Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
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Dr Antonio Giangrande
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L’ITALIA
DEI MISTERI
PRIMA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
INDICE PRIMA PARTE
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
INTRODUZIONE.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
IL MISTERO DELLE SCORRIBANDE TURCHE.
IL MISTERO DELL’INVASIONE BARBARICA DEL MERIDIONE D’ITALIA.
IL MISTERO DELLA BORSA SCOMPARSA DI MUSSOLINI.
IL MISTERO DELLA MORTE DI MUSSOLINI.
IL MISTERO DELLE FOIBE.
IL MISTERO DI SALVATORE GIULIANO.
IL MISTERO DI MORO E DELLA STRATEGIA DELLA TENSIONE.
IL MISTERO CIRO CIRILLO.
IL MISTERO DELLE STRAGI. IL TRENO ITALICUS.
IL MISTERO DELLE STRAGI. L’AEREO DC-9 ITAVIA.
IL MISTERO DELLE STRAGI. MILANO. PIAZZA FONTANA.
IL MISTERO DELLE STRAGI. LA STAZIONE DI BOLOGNA.
IL MISTERO DELLE STRAGI MAFIOSE. PALERMO, MILANO, FIRENZE, ROMA.
IL MISTERO DI ILARIA ALPI.
IL MISTERO DI GIANCARLO SIANI.
IL MISTERO DI WALTER TOBAGI.
IL MISTERO DI MINO PECORELLI.
IL MISTERO DI GIORGIO AMBROSOLI.
IL MISTERO DI LUIGI BISIGNANI.
IL MISTERO DI RINO GAETANO.
IL MISTERO DI MARCO PANTANI.
IL MISTERO DI DENIS BERGAMINI.
IL MISTERO LUIGI TENCO E PIER PAOLO PASOLINI.
IL MISTERO DI GIANNI VERSACE.
INDICE SECONDA PARTE
I MISTERI DELLA BASILICATA. TERRA DEI DELITTI IRRISOLTI. DA ELISA CLAPS A TOGHE LUCANE, DA ANNA ESPOSITO AD OTTAVIA DE LUISE, FINO AI FIDANZATINI ED AL CARABINIERE DI POLICORO.
IL MISTERO DELLA MOBY PRINCE.
IL MISTERO DI SIMONETTA FERRERO.
IL MISTERO DI LIDIA MACCHI.
IL MISTERO DI EMANUELA ORLANDI.
IL MISTERO DI SERENA MOLLICONE.
IL MISTERO DI MARTA RUSSO.
IL MISTERO DI SIMONETTA CESARONI.
IL MISTERO DEL FENOMENO DELLA BLUE WHALE, OSSIA DELLA BALENA BLU (GIOCO)
IL MISTERO DELLE SUPERNOTES. I 100 DOLLARI FALSI…MA BUONI.
IL MISTERO DI ETTORE MAJORANA.
IL MISTERO DEL MOSTRO DI FIRENZE.
IL MISTERO DI LICIO GELLI.
IL MISTERO DI SIENA. DAVID ROSSI.
COMPLOTTISTI? IL MAGISTRATO PAOLO FERRARO, MELANIA REA E LE SETTE DI STATO.
PRIMA PARTE
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande)
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Tra i nostri avi abbiamo condottieri, poeti, santi, navigatori,
oggi per gli altri siamo solo una massa di ladri e di truffatori.
Hanno ragione, è colpa dei contemporanei e dei loro governanti,
incapaci, incompetenti, mediocri e pure tanto arroganti.
Li si vota non perché sono o sanno, ma solo perché questi danno,
per ciò ci governa chi causa sempre e solo tanto malanno.
Noi lì a lamentarci sempre e ad imprecare,
ma poi siamo lì ogni volta gli stessi a rivotare.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Codardia e collusione sono le vere ragioni,
invece siamo lì a differenziarci tra le regioni.
A litigare sempre tra terroni, po’ lentoni e barbari padani,
ma le invasioni barbariche non sono di tempi lontani?
Vili a guardare la pagliuzza altrui e non la trave nei propri occhi,
a lottar contro i più deboli e non contro i potenti che fanno pastrocchi.
Italiopoli, noi abbiamo tanto da vergognarci e non abbiamo più niente,
glissiamo, censuriamo, omertiamo e da quell’orecchio non ci si sente.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Simulano la lotta a quella che chiamano mafia per diceria,
ma le vere mafie sono le lobbies, le caste e la massoneria.
Nei tribunali vince il più forte e non chi ha la ragione dimostrata,
così come abbiamo l’usura e i fallimenti truccati in una giustizia prostrata.
La polizia a picchiare, gli innocenti in anguste carceri ed i criminali fuori in libertà,
che razza di giustizia è questa se non solo pura viltà.
Abbiamo concorsi pubblici truccati dai legulei con tanta malizia,
così come abbiamo abusi sui più deboli e molta ingiustizia.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Abbiamo l’insicurezza per le strade e la corruzione e l’incompetenza tra le istituzioni
e gli sprechi per accontentare tutti quelli che si vendono alle elezioni.
La costosa Pubblica Amministrazione è una palla ai piedi,
che produce solo disservizi anche se non ci credi.
Nonostante siamo alla fame e non abbiamo più niente,
c’è il fisco e l’erario che ci spreme e sull’evasione mente.
Abbiamo la cultura e l’istruzione in mano ai baroni con i loro figli negli ospedali,
e poi ci ritroviamo ad essere vittime di malasanità, ma solo se senza natali.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Siamo senza lavoro e senza prospettive di futuro,
e le Raccomandazioni ci rendono ogni tentativo duro.
Clientelismi, favoritismi, nepotismi, familismi osteggiano capacità,
ma la nostra classe dirigente è lì tutta intera da buttà.
Abbiamo anche lo sport che è tutto truccato,
non solo, ma spesso si scopre pure dopato.
E’ tutto truccato fin anche l’ambiente, gli animali e le risorse agro alimentari
ed i media e la stampa che fanno? Censurano o pubblicizzano solo i marchettari.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Gli ordini professionali di istituzione fascista ad imperare e l’accesso a limitare,
con la nuova Costituzione catto-comunista la loro abolizione si sta da decenni a divagare.
Ce lo chiede l’Europa e tutti i giovani per poter lavorare,
ma le caste e le lobbies in Parlamento sono lì per sé ed i loro figli a legiferare.
Questa è l’Italia che c’è, ma non la voglio, e con cipiglio,
eppure tutti si lamentano senza batter ciglio.
Che cazzo di Italia è questa con tanta pazienza,
non è la figlia del rinascimento, del risorgimento, della resistenza!!!
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Questa è un’Italia figlia di spot e di soap opera da vedere in una stanza,
un’Italia che produce veline e merita di languire senza speranza.
Un’Italia governata da vetusti e scaltri alchimisti
e raccontata sui giornali e nei tg da veri illusionisti.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma se tanti fossero cazzuti come me, mi piacerebbe tanto.
Non ad usar spranghe ed a chi governa romper la testa,
ma nelle urne con la matita a rovinargli la festa.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Rivoglio l’Italia all’avanguardia con condottieri, santi, poeti e navigatori,
voglio un’Italia governata da liberi, veri ed emancipati sapienti dottori.
Che si possa gridare al mondo: sono un italiano e me ne vanto!!
Ed agli altri dire: per arrivare a noi c’è da pedalare, ma pedalare tanto!!
Antonio Giangrande (scritta l’11 agosto 2012)
Il Poema di Avetrana di Antonio Giangrande
Avetrana mia, qua sono nato e che possiamo fare,
non ti sopporto, ma senza di te non posso stare.
Potevo nascere in Francia od in Germania, qualunque sia,
però potevo nascere in Africa od in Albania.
Siamo italiani, della provincia tarantina,
siamo sì pugliesi, ma della penisola salentina.
Il paese è piccolo e la gente sta sempre a criticare,
quello che dicono al vicino è vero o lo stanno ad inventare.
Qua sei qualcuno solo se hai denari, non se vali con la mente,
i parenti, poi, sono viscidi come il serpente.
Le donne e gli uomini sono belli o carini,
ma ci sposiamo sempre nei paesi più vicini.
Abbiamo il castello e pure il Torrione,
come abbiamo la Giostra del Rione,
per far capire che abbiamo origini lontane,
non come i barbari delle terre padane.
Abbiamo le grotte e sotto la piazza il trappeto,
le fontane dell’acqua e le cantine con il vino e con l’aceto.
Abbiamo il municipio dove da padre in figlio sempre i soliti stanno a comandare,
il comune dove per sentirsi importanti tutti ci vogliono andare.
Il comune intitolato alla Santo, che era la dottoressa mia,
di fronte alla sala gialla, chiamata Caduti di Nassiriya.
Tempo di elezioni pecore e porci si mettono in lista,
per fregare i bianchi, i neri e i rossi, stanno tutti in pista.
Mettono i manifesti con le foto per le vie e per la piazza,
per farsi votare dagli amici e da tutta la razza.
Però qua votano se tu dai,
e non perché se tu sai.
Abbiamo la caserma con i carabinieri e non gli voglio male,
ma qua pure i marescialli si sentono generale.
Abbiamo le scuole elementari e medie. Cosa li abbiamo a fare,
se continui a studiare, o te ne vai da qua o ti fai raccomandare.
Parlare con i contadini ignoranti non conviene, sia mai,
questi sanno più della laurea che hai.
Su ogni argomento è sempre negazione,
tu hai torto, perché l’ha detto la televisione.
Solo noi abbiamo l’avvocato più giovane d’Italia,
per i paesani, invece, è peggio dell’asino che raglia.
Se i diamanti ai porci vorresti dare,
quelli li rifiutano e alle fave vorrebbero mirare.
Abbiamo la piazza con il giardinetto,
dove si parla di politica nera, bianca e rossa.
Abbiamo la piazza con l’orologio erto,
dove si parla di calcio, per spararla grossa.
Abbiamo la piazza della via per mare,
dove i giornalisti ci stanno a denigrare.
Abbiamo le chiese dove sembra siamo amati,
e dove rimettiamo tutti i peccati.
Per una volta alla domenica che andiamo alla messa dal prete,
da cattivi tutto d’un tratto diventiamo buoni come le monete.
Abbiamo San Biagio, con la fiera, la cupeta e i taralli,
come abbiamo Sant’Antonio con i cavalli.
Di San Biagio e Sant’Antonio dopo i falò per le strade cosa mi resta,
se ci ricordiamo di loro solo per la festa.
Non ci scordiamo poi della processione per la Madonna e Cristo morto, pure che sia,
come neanche ci dobbiamo dimenticare di San Giuseppe con la Tria.
Abbiamo gli oratori dove portiamo i figli senza prebende,
li lasciamo agli altri, perché abbiamo da fare altri faccende.
Per fare sport abbiamo il campo sportivo e il palazzetto,
mentre io da bambino giocavo giù alle cave senza tetto.
Abbiamo le vigne e gli ulivi, il grano, i fichi e i fichi d’india con aculei tesi,
abbiamo la zucchina, i cummarazzi e i pomodori appesi.
Abbiamo pure il commercio e le fabbriche per lavorare,
i padroni pagano poco, ma basta per campare.
Abbiamo la spiaggia a quattro passi, tanto è vicina,
con Specchiarica e la Colimena, il Bacino e la Salina.
I barbari padani ci chiamano terroni mantenuti,
mica l’hanno pagato loro il sole e il mare, questi cornuti??
Io so quanto è amaro il loro pane o la michetta,
sono cattivi pure con la loro famiglia stretta.
Abbiamo il cimitero dove tutti ci dobbiamo andare,
lì ci sono i fratelli e le sorelle, le madri e i padri da ricordare.
Quelli che ci hanno lasciato Avetrana, così come è stata,
e noi la dobbiamo lasciare meglio di come l’abbiamo trovata.
Nessuno è profeta nella sua patria, neanche io,
ma se sono nato qua, sono contento e ringrazio Dio.
Anche se qua si sentono alti pure i nani,
che se non arrivano alla ragione con la bocca, la cercano con le mani.
Qua so chi sono e quanto gli altri valgono,
a chi mi vuole male, neanche li penso,
pure che loro mi assalgono,
io guardo avanti e li incenso.
Potevo nascere tra la nebbia della padania o tra il deserto,
sì, ma li mi incazzo e poi non mi diverto.
Avetrana mia, finchè vivo ti faccio sempre onore,
anche se i miei paesani non hanno sapore.
Il denaro, il divertimento e la panza,
per loro la mente non ha usanza.
Ti lascio questo poema come un quadro o una fotografia tra le mani,
per ricordarci sempre che oggi stiamo, però non domani.
Dobbiamo capire: siamo niente e siamo tutti di passaggio,
Avetrana resta per sempre e non ti dà aggio.
Se non lasci opere che restano,
tutti di te si scordano.
Per gli altri paesi questo che dico non è diverso,
il tempo passa, nulla cambia ed è tutto tempo perso.
La Ballata ti l'Aitrana di Antonio Giangrande
Aitrana mia, quà già natu e ce ma ffà,
no ti pozzu vetè, ma senza ti te no pozzu stà.
Putia nasciri in Francia o in Germania, comu sia,
però putia nasciri puru in africa o in Albania.
Simu italiani, ti la provincia tarantina,
simu sì pugliesi, ma ti la penisula salentina.
Lu paisi iè piccinnu e li cristiani sempri sciotucunu,
quiddu ca ticunu all’icinu iè veru o si l’unventunu.
Qua sinti quarche tunu sulu ci tieni, noni ci sinti,
Li parienti puè so viscidi comu li serpienti.
Li femmini e li masculi so belli o carini,
ma ni spusamu sempri alli paisi chiù icini.
Tinimu lu castellu e puru lu Torrioni,
comu tinumu la giostra ti li rioni,
pi fa capii ca tinimu l’origini luntani,
no cumu li barbari ti li padani.
Tinimu li grotti e sotta la chiazza lu trappitu,
li funtani ti l’acqua e li cantini ti lu mieru e di l’acitu.
Tinimu lu municipiu donca fili filori sempri li soliti cumannunu,
lu Comuni donca cu si sentunu impurtanti tutti oluni bannu.
Lu comuni ‘ntitolato alla Santu, ca era dottori mia,
ti fronti alla sala gialla, chiamata Catuti ti Nassiria.
Tiempu ti votazioni pecuri e puerci si mettunu in lista,
pi fottiri li bianchi, li neri e li rossi, stannu tutti in pista.
Basta ca mettunu li manifesti cu li fotu pi li vii e pi la chiazza,
cu si fannu utà ti li amici e di tutta la razza.
Però quà votunu ci tu tai,
e no piccè puru ca tu sai.
Tinumu la caserma cu li carabinieri e no li oiu mali,
ma qua puru li marescialli si sentunu generali.
Tinimu li scoli elementari e medi. Ce li tinimu a fà,
ci continui a studià, o ti ni ai ti quà o ta ffà raccumandà.
Cu parli cu li villani no cunvieni,
quisti sapunu chiù ti la lauria ca tieni.
Sobbra all’argumentu ti ticunu ca iè noni,
tu tieni tuertu, piccè le ditto la televisioni.
Sulu nui tinimu l’avvocatu chiù giovini t’Italia,
pi li paisani, inveci, iè peggiu ti lu ciucciu ca raia.
Ci li diamanti alli puerci tai,
quiddi li scanzunu e mirunu alli fai.
Tinumu la chiazza cu lu giardinettu,
do si parla ti pulitica nera, bianca e rossa.
Tinimu la chiazza cu l’orologio iertu,
do si parla ti palloni, cu la sparamu grossa.
Tinimu la chiazza ti la strata ti mari,
donca ni sputtanunu li giornalisti amari.
Tinimu li chiesi donca pari simu amati,
e donca rimittimu tutti li piccati.
Pi na sciuta a la tumenica alla messa do li papi,
di cattivi tuttu ti paru divintamu bueni comu li rapi.
Tinumu San Biagiu, cu la fiera, la cupeta e li taraddi,
comu tinimu Sant’Antoni cu li cavaddi.
Ti San Biagiu e Sant’Antoni toppu li falò pi li strati c’è mi resta,
ci ni ricurdamo ti loru sulu ti la festa.
No nni scurdamu puè ti li prucissioni pi la Matonna e Cristu muertu, comu sia,
comu mancu ni ma scurdà ti San Giseppu cu la Tria.
Tinimu l’oratori do si portunu li fili,
li facimu batà a lautri, piccè tinimu a fà autri pili.
Pi fari sport tinimu lu campu sportivu e lu palazzettu,
mentri ti vanioni iu sciucava sotto li cavi senza tettu.
Tinimu li vigni e l’aulivi, lu cranu, li fichi e li ficalinni,
tinimu la cucuzza, li cummarazzi e li pummitori ca ti li pinni.
Tinimu puru lu cummerciu e l’industri pi fatiari,
li patruni paiunu picca, ma basta pi campari.
Tinumu la spiaggia a quattru passi tantu iè bicina,
cu Spicchiarica e la Culimena, lu Bacinu e la Salina.
Li barbari padani ni chiamunu terruni mantinuti,
ce lonnu paiatu loro lu soli e lu mari, sti curnuti??
Sacciu iù quantu iè amaru lu pani loru,
so cattivi puru cu li frati e li soru.
Tinimu lu cimitero donca tutti ma sciri,
ddà stannu li frati e li soru, li mammi e li siri.
Quiddi ca nonnu lassatu laitrana, comu la ma truata,
e nui la ma lassa alli fili meiu ti lu tata.
Nisciunu iè prufeta in patria sua, mancu iù,
ma ci già natu qua, so cuntentu, anzi ti chiù.
Puru ca quà si sentunu ierti puru li nani,
ca ci no arriunu alla ragioni culla occa, arriunu culli mani.
Qua sacciu ci sontu e quantu l’autri valunu,
a cinca mi oli mali mancu li penzu,
puru ca loru olunu mi calunu,
iu passu a nanzi e li leu ti mienzu.
Putia nasciri tra la nebbia di li padani o tra lu disertu,
sì, ma ddà mi incazzu e puè non mi divertu.
Aitrana mia, finchè campu ti fazzu sempri onori,
puru ca li paisani mia pi me no tennu sapori.
Li sordi, lu divertimentu e la panza,
pi loro la menti no teni usanza.
Ti lassu sta cantata comu nu quatru o na fotografia ti moni,
cu ni ricurdamu sempri ca mo stamu, però crai noni.
Ma ccapì: simu nisciunu e tutti ti passaggiu,
l’aitrana resta pi sempri e no ti tai aggiu.
Ci no lassi operi ca restunu,
tutti ti te si ni scordunu.
Pi l’autri paisi puè qustu ca ticu no iè diversu,
lu tiempu passa, nienti cangia e iè tuttu tiempu persu.
Testi scritti il 24 aprile 2011, dì di Pasqua.
INTRODUZIONE.
Le stragi irrisolte. La vergogna infinita dei misteri d'Italia, scrive Venerdì 6 Dicembre 2013 Paolo Graldi su Il Messaggero. Del fatto, si sa, era il 2 agosto 1980. Tre parole per dirlo: strage di Bologna. L’ultima notizia, invece, è di questi giorni, avvolta in un velo di sconcerto ipocrita: ancora una volta non ci saranno i soldi per risarcire le vittime, i feriti, i famigliari. Lo Stato promette, rassicura, s’inchina. E scappa. Chi ci ha lasciato la vita, vittima inconsapevole e innocente, chi sopporta da trent’anni e più la ferita aperta di quella infinita notte della Repubblica, chi ha perso per sempre il sonno e sopravvive singhiozzando tra gli incubi (oltre alla stazione di Bologna, è assai lungo l’elenco con il massacro di Piazza Fontana, la bomba di Peteano, Piazza della Loggia, Ustica, l’Italicus, via dei Georgofili, la strage di San Benedetto Val di Sambro e molto altro), una intera, vastissima e dolente comunità, sorretta da una fierezza incrollabile, si sente ancora una volta tradita nei propri diritti. La querelle infinita sui conti mai saldati agisce come una metafora sulla disastrosa incapacità del Paese di porre la parola fine sulla stagione dei massacri e dei delitti con l’infamante marchio della politica. «Un Paese che rinuncia alla speranza di avere giustizia ha già rinunciato non solo alle proprie leggi, ma alla sua storia stessa. Ecco perché severamente, ma soprattutto ostinatamente, aspettiamo», ha scritto Sergio Zavoli nel suo imperdibile “La notte della Repubblica”, raccogliendo il pensiero di un sopravvissuto alla strage del 2 agosto. In quel libro, che è la trascrizione della serie tv, c’è anche la testimonianza di Vincenzo Vinciguerra, neofascista all’ergastolo, autore della strage di Peteano, una trappola in un’auto bomba per falciare una pattuglia di carabinieri. Quest’uomo, mai pentito, racconta “da dentro” quella terrificante stagione. E di quella è l’unico colpevole certo. Infatti è reo confesso. E dal ’72 è «da solo in guerra con lo Stato». Neofascisti irriducibili, iscritti alla loggia P2 di Licio Gelli, generaloni e colonnelli dei carabinieri al Sifar, poi al Sid e infine al Sisde in posti di prima grandezza sono stati riconosciuti colpevoli di gravissimi depistaggi, trame complesse, sempre orchestrate in nome della paura di una guerra civile fatta scoppiare dai comunisti, mestatori impuniti e spavaldi, chiamati a proteggere lo Stato dall’assalto rosso. Giudici coraggiosi, alcuni hanno pagato con la vita (Occorsio, Amato, Scopelliti, il fratello di Imposimato), hanno cercato di dipanare la matassa del terrore ma la loro strada si è spesso incrociata con ostacoli insormontabili: chi doveva aiutarli nelle indagini, le ostacolava. Nella strage di Ustica, per esempio, l’ostinazione inarrendevole di Rosario Priore assieme con i rottami del Dc9 Itavia, inabissatosi poco più di un mese prima della bomba alla stazione di Bologna (coincidenza?), ha fatto riemergere dagli abissi tutte le losche complicità di altissimi ufficiali dell’Aeronautica, colpevoli (è storia di questi giorni, accertata definitivamente) di aver celato elementi indispensabili a ricostruire l’accaduto. Ora si sa che un missile fece precipitare l’aereo con il suo carico di 81 passeggeri diretti a Palermo. Ma ragion di Stato e opportunismi internazionali impediscono tuttora di vedere il traguardo. Senza nome anche i responsabili dell’esplosione a Piazza della Loggia, Brescia (28 maggio 1974), un evento che segnò la fase più cruenta e strategica dello stragismo. Nessun colpevole certo, tanti processi, come per Bologna con un gruppetto di ultraneri, in testa Valerio Fioravanti e Francesca Mambro (colpevoli mai pentiti di una catena di omicidi nella guerriglia tra rossi e neri), condannati al carcere a vita per quella bomba alla stazione che negano risolutamente di aver fatto scoppiare e attualmente liberi dopo aver scontato oltre vent’anni. Vuoto, fitto di pagine bianche, mai scritte e dunque neppure mai cancellate, il capitolo dei mandanti: certo, intrecci con la malavita romana, la famigerata banda della Magliana, sodalizi criminali con boss della mafia siciliana (Pippo Calò), mescolanze politiche e malavitose quante se ne vogliono ma niente che illumini il quadro. Chiari i moventi, oscuri o comunque liberi i mandanti. Accanto a singoli episodi chiariti nei dettagli, per esempio la figura di Concutelli e di Tuti, assatanati assassini, o quella dei Moretti o dei Bonisoli sul fronte opposto, quello della sanguinaria epopea delle Brigate Rosse e con l’assassinio di Aldo Moro, gli scenari dei colpevoli si allungano ai nostri giorni, in un’inesauribile dispiegarsi di verità e di controverità, di rivelazioni e di sconfessioni. Se davvero è «beato quel Paese che non ha bisogno di eroi», è angosciante constatare che certo di eroi sono pieni i nostri cimiteri. Forse non inutilmente, si potrebbe sussurrare con ritegno. Ma il Paese quegli eroi dovrà pure meritarseli un giorno e saprà farlo solo quando la vera storia delle stragi, sia di terrorismo sia di mafia, sarà scritta senza che l’ultima riga sia dedicata all’annuncio della “prossima puntata”.
Licio Gelli, i misteri d’Italia e gli alibi di una colonia, scrive Adriano Scianca il 16 dicembre 2015 su ilprimatonazionale.it. Che Licio Gelli, ex venerabile della loggia P2, morto a 96 anni nella sua residenza di Villa Wanda, ad Arezzo, porti con sé nella tomba tanti segreti d’Italia è cosa sin troppo scontata da dire in questo momento. Il nome del massone toscano – era nato a Pistoia il 21 aprile del 1919 – è stato per anni il jolly da giocare in ogni inchiesta vecchia e nuova, in ogni episodio poco chiaro della storia d’Italia, in ogni ricostruzione di ciò che ci sfugge su delitti, stragi, scandali, truffe. Lui, divertito, assecondava la sua fama, concedendo di tanto in tanto interviste piene di allusioni e ammiccamenti, su cui poi la stampa ricamava per settimane. Questo non vuol dire che Gelli fosse soltanto una macchietta o uno specchietto per le allodole: di trame ne ha sicuramente fatte un bel po’ e su tanti misteri della nostra storia ne sa molto più di noi. Ma è un po’ l’ossessione per il “Grande Vecchio” che va smontata. L’idea, cioè, che la Grande Spiegazione sia tutta concentrata in un punto: un uomo o magari un archivio. E che quindi, se il male è tutto lì, noi non abbiamo nulla da rimproverarci. Ricordate quando Renzi sparò la boutade dei documenti riservati da desecretare? Molti credettero che a quel punto sarebbe uscita fuori una stanza del Viminale in cui trovare tutte le risposte a tante domande sulla nostra storia recente. Una cosa tipo: “Bologna, strage di”, “Ustica, verità su”, “Sindona, identità dell’assassino”. Ovviamente non esiste nulla del genere. Sarebbe troppo comodo ed è anche un alibi per tutti noi: ci fa credere che tutti i nostri problemi siano racchiusi in grandi bugie che entità malefiche ci hanno sempre propinato. Noi siamo innocenti, è il potere che è cattivo, noi vorremmo un’Italia migliore, ma con tutti questi complotti non è possibile averla. Purtroppo non è (solo) così, perché in Italia lo status di colonia – che è alla vera origine di tutti i cosiddetti “misteri” – è da sempre palese, rivendicato. E il servilismo dei tenutari locali che intendono mettersi in luce con i colonizzatori è altrettanto esplicito. Cosa può aver fatto nell’ombra Gelli che Letta, Monti o Renzi non abbiano già attuato alla luce del sole? Quando la cessione di sovranità è programma di governo, l’opera dei mestatori vari è tutt’al più manovalanza sporca. Del resto se esiste il Grande Vecchio, basta eliminare lui e tutto torna a posto. E invece questo non accade (allo stesso modo, nel neofascismo molti sono convinti di riassumere il fallimento di una storia politica puntando il dito contro il Grande Traditore, dimenticando invece i tanti tradimenti diffusi, che tuttavia vengono perdonati se si trova un capro espiatorio unico e generale). Ora, i complotti, le trame, le guerre sporche esistono. Ma prosperano sulla resa di tutta la classe politica e prima ancora sul fatalismo, l’ignavia e la passività di un popolo. È inutile scandalizzarsi per il gioco sporco di soggetti che sono sempre esistiti, in ogni luogo e in ogni epoca. Faremmo molto meglio a incazzarci per la nostra resa che a tali personaggi ha reso la vita sin troppo facile.
Italia, Paese dei casi irrisolti. Il delitto di via Poma rimarrà senza un colpevole. La Cassazione, dopo 24 anni, ha stabilito che non esiste un colpevole. Ecco perché in Italia, secondo un ex agente segreto, non siamo capaci più di investigare. I casi italiani senza colpevoli, scrive Nadia Francalacci il 27 febbraio 2014 su "Panorama". "In Italia manca l’arte.Troppa scienza, troppa tecnologia, troppe prove virtuali. Sono queste che distruggono le inchieste e contribuiscono a far rimanere impuniti gli autori di delitti”. E ieri nelle aule della Corte di Cassazione di Roma, l'ennesima riprova: perizie e ricostruzioni virtuali "smontate" da controperizie e contro-ricostruzioni. Il risultato? E' sempre quello: il delitto irrisolto, senza colpevole. E' finita così dopo 24 anni, anche il delitto di Simonetta Cesaroni, uccisa il 7 agosto 1990 con decine di coltellate, in via Poma, a Roma. L'unico imputato del delitto, l'ex fidanzato Raniero Busco che però in Corte d'Appello, nel 2012, era stato assolto "per non aver commesso il fatto". Un'assoluzione che è stata confermata ieri in Cassazione. Ma la cronaca in Italia sembra destinata a diventare sempre più spesso storia. Una storia, con la “S” maiuscola che molte volte non ha una soluzione. Sono tanti infatti i misteri italiani irrisolti senza un mandante, senza colpevoli dove i poteri politici e militari si sono mescolati con la malavita, servizi segreti deviati e esponenti del Vaticano. Dal caso Calvi al caso Sindona; dal Piano Solo con il generale De Lorenzo a Gladio e i servizi segreti; dalla Loggia P2 al caso Mattei. Ma a questi intricati fatti di cronaca diventati Storia senza soluzione, adesso se ne stanno aggiungendo altri, molto più semplici, che “rischiano” però di passare alla storia come i “nuovi” misteri irrisolti: il caso Garlasco e l’omicidio di Yara Gambirasio. “Nel nostro Paese è scomparso l’investigatore da marciapiede – confessa a Panorama.it, Vittorio, ex agente dei Servizi segreti che per anni si è occupato di antiterrorismo – adesso le indagini sono basate esclusivamente sulla tecnologia, sulla scienza. Niente di più sbagliato. La tecnologia deve essere di supporto all’arte altrimenti si rischia di costruire solo prove virtuali che in ambito processuale vengono facilmente “distrutte”. E quando parlo di “arte”, mi riferisco all’uomo, all’intelligenza dell’investigatore, al suo intuito e alle sue capacità di stare tra la gente, per strada”. Secondo l’ex agente, la maggior parte dei casi di cronaca che sono rimasti irrisolti in questi ultimi anni in Italia, sono stati solo oggetto di perizie e studi scientifici che in sede processuale sono risultati facilmente “smontabili” e non di vere e proprie indagini. Ovvero di ricostruzioni strutturate e logiche del delitto. “Il caso del delitto di Garlasco ci mostrano come perizie tecniche contro perizie tecniche portino solamente alla chiusura di un iter processuale senza l’individuazione e la condanna del colpevole – continua Vittorio – probabilmente se ad investigare ci fosse stato un maresciallo come per la strage di Erba, forse anche per l'autore del delitto di Chiara Poggi si sarebbe arrivati all’ergastolo proprio come per Olindo e Rosa”. “Quel caso è stato risolto da un solo maresciallo che invece di stare in caserma davanti ad un computer o di aspettare rilievi scientifici e tecnici ha cominciato a parlare con la gente, ha cercato di capire il contesto dove è maturata la strage – continua l’ex agente dei servizi – ed ha acquisito delle prove anzi “la prova” che ha portato alla condanna dei due autori della strage: ergastolo. Davanti ad una prova acquisita sul campo non c’è la possibilità che quest’ultima possa essere smontata da perizie, se pur scientifiche, che però sono basate solo su dati e informazioni virtuali”. E in questo modo potevano essere già stati chiusi anche i casi di Perugia e Garlasco. “Il caso Garlasco si è “giocato” processualmente quasi tutto sul computer del ragazzo: se questo fosse acceso o spento, se lui lavorasse o meno durante l’orario dell’omicidio- continua - ma probabilmente agli investigatori sarebbe bastato ‘vivere’ tra gli abitanti del quartiere dove è stata uccisa Chiara Poggi, camminare sui quei marciapiedi, parlare con gli abitanti per farsi dire chi è entrato in quella casa. E avremmo saputo senza bisogno di alcuna perizia chi era l’assassino e l’ora precisa del delitto. Stessa identica cosa per il caso di Perugia”. “Lo spionaggio è l’arte antica dell’investigatore che purtroppo è stata dimenticata – prosegue – ma che è e rimane l’arme vincente per risolvere un caso: da quelli più semplici a quelli molto più complessi. Purtroppo a rovinare le indagini sono state due cose: la tecnologia e i pentiti. Gli investigatori, con l’arrivo della figura del pentito, hanno smesso di “spiare” e si sono limitati a verificare. Niente di più sbagliato. Inoltre, oggi a distruggere definitivamente un’inchiesta e a compromettere il risultato di un processo c’è il magistrato che ha la presunzione di mettersi a fare l’investigatore. Ecco perché i casi non si risolvono”. Ma secondo Vittorio, in Italia è sbagliato anche l’intero sistema, l’organizzazione investigativa, che contribuisce a creare caos e a rendere “misteriosi” omicidi dalle dinamiche banali. “In Italia devono essere ben distinti i ruoli. Ci deve essere il poliziotto investigatore e quello amministrativo – continua – e l’investigatore deve stare in strada, in mezzo alla gente a spiare. Deve essere solo questo il suo lavoro”. Diverso invece il caso di Yara Gambirasio. “Nell’inchiesta sull’omicidio della piccola Yara manca proprio il metodo – conclude l’ex agente dell’intelligence - e si rischia che un tecnico, uno scienziato capace di “costruire” una perizia o uno studio riesca a creare un colpevole o a far assolvere il vero responsabile di quell’atroce assassinio. Risultato? Che giustizia non verrà mai fatta e che probabilmente diverrà uno degli ormai molteplici gialli irrisolti”.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
Un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni. Ed è per questo che un popolo di coglioni avrà un Parlamento di coglioni che sfornerà “Leggi del Cazzo”, che non meritano di essere rispettate. Perché "like" e ossessione del politicamente corretto ci allontanano dal reale. In quest'epoca di post-verità un'idea è forte quanto più ha voce autonoma. Se la libertà significa qualcosa allora è il diritto di dire alla gente quello che non vuole sentire.
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).
I conoscenti si incontrano. I compagni ed i parenti si impongono e si subiscono. I coniugi si tollerano. I figli si accettano. Gli amici si scelgono. Io non ho amici per il sol fatto che da loro voglio la perfezione. E, in questo mondo, nessuno è perfetto. (Compreso me).
La definizione di mafie del dr Antonio Giangrande è: «Sono sodalizi mafiosi tutte le organizzazioni formate da più di due persone specializzati nella produzione di beni e servizi illeciti e nel commercio di tali beni. Sono altresì mafiosi i gruppi di più di due persone che aspirano a governare territori e mercati e che, facendo leva sulla reputazione e sulla violenza, conservano e proteggono il loro status quo». In questo modo si combattono le mafie nere (manovalanza), le mafie bianche (colletti bianchi, lobbies e caste), le mafie neutre (massonerie e consorterie deviate).
A molti individui, istituzioni ed intellettuali compresi, si dà una certa importanza, spesso e volentieri mal riposta. Questi, se li si conosce bene, ti portano a ravvisare la loro infimità.
Per questo eliminerò dalla lista tutti coloro che usano FB come strumento di lotta politica, senza costrutto. Si semina odio e non ci si prodiga alla proposta. Terrò tutti coloro che segnalano fatti che arricchiscano il sapere ed allargano gli orizzonti. In politica, per vincere basta essere migliori, forti delle proprie ragioni, e non succubi dei mediocri, senza necessità di eliminare il nemico.
"Io so di non sapere". Il problema è che, questo modo di essere, adesso è diventato: "Io so di non sapere e me ne vanto". Oggi essere ignoranti è qualcosa di cui vantarsi. Prima c’erano i sapienti, da cui si pendeva dalle loro labbra. Poi sono arrivati gli uomini e le donne iperspecializzate, a cui si affidava la propria incondizionata fiducia. Alla fine è arrivata la cultura “fai da te”, tratta a secondo delle proprie fonti: social o web che sia. A leggere i saggi? Sia mai!
In Italia: i giornalisti non informano; i professori non istruiscono. Essi fanno solo propaganda. Sono il megafono della politica e delle vetuste ideologie e quelli di sinistra son molto solidali tra loro. Se fai notare il loro propagandismo e te ne lamenti, si risentono e gridano alla lesa maestà, riportandosi alla Costituzione Cattomassonecomunista. In natura i maiali, se ne tocchi uno, grugniscono tutti, richiamando il loro diritto di parola.
Scritto tanti anni fa, ma ancora attuale. John Swinton, redattore capo del New York Times, 12 aprile 1893. “In America, in questo periodo della storia del mondo, una stampa indipendente non esiste. Lo sapete voi e lo so pure io. Non c’è nessuno di voi che oserebbe scrivere le proprie vere opinioni, e già sapete anticipatamente che se lo facesse esse non verrebbero mai pubblicate. Io sono pagato un tanto alla settimana per tenere le mie opinioni oneste fuori dal giornale col quale ho rapporti. Altri di voi sono pagati in modo simile per cose simili, e chi di voi fosse così pazzo da scrivere opinioni oneste, si ritroverebbe subito per strada a cercarsi un altro lavoro. Se io permettessi alle mie vere opinioni di apparire su un numero del mio giornale, prima di ventiquattr’ore la mia occupazione sarebbe liquidata. Il lavoro del giornalista è quello di distruggere la verità, di mentire spudoratamente, di corrompere, di diffamare, di scodinzolare ai piedi della ricchezza, e di vendere il proprio paese e la sua gente per il suo pane quotidiano. Lo sapete voi e lo so pure io. E allora, che pazzia è mai questa di brindare a una stampa indipendente? Noi siamo gli arnesi e i vassalli di uomini ricchi che stanno dietro le quinte. Noi siamo dei burattini, loro tirano i fili e noi balliamo. I nostri talenti, le nostre possibilità, le nostre vite, sono tutto proprietà di altri. Noi siamo delle prostitute intellettuali”.
