio a comandare. Se la portata del record non fosse ancora chiara, ecco il paragone con un'altra città delle stesse dimensioni: Asti. Qui, 11 ispettori capo e 58 agenti. Uno ordina e sei eseguono. Siamo prossimi alla normalità: la piramide è piramide, ha la punta verso l'alto e non c'è nulla di rovesciato. Quale il senso di tutto questo? La Fondazione Caracciolo, studiando a fondo l'armata dei 60mila vigili italiani, parla per certi casi delle «politiche di occupazione locale». Ci sono città, cioè, che non sapendo dove collocare il cugino dell'assessore e l'amante del vicesindaco, o comunque qualcuno in cerca di posto, si risolve il problema arruolandolo nel corpo della vigilanza municipale. I risultati sono noti: anche se i vigili urbani non vogliono sentirselo dire, tra tutte le forze dell’ordine restano di gran lunga le meno amate. Gli italiani amano i Carabinieri, la Polizia, la Guardia Forestale, forse amano un po' meno la Finanza, certamente adorano i Vigili del fuoco, ma non si trova in giro un cane che sbavi per il vigile urbano. Noi diamo le multe, spiegano loro. Ma non è questo. È qualcosa di più triste. È la netta sensazione di non vederli mai dove servirebbero, quando servirebbero, salvo vederli sbucare nel modo più inflessibile e spietato al momento di scucire soldi con le loro odiose multe. Ci sarà un motivo se quando il carabiniere mostra la paletta a bordostrada, mediamente, un italiano pensa solo a un lodevole controllo, mentre se la estrae uno sceriffo municipale lo stesso italiano pensa a quanti soldi ha nel portafoglio, preparandosi rassegnato a patteggiare, a trattare la resa, a implorare clemenza. Li vorremmo dalla nostra parte, li sentiamo ostili e perennemente incarogniti. Soprattutto, li sentiamo lontani. A Trapani s'è capito dove stanno. Impossibile dire cosa davvero serva per recuperare il rapporto: forse, basterebbe che si materializzassero in modo umano nei quartieri, abbandonando i loro rifugi burocratici, evitando di comunicare solo come entità inafferrabili e paranormali, attraverso moduli sul parabrezza. Nell’attesa che questo avvenga, ai vigili resta un solo motivo di consolazione. In Italia c'è almeno una categoria più odiata della loro: gli ausiliari della sosta.

CAMPOBELLO DI MAZARA. LA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

Da “La Repubblica” Arrestato il sindaco antimafia di Campobello di Mazara. "Era organico al clan di Messina Denaro". Ciro Caravà è accusato di associazione mafiosa. Secondo la Dda Palermo e i carabinieri del Ros avrebbe pagato decine di biglietti aerei ai familiari dei boss detenuti al Nord e distribuito appalti alle ditte dei clan. Dalle intercettazioni è emerso anche il sostegno elettorale di Cosa nostra al primo cittadino. In manette, altre dieci persone, fra esponenti mafiosi e insospettabili ritenuti fedelissimi della Primula rossa di Cosa nostra: c'è pure un ex funzionario della prefettura di Trapani. Nella sua stanza, in Municipio, teneva ben in vista le foto di Falcone e Borsellino: il sindaco democratico di Campobello di Mazara, Ciro Caravà, diceva di aver fatto aderire il suo Comune all’associazione Libera e si era anche costituito parte civile nel processo ai favoreggiatori del superlatitante Matteo Messina Denaro. Eppure, i mafiosi più vicini a Messina Denaro continuavano a dire un gran bene di lui: “Io gli ho portato un mare di voti”, sussurrava uno dei messaggeri del padrino, Franco Luppino, che non sospettava di essere intercettato. “L’altra sera, il sindaco l’ho sentito parlare in Tv. Minchia, se non lo conoscessi…". Ciro Caravà è stato arrestato la mattina del 16 dicembre 2011 dai carabinieri del Ros con l’accusa di associazione mafiosa. Secondo il procuratore aggiunto Teresa Principato e i sostituti Pierangelo Padova e Marzia Sabella, il primo cittadino rieletto a giugno a fuor di popolo sarebbe stato addirittura “organico” alla famiglia mafiosa di Campobello, una delle più fedeli al verbo dell’imprendibile Matteo Messina Denaro, ormai latitante dal 1993. Sono soprattutto le intercettazioni a mettere nei guai il primo cittadino. Gli investigatori del Ros hanno ascoltato ad esempio la moglie del boss Nunzio Spezia mentre dice al marito, detenuto in un carcere del Nord Italia: “Vedi, in due anni di sindaco quanto abbiamo risparmiato? Dopo