I governanti sono esclusivamente economisti. Loro valutano il costo delle loro decisioni in termini economici, non misurano l’indispensabilità, quindi l’utilità delle loro scelte. Il popolo vuole pane e divertimento. La libertà, per la gleba, può andarsi a fare fottere. Ecco perché i governi scelgono di non far niente. E quel niente è importante che sia più utile che giusto. In questo modo cristallizzano lo status quo.
I Governi sono in balia degli umori del popolo.
I capitalisti non vogliono dare niente, i comunisti vogliono solo avere tutto.
I Governi, dettata l’agenda economica, non avendone la perizia, delegano l’aspetto pratico del governare agli apparati burocratici. I burocrati ed i magistrati legiferano e decretano a loro vantaggio, ammantando il loro potere fossilizzato da abuso ed impunità decennale.
Il popolo tapino subisce e tace, senza scrupolo di coscienza, perché chi non vuol dare, non dà; chi vuole avere, ha!
I pericoli dell'anarco-marxismo dietro la democrazia diretta. Il potere anche se espropriato finisce ai dirigenti politici, non certo al popolo, scrive Francesco Alberoni, Domenica 07/10/2018, su "Il Giornale". La democrazia moderna è nata dalla concezione di Hobbes e Locke. Essa distingue fra governanti e governati. I governati rinunciano al loro potere a favore dei governanti (classe politica, Parlamento) perché garantisce loro la pace, la proprietà e il rispetto dei diritti fondamentali e inalienabili. Se i governanti governano male verranno sostituiti. A questa concezione, in epoca moderna si sono opposte in modo radicale due concezioni: quella marxista e quella anarchica. Il marxismo nega la funzione dell'imprenditore. L'imprenditore, chiamato capitalista, deruba il lavoratore di parte del suo lavoro (plusvalore) e con questo acquista i mezzi di produzione con cui ruberà altro pluslavoro ad altri lavoratori. Bisogna perciò espropriarlo di questo furto e restituire il maltolto ai lavoratori. E chi inventerà, chi dirigerà la produzione? I lavoratori stessi. In realtà i lavoratori da soli non organizzano e non dirigono niente. Dopo la rivoluzione sovietica a farlo sarà lo Stato, in realtà la classe politica formata dai dirigenti del Partito comunista. Gli anarchici invece negano la funzione dei governanti: il popolo sa fare tutto da solo. In questo caso bisogna espropriare i politici del loro potere e restituirlo al popolo. Questa idea, che si è realizzata nel passato nelle piccole comunità come decisione di tutti i cittadini riuniti in assemblea, è stata riportata alla ribalta in Italia dai Cinque Stelle come democrazia diretta attraverso il web in cui il popolo fa tutte le leggi, prende tutte le decisioni senza bisogno di una classe politica e dirigente. Dove viene applicato questo sistema il potere lo prendono i dirigenti del partito. Di solito promettendo anche ciò che non potranno dare, e lo conservano con la repressione. In Italia per molto tempo è stato diffuso il marxismo, oggi si è fatto strada l'anarchismo e il mito della democrazia diretta. È strano che queste concezioni e il tipo di conseguenze che hanno sul sistema politico ed economico non siano oggetto di analisi e di approfondimenti sulla stampa e la tv perché si tratta di una svolta radicale che stiamo vivendo ed è la causa del disagio di questa nostra epoca ed è un pericolo per la democrazia.
La liturgia della politica nel nome della democrazia, in fondo, è tutta una presa per il culo….
Perché non esiste politica; non esiste democrazia. Esiste solo l’economia e la finanza. L'utile ed il dilettevole.
I soldi governano il mondo. Non la democrazia o la dittatura, né tanto meno la fede.
Poveri stolti. “Non fatevi tesori sulla terra, dove la tignola e la ruggine consumano, e dove i ladri scassinano e rubano; ma fatevi tesori in cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove i ladri non scassinano né rubano” (Matteo 6:19-20).
Vangelo di Matteo, 7, 1: “Non giudicate, per non essere giudicati; perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati.”
Col giudizio con cui giudichi sarai giudicato… ma non da Dio – e difatti Gesù non dice minimamente una cosa del genere – ma da te stesso, perché tu sei il tuo unico giudice. La misura la decidi tu, e anche questo Gesù lo dice molto chiaramente, in un modo indubitabile per chiunque non abbia dei paraocchi davanti agli occhi.
Giudica, e sarai giudicato. Perdona, e sarai perdonato. Dai, e ti sarà dato. E sarai sempre tu a giudicarti, a perdonarti e a darti qualcosa, perché sei tu l’unico padrone delle tue energie interiori.
Matteo 7:
1 Non giudicate, per non essere giudicati;
2 perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati.
3 Perché osservi la pagliuzza nell'occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio?4 O come potrai dire al tuo fratello: permetti che tolga la pagliuzza dal tuo occhio, mentre nell'occhio tuo c'è la trave?
5 Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall'occhio del tuo fratello.
6 Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi.
7 Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto;
8 perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto.
9 Chi tra di voi al figlio che gli chiede un pane darà una pietra?
10 O se gli chiede un pesce, darà una serpe?
11 Se voi dunque che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele domandano!
12 Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge ed i Profeti.
13 Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa;
14 quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano!
15 Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro son lupi rapaci.
16 Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi?
17 Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi;
18 un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni.
19 Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco.
20 Dai loro frutti dunque li potrete riconoscere.
21 Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli.
22 Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demòni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome?
23 Io però dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità.
24 Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia.
25 Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sopra la roccia.
26 Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, è simile a un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia.
27 Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde, e la sua rovina fu grande».
28 Quando Gesù ebbe finito questi discorsi, le folle restarono stupite del suo insegnamento:
29 egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità e non come i loro scribi.
Io, Antonio Giangrande, sono orgoglioso di essere diverso.
Faccio quello che si sento di fare e credo in quello che mi sento di credere.
La Democrazia non è la Libertà.
La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.
La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.
Cattolici e comunisti, le chiese imperanti, impongono la loro libertà, con la loro morale, il loro senso del pudore ed il loro politicamente corretto.
Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni. Perché "like" e ossessione del politicamente corretto ci allontanano dal reale. In quest'epoca di post-verità un'idea è forte quanto più ha voce autonoma. Se la libertà significa qualcosa allora è il diritto di dire alla gente quello che non vuole sentire.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo.
Da una parte, l’ideologia comunista si è adoperata con la corruzione culturale:
attraverso la televisione di Stato e similari;
con la propaganda ideologica continua dei giornalisti militanti di regime;
con insegnamenti ed indottrinamenti ideologici scolastici ed universitari frutto di una egemonia culturale.
Dall’altra parte, la depravazione culturale messa in opera dalle televisioni commerciali di Berlusconi, anticomuniste ed antimeridionaliste.
Infine con la perversione delle religioni, miranti ad avere il predominio delle masse per il proprio sostentamento.
Insomma. Lavaggio del cervello: dalla culla alla tomba.
Governare e legiferare secondo l’ideologia fascio/comunista? No!
Governare e legiferare secondo i dettati propri di una cattiva fede? No!
Essere liberali vuol dire, in poche parole, che basta agire correttamente ed in buona fede e comportarsi come un buon padre di famiglia.
Agire e comportarsi come un buon padre di famiglia: cosa significa?
In cosa consiste la diligenza del buon padre di famiglia nell’ambito delle obbligazioni del diritto civile: l’obbligo di adempiere alla prestazione in buona fede e in modo corretto.
Adempimento delle obbligazioni: correttezza e buona fede. Il codice civile stabilisce che sia il debitore sia il creditore devono comportarsi correttamente nell’adempimento delle relative obbligazioni, sempre secondo buona fede. La seconda regola imposta dal codice civile in materia di esecuzione del contratto riguarda la diligenza del buon padre di famiglia. Cosa significa e cosa si intende con tale termine? Sicuramente anche in questa ipotesi la legge ha preferito usare un termine generale e astratto. Ma il suo significato è facilmente individuabile. Il “buon padre di famiglia” è colui che “ci tiene” e che è premuroso, colui cioè che fa di tutto pur di realizzare l’interesse dei figli. Il che significa che egli assume l’impegno a conseguire, quanto più possibile, il risultato promesso.
Il codice civile richiama il concetto di buon padre di famiglia in una serie di norme. Eccole qui di seguito elencate:
Art. 382 Codice civile – Responsabilità del tutore e del protutore: «Il tutore deve amministrare il patrimonio del minore con la diligenza del buon padre di famiglia. Egli risponde verso il minore di ogni danno a lui cagionato violando i propri doveri».
Art. 1001 Codice civile – Obbligo di restituzione. Misura della diligenza: «L’usufruttuario deve restituire le cose che formano oggetto del suo diritto, al termine dell’usufrutto, salvo quanto è disposto dall’art. 995».
Art. 1176 Codice civile – Diligenza nell’adempimento: «Nell’adempiere l’obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia».
Art. 1227 Codice civile – Concorso del fatto colposo del creditore: «Se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate».
Art. 1587 Codice civile – Obbligazioni principali del conduttore: «Il conduttore deve prendere in consegna la cosa e osservare la diligenza del buon padre di famiglia nel servirsene per l’uso determinato nel contratto o per l’uso che può altrimenti presumersi dalle circostanze (…)».
Art. 1710 Codice civile – Diligenza del mandatario: «Il mandatario è tenuto a eseguire il mandato con la diligenza del buon padre di famiglia; ma se il mandato è gratuito, la responsabilità per colpa è valutata con minor rigore».
Art. 1768 Codice civile – Diligenza nella custodia: «Il depositario deve usare nella custodia la diligenza del buon padre di famiglia».
Art. 1804 Codice civile – Obbligazioni del comodatario: «Il comodatario è tenuto a custodire e a conservare la cosa con la diligenza del buon padre di famiglia. Egli non può servirsene che per l’uso determinato dal contratto o dalla natura della cosa».
Art. 1838 Codice civile – Deposito di titoli in amministrazione: «La banca che assume il deposito di titoli in amministrazione deve custodire i titoli, esigerne gli interessi o i dividendi, verificare i sorteggi per l’attribuzione di premi o per il rimborso di capitale, curare le riscossioni per conto del depositante, e in generale provvedere alla tutela dei diritti inerenti ai titoli. Le somme riscosse devono essere accreditate al depositante (…). E’ nullo il patto col quale si esonera la banca dall’osservare, nell’amministrazione dei titoli, l’ordinaria diligenza».
Art. 1957 Codice civile – Scadenza dell’obbligazione principale: «Il fideiussore rimane obbligato anche dopo la scadenza dell’obbligazione principale purchè il creditore entro sei mesi abbia proposto le sue istanze contro il debitore e le abbia con diligenza continuate».
Art. 2104 Codice civile – Diligenza del prestatore di lavoro: «Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione nazionale».
Art. 2148 Codice civile – Obblighi di residenza e di custodia: «Il mezzadro ha l’obbligo di risiedere stabilmente nel podere con la famiglia colonica».
Art. 2158 Codice civile – Morte di una delle parti [in tema di mezzadria]: « (….) In tutti i casi, se il podere non è coltivato con la dovuta diligenza il concedente può fare eseguire a sue spese i lavori necessari, salvo rivalsa mediante prelevamento sui prodotti e sugli utili».
Art. 2167 Codice civile – Obblighi del colono: «Il colono deve prestare il lavoro proprio secondo le direttive del concedente e le necessità della coltivazione. Egli deve custodire il fondo e mantenerlo in normale stato di produttività; deve altresì custodire e conservare le altre cose affidategli dal concedente con la diligenza del buon padre di famiglia».
Art. 2174 Codice civile – Obblighi del soccidario: «Il soccidario deve prestare, secondo le direttive del soccidante, il lavoro occorrente per la custodia e l’allevamento del bestiame affidatogli, per la lavorazione dei prodotti e per il trasporto sino ai luoghi di ordinario deposito. Il soccidario deve usare la diligenza del buon allevatore».
Nessuno tocchi il “buon padre di famiglia”. E nessuno tocchi i termini “padre” e “madre”, scrive Silvano Moffa venerdì 24 gennaio 2014 su "Il Secolo D’Italia". Dopo il demenziale scardinamento del valore dei termini padre e madre, sostituibili da quelli di genitore 1 e genitore 2, l’idea francese di cancellare il “buon padre di famiglia” fa drizzare i capelli. L’emendamento approvato dal Parlamento parigino a un progetto di legge sulla pari opportunità tra generi, che elimina dal codice una formula del linguaggio giuridico corrente, non ha senso. Tutto, ovviamente, avviene nel nome di un sessismo e di una presunta modernità nei rapporti relazionali tra le persone, che travalica finanche il senso antico che la locuzione aveva assunto, sopravvivendo al tempo e ai cambiamenti sociali. La questione non è di poco conto, e non va sottovaluta. Non fosse altro che per il fatto che la “diligenza del buon padre di famiglia”, come assioma concettuale e formula di rito nel campo del diritto, è stata abbandonata in Germania in favore di altra considerata più moderna, mentre è sopravvissuta in Italia e, finora, in Francia. La formula compare nelle fonti del diritto romano a partire dal periodo classico. Furono i giuristi dell’epoca a forgiarne il senso, individuando nel bonus, prudens et diligens pater familias il soggetto capace di amministrare accuratamente i propri affari, più o meno come avveniva per il capo dell’azienda agraria domestica, sui cui si basava la civiltà romana dell’epoca. In seguito, con l’introduzione dei codici giustinianei, la nozione si è allargata, fino ad assumere la portata di un criterio generale per individuare i canoni corretti della prestazione, e il comportamento che deve tenere il debitore diligente. Con l’evoluzione dei tempi e della società, la “diligenza del buon padre di famiglia” è arrivata fino ai giorni nostri, scandendo un comportamento medio come sinonimo di saggezza, di legalità, di etica comportamentale. Un criterio applicato in maniera più vasta e diffusa nel corpo legislativo e negli stessi esiti giurisdizionali. Ora, non c’è dubbio che per comprendere la portata di una tale locuzione bisogna risalire alle origini. Come è chiaro che, per il fatto stesso che il concetto sia diventato più diffuso nella sfera del linguaggio giuridico, comporta che le ragioni che ne spiegano l’uso ricorrente e la portata siano fra loro molto differenti. Ma da qui a decretarne l’abolizione per uno scopo di pari opportunità di genere ne corre. Pietro de Francisci, uno dei maggiori storici del diritto romano, spiega nei suoi studi come la struttura della società romana primitiva (comunità di patres) fosse l’architrave su cui poggiava tutto il sistema dell’epoca: lo ius Quiritium. Fino alla fine del V secolo, il pater familias viene visto come un dominus, un soggetto dotato di un potere (potestas) che ha natura originaria, pre-politica e pre-statuale. È un sovrano del gruppo, del quale è reggitore e sacerdote, custode dei sacra e degli auspicia, giudice dei filii familias, con diritto di punire, fino a giungere alla possibilità di infliggere la pena di morte. E’ evidente la forza implicita in una tale figura nell’epoca antica, ai primordi del diritto romano. Ed è del pari evidente, come appare persino ovvio, quanto sia superata, anacronistica, lontana al giorno d’oggi una simile idea di famiglia. Il problema però è un altro. Intanto, la formula, come abbiamo visto, ha assunto un significato del tutto diverso nel tempo, anche all’interno dello stesso diritto romano. In secondo luogo, la diligenza del buon padre di famiglia è un criterio difficilmente sostituibile con una locuzione che possa avere lo stesso effetto e la stessa forza immaginifica. Prendiamo ad esempio una prestazione, nella sua configurazione ordinaria. Attenti giuristi hanno spiegato come nelle moderne codificazioni che regolano i rapporti dei traffici giuridici e commerciali, sia ormai superato il dualismo tra colpa in astratto e colpa in concreto, cui si ricorreva nel determinare la responsabilità della mancata prestazione. Il modello preferito è ormai quello strettamente oggettivo. Insomma, dire che il debitore è tenuto alla diligenza del buon padre di famiglia vuol dire sottolineare che egli è tenuto ad un grado di diligenza media, in quanto il criterio cui ci si ispira è improntato al buon senso, ad un canone di normalità, ad un comportamento usuale e corretto nello stabilire il livello dei rapporti, e nel parametrare il modo in cui non si può non operare nella generalità dei casi. Nel bonus pater familias residuano, insomma, un nucleo di saggezza, oltre che una storia e una cultura giuridica di cui dovremmo menar vanto. Che c’entra con tutto questo il tema delle pari opportunità tra i sessi, è davvero difficile da comprendere. Altro che modernità. Siamo al cospetto di una colossale stupidità.
Solo i comunisti potevano pensare una Costituzione, il cui principio portante fosse il Lavoro e non la Libertà. Libertà che la Carta pone solo come obbiettivo per poter esercitare alcuni diritti dalla stessa Costituzione elencati. Libertà come strumento e non come principio. Libertà meno importante addirittura dell’Uguaglianza. Questa ultima inserita, addirittura, come principio meno importante del Lavoro e della Solidarietà. Già. Per i comunisti “IL LAVORO RENDE LIBERI”. ARBEIT MACHT FREI (dal tedesco: “Il lavoro rende liberi”) era il motto posto all'ingresso di numerosi campi di concentramento. Una reminiscenza tratta da una ideologia totalitaria che proprio dal socialismo trae origine: il Nazismo.
Cosa vorrei? Vorrei una Costituzione, architrave di poche leggi essenziali, civili e penali, che come fondamento costitutivo avesse il principio assoluto ed imprescindibile della Libertà e come obiettivo per i suoi cittadini avesse il raggiungimento di felicità e contentezza. Vivere come in una favola: liberi, felici e contenti. Insomma, permettere ai propri cittadini di fare quel che cazzo gli pare sulla propria persona e sulla propria proprietà, senza, però, dare fastidio agli altri, di cui si risponderebbe con pene certe. E per il bene comune vorrei da cittadino poter nominare direttamente governanti, amministratori e giudici, i quali, per il loro operato, rispondano per se stessi e per i propri collaboratori, da loro stessi nominati. Niente più concorsi truccati…, insomma, ma merito! E per il bene comune sarei contento di contribuire con prelievo diretto dal mio conto, secondo quanto stabilito in modo proporzionale dal mio reddito conosciuto al Fisco e da questi rendicontatomi il suo impiego.
Invece...
L'influsso (negativo) di chi vuole dominare l'altro. Ci sono persone che sembrano dare energia. Altre, invece, sembra che la tolgano, scrive Francesco Alberoni, Domenica 01/07/2018, su "Il Giornale".
Ci sono persone che sembrano darti energia, che ti arricchiscono.
Altre, invece, sembra che te la prendano, te la succhino come dei vampiri. Dopo un colloquio con loro ti senti svuotato, affaticato, insoddisfatto. Che cosa fanno per produrre su di noi un tale effetto? Alcune ci parlano dei loro malanni, dei loro bisogni e lo fanno in modo tale che tu ti senti ingiustamente privilegiato ed è come se avessi un debito verso di loro.
C'è un secondo tipo di persone che ti sfibra, perché trasforma ogni incontro in un duello. Non appena aprite bocca sostengono la tesi contraria, vi sfidano, vi provocano. Lo fanno perché vogliono mostrare la loro capacità dialettica ma soprattutto per mettersi in evidenza davanti agli altri. Se gli date retta, vi logorano discutendo su cose che non vi interessano.
Ci sono poi quelli che fanno di tutto per farvi sentire ignoranti. Qualunque tesi voi sosteniate, anche l'idea più brillante e ragionevole ecco costoro che arrivano citando una ricerca americana che dice il contrario. Magari qualcosa che hanno letto in un rotocalco, ma tanto basta per rovinare il vostro discorso. Ricordo invece il caso di un mio collega che, per abitudine, nella conversazione, faceva solo domande. All'inizio gli raccontavo le mie ricerche, gli fornivo i dati, gli mostravo i grafici, le tabelle, mi sgolavo e lui, dopo avere ascoltato, faceva subito un'altra domanda su un particolare secondario. E io giù a spiegare di nuovo e lui, alla fine, un'altra domanda...
Abbiamo poi quelli che, quando vi incontrano, vi riferiscono sempre qualche cosa di spiacevole che la gente ha detto su di voi: mai un elogio, mai un apprezzamento, solo critiche, solo pettegolezzi negativi. E, infine, i pessimisti che quando esponete loro un progetto a cui tenete molto, vi mostrano i punti deboli, vi fanno ogni sorta di obiezioni, vi fanno capire che sarà un fallimento. Voi lo difendete ma loro insistono e, alla fine, restate sempre con dei dubbi. Un istante prima eravate pieno di slancio, ottimista, entusiasta e ora siete come un cane bastonato. Cosa hanno in comune tutti questi tipi umani? La volontà di competere, di affermarsi, di dominare, di opprimere.
L’invidioso cerca di svalutare l’altro agli occhi del maggior numero possibile di persone, soprattutto di quelle che contano. Appena conoscono qualcuno gli trovano da subito dei difetti: il loro sguardo corre a cercare i limiti, le debolezze e sentono l’esigenza di metterli subito in evidenza, di renderli noti e di provocare il commento negativo degli altri. Solitamente gli invidiosi entrano in azione quando il personaggio da svalutare non è presente, mettendo in moto le “chiacchere da cortile”. (Antonio Giangrande, aforisticamente.com/2018/03/26/frasi-citazioni-aforismi-su-svalutare)
Si stava meglio quando si stava peggio.
I miei nonni paterni Giuseppa Caprino e Leonardo Giangrande, democristiani, contadini beneficiari delle terre della riforma fondiaria di stampo fascista e genitori di 8 figli, dicevano che con i democristiani nessuno rimaneva indietro e tutti avevano la possibilità di migliorare il loro stato, se ne avevano la voglia (lavorare e non sprecare). Nonostante gli sprechi a vantaggio di alcuni figli a danno di altri e nonostante il regime cattocomunista, che non riconosce il valore della persona, loro hanno migliorato il loro stato ed hanno avuto la pensione.
Mio nonno materno Gaetano Santo, comunista, povero contadino ed allevatore beneficiario delle terre della riforma fondiaria di stampo fascista, padre di 8 figli cresciuti con l’illusione della loro utilità al suo benessere ed alla sua vecchiaia, tra un bicchiere di vino e l’altro affermava che i ricchi son ricchi perché hanno rubato ed era giusto espropriare i loro beni per distribuirli ai poveri. Nonostante il regime cattocomunista, che non riconosce il valore della persona, lui è morto povero, pur avendo la pensione!
Luigi Malorgio, il nonno materno di mia moglie, prigioniero di guerra e comunista, povero contadino ed allevatore beneficiario delle terre della riforma fondiaria di stampo fascista, padre di 4 figli, tra uno spreco e l’altro affermava, con il solito mantra comunista, che i ricchi son ricchi perché hanno rubato ed era giusto espropriare i loro beni per distribuirli ai poveri. Nonostante il regime cattocomunista, che non riconosce il valore della persona, lui è morto povero, pur avendo la pensione!
Altro mantra dei comunisti era ed è: gli altri vincono perché, essendo ladri, comprano i voti.
E come dire a detta degli interisti e dei napoletani: la Juventus vince perché ruba e quindi ridistribuiamo i suoi scudetti. L’Inter ed il Napoli son morti, comunque, perdenti.
Dopo tanti anni ho constatato che oggi rispetto al tempo dei nonni, nonostante il progresso tecnologico e culturale, non è più possibile migliorarsi ed arricchirsi. Inoltre oggi se si diventa ricchi per frutto della propria capacità e lavoro, non si è più tacciati di ladrocinio, ma di mafiosità. E se prima non c’era, oggi c’è l’espropriazione proletaria antimafiosa, ma non a favore dei poveri, ma solo a vantaggio dell’antimafia di sinistra, sia essa apparato burocratico di Stato, sia essa apparato associativo comunista, sia esso regime culturale rosso.
Dopo tanti anni ho constatato che, nonostante la magistratura politicizzata che collude ed i media partigiani che tacciono, i moralizzatori solidali erano e sono ladri come tutti gli altri, erano e sono mafiosi come, è più degli altri.
Ergo: ad oggi noi moriremo tutti poveri…e probabilmente senza pensione, accontentandoci di un misero reddito di cittadinanza che prima (indennità di disoccupazione) era privilegio solo dei lavoratori sindacalizzati disoccupati.
Di fatto, nel nome di un ridicolo ambientalismo, ci impediscono di farci una casa, ma ci spingono a comprarci un’auto.
Questo non è progressismo politico, ma una retrograda deriva culturale che ti porta a dire che:
è meglio non fare niente, perché si fotte tutto lo Stato con il Fisco;
è meglio non avere niente, perché si fotte tutto lo Stato con l’Antimafia.
Un tempo non si buttava niente. Tutto si riciclava. Un tempo si era solo rigattieri senza speranza. Si acquistava e si rivendeva roba vecchia, usata, fuori uso o fuori moda, specialmente vestiti, masserizie e simili. La rigattierìa era ciarpame vecchio senza valore, oggetti di scarto.
Oggi, in nome del consumismo sfrenato, alla faccia dei comunisti desunti, non si butta il vecchio o rotto cialtrame, ma tutto quello che in casa non trova posto o non viene usato. I figli crescono? La tecnologia avanza? I vestiti son fuori moda? Via tutto. Roba nuova, oltretutto ancora imballata, la ritrovi nelle oasi della raccolta differenziata dei rifiuti. A regalarla agli altri, sia mai. Anzi buttata…E poi chi la vuole? A proporla diventa un'offesa. Il consumismo sfrenato anche per chi non ha da mangiare… Dove siamo arrivati. I conformisti e conformati, poi, se ti vedono a razzolare intorno a quei beni buttati, ma utilizzabili, ti prendono per un “Barbone” che rovista nei rifiuti.
Oggi si è solo Antiquari. Il rigattiere, a differenza dell’antiquario, non seleziona e non valorizza; semplicemente, rimette in circolazione dei beni che possono avere ancora una loro funzione. Ed oggi le cose vecchie vanno solo al macero. Vale per le cose; vale per le persone.
Quindi, si stava meglio quando si stava peggio.
Ma lasciate che sia il solo a dirlo, così sanno con chi prendersela ed è facile per loro vincere tutti contro uno. Senza una lapide di rimembranza.
È ora di dirselo, l’uomo comune è una merda. Dopo la Teoria della classe disagiata, minimumfax continua ad analizzare la società italiana contemporanea, ma questa volta si parla della Gente, quella variopinta galassia di umanità rabbiosa, che odia la Casta e non si fida più di nessuno, ma che è ormai al centro della politica italiana, scrive Andrea Coccia il 24 Ottobre 2017 su L’Inkiesta. Non è passato nemmeno un mese dall'uscita in libreria di Teoria della classe disagiata, il libro con cui Raffaele Alberto Ventura ha cercato di descrivere la traiettoria e lo scacco a cui è soggetta la classe creativa e intellettuale, minimumfax torna ad affrontare la realtà con un libro che per molti versi alla Teoria di Ventura è speculare. Si tratta de La gente. Viaggio nell'Italia del risentimento e raccoglie l'esperienza di reporter di Leonardo Bianchi, uno che negli ultimi anni si è fatto notare per le sue scorribande pubblicate da Vice, Internazionale, ValigiaBlu, ed è sostanzialmente un ritratto, multiforme e sfaccettato come il soggetto di cui parla, di una parte della società che probabilmente per i disagiati di Ventura è “fuori dalla bolla”, ma che rappresenta una grande parte dell'Italia e non solo. Dal movimento dei Forconi ai neofascisti delle periferie romane, dai complottisti agli anti gender fino ai giustizieri della notte de noartri, difensori improvvisati dell'ordine pubblico e paladini della legittima difesa, ma anche buongiornisti, gonzonauti e boccaloni di ogni tipo: la galassia della Gente — che altri chiamano la Ggente, con la doppia — è dispersa per tutta la penisola, da Nord a Sud, e pure al Centro, non fa distinzione geografiche, né campanilistiche. Il denominatore comune di questa ggente è la rabbia, il risentimento, il richiamo all'autorità — della polizia, delle armi, della legittima difesa — e il rigetto verso qualsiasi cosa c'entri con l'autorevolezza, la conoscenza e l'intellettualità. Attorno ai popoli sono nate le nazioni, che anche se nell'ultimo mezzo secolo stanno dimostrando di essere arrivate al capolinea della loro utilità storica, restano la più grande invenzione politica della modernità occidentale. Attorno alla gente stanno crollando le democrazie. Quello di Leonardo Bianchi è un gran lavoro, ma d'altronde lo è sempre stato. A differenza di quello teorico di Ventura, il suo ha le radici ben piantate nella cronaca, nei volti e nelle vite dei personaggi che mette in scena — e che non di rado racconta in maniera decisamente cinematografica — ma nello stesso tempo riesce a non privarsi della profondità, del tentativo di uscire dall'hic et nuncunendo i puntini e cercando di vedere il quadro complessivo. Per qualcuno la Ggente sarebbe l'ultima evoluzione del Popolo, quell'entità che è entrata a piedi uniti nella politica a partire dall'epoca delle rivoluzioni, ma forse è qualcosa di più complesso. Per cercare di definirlo Bianchi ne traccia tre grandi caratteristiche: il forte risentimento verso la cosiddetta Casta; la rabbia esasperata, indignata, ma soprattutto non imbrigliata in una ideologia di partito; e la tendenza a inventare e a credere a teorie del complotto e versioni alternative nei campi della storia, della geopolitica, della medicina. Eppure, la sensazione che resta dopo la lettura dei reportage di Bianchi è che più che al popolo, questa gente somigli alla folla, quella entità che iniziò ad apparire nell'immaginario collettivo intorno alla metà dell'Ottocento, descritta nel celebre racconto di Edgar Poe, l'Uomo della folla. È probabilmente più da quella massa variegata ma indistinta, da quel flusso che figliò poi nel Novecento la società di massa dell'omologazione e dell'individualismo apolitico che nasce il gentismo e la gente. Attorno ai popoli sono nate le nazioni, che anche se nell'ultimo mezzo secolo stanno dimostrando di essere arrivate al capolinea della loro utilità storica, restano la più grande invenzione politica della modernità occidentale. Attorno alla gente stanno crollando le democrazie. I popoli erigevano monumenti ai propri eroi e ci si raccoglieva intorno al momento delle proprie rivendicazioni politiche, la gente, che non ha nemmeno più grandi rivendicazioni da fare, la strada la teme, la guarda di sottecchi dalle finestre dei piani alti di qualche caseggiato popolare, covando rabbia, rancore, risentimento. Con il popolo una volta si poteva immaginare di costruire delle comunità, con la gente, ora, non si costruisce nulla, ma al contrario, si distrugge.
Il Belpaese è diventato brutto. Da due-tre decenni il Paese è rimasto privo di qualunque sede pubblica deputata alla formazione non solo e non tanto culturale ma specialmente del carattere e della sensibilità civile, all’insegnamento di quei valori in definitiva morali su cui si regge la convivenza sociale, scrive Ernesto Galli della Loggia il 8 settembre 2018 su "Il Corriere della Sera". È bene che ce lo diciamo per primi noi stessi: l’Italia sta diventando un Paese invivibile. Un Paese incolto nel quale ogni regola è approssimativa, il suo rispetto incerto, mentre i tratti d’inciviltà non si contano. Basta guardarsi intorno: sono sempre più diffusi e sempre meno sanzionate dalla condanna pubblica l’ignoranza, la superficialità, la maleducazione, la piccola corruzione, l’aggressività gratuita. Una discussione informata è ormai quasi impossibile: in generale e specie in pubblico l’italiano medio sopporta sempre meno di essere contraddetto e diffida di chi prova a farlo ragionare, mostrandosi invece disposto a credere volentieri alle notizie e alle idee più strampalate. Non è un ritratto esagerato: è l’immagine che sempre più dà di sé il nostro Paese. La verità è che nel costume degli italiani è intervenuta una frattura che ha inevitabilmente modificato anche la qualità della cultura civica della Penisola e quindi di tutta la nostra vita collettiva a cominciare dalla vita politica. Il cui degrado non comincia a Montecitorio, comincia quasi sempre a casa nostra. Ho parlato di frattura perché le cose non sono andate sempre così. È vero che al momento della sua nascita lo Stato repubblicano non ha potuto certo contare su cittadini istruiti e tanto meno su un diffuso senso civico o su una vasta acculturazione di tipo democratico. Inizialmente, infatti, la cultura civica del Paese fu limitata in sostanza a quella delle sue élite politiche e del sottile strato di persone a esse in vario modo vicine (e dio sa con quali e quante contraddizioni!). Ma a compensare in qualche misura queste carenze, e quindi a rendere possibile la crescita di una vita pubblica più o meno consona ai nuovi tempi democratici, valse almeno il fatto che nel tessuto italiano continuavano pur sempre a esistere una tradizionale civiltà di modi, una costumatezza delle relazioni sociali, un antico riguardo per le forme e per i ruoli, un generale rispetto per il sapere e per l’autorità in genere. Fu su questo terreno che nel corso del primo mezzo secolo di vita della Repubblica ebbero modo di mettere radici e di consolidarsi una non disprezzabile educazione civica e politica, una discreta consuetudine alle regole della convivenza e della libera discussione. Contò naturalmente l’innalzamento del reddito e delle condizioni di vita, ma una parte decisiva ebbero altri fattori. Innanzitutto l’esistenza di una politica fondata sulle grandi organizzazioni di massa — i partiti e i sindacati con le loro scuole, come quella del Partito comunista alle Frattocchie, dove poté svolgersi l’esperienza su vasta scala di una socialità discorsiva bene o male fondata sull’argomentazione razionale e sulla conoscenza dei problemi e delle possibili soluzioni — ; ma contò moltissimo la presenza nel Paese di quattro fondamentali agenzie di socializzazione: la Chiesa, la leva militare, la scuola e la televisione pubblica. Nel dopoguerra per milioni di italiani avviati a uscire da un mondo rurale spesso primitivo, la parrocchia, l’oratorio, furono una palestra di acculturazione civile, di una certa appropriatezza di modi, di rispetto delle competenze e dei ruoli, di avviamento alle regole di una non belluina convivenza. Opera in parte analoga svolse la scuola. Ancora sicura di sé, della sua funzione e del suo buon diritto a esercitarla, la scuola istruì, valse a sottolineare senza remore l’indiscutibile centralità della cultura e dello studio, educò alle forme basilari della modernità e delle istituzioni dello Stato così come alla disciplina e al rispetto dell’autorità. A un dipresso le medesime cose fece l’esercito di leva, in più addestrando in molti casi al valore della competenza, alla coesione in vista di un traguardo collettivo, alla solidarietà di gruppo, al carattere inevitabile di una gerarchia. Infine vi fu la televisione pubblica. Padrona monopolistica dell’immaginario del Paese, essa si propose di esserne la grande pedagoga. E lo fu: in un modo che oggi fa sorridere ma lo fu. Divulgò la lingua nazionale, diffuse un’informazione sapientemente calibrata, cercò d’ispirarsi per tutto il resto alla buona cultura, al «sano» divertimento, ai «buoni» sentimenti, a una morale cautamente in equilibrio tra vecchio e nuovo. Il tutto all’insegna della compostezza e delle buone maniere: perfino i conduttori dei telequiz si rivolgevano alla «signora Longari» chiamandola per l’appunto signora. Intendiamoci, non è che l’Italia d’allora fosse una specie di idilliaco piccolo mondo antico: tutt’altro. Ma fino agli anni 80 la nostra rimase comunque una società strutturata intorno a istituzioni formative consistenti: ciascuna animata a suo modo dalla consapevolezza di avere un compito da svolgere e decisa a svolgerlo. Un compito — questo mi sembra oggi molto importante — svincolato nel suo perseguimento e per i suoi obiettivi sia dal mercato sia dai desiderata del pubblico. In questo senso, infatti, né la Chiesa, né la scuola, né l’esercito, né la televisione di Bernabei potevano certo dirsi istituzioni democratiche: tanto meno del resto pensavano di doverlo essere. Ma proprio perciò esse assolvevano un compito prezioso per la democrazia liberale. La quale, per l’appunto, sopravvive solo se esistono degli ambiti della società che non obbediscono alle sue regole. Se esistono degli ambiti, delle istituzioni, dove non vigono né il principio del consenso dal basso né la regola della maggioranza. Solo a queste condizioni, infatti, possono aversi due conseguenze decisive: da un lato la produzione di un sapere realmente libero, — fatto cioè di analisi, di idee e valori condizionati solo dalla personale ricerca della verità — e dall’altra la formazione di vere élite del merito. Solo a queste condizioni si crea un ambiente sociale e un’atmosfera psicologica dove di regola l’ultima parola non l’abbiano, da soli o coalizzati, chi alza più la voce, chi possiede più ricchezze o chi ha dalla sua il maggior numero. Un ambiente sociale e un’atmosfera dove al potere della politica e dell’economia (o della demagogia e della corruzione che sono i loro frequenti sottoprodotti) siano in grado di contrapporsi gerarchie diverse. Dove al potere della politica e della ricchezza fanno da contrappeso il condizionamento della formazione culturale, i vincoli dell’etica, il giudizio dell’opinione pubblica informata. Come invece sono andate le cose si sa. L’Italia ha visto quelle istituzioni di cui dicevo sopra — per varie ragioni e in vari modi, ma più o meno nello stesso giro di anni, a partire dagli anni 80-90 — scomparire. Scomparire, intendo, nelle forme che esse avevano un tempo (o come la leva cancellate del tutto), per essere sostituite dalle forme nuove richieste dai «gusti del pubblico», dagli «indici di ascolto», dai sindacati, dai «movimenti», dalle «attese delle famiglie», dalle «comunità di base», dalla «pace», dai «tempi della pubblicità», dai «bisogni dei ragazzi», dal desiderio dei vertici di non dispiacere a nessuno. È così da due-tre decenni il Paese è rimasto privo di qualunque sede pubblica deputata alla formazione non solo e non tanto culturale ma specialmente del carattere e della sensibilità civile, all’insegnamento di quei valori in definitiva morali su cui si regge la convivenza sociale. Coltivando un’idea fasulla di modernità e di libertà l’Italia ha assistito, addirittura compiaciuta, al progressivo smantellamento di istituzioni che alimentavano la democrazia con il flusso vitale del sapere disinteressato, della tradizione, della possibilità dell’autoriconoscimento collettivo. Ci siamo avviati in tal modo ad essere una società senza veri legami, spesso selvatica e analfabeta, ogni volta che convenga frantumata in un individualismo carognesco e prepotente. L’Italia di oggi insomma, illusa e inconsapevole del brutto Paese che essa ormai sta diventando.
I bei tempi andati? Non esistono. Erano violenti, sessisti e sporchi. Un libro di Michel Serres smonta i luoghi comuni degli anti-moderni, scrive Massimiliano Parente, Martedì 21/08/2018, su "Il Giornale". Ogni giorno in Italia qualcuno dice: «Si stava meglio quando si stava peggio». Ma davvero si stava meglio? E quando? C'è chi elogia il passato, in genere i vecchi che rimpiangono la propria giovinezza, o gli anni Sessanta, o gli anni Cinquanta, e chi addirittura i tempi in cui non era nato: «Mi sarebbe piaciuto vivere negli anni Trenta!». In realtà sono sempre errori della nostra percezione, della nostalgia senile, e spesso anche della nostra scarsa conoscenza del passato. Anni fa uscì un bellissimo saggio dello storico Piero Melograni, La modernità e i suoi nemici (Mondadori), che passava al setaccio tutte le ideologie antimoderne e le visioni idealizzate del passato. Lo scienziato Steven Pinker nel frattempo ha pubblicato un lungo studio, Il declino della violenza (Mondadori), per dimostrare come, al contrario di quanto credano molte persone, la violenza sia diminuita progressivamente nella Storia (ma basta leggere anche il diario di Giacomo Leopardi, che in visita a Roma notava come non fosse possibile uscire di notte senza rischiare di essere uccisi). In questi giorni esce per Bollati Boringhieri un pamphlet intitolato Contro i bei tempi andati dell'epistemologo Michel Serres. L'autore ha ottant'anni, ma non rimpiange niente del suo passato, né del passato in generale. Anzi, in ogni pagina, tra autobiografia e dati storici, ci tiene a mostrare che più andiamo indietro, più il passato fa schifo. A cominciare dalle due guerre mondiali, che hanno insanguinato l'Europa (e erano nate, fra l'altro, da movimenti antimoderni e anticapitalisti come fascismo e comunismo). Viceversa stiamo vivendo da settant'anni il più lungo periodo di pace mai visto nel mondo, «cosa mai accaduta, almeno nell'Europa occidentale, dai tempi dell'Iliade o della Pax Romana». Abbiamo sconfitto epidemie mortali, considerando che «le statistiche dicono che, in tempi più antichi, il numero dei morti per malattie infettive superava di gran lunga quello delle vittime di guerra». Serres elogia le conquiste delle vaccinazioni (malgrado oggi in Italia si torni indietro, abolendo l'obbligo di vaccinarsi). Oggi si parla di razzismo al minimo episodio di cronaca, dimenticando che una volta, poco più di un secolo fa, si pretendeva di dimostrare scientificamente come i negri fossero delle scimmie non evolute, e ai tempi di Mussolini e di Hitler si pubblicavano tranquillamente riviste razziste e antisemite. E l'inquinamento? L'aria dell'Ottocento era molto più inquinata di quella di oggi, e ai tempi di Serres «senza alcuna restrizione le fabbriche spargevano le loro immondizie nell'atmosfera o nel mare, nella Senna, nel Reno, nel Rodano, e le petroliere ripulivano le cisterne in mare aperto». Quanto alla medicina, non esistevano gli antibiotici, si moriva di sifilide e tubercolosi, «come capitò a tutti i grandi uomini illustri del XIX secolo, Schubert, Maupassant o Nietzsche», e non esisteva la sanità pubblica, i poveri soffrivano e morivano senza cure, e i ricchi non se la passavano meglio. Serres, nato nel 1930, ricorda di nuovo come l'assenza di vaccinazioni «lasciò molti dei miei amici segnati dalla poliomelite», e di come l'OMS sia riuscita a eradicare il vaiolo a livello mondiale. Sentiamo molte persone dire che la vita moderna fa male, che i cibi moderni sono cancerogeni, che la vita di una volta era più sana, e spopola l'ideologia del bio e del ritorno all'alimentazione «genuina» di un tempo. Talmente genuina che ci si lasciava la pelle. Serres ricorda come il latte non pastorizzato, munto direttamente dal contadino, spesso portasse malattie e febbri terribili (di cui si ammalò anche lui), mentre oggi i cibi industriali sono molto più controllati (non per altro i casi di botulismo avvengono sempre con il «fatto in casa»). E di come la durata della vita media alla nascita nel corso di un secolo sia quadruplicata. «Da quando sono nato a oggi, in Francia la speranza di vita ha più di ottant'anni, mentre poco prima quanti figli bisognava mettere al mondo per conservarne due o tre?».
Non parliamo dell'igiene, non ci si lavava mai. Neppure le ostetriche si lavavano le mani e le madri morivano di febbre puerperale. Le lenzuola si cambiavano due volte all'anno, le camicie si portavano finché non diventavano nere, e «lo sciacquone del gabinetto venne inventato a Londra, alla fine del XIX secolo e si diffuse cinquant'anni dopo; una volta si pisciava dove si poteva, si cacava dappertutto, un po' come oggi in India si pratica la open defacation». Quanto alle donne, credono di essere discriminate oggi, e accusano di molestie sessuali perfino chi le guarda, mentre prima non solo le donne non avevano diritto di voto, ma se una donna veniva stuprata era colpa sua, altro che #metoo. «Le cifre riguardanti gli abusi sessuali sulle adolescenti all'interno della famiglia sono state rese pubbliche solo di recente, e da poco abbiamo scoperto che ogni due giorni una donna moriva a causa delle sevizie del marito, e che due bambini ogni settimana spiravano per mano dei genitori». Speriamo che chi invoca ogni giorno la famiglia tradizionale non si riferisca a questa, perché questa è stata la famiglia umana dall'antichità a meno di un secolo fa. E dunque, si stava meglio quando si stava peggio? No, quando si stava peggio si stava peggio e basta. E pensare che al governo c'è un movimento fondato sulla filosofia della «decrescita felice» e sulla Piattaforma Rousseau. Sì, Jean-Jacques Rousseau, quello del mito del Buon Selvaggio. Io vorrei come minimo una Piattaforma Steve Jobs.
Ultimi della classe (dirigente). Non ci sono in Italia istituzioni politiche, scientifiche o formative unificanti, scrive Francesco Alberoni, Domenica 08/07/2018, su "Il Giornale". Una classe dirigente, ci insegna il grande sociologo Vilfredo Pareto, è formata da tutti coloro che eccellono nella loro attività. Quindi i politici più abili, i giudici più saggi, i giornalisti più ascoltati, i presentatori più seguiti, ma anche gli imprenditori, gli economisti, gli artisti, i registi, gli scrittori, i filosofi, gli scienziati, i professionisti più eminenti. E ha le sue radici nel passato. Il Paese che più di ogni altro ci ha fornito il modello di una grande classe dirigente è stata l'Inghilterra dove c'è stato sempre l'irrompere del nuovo ma anche la sopravvivenza dei poteri tradizionali e il permanere delle grandi istituzioni unificanti. L'Inghilterra è il Paese che innalzava colonne all'eroe Orazio Nelson mentre lasciava morire di fame Lady Hamilton, che glorificava Winston Churchill mentre lo mandava a casa nelle elezioni. Ma anche un Paese che da secoli ha istituzioni scientifico-culturali come la Royal Society, le università di Oxford e di Cambridge e il collegio di Eton dove si è formata la classe dirigente inglese. Non esiste nulla di simile in Italia dove storicamente si sono succeduti gruppi politico ideologici diversi: prima i liberali, poi i fascisti a cui seguono nel dopoguerra i comunisti e i cattolici. Poi la crisi di Mani pulite che ha fatto emergere il potere della magistratura. In seguito, si formano o movimenti o raggruppamenti attorno a un capo come Berlusconi, Prodi, Renzi, Grillo e ora Salvini. Sono gruppi ristretti, formati da amici, conoscenti, simpatizzanti e «clienti» che egemonizzano il potere e creano istituzioni per loro stessi da cui escludono gli altri. Non ci sono in Italia istituzioni politiche o scientifiche o formative unificanti, non c'è una vera, unica classe dirigente. E sembra che a livello popolare non se ne senta neppure l'esigenza. Il politico non viene eletto per ciò che ha dimostrato di sapere fare e non gli si chiede di avere una formazione culturale adeguata. Grillo arriva a sostenere che i parlamentari dovrebbero essere estratti a sorte tra i cittadini. Questa divisione delle élite lascia il potere in mano alla burocrazia che non ha valori, non ha mete, ostacola la creazione e tende solo a crescere su se stessa.
I bulli che umiliano la cultura. Si va diffondendo l'idea che, con una disoccupazione così elevata, sia inutile studiare, scrive Francesco Alberoni Domenica 06/05/2018, su "Il Giornale". Si va diffondendo l'idea che, con una disoccupazione giovanile così elevata, sia inutile studiare, inutile imparare, inutile prendere bei voti perché tanto, si dice, nella vita si affermano i forti, i corrotti, i violenti, quelli che sanno dominare gli altri, imporre il loro volere. È questo il pensiero che sta dietro il diffondersi del bullismo in tutte le sue forme. Dal piccolo gruppo di studenti che domina sugli altri, deride e si beffa dei più deboli, li mette a tacere, fino ai gruppi più aggressivi che offendono ed insultano anche i professori in modo che perdano agli occhi dei loro allievi l'ultima autorità loro rimasta. E così denigrano la cultura, il sapere, l'unica forza che nel mondo moderno fa avanzare tanto gli individui che i popoli. Gli individui, perché emergono solo coloro che fanno le scuole e le università migliori e i popoli perché solo alcuni hanno i centri di ricerca più avanzati, gli studiosi più apprezzati e una ferrea organizzazione del lavoro. E questo modo di pensare disastroso si afferma anche in politica col principio anarchico che «uno vale uno» quindi chiunque, anche il più fannullone e ignorante, può dirigere un Paese moderno e affrontare le bufere geopolitiche di oggi. Bisogna riporre in primo piano l'idea che lo strumento fondamentale con cui gli esseri umani lottano, si affermano, si rendono utili agli altri, è il sapere, la cultura. In tutte le forme: scientifica, artistica musicale, linguistica, come capacità di scrivere e di parlare, di calcolare e di prevedere. Ma voi provate a domandare alla gente che cosa desidera. Vi risponderà che desidera viaggiare, fare crociere, una nuova macchina, una barca, un nuovo televisore. Nessuno vi risponde che desidera imparare la matematica, il diritto, le lingue, l'economia, la biologia o l'informatica. Le spese per svago e per divertimenti superano paurosamente le spese culturali. Ci sono ancora persone che leggono libri? Solo una minoranza, quella che studia con fermezza e costituirà la futura élite internazionale. E gli altri? Gli altri saranno tutti dei disoccupati e dei sottoproletari. Basta, cambiate direzione, datevi da fare. Siete ancora in tempo, per poco.
Vuoi scrivere un libro? Leggine cento, scrive il 16 aprile 2018 Paolo Gambi su “Il Giornale”.
“Se scrivo la mia storia vinco il Nobel per la letteratura”.
“Ti racconto il libro che ho in testa, tu lo scrivi e dividiamo gli utili”.
“La mia vita è così incredibile che voglio farne un romanzo da un milione di copie”.
Da quando faccio lo scrittore più o meno ogni giorno vengo approcciato da qualcuno con una frase del genere. La qual cosa mi lusinga molto: ciascuno di noi è un intreccio di parole che si sono fatte carne e pensare di metterle per iscritto, e di chiedere il mio aiuto per farlo, è per me fonte di soddisfazione ed autostima. E contando che ho scritto libri molto diversi che partono dai romanzi e arrivano a biografie di personaggi molto disparati – dal Cardinal Tonini a Raoul Casadei – non trovo strano che ci sia chi mi interpella. Infatti da qualche tempo a questa parte ho deciso di iniziare a costruire una risposta a chi mi pone queste domande. Solo che se poi alle stesse persone che vogliono scrivere un libro chiedo: “qual è l’ultimo libro che hai letto?”, la risposta di solito è qualcosa come:
“Non mi ricordo, alla sera guardo la televisione”.
“È da quando ero alle superiori che non leggo più”.
“Dai valà, non posso mica perdere il mio tempo così”.
Che è un po’ come se qualcuno volesse vincere la medaglia d’oro alle Olimpiadi per i 100 metri stile libero ma si rifiutasse di andare in piscina ad allenarsi. I dati sulla lettura in Italia continuano ad essere impietosi. Sei italiani su dieci, nel 2016, non hanno letto neppure un libro in un anno. Tutti vogliono scrivere. Pochissimi vogliono leggere. Allora, è meraviglioso sognare di diventare la nuova Rowling o scrivere delle nuove sfumature di grigio (possibilmente meno disgustose) impastate con la propria storia. Però se vuoi scrivere un libro inizia a leggerne almeno cento.
Saviano a Salvini: “Ministro della malavita”. La propaganda fa proseliti e voti. Sei ricco? Sei mafioso! Il condizionamento psicologico mediatico-culturale lava il cervello e diventa ideologico, erigendo il sistema di potere comunista. Cosa scriverebbero gli scrittori comunisti senza la loro Mafia e cosa direbbero in giro per le scuole a far proselitismo comunista? Quale film girerebbero i registi comunisti antimafiosi? Come potrebbero essere santificati gli eroi intellettuali antimafiosi? Quali argomenti affronterebbero i talk show comunisti e di cosa parlerebbero i giornalisti comunisti nei TG? Cosa scriverebbero e vomiterebbero i giornalisti comunisti contro gli avversari senza la loro Mafia? Cosa comizierebbero i politici comunisti senza la loro Mafia? Quali processi si istruirebbero dai magistrati eroi antimafiosi senza la loro mafia? Cosa farebbero i comunisti senza la loro Mafia ed i beni della loro Mafia? Di cosa camperebbero le associazioni antimafiose comuniste? Cosa esproprierebbero i comunisti senza l'alibi della mafiosità? La Mafia è la fortuna degli antimafiosi. Se non c'è la si inventa e si infanga un territorio. Mafia ed Antimafia sono la iattura del Sud Italia dove l’ideologia del povero contro il ricco attecchisce di più. Sciagura antimafiosa che comincia ad espandersi al Nord Italia per colpa della crisi economica creata da antimafia e burocrazia. Più povertà per tutti, dicono i comunisti.
Saviano è il vero intoccabile. Vietato fare satira su di lui. Chi ha provato a scherzare sullo scrittore, da Zalone ai comici Luca e Paolo, è stato subito messo a tacere, scrive Nino Materi, Lunedì 25/06/2018, su "Il Giornale". Scherza con i santi, ma lascia stare Saviano. Giù le mani da Roberto. E poco importa se la mano è quella - innocua - che potresti mettere davanti alla bocca, magari solo per soffocare un inizio di risata. Perché in Italia si può fare ironia su tutti (compresi Papa e presidente della Repubblica), eccetto che sullo scrittore di Gomorra. Chi si è cimentato con la sua parodia, ha subito avvertito la stessa piacevole sensazione di mettere le dita in una presa di corrente. Insomma, Saviano come i fili dell'alta tensione. E una bella scossa, nel corso degli anni, se la sono presa i pochi coraggiosi che hanno tentato di imitarlo comicamente. Niente di pesante, per carità: appena una bonaria presa in giro del suo eloquio da santone in perenne trance sciamanica; del suo incedere messianico sulle acque procellose dell'antimafia; delle sue pause meditative da salvatore della patria in servizio h24; del suo grattarsi la pelata come se pensieri e preoccupazioni fossero solo una sua esclusiva; del suo sapiente gesticolare ostentando più anelli di J-Ax e Fedez messi insieme. Un minimo sindacale satirico che, tuttavia, si è rivelato più che sufficiente per far scendere il «guitto» di turno a più miti consigli. Lo sa bene il grande Checco Zalone che, in uno show televisivo, vestì i panni di uno sfigatissimo Saviano cui tutte le ragazze davano il due di picche «perché la camorra ha il monopolio della f...». Saviano (personaggio che notoriamente non brilla per autoironia), invece di riderci su, si risentì. E con lui si attapirarono tutti i suoi fan secondo i quali «ironizzare su Saviano equivale a fare un favore ai camorristi». Risultato: Checco Zalone, da quella volta, non si «permise» mai più di imitare lo scrittore più scortato del mondo. Stessa parabola censoria anche per il duo comico Luca e Paolo che, addirittura dal palco del Festival di Sanremo, si azzardarono a punzecchiare Roberto, ricordandogli come alcune delle sue denunce equivalessero un po' alla scoperta dell'acqua calda. Apriti cielo. I due artisti furono immediatamente redarguiti dal rigoroso «funzionario Rai» che suggerì loro di «occuparsi d'altro». Meno clamorosa, ma altrettanto deciso il consiglio a «non insistere sull'argomento» indirizzato al cabarettista Sergio Friscia, «reo» di animare un Saviano un po' troppo bozzettistico. La stessa «colpa» attribuita pure ad altri due colleghi di Friscia: Cristian Calabrese, autore di uno sketch dal titolo dissacratorio, Zero Zero Zero ed Enzo Costanza protagonisti di una serie di video esilaranti, ma ritenuti non propriamente savianolly correct. In questi casi non risulta un intervento diretto del giornalista finalizzato a zittire i suoi epigoni parodistici, ma alcune sue dichiarazioni esprimono bene il concetto che Saviano ha rispetto alla creatività umoristica: «La creatività fa, non commenta. E i The Jackal ne sono un esempio». Ma perché mai ai comici dovrebbe essere precluso il diritto al «commento»? e, poi, chi sono «The Jackal»? Al primo quesito Saviano non ha mai risposto; facile invece la risposta al secondo: si tratta di un gruppo di brillanti filmaker che devono il successo a video-parodie cliccatissime su youtube, la più celebre delle quali è: Gli effetti di Gomorra sulla gente. In questo caso, per non correre rischi, Saviano ha voluto prendere parte direttamente ad alcuni ciak. Motivo? I maligni dicono: «Per accertarsi di non essere preso in giro». Intanto lui, un giorno sì e l'altro pure, dà del «buffone», «razzista» e «codardo» al ministro dell'Interno. A offese invertite, Salvini sarebbe già stato costretto alle dimissioni.
LA RAI, YOUTUBE E LA CENSURA.
Può la Rai, servizio pubblico di un’azienda di Stato, finanziata con il canone e le tasse dei cittadini, vantare diritti esclusivi di diritto d'autore su fatti di cronaca ed impedire la divulgazione di notizie di interesse pubblico e violare le norme internazionali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright?
Tutto inizia e finisce con una E-mail.
Venerdì 18/05/2018 19:40 da YouTube <accounts-noreply@youtube.com> ad ANTONIO GIANGRANDE <presidente@ingiustizia.info>: [Avviso di rimozione per violazione del copyright] Il tuo account YouTube verrà disattivato tra 7 giorni.
Salve ANTONIO GIANGRANDE, In seguito a una richiesta di rimozione per violazione del copyright siamo stati costretti a rimuovere il tuo video da YouTube: Titolo del video: Sarah Scazzi. Il processo. 1ª parte. La scomparsa.
Rimozione richiesta da: RAI. Questo significa che non sarà più possibile riprodurre il video su YouTube. Hai ricevuto un avvertimento sul copyright. Al momento hai 3 avvertimenti sul copyright. Per questo motivo, è prevista la disattivazione del tuo account tra 7 giorni. Il tuo canale rimarrà pubblicato per i prossimi 7 giorni per consentirti di cercare una soluzione e mantenerlo attivo. Se ritieni di non essere in torto in uno o più casi sopra descritti, puoi fare ricorso inviando una contronotifica. Durante l'elaborazione della contronotifica, il tuo account non verrà disattivato. Tieni presente che l'invio di una contronotifica con informazioni false può comportare gravi conseguenze legali. Puoi inoltre contattare l'utente che ha rimosso il tuo video e chiedergli di ritirare la richiesta di rimozione. Durante questo periodo, non potrai caricare nuovi video e gli avvertimenti sul tuo account non scadranno.
Risposta: Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. Infatti sono autore del libro che racconta della vicenda. A tal fine posso assemblarle o per fare una rassegna stampa. In ogni caso le immagini sono di utilizzo pubblico così come stabilito dal tribunale di Taranto in virtù del decreto dell’autorizzazione esclusiva alle telecamere di “Un Giorno in Pretura” con obbligo di condividere i filmati con gli altri media. Su questo filmato altre rivendicazioni analoghe sono state ritirate in seguito alla stessa contestazione. E comunque, stante che il filmato è già stato rimosso da youtube, si chiede alla signoria vostra di ritirare l’avvertimento, affinchè l’intero canale “Antonio Giangrande” con 387 video di Pubblico Interesse non venga disattivato.
Insomma non si presenta la contronotifica, per minaccia di azioni legali del colosso Rai e si genuflette per un diritto.
Ma Youtube non si ferma qua. Già, sul portale di informazione ed approfondimento in oggetto, pagava solo 1 decimo di tutti i video di cui si era chiesto la monetizzazione. E non solo a quel portale.
YouTube: perché (quasi) nessuno ci guadagna davvero? Scrivono Milena Gabanelli e Andrea Marinelli il 25 giugno 2018 su "Il Corriere della Sera". Un luogo comune dell’era digitale vuole che basti un po’ di ingegno per fare soldi su YouTube. Guardando i dati però, la realtà è un’altra: il 97 per cento degli YouTuber non riesce a superare i 10.000 euro all’anno. In Gran Bretagna, però, un minorenne su tre sogna di diventare una star del servizio video di Google — addirittura il triplo rispetto a chi sogna di fare il dottore — e di imitare DanTdm, un gamer ventiseienne che lo scorso anno ha incassato 16,5 milioni di dollari giocando ai videogiochi, oppure Zoella, che ha 28 anni e guadagna circa 50 mila sterline al mese pubblicando video su come si veste e si trucca. Tutti pensano che questi soldi li facciano con la pubblicità, ma è vero solo in parte.
Il 97% degli YouTuber non batte chiodo. Google non rivela i numeri esatti, ma secondo le stime i canali YouTube al mondo sono all’incirca 1 miliardo. Di questi, stando a uno studio dell’Università di Offenburg, in Germania, il 97 per cento non batte un chiodo. Il 2 per cento riceve almeno 1,4 milioni di visite al mese e galleggia invece attorno alla soglia di povertà, incassando all’incirca 16.800 dollari all’anno. A guadagnarci davvero è il restante 1 per cento, che ottiene fra i 2 e i 42 milioni di visualizzazioni ogni mese. Secondo l’autore della ricerca Mathias Bartl, professore di Scienze Applicate e fra i primi a esaminare i dati di YouTube, «avere successo nella nuova Hollywood è difficile quanto in quella vecchia». E il risultato è che puoi avere mezzo milione di follower su YouTube, ma essere costretto a lavorare da McDonald’s per mantenerti.
Un milione di visualizzazioni vale 1.000 dollari. La pubblicità su YouTube, infatti, porta all’incirca 1 dollaro ogni 1.000 visualizzazioni (a volte 50 centesimi, altre 5 dollari: dipende dai casi e i dati non sono pubblici). Un milione di visualizzazioni si trasforma dunque in appena 1.000 dollari al mese. Questo però se la pubblicità viene guardata: siccome molti installano programmi che la bloccano e altri la saltano appena parte, la società di marketing britannica Penna Powers calcola che alla fine soltanto il 15% la vedono realmente. E così un milione di visualizzazioni si trasforma in 150.000, e 1.000 dollari diventano appena 150.
Come fare i soldi su internet. In sostanza, Internet è un ottimo palcoscenico per avere visibilità, ma poi bisogna saper approdare alle sponsorizzazioni, ai libri o alle trasmissioni televisive da cui ricevere un cachet: è da lì che arrivano i soldi veri di star come Sofia Viscardi — dal cui libro Succede è appena stato tratto un film omonimo, uscito in Italia a inizio aprile — o Favij, che ha raggiunto il primo posto nella classifica della narrativa italiana con il romanzo fantasy The Cage – Uno di noi mente, pubblicato da Mondadori Electa. Il discorso vale anche per Instagram, che è di proprietà di Facebook: il grosso dei corposi incassi di Chiara Ferragni o Mariano Di Vaio, gli influencer italiani con più follower su Instagram, arriva proprio da sponsorizzazioni e accordi commerciali. Per guadagnarci, quindi, bisogna essere bravi imprenditori.
YouTube ha cambiato l’algoritmo. Non è un caso che la stessa società di streaming voglia aiutare i creatori di contenuti a guadagnare di più, ma anche loro vogliono farlo tramite sponsorizzazioni o programmi di commenti a pagamento: più paghi, più in evidenza saranno le tue parole. A questa situazione contribuisce anche l’algoritmo di YouTube: nel 2006 il 3% dei canali più seguiti totalizzava il 64% delle visualizzazioni totali del sito. Dieci anni più tardi raggiunge il 90%. In pratica, YouTube ha cambiato l’algoritmo per far circolare di più i video migliori, penalizzando tutti gli altri. Recentemente, ha anche stabilito che per poter guadagnare con la pubblicità è necessario avere almeno 1.000 follower e 4.000 ore di visualizzazioni nell’ultimo anno, complicando ulteriormente la strada verso il successo.
Uno su mille ce la fa. Insomma, ce la fanno in pochi, chi ce la fa sempre invece è YouTube, che vuol dire Google, che vuol dire un fatturato globale da 100 miliardi di dollari nel 2017, e 60 miliardi parcheggiati nei paradisi fiscali offshore. In Italia incassa in pubblicità circa 1,5 miliardi di euro all’anno, ma le tasse le paga in Irlanda, al 12,5 per cento. Alla fine anche da noi il colosso californiano è stato costretto a lasciare qualcosa: 306 milioni. Ma solo dopo l’intervento dell’Agenzia delle Entrate e della Procura di Milano.
California, a sparare una youtuber: «Era arrabbiata perché la società le aveva sospeso i pagamenti». Il padre della donna che ha aperto il fuoco, Nasim Aghdam: «Odiava la società». Aghdam, 39 anni scriveva: «Non c'è libertà di parola», scrive Marta Serafini il 4 aprile 2018 su "Il Corriere della Sera". Era arrabbiata perché «YouTube aveva smesso di pagarla per i video che pubblicava sulla piattaforma». Gli investigatori scavano nel passato di Nasim Aghdam, 39 anni, attivista vegana e animalista residente a San Diego, che ha fatto fuoco nel campus di San Bruno ferendo tre persone per poi togliersi la vita. A confermare l’ipotesi che la donna fosse furibonda con YouTube, il padre Ismail Aghdam che in un’intervista ad un giornale locale ha spiegato come la figlia fosse sparita lunedì e non rispondesse al telefono da due giorni. «Era arrabbiata perché YouTube aveva sospeso tutto, li odiava», ha dichiarato l’uomo. L’ipotesi è la società avesse sospeso i pagamenti o a causa dei contenuti inappropriati dei filmati postati dalla donna o a causa di un calo dei follower. Secondo la Nbc un suo filmato era stato censurato da YouTube e secondo il New York Times tutti i suoi canali erano stati rimossi martedì notte. Il 20 febbraio YouTube ha stabilito nuove regole che escludono dalla monetizzazione i canali con meno di 10.000 abbonati e meno di 4.000 ore di visualizzazione e probabilmente i filmati di Aghdam sono rientrati in questo giro di vite.
Cos'è accaduto e chi era la donna. Aghdam, di origini iraniane, aveva una presenza sul web «rilevante», un sito internete postava video dal 2011 con il nickname di Nasim Wonderl e sul suo sito. Il contenuto variava: dalle ricette vegane, passando per le parodie musicali, fino ai commenti contro la violenza sugli animali e gli esercizi di bodybuilding. «Tutti i miei video sono autoprodotti senza l'aiuto di nessuno», scriveva orgogliosa. Aghdam si sarebbe lamentata più volte pubblicamente perché alcuni suoi post erano stati vietati ai minori, un trattamento che la stessa youtuber aveva denunciato non essere applicato a filmati dai contenuti più espliciti come i video clip di Miley Cyrus. «Non c’è libertà di parola nel mondo e verrai perseguitata per aver detto la verità», scriveva. Su Instagram il 18 marzo si lamentava di nuovo della censura di YouTube. La donna era anche un’attivista della Peta e manifestava a favore dei diritti degli animali. «Per me gli animali devono avere gli stessi diritti degli esseri umani», diceva a Los Angeles Times nel 2009.
YouTube sta rendendo più restrittive le regole che consentono agli iscritti di inserire pubblicità nei propri video e di guadagnare soldi. Lo scopo principale dell’iniziativa è quello garantire agli inserzionisti che i propri spot non finiscano all’interno di contenuti inappropriati o con immagini disturbanti, come avvenuto in passato.
La novità è stata annunciata dalla stessa azienda con un post sul blog “YouTube creators”: a partire da ieri, per iscriversi al “Programma partner” sono necessari almeno 1000 iscritti al proprio canale e 4000 ore di visualizzazione nell’arco degli ultimi 12 mesi.
“Le nuove regole ci permetteranno di migliorare in maniera significativa la nostra capacità di individuare i canali che contribuiscono positivamente alla nostra community e ci aiuteranno a generare maggiori entrate pubblicitarie per loro (e a tenerci lontano dai "cattivi attori"). Questi standard più elevati ci aiuteranno anche a evitare che i video potenzialmente inappropriati possano monetizzare, danneggiando i ricavi per tutti”, hanno spiegato Neal Mohan, chief product officer e Robert Kyncl, chief business officer. In precedenza, il requisito minimo per accedere al programma era quello delle 10mila visualizzazioni complessive. La differenza sembra sostanziale: a pagarne le conseguenze saranno sicuramente i canali più piccoli, che non attraggono un pubblico vasto ma che fino due giorni fa potevano guadagnare e perlomeno sostenere la realizzazione dei propri video. Prima di diventare famosi e raggiungere i requisiti richiesti, adesso gli aspiranti Youtuber dovranno trovare delle strade alternative per finanziare i propri progetti. YouTube pensa ovviamente ai propri interessi: un paio di mesi fa, aveva perso milioni di dollari di ricavi, in seguito alla decisione di alcuni inserzionisti – tra i quali Adidas, Mars, Deutsche Bank – di lasciare la piattaforma dopo essersi ritrovati la propria pubblicità sui dei video disseminati di commenti pedofili.
Come sottolinea il sito d’informazione The Next Web, l’approccio sembra contraddittorio: i nuovi criteri rendono la vita più difficile ai canali con pochi iscritti e visualizzazioni, lasciando tuttavia uno spiraglio ai trasgressori che distribuiscono contenuti inappropriati, ma che hanno successo. YouTube pensa di risolvere la questione affidandosi non solo alla metrica quantitativa, ma anche alle segnalazioni che arrivano dalla community e a metodologie di rilevazione di spam o altri abusi più efficaci.
L’annuncio arriva a distanza di una settimana della vicenda che ha coinvolto Logan Paul: il famoso Youtuber, apprezzatissimo tra i teenager, aveva condiviso il video di un suicidio avvenuto in Giappone. A rimuovere il contenuto però non era stato YouTube, bensì il suo stesso creatore. Con le identiche modalità era scomparso il video caricato qualche mese fa da PewPewDie – che con i suoi 12 milioni di dollari è tra le 10 star più pagate del Tubo nel 2017 – nel quale comparivano due uomini a petto nudo che avevano in mano un cartello con la scritta “Death to All Jews”. I due episodi, in particolare, hanno spinto YouTube a modificare anche le regole di Google Preferred, la soluzione di advertising dedicata ai canali più popolari (circa il 5% del totale): tutti i contenuti del programma saranno valutati da un moderatore e approvati manualmente. Se da un lato le mosse appaiono logiche e sensate, soprattutto per non perdere la fiducia degli inserzionisti e milioni di ricavi dalla pubblicità, dall’altro non si può fare a meno di notare che che la nuova policy, rischia di stroncare sul nascere i sogni di migliaia aspiranti youtuber e di rendere esclusiva una piattaforma che ha fatto invece dell’inclusività uno dei fattori chiave del suo successo.
Le migliori alternative a YouTube, scrive "1and1". YouTube è il campione indiscusso tra i portali video e può tranquillamente essere definito come il leader del settore. Con oltre un miliardo di utenti, secondo i dati forniti dalla compagnia stessa, quasi un terzo di tutta l’utenza Internet naviga su YouTube. È indubbio che la piattaforma da tempo sia stata riconosciuta anche come un efficace strumento di marketing. I video sono caricabili con pochi click e tramite la generazione automatica di un codice HTML sono facilmente postabili su siti web esterni. Inoltre, dal 2010, quando YouTube e SIAE hanno firmato un accordo riguardo ai video musicali e ai proventi generati dalle visualizzazioni di questi, è diventato ancora più difficile per la concorrenza. Dunque è lecito porsi la seguente domanda: quali alternative ci sono a YouTube?
Le alternative attive a YouTube presentate in questo articolo sono cinque e sono Vimeo, Dailymotion, Veoh, Vevo e Flickr. Questi quattro servizi offrono agli utenti privati ed a coloro che li utilizzano per lavoro molte possibilità diverse, come guardare e mettere a disposizione contenuti eccezionali.
Dailymotion è un portale video di origine francese, che rappresenta una delle migliori alternative a YouTube in termine di numero utenti, soprattutto nel suo paese di origine. Nel 2015 il servizio ha registrato una utenza attiva del 23%. Comparando a livello internazionale, nessun altro servizio raggiunge un valore simile. In Francia infatti Dailymotion si trova secondo solo a YouTube, che ha una utenza attiva del 57%. Ad ogni modo, anche in altri paesi Dailymotion si trova al secondo posto dietro a YouTube. La compagnia calcola i suoi utenti in giro per il globo attorno ai 300 milioni. Mensilmente vengono visualizzati 3,5 miliardi di video su Dailymotion. In Italia Dailymotion riceve 6 milioni di unique viewers al mese, registrando un totale di circa 65 milioni di visualizzazioni tra tutti i tipi di dispositivi. Dailymotion punta principalmente sulle specifiche di upload: con file video fino a 2GB e 60 minuti di durata. Vengono supportati numerosi formati video e audio, così che è possibile scegliere tra file con estensione .mov, .mpeg4, .mp4, .avi e .wmv. Come codec video e audio vengono consigliati rispettivamente H.264 e AAC con un frame rate di 25FPS. La risoluzione massima possibile è 1080p (Full HD). In questo modo il portale si confà anche agli uploader più esigenti; i file di grandi dimensioni sono ben accetti tanto quanto lo è una qualità convincente dell’immagine. Il layout, di colore blu e bianco, è semplice e comodo da utilizzare. L’ordine degli elementi è decisamente orientato a quello di YouTube, che ha il vantaggio, che anche i principianti riescono a raccapezzarci qualcosa sin da subito. Anche l’integrazione e la condivisione dei video su piattaforme esterne è semplice; con un click il codice HTML corretto viene automaticamente generato. Ci sono inoltre ulteriori funzioni per i cosiddetti partner, i quali hanno la possibilità di guadagnare soldi con Dailymotion esattamente come su YouTube. Anche con Dailymotion si può monetizzare con i video, personalizzare il player e controllare i proventi attraverso il tool di analisi. Perciò Dailymotion è una delle migliori alternative a YouTube particolarmente per i blogger, che vogliono mettere i propri contenuti a disposizione solo a pagamento o che vogliono offrire dei contenuti premium separati. Chi ad esempio vuole usufruire della monetizzazione offerta da Dailymotion per un sito web, può sia attivare il proprio sito sia incorporare un dispositivo speciale del provider. Alcuni partner rinomati hanno già preso parte a questo programma, e tra questi vi sono ad esempio la CNN, la Süddeutsche Zeitung e la Deutsche Welle. Anche la vasta scelta di App di Dailymotion risulta piacevole. L’alternativa a YouTube è presente con apposite App su molte Smart TV, set-top box o sulla Playstation 4 della Sony, e può essere guardata comodamente dal divano di casa. Il servizio può essere utilizzato anche da dispositivo mobile con applicazioni iOS, Android o Windows.
Dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Il Potere ti impone: subisci e taci…e noi, coglioni, subiamo la divisione per non poterci ribellare.
Bisogna studiare.
Bisogna cercare le fonti credibili ed attendibili per poter studiare.
Bisogna studiare oltre la menzogna o l’omissione per poter sapere.
Bisogna sapere il vero e non il falso.