le elezioni mi ha detto: vossia fino a quando va e viene dallo zio Nunzio, biglietti non ne paga più. Io gli telefono, gli ordino i biglietti e li passo a ritirare”. Dalle indagini dei carabinieri di Trapani è emerso che il sindaco Caravà avrebbe distribuito ai mafiosi anche lavori e appalti del Comune. Possibile che mai nessuno avesse avuto sentore della doppia vita di Ciro Caravà? Nel provvedimento di arresto, firmato dal gip di Palermo Maria Pino, si ricorda che il vulcanico primo cittadino era stato denunciato nel 2006 dalla polizia per estorsione e voto di scambio. Ma quella volta, l'inchiesta fu archiviata. Le polemiche tornarono però all'indomani di un blitz contro i favoreggiatori di Messina Denaro: uno degli arrestati, Franco Indelicato, era stato consulente del sindaco; un altro, tale Domenico Nardo, citava addirittura Caravà nelle intercettazioni. Lui, come sempre, respinse tutte le accuse: "Nardo? E' un impresario romano di spettacoli. L'ho conosciuto perché mi ha venduto un concerto di Bobby Solo". Nel 2008, il ministero dell'Interno mandò gli ispettori al Comune di Campobello, per verificare eventuali infiltrazioni mafiose. Quella volta, i boss e i loro insospettabili complici temettero il peggio. "Qua ci commissariano il Comune", diceva un dipendente della prefettura di Trapani, Giovanni Buracci, molto vicino al sindaco. Anche lui era intercettato dai carabinieri: si lamentava perché i mafiosi frequentavano ormai troppo spesso il municipio di Campobello. "I soldi, le tangenti ce li portano a casa. Ma che bisogno c'è di andare là... in Comune non ci doveva avvicinare nessuno. A me dispiace perché quel cretino pensava che dicendo antimafia si salvava, invece adesso gliel'hanno incappolata. Arrangiati". Per Giovanni Buracci, il "cretino" era il sindaco Caravà, che si sarebbe esposto troppo, assumendo persino la moglie di un mafioso nel suo staff. Ma alla fine, il Comune di Campobello non fu sciolto dal consiglio dei ministri. Nonostante i sospetti, Ciro Caravà ha fatto il pieno di voti alle elezioni del giugno 2011. Doveva aver fatto molta presa il suo appello in campagna elettorale: "Abbiamo individuato un decreto firmato una quarantina di anni fa dall'allora presidente della Regione - annunciò - saranno salvate dalle demolizioni almeno un migliaio di case costruite dopo il 1976 a meno di 150 metri dalla battigia". L'eco di quell'appello pro-abusivismo arrivò fino a Roma: il segretario del Pd Pierluigi Bersani chiese chiarimenti al segretario regionale Lupo, che a sua volta telefonò a Caravà. Ma il sindaco di Campobello non si scompose più di tanto e offrì le sue motivazioni. D'altro canto, l'equilibrismo è stata sempre la sua migliore specialità: prima comunista, poi uomo di Forza Italia, e poi ancora del Pd.

Da “Il Corriere della Sera” Sindaco del Trapanese in manette. Ex del Pci, ma fedelissimo del boss. Ciro Caravà, eletto nel centrosinistra: una delle pedine del sistema che protegge l’ultimo grande boss di Cosa Nostra. In campagna elettorale accusava i suoi avversari di essere degli impostori, ma il sindaco di Campobello di Mazara, un passato nel Pci, transitato dai socialisti a Forza Italia, approdato infine nel Pd e rieletto nelle ultime amministrative del maggio 2011 come leader del centrosinistra, sarebbe stata una delle pedine del sistema che protegge l’ultimo grande boss di Cosa Nostra ancora latitante, l’imprendibile Matteo Messina Denaro. E così il primo cittadino di questo paesone a pochi chilometri dai templi di Selinunte, Ciro Caravà, in carica dal 2006, è stato arrestato per associazione di tipo mafioso, anche se i suoi elettori ricordano bene come tuonasse ad ogni comizio contro la mafia e i poteri forti. Ma questo singolare personaggio, un po’ dottor Jekyll un po’ signor Hyde, viene considerato dalla Direzione distrettuale antimafia di Palermo e dal procuratore aggiunto Teresa Principato uno degli undici “fiancheggiatori” catturati dagli uomini della Dia all’alba, con un altro dei tanti blitz scattati negli ultimi anni per fare terra bruciata a Messina Denaro. La primula che lo scorso 4 novembre aveva avuto l’ultimo dispiacere con la condanna a 10 anni di carcere del fratello, Salvatore. Anche stavolta si va al cuore della gestione occulta dell’impero economico di Messina Denaro. Dopo il mondo dei supermercati, ecco i riflettori puntati su una serie di attività economiche vitali per Cosa nostra. Attività guidate, secondo l’accusa, dal capo della “famiglia” Leonardo Bonafede, inteso “u zu Nardino”, arrestato con Filippo Greco, noto imprenditore di Campobello, da tempo trasferitosi a Gallarate, gli occhi sull’edilizia a Milano e dintorni, ritenuto uno dei principali finanziatori e “consigliere economico” della cosca. Adesso ai raggi X in Sicilia alcune società e imprese in grado di monopolizzare il mercato olivicolo ed altri settori dell’economia. A cominciare da quello degli appalti. Sempre con l’ausilio di Caravà, il sindaco bollato nel provvedimento firmato dal gip Maria Pino come “l’espressione politica della locale consorteria mafiosa”. Un giudizio pesantissimo che annulla l’ostentato impegno antimafia di un uomo politico sempre in prima fila nelle iniziative antimafia. A cominciare dall’inaugurazione del centro raccolta sangue dell’Avis, avvenuta un anno prima su un fondo confiscato al boss Nunzio Spezia, morto nel 2009. Taglio del nastro, foto e tante parole contro la mafia anche allora. Con Caravà sul palchetto a declamare strali contro l’oppressione mafiosa inneggiando a Libera, l’associazione di Don Ciotti. Ma agli inquirenti era già apparso chiaro un ben diverso profilo di questo ragioniere cinquantaduenne eletto sindaco in quota Democrazia europea, la formazione politica promossa dall’ex leader della Cisl Sergio D’Antoni. Era accaduto proprio intercettando la moglie di Spezia, prima che morisse, durante un colloquio in carcere, loquace mentre sussurrava al marito parole scolpite negli atti giudiziari: “Vedi, in due anni di sindaco, quanto abbiamo risparmiato? Dopo le elezioni mi ha detto: ‘Vossia fino a quando va e viene dallo zio Nunzio, biglietti non ne paga più’. Io gli telefono, gli ordino i biglietti e li passo a ritirare”. E i carabinieri di Trapani avrebbero proprio accertato che il sindaco Caravà pagava, ma intascando tangenti in cambio di lavori e appalti del Comune. Una partita di giro. Sempre ufficialmente in nome dell’antimafia.

CALATAFIMI: MAI DIRE ANTICORRUZIONE.

Arrestato per corruzione il sindaco "anti mazzette". Ai domiciliari Nicolò Ferrara, primo cittadino di Calatafimi, comune del Trapanese. Presidente del consorzio provinciale per la legalità e lo sviluppo, è accusato di avere intascato una mazzetta nell'aggiudicazione di un'asta per la vendita di automezzi comunali da dismettere. Stesso provvedimento per gli imprenditori palermitani Ettore ed Enrico Crisafulli, padre e figlio, scrive Laura Spanò su “La Repubblica”. Nel dicembre scorso in prefettura a Trapani lo si è visto presiedere un seminario sulla prevenzione della corruzione. Per avere commesso questo reato è da stamattina agli arresti domiciliari Nicolò Ferrara, imprenditore, 57 anni, sindaco di Calatafimi e presidente del consorzio provinciale per la legalità e lo sviluppo. In questa veste di presidente aveva parlato di contrasto alla corruzione in una assemblea di amministratori e funzionari di enti locali, già però era indagato per avere intascato una mazzetta da 3 mila euro per favorire un imprenditore del suo paese, Francesco Fontana, nell'aggiudicazione di un'asta per la vendita di automezzi comunali da dismettere. Nel corso della stessa operazione sono stati arrestati (sono ai domiciliari) due imprenditori palermitani, Ettore ed Enrico Crisafulli, padre e figlio, di 69 e 34 anni, per intestazione fittizia di beni. Sono stati anche notificati 8 avvisi di garanzia e perquisizioni sono state compiute a Calatafimi, Palermo, Salaparuta e Roma. Ferrara è accusato dei reati di corruzione, falsità ideologica e turbativa d'asta. Il sindaco Ferrara è praticamente reo confesso. A parte le intercettazioni telefoniche che lo hanno incastrato, svelati anche altri reati di abuso. Lui stesso, sentito dai pm della Procura di Trapani, titolari dell'indagine, Trinchillo e Belvisi, ha ammesso di aver preso quei soldi: dapprima si è giustificato dicendo di averli usati per far beneficienza, poi, cambiando versione, di averli spesi per saldare propri debiti: "La consegna di quei soldi non è legata a quanto contestato ovvero la vendita di mezzi comunali ma è bensì legato ad un impegno di contribuzione di carattere volontario per la beneficienza