Bisogna non accontentarsi di sapere il falso per esaudire le aspirazioni personali o di carriera, o per accondiscendere o compiacere la famiglia o la società.
Bisogna sapere il vero e conoscere la verità ed affermarla a chi è ignorante o rinfacciarla a chi è in malafede.
Studiate “e conoscerete la verità, e la verità vi renderà liberi” (Gesù. Giovanni 8:31, 32).
Studiare la verità rende dotti, saggi e LIBERI!
Non studiare o non studiare la verità rende schiavi, conformi ed omologati.
E ciò ci rende cattivi, invidiosi e vendicativi.
Fa niente se studiare il vero non è un diritto, ma una conquista.
Vincere questa guerra dà un senso alla nostra misera vita.
Dr Antonio Giangrande
Immigrazione/emigrazione. Dimmi dove vai, ti dirò chi sei.
L'immigrato/emigrato italiano o straniero è colui il quale si è trasferito, per costrizione o per convenienza, per vivere in un altro luogo diverso da quello natio.
Soggetti: L’immigrato arriva, l’emigrato parte. La definizione del trasferito la dà colui che vive nel luogo di arriva o di partenza. Chi resta è geloso della sua terra, cultura, usi e costumi. Chi arriva o parte è invidioso degli altri simili. Al ritorno estemporaneo al paese di origine gli emigrati, per propria vanteria, per spirito di rivalsa e per denigrare i conterranei di origine, tesseranno le lodi della nuova cultura, con la litania “si vive meglio là, là è diverso”, senza, però, riproporla al paese di origine, ma riprendendo, invece, le loro vecchie e cattive abitudini. Questi disperati non difendono o propagandano la loro cultura originaria, o gli usi e costumi della terra natia, per il semplice motivo che da ignoranti non li conoscono. Dovrebbero conoscere almeno il sole, il mare, il vento della loro terra natia, ma pare (per soldi) preferiscano i monti, il freddo e la nebbia della terra che li ospita.
Tempo: il trasferimento può essere temporaneo o permanente. Se permanente le nuove generazioni dei partenti si sentiranno appartenere al paese natio ospitante.
Luoghi di arrivo: città, regioni, nazioni diverse da quelle di origine.
Motivo del trasferimento: economiche (lavoro, alimentari, climatiche ed eventi naturali); religiose; ideologiche; sentimentali; istruzione; devianza.
Economiche: Lavoro (assente o sottopagato), alimentari, climatiche ed eventi naturali (mancanza di cibo dovute a siccità o a disastri naturali (tsunami, alluvioni, terremoti, carestie);
Religiose: impossibilità di praticare il credo religioso (vitto ed alloggio decente garantito);
Ideologiche: impossibilità di praticare il proprio credo politico (vitto ed alloggio decente garantito);
Sentimentali: ricongiungimento con il proprio partner (vitto ed alloggio decente garantito);
Istruzione: frequentare scuole o università o stage per elevare il proprio grado culturale (vitto ed alloggio decente garantito);
Devianza: per sfuggire alla giustizia del paese di origine o per ampliare i propri affari criminali nei paesi di destinazione (vitto ed alloggio decente garantito).
Il trasferimento per lavoro garantito: individuo vincitore di concorso pubblico (dirigente/impiegato pubblico); trasfertista (assegnazione temporanea fuori sede d’impresa); corrispondente (destinazione fuori sede di giornalisti o altri professionisti). Chi si trasferisce con lavoro garantito ha il rispetto della gente locale indotto dal timore e rispetto del ruolo che gli compete, fatta salva ogni sorta di ipocrisia dei locali che maschera il dissenso all’invasione dell’estraneo. Inoltre il lavoro garantito assicura decoroso vitto e alloggio (nonostante il caro vita) e civile atteggiamento dell’immigrato, già adottato nel luogo d’origine e dovuto al grado di scolarizzazione e cultura posseduto.
Il trasferimento per lavoro da cercare in loco di destinazione: individuo nullafacente ed incompetente. Chi si trasferisce per lavoro da cercare in loco di destinazione appartiene ai ceti più infimi della popolazione del paese d’origine, ignari di solidarietà e dignità. Costui non ha niente da perdere e niente da guadagnare nel luogo di origine. Un volta partiva con la valigia di cartone. Non riesce ad inserirsi come tutti gli altri, per mancanza di rapporti adeguati amicali o familistici, nel circuito di conoscenze che danno modo di lavorare. Disperati senza scolarizzazione e competenza lavorativa specifica. Nel luogo di destinazione faranno quello che i locali non vorrebbero più fare (dedicarsi agli anziani, fare i minatori o i manovali, lavorare i campi ed accudire gli animali, fare i lavapiatti nei ristoranti dei conterranei, lavare le scale dei condomini, fare i metronotte o i vigilanti, ecc.). Questo tipo di manovalanza assicura un vergognoso livello di retribuzione e, di conseguenza, un livello sconcio di vitto ed alloggio (quanto guadagnano a stento basta per sostenere le spese), oltre l’assoggettamento agli strali più vili e razzisti della popolazione ospitante, che darà sfogo alla sua vera indole. Anche da parte di chi li usa a scopo politico o ideologico. Questi disperati subiranno tacenti le angherie e saranno costretti ad omologarsi al nuovo stile di vita. Lo faranno per costrizione a timore di essere rispediti al luogo di origine, anche se qualcuno tenta di stabilire la propria discultura in terra straniera anche con la violenza.
Ecco allora è meglio dire: Dimmi come vai, ti dirò chi sei.
Il limite del tempo e dell'uomo, scrive Vittorio Sgarbi, Giovedì 28/12/2017, su "Il Giornale". «Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l'una di non saper nulla, l'altra di non esser nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte». Un pensiero di Leopardi dallo Zibaldone. Inadatto al clima natalizio, ma terribilmente vero. Forse la forza di un pensiero così chiaro dissolve le nostre illusioni, ma ci impegna a dimenticarlo, per fingere che la nostra vita abbia un senso. Perché vivere altrimenti? L'insensatezza della nostra azione si misura con la brevità del tempo. Da tale pensiero è sfiorato anche Dante, che non dubitava di Dio, ma misurava il nostro limite rispetto al tempo: «Se tu riguardi Luni e Urbisaglia/come sono ite e come se ne vanno/di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,/udir come le schiatte si disfanno/non ti parrà nuova cosa né forte,/poscia che le cittadi termine hanno./Le vostre cose tutte hanno lor morte,/sì come voi; ma celasi in alcuna/che dura molto, e le vite son corte». Se tutto finisce, perché noi dovremmo sopravviverci? E se ci fosse qualcosa dopo la morte, che limite dovremmo porvi? I nati e i morti, prima di Cristo, gli egizi e i greci, con le loro religioni, che spazio dovrebbero avere, nell'aldilà che non potevano presumere? La vita dopo la morte toccherebbe anche agli inconsapevoli? Con Dante e Leopardi, all'inferno incontreremo anche Marziale e Catullo? O la vita oltre la morte non sono già, come per Leopardi, i loro versi?
Buon Primo maggio. La festa dei nullafacenti.
Editoriale del Dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, che sul tema ha scritto alcuni saggi di approfondimento come "Uguaglianziopoli. L'Italia delle disuguaglianze" e "Caporalato. Ipocrisia e speculazione".
Il primo maggio è la festa di quel che resta dei lavoratori e da un po’ di anni, a Taranto, si festeggiano i lavoratori nel senso più nefasto della parola. Vogliono mandare a casa migliaia di veri lavoratori, lasciando sul lastrico le loro famiglie. Il Governatore della Puglia Michele Emiliano, i No Tap, i No Tav, il comitato “Liberi e Pensanti”, un coacervo di stampo grillino, insomma, non chiedono il risanamento dell’Ilva, nel rispetto del diritto alla salute, ma chiedono la totale chiusura dell’Ilva a dispregio del diritto al lavoro, che da queste parti è un privilegio assai raro.
Vediamo un po’ perché li si definisce nullafacenti festaioli?
Secondo l’Istat gli occupati in Italia sono 23.130.000. Ma a spulciare i numeri qualcosa non torna.
Prendiamo come spunto il programma "Quelli che... dopo il TG" su Rai 2. Un diverso punto di vista, uno sguardo comico e dissacrante sulle notizie appena date dal telegiornale e anche su ciò che il TG non ha detto. Conduttori Luca Bizzarri, Paolo Kessisoglu e Mia Ceran. Il programma andato in onda il primo maggio 2018 alle ore 21,05, dopo, appunto, il Tg2.
«Primo maggio festa dei lavoratori. Noi abbiamo pensato una cosa: tutti questi lavoratori che festeggiano, vediamo tutte ste feste. Allora noi ci siamo chiesti: Quanti sono quelli che lavorano in Italia. Perchè saranno ben tanti no?
Siamo 60.905.976 (al 21 ottobre 2016). Però facciamo così.
Togliamo quelli sotto i sei anni: 3.305.574 = 57.600.402 che lavorano;
Togliamo quelli sopra gli ottant’anni: 4.264.308 = 53.336.094 che lavorano;
Togliamo gli scolari, gli studenti e gli universitari: 10.592. 685 = 42.743.409 che lavorano;
Togliamo i pensionati e gli invalidi: 19.374.168 = 23.369.241 che lavorano;
Togliamo anche artisti, sportivi ed animatori: 3.835.674 = 19.533.567 che lavorano;
Togliamo ancora assenteisti, furbetti del cartellino, forestali siciliani, detenuti e falsi invalidi: 9.487.331 = 10.046.236 che lavorano;
Togliamo blogger, influencer e social media menager: 2.234.985 = 7.811.251 che lavorano;
Togliamo spacciatori, prostitute, giornalisti, avvocati, (omettono magistrati, notai, maestri e professori), commercialisti, preti, suore e frati: 5.654.320 = 2.156.931 che lavorano;
Ultimo taglietto, nobili decaduti, neo borbonici, mantenuti, direttori e dirigenti Rai: 1.727.771 = 429.160 che lavorano».
Questo il conto tenuto da Luca e Paolo con numeri verosimili alle fonti ufficiali, facilmente verificabili. In verità a loro risulta che a rimanere a lavorare sono solo loro due, ma tant’è.
Per non parlare dei disoccupati veri e propri che a far data aprile 2018 si contano così a 2.835.000.
In aggiunta togliamo i 450.000 dipendenti della pubblica amministrazione dei reparti sicurezza e difesa. Quelli che per il pronto intervento li chiami ed arrivano quando più non servono.
Togliamo ancora malati, degenti e medici (con numero da precisare) come gli operatori del reparto di ortopedia e traumatologia dell’Ospedale di Manduria “Giannuzzi”. In quel reparto i ricoverati, più che degenti, sono detenuti in attesa di giudizio, in quanto per giorni attendono quell’intervento, che prima o poi arriverà, sempre che la natura non faccia il suo corso facendo saldare naturalmente le ossa rotte.
A proposito di saldare. A questo punto non solo non ci sono più lavoratori, ma bisogna aspettare quelli futuri per saldare il conto.
Al primo maggio, sembra, quindi, che a conti fatti, i nullafacenti vogliono festeggiare a modo loro i pochi veri lavoratori rimasti, condannandoli alla disoccupazione. Ultimi lavoratori rimasti, che, bontà loro, non fanno più parte nemmeno della numerica ufficiale.
Quel che si rimembra non muore mai. In effetti il fascismo rivive non negli atti di singoli imbecilli, ma quotidianamente nell’evocazione dei comunisti.
Una locuzione latina, un motto degli antichi romani, è: dividi et impera! Espediente fatto proprio dal Potere contemporaneo, dispotico e numericamente modesto, per controllare un popolo, provocando rivalità e fomentando discordie.
Comunisti, e media a loro asserviti, istigano le rivalità.
Dove loro vedono donne o uomini, io vedo persone con lo stesso problema.
Dove loro vedono lgbti o eterosessuali, io vedo amanti con lo stesso problema.
Dove loro vedono bellezza o bruttezza, io vedo qualcosa che invecchierà con lo stesso problema.
Dove loro vedono madri o padri, io vedo genitori con lo stesso problema.
Dove loro vedono comunisti o fascisti, io vedo elettori con lo stesso problema.
Dove loro vedono settentrionali o meridionali, io vedo cittadini italiani con lo stesso problema.
Dove loro vedono interisti o napoletani, io vedo tifosi con lo stesso problema.
Dove loro vedono ricchi o poveri, io vedo contribuenti con lo stesso problema.
Dove loro vedono poveri da aiutare, io vedo degli incapaci o degli sfaticati, ma, in specialmodo, vedo persone a cui è impedita la possibilità di emergere dall’indigenza per ragioni ideologiche o di casta o di lobby.
Dove loro vedono immigrati o indigeni, io vedo residenti con lo stesso problema.
Dove loro vedono pelli bianche o nere, io vedo individui con lo stesso problema.
Dove loro vedono cristiani o mussulmani, io vedo gente che nasce senza volerlo, muore senza volerlo e vive una vita di prese per il culo.
Dove loro vedono colti od analfabeti, io vedo discultura ed oscurantismo, ossia ignoranti con lo stesso problema.
Dove loro vedono grandi menti o grandi cazzi, io vedo geni o cazzoni con lo stesso problema.
Gattopardismo. Vocabolario on line Treccani. Gattopardismo s. m. (anche, meno comunem., gattopardite s. f.). – Nel linguaggio letterario e giornalistico, l’atteggiamento (tradizionalmente definito come trasformismo) proprio di chi, avendo fatto parte del ceto dominante o agiato in un precedente regime, si adatta a un nuova situazione politica, sociale o economica, simulando d’esserne promotore o fautore, per poter conservare il proprio potere e i privilegi della propria classe. Il termine, così come la concezione e la prassi che con esso vengono espresse, è fondato sull’affermazione paradossale che «tutto deve cambiare perché tutto resti come prima», che è l’adattamento più diffuso con cui viene citato il passo che nel romanzo Il Gattopardo (v. la voce prec.) si legge testualmente in questa forma «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi» (chi pronuncia la frase non è però il principe di Salina ma suo nipote Tancredi).
Se questa è democrazia…
I nostri politici sono solo mediocri amministratori improvvisati assetati di un potere immeritato. Governanti sono coloro che prevedono e governano gli eventi, riformando ogni norma intralciante la modernità ed il progresso, senza ausilio di leggi estemporanee ed improvvisate per dirimere i prevedibili imprevisti.
I liberali sono una parte politica atea e senza ideologia. Credono solo nella libertà, il loro principio fondante ed unico, che vieta il necessario e permette tutto a tutti, consentendo ai poveri, se capaci, di diventare ricchi. Io sono un liberale ed i liberali, sin dall’avvento del socialismo, sono mal tollerati perché contro lobbies e caste di incapaci. Con loro si avrebbe la meritocrazia, ma sono osteggiati dai giornalisti che ne inibiscono la visibilità.
I popolari (o populisti) sono la maggiore forza politica fondata sull’ipocrisia e sulle confessioni religiose. Vietano tutto, ma, allo stesso tempo, perdonano tutto, permettendo, di fatto, tutto a tutti. Sono l’emblema del gattopardismo. Con loro non cambia mai niente. Loro sono l’emblema del familismo, della raccomandazione e della corruzione, forte merce di scambio alle elezioni. Si infiltrano spesso in altre fazioni politiche impedendone le loro peculiari politiche ed agevolano il voltagabbanesimo.
I socialisti (fascisti e derivati; comunisti e derivati) sono una forza politica ideologica e confessionale di natura scissionista e frammentista e falsamente moralista, a carattere demagogico ed ipocrita. Cattivi, invidiosi e vendicativi. La loro confessione, più che ideologia, si fonda sul lavoro, sulle tasse e sul fisco. Rappresenterebbe la classe sociale meno abbiente. Illude i poveri di volerli aiutare, carpendone i voti fiduciari, ma, di fatto, impedisce loro la scalata sociale, livellando in basso la società civile, verso un progressivo decadimento, in quanto vieta tutto a tutti, condanna tutto e tutti, tranne a se stessi. Si caratterizzano dalla abnorme produzione normativa di divieti e sanzioni, allargando in modo spropositato il tema della legalità, e dal monopolio culturale. Con loro cambierebbe in peggio, in quanto inibiscono ogni iniziativa economica e culturale, perché, senza volerlo si vivrebbe nell’illegalità, ignorando, senza colpa, un loro dettato legislativo, incorrendo in inevitabili sanzioni, poste a sostentare il parassitismo statale con la prolificazione di enti e organi di controllo e con l’allargamento dell’apparato amministrativo pubblico. L’idea socialista ha infestato le politiche comunitarie europee.
Per il poltronificio l’ortodossia ideologica ha ceduto alla promiscuità ed ha partorito un sistema spurio e depravato, producendo immobilismo, oppressione fiscale, corruzione e raccomandazione, giustizialismo ed odio/razzismo territoriale.
La gente non va a votare perché il giornalismo prezzolato e raccomandato propaganda i vecchi tromboni e la vecchia politica, impedendo la visibilità alle nuove idee progressiste. La Stampa e la tv nasconde l’odio della gente verso questi politici. Propagandano come democratica l’elezione di un Parlamento votato dalla metà degli elettori Ed un terzo di questo Parlamento è formato da un movimento di protesta. Quindi avremo un Governo di amministratori (e non di governanti) che rappresenta solo la promiscuità, e la loro riconoscente parte amicale, ed estremamente minoritaria.
I giornalisti in ogni dove, ormai, esprimono opinioni partigiane del cazzo. In relazione alle elezioni politiche del 4 marzo 2018 alcuni di loro dicono che il movimento 5 stelle ha sfondato al sud con i voti dei nullafacenti per il reddito di cittadinanza: ossia la perpetuazione dell’assistenzialismo. Allora dovrebbe essere vero, anche, che al nord ha stravinto il razzismo della Lega di Salvini, il cui motto era: "Neghèr föra da i ball", ossia immigrati (che hanno preso il posto dei meridionali) tornino a casa loro. La verità è che l’opinione dei giornalisti vale quella degli avventori al bar; con la differenza che i primi sono pagati per dire stronzate, i secondi pagano loro la consumazione durante le loro discussioni ignoranti.
A chi votare?
Nell’era contemporanea non si vota per convinzione. Le ideologie sono morte e non ha senso rivangare le guerre puniche o la carboneria o la partigianeria.
Chi sa, a chi deve votare (per riconoscenza), ci dice che comunque bisogna votare e votare il meno peggio (che implicitamente è sottinteso: il suo candidato!).
A costui si deve rispondere:
Votare a chi non ci rappresenta? Votare a chi ci prende per il culo?
I disonesti parlano di onestà; gli incapaci parlano di capacità; i fannulloni parlano di lavoro; i carnefici parlano di diritti.
Nessuno parla di libertà. Libertà di scegliersi il futuro che si merita. Libertà di essere liberi, se innocenti.
La vergogna è che nessuno parla dei nostri figli a cui hanno tolto ogni speranza di onestà, capacità, lavoro e diritti.
Fanno partecipare i nostri figli forzosamente ed onerosamente a concorsi pubblici ed a Esami di Stato (con il trucco) per il sogno di un lavoro. Concorsi od esami inani o che mai supereranno. Partecipazione a concorsi pubblici al fine di diventare piccoli “Fantozzi” sottopagati ed alle dipendenze di un numero immenso di famelici incapaci cooptati dal potere e sostenuti dalle tasse dei pochi sopravvissuti lavoratori.
Ai nostri figli inibiscono l’esercizio di libere professioni per ingordigia delle lobbies.
Ai nostri figli impediscono l’esercizio delle libere imprese per colpa di una burocrazia ottusa e famelica. Ove ci riuscissero li troncherebbero con l’accusa di mafiosità.
Ai nostri figli impediscono di godere della vita, impedendo la realizzazione dei loro sogni o spezzando le loro visioni, infranti contro un’accusa ingiusta di reato.
E’ innegabile che le nostre scuole e le nostre carceri sono pieni, come sono strapieni i nostri uffici pubblici e giudiziari, che si sostengono sulle disgrazie, mentre sono vuoti i nostri campi e le nostre fabbriche che ci sostentano.
L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. E non sarei mai votato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Si deve tener presente che il voto nullo, bianco o di protesta è conteggiato come voto dato.
Quindi io non voto.
Non voto perché un popolo di coglioni votanti sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.
Informato da chi mette in onda le proprie opinioni, confrontandole esclusivamente con i propri amici o con i propri nemici. Ignorata rimane ogni voce fuori dal coro.
Se nessuno votasse?
In democrazia, se la maggioranza non vota, ai governanti oppressori ed incapaci sarebbe imposto di chiedersi il perché! Allora sì che si inizierebbe a parlare di libertà. Ne andrebbe della loro testa…
Se questa è democrazia. Questo non lo dico io…Giorgio Gaber: In un tempo senza ideali nè utopia, dove l'unica salvezza è un'onorevole follia...Testo Destra-Sinistra - 1995/1996
Le parole, definiscono il mondo, se non ci fossero le parole, non avemmo la possibilità di parlare, di niente. Ma il mondo gira, e le parole stanno ferme, le parole si logorano invecchiano, perdono di senso, e tutti noi continuiamo ad usarle, senza accorgerci di parlare, di niente.
Tutti noi ce la prendiamo con la storia
ma io dico che la colpa è nostra
è evidente che la gente è poco seria
quando parla di sinistra o destra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Fare il bagno nella vasca è di destra
far la doccia invece è di sinistra
un pacchetto di Marlboro è di destra
di contrabbando è di sinistra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Una bella minestrina è di destra
il minestrone è sempre di sinistra
quasi tutte le canzoni son di destra
se annoiano son di sinistra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Le scarpette da ginnastica o da tennis
hanno ancora un gusto un po’ di destra
ma portarle tutte sporche e un po’ slacciate
è da scemi più che di sinistra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
I blue-jeans che sono un segno di sinistra
con la giacca vanno verso destra
il concerto nello stadio è di sinistra
i prezzi sono un po’ di destra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
La patata per natura è di sinistra
spappolata nel purè è di destra
la pisciata in compagnia é di sinistra
il cesso é sempre in fondo a destra.
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
La piscina bella azzurra e trasparente
è evidente che sia un po’ di destra
mentre i fiumi tutti i laghi e anche il mare
sono di merda più che sinistra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
L’ideologia, l’ideologia
malgrado tutto credo ancora che ci sia
è la passione l’ossessione della tua diversità
che al momento dove è andata non si sa
dove non si sa dove non si sa.
Io direi che il culatello è di destra
la mortadella è di sinistra
se la cioccolata svizzera é di destra
la nutella é ancora di sinistra.
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
La tangente per natura è di destra
col consenso di chi sta a sinistra
non si sa se la fortuna sia di destra
la sfiga è sempre di sinistra.
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Il saluto vigoroso a pugno chiuso
è un antico gesto di sinistra
quello un po’ degli anni '20 un po’ romano
è da stronzi oltre che di destra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
L’ideologia, l’ideologia
malgrado tutto credo ancora che ci sia
è il continuare ad affermare un pensiero e il suo perché
con la scusa di un contrasto che non c’è
se c'é chissà dov'è se c'é chissà dov'é.
Canticchiar con la chitarra è di sinistra
con il karaoke è di destra
I collant son quasi sempre di sinistra
il reggicalze é più che mai di destra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
La risposta delle masse è di sinistra
con un lieve cedimento a destra
Son sicuro che il bastardo è di sinistra
il figlio di puttana è a destra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Una donna emancipata è di sinistra
riservata è già un po’ più di destra
ma un figone resta sempre un’attrazione
che va bene per sinistra o destra.
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Tutti noi ce la prendiamo con la storia
ma io dico che la colpa é nostra
é evidente che la gente é poco seria
quando parla di sinistra o destra.
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Destra sinistra
Destra sinistra
Destra sinistra
Destra sinistra
Destra sinistra
Basta!
Dall'album E Pensare Che C'era Il Pensiero.
E comunque non siamo i soli a dirlo…Rino Gaetano Nuntereggae più, 1978.
Nuntereggae più
Abbasso e alè (NUNTEREGGAEPIU')
abbasso e alè (NUNTEREGGAEPIU')
abbasso e alè con le canzoni
senza fatti e soluzioni
la castità (NUNTEREGGAEPIU')
la verginità (NUNTEREGGAEPIU')
la sposa in bianco, il maschio forte
i ministri puliti, i buffoni di corte
ladri di polli
super pensioni (NUNTEREGGAEPIU')
ladri di stato e stupratori
il grasso ventre dei commendatori
diete politicizzate
evasori legalizzati (NUNTEREGGAEPIU')
auto blu
sangue blu
cieli blu
amore blu
rock and blues
NUNTEREGGAEPIU'
Eja alalà (NUNTEREGGAEPIU')
pci psi (NUNTEREGGAEPIU')
dc dc (NUNTEREGGAEPIU')
pci psi pli pri
dc dc dc dc
Cazzaniga (NUNTEREGGAEPIU')
Avvocato Agnelli, Umberto Agnelli
Susanna Agnelli, Monti, Pirelli
dribbla Causio che passa a Tardelli
Musiello, Antognoni, Zaccarelli (NUNTEREGGAEPIU')
Gianni Brera (NUNTEREGGAEPIU')
Bearzot (NUNTEREGGAEPIU')
Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio
Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno
Villaggio, Raffa, Guccini
onorevole eccellenza, cavaliere senatore
nobildonna, eminenza, monsignore
vossia, cherie, mon amour
NUNTEREGGAEPIU'
Immunità parlamentare (NUNTEREGGAEPIU')
abbasso e alè
il numero 5 sta in panchina
s'è alzato male stamattina
mi sia consentito dire (NUNTEREGGAEPIU')
il nostro è un partito serio
disponibile al confronto
nella misura in cui
alternativo
aliena ogni compromess
ahi lo stress
Freud e il sess
è tutto un cess
ci sarà la ress
se quest'estate andremo al mare
solo i soldi e tanto amore
e vivremo nel terrore che ci rubino l'argenteria
è più prosa che poesia
dove sei tu? non m'ami più?
dove sei tu? io voglio tu
soltanto tu dove sei tu?
NUNTEREGGAEPIU'
Uè paisà (NUNTEREGGAEPIU')
il bricolage (NUNTEREGGAEPIU')
il quindici-diciotto
il prosciutto cotto
il quarantotto
il sessantotto
le pitrentotto
sulla spiaggia di Capocotta
(Cartier Cardin Gucci)
Portobello e illusioni
lotteria trecento milioni
mentre il popolo si gratta
a dama c'è chi fa la patta
a settemezzo c'ho la matta
mentre vedo tanta gente
che non c'ha l'acqua corrente
non c'ha niente
ma chi me sente
ma chi me sente
e allora amore mio ti amo
che bella sei
vali per sei
ci giurerei
ma è meglio lei
che bella sei
che bella lei
ci giurerei
sei meglio tu
che bella sei
che bella sei
NUNTEREGGAEPIU'
L’astensione al voto non basta. Come la protesta non può essere delegata ad una accozzaglia improvvisata ed impreparata. Bisogna fare tabula rasa dei vecchi principi catto comunisti, filo massonici-mafiosi.
Noi siamo un unicum con i medesimi problemi, che noi stessi, conoscendoli, possiamo risolvere. In caso contrario un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.
Ed io non sarò tra quei coglioni che voteranno dei coglioni.
La legalità è un comportamento conforme alla legge. Legalità e legge sono facce della stessa medaglia.
Nei regimi liberali l’azione normativa per intervento statale, per regolare i rapporti tra Stato e cittadino ed i rapporti tra cittadini, è limitata. Si lascia spazio all’evolvere naturale delle cose. La devianza è un’eccezione, solo se dannosa per l'equilibrio sociale.
Nei regimi socialisti/comunisti/populisti l’intervento statale è inflazionato da miriadi di leggi, oscure e sconosciute, che regolano ogni minimo aspetto della vita dell’individuo, che non è più singolo, ma è massa. Il cittadino diventa numero di pratica amministrativa, di cartella medica, di fascicolo giudiziario. Laddove tutti si sentono onesti ed occupano i posti che stanno dalla parte della ragione, c’è sempre quello che si sente più onesto degli altri, e ne limita gli spazi. In nome di una presunta ragion di Stato si erogano miriadi di norme sanzionatrici limitatrici di libertà, spesso contrastati, tra loro e tra le loro interpretazioni giurisprudenziali. Nel coacervo marasma normativo è impossibile conformarsi, per ignoranza o per necessità. Ne è eccezione l'indole. Addirittura il legislatore è esso medesimo abusivo e dichiarato illegittimo dalla stessa Corte Costituzionale, ritenuto deviante dalla suprema Carta. Le leggi partorite da un Parlamento illegale, anch'esse illegali, producono legalità sanzionatoria. Gli operatori del diritto manifestano pillole di competenza e perizia pur essendo essi stessi cooptati con concorsi pubblici truccati. In questo modo aumentano i devianti e si è in pochi ad essere onesti, fino alla assoluta estinzione. In un mondo di totale illegalità, quindi, vi è assoluta impunità, salvo l'eccezione del capro espiatorio, che ne conferma la regola. Ergo: quando tutto è illegale, è come se tutto fosse legale.
L’eccesso di zelo e di criminalizzazione crea un’accozzaglia di organi di controllo, con abuso di burocrazia, il cui rimedio indotto per sveltirne l’iter è la corruzione.
Gli insani ruoli, politici e burocratici, per giustificare la loro esistenza, creano criminali dove non ne esistono, per legge e per induzione.
Ergo: criminalizzazione = burocratizzazione = tassazione-corruzione.
Allora, si può dire che è meglio il laissez-faire (il lasciare fare dalla natura delle cose e dell’animo umano) che essere presi per il culo e …ammanettati per i polsi ed espropriati dai propri beni da un manipolo di criminali demagoghi ed ignoranti con un’insana sete di potere.
Prendiamo per esempio il fenomeno cosiddetto dell'abusivismo edilizio, che è elemento prettamente di natura privata. I comunisti da sempre osteggiano la proprietà privata, ostentazione di ricchezza, e secondo loro, frutto di ladrocinio. Sì, perchè, per i sinistri, chi è ricco, lo è perchè ha rubato e non perchè se lo è guadagnato per merito e per lavoro.
Il perchè al sud Italia vi è più abusivismo edilizio (e per lo più tollerato)? E’ presto detto. Fino agli anni '50 l'Italia meridionale era fondata su piccoli borghi, con case di due stanze, di cui una adibita a stalla. Paesini da cui all’alba si partiva per lavorare nelle o presso le masserie dei padroni, per poi al tramonto farne ritorno. La masseria generalmente non era destinata ad alloggio per i braccianti.
Al nord Italia vi erano le Cascine a corte o Corti coloniche, che, a differenza delle Masserie, erano piccoli agglomerati che contenevano, oltre che gli edifici lavorativi e magazzini, anche le abitazioni dei contadini. Quei contadini del nord sono rimasti tali. Terroni erano e terroni son rimasti. Per questo al Nord non hanno avuto la necessità di evolversi urbanisticamente. Per quanto riguardava gli emigrati bastava dargli una tana puzzolente.
Al Sud, invece, quei braccianti sono emigrati per essere mai più terroni. Dopo l'ondata migratoria dal sud Italia, la nuova ricchezza prodotta dagli emigranti era destinata alla costruzione di una loro vera e bella casa in terra natia, così come l'avevano abitata in Francia, Germania, ecc.: non i vecchi tuguri dei borghi contadini, nè gli alveari delle case ringhiera o dei nuovi palazzoni del nord Italia. Inoltre quei braccianti avevano imparato un mestiere, che volevano svolgere nel loro paese di origine, quindi avevano bisogno di costruire un fabbricato per adibirlo a magazzino o ad officina. Ma la volontà di chi voleva un bel tetto sulla testa od un opificio, si scontrava e si scontra con la immensa burocrazia dei comunisti ed i loro vincoli annessi (urbanistici, storici, culturali, architettonici, archeologici, artistici, ambientali, idrogeologici, di rispetto, ecc.), che inibiscono ogni forma di soluzione privata. Ergo: per il diritto sacrosanto alla casa ed al lavoro si è costruito, secondo i canoni di sicurezza e di vincoli, ma al di fuori del piano regolatore generale (Piano Urbanistico) inesistente od antico, altrimenti non si potrebbe sanare con ulteriori costi sanzionatori che rende l’abuso antieconomico. Per questo motivo si pagano sì le tasse per una casa od un opificio, che la burocrazia intende abusivo, ma che la stessa burocrazia non sana, nè dota quelle costruzioni, in virtù delle tasse ricevute e a tal fine destinate, di infrastrutture primarie: luce, strade, acqua, gas, ecc.. Da qui, poi, nasce anche il problema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. Burocrazia su Burocrazia e gente indegna ed incapace ad amministrarla.
Per quanto riguarda, sempre al sud, l'abusivismo edilizio sulle coste, non è uno sfregio all'ambiente, perchè l'ambiente è una risorsa per l'economia, ma è un tentativo di valorizzare quell’ambiente per far sviluppare il turismo, come fonte di sviluppo sociale ed economico locale, così come in tutte le zone a vocazione turistica del mediterraneo, che, però, la sinistra fa fallire, perchè ci vuole tutti poveri e quindi, più servili e assoggettabili. L'ambientalismo è una scusa, altrimenti non si spiega come al nord Italia si possa permettere di costruire o tollerare costruzioni alle pendici dei monti, o nelle valli scoscese, con pericolo di frane ed alluvioni, ma per gli organi di informazione nazionale, prevalentemente nordisti e razzisti e prezzolati dalla sinistra, è un buon viatico, quello del tema dell'abusivismo e di conseguenza della criminalità che ne consegue, o di quella organizzata che la si vede anche se non c'è o che è sopravalutata, per buttare merda sulla reputazione dei meridionali.
Prima della rivoluzione francese “L’Ancien Régime” imponeva: ruba ai poveri per dare ai ricchi.
Erano dei Ladri!!!
Dopo, con l’avvento dei moti rivoluzionari del proletariato e la formazione ideologica/confessionale dei movimenti di sinistra e le formazioni settarie scissioniste del comunismo e del fascismo, si impose il regime contemporaneo dello stato sociale o anche detto stato assistenziale (dall'inglese welfare state). Lo stato sociale è una caratteristica dei moderni stati di diritto che si fondano sul presupposto e inesistente principio di uguaglianza, in quanto possiamo avere uguali diritti, ma non possiamo essere ritenuti tutti uguali: c’è il genio e l’incapace, c’è lo stakanovista e lo scansafatiche, l’onesto ed il deviante. Il capitale di per sé produce reddito, anche senza il fattore lavoro. Lavoro e capitale messi insieme, producono ricchezza per entrambi. Il lavoro senza capitale non produce ricchezza. Il ritenere tutti uguali è il fondamento di quasi tutte le Costituzioni figlie dell’influenza della rivoluzione francese: Libertà, Uguaglianza, Solidarietà. Senza questi principi ogni stato moderno non sarebbe possibile chiamarlo tale. Questi Stati non amano la meritocrazia, né meritevoli sono i loro organi istituzionali e burocratici. Il tutto si baratta con elezioni irregolari ed a larga astensione e con concorsi pubblici truccati di cooptazione. In questa specie di democrazia vige la tirannia delle minoranze. L’egualitarismo è una truffa. E’ un principio velleitario detto alla “Robin Hood”, ossia: ruba ai ricchi per dare ai poveri.
Sono dei ladri!!!
Tra l’antico regime e l’odierno sistema quale è la differenza?
Sempre di ladri si tratta. Anzi oggi è peggio. I criminali, oggi come allora, saranno coloro che sempre si arricchiranno sui beoti che li acclamano, ma oggi, per giunta, ti fanno intendere di fare gli interessi dei più deboli.
Non diritto al lavoro, che, come la manna, non cade dal cielo, ma diritto a creare lavoro. Diritto del subordinato a diventare titolare. Ma questo principio di libertà rende la gente libera nel produrre lavoro e ad accumulare capitale. La “Libertà” non è statuita nell’articolo 1 della nostra Costituzione catto comunista. Costituzioni che osannano il lavoro, senza crearne, ma foraggiano il capitale con i soldi dei lavoratori.
Le confessioni comuniste/fasciste e clericali ti insegnano: chiedi e ti sarà dato e comunque, subisci e taci!
Io non voglio chiedere niente a nessuno, specie ai ladri criminali e menzogneri, perché chi chiede si assoggetta e si schiavizza nella gratitudine e nella riconoscenza.
Una vita senza libertà è una vita di merda…
Cultura e cittadinanza attiva. Diamo voce alla piccola editoria indipendente.
Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Una lettura alternativa per l’estate, ma anche per tutto l’anno. L’autore Antonio Giangrande: “Conoscere per giudicare”.
"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI.
La collana editoriale indipendente “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” racconta un’Italia inenarrabile ed inenarrata.
È così, piaccia o no ai maestrini, specie quelli di sinistra. Dio sa quanto gli fa torcere le budella all’approcciarsi del cittadino comune, ai cultori e praticanti dello snobismo politico, imprenditoriale ed intellettuale, all’élite che vivono giustificatamente separati e pensosi, perennemente con la puzza sotto il naso.
Il bello è che, i maestrini, se è contro i loro canoni, contestano anche l’ovvio.
Come si dice: chi sa, fa; chi non sa, insegna.
In Italia, purtroppo, vigono due leggi.
La prima è la «meritocrazia del contenuto». Secondo questa regola tutto quello che non è dichiaratamente impegnato politicamente è materia fecale. La conseguenza è che, per dimostrare «l'impegno», basta incentrare tutto su un contenuto e schierarsene ideologicamente a favore: mafia, migranti, omosessualità, ecc. Poi la forma non conta, tantomeno la realtà della vita quotidiana. Da ciò deriva che, se si scrive in modo neutro (e quindi senza farne una battaglia ideologica), si diventa non omologato, quindi osteggiato o emarginato o ignorato.
La seconda legge è collegata alla prima. La maggior parte degli scrittori nostrani si è fatta un nome in due modi. Primo: rompendo le balle fin dall'esordio con la superiorità intellettuale rispetto alle feci che sarebbero i «disimpegnati».
Secondo modo per farsi un nome: esordire nella medietà (cioè nel tanto odiato nazional-popolare), per poi tentare il salto verso la superiorità.
Il copione lo conosciamo: a ogni gaffe di cultura generale scatta la presa in giro. Il problema è che a perderci sono proprio loro, i maestrini col ditino alzato. Perché è meno grave essere vittime dello scadimento culturale del Paese che esserne responsabili. Perché, nonostante le gaffe conclamate e i vostri moti di sdegno e scherno col ditino alzato su congiuntivi, storia e geografia, gli errori confermano a pieno titolo come uomini di popolo, gente comune, siano vittime dello scadimento culturale del Paese e non siano responsabili di una sub cultura menzognera omologata e conforme. Forse alla gente comune rompe il cazzo il sentire le prediche e le ironie di chi - lungi dall’essere anche solo avvicinabile al concetto di élite - pensa di saperne un po’ di più. Forse perché ha avuto insegnanti migliori, o un contesto famigliare un po’ più acculturato, o il tempo di leggere qualche libro in più. O forse perchè ha maggior dose di presunzione ed arroganza, oppure occupa uno scranno immeritato, o gli si dà l’opportunità mediatica immeritata, che gli dà un posto in alto e l’opportunità di vaneggiare.
Non c'è nessun genio, nessun accademico tra i maestrini. Del resto, mai un vero intellettuale si permetterebbe di correggere una citazione errata, tantomeno di prenderne in giro l'autore. Solo gente normale con una cultura normale pure loro, con una alta dose di egocentrismo, cresciuti a pane, magari a videocassette dell’Unità di Veltroni e citazioni a sproposito di Pasolini. Maestrini che vedono la pagliuzza negli occhi altrui, pagliuzza che spesso non c'è neppure, e non hanno coscienza della trave nei loro occhi o su cui sono appoggiati.
L'ITALIA ED IL DNA DEGLI ITALIANI.
La bella Italia di Aban feat. Marracash & Gue Pequeno
Ehi, è la mia nazione, niente cambia qua,
Marra, Guè Pequeno, vi porto a fare un giro nella Bella Italia
E dovrei leggere il giornale e guardare il tg, in tv,
per accorgermi che stato e mafia sono intimi,
Dogo Gang, lo sanno già tutti,
Southfam, lo sanno già tutti,
il peggio è che lo sanno già tutti.
Vengo al mondo con il piombo nel '79
con il cielo rosso sangue sopra la nazione
l'anno prima della bomba dentro la stazione
il Paese inginocchiato ai piedi del terrore
l'ambientazione non cambia quando passiamo agli '80
quando è lo stato assassino, sai non esiste condanna
basta una botta di pala per insabbiare la trama
e tutti morti ammazzati dentro le stragi in Italia
poi la nuova alleanza tra politica e mala
la faccia buona e pulita, la mano armata e insanguinata
i pilastri di cemento con i cristiani dentro
l'acido e le vasche, e il primo pentimento
sono gli anni dei maxi processi, la verità viene a galla
lo stato primo assassino, strinse la mano alla mala,
e se volevi lavorare dovevi pagare
l'impiegato, il sindaco, l'appalto comunale.
I nuovi clan del 90 sotto il nome d'azienda
i soldi sporchi riciclati dalle banche di Berna
la politica assassina che soffoca i cittadini
e ruba dallo stipendio per finanziare i partiti
i loro vizi esauditi col sangue degli operai
e i soldi delle pensioni che non bastano mai
12 teste al mese per ogni parlamentare
e 8000 euro all'anno per la fascia popolare
l'onorevole a puttane, l'ha detto il telegiornale
bamba pura di Colombia per l'alto parlamentare
tra i banchi di tribunale c'è chi ha rubato per fame
una vita di lavoro e 5 bocche da sfamare
ma la legge della Bella Italia valuta il prefisso
che davanti al nome è presidente o ministro
e non conta il reato, il verdetto è fisso,
non va dentro Barabba, sconta il povero Cristo.
Non c'è il diavolo contro l'angelo che consiglia
L'alternativa per me è il diavolo o la scimmia
in testa ho merda, fogli in fretta, potere, droga e tette
come in Quirinale, il criminale che non si dimette
ho l'oro bianco al collo frà, ed è gelido come il mio cuore
devo inventarmi soldi, voi vi inventate storie
l'uomo di successo qui è il balordo legalizzato
(???) ci ha promesso che lui non si è mai drogato
la mafia e la politica frà andranno sempre insieme,
come al cesso mano nella mano le due amiche sceme
ed è per questo che molta della mia gente, no, non vota
nella merda frà ci nuota, mentre in tele svolta un altro idiota
questa è la Bella Italia, tira una bella raglia
faccia da galera del magnaccia sul Carrera
scorda i problemi, sogna il montepremi
il frà sul lastrico progetta fuga nel Sud-Est Asiatico.
In Italia di Fabri Fibra feat. Gianna Nannini.
Ci sono cose che nessuno ti dirà…
Ci sono cose che nessuno ti darà…
Sei nato e morto qua
Nato e morto qua
Nato nel paese delle mezza verità
Dove fuggi? In Italia
Pistole in macchine in Italia
Machiavelli e Foscolo in Italia
I campioni del mondo sono in Italia
Benvenuto in Italia
Fatti una vacanza al mare in Italia
Meglio non farsi operare in Italia
Non andare all'ospedale in Italia
La bella vita in Italia
Le grandi serate e i gala in Italia
Fai affari con la mala in Italia
Il vicino che ti spara in Italia
Ci sono cose che nessuno ti dirà…
Ci sono cose che nessuno ti darà…
Sei nato e morto qua
Sei nato e morto qua
Nato nel paese delle mezza verità
Dove fuggi? In Italia
I veri mafiosi sono in Italia
I più pericolosi sono in Italia
Le ragazze nella strada in Italia
Mangi pasta fatta in casa in Italia
Poi ti entrano i ladri in casa in Italia
Non trovi un lavoro fisso in Italia
Ma baci il crocifisso in Italia
I monumenti in Italia
Le chiese con i dipinti in Italia
Gente con dei sentimenti in Italia
La campagna e i rapimenti in Italia
Ci sono cose che nessuno ti dirà…
Ci sono cose che nessuno ti darà…
Sei nato e morto qua
Sei nato e morto qua
Nato nel paese delle mezza verità
Dove fuggi? In Italia
Le ragazze corteggiate in Italia
Le donne fotografate in Italia
Le modelle ricattate in Italia
Impara l'arte in Italia
Gente che legge le carte in Italia
Assassini mai scoperti in Italia
Volti persi e voti certi in Italia
Ci sono cose che nessuno ti dirà…
Ci sono cose che nessuno ti darà…
Sei nato e morto qua
Sei nato e morto qua
Nato nel paese delle mezza verità
Dove fuggi…
Dove fuggi...
La terra dei cachi di Elio e le Storie Tese
Parcheggi abusivi, applausi abusivi, villette abusive, abusi sessuali abusivi;
tanta voglia di ricominciare abusiva.
Appalti truccati, trapianti truccati, motorini truccati che scippano donne truccate;
il visagista delle dive è truccatissimo.
Papaveri e papi, la donna cannolo, una lacrima sul visto:
Italia sì Italia no Italia bum, la strage impunita.
Puoi dir di sì puoi dir di no, ma questa è la vita.
Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè:
c'è un commando che ci aspetta per assassinarci un po'.
Commando sì commando no, commando omicida.
Commando pam commando papapapapam, ma se c'è la partita
il commando non ci sta e allo stadio se ne va,
sventolando il bandierone non più sangue scorrerà;
infetto sì? Infetto no? Quintali di plasma.
Primario sì primario dai, primario fantasma,
io fantasma non sarò e al tuo plasma dico no.
Se dimentichi le pinze fischiettando ti dirò
"fi fi fi fi fi fi fi fi ti devo una pinza, fi fi fi fi fi fi fi fi, ce l'ho nella panza".
Viva il crogiuolo di pinze. Viva il crogiuolo di panze.
Quanti problemi irrisolti ma un cuore grande così.
Italia sì Italia no Italia gnamme, se famo du spaghi.
Italia sob Italia prot, la terra dei cachi.
Una pizza in compagnia, una pizza da solo; un totale di due pizze e l'Italia è questa qua.
Fufafifì' fufafifì' Italia evviva.
Italia perfetta, perepepè' nanananai.
Una pizza in compagnia, una pizza da solo:
in totale molto pizzo, ma l ' Italia non ci sta.
Italia sì Italia no, Italia sì
uè, Italia no, uè uè uè uè uè.
Perché la terra dei cachi è la terra dei cachi. No
L'italiano medio degli Articolo 31
Io mi ricordo collette di Natale
Campi di grano ai lati della provinciale
Il tragico Fantozzi, la satira sociale
Oggi cerco Luttazzi e
Non lo trovo sul canale
Comunque sono un bravo cittadino
Ho aggiornato suonerie del telefonino
E un bicchiere di vino con un panino
Provo felicità se Costanzo fa il trenino
Ho un santino in salotto
Lo prego così vinco all'enalotto
Ho Gerry Scotti col risotto ma è scotto
Che mi fa diventare milionario come Silvio
Col giornale di Paolo e tanta fede in Emilio
Quest'anno ho avuto fame ma per due settimane
Ho fatto il ricco a Porto Cervo. Che bello!
Però ricordo collette di Natale
Campi di grano ora il grano è da buttare
M'importa poco oggi io vado al centro commerciale
E il mio problema è solo dove parcheggiare
Ohoo Ohoo
Ma a me non me ne frega tanto
Ohoo Ohoo
Io sono un italiano e canto
E datemi Fiorello e Panariello alla tv
Sono l'italiano medio nel blu dipinto di blu
Io sono un bravo cittadino onesto
Bevo al mattino un bel caffè corretto
Dopo cena il limoncello in vacanza la tequila
La Gazzetta d'inverno e d'estate novella 2000
Che bella la vita di una stella
marina o Martina o quella della velina
La mora o la bionda è buona e rotonda
Finchè la barca va finchè la barca affonda
E intanto sto perdendo sulla patente il punto
E un auto blu mi sfreccia accanto
Che incanto
Ohoo Ohoo
Ma a me non me ne frega tanto
Ohoo Ohoo
Io sono un italiano e canto
Non togliermi il pallone e non ti disturbo più
Sono l'italiano medio nel blu dipinto di bluuuuu
Ohoo
Ma spero che un sogno così non ritorni mai più
Mi voglio svegliare, mai più
Ti voglio fare vedere
Che sono proprio un bravo cittadino
Ho il portafoglio di Valentino
E l'importante è quello che ci metto dentro
Vado con il vento a sinistra a destra
Sabato in centro fino a consumare le suole
Ballo canzoni spagnole così non mi sforzo
A seguire le parole e penso a fare l'amore
Alla villa di Briatore alla nonna senza
Ascensore alla donna del calciatore
A qual è il male minore, l'onore, sua eccellenza
Monsignore ancora baciamo la mano
Che del miracolo italiano
Ohoo Ohoo
Ma a me non me ne frega tanto
Ohoo Ohoo
Io sono un italiano e canto
E datemi Fiorello e Panariello alla tv
Sono l'italiano medio nel blu dipinto di blu
Ohoo Ohoo
Ma a me non me ne frega tanto
Ohoo Ohoo
Io sono un italiano e canto
Non togliermi il pallone e non ti disturbo più
Sono l'italiano medio nel blu dipinto di bluuuuu
Ohoo
C'era una volta
E non solo una
Un re che amava così tanto i vestiti nuovi
che spendeva in essi tutto quello che aveva
Possedeva un abito diverso per ogni ora della giornata
Niente importava per lui
Eccetto i suoi vestiti
Eppure non trovava soddisfazione
Il sarto era sull'orlo della disperazione
Disse al re di avere inventato un nuovo tessuto
Che cambiava colore e forma ad ogni momento
Ma rivelava anche coloro che erano stolti, ignoranti e stupidi
A loro il tessuto sarebbe stato invisibile
E pensate, e pensate
Quelli Che Benpensano di Frankie HI-NRG MC
Sono intorno a noi, in mezzo a noi, in molti casi siamo noi
A far promesse senza mantenerle mai se non per calcolo
Il fine è solo l'utile, il mezzo ogni possibile
La posta in gioco è massima, l'imperativo è vincere
E non far partecipare nessun altro
Nella logica del gioco la sola regola è esser scaltro
Niente scrupoli o rispetto verso I propri simili
Perché gli ultimi saranno gli ultimi se I primi sono irraggiungibili
Sono tanti, arroganti coi più deboli,
zerbini coi potenti, sono replicanti,
Sono tutti identici, guardali,
stanno dietro a maschere e non li puoi distinguere.
Come lucertole s'arrampicano,
e se poi perdon la coda la ricomprano.
Fanno quel che vogliono si sappia in giro fanno
spendono, spandono e sono quel che hanno
Sono intorno a me, ma non parlano con me.
Sono come me, ma si sentono meglio
Sono intorno a me, ma non parlano con me.
Sono come me, ma si sentono meglio
e come le supposte abitano in blisters full-optional,
Con cani oltre I 120 decibel e nani manco fosse Disneyland,
Vivono col timore di poter sembrare poveri
Quel che hanno ostentano, tutto il resto invidiano, poi lo comprano,
In costante escalation col vicino costruiscono
Parton dal pratino e vanno fino in cielo,
han più parabole sul tetto che S.Marco nel Vangelo..
Sono quelli che di sabato lavano automobili
che alla sera sfrecciano tra l'asfalto e I pargoli,
Medi come I ceti cui appartengono,
terra-terra come I missili cui assomigliano.
Tiratissimi, s'infarinano, s'alcolizzano
e poi s'impastano su un albero
Nasi bianchi come Fruit of the Loom
che diventano più rossi d'un livello di Doom
Sono intorno a me, ma non parlano con me.
Sono come me, ma si sentono meglio
Sono intorno a me, ma non parlano con me.
Sono come me, ma si sentono meglio
Ognun per se, Dio per se, mani che si stringono tra I banchi delle chiese alla domenica
mani ipocrite, mani che fan cose che non si raccontano
Altrimenti le altre mani chissà cosa pensano, si scandalizzano
Mani che poi firman petizioni per lo sgombero,
Mani lisce come olio di ricino,
Mani che brandisco Manganelli, che Farciscono Gioielli,
che si alzano alle spalle dei Fratelli.
Quelli che la notte non si può girare più,
quelli che vanno a mignotte mentre i figli guardan La TV,
Che fanno I boss, che compra Class,
che son sofisticati da chiamare I NAS, incubi di Plastica
Che vorrebbero dar fuoco ad ogni zingara
Ma l'unica che accendono è quella che da loro l'elemosina ogni sera,
Quando mi nascondo sulla faccia oscura della loro luna nera
Sono intorno a me, ma non parlano con me.
Sono come me, ma si sentono meglio
Sono intorno a me, ma non parlano con me.
Sono come me, ma si sentono meglio
Sono intorno a me, ma non parlano con me.
Sono come me, ma si sentono meglio
Sono intorno a me, ma non parlano con me.
Sono come me, ma si sentono meglio
Sabbie Mobili di Marracash
Non agitarti
Resta immobile
Non agitarti
Resta immobile
Puoi metterci anni
E guardare ogni cosa che
Affonda Nelle sabbie mobili
Si perde Nelle sabbie mobili
Penso spesso che potrei farlo
Andare via di punto in bianco
Così altra città. Altro Stato
Potrei se avessi il coraggio
Ho un orizzonte limitato
E' follia stare qua nel miraggio
Che basti essere capaci
Quanti ne ho visti scavalcarmi
Rampolli Rapaci. Raccomandati
Quanti ne ho visti fare viaggi
E dopo non tornare
Restare. Spaccare. Affermarsi
Qui non c'è il mito di chi si è fatto da solo
Perché chi si è fatto da solo di solito è corrotto
Se sei un ragazzo ambizioso
In un sistema corrotto
Non puoi fare il botto
E non uscirne più sporco
Nessuno lascia le poltrone
Niente si muove
Nessuno osa e nessuno dà un occasione
Impantanati in queste sabbie mobili
Si muore comodi
Lo Stato spreca i migliori uomini
Non agitarti. Resta immobile.
Puoi metterci anni
E guardare ogni cosa che Affonda
Nelle sabbie mobili
Si perde. Nelle sabbie mobili
Parto dal principio
Io della scuola ricordo un ficus
Cioè la pianta che aveva il preside in ufficio
Vale più un mio testo letto in diretta da Linus
Il paese ha un virus
Una paralisi da ictus
Come prima più di prima
Madonna potrebbe essere mia nonna
A 50 anni è ancora a pecorina
E' il nulla
Come la storia infinita
Come la mummia
Che si sveglia e torna in vita
Puzza di muffa
The beautiful people
The beautiful people
La bella gente pratica il cannibalismo
Sa di già visto
Come un film di cui capisci la fine
Già dall'inizio
I vecchi stanno al potere
Non vanno all'ospizio
E se MTV sta per music television
Vorremmo più video e meno reality e fiction
Sono pesante apposta come chi fa sumo
Tu fai musica che piace a tanti
E non fa impazzire nessuno
Non agitarti. Resta immobile
Puoi metterci anni
E guardare ogni cosa che
Affonda. Nelle sabbie mobili
Si perde. Nelle sabbie mobili
Niente di nuovo. Niente di che
Quel rapper che ti piace
Non dice niente di sé
Solo cliché
Attacca il premier
Come se quando cadrà il premier
Vincerà il bene
Se non ci fosse di che parlerebbe
Chi comanda è lì da sempre
E non si elegge con il voto
E prende decisioni senza cuore e senza quorum
E se tornassi indietro io lo rifarei
Il mio incubo era fare la vita dei miei
Sì quella vita strizzata in otto ore
Compressa. La sera sei stanco e c'hai mal di testa
Compressa. Fuori onda il direttore dice che ho ragione
Ma non ci crede
Come chi brinda
Ma poi non beve
Non prendere la bufala
Che tanto non è bufala
E' una bufala
Hai una chance di andartene frà. Usala
Se riesci sei un genio
Se fallisci sei uno zero
Se fai quello che fanno gli altri
Rischi di meno
Quindi. Non agitarti. Resta immobile
Puoi metterci anni
E guardare il paese che
Affonda. Nelle sabbie mobili
Si perde. Nelle sabbie mobili
Io Non Mi Sento Italiano di Giorgio Gaber
Parlato: Io G. G. sono nato e vivo a Milano.
Io non mi sento italiano
Ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
Non è per colpa mia
Ma questa nostra Patria
Non so che cosa sia.
Può darsi che mi sbagli
Che sia una bella idea
Ma temo che diventi
Una brutta poesia.
Mi scusi Presidente
Non sento un gran bisogno
Dell'inno nazionale
Di cui un po' mi vergogno.
In quanto ai calciatori
Non voglio giudicare
I nostri non lo sanno
O hanno più pudore.
Io non mi sento italiano
Ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
Se arrivo all'impudenza
Di dire che non sento
Alcuna appartenenza.
E tranne Garibaldi
E altri eroi gloriosi
Non vedo alcun motivo
Per essere orgogliosi.
Mi scusi Presidente
Ma ho in mente il fanatismo
Delle camicie nere
Al tempo del fascismo.
Da cui un bel giorno nacque
Questa democrazia
Che a farle i complimenti
Ci vuole fantasia.
Io non mi sento italiano
Ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Questo bel Paese
Pieno di poesia
Ha tante pretese
Ma nel nostro mondo occidentale
È la periferia.
Mi scusi Presidente
Ma questo nostro Stato
Che voi rappresentate
Mi sembra un po' sfasciato.
E' anche troppo chiaro
Agli occhi della gente
Che tutto è calcolato
E non funziona niente.
Sarà che gli italiani
Per lunga tradizione
Son troppo appassionati
Di ogni discussione.
Persino in parlamento
C'è un'aria incandescente
Si scannano su tutto
E poi non cambia niente.
Io non mi sento italiano
Ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
Dovete convenire
Che i limiti che abbiamo
Ce li dobbiamo dire.
Ma a parte il disfattismo
Noi siamo quel che siamo
E abbiamo anche un passato
Che non dimentichiamo.
Mi scusi Presidente
Ma forse noi italiani
Per gli altri siamo solo
Spaghetti e mandolini.
Allora qui mi incazzo
Son fiero e me ne vanto
Gli sbatto sulla faccia
Cos'è il Rinascimento.
Io non mi sento italiano
Ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Questo bel Paese
Forse è poco saggio
Ha le idee confuse
Ma se fossi nato in altri luoghi
Poteva andarmi peggio.
Mi scusi Presidente
Ormai ne ho dette tante
C'è un'altra osservazione
Che credo sia importante.
Rispetto agli stranieri
Noi ci crediamo meno
Ma forse abbiam capito
Che il mondo è un teatrino.
Mi scusi Presidente
Lo so che non gioite
Se il grido "Italia, Italia"
C'è solo alle partite.
Ma un po' per non morire
O forse un po' per celia
Abbiam fatto l'Europa
Facciamo anche l'Italia.
Io non mi sento italiano
Ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Io non mi sento italiano
Ma per fortuna o purtroppo
Per fortuna o purtroppo
Per fortuna. Per fortuna lo sono.
Mamma L'Italiani di Après La Classe
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
nei secoli dei secoli girando per il mondo
nella pizzeria con il Vesuvio come sfondo
non viene dalla Cina non è neppure americano
se vedi uno spaccone è solamente un italiano
l'italiano fuori si distingue dalla massa
sporco di farina o di sangue di carcassa
passa incontrollato lui conosce tutti
fa la bella faccia fa e poi la mette in culo a tutti
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
a suon di mandolino nascondeva illegalmente
whisky e sigarette chiaramente per la mente
oggi è un po' cambiato ma è sempre lo stesso
non smercia sigarette ma giochetti per il sesso
l'italiano è sempre stato un popolo emigrato
che guardava avanti con la mente nel passato
chi non lo capiva lui lo rispiegava
chi gli andava contro è saltato pure in a...
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
l'Italia agli italiani e alla sua gente
è lo stile che fa la differenza chiaramente
genialità questa è la regola
con le idee che hanno cambiato tutto il corso della storia
l'Italia e la sua nomina e un alta carica
un eredità scomoda
oggi la visione italica è che
viaggiamo tatuati con la firma della mafia
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
vacanze di piacere per giovani settantenni
all'anagrafe italiani ma in Brasile diciottenni
pagano pesante ragazze intraprendenti
se questa compagnia viene presa con i denti
l'italiano è sempre stato un popolo emigrato
che guardava avanti con la mente nel passato
chi non lo capiva lui lo rispiegava
chi gli andava contro è saltato pure in a...
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
spara la famiglia del pentito che ha cantato
lui che viene stipendiato il 27 dallo stato
nominato e condannato nel suo nome hanno sparato
e ricontare le sue anime non si può più
risponde la famiglia del pentito che ha cantato
difendendosi compare tutti giorni più incazzato
sarà guerra tra famiglie
sangue e rabbia tra le griglie
con la fama come foglie che ti tradirà
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Rivoluzione di Renato Zero
Protesterai
ogni tregua è finita oramai
dalla sabbia la testa alzerai
dritto al cuore colpirai.
Libererai
quello che soffocavi in te
la tua voce è più forte se vuoi
del silenzio e l'omertà
C'è una guerra giusta e devi farla tu
è la tua risposta a chi non chiede più
Rivoluzione è il grido che solleverai
e devi metterci la faccia finché puoi
perché ho pagato il conto ai tuoi caffè
su la testa adesso tocca te
Ti accorgerai
che il nemico è nascosto tra noi
che il futuro non viene da sé
e ogni brivido ha un suo perché
E sentirai
che resistere è pura follia
ci sarà poi chi ride di te
ma è soltanto paura la sua
Perché niente al mondo viene come vuoi
Perché tutto al mondo ha un prezzo d'ora in poi
Rivoluzione è la promessa che mi fai
di calci e sputi non avere mai paura
Non posso andare sempre avanti io
ho già dato e adesso tocca te
Politica assente famiglia vacante
quaggiù si congeda anche Dio
Se la corda si spezza s'incendia la piazza
E ritorno a lottare con te!
Rivoluzione è il grido che solleverai
e devi metterci la faccia finché puoi
perché ho pagato il conto ai tuoi caffè
fuori il cuore adesso tocca te
Rivoluzione è il grido che solleverai
e devi metterci la faccia finché puoi
perché ho pagato il conto ai tuoi caffè
fuori il cuore adesso tocca te
Rivoluzione! Rivoluzione.
Rivoluzione di Frankie hi-nrg mc
In Italia c'è lavoro in qualche punto nero – capita:
ogni volo che finisce sotto a un telo irrita, noi che
qui pure Peppone sa il Vangelo e lo agita, un po' si
esagita, dopo un po' si sventola: senti un po' che
caldo fa… Afa tutto l'anno – più brevemente
“affanno” – non sanno a quale conclusione non
Approderanno. Noi l'Italia siamo e non la stiam
Rappresentando: ciurma! Ai posti di comando!
Mettiamo al bando i vertici politici con tutti i loro
Complici, amici degli amici di chi ha svuotato i
Conti: incassano tangenti celandosi le fonti e han
Cappucci e cornetti sulle fronti.
Qui si fa la rivoluzione senza alcuna distinzione,
sesso, razza o religione: tutti pronti per l'azione.
Troppi furbetti nel nostro quartierino e tutti ci
intercettano con il telefonino, ci piazzano vallette
nude sopra allo zerbino e paparazzi sui terrazzi del
vicino: ragazzi che casino! Senza via di
scampo, chiusi dentro al plastico di quel villino ci è
venuto un crampo, siamo titolari confinati a bordo
campo, ci fan pagare l'acqua più salata dello
shampoo. Boh? Magari mi sbaglio, ma vedo tutti
quanti allo sbaraglio, meglio darci un taglio… Figli
mai usciti dal travaglio: qui da masticare non ci
resta che il bavaglio.
Qui si fa la rivoluzione senza alcuna distinzione,
sesso, razza o religione: tutti pronti per l'azione.
L'Italia, non lo sai, ha problemi araldici: i baroni
sono pochi e han troppi conti per dei medici. Poi
ha problemi etici, politici, geografici, geologici, ma
i peggio restan quelli genealogici… Visto che la
base del sistema è la clientela e siamo separati
da 6 gradi sì, ma di parentela, maglie di una
ragnatela a forma di stivale, tutti collegati in linea
collaterale come un'unica famiglia in un immenso
psicodramma: sta bravo che altrimenti piange
mamma. Cambio di programma: annulliamo la
rivolta. Abbiamo una famiglia e non dev'essere
coinvolta…
Non si fa la rivoluzione, l'hanno detto in
Televisione… chi c'è andato che delusione! Era
chiuso anche il portone.
"Chi comanda il mondo?" di Povia
Fate la nanna bambini, verranno tempi migliori
Fate la nanna bambini e disegnate i colori
Chi comanda il mondo, c’è una dittatura, c’è una dittatura
Chi comanda il mondo, non puoi immaginare quanto fa paura
Chi comanda il mondo, oltre che il potere vuole il tuo dolore
e dovrai soffrire, e sarai costretto ad obbedire
Chi comanda il mondo, voglia di sapere, voglia di capire
Chi comanda il mondo, sotto questo cielo che ci può sentire
e chi ha creato il mondo, Torre di Babele, Torre di Babele
chi ha creato il mondo, messo sulla croce in Israele
C’è una dittatura di illusionisti finti
economisti equilibristi
terroristi padroni del mondo peggio dei nazisti
che hanno forgiato altrettanti tristi arrivisti stacanovisti
gli illusionisti, che ci hanno illuso con le parole libertà e democrazia
fino a portarci all’apatia
creando nella massa, una massa grassa di armi di divisione di massa
media, oggetti, nomi, colori, simboli
la pensiamo uguale ma siamo divisi noi singoli
dormiamo bene sotto le coperte
siamo servi di queste sorridenti merde
Fate la nanna bambini, verranno tempi migliori
Fate la nanna bambini e disegnate i colori
Fate la nanna che la mamma, vi cullerà sui suoi seni
Fate la nanna bambini volati nei cieli
Ma un giorno un bambino di questi si sveglierà
e l’uomo più forte del mondo diventerà
portando in alto l’amore
Chi comanda il mondo, c’è una dittatura, c’è una dittatura
Chi comanda il mondo, non puoi immaginare quanto fa paura
Chi comanda il mondo, Torre di Babele, Torre di Babele
chi ha creato il mondo, dice sempre che va tutto bene
La libertà e la lotta contro l’ingiustizia
non sono né di destra né di sinistra
la musica può arrivare nell’essenziale
dove non arrivano le parole da sole
gli illusionisti ci hanno incastrati firmando i trattati
da Maastricht a Lisbona
siamo tutti indignati perché questi trattati
annullano ogni costituzione
quì bisogna dare un bel colpo di scopa
e spazzare via ogni stato da quest’Europa
se ogni stato uscisse dall’Euro davvero
magari ogni debito andrebbe a zero
perché per tutti c’è un punto d’arrivo
nessuno lascerà questo mondo da vivo
vogliamo una terra sana, sana
meglio una moneta sovrana (che una moneta puttana)
Fate la nanna bambini, verranno tempi migliori
Fate la nanna bambini e disegnate i colori
Fate la nanna che la mamma, vi cullerà sui suoi seni
Fate la nanna bambini volati nei cieli
Ma un giorno un bambino di questi si sveglierà
e l’uomo più forte del mondo diventerà
portando in alto l’amore
Chi comanda il mondo, c’è una dittatura, c’è una dittatura
Chi comanda il mondo, non puoi immaginare quanto fa paura
Chi comanda il mondo, oltre che il potere vuole il tuo dolore
e dovrai soffrire, e sarai costretto ad obbedire
Chi comanda il mondo, voglia di sapere, voglia di capire
Chi comanda il mondo, sotto questo cielo che ci può sentire
e chi ha creato il mondo, Torre di Babele, Torre di Babele
chi ha creato il mondo, messo sulla croce in Israele
Fate la nanna bambini volati nei cieli
Intervista all’autore, il dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
«Quando ero piccolo a scuola, come in famiglia, mi insegnavano ad adempiere ai miei doveri: studiare per me per sapere; lavorare per la famiglia; assolvere la leva militare per la difesa della patria; frequentare la chiesa ed assistere alla messa domenicale; ascoltare i saggi ed i sapienti per imparare, rispettare il prossimo in generale ed in particolare i più grandi, i piccoli e le donne, per essere rispettato. La visita giornaliera ai nonni ed agli zii era obbligatoria perché erano subgenitori. I cugini erano fratelli. Il saluto preventivo agli estranei era dovuto. Ero felice e considerato. L'elargizione dei diritti era un premio che puntuale arrivava. Contava molto di più essere onesti e solidali che non rivendicare o esigere qualcosa che per legge o per convenzione ti spettava. Oggi: si pretende (non si chiede) il rispetto del proprio (e non dell'altrui) diritto, anche se non dovuto; si parla sempre con imposizione della propria opinione; si fa a meno di studiare e lavorare o lo si impedisce di farlo, come se fosse un dovere, più che un diritto; la furbizia per fottere il prossimo è un dono, non un difetto. Non si ha rispetto per nessun'altro che non sia se stesso. Non esiste più alcun valore morale. Non c'è più Stato; nè Famiglia; nè religione; nè amicizia. Sui social network, il bar telematico, sguazzano orde di imbecilli. Quanto più amici asocial si hanno, più si è soli. Questa è l'involuzione della specie nella società moderna liberalcattocomunista».
Quindi, oggi, cosa bisogna sapere?
«Non bisogna sapere, ma è necessario saper sapere. Cosa voglio dire? Affermo che non basta studiare il sapere che gli altri od il Sistema ci propinano come verità e fermarci lì, perché in questo caso diveniamo quello che gli altri hanno voluto che diventassimo: delle marionette. E’ fondamentale cercare il retro della verità propinata, ossia saper sapere se quello che sistematicamente ci insegnano non sia una presa per il culo. Quindi se uno già non sa, non può effettuare la verifica con un ulteriore sapere di ricerca ed approfondimento. Un esempio per tutti. Quando si studia giurisprudenza non bisogna fermarsi alla conoscenza della norma ed eventualmente alla sua interpretazione. Bisogna sapere da chi e con quale maggioranza ideologica e perchè è stata promulgata o emanata e se, alla fine, sia realmente condivisa e rispettata. Bisogna conoscere il retro terra per capirne il significato: se è stata emessa contro qualcuno o a favore di qualcun'altro; se è pregna di ideologia o adottata per interesse di maggioranza di Governo; se è un'evoluzione storica distorsiva degli usi e dei costumi nazionali o influenzata da pregiudizi, o sia una conformità alla legislazione internazionale lontana dalla nostra cultura; se è stata emanata per odio...L’odio è un sentimento di rivalsa verso gli altri. Dove non si arriva a prendere qualcosa si dice che non vale. E come quel detto sulla volpe che non riuscendo a prendere l’uva disse che era acerba. Nel parlare di libertà la connessione va inevitabilmente ai liberali ed alla loro politica di deburocratizzazione e di delegificazione e di liberalizzazione nelle arti, professioni e nell’economia mirante all’apoteosi della meritocrazia e della responsabilità e non della inadeguatezza della classe dirigente. Lo statalismo è una stratificazione di leggi, sanzioni e relativi organi di controllo, non fini a se stessi, ma atti ad alimentare corruttela, ladrocinio, clientelismo e sopraffazione dei deboli e degli avversari politici. Per questo i liberali sono una razza in estinzione: non possono creare consenso in una massa abituata a pretendere diritti ed a non adempiere ai doveri. Fascisti, comunisti e clericali sono figli degeneri di una stessa madre: lo statalismo ed il centralismo. Si dicono diversi ma mirano tutti all’assistenzialismo ed alla corruzione culturale per influenzare le masse: Panem et circenses (letteralmente «pane e [giochi] circensi») è una locuzione latina piuttosto nota e spesso citata, usata nell'antica Roma e al giorno d'oggi per indicare in sintesi le aspirazioni della plebe (nella Roma di età imperiale) o della piccola borghesia, o d'altro canto in riferimento a metodi politici bassamente demagogici. Oggi la politica non ha più credibilità perchè non è scollegata dall’economia e dalle caste e dalle lobbies che occultamente la governano, così come non sono più credibili i loro portavoce, ossia i media di regime, che tanto odiano la "Rete". Internet, ormai, oggi, è l'unico strumento che permette di saper sapere, dando modo di scoprire cosa c'è dietro il fronte della medaglia, ossia cosa si nasconda dietro le fake news (bufale) di Stato o dietro la discultura e l'oscurantismo statalista».
Cosa racconta nei suoi libri?
«Sono un centinaio di saggi di inchiesta composti da centinaia di pagine, che raccontano di un popolo difettato che non sa imparare dagli errori commessi. Pronto a giudicare, ma non a giudicarsi. I miei libri raccontato l’indicibile. Scandali, inchieste censurate, storie di ordinaria ingiustizia, di regolari abusi e sopraffazioni e di consueta omertà. Raccontano, attraverso testimonianze e documenti, per argomento e per territorio, i tarli ed i nei di una società appiattita che aspetta il miracolo di un cambiamento che non verrà e che, paradosso, non verrà accettato. In più, come chicca editoriale, vi sono i saggi con aggiornamento temporale annuale, pluritematici e pluriterritoriali. Tipo “Selezione dal Reader’s Digest”, rivista mensile statunitense per famiglie, pubblicata in edizione italiana fino al 2007. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi nei saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali di distribuzione internazionale in forma Book o E-book. Canali di pubblicazione e di distribuzione come Amazon o Google libri. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche. I testi hanno una versione video sui miei canali youtube».
Qual è la reazione del pubblico?
«Migliaia sono gli accessi giornalieri alle letture gratuite di parti delle opere su Google libri e decine di migliaia sono le pagine lette ogni giorno. Accessi da tutto il mondo, nonostante il testo sia in lingua italiana e non sia un giornale quotidiano. Si troveranno, anche, delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato».
Perché è poco conosciuto al grande pubblico generalista?
«Perché sono diverso. Oggi le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili sono emarginati o ignorati. Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti. In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo. Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso. Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte. Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”».
Qual è la sua missione?
«“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente…Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili”. Citazioni di Bertolt Brecht. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
Perché è orgoglioso di essere diverso?
«E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale».
Dr. Antonio Giangrande. Orgoglioso di essere diverso.
La massa ti considera solo se hai e ti votano solo se dai. Nulla vali se tu sai. Victor Hugo: "Gli uomini ti stimano in rapporto alla tua utilità, senza tener conto del tuo valore." Le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale, tangibile ed immediata, da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili da sempre, pur con altissimo valore, sono emarginati o ignorati, inibendone, ulteriormente, l’utilità.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
Fa quello che si sente di fare e crede in quello che si sente di credere.
La Democrazia non è la Libertà.
La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.
La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.
Cattolici e comunisti, le chiese imperanti, impongono la loro libertà, con la loro morale, il loro senso del pudore ed il loro politicamente corretto.
Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.
Perché "like" e ossessione del politicamente corretto ci allontanano dal reale. In quest'epoca di post-verità un'idea è forte quanto più ha voce autonoma, scrive Oscar di Montigny il 5 giugno 2018 su "Panorama".
"Se la libertà significa qualcosa allora è il diritto di dire alla gente quello che non vuole sentire". George Orwell
Al giorno d'oggi siamo impegnati a comunicare senza sosta ma di rado capita di domandarci: sto dicendo veramente quello che voglio dire? Non siamo di certo i primi: da sempre nella storia anche i più grandi e rivoluzionari pensatori hanno dovuto fare i conti con il contesto storico, le pressioni sociali, le censure. Non a caso lo scrittore e giornalista George Orwell ha scritto la frase premessa a queste righe. Oggi, però, comunichiamo di continuo eppure è raro che diciamo esattamente quello che ci sentiremmo di dire. Vogliamo sempre fare la battuta più brillante su Twitter, corriamo a esprimere la nostra opinione sul fatto del giorno, magari senza esserci informati opportunamente, ma abbiamo consapevolezza di ciò che stiamo sacrificando sull'altare di questa gara?
L'era della post-verità. Ecco che le nostre parole vengono distorte, perdono di sincerità, spontaneità ma soprattutto di connessione col reale. Siamo d'altronde in quella che è stata definita era della post-verità. Gli "alternative facts" di cui si è parlato ultimamente negli Stati Uniti di Donald Trump sono un bell'esempio di come anche il linguaggio possa essere piegato a originare contraddizioni fino a poco tempo fa impensabili: i fatti erano fatti, senza alternative. I giornalisti incorruttibili, i profeti scomodi, i difensori del libero arbitrio sembrano martiri degni solo di vecchi film di Hollywood. Le bolle in cui ci immergono i social o i mezzi digitali funzionano invece in un modo autoreferenziale e al contempo pericoloso: ci piacciono perché ci permettono di scegliere con chi relazionarci e scegliamo di farlo sempre con coloro che hanno opinioni che corrispondono al nostro modo di vedere, leggiamo solo cose che ci compiacciono, ma che ci tagliano anche fuori da una parte di società che la pensa diversamente da noi. È questo il terreno in cui proliferano le fake news, piaga apicale del nostro tempo, difficili da smontare senza esporsi ad altre fonti di informazione. È così che evitiamo di andare a fondo nelle cose, a recuperare un senso della dimensione reale. Il politicamente corretto, la paura di offendere, un'isteria legata a quel che va detto e cosa no, limitano la libertà di espressione in un'epoca in cui essa è virtualmente al suo massimo.
Il coraggio di dire quello che si pensa. D'altronde è più comodo così: "Per farsi dei nemici non è necessario dichiarare guerra, basta dire quello che si pensa", diceva Martin Luther King. Se persone come lui si sono sacrificate in nome della libertà forse vuol dire che questi principî non riguardano solo l'opportunità personale, sono invece veri e propri valori culturali. Al contrario stiamo perdendo l'attaccamento alla realtà fattuale delle cose e anche l'inclinazione ad accettare la verità, anche quando è scomoda. Mentre è sempre più facile cadere nelle trappole della propaganda o della disinformazione, sarebbe opportuno correre dei rischi. Non esprimerci solo in modo da ottenere qualche "like" in più o con mille cautele per non disturbare poteri forti o prepotenti di turno. In una recente intervista lo scrittore Eric Emmanuel Schmitt scriveva che siamo in "un'epoca vittimistica, in cui non facciamo altro che definirci vittime di qualcosa o qualcuno". Essere meno vittime forse passa proprio dalla forza che mettiamo nell'intonare la nostra voce su un accordo autonomo rispetto alla babele collettiva.
Facciamo sempre il solito errore: riponiamo grandi speranze ed enormi aspettative in piccoli uomini senza vergogna.
Un altro errore che commettiamo è dare molta importanza a chi non la merita.
"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI
Le pecore hanno paura dei lupi, ma è il loro pastore che le porta al macello.
Da sociologo storico ho scritto dei saggi dedicati ad ogni partito o movimento politico italiano: sui comunisti e sui socialisti (Craxi), sui fascisti (Mussolini), sui cattolici (Moro) e sui moderati (Berlusconi), sui leghisti e sui pentastellati. Il sottotitolo è “Tutto quello che non si osa dire. Se li conosci li eviti.” Libri che un popolo di analfabeti mai leggerà.
Da queste opere si deduce che ogni partito o movimento politico ha un comico come leader di riferimento, perché si sa: agli italiani piace ridere ed essere presi per il culo. Pensate alle battute di Grillo, alle barzellette di Berlusconi, alle cazzate di Salvini, alle freddure della Meloni, alle storielle di Renzi, alle favole di D’Alema e Bersani, ecc. Partiti e movimenti aventi comici come leader e ladri come base.
Gli effetti di avere dei comici osannati dai media prezzolati nei tg o sui giornali, anziché vederli esibirsi negli spettacoli di cabaret, rincoglioniscono gli elettori. Da qui il detto: un popolo di coglioni sarà sempre amministrato o governato, informato, istruito e giudicato da coglioni.
Per questo non ci lamentiamo se in Italia mai nulla cambia. E se l’Italia ancora va, ringraziamo tutti coloro che anziché essere presi per il culo, i comici e la loro clack (claque) li mandano a fanculo.
Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.
Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.
Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?
"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)
«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.
Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.
Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!
Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.
Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.
Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...
Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa".
Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.
La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.
Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.
Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.
Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.
Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.
Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.
Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.
Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.
E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.
Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.
E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad arrivare in alto.
Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.
Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.
Ergo. Ai miei figli ho insegnato:
Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;
Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;
Le banche vi vogliono falliti;
La burocrazia vi vuole sottomessi;
La giustizia vi vuole prigionieri;
Siete nati originali…non morite fotocopia.
Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere.
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Lettera ad un amico che ha tentato la morte.
Le difficoltà rinforzano il carattere e certo quello che tu eri, oggi non lo sei.
Le difficoltà le affrontano tutti in modi diversi, come dire: in ogni casa c’è una croce. L’importante portarla con dignità. E la forza data per la soluzione è proporzionale all’intelligenza.
Per cui: x grado di difficoltà = x grado di intelligenza.
Pensa che io volevo studiare per emergere dalla mediocrità, ma la mia famiglia non poteva.
Per poter studiare dovevo lavorare. Ma lavoro sicuro non ne avevo.
Per avere un lavoro sicuro dovevo vincere un concorso pubblico, che lo vincono solo i raccomandati.
Ho partecipato a decine di concorsi pubblici: nulla di fatto.
Nel “mezzo del cammin della mia vita”, a trentadue anni, avevo una moglie e due figli ed una passione da soddisfare.
La mia vita era in declino e le sconfitte numerose: speranza per il futuro zero!
Ho pensato ai miei figli e si è acceso un fuoco. Non dovevano soffrire anche loro.
Le difficoltà si affrontano con intelligenza: se non ce l’hai, la sviluppi.
Mi diplomo in un anno presso la scuola pubblica da privatista: caso unico.
Mi laureo alla Statale di Milano in giurisprudenza in due anni: caso raro.
Sembrava fatta, invece 17 anni per abilitarmi all’avvocatura senza successo per ritorsione di chi non accetta i diversi. Condannato all’indigenza e al discredito, per ritorsione dei magistrati e dei media a causa del mio essere diverso.
Mio figlio ce l’ha fatta ad abilitarsi a 25 anni con due lauree, ma è impedito all’esercizio a causa del mio disonore.
Lui aiuta gli altri nello studio a superare le incapacità dei docenti ad insegnare.
Io aiuto gli altri, con i miei saggi, ad essere orgogliosi di essere diversi ed a capire la realtà che li circonda.
Dalla mia esperienza posso dire che Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi o valutazioni lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.
Quindi, caro amico, non guardare più indietro. Guarda avanti. Non pensare a quello che ti manca o alle difficoltà che incontri, ma concentrati su quello che vuoi ottenere. Se non lasci opere che restano, tutti di te si dimenticano, a prescindere da chi eri in vita.
Pensa che più difficoltà ci sono, più forte diventerai per superarle.
Volere è potere.
E sii orgoglioso di essere diverso, perché quello che tu hai fatto, tentare la morte, non è segno di debolezza. Ma di coraggio.
Le menti più eccelse hanno tentato o pensato alla morte. Quella è roba da diversi. Perché? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Per questo bisogna vivere, se lo hai capito: per ribellione e per rivalsa!
Non si deve riporre in me speranze mal riposte.
Io posso dare solidarietà o prestare i miei occhi per leggere o le mie orecchie per sentire, ma cosa posso fare per gli altri, che non son stato capace di fare per me stesso?
Nessuno ha il potere di cambiare il mondo, perché il mondo non vuol essere cambiato.
Ho solo il potere di scrivere, senza veli ideologici o religiosi, quel che vedo e sento intorno a me. E’ un esercizio assolutamente soggettivo, che, d’altronde, non mi basta nemmeno a darmi da vivere.
E’ un lavoro per i posteri, senza remunerazione immediata.
Essere diversi significa anche essere da soli: senza un gruppo di amici sinceri o una claque che ti sostenga.
Il fine dei diversi non combacia con la meta della massa. La storia dimostra che è tutto un déjà-vu.
Tante volte ho risposto no ai cercatori di biografie personali, o ai sostenitori di battaglie personali. Tante volte, portatori delle loro bandiere, volevano eserciti per lotte personali, elevandosi a grado di generali.
La mia missione non è dimostrare il mio talento o le mie virtù rispetto agli altri, ma documentare quanto questi altri siano niente in confronto a quello che loro considerano di se stessi.
Quindi ritienimi un amico che sa ascoltare e capire, ma che nulla può fare o dare ad altri, perché nulla può fare o dare per se stesso.
Sono solo un Uomo che scrive e viene letto, ma sono un uomo senza Potere.
Dell’uomo saggio e giusto si segue l’esempio, non i consigli.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo?
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.
Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.
Ho la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?
Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le magagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.
Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.
Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.
Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite.
Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....
All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.
Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.
E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.
Da: Pacho Pedroche Lorena (venerdì 22 settembre 2018). Salve, sono Lorena Pacho, giornalista spagnola presso il giornale El País. Sto lavorando presso un servizio sugli avvocati italiani che chiedono l'omologazione del titolo di studio in Spagna. Sarebbe possibile parlare con il Dr. Giangrande, per favore, per fare qualche domanda sul processo e come funziona in Italia? in relazione con i sui libri L' Italia dei concorsi pubblici truccati ed esame di avvocato. La ringrazio cordiali saluti. La ringrazio tanto, gradisco molto questa soluzione e la ringrazio. Invio qua delle domante, si senta libero di rispondere a tutte oppure solo a una parte. Anche si senta libero per la lunghezza, ma non è necessario sia molto lungo. L'obiettivo di questo servizio è per una parte fare capire ai lettori spagnoli perchè in tanti vano in Spagna per diventare avvocato spiegando come è il processo in Italia, perchè è così lungo, difficile e tortuoso accedere alla abilitazione alla professione di avvocato e quale sono le ombre e difetti di questo processo:
- Quali sono le particolarità que definiscono meglio il processo per l'abilitazione alla professione di avvocato? (per fare capire ai lettori spagnoli perchè in tanti vano in Spagna per l'omologazione.
«In Italia per diventare avvocato bisogna laurearsi in Giurisprudenza (in legge). Poi si segue un periodo di praticantato con corsi obbligatori onerosi ed esosi e solo alla fine si affrontano gli esami di abilitazione organizzati dal Ministero della Giustizia. Le commissioni di esame di avvocato sono composte da avvocati, professori universitari e magistrati. La stessa composizione che abilita gli stessi magistrati ed i professori. Con scambio di ruoli e favori. Io ho partecipato per 17 anni all’esame di abilitazione, fino a che ho detto basta! In questi anni ho vissuto tutte le fasi delle riforme emanate per rendere, in effetti, impossibile l’iscrizione all’albo tenuto dagli avvocati più anziani. All’inizio della mia esperienza il praticantato era di due anni e poi affrontavi l’esame con le commissioni del proprio distretto, portando i codici annotati solo con la giurisprudenza. Allora non si sentiva parlare di migrazione verso la spagna di aspiranti avvocati. Se eri bocciato, bastava riprovare ed aspettare. Da sempre, però, vi era la litania che gli avvocati erano troppi. Ad oggi il praticantato si svolge con corsi di formazione obbligatori ed a pagamento per 18 mesi e l’esame sarà svolto con soli codici senza annotazioni della giurisprudenza. Inoltre, con l’avvento del cosiddetto governo “liberale” di Silvio Berlusconi, l’allora Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, ha previsto la transumanza degli elaborati degli esami. Spiego meglio. Le commissioni di esame di avvocato del Nord Italia erano avare nell’abilitare, per limitare la concorrenza. Roberto Castelli era del partito di Matteo Salvini, attuale vice premier. La lega Nord, prima di essere anti immigrati è stata da sempre anti meridionale. Se il loro motto oggi è “prima gli italiani”, allora era “prima i settentrionali”. Nel Nord d’Italia vi era la convinzione che le commissioni del sud Italia erano prodighi, per questo vi erano più idonei all’esame di avvocato. La stessa Ministro Gelmini del Governo Berlusconi, lei impedita a Brescia, ha fatto l’esame in Calabria. A loro dire, poi, la massa di idonei emigrava al Nord, togliendo lavoro ai locali, che tanto avevano fatto illecitamente per tutelare se stessi. Secondo questa riforma di stampo razzista le prove scritte sono visionate da commissioni estratte a sorte, con spostamento dei plichi con gli elaborati da nord a sud e viceversa, con aggravio di tempo e di denaro. In questo modo sono avvantaggiati i candidati del nord Italia, i cui compiti sono corretti dalle commissioni del sud, rimaste benevoli. I partiti statalisti di sinistra non hanno fatto altro che confermare questo iniquo sistema».
- Secondo Lei, che senso ha rendere obbligatorio l'esame di Stato per gli avvocati?
«Non ha senso rendere obbligatorio un esame che non garantisce il merito, tenuto conto che i candidati, oltretutto, hanno sostenuto tantissimi esami all’università. Benissimamente a fine studio universitario potrebbero sostenere l’esame finale di abilitazione (come in altri paesi) avente valore di esame di Stato. Poi ci pensa il mercato: chi vale, lavora».
- Funziona il sistema dei concorsi di abilitazione alla professione forense in Italia?
«Il sistema di abilitazione forense in Italia non funziona perché non garantisce il merito, ma è stabilito solo per limitare l’accesso ai giovani aspiranti avvocati per la tutela di rendita di posizione o per garantire i propri protetti».
-Perchè è così alta la percentuale di concorrenti che non superano, che non passano gli esami di avvocato?
«La percentuale di idonei diventa di anno in anno sempre minore. Perché negli anni hanno limitato l’intervento degli avvocati nella tutela dei diritti (vedi ricorsi contro le sanzioni amministrative o per i sinistri stradali o per onerosità delle cause, o per il gratuito patrocinio); ovvero hanno imposto delle tasse e dei contributi esosi. Questo porta la lobby degli avvocati a tutelare gli interessi corporativi sempre più ristretti, negando l’accesso ai nuovi. I giovani per aggirare l’ostacolo prendono altre strade: ossia, la migrazione per ottenere la meritata professione per la quale hanno studiato per anni e che per questo non possono fare altro. Inoltre il fatto di diventare avvocato non dà sicurezza di reddito, perché comunque ai giovani avvocati è impedito entrare in un certo sistema di potere che assicura lavoro. Per lavorare come avvocato devi essere protetto ed omologato».
-Si può parlare di qualche irregolarità, anomalie nella fase di correzione ed in che modo? Possiamo parlare di altre anomalie?
«Il mio parere è per cognizione di causa diretta e per aver studiato e cercato prove (in testi ed in video da visionare sul mio canale su Dailymotion) per oltre venti anni per dimostrare che l’esame di avvocato in particolare, ma ogni esame di abilitazione o concorso pubblico in Italia è truccato (irregolare). Il frutto del mio lavoro sono i saggi “ESAME DI AVVOCATO. ABILITAZIONE TRUCCATA”, in particolare. E “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI” per quanto riguarda tutti i concorsi pubblici e gli esami di Stato.
Nei miei saggi si dimostra con prove inoppugnabili dove si annida il trucco:
Nelle fasi preliminari (tracce conosciute);
Durante le prove (copiature e dettature);
Durante le correzioni (commissioni irregolari e compiti non corretti, ma dichiarati tali);
Durante la tutela giudiziaria (disparità di giudizio rispetto a ricorsi simili o uguali).
Da tener conto che i commissari sono professionisti diventati tali in virtù di concorsi analoghi, quindi truccati».
- Quale sarebbe l'obiettivo di truccare questi esami di avvocati?
«Si truccano gli esami per garantire un proprio familiare o un proprio amico o conoscente. O per tutelare l’interesse corporativo».
- Lei vuole aggiungere qual cosa altro che pensa può essere utili per i lettori spagnole oppure importante per capire la situazione e questo fenomeno.
«Io sin dalla prima volta ho denunciato le anomalie. Sin dal principio mi hanno minacciato che non sarei diventato avvocato. Pensavo che valesse la forza della legge e non, come è, la legge del più forte. Per 17 anni mi hanno sempre dato voti identici per tutte le tre prove annuali, senza che il compito sia stato corretto (mancanza di tempo calcolato dal verbale). Le mie denunce pubbliche hanno provocato la reazione del potere con procedimenti penali a mio carico da cui sono uscito sempre assolto. I giornalisti, anche loro figli del sistema, mi oscurano, non impedendomi, però, di essere seguitissimo sul web, attraverso le mie opere pubblicate su Amazon. Si dà il caso che sia una giornalista spagnola a chiedere un mio parere e non una italiana. Il fatto che i giovani italiani vadano in Spagna o in Romania o in altre località molto più liberali che l’Italia, per poter realizzare i loro sogni, hanno la mia piena solidarietà. E’ solo un atto di puro stato di necessità che discrimina eventuali reati commessi. Se lo fanno violando le norme non sono meno colpevoli di chi nella loro patria illiberale, viola le norme impunemente. Perché negli esami di Stato e nei concorsi pubblici chi aiuta o favorisce o raccomanda qualcuno a scapito di altri viola una noma penale grave, costringendo gli esclusi a spendere tantissimi soldi che non hanno. E solo per poter lavorare».
Caso Bellomo, le forti parole di Filippo Facci dopo le testimonianze delle allieve, scrive robertogp il 28/12/2017 su "NewNotizie.it". Come redazione di ‘NewNotizie.it‘ abbiamo preferito non parlare della pietosa vicenda riguardante il consigliere di Stato Francesco Bellomo, il quale si trova adesso indagato dalla procura di Bari, Milano e Piacenza per estorsione, atti persecutori e lesioni gravi. In breve, Francesco Bellomo, consigliere di Stato nonché magistrato, conduceva dei corsi volti ad affrontare al meglio l’esame di accesso alla magistratura; l’accusa rivoltagli negli ultimi giorni si precisa in diverse testimonianze di allieve o ex allieve che accusano l’uomo di alcune clausole molto particolari presenti nel contratto d’iscrizione ai suoi corsi. Veniva ad esempio richiesto alle studentesse di recarsi al corso truccate, con tacchi alti, minigonna e altre peculiarità espresse nel dettaglio all’interno del contratto. Altre bizzarre clausole erano presenti nel foglio da firmare, quali ad esempio che il fidanzamento del o della borsista era consentito solo in seguito all’approvazione personale di Bellomo o addirittura la revoca della borsa di studio in caso di matrimonio. Filippo Facci, giornalista di ‘Libero Quotidiano‘ ha espresso il suo parere riguardo la vicenda sostenendo che le allieve che hanno sporto denuncia abbiano “una fisiologica propensione a essere zoccole (auguri per qualsiasi carriera) oppure siano troppo stordita per poter fare il mestiere del magistrato”. Seppur i toni siano decisamente sopra le righe, Facci spiega con tre motivazioni il perché di una frase così forte: “Il corso di Bellomo era un corso non obbligatorio per affrontare l’ esame per magistrato; i contratti di Bellomo erano palesemente nulli, perché nessun contratto può imporre pretese del genere, e per saperlo basta non essere scemi e infine, alcuni contratti venivano firmati da borsiste che avevano accettato una relazione sessuale con Bellomo, approccio che ci è difficile pensare spontaneo e slegato ai buoni esiti del corso”. Facci ricorda infine che “l’ingresso in magistratura non prevede esami psico-attitudinali”. Mario Barba
Filippo Facci per Libero Quotidiano il 28 dicembre 2017. I dettagli su quanto il consigliere Francesco Bellomo sia porco (copyright Enrico Mentana) li trovate in un altro articolo, e così pure gli aggiornamenti sui «contratti di schiavitù sessuale» (copyright Liana Milella, Repubblica) che imponeva a qualche allieva. Ciò posto, scusate: 1) il corso di Bellomo era un corso non obbligatorio per affrontare l'esame per magistrato; 2) i contratti di Bellomo erano palesemente nulli, perché nessun contratto può imporre pretese del genere, e per saperlo basta non essere scemi; 3) alcuni contratti venivano firmati da borsiste che avevano accettato una relazione sessuale con Bellomo, approccio che ci è difficile pensare spontaneo e slegato ai buoni esiti del corso. Detto questo, insomma: una che accetta di vestirsi in un certo modo, e così truccarsi, e i tacchi e le calze, una che accetta clausole che vietavano i matrimoni e condizionavano i fidanzamenti e autorizzavano a mettere in rete ogni dettaglio sessuale, una che crede che altrimenti avrebbe pagato 100mila euro di penale, beh, una così ha una fisiologica propensione a essere zoccola (auguri per qualsiasi carriera) oppure è troppo stordita per poter fare il mestiere del magistrato: troppo facile da circonvenire o corrompere, comunque sprovvista dell' equilibrio necessario a decidere della vita altrui. Lo diciamo non solo perché l'ingresso in magistratura non prevede esami psico-attitudinali, ma perché molte borsiste di Bellomo, magistrati, anzi magistrate, lo sono già diventate.
Concorsi Pubblici ed abilitazioni Truccati. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.
CUORI, TRUFFE E MAZZETTE: È LA FARSA “CONCORSONI”, scrive Virginia Della Sala su "Il Fatto Quotidiano" il 15 agosto 2016. Erano in 6mila per 340 posti. Luglio 2015, concorso in magistratura, prova scritta. Passano in 368. Come in tutti i concorsi, gli altri sono esclusi. Stavolta però qualcosa va diversamente. “Appena ci sono stati comunicati i risultati, a marzo di quest’anno, abbiamo deciso di fare la richiesta di accesso agli atti. Abbiamo preteso di poter visionare non solo i nostri compiti ma anche quelli di tutti i concorrenti risultati idonei allo scritto”, spiega uno dei concorrenti, Lugi R. Milleduecento elaborati, scansionati e inviati tramite mail in un mese. Per richiederli, i candidati hanno dovuto acquistare una marca da bollo da 600 euro. Hanno optato per la colletta: 230 persone hanno pagato circa 3 euro a testa per capire come mai non avessero passato quel concorso che credevano fosse andato bene. E, soprattutto, per verificare cosa avessero di diverso i loro compiti da quelli di chi il concorso lo aveva superato. “Ci siamo accorti che su diversi compiti compaiono segni di riconoscimento: sottolineature, cancellature, strani simboli, schemi”. Anche il Fatto ha potuto visionarli: asterischi, note a piè di pagina, cancellature, freccette. In uno si contano almeno due cuoricini. In un altro, il candidato ha disegnato una stellina. “Ora non c’è molto che possiamo fare per opporci a questi risultati – spiega Luigi – visto che sono scaduti i termini per ricorrere al Tar. Inoltre, molti di noi stanno tentando di nuovo il concorso quest’anno. Ecco perché preferiamo non esporci molto mediaticamente”.
IL RAPPORTO DI BANKITALIA. Eppure, decine di sentenze dimostrano come sia possibile richiedere l’annullamento anche per un solo puntino. “Cancellature, scarabocchi, codici alfanumerici. Decisamente un cuoricino è un segno distintivo per cui può essere sollecitata l’amministrazione – spiega l’avvocato Michele Bonetti –. Qui si parla di un concorso esteso. Ma mi è capitato di assistere persone che partecipavano a un concorso in cui, dei cinque candidati, c’era solo un uomo. Capirà che la grafia di un uomo è facilmente riconoscibile come tale”. Al di là delle scorrettezze, una ricerca della Banca d’Italia pubblicata qualche giorno fa ha dimostrato che in Italia, i concorsi pubblici non funzionano. O, per dirlo con le parole dei quattro economisti autori del dossier Incentivi e selezione nel pubblico impiego (Cristina Giorgiantonio, Tommaso Orlando, Giuliana Palumbo e Lucia Rizzica), “i concorsi non sembrano adeguatamente favorire l’ingresso dei candidati migliori e con il profilo più indicato”. Si parla di bandi frammentati a livello locale, di troppe differenze metodologiche tra le varie gare, di affanno nella gestione coordinata a livello nazionale. Tra il 2001 e il 2015, ad esempio, Regioni ed Enti locali hanno bandito quasi 19mila concorsi per assunzioni a tempo indeterminato, con una media di meno di due posizioni disponibili per concorso. Macchinoso anche il metodo: “Prove scritte e orali, prevalentemente volte a testare conoscenze teorico-nozionistiche” si legge nel paper. Ogni concorrente studia in media cinque mesi e oltre il 45 per cento dei partecipanti rinuncia a lavorare. Così, se si considera che solo nel 2014, 280mila individui hanno fatto domanda per partecipare a una selezione pubblica, si stima che il costo opportunità per il Paese è di circa 1,4 miliardi di euro l’anno. La conseguenza è che partecipa solo chi se lo può permettere e chi ha più tempo libero per studiare. Anche perché si preferisce la prevalenza di quesiti “nozionistici” che però rischiano di “inibire la capacità dei responsabili dell’organizzazione di valutare il possesso, da parte dei candidati, di caratteristiche pur rilevanti per le mansioni che saranno loro affidate, quali le ambizioni di carriera e la motivazione intrinseca”. A tutto questo si aggiungono l’eccesso delle liste degli idonei – il loro smaltimento determina “l’irregolarità della cadenza” dei concorsi e quindi l’incertezza e l’incostanza dell’uscita dei bandi, dice il dossier.
LA BEFFA SICILIANA. Palermo, concorsone scuola per la classe di sostegno nelle medie. Quest’anno, forse per garantire l’anonimato e l’efficienza, il concorso è stato computer based: domande e risposte al pc. Poi, tutto salvato su una penna usb con l’attribuzione di un codice a garanzia dell’anonimato. Eppure, la settimana scorsa i 32 candidati che hanno svolto la prova all’istituto Pio La Torre a fine maggio sono stati riconvocati nella sede. Dovevano indicare e ricordarsi dove fossero seduti il giorno dell’esame perché, a quanto pare, erano stati smarriti i documenti che avrebbero permesso di abbinare i loro compiti al loro nome. “È assurdo – commenta uno dei docenti – sembra una barzelletta: dovremmo fare ricorso tutti insieme, unirci e costringere una volta per tutte il Miur ad ammettere che forse non si era ancora pronti per questa svolta digitale”.
IL VOTO SUL COMPITO CHE NON È MAI STATO FATTO. Maria Teresa Muzzi è invece una docente che si era iscritta al concorso nel Lazio ma poi aveva deciso di non parteciparvi. Eppure, il 2 agosto, ha ricevuto la convocazione per la prova orale per la classe di concorso di lettere e, addirittura, un voto per uno scritto che però non ha mai fatto: 30,4. Avrebbe potuto andare a fare l’orale con la carta d’identità e ottenere una cattedra, mentre il legittimo concorrente avrebbe perso la sua chance di cambiare vita. Ha deciso di non farlo e ancora si attende la risposta dell’ufficio scolastico regionale che spieghi come sia stato possibile un errore del genere. In Liguria per la classe di concorso di sostegno nella scuola secondaria di I grado, l’ufficio scolastico regionale ha disposto la revoca della nomina della Commissione giudicatrice e l’annullamento di tutti i suoi atti perché sarebbero emersi “errori che possono influire sull’esito degli atti e delle operazioni concorsuali”. I candidati ancora attendono di avere nuovi esiti delle prove svolte. E, va ricordato, la correzione dei compiti a risposta aperta nei concorsi pubblici ha una forte componente discrezionale. “Ogni concorso pubblico ha margini di errore ed è perfettibile – spiega Bonetti –. In Italia, però, di lacune ce ne sono troppe e alcune sono strutturali al tipo di prova che si sceglie di far svolgere. L’irregolarità vera è propria, invece, riguarda le scelte politiche che, se arbitrarie e ingiuste, sono sindacabili”.
LE BUSTARELLE DI NAPOLI. Il problema è che si alza sempre più la soglia di accesso in nome della meritocrazia, ma si continuano a lasciare scoperti posti che invece servirebbe coprire. Favorendo così le chiamate dirette e i contratti precari. “Dalla scuola al ministero degli esteri all’autority delle telecomunicazioni – spiega Bonetti. La scelta politica è ancora più evidente nel settore della sanità: ci sono meccanismi di chiusura già nel mondo universitario. Oggi il corso di medicina è previsto per 10mila studenti in tutta Italia mentre le statistiche Crui dal 1990 hanno sempre registrato una media di 130mila immatricolati. Sono restrizioni con un’ideologia. Una volta entrati, ad esempio, c’è prima un altro concorso per la scuola di specializzazione e poi ancora un concorso pubblico che però è per 5mila persone. E gli altri? Attendono e alimentano il settore privato, che colma le lacune del sistema pubblico. O sono chiamati come collaboratori, con forme contrattuali che vanno dalla partita iva allo stage”. Nelle settimane scorse, il Fatto Quotidiano ha raccontato dell’algoritmo ritrovato dalla Guardia di Finanza di Napoli che avrebbe consentito ai partecipanti di rispondere in modo corretto ai quiz di accesso per un concorso. Ad averlo, uno degli indagati di un’inchiesta sui concorsi truccati per accedere all’Esercito. Nel corso delle perquisizioni la Finanza ha ritrovato 100mila euro in contanti, buste con elenchi di nomi (forse i clienti) e un tariffario: il prezzo per superare i concorsi diviso “a pacchetti”, a seconda dell’esame e del corpo al quale accedere (esercito, polizia, carabinieri). La tariffa di 50.000 euro sarebbe relativa al “pacchetto completo”: dai test fisici fino ai quiz e alle prove orali. Solo 20.000 euro, invece, per chi si affidava ai mediatori dopo aver superato le prove fisiche. Uno sconto consistente. Tutto è partito da una soffiata: un ragazzo al quale avevano fatto la proposta indecente, ha rifiutato e ha denunciato. Un altro pure ha detto no, ma senza denunciare. Virginia Della Sala, il Fatto Quotidiano 15/8/2016.
Concorsi truccati all’università, chi controlla il controllore? Scrive Alessio Liberati il 27 settembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Sta avendo una grande eco in questi giorni l’inchiesta sui concorsi truccati all’università, ove, come la scoperta dell’acqua calda verrebbe da dire, la procura di Firenze ha individuato una sorta di “cupola” che decideva carriere e futuro dei professori italiani. La cosiddetta “raccomandazione” o “spintarella” (una terminologia davvero impropria per un crimine tanto grave) è secondo me uno dei reati più gravi e meno puniti nel nostro ordinamento. Chi si fa raccomandare per vincere un concorso viene trattato meglio, nella considerazione sociale e giuridica (almeno di fatto) di chi ruba un portafogli. Ma chi ti soffia il posto di lavoro o una progressione in carriera è peggio di un ladro qualunque: è un ladro che il portafogli te lo ruba ogni mese, per sempre. Gli effetti di delitti come questo, in sostanza, sono permanenti.
Ma come si è arrivati a ciò? Va chiarito che il sistema giuridico italiano prevede due distinti piani su cui operare: quello amministrativo e quello penale. Di quest’ultimo ogni tanto si ha notizia, nei (rari) casi in cui si riesce a scoperchiare il marcio che si cela dietro ai concorsi pubblici italiani. Di quello relativo alla giustizia amministrativa si parla invece molto meno. Ma tale organo è davvero in grado di assicurare il rispetto delle regole quando si fa ricorso?
Personalmente, denuncio da anni le irregolarità che sono state commesse proprio nei concorsi per l’accesso al Consiglio di Stato, massimo organo di giustizia amministrativa, proprio quell’autorità, cioè, che ha l’ultima parola su tutti i ricorsi relativi ai concorsi pubblici truccati. Basti pensare che uno dei vincitori più giovani del concorso (e quindi automaticamente destinato a una carriera ai vertici) non aveva nemmeno i titoli per partecipare. E che dire dei tempi di correzione? A volte una media di tre pagine al minuto, per leggere, correggere e valutare. E la motivazione dei risultati attribuiti? Meramente numerica e impossibile da comprendere. Tutti comportamenti, si intende, che sono in linea con i principi giurisprudenziali sanciti proprio dalla giurisprudenza dei Tar e del Consiglio di Stato.
E allora il problema dei concorsi truccati in Italia non può che partire dall’alto: si prenda atto che la giustizia amministrativa non è in grado di assicurare nemmeno la regolarità dei concorsi al proprio interno e che, quindi, non può certo esserle affidato il compito istituzionale di decidere su altri concorsi: con un altro organo giurisdizionale che sia davvero efficace nel giudicare le irregolarità dei concorsi pubblici, al punto da costituire un effettivo deterrente, si avrebbe una riduzione della illegalità cui si assiste da troppo tempo nei concorsi pubblici italiani.
Se questa è antimafia…. In Italia, con l’accusa di mafiosità, si permette l’espropriazione proletaria di Stato e la speculazione del Sistema su beni di persone che mafiose non lo sono. Persone che non sono mafiose, né sono responsabili di alcun reato, eppure sottoposte alla confisca dei beni ed alla distruzione delle loro aziende, con perdita di posti di lavoro. Azione preventiva ad ogni giudizio. Alla faccia della presunzione d’innocenza di stampo costituzionale. Interventi di antimafiosità incentrati su un ristretto ambito territoriale o di provenienza territoriale.
Questa antimafia, per mantenere il sistema, impone la delazione e la calunnia ai sodalizi antiracket ed antiusura iscritti presso le Prefetture provinciali. Per continuare a definirsi tali, ogni anno, le associazioni locali sono sottoposte a verifica. L’iscrizione all’elenco è condizionata al numero di procedimenti penali e costituzioni di parti civili attivate. L’esortazione a denunciare, anche il nulla, se possibile. Più denunce per tutti…quindi. Chi non denuncia, anche il nulla, è complice od è omertoso.
A tal fine, per non aver adempito ai requisiti di delazione, calunnia e speculazione sociale, l’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, sodalizio nazionale di promozione sociale già iscritta al n. 3/2006 presso il registro prefettizio della Prefettura di Taranto Ufficio Territoriale del Governo, il 23 settembre 2017 è stata cancellata dal suddetto registro.
I magistrati favoriscono la mafia, scrive Barbara Di il 12 novembre 2017 su "Il Giornale".
(Quando diventano magistrati con un concorso truccato, spodestando i meritevoli, e per gli effetti sentendosi dio in terra, al di sopra della legge e della morale, ndr).
Quando lasciano indifesi i cittadini davanti ai soprusi.
Quando costringono un cittadino ad un processo eterno per vedersi dichiarare di aver ragione.
Quando non si studiano le carte di un processo e danno torto a chi ha ragione.
Quando per ignoranza applicano una legge nel modo sbagliato.
Quando ritardano anni una sentenza.
Quando un creditore con una sentenza esecutiva ci mette altri anni per avere una minima parte dei soldi spettanti.
Quando un creditore è costretto ad accettare pochi soldi, maledetti e subito per evitare un lungo e costoso processo.
Quando un proprietario di una casa occupata non riesce a riottenerla.
Quando non cacciano chi occupa abusivamente una casa popolare e chi ne avrebbe diritto dorme per strada.
Quando nei tribunali amministrativi devi attendere anni per vedere annullare provvedimenti assurdi della burocrazia o avere un’inutile autorizzazione ingiustamente negata.
Quando un cittadino è costretto a oliare la burocrazia con favori e bustarelle per non attendere anni quell’inutile autorizzazione o per non subire gli assurdi provvedimenti della burocrazia.
Quando un datore di lavoro si vede annullare il licenziamento di un ladro sindacalizzato.
Quando un lavoratore è costretto ad accettare una conciliazione e una buonuscita ridicola perché non ha soldi per un processo eterno.
Quando un cittadino vede impunito il ladro che lo ha derubato.
Quando lasciano impuniti i delinquenti perché non sono cittadini.
Quando incriminano i cittadini che tentano di difendersi da soli.
Quando danno pene ridicole e mai scontate a rapinatori e violentatori.
Quando danno pene esemplari solo ai violentatori che finiscono sui giornali.
Quando lasciano impuniti violenti devastatori che mettono a ferro e fuoco una città per ideologia.
Quando non indagano sui reati che non finiscono sui giornali.
Quando indagano sui reati solo per finire sui giornali.
Quando si inventano i reati per finire sui giornali.
Quando le assoluzioni per reati mediatici sono relegate in un trafiletto sui giornali.
Quando si inventano condanne assurde per reati mediatici che finiscono puntualmente riformate in appello.
Quando indagano sui politici per ideologia.
Quando arrestano i politici per ideologia e poi li assolvono a elezioni passate.
Quando fanno cadere i governi per impedire la riforma della giustizia.
Quando fanno carriera solo per ideologia o per i processi mediatici che si sono inventati.
Quando impediscono ai bravi magistrati di far carriera perché non appartengono alla corrente giusta o lavorano lontani dalle luci dei riflettori.
Quando non indagano sui colleghi che delinquono.
Quando non puniscono i colleghi per i loro clamorosi errori giudiziari.
Quando non applicano provvedimenti disciplinari ai colleghi che meriterebbero di essere cacciati.
Quando archiviano casi di scomparsa e li riaprono per trovare un cadavere in giardino solo dopo un servizio in televisione.
Quando invocano l’obbligatorietà dell’azione penale solo per i reati mediatici e politici anche se sono privi di riscontro.
Quando si dimenticano dell’obbligatorietà dell’azione penale quando i reati sono comuni e colpiscono i cittadini.
Quando si ricordano che un mafioso è mafioso solo quando dà una testata di stampo mafioso.
Quando un cittadino per avere ciò che gli spetta finisce per rivolgersi agli scagnozzi di un boss mafioso.
Quando gli unici territori dove i cittadini non subiscono furti, violenze e soprusi sono quelli controllati dalla mafia.
Quando i cittadini sono costretti a pagare il pizzo ai mafiosi per essere protetti.
Quando non fanno l’unica cosa che dovrebbero fare: dare giustizia per proteggere loro i cittadini.
Quando per colpa dei loro errori ed orrori in Italia ormai siamo tornati alla legge del più forte.
Quando i magistrati non fanno il loro mestiere, la mafia vince perché è il più forte.
A proposito di interdittive prefettizie.
Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. Inoltre l’antimafia preventiva diventata definitiva.
Infine, l’età adulta dell’informativa antimafia? Limiti e caratteri dell’istituto secondo una ricostruzione costituzionalmente orientata, scrive Fulvio Ingaglio La Vecchia. Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale, sentenze 29 luglio 2016, n. 247 e 3 agosto 2016, n. 257.
Interdittive antimafia, una sentenza esemplare, scrive Maria Giovanna Cogliandro, Domenica 12/11/2017 su "La Riviera on line". Di recente il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana ha emesso una sentenza in cui vengono precisate le condizioni necessarie affinché l'interdittiva antimafia, figlia della cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore, non porti a un regime di polizia che metta a rischio diritti fondamentali. In questa continua corsa alla giustizia penale, figlia del populismo antimafia fatto di santoni e tromboni che, dai sottoscala di procure e prefetture, con le stimmate delle loro immacolate esistenze, sono sempre in cerca di un succoso cattivo da dare in pasto all’opinione pubblica, capita di imbattersi in una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, una sentenza di cui tutti dovrebbero avere una copia da conservare con cura nel proprio portafoglio, in mezzo ai santini e alla tessera sanitaria. La sentenza riguarda il ricorso presentato da un gruppo di imprese contro la Prefettura di Agrigento, l'Autorità nazionale Anticorruzione e il Comune di Agrigento. Le imprese in questione sono tutte state raggiunte da interdittiva antimafia. Ricordiamo che l’interdittiva antimafia permette all’amministrazione pubblica di interrompere qualsiasi rapporto contrattuale con imprese che presentano un pericolo di infiltrazione mafiosa, anche se non è stato commesso un illecito per cui titolari o dirigenti siano stati condannati. Per dichiarare l’inaffidabilità di un’impresa è sufficiente un’inchiesta in corso, una frequentazione sospetta, un socio “opaco”, una parentela pericolosa che potrebbe condizionarne le scelte, o anche solo la mera eventualità che l’impresa possa, per via indiretta, favorire la criminalità. La sentenza in questione rompe clamorosamente con questa cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore. "Benché un provvedimento interdittivo - argomentano i Giudici - possa basarsi anche su considerazioni induttive o deduttive diverse dagli “indici presuntivi”, è tuttavia necessario che le norme che conferiscono estesi poteri di accertamento ai Prefetti al fine di consentire loro di svolgere indagini efficaci e a vasto raggio, non vengano equiparate a un’autorizzazione a tralasciare di compiere indagini fondate su condotte o su elementi di fatto percepibili poiché, se con le norme in questione il Legislatore ha certamente esteso il potere prefettizio di accertamento della sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, non ha affatto conferito licenza di basare le comunicazioni interdittive su semplici sospetti, intuizioni o percezioni soggettive non assistite da alcuna evidenza indiziaria". Non è quindi permesso far patire all'azienda un danno di immagine, sulla base di un fumus che non trovi riscontro nei fatti. In mancanza di condotte che facciano presumere che il titolare o il dirigente di un'azienda sia in procinto di commettere un reato (o che stia determinando le condizioni favorevoli per delinquere o per “favoreggiare” chi lo compia), non è legittimo che questi sia considerato come "soggetto socialmente pericoloso" e che debba, pertanto, sottostare a "misure di prevenzione" che vanno a incidere su diritti fondamentali. Per giustificare l'invio di una interdittiva antimafia, "non è sufficiente - proseguono i Giudici - affermare che uno o più parenti o amici del soggetto richiedente la certificazione antimafia risultano mafiosi, o vicini a soggetti mafiosi; o vicini o affiliati a cosche mafiose e/o a famiglie mafiose". Occorrerà innanzitutto precisare la ragione per la quale un soggetto viene considerato mafioso. "La pericolosità sociale di un individuo - dichiarano i Giudici - non può essere ritenuta una sua inclinazione strutturale, congenita e genetico-costitutiva (alla stregua di una infermità o patologia che si presenti - sia consentita l’espressione - "lombrosanamente evidente" o comunque percepibile mediante indagini strumentali o analisi biologiche), né può essere presunta o desunta in via automatica ed esclusiva dalla sua posizione socio-ambientale e/o dal suo bagaglio culturale; né, dunque, dalla mera appartenenza a un determinato contesto sociale o a una determinata famiglia (semprecchè, beninteso, i soggetti che ne fanno parte non costituiscano un’associazione a delinquere)". Nel provvedimento interdittivo vanno, inoltre, specificate le circostanze di tempo e di luogo in cui imprenditore e soggetto "mafioso" sono stati notati insieme; le ragioni logico-giuridiche per le quali si ritiene che si tratti non di mero incontro occasionale (o di incontri sporadici), ma di “frequentazione effettivamente rilevante", ossia di relazione periodica, duratura e costante volta a incidere sulle decisioni imprenditoriali. In poche parole, prendere il caffè con un mafioso o presunto tale non è sufficiente. Inoltre, emerge dalla sentenza, qualificare un soggetto “mafioso” sulla scorta di meri sospetti e a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria comporterebbe un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità "simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole e imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni e infiltrazioni mafiose realmente inquinanti". L'interdittiva che inchioda per ipotesi non combatte la delinquenza e la criminalità ma diviene strumentale per sgomberare il campo da personaggi scomodi. "D’altro canto - concludono i giudici - se per attribuire a un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza a una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono". Amen. Ripeto: questa è una sentenza da conservare accanto ai santini. E plastificatela, per evitare che si sgualcisca col tempo.
La strada dell'inquisizione è lastricata dalla cattiva antimafia. Una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione siciliana mette in guardia dagli abissi in cui rischiamo di sprofondare perdendo di vista i capisaldi dello Stato di diritto, scrive Rocco Todero il 29 Settembre 2017 su "Il Foglio". Nell’Italia che si è presa il vizio di accusare a sproposito la giustizia amministrativa di essere la causa della propria arretratezza economica e sociale capita di leggere una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana (una sezione del Consiglio di Stato distaccata a Palermo) che dovrebbe essere mandata giù a memoria da quanti nel nostro Paese vivono facendo mostra di stellette meritocratiche (più o meno veritiere) negli uffici delle prefetture, nelle aule dei tribunali, nelle sedi delle università, nelle redazioni di molti giornali e, in ultimo, anche nelle aule del Parlamento. Da molti anni, oramai, si combatte in sede giudiziaria una battaglia sulle modalità di applicazione delle misure di prevenzione, le cosiddette informative antimafia, per mezzo delle quali l’eccessiva solerzia inquisitoria degli uffici periferici del Ministero dell’Interno cerca di realizzare quella che nel linguaggio giuridico si definisce una “tutela anticipata” del crimine, un’azione cioè volta a contrastare i tentativi di infiltrazione mafiosa nel tessuto economico - sociale senza che, tuttavia, si manifestino azioni delittuose vere e proprie da parte dei soggetti interdetti. Il risultato nel corso degli anni è stato abbastanza sconfortante, poiché decine di imprese individuali e società commerciali sono state colpite dall’informativa antimafia e poste, molto spesso, sotto amministrazione prefettizia sulla base di un semplice sospetto coltivato dalle forze dell’ordine. A molti, troppi, è capitato, così, di trovarsi sotto interdittiva antimafia (solo per fare alcuni esempi) a causa di un parente accusato di appartenere ad un’associazione mafiosa o per colpa di un’indagine penale per 416 bis poi sfociata nel proscioglimento o nell’assoluzione o perché una società con la quale s’intrattengono rapporti commerciali è stata a sua volta interdetta per avere stipulato contratti con altra impresa sospettata di subire infiltrazioni mafiose (si, è proprio cosi, si chiama informativa a cascata o di secondo o terzo grado: A viene interdetto perché intrattiene rapporti commerciali con B, il quale non è mafioso, ma coltiva contatti economici con C, il quale ultimo è sospettato di essere, forse, soggetto ad infiltrazioni mafiose. A pagarne le conseguenze è il soggetto A, perché l’infiltrazione mafiosa passerebbe per presunzione giudiziaria da C a B e da B ad A). Spesso i Tribunali amministrativi competenti a conoscere della legittimità delle informative antimafia emanate dalle Prefettura sono stati sin troppo indulgenti con l’Amministrazione pubblica, sacrificando l’effettività della tutela dei diritti fondamentali dei cittadini sull’altare di una lotta alle infiltrazioni mafiose che risente oramai troppo della pressione atmosferica di un clima allarmistico pompato ad arte per ben altri e meno nobili fini politici. Qualche settimana fa, invece, il Consiglio di Giustizia Amministrativa siciliano (composto dai magistrati Carlo Deodato, Carlo Modica de Mohac, Nicola Gaviano, Giuseppe Barone e Giuseppe Verde), dovendo decidere in sede d'appello dell’ennesima informativa antimafia emessa dalla Prefettura di Agrigento, ha sostanzialmente scritto un bellissimo e coraggioso saggio di cultura giuridica liberale, dimostrando che la lotta alla mafia si può ben coltivare salvaguardando i capisaldi di uno Stato di diritto liberal democratico moderno. Il Tribunale ha preso atto del fatto che per stroncare sul nascere la diffusione di alcune condotte criminose non si può fare altro che emettere “giudizi prognostici elaborati e fondati su valutazioni a contenuto probabilistico” che colpiscono soggetti in uno stadio “addirittura anteriore a quello del tentato delitto”. Ma alla pubblica amministrazione, argomentano i Giudici, non è permesso di scadere nell’arbitrio, cosicché non sarà mai sufficiente un mero “sospetto” per giustificare la limitazione delle libertà fondamentali dell’individuo. Si dovranno piuttosto documentare fatti concreti, condotte accertabili, indizi che dovranno essere allo stesso tempo gravi, precisi e concordanti. Non potranno mai essere sufficienti, continua il Tribunale, mere ipotesi e congetture e non potrà mai mancare un “fatto” concreto, materiale, da potere accertare nella sua esistenza, consistenza e rilevanza ai fini della verosimiglianza dell’infiltrazione mafiosa. Per potere affermare che l’impresa di Tizio è sospettata d'infiltrazioni mafiose, allora, non sarà sufficiente affermare che essa intrattiene rapporti con l’impresa di Caio (non mafiosa) che a sua volta, però, ha stipulato accordi con Mevio (lui si, sospettato di collusioni con la mafia), ma sarà necessario dimostrare che una qualche organizzazione mafiosa (ben individuata attraverso i soggetti che agiscono per essa, non la “mafia” genericamente intesa) stia tentando, in via diretta, d’infiltrarsi nell’azienda del primo soggetto. Il legame di parentela con un mafioso, chiariscono ancora i magistrati, non può avere alcuna rilevanza ai fini del giudizio sull’informativa antimafia se non si dimostrerà che chi è stato colpito dal provvedimento interdittivo, lui e non altri, abbia posto in essere comportamenti che possano destare allarme sociale per il loro potenziale offensivo dell’interesse pubblico, “non essendo giuridicamente e razionalmente sostenibile che il mero rapporto di parentela costituisca di per sé, indipendentemente dalla condotta, un indice sintomatico di pericolosità sociale ed un elemento prognosticamente rilevante”. La nostra non è l'epoca del medioevo, conclude il Consiglio di Giustizia Amministrativa, e l'ordinamento giuridico non può svestire i panni dello Stato di diritto: “Sicché, ove fosse possibile qualificare “mafioso” un soggetto sulla scorta di meri sospetti ed a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria si perverrebbe ad un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale (che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole ed imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni ed infiltrazioni mafiose realmente inquinanti). D’altro canto, se per attribuire ad un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza ad una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono.” Da mandare giù a memoria. Altro che il nuovo codice antimafia con il quale fare propaganda manettara a buon mercato.
A proposito di sequestri preventivi giudiziari.
Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.
"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.
Dove non arrivano con le interdittive prefettizie, arrivano con i sequestri preventivi.
Interdittive: decine di aziende uccise dal reato di parentela mafiosa, scrive Simona Musco il 4 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Il fenomeno delle interdittive è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione del 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. Solo dalla Prefettura di Reggio Calabria, negli ultimi 14 mesi, sono partite 130 interdittive. Quasi dieci ogni 30 giorni, tutte frutto della gestione del Prefetto Michele Di Bari, approdato nella città dello Stretto ad agosto 2016. Un numero enorme che conferma una tendenza crescente, soprattutto in Calabria, dove in poco più di cinque anni le aziende hanno depositato quasi 500 ricorsi nelle cancellerie dei tribunali amministrativi di Catanzaro e Reggio Calabria. Ma il fenomeno – i cui dai sono ancora incerti – è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione della materia nel 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. I numeri non sono ancora chiari, dato che gli archivi informatici dello Stato non hanno tutti i dati. E così succede che mentre dai siti dei tribunali amministrativi risulta un numero enorme di ricorsi (circa 2000 in cinque anni) e annullamenti (tra i 40 e i 90 l’anno), le cifre fornite dalla Dia, la Direzione investigativa antimafia, parlano di 31 annullamenti dal 2011 fino a maggio 2015. Numeri snelliti dal vuoto di informazioni dalle Prefetture di Napoli, Reggio Calabria e Vibo Valentia. La parte più corposa, dunque. La ratio dello strumento è chiara: «contrastare le forme più subdole di aggressione all’ordine pubblico economico, alla libera concorrenza ed al buon andamento della pubblica amministrazione», sentenzia il Consiglio di Stato. Un provvedimento preventivo, che prescinde quindi dall’accertamento di singole responsabilità penali e anticipa la soglia di difesa. «Per questo – dice ancora il Consiglio di Stato – deve essere respinta l’idea che l’informativa debba avere un profilo probatorio di livello penalistico e debba essere agganciata a eventi concreti ed a responsabilità addebitabili». Se c’è un sospetto, dunque, la Prefettura ha il potere e il dovere di tranciare i rapporti tra aziende private e pubblica amministrazione, attraverso tutta una serie di accertamenti ai quali non si può replicare fino a quando non diventano di pubblico dominio. Ovvero quando l’azienda colpita viene esclusa dai bandi pubblici e marchiata come infetta. Un’etichetta che, a volte, è giustificata da elementi tangibili e concreti, consentendo quindi di sfilare dalle mani dei clan l’appalto, ma altre decisamente meno. Tant’è che sono centinaia i ricorsi vinti, di una vittoria che però è solo parziale: sempre più spesso, infatti, chi si è visto colpire da un’interdittiva, pur vincendo il proprio ricorso, non riesce più a reinserirsi nel mondo del lavoro. Partiamo dal modus operandi: la Prefettura punta gran parte della sua decisione sui legami di parentela e su frequentazioni poco raccomandabili. Nulla o quasi, invece, si dice su fatti concreti che possano far temere effettivamente un condizionamento mafioso. Ed è proprio questo che fa crollare i provvedimenti davanti ai giudici amministrativi, per i quali non basta basarsi su rapporti commerciali e di parentela, «da soli insufficienti», dice ancora il Consiglio di Stato. Occorrono perciò, aggiunge, «altri elementi indiziari a dimostrazione del “contagio”». E «non possono bastare i precedenti penali» riferiti «ad indagini in seguito archiviate e, in altra parte, a condanne molto risalenti nel tempo», in quanto servono elementi «concreti e riferiti all’attualità». Un’interpretazione confermata anche dalla Corte costituzionale, secondo cui è arbitrario «presumere che valutazioni comportamenti riferibili alla famiglia di appartenenza o a singoli membri della stessa diversi dall’interessato debbano essere automaticamente trasferiti all’interessato medesimo». Ma è proprio questo il meccanismo che genera un circolo vizioso capace di far risucchiare una parte rilevante dell’economia dal vortice del sospetto. E le conseguenze non sono solo per le ditte: le interdittive, infatti, colpiscono aziende impegnate in appalti pubblici che così rimangono bloccati, cantieri aperti che si richiuderanno magari dopo anni. Dell’ambiguità dello strumento, lo scorso anno, aveva parlato il senatore Pd e membro della Commissione parlamentare antimafia Stefano Esposito, che al convegno “Warning on crime” all’Università di Torino aveva dichiarato che «lo strumento non funziona e nel 60% dei casi le interdittive vengono respinte» dai giudici amministrativi. Chiedendo dunque una riforma, che anche Rosy Bindi, poco prima, aveva annunciato, nel 2015. «Le interdittive antimafia sono uno strumento statico, mentre la lotta alla mafia ha bisogno di film», ha spiegato. Un film che nel nuovo codice antimafia coincide col controllo giudiziario delle aziende sospette, i cui risultati sono ancora tutti da vedere.
Che affare certe volte l’antimafia! Scrive Piero Sansonetti il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio". I “paradossi” calabresi. Questa storia calabrese è molto istruttiva. La racconta nei dettagli, nell’articolo qui sopra, Simona Musco. La sintesi estrema è questa: un imprenditore incensurato, e senza neppure un grammo di carichi pendenti (che oltretutto è presidente di Confindustria), vince un appalto per costruire i parcheggi del palazzo di Giustizia a Reggio. Un lavoro grosso: più di 15 milioni. Al secondo posto, in graduatoria, una azienda amministrata da un deputato di Scelta Civica. L’azienda del deputato protesta per aver perso la gara e ricorre al Tar. Il Tar dà ragione all’imprenditore e torto all’azienda del deputato. Poi, all’improvviso, non si sa come, la Prefettura fa scattare l’interdittiva e cioè, per motivi cautelari, toglie l’appalto all’imprenditore e lo assegna all’azienda del deputato che aveva perso la gara. Come è possibile? Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. E allora io quell’appalto di 16 milioni di euro te lo levo e lo porgo all’azienda di un deputato. Il deputato in questione, peraltro, fa parte della commissione antimafia. E lo Stato di diritto? E la libera concorrenza? E l’articolo 3 del- la Costituzione? Beh, mettetevi il cuore in pace: esiste una parte del territorio nazionale, e in modo particolarissimo la Calabria, nel quale lo Stato di diritto non esiste, non esiste la libera concorrenza e l’Articolo 3 della Costituzione (quello che dice che tutti sono uguali davanti alla legge) non ha effetti. La ragione di questo Far West, in gran parte, è spiegabile con la presenza della mafia, che la fa da padrona, fuori da ogni regola. Ma anche lo Stato, che la fa da padrone, altrettanto al di fuori da ogni regola, e da ogni senso di giustizia, e mostrando sempre il suo volto prepotente, come questa storia racconta. Lo Stato, con la mafia, è responsabile del Far West. Allora il problema è molto semplice. È assolutamente impensabile che si possa condurre una battaglia seria contro la mafia e la sua grande estensione in alcune zone del Sud Italia, se non si ristabiliscono le regole e se non si riporta lo Stato alla sua funzione, che è quella di produrre equità e sicurezza sociale, e non di produrre prepotenza, incertezza e instabilità. La chiave di tutto è sempre la stessa: ristabilire lo Stato di diritto. E questo, naturalmente, vuol dire che bisogna impedire che i commercianti – ad esempio – siano taglieggiati dalla mafia, ma bisogna anche impedire che i diritti di tutti i cittadini – non solo quelli onesti – siano sistematicamente calpestati. La sospensione della legalità, gli strumenti dell’emergenza (come le interdittive, le commissioni d’accesso e simili) possono avere una loro utilità solo in casi rarissimi e in situazioni molto circoscritte. E solo se usati con rigore estremo e sempre con il terrore di commettere prevaricazioni e ingiustizie. Se invece diventano semplicemente – come succede molto spesso – strumenti di potere dell’autorità, magari frustrata dai suoi insuccessi nella battaglia contro la mafia, allora producono un effetto moltiplicatore, proprio loro, del potere mafioso. Perché la discrezionalità, l’arroganza, l’ingiustizia, creano una condizione sociale e psicologica di massa, nella quale la mafia sguazza. Naturalmente non ho proprio nessun elemento per immaginare che l’azienda che ha fatto le scarpe a quella dell’ex presidente di Confindustria (che si è dimesso dopo aver ricevuto questa interdittiva, che ha spezzato le gambe alla sua azienda e i nervi a lui), e cioè l’azienda del deputato dell’antimafia, abbia brigato per ottenere l’interdittiva contro il concorrente. Non ho mai sopportato la politica e il giornalismo che vivono di sospetti. Però il messaggio che è stato mandato alla popolazione di Reggio Calabria, oggettivamente, è questo: se non sei protetto dalla “compagnia dell’antimafia” qui non fai un passo. E se sei deputato, comunque, sei avvantaggiato. Capite che è un messaggio letale? P. S. Conosco molto bene l’imprenditore di cui sto parlando, e cioè Andrea Cuzzocrea, la cui azienda ora è al palo e rischia di fallire. Lo conosco perché insieme a un gruppo di giornalisti dei quali facevo parte, organizzò quattro anni fa la nascita di un giornale, che si chiamava “Il Garantista” e che durò poco perché dava fastidio a molti (personalmente, in quanto direttore di quel giornale, ho collezionato una trentina di querele) e non aveva una lira in cassa. “Il Garantista” era edito da una cooperativa, molto povera, della quale lui assunse per un periodo la presidenza. Non so quali telefonate ebbe con Teresa Munari. Però so per certo due cose. La prima è che Teresa Munari era una giornalista molto accreditata negli ambienti democratici di Reggio Calabria. L’ho conosciuta quattro o cinque anni fa, mi invitò a casa sua a una cena. C’erano anche il Procuratore generale di Reggio e una deputata molto famosa per il suo impegno “radicale” contro la mafia. La Munari collaborò a “Calabria Ora”, giornale regionale che al tempo dirigevo, e successivamente al “Garantista”. Non era raccomandata. E non fu mai, mai assunta. Non era in redazione, non partecipava alla vita del giornale, scriveva ogni tanto degli articoli, che siccome non avevamo il becco di un quattrino credo che non gli pagammo mai. Qualcuno è in grado di spiegarmi come si fa a dire che uno non può costruire un parcheggio perché una volta ha telefonato a Teresa Munari?
Levano l’appalto a un imprenditore incensurato e lo danno a un deputato dell’antimafia, scrive Simona Musco il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Reggio Calabria: un imprenditore incensurato si vede annullata l’assegnazione, e i lavori per 16 milioni sono affidati all’azienda di un deputato.
PARADOSSI CALABRESI. Una azienda di Reggio Calabria, guidata da imprenditori incensurati e senza carichi pendenti, vince un appalto molto ricco: la costruzione del parcheggio del palazzo di Giustizia. È un lavoro grosso, da 16 milioni. L’azienda che è arrivata seconda, nella gara d’appalto, fa ricorso. Il Tar gli dà torto. E conferma l’appalto all’azienda che si è classificata prima (su 19). Allora interviene il Prefetto e fa scattare l’interdittiva per l’azienda vincitrice. Che vuol dire? Che il prefetto ha questo potere discrezionale di interdire una azienda, temendo infiltrazioni mafiose, anche se questa azienda non è inquisita. E il prefetto di Reggio ha esercitato questo potere. E così il lavoro è passato al secondo classificato. Chi è? È un deputato. Un deputato della commissione antimafia.
Un appalto da 16 milioni di euro per la costruzione del parcheggio del nuovo Palazzo di Giustizia. Diciannove aziende che decidono di provarci e due che arrivano in cima alla graduatoria con pochissimi punti di distacco. E un’interdittiva antimafia che fa transitare l’appalto dalle mani della prima – la Aet srl – alla seconda, la Cosedil, fondata da un parlamentare della Commissione antimafia, Andrea Vecchio, e patrimonio della sua famiglia. È successo a Reggio Calabria, dove l’ex presidente di Confindustria Andrea Cuzzocrea ha visto sparire, in pochi mesi, un lavoro imponente, la poltrona di presidente degli industriali e la credibilità. Tutto a causa di uno strumento preventivo – l’interdittiva – che ora rischia di mandare a gambe all’aria l’azienda, da sempre attiva negli appalti pubblici, e i due imprenditori che la amministrano, Cuzzocrea e Antonino Martino, entrambi incensurati.
UN APPALTO DIFFICILE. Tutto comincia nel 2016, quando la Aet srl vince l’appalto per la costruzione dei parcheggi del tribunale di Reggio Calabria. Un lavoro che la città attendeva da tempo e che, finalmente, sembra potersi sbloccare. Ma i tempi per la firma del contratto vengono rallentati dai ricorsi. In prima fila c’è la Cosedil spa, azienda siciliana, che chiede al Tar la verifica dell’offerta presentata dalla Aet e dei requisiti dell’azienda e di conseguenza l’annullamento dei verbali di gara. I giudici amministrativi valutano il ricorso, bocciando tutte le obiezioni tranne una, quella relativa la giustificazione degli oneri aziendali della sicurezza, per i quali la Commissione giudicatrice dell’appalto avrebbe commesso «un macroscopico difetto d’istruttoria». Un errore, si legge nella sentenza, dal quale però non deriva «automaticamente l’obbligo di escludere la società prima classificata». Il Tar, a gennaio, interpella dunque la Stazione unica appaltante, alla quale chiede di effettuare una nuova verifica sull’offerta dell’Aet. Risultato: viene confermata «la regolarità e la correttezza» dell’aggiudicazione dell’appalto. La firma sul contratto per l’avvio dei lavori, dunque, sembrano avvicinarsi.
L’INTERDITTIVA. Ma l’iter per far partire i cantieri subisce un altro stop, quando ad aprile la Prefettura emette un’informativa interdittiva a carico dell’azienda, escludendola, di fatto, dai giochi. Cuzzocrea, che nel 2013 aveva chiesto alla Commissione parlamentare antimafia di «istituire le white list obbligatorie per gli appalti pubblici, rendendo così più trasparente un settore delicatissimo», si dimette da presidente di Confindustria. L’interdittiva riassume elementi già emersi in precedenza nella corposa relazione che ha portato allo scioglimento dell’amministrazione di Reggio Calabria, elementi già confutati, ai quali si aggiunge un nuovo dato, relativo alla parentesi da editore di Cuzzocrea. Ed è sulla base di quello che la Prefettura rivaluta tutto il passato, sebbene esente da risvolti giudiziari. Si tratta del contatto (finito nell’operazione “Reghion”) tra Cuzzocrea e l’ex deputato Paolo Romeo, già condannato definitivamente per concorso esterno in associazione mafiosa e ora in carcere in quanto considerato dalla Dda reggina a capo della cupola masso- mafiosa che governa Reggio Calabria. Nessun rapporto, almeno documentato, prima del 2014: i due si conoscono a gennaio di quell’anno, in Senato, dove sono stati entrambi invitati, in quanto rappresentanti delle associazioni, per discutere della costituenda città metropolitana. Dopo quella volta un unico contatto: Cuzzocrea, presidente della società editrice del quotidiano Cronache del Garantista, viene contattato da Romeo, che gli chiede di valutare l’assunzione di una giornalista, Teresa Munari, secondo la Dda strumento nelle mani di Romeo. Cuzzocrea propone la giornalista, nota in città e ormai in pensione, al direttore Sansonetti, che la inserisce tra i collaboratori, pur senza un contratto. Tra i pezzi scritti dalla Munari su quella testata ce n’è uno in particolare, considerato dalla Dda utile alla causa di Romeo. Che avrebbe perorato la causa dell’amica facendola passare come «un’opportunità per il giornale e non come un favore che richiedeva per sé stesso o per la giornalista», si legge nel ricorso presentato al Consiglio di Stato dalla Aet. La Prefettura non contesta nessun altro contatto tra Romeo e Cuzzocrea, che, scrivono i legali dell’azienda, «non poteva pensare, visto il modo in cui la cosa era stata richiesta, che vi fossero doppi fini nel suggerimento ricevuto. Romeo – si legge ancora – non ha mai avuto altri contatti con l’ingegnere Cuzzocrea ed è detenuto. Non si comprende, quindi, perché ci sarebbe il rischio che possa, iniziando oggi (perché in passato non è successo), condizionare l’attività della Aet». Gli elementi vecchi riguardano invece il socio Antonino Martino, socio al 50 per cento, e coinvolto, nel 2004, nell’operazione antimafia “Prius”, assieme ad alcuni suoi familiari. Un’indagine conclusa, per Martino, con l’archiviazione, chiesta dallo stesso pm, il 5 marzo 2009. Di lui un pentito aveva detto, per poi essere smentito, di essersi intestato, tra il 1992 e il 1993, un magazzino, in realtà riconducibile al temibile clan Condello di Reggio Calabria. Intestazione fittizia, dunque, ipotesi che si basava anche sulla convinzione – sbagliata – che il padre di Martino, Paolo, fosse parente di Domenico Condello. Tali elementi, nel 2013, non erano bastati alla Prefettura per interdire la Aet, tanto che l’azienda aveva ricevuto il nulla osta e l’inserimento nella “white list”, la lista di aziende pulite che possono lavorare con la pubblica amministrazione. E se anche fossero potenzialmente fonte di pericolo non sarebbero più attuali, considerato che, contestano i legali dell’azienda, Paolo Martino è morto e Condello si trova in carcere.
LA COSEDIL. La Aet, dopo la richiesta di sospensiva dell’interdittiva rigettata dal Tar, attende ora il giudizio del Consiglio di Stato. Nel frattempo, alle spalle dell’azienda reggina, rimane la Cosedil, fondata nel 1965 dal parlamentare del Gruppo Misto Andrea Vecchio. La Spa, secondo le visure camerali, è amministrata dai figli del parlamentare che rimane, come recita il suo profilo Linkedin, presidente onorario. Ma Vecchio, componente della Commissione antimafia, nelle dichiarazioni patrimoniali pubblicate sul sito della Camera si dichiara amministratore unico di una delle aziende che partecipano la Cosedil (la Andrea Vecchio partecipazioni) e consigliere della Cosedil stessa. Che rimane l’unica titolata a prendere, con un iter formalmente impeccabile, l’appalto.
Antimafia mafiosa. Come reagire, scrive il 27 settembre 2017 Telejato. C’È, È INUTILE RIPETERLO TROPPE VOLTE, UNA CERTA PRESA DI COSCIENZA DELLA TURPITUDINE DELLA LEGISLAZIONE ANTIMAFIA, CHE MEGLIO SAREBBE DEFINIRE “LEGGE DEI SOSPETTI”. ANCHE I PIÙ COCCIUTI COMINCIANO AD AVVERTIRE CHE NON SI TRATTA DI “ABUSI”, DI DOTTORESSE SAGUTO, DI “CASI” COME QUELLO DEL “PALAZZO DELLA LEGALITÀ”, DI FRATELLANZE E CUGINANZE DI AMMINISTRATORI DEVASTANTI. È tutta l’Antimafia che è divenuta e si è rivelata mafiosa. Come si addice al fenomeno mafioso, questa presa di coscienza rimane soffocata dalla paura, dal timore reverenziale per le ritualità della dogmatica dell’antimafia devozionale, del komeinismo nostrano che se ne serve per “neutralizzare” la nostra libertà. Molti si chiedono e ci chiedono: che fare? È già qualcosa: se è vero, come diceva Manzoni, che il coraggio chi non c’è l’ha non se lo può dare, è vero pure che certi interrogativi sono un indizio di un coraggio che non manca o non manca del tutto. Non sono un profeta, né un “maestro” e nemmeno un “antimafiologo”, visto che tanti mafiologhi ci hanno deliziato e ci deliziano con le loro cavolate. Ma a queste cose ci penso da molto tempo, ci rifletto, colgo le riflessioni degli altri. E provo a dare un certo ordine, una certa sistemazione logica a constatazioni e valutazioni. E provo pure a dare a me stesso ed a quanti me ne chiedono, risposte a quell’interrogativo: che fare? Io credo che, in primo luogo, occorre riflettere e far riflettere sul fatto che il timore, la paura di “andare controcorrente” denunciando le sciagure dell’antimafia e la sua mafiosità, debbono essere messe da parte. Che se qualcuno non ha paura di parlar chiaro, tutti possono e debbono farlo. Secondo: occorre affermare alto e forte che il problema, i problemi non sono quelli dell’esistenza delle dott. Saguto. Che gli abusi, anche se sono tali sul metro stesso delle leggi sciagurate, sono la naturale conseguenza delle leggi stesse. Che si abusa di una legge che punisce i sospetti e permette di rovinare persone, patrimoni ed imprese per il sospetto che i titolari siano sospettati è cosa, in fondo, naturale. Sarebbe strano che, casi Saguto, scioglimenti di amministrazioni per pretesti scandalosi di mafiosità, provvedimenti prefettizi a favore di monopoli di certe imprese con “interdizione” di altre, non si verificassero. Terzo. Occorre che allo studio, alle analisi giuridiche e costituzionali delle leggi antimafia e delle loro assurdità, si aggiungano analisi, studi, divulgazioni degli uni e degli altri in relazione ai fenomeni economici disastrosi, alle ripercussioni sul credito, siano intrapresi, approfonditi e resi noti. Possibile che non vi siano economisti, commercialisti, capaci di farlo e di spendersi per affrontare seriamente questi aspetti fondamentali della questione? Cifre, statistiche, comparazioni tra le Regioni. Il quadro che ne deriverà è spaventoso. Quindi necessario. E’ questo l’aspetto della questione che più impressionerà l’opinione pubblica. E poi: non tenersi per sé notizie, idee, propositi al riguardo. Questo è il “movimento”. Il movimento di cui molti mi parlano. Articolo di Mauro Mellini. Avvocato e politico italiano. È stato parlamentare del Partito Radicale, di cui fu tra i fondatori.
Ma cosa sarebbe codesta antimafia, che tutto gli è concesso, se non ci fosse lo spauracchio mediatico della mafia di loro invenzione? E, poi, chi ha dato la patente di antimafiosità a certi politicanti di sinistra che incitano le masse…e chi ha dato l’investitura di antimafiosità a certi rappresentanti dell’associazionismo catto-comunista che speculano sui beni…e chi ha dato l’abilitazione ad essere portavoci dell’antimafiosità a certi scribacchini di sinistra che sobillano la società civile? E perché questa antimafiosità ha immenso spazio su tv di Stato e giornali sostenuti dallo Stato per fomentare questa deriva culturale contro la nostra Nazione o parte di essa. Discrasia innescata da gruppi editoriali che influenzano l’informazione in Italia?
Fintanto che le vittime dell’antimafia useranno o subiranno il linguaggio dei loro carnefici, continueremo ad alimentare i cosiddetti antimafiosi che lucreranno sulla pelle degli avversari politici.
Se la legalità è l’atteggiamento ed il comportamento conforme alla legge, perché l’omologazione alla legalità non è uguale per tutti,…uguale anche per gli antimafiosi? La legge va sempre rispettata, ma il legislatore deve conformarsi a principi internazionali condivisi di più alto spessore che non siano i propri interessi politici locali prettamente partigiani.
Va denunciato il fatto che l’antimafiosità è solo lotta politica e di propaganda e la mafia dell’antimafia è più pericolosa di ogni altra consorteria criminale, perchè: calunnia, diffama, espropria e distrugge in modo arbitrario ed impunito per sola sete di potere. La mafia esiste ed è solo quella degli antimafiosi, o delle caste o delle lobbies o delle massonerie deviate. E se per gli antimafiosi, invece, tutto quel che succede è mafia…Allora niente è mafia. E se niente è mafia, alla fine gli stranieri considereranno gli italiani tutti mafiosi.
Invece mafioso è ogni atteggiamento e comportamento, da chiunque adottato, di sopraffazione e dall’omertà, anche istituzionale, che ne deriva.
Non denunciare ciò rende complici e di questo passo gli sciasciani non avranno mai visibilità se rimarranno da soli ed inascoltati.
Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.
"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.
La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la Saguto e per 15 suoi amici, scrive il 26 ottobre 2017 Telejato. DOPO MESI DI INDAGINI, INTERROGATORI, INTERCETTAZIONI, IL NODO È ARRIVATO AL PETTINE. La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la signora Silvana Saguto, già presidente dell’Ufficio Misure di prevenzione, accusata assieme ad altri 15 imputati, di corruzione, abuso d’ufficio, concussione, truffa aggravata, riciclaggio, dopo una requisitoria durata cinque ore. Saranno invece processati col rito abbreviato i magistrati Tommaso Virga, Fabio Licata e il cancelliere Elio Grimaldi. Tra coloro per cui è stato chiesto il rinvio figurano il padre, il figlio Emanuele e il marito della Saguto, il funzionario della DIA Rosolino Nasca, i docenti universitari Roberto Di Maria e Carmelo Provenzano, assieme ad altri suoi parenti, l’ex prefetto di Palermo Francesca Cannizzo. Posizione stralciata anche per l’altro ex giudice dell’ufficio misure di prevenzione Chiaramontee per il suo compagno Antonio Ticali, per il quale la procura ha chiesto l’archiviazione, e per l’altro professore universitario Luca Nivarra e rito abbreviato per Cappellano Seminara. Prossima udienza il 6 novembre, con la parola alle parti civili e al collegio di difesa. Inutile soffermarci ancora sull’allegro e criminoso modo, portato avanti dalla Saguto, di mettere sotto sequestro aziende alle quali, in qualche modo spesso solo indiziario, si attribuiva una patente di mafiosità per procedere alla loro requisizione e affidarne la gestione agli avvocati o economisti che facevano parte del cerchio magico. L’amministrazione giudiziaria di questi beni ha arrecato danni irreversibili all’economia siciliana, poiché le aziende sono state smantellate e non più restituite, anche quando i proprietari sono stati penalmente assolti da ogni imputazione. E proprio oggi arriva la notizia del dissequestro di due aziende finite nel mirino della Saguto, che nel febbraio 2014 ne aveva disposto il sequestro: si tratta della Fattoria Ferla e della Special Fruit, che hanno operato da anni all’interno del settore ortofrutticolo e che oggi, dopo la disamministrazione affidata a Nicola Santangelo, oggi anche lui sotto processo, sono finite in liquidazione, lasciando disoccupati una decina di lavoratori. Le due aziende erano state accusate di essere sotto la protezione del boss dell’Acquasanta Galatolo, nell’ambito di un sequestro di 250 milioni, ma dopo l’attenta valutazione condotta dai magistrati dell’ufficio misure di prevenzione, oggi affidato al nuovo presidente Malizia e ai giudici Luigi Petrucci e Giovanni Francolini, è stato disposto il dissequestro, in quanto non esiste “neanche il sospetto” di infiltrazioni mafiose. Restano ancora sotto sequestro altri beni ed è in corso il procedimento per il successivo dissequestro.
L’antimafia preventiva diventata definitiva, scrive il 13 ottobre 2017 Telejato.
LA PREVENZIONE. Il caso Saguto ha causato l’implosione di un sistema concepito in origine per aggredire i patrimoni mafiosi e colpire i mafiosi nelle loro ricchezze costruite con l’illegalità. Il sistema, giorno dopo giorno è diventato un metodo in virtù del grande potere attribuito ai giudici di poter sequestrare i beni, anche attraverso la semplice “legge del sospetto”, e di poterli tenere sotto sequestro anche quando i procedimenti penali hanno ufficialmente decretato l’infondatezza di questo sospetto e prosciolto i cosiddetti “preposti”, cioè soggetti a sequestro da ogni imputazione di associazione, contiguità, concorso con il malaffare mafioso. Ancora oggi restano sotto sequestro immensi patrimoni di soggetti che, in altri periodi si sono piegati alla legge del pizzo, in alcuni casi per continuare a lavorare, in altri casi, è giusto dirlo, anche per avere mano libera nel badare ai propri affari. Quello che per loro era un “piegarsi alla regola” della “messa a posto”, per sopravvivere, diventa accusa di collaborazione e concorso in associazione mafiosa, così che le vittime diventano complici. L’imprenditoria siciliana, soprattutto nei suoi risvolti commerciali e nell’edilizia, ha subito tremende battute d’arresto, poiché la mannaia della prevenzione si è abbattuta su aziende che davano lavoro a migliaia di siciliani oggi disoccupati, senza preoccuparsi di sorvegliare la gestione dei beni confiscati, affidati ad amministratori giudiziari, alcuni senza scrupoli, altri del tutto incapaci e incompetenti, che hanno prosciugato i beni dell’azienda loro affidata per foraggiare se stessi e i propri collaboratori. In tal modo quello che avrebbe dovuto essere un momento “preventivo”, al fine di evitare la reiterazione del reato, diventa un momento definitivo, dato il prolungamento all’infinito delle misure di prevenzione, anche ad assoluzione penale avvenuta.
LA NUOVA LEGGE ANTIMAFIA. Da parte di alcuni settori si è gridato alla vittoria e al passo in avanti dato dal nuovo codice antimafia, approvato nel settembre scorso, ma, come abbiamo più volte scritto, si tratta di una legge nata vecchia, con qualche ritocco alla vecchia legge del 2012, senza che siano indicate regole precise né sul periodo, cioè sulla durata in cui un bene deve essere tenuto sotto sequestro, né sulle prove e sulle condizioni che dovrebbero giustificare il sequestro, né sulle penalità da attribuire agli amministratori incompetenti o ai magistrati che hanno agito frettolosamente, senza che la loro azione sia stata giustificata da un minimo di sentenza. È rimasto il solco tra procedimento penale e procedimento di prevenzione, anzi il procedimento di prevenzione è stato esteso anche ai reati di corruzione, commessi in associazione, senza garanzie sulla possibile restituzione e sul risarcimento dei danni causati dalla disamministrazione. Insomma, come al solito non pagherà nessuno e i magistrati potranno continuare ad agire nel massimo della libertà che non è sempre garanzia di giustizia.
I RESPONSABILI. Dopo questa premessa citiamo, e ricordiamo i numerosi nomi di amministratori che, in un modo o in un altro hanno contribuito a creare sfiducia nella possibilità di potere portare avanti un’azione antimafia decisa e corretta, che avrebbe dovuto avere come finalità primaria la possibilità di non affossare l’economia siciliana, ma di salvaguardarla dalle infiltrazioni mafiose e di costruirla nel rispetto delle regole parallelamente alle condizioni di crisi, di cui ancora non si vede l’uscita, nonostante lo strombazzamento di miglioramenti dei quali in Sicilia non vediamo nemmeno l’ombra. La salvaguardia di quel poco esistente, spesso dovuto al coraggio di imprenditori che hanno rischiato tutto e si sono anche indebitati per costruire un’azienda, non è stata in alcun modo presa in considerazione, e ciò ha causato il crollo di strutture e aziende, come quelle dei Niceta, dei Cavallotti, di Calcedonio Di Giovanni, della catena di alberghi Ponte, della Motoroil, della Clinica Villa Teresa di Bagheria, (sia nel settore sanitario che in quello edilizio), della Meditour degli Impastato, dei supermercati Despar di Grigoli in provincia di Trapani e Agrigento, dell’impero televisivo e concessionario dei Rappa e così via. Responsabili i vari a Cappellano Seminara, Sanfilippo, Santangelo, Aulo Giganti, Ribolla, Scimeca, Benanti, Walter Virga, Rizzo, Modica de Moach e così via. Molti di questi sono ancora al loro posto, mentre altri sono stati sostituiti. Di questo lungo elenco faceva parte Luigi Miserendino che, ieri, si è dimesso da tutti gli incarichi, per avere lasciato al suo posto il re dei detersivi Ferdico, il quale è stato assolto da tutto, ma ricondotto in carcere, mentre il carcere è stato revocato a Miserendino, poiché, dimessosi, non potrà più reiterare il reato.
IL PROFESSORE. Oggi spunta la notizia, altrettanto grave dell’interrogatorio del prof. Carmelo Provenzano, il quale, dopo avere sistemato nelle varie amministrazioni moglie, fratello, cognata e altri amici, dopo avere rifornito di frutta fresca il frigorifero della Saguto e del prefetto di Palermo Cannizzo, dopo avere agevolato la laurea del figlio della Saguto, anche con l’aiuto del rettore dell’Università di Enna Di Maria, oggi dichiara candidamente al giudice Bonaccorso che lo sta interrogando, di avere fatto tutto questo perché rientrava nelle sue funzioni di docente aiutare gli alunni, tra i quali cita anche il figlio dell’ex procuratore capo di Caltanissetta Sergio Lari e si lamenta addirittura che le sue telefonate al figlio di Lari non sono agli atti del procedimento contro di lui. Va tenuto presente comunque che Lari è stato quello che ha dato il via all’inchiesta aperta dei giudici di Caltanissetta contro la Saguto e i suoi collaboratori, o, se vogliamo, complici. Secondo Provenzano tutto quello che è successo era “normale”, tutti facevano così, rientrava nel normale modo di gestire i beni sequestrati quello di aiutarsi e appoggiarsi reciprocamente tra i vari componenti del cerchio magico. Né più né meno come quando Craxi dichiarò in parlamento che il sistema delle tangenti ai partiti era normalità, che tutti facevano così, tutti mangiavano e non poteva essere lui solo a pagare per tutti. E se tutto è normale, non è successo niente, abbiamo scherzato, hanno scherzato i giudici di Caltanissetta ad aprire il procedimento, sono tutti innocenti e tutti dovrebbero essere assolti, Cappellano compreso, perché hanno fatto egregiamente il loro lavoro. Conclusione, ma non solo per Provenzano, è che tutto quello che dovrebbe essere anormale, anche il malaffare, è normale, mentre è anormale il corretto funzionamento della giustizia e l’applicazione di eventuali pene nei confronti di chi sbaglia. Ovvero fuori i mascalzoni e dentro chi si comporta onestamente o chi si permette di denunciare il disonesto modo di amministrare la cosa pubblica, i beni dello stato, il corretto funzionamento della giustizia. Come succede molto spesso in Italia, secondo un detto antichissimo cui ostinatamente non possiamo e non dobbiamo rassegnarci: “La furca è pi li poviri, la giustizia pi li fissa
L’Italia non è un paese per giovani (avvocati): elevare barriere castali e di censo non è una soluzione, scrive il 28 Aprile 2017 “L’Inkiesta”. Partiamo da due disfunzioni che affliggono il nostro Paese e che stanno facendo molto parlare di sé. Da una parte, la crisi delle libere professioni e, in generale, delle lauree, con importanti giornali nazionali che ci informano, per esempio, che i geometri guadagnano più degli architetti. Dall’altra, le inefficienze del sistema giudiziario. Queste, sono oggetto di dibattito da tempo immemorabile, ci rendono tra i Paesi peggiori dell’area OCSE e ci hanno fatti condannare da niente-popò-di-meno-che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Incrociate ora i due trend. Indovinate chi ci rimane incastrato in mezzo? Ovviamente i giovani laureati/laureandi in giurisprudenza, chiusi tra un percorso universitario sempre più debole e una politica incapace di portare a termine una riforma complessiva e decente dell’ordinamento forense. Come risolvere la questione? Con il numero chiuso a giurisprudenza? Liberalizzando la professione legale? Niente di tutto questo, ci mancherebbe. In un Paese dove gli avvocati rappresentano una fetta rilevante dei parlamentari, la risposta fornita dall’ennesima riforma è facile facile. Porre barriere di censo e di casta all’accesso alla professione. Da questa prospettiva tutte le recenti novità legislative acquistano un senso e rivelano una logica agghiacciante. I malcapitati che si laureeranno in Giurisprudenza a partire dall’anno 2016/2017 avranno una prima sorpresina: l’obbligo di frequentare una scuola di formazione per almeno 160 ore. Anche a pagamento se necessario, come da parere positivo del Consiglio Nazionale Forense.
La questione sarebbe da portare all’attenzione di un bravo psicanalista. Giusto qualche osservazione: (1) se la pratica deve insegnare il mestiere, perché aggiungere un’altra scuola obbligatoria?; (2) Se la Facoltà di Legge - che in Italia è lunghissima: 5 anni, contro i 3 di Stati Uniti e Regno Unito e i 4 della Francia, per esempio – serve a così poco, tanto da dover essere integrata anche dopo la laurea, perché non riformarla?; (3) perché fermare i ragazzi dopo la laurea, invece di farlo prima? Ci sarebbero anche altre questioni. Per esempio, 160 ore di formazione spalmate su 18 mesi, per i fortunati ammessi, non sono molte in teoria. Tuttavia, basta vedere le sempre maggiori proteste riportate dai giornali, e rigorosamente anonime, di praticanti-fotocopisti senza nome, sfruttati e non pagati, per accorgersi che la realtà è molto diversa dalla visione irenica (ipocrita è offensivo?) dei riformatori. E, in ogni caso, anche se il praticante fosse sufficientemente fortunato da avere qualche soldo in tasca, ciò non gli permetterebbe di godere del dono dell’ubiquità. Ma così si passerebbe dal settore della psicanalisi a quello della parapsicologia. Meglio evitare. Andiamo oltre.
Abbiamo superato la prima trincea. Coi soldi del nonno ci manteniamo nella nostra pratica non pagata o mal pagata. Magari siamo bravissimi ed accediamo ai corsi di formazione a gratis o con borsa. Arriva il momento dell’esame. Presto l’esame scritto sarà senza codice commentato. E fin qui, nessun problema. Meglio ragionare con la propria testa che affannarsi a cercare la “sentenza giusta”, magari senza capirla. Le prove verteranno sempre su diritto civile, diritto penale e un atto. Segue un esame orale con quattro materie obbligatorie: diritto civile, diritto penale, le due relative procedure, due materie a scelta e la deontologia forense. E qui il fine giurista si deve trasformare in una specie di Pico de La Mirandola, mandando a memoria tutto in poco tempo. Magari col capo che non ti concede più di un mese di assenza dalla tua scrivania. Ma il problema di questo esame è un altro. Poniamo che io sia un praticante in gamba e che abbia trovato lavoro in un grosso studio internazionale leader nel settore del diritto bancario. Plausibilmente, lavorerò con professionisti fantastici e avrò clienti prestigiosi. Serve a qualcosa per l’esame di stato? Risposta: no. Riformuliamo la questione. Se io mi occupo di diritto bancario o di diritto societario, cosa me ne frega di studiare diritto penale, materia che non mi interessa e che non praticherò mai? Mistero. L’esame di abilitazione fu regolato per la prima volta nel 1934 e la sua logica è rimasta ferma lì. Come se l’avvocato fosse ancora un piccolo professionista individuale che fa indifferentemente tutto. Pensateci la prossima volta che sentite qualcuno sciacquarsi la bocca con fregnacce sulla specializzazione degli avvocati e sulla dipartita dell’avvocato generico. Pensateci.
Passata anche la seconda trincea. Siete avvocati. Tutto bene? No. Tutto male. Finirete sotto il fuoco della Cassa Forense, obbligatoria, che vi mitraglierà. Non importa se siete potentissimi astri nascenti o piccoli professionisti. I risultati? Migliaia di giovani avvocati che si cancellano dall’albo ogni anno. Sgombriamo subito il campo da equivoci. Spesso quando si introduce questo tema ci si sente rispondere che in Italia ci sono troppi avvocati e se si sfoltiscono è meglio. Giusto. Ma ciò non può condurre ad affermare che dei giovani siano tagliati fuori da un sistema disfunzionale. La selezione dura va bene; il terno al lotto no. La competizione, anche spietata, va bene; le barriere all’accesso strutturate senza la minima logica no. Dietro le belle parole, si nasconde un sistema che, come avviene anche per altre professioni, cerca di tutelare se stesso sbattendo la porta in faccia ai giovani che vorrebbero entrare. Non tutti ovviamente. Senza troppa malizia vediamo che avrà meno crucci: (1) chi ha il padre, nonno, zio, fratello maggiore ecc… titolare di uno studio legale. Una mancetta arriverà sempre, con essa il tempo libero per frequentare la formazione obbligatoria e una study leave succulenta di un paio di mesi per preparare l’esame; (2) chi è ricco di famiglia e che, dunque, può godere dei vantaggi di cui sopra per vie traverse; (3) chi, date le condizioni di cui ai punti 1 e 2, può sostenere l’esame due, tre, quattro, cinque volte. E la meritocrazia? Naaaa, quello è uno slogan da sbandierare in campagna elettorale, cosa avete pensavate, sciocconi? In definitiva, il sistema come si sta concependo non fa altro che porre barriere all’ingresso che favoriscono il ceto e di casta. Una volta che si è entrati, invece, si fa in modo di cacciare fuori coloro che non arrivano a fine mese, tendenzialmente i più giovani o i più piccoli.
Ci sono alternative? Guardiamo un paese come la Francia. Lì, l’esame duro e temutissimo è quello per l’accesso all’école des Avocats, superato ogni anno da meno di un terzo dei candidati. Ma, (1) lo si sostiene appena terminata l’università, quando si è “freschi”; (2) è la precondizione per l’accesso al tirocinio, non un terno al lotto che viene al termine di 18/24 mesi di servaggio, spesso inutile ai fini del superamento dell’esame. Quindi, se si fallisce, al netto della delusione, si può subito andare a fare altro. Oppure si riprova (fino a tre volte). In ogni caso, però, non si buttano due anni di vita. La conclusione è sempre la stessa. L’Italia è un Paese che investe poco nei giovani. E che ci crede poco, a giudicare dalle frequenti sparate e rimbrotti di ministri vari. Sperando che non si cerchi, di fatto, di risolvere il problema con l’emigrazione, il messaggio deve essere chiaro. Non si faccia pagare ai giovani l’incapacità del sistema di riformarsi seriamente e organicamente. Le alternative ci sono.
Giornalisti? E’ meglio se andate a fare gli operai, scrive di Andrea Tortelli, Responsabile di "GiornalistiSocial.it". E’ meglio se andate a fare gli operai, credetemi. Lo dicono i numeri. Chiunque aspiri a fare il giornalista, in Italia, deve confrontarsi con un quadro di mercato ben più drammatico di quello di altri settori in crisi. Il giornalista rimane una professione molto (troppo) ambita, ma non conferisce più prestigio sociale a chi la pratica e soprattutto non è più remunerativa. Diverse classifiche, non solo italiche, inseriscono quello del reporter fra i lavori a maggiore rischio di indigenza. E chi pratica bazzica in questo mondo non può stupirsene.
Qualche numero sui media. Il mondo dei media è in crisi da tempo, ben prima che arrivassero i social a dare il colpo di grazia. In una provincia come Brescia, dove vivo, non c’è un solo giornale cartaceo o una televisione locale che nell’ultimo quinquennio non abbia ridotto il proprio organico e chiuso qualche bilancio in rosso. Tutto ciò mentre gli on line sopravvivono, ma non prosperano: generando numeri, ma recuperando ben poche delle risorse perse per strada dai media tradizionali. In Italia, va detto, i giornali non hanno mai goduto di troppa gloria. Da sempre siamo una delle popolazioni al mondo che legge meno. Meno di una persona su venti, oggi, compra un quotidiano in edicola e il calo è costante. Il Corriere della Sera, solo per fare un esempio, tra il 2004 e il 2014 ha dimezzato le proprie copie (l’on line, nello stesso periodo, è passato da 2 milioni di utenti al mese a 1,5 al giorno, Facebook da zero a 2 milioni di fan…). Nel 2016, ancora, i cinque giornali cartacei più venduti (Corsera, Repubblica, Sole 24 Ore, La Stampa e Gazzetta dello Sport) hanno perso un decimo esatto delle copie.
Non va meglio sul fronte dei fatturati. Dal 2004 al 2014 – permettetemi di riciclare un vecchio dato – il mercato pubblicitario italiano è passato da 8 miliardi 240milioni di euro a 5 miliardi e 739milioni (fonte DataMediaHub). La tv è scesa da 4 miliardi 451 milioni a 3.510 milioni, la stampa si è più che dimezzata da 2 miliardi 891 milioni a 1 miliardo 314 milioni, il web è cresciuto sì. Ma soltanto da 116 milioni a 474. Vuol dire che – dati alla mano – per ogni euro perso dalla carta stampata in questo decennio sono arrivati sul web soltanto 22 centesimi (del resto, agli attuali prezzi di mercato, mille clic vengono pagati oggi meno di due euro…). E gli altri 80 centesimi dove sono finiti? Un po’ si sono persi a causa della crisi. Ma una grossa fetta – non misurabile – è finita alle big del web, nel grande buco nero fiscale di Google e Facebook. Cioè è uscita dal circuito dell’informazione e dell’editoria.
I giornalisti che fanno? A una drastica riduzione delle copie e dei fatturati consegue ovviamente una drastica riduzione degli organici. Ma a questo dato si somma un aumento significativo dell’offerta (complici le scuole di giornalismo, ma non solo…) e un aumento esponenziale della concorrenza “impropria”, dovuta al fatto che Facebook è ormai la prima fonte di informazione degli italiani e sono molti a operare fuori dal circuito tradizionale (e spesso anche fuori dal circuito legale) dei media. In questo contesto, le possibilità di spuntare un contratto ex Articolo 1 (Cnlg) per un giovane sono praticamente nulle. Ma anche portare a casa almeno mille euro lordi al mese è un’impresa se ci sono quotidiani locali, anche di gruppi importanti, che pagano meno di 10 euro un articolo. E on line, a quotazioni di “mercato”, un pezzo viene pagato anche un euro. Lordo. Non è un caso che sempre più colleghi abbiano decisi di cambiare vita, e molto spesso sono i più validi. Ne conosco molti. C’è chi fa l’operaio part time a tempo indeterminato e arrotonda scrivendo (quasi per passione), chi ha mollato tutto per una cattedra da precario alle superiori, chi all’ennesima crisi aziendale ha deciso di andare a lavorare a tempo pieno in fabbrica per mantenere i figli e chi ancora era caporedattore di un noto giornale – oltre che penna di grandissimo talento – e ora si dedica alla botanica. Con risultati di eguale livello, pare. I dati dell’Osservatorio Job pricing, del resto, indicano che nel 2016 un operaio italiano guadagnava mediamente 1.349 euro. Il collaboratore di una televisione locale, a 25 euro lordi a servizio, dovrebbe fare più di 50 uscite (con montaggio annesso) per portare a casa la stessa cifra. Il collaboratore di un quotidiano locale dovrebbe firmare almeno 100 pezzi, tre al giorno. Senza ferie, tredicesima, malattia e possibilità di andare in banca a chiedere un mutuo se privo della firma di papi. Insomma: il vecchio adagio del “sempre meglio che lavorare” è ancora attuale, ma ha drammaticamente cambiato significato. Visto che il giornalismo è diventato per molti un hobby o una moderna forma di schiavitù, quasi al livello dei raccoglitori di pomodori pugliesi. Dunque?
La soluzione. Dunque… Quando qualcuno mi contatta per chiedermi come si fa a diventare giornalista (circostanza piuttosto frequente, visto che gestisco GiornalistiSocial.it) cerco sempre di fornirgli un quadro completo e oggettivo della situazione, per non illudere nessuno. Alcuni si incazzano e spariscono. Altri ringraziano delusi. I più ascoltano, ma non sentono. Una piccola parte comprende che il mestiere del giornalista, nel 2017, ha un senso solo se sussistono due elementi: una grande passione e la volontà di fare gli imprenditori di se stessi. Fare il giornalista, in Italia ma non solo, richiede oggi una grande capacità di adattamento al sistema della comunicazione e un sistema di competenze tecniche estese (fotografia, grafica, video, social, web, seo e anche marketing, parola che farebbe accapponare la pelle a quelli della vecchia scuola) per sopravvivere a un mercato sempre meno chiuso, in cui i concorrenti sono tanto i colleghi e gli aspiranti colleghi, quanto tutti i laureati privi di occupazione e i liberi professionisti dell’articolato mondo web. Ma questo è un altro capitolo. Nel frattempo, è meglio che andiate a fare gli operai. Oppure ribellatevi.
La precarietà dei giornalisti invisibili, scrive il 16 dicembre 2017 Valentina Tatti Tonni su "Articolo 21". Al pari degli altri danno senso alla verità, ma non sono retribuiti e il loro lavoro non è riconosciuto. In Italia c’è un sistema, perlopiù marcio che le cronache ben conoscono. In Italia per conoscere e volendo tutelare l’esercizio di una professione, c’è bisogno di un Ordine di categoria che come una grande impresa regoli gli iscritti con un badge (tessera di riconoscimento) e un’imposta annuale. Potranno lavorare in modo “regolare” solo i soci onorari dell’impresa. Tutti gli altri si sentiranno o saranno, poco labile la differenza, cittadini fuorilegge che svolgono una professione che non gli compete. C’è una diffusa credenza, falsa per il resto del mondo nel quale non esiste alcun Ordine perentorio e nel quale si è quello che si fa, che si diventi professionista solo entrando in possesso di questo magico libretto, lungi la riconoscenza che avrebbe potuto avere Joseph Pulitzer in assenza. Giornalista ed editore puro americano, di certo non si sarebbe sentito meno rispetto a un qualunque collega italiano. L’Italia dunque è una Repubblica fondata sul lavoro circoscritto a pochi eletti. I restanti fuori da questa ristretta cerchia, passano l’esistenza tra un contratto e un lavoro in nero. Nero come la borsa in tempo di guerra. Con un fazzoletto di volontà ben ripiegato nella tasca della giacca, nella loro mente sanno di essere buoni giornalisti ma si potrebbe affermare in loro l’idea di non essere considerati uguali dagli altri colleghi, non tanto per la giacca quanto per i diritti che si nascondono sotto. “Come hai fatto ad accettare un lavoro nero e sporcare così la professione?” si sentirà chiedere con astio, con tutte le colpe rovesciate in capo. E’ vero, avrebbe potuto non accettare e non avere alcuna visibilità, smettere di cercare l’opportunità giusta anche se spesso questo significherà ripiegare la passione e l’istinto. Avrebbe potuto vendere il suo ideale e il suo buon cuore al miglior offerente, barattare il pensiero prima che potesse giurare la sua lealtà alla Costituzione e alla deontologia. Avrebbe persino potuto evitare qualunque interferenza con la parola, sì, ma cosa sarebbe diventato senza la sua identità a contatto con la pelle? Non è giusto fare generalizzazioni. Esistono persone che sono riuscite nel loro intento, pur non avendo parenti o amici pronti a soccorrerli e indirizzarli. Sono riusciti a imboccare una strada e arrivare fino al traguardo senza scuole di giornalismo né aiuti di sorta. Tuttavia ogni persona ha una sua storia, ed è per questo presumo che il legislatore abbia voluto una legge costruita per assistere la professione, che prevedesse le sue problematiche e tentasse di risolverle. La precarietà in questo senso duplice è una di queste problematiche. E’ precario il lavoratore con un contratto provvisorio di cui si ci si attenda un cambiamento e dunque alla quotidianità vi si leghi un’aspettativa e un’ansia maggiore, ma è precario anche quel lavoratore d’altro canto minacciato per il suo operato o in alternativa imputato dinnanzi a una Corte composta di suoi pari che lo giudicheranno “colpevole di Giornalismo”. La condanna è la derisione ma non è possibile schierarsi per ricevere una miglior difesa, poiché da tale imputazione non ci si macchia per assenso generale ma per comportamento. Queste leggi approvate per rendere la precarietà meno illegale di fatto favoriscono l’incongruenza della disparità, non rendendo alcun merito a chi di questo lavoro ha fatto il suo mantra e la sua missione. Accedere a questo lavoro dovrebbe essere una possibilità, non un privilegio. E invece, le possibilità per accedervi sono ad oggi esclusive: frequentazione di una scuola biennale, il praticantato o la pubblicazione di un numero di articoli firmati e stipendiati in modo continuativo, queste le alternative per accedere alla professione. Il problema però è che a dispetto di dieci anni fa, la continuità è una chimera, così come il contratto, il pagamento, il praticantato, per una grande fetta di imprese editoriali presenti sul territorio non è neanche un’opzione. Va da sé che, esclusa la parentela e una dose di fortuna, il giornalismo resti un mondo a sé stante dove non tutti quelli che vogliono entrarvi a far parte ci riescono e, sia detto che, spesso, non è per mancanza di volontà ma a causa della privazione di tutta una serie di cose, come il fatto che sembra non esista più il mentore che ti dica: “Questo pezzo fa schifo, riscrivilo” e da queste sole piccole parole ti trasmetta il suo sapere e mantenga in te il coraggio di tentare. No, oggi il sapere è inserito dentro un cassetto elettronico, sterile e senza spessore umano. Così quella che si gioca è una corsa a ostacoli per vincere la penna d’oro, una corsa nella quale la competitività va a braccetto con la desolante paura di non essere abbastanza. Essendo l’Ordine un ente pubblico che gestisce l’albo associativo dei giornalisti italiani, dal 1963 anno della sua fondazione obbliga chiunque voglia intraprendere la professione a iscriversi e rispettare le sue leggi. Chiunque altro operi da freelance, non iscritto ad alcun registro, pur rispettando le leggi dell’albo cui vorrebbe appartenere per una forma di dipendenza, istiga tutti alla verità ma è un fuorilegge a tutti gli effetti. Se scrive o filma con cognizione lo può fare solo con le dovute precauzioni da cittadino, allargando così sotto di sé la piaga della casta. Può paragonarsi a un abile narratore, ma se vuole sfruttare la pazienza e l’insegnamento di un giornalista la cui realtà si misura con il badge di inserimento deve rischiare un ruolo che si sente addosso ma che non ha. Appartengono a questa fascia di professionisti, i giornalisti invisibili che vivono anni in un limbo fatto di sacrifici. Se lavorano in nero non è per compiacenza ma per necessità, e anzi, sapendo che prima o poi qualcuno potrebbe accorgersi del loro “stato temporaneo”, quasi in attesa trepidante di un visto speciale, sfoderano dalla penna o dalla telecamera un rigoroso senso morale e critico per ovviare al senso di manifesta inadeguatezza nella quale l’Ordine ci colloca. Se è lecito che non tutti si improvvisino del mestiere, che allo stesso modo verrebbe il dubbio del buon operato se un calzolaio si mettesse di punto in bianco a vendere viaggi, diverso sarebbe il caso di un calzolaio che in seguito a dovuti studi e approfondimenti abbia scoperto che è la pianificazione e la vendita del viaggio per conto terzi a rendere la sua vita migliore, sarebbe allora questo il modo per riconoscergli la possibilità di cambiare. Il giornalista invisibile, ugualmente, non può invece essere riconosciuto per l’inosservanza di un iter burocratico e la sua vita dovrà essere vincolata, senza per questo smettere di dare un senso alla verità rischiando tutto quello che gli basterebbe oltrepassare il confine per essere.
Mi sono laureata nonostante gli abusi dei professori. Mi chiamo Carolina, e sono una neolaureata all'Università Statale di Milano. Mi sono sentita moralmente obbligata a scrivere questa lettera, che spero potrà avere una sua risonanza. So che qualche anno fa i quotidiani si erano già occupati dell'incresciosa situazione logistica in alcune facoltà della Statale, una situazione che ha costretto me come centinaia di altri studenti a seguire per interi semestri le lezioni seduti sul pavimento, quando non addirittura in piedi fuori dalle porte e dalle finestre delle aule. Ma in questa sede vorrei invece parlare della condotta dei professori, della quale ingiustamente non si è mai fatto parola. Per natura tendo a non parlare mai di ciò che non conosco direttamente, quindi mi riferirò esclusivamente alle facoltà sotto la dicitura di Studi Umanistici della Statale. Volendo evitare di fare di tutta l'erba un fascio, ammetto volentieri il fatto di aver incontrato durante la mia carriera universitaria professori competenti e disponibili, e mi piacerebbe poter dire che sono la maggioranza. Ma ciò di cui non si parla mai sono gli altri, una vera e propria casta che segue solamente le proprie regole anche e spesso a dispetto degli studenti. Urge fare qualche esempio pratico. Ci sono professori che perdono esami di studenti e non solo non denunciano l'accaduto, ma bocciano gli studenti interessati sperando che loro non arrivino mai a scoprirlo, ma si limitino semplicemente a ripetere l'esame in questione. Ci sono professori che in una giornata di interrogazioni d'esame si prendono ben tre ore di pausa pranzo. Ce ne sono altri che con appelli programmati da mesi, fanno presentare tutti gli studenti iscritti e poi annunciano di dover partire per un viaggio, e che quelli non interrogati si devono ripresentare due settimane dopo. Alcuni si rifiutano, benché avvisati con anticipo, di interrogare gli studenti che hanno seguito il corso con un altro professore non disponibile per l'appello d'esame. E ultimi, ma certamente non per importanza, ci sono i professori che ogni anno mandano fuori corso decine di studenti che hanno finito per tempo gli esami, impedendogli di laurearsi nell'ultima sessione disponibile per loro e costringendoli a pagare un anno intero di retta universitaria perché "non hanno tempo di seguire questa tesi" oppure perché il candidato "è troppo indietro con la stesura, ci sarebbe troppo da fare". Tutti gli episodi sopra citati sono accaduti ad una sola persona, me. E per quanto io mi renda conto di essere stata particolarmente sfortunata, mi riesce difficile pensare di essere l'unica alla quale cose del genere sono successe. Questi veri e propri abusi di potere rendono quasi impossibile per gli studenti godere del generalmente buon livello di istruzione offerto dall'università. Mi includo nel gruppo quando mi chiedo come mai gli studenti non si siano mai fatti sentire, e mi vergogno quasi un po' a scrivere questa lettera con il mio bell'attestato di laurea appeso in stanza, ma la verità è che mi è costato fin troppa fatica, e non ero disposta a mettere a rischio la possibilità di ottenerlo, dal momento che non ero io ad avere il coltello dalla parte del manico. Ma non mi sembrava ad ogni modo corretto lasciare che tali comportamenti passassero sotto silenzio. L'istruzione pubblica dovrebbe essere un diritto, non un privilegio, ed insegnare dovrebbe essere una grande responsabilità, qualcosa di cui non abusare mai. Carolina Forin 14 ottobre 2017 “L’Espresso”
I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)
“L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.
La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).
"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)
Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.
Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato, istruito ed informato da coglioni.
È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt
Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.
"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta".
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?
Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.
Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."
Aste e usura: chiesta ispezione nei tribunali di Taranto e Potenza. Interrogazione dei Senatori Cinque Stelle: “Prassi illegali e vicende inquietanti”, titola “Basilicata 24” nel silenzio assordante dei media pugliesi e tarantini.
Da presidente dell’ANPA (Associazione Nazionale Praticanti ed Avvocati) già dal 2003, fin quando mi hanno permesso di esercitare la professione forense fino al 2006, mi sono ribellato a quella realtà ed ho messo in subbuglio il Foro di Taranto, inviando a varie autorità (Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Procura della Repubblica di Taranto, Ministro della Giustizia) un dossier analitico sull’Ingiustizia a Taranto e sull’abilitazione truccata degli avvocati. Da questo dossier è scaturita solo una interrogazione parlamentare di AN del Senatore Euprepio Curto (sol perché ricoprivo l’incarico di primo presidente di circolo di Avetrana di quel partito). Eccezionalmente il Ministero ha risposto, ma con risposte diffamatorie a danno dell’esponente. Da allora e per la mia continua ricerca di giustizia come Vice Presidente provinciale di Taranto dell’Italia dei Valori (Movimento da me lasciato ed antesignano dei 5 Stelle, entrambi a me non confacenti per mia palese “disonestà”) e poi come presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, per essermi permesso di rompere l’omertà, gli abusi e le ingiustizie, ho subito decine di procedimenti penali per calunnia e diffamazione, facendomi passare per mitomane o pazzo, oltre ad inibirmi la professione forense. Tutte le mie denunce ed esposti e la totalità dei ricorsi presentati a tutti i Parlamentari ed alle autorità amministrative e politiche: tutto insabbiato, nonostante la mafiosità istituzionale è sotto gli occhi di tutti.
I procedimenti penali a mio carico sono andati tutti in fumo, non riuscendo nell’intento di condannarmi, fin anche a Potenza su sollecitazione dei denuncianti magistrati.
Il 3 ottobre 2016, dopo un po’ di tempo che mancavo in quel di Taranto, si apre un ulteriore procedimento penale a mio carico per il quale già era intervenuta sentenza di assoluzione per lo stesso fatto. Sorvolo sullo specifico che mi riguarda e qui continuo a denunciare alla luna le anomalie, così già da me riscontrate molti anni prima. Nei miei esposti si parlava anche di mancata iscrizione nel registro generale delle notizie di reato e di omesse comunicazioni sull’esito delle denunce.
L’ufficio penale del Tribunale è l’ombelico del disservizio. Non vi è traccia degli atti regolarmente depositati, sia ufficio su ufficio (per le richieste dell’ammissione del gratuito patrocinio dall’ufficio del gratuito patrocinio all’ufficio del giudice competente), sia utenza su ufficio per quanto riguarda in particolare la lista testi depositata dagli avvocati nei termini perentori. Per questo motivo è inibito a molti avvocati percepire i diritti per il gratuito patrocinio prestato, non essendo traccia né delle istanze, né dei decreti emessi. Nell’udienza del 3 ottobre 2016, per gli avvocati presenti, al disservizio si è provveduto con una sorta di sanatoria con ripresentazione in udienza di nuove istanze di ammissione di Gratuito patrocinio e di nuove liste testi (fuori tempo massimo); per i sostituiti avvocati, invece, ogni diritto è decaduto con pregiudizio di causa. Non un avvocato si è ribellato e nessuno mai lo farà, perché mai nessuno in quel foro si è lamentato di come si amministra la Giustizia e di come ci si abilita. Per quanto riguarda la gestione degli uffici non si può alludere ad una fantomatica mancanza di personale, essendo l’ufficio ben coperto da impiegate, oltretutto, poco disponibili con l’utenza.
Io ho già dato per fare casino, non foss’altro che ormai sono timbrato tra i tarantini come calunniatore, mitomane