preso qualche anno addietro rispetto alla data della gara. In particolare tale donazione era totalmente libera e riguardava la risposta verso le esorbitanti richieste che pervengono dalla sede municipale da parte di persone in stato di bisogno". Poi cambiava versione, dichiarava di avere usato una parte dei soldi per saldare dei propri debiti. Il gip Lucia Fontana ha però ugualmente deciso la misura cautelare pur dinanzi all'ammissione del fatto, in quanto Ferrara nonostante le gravi accuse non si è dimesso da sindaco. Ad ammettere la corruzione anche l'imprenditore Francesco Fontana che ha ammesso di avere pagato i 3 mila euro e ascoltato durante le intercettazioni è stato sentito raccontare che altre volte analoghe aste erano andate alla stessa maniera, "pilotate" nell'aggiudicazione, "io altre volte mi sono dovuto ritirare". Le indagini sono state condotte dalla squadra mobile di Trapani diretta dal vicequestore Giovanni Leuci. A dare l'avvio la denuncia di un dipendente dell'impresa Simaco, che aveva ottenuto un appalto per la urbanizzazione della zona artigianale Sasi a Calatafimi. Alcuni, che si sono presentati come mandati dal Comune, si erano presentati a lui chiedendo assunzioni, "Qui si fa come diciamo noi o non lavora nessuno". Le intercettazioni hanno svelato un allegro sistema di gestione della cosa pubblica con il sindaco Ferrara che al telefono dava ordini per scrivere e disfare delibere e determine, "prepara ... prepara le due offerte ... lo hai capito? ... due offerte, una la lasci in bianco ...." e di rimando il suo interlocutore, l'impiegato Vincenzo Guida (tra gli 8 indagati, ndr) lo rassicurava "tannu quanno c'era chiddu si faciunu sti cumminazioni ... con Enzo ... il segretario una volta glieli portavamo così". E quando non sapeva che normativa applicare per far fare le cose come lui desiderava diceva di scrivere sulle determine la frase "vista la vigente normativa", a quale legge si riferisse però nessuno lo sapeva. In tanti agli ordini del sindaco Ferrara al Comune di Calatafimi, fino a quando però alla guida dell'ufficio tecnico non è giunto l'ingegnere Bonaiuto. Prima di lui a guidare l'Utc era un geometra dipendente del Comune di Salaparuta, si chiama Sacco, proprio la sua nomina e la liquidazione di ingenti somme a suo favore sono oggetto di un'altra indagine per la quale Ferrara è indagato per abuso. Ad essere arrestati stamane  (anche loro ai domiciliari) sono stati pure gli imprenditori palermitani Ettore ed Enrico Crisafulli, titolari della Simaco, (società appaltatrice dei lavori di "urbanizzazione primaria della zona artigiana di c. da Sasi di Calatafimi  -  Segesta). Indagati per intestazione fittizia di beni. Ettore Crisafulli fu negli anni Novanta collaboratore di giustizia (indagato per mafia) e per un periodo rese dichiarazioni assieme ad Angelo Siino, poi fu estromesso dal programma di protezione per avere commesso truffe e bancarotta. A tradire l'intestazione fittizia di beni anche un mail del figlio, Enrico, finita "per colpa di un virus" si è difeso Crisafulli jr, nella posta elettronica di un poliziotto della mobile di Trapani: "Le scrivo per conto di mio padre Ettore che ultimamente è molto preoccupato ... sino adesso ingarbugliando le carte l'abbiamo data a bere a tutti facendola franca e passando da carnefici a vittime, adesso stiamo provvedendo al concordato fallimentare per non pagare nessun fornitore, mandiamo tutti alla falsa sede legale di Roma anche se di fatto siamo in via Tevere 9 ma credo che la situazione ci stia sfuggendo di mano perché stiamo truffando mezzo mondo non avendo più nessuna credibilità abbiamo messo un prestanome alla società, ing. Gianni Caruso, anche se stiamo attivando la nuova società 1MPREFO s. r. l. come lei ben sa. Penso che le autorità preposte stiano indagando anche presumo per le polizze fideiussorie false fatte ai Comuni; al comune di Roccella Jonica li abbiamo fatti fessi ma non credo vada bene per tutti, mi affido a lei come sempre per toglierei dalle castagne bollenti. Mi contatti appena può ultimamente papà sta facendo parecchie cazzate come emissioni assegni a vuoto che firma con i nomi dei precedenti presta-nomi della SI MA. Co. Fabio Jenna e Diletta Ciminna, anche se lui non  compare credo che ormai molti si sono insospettiti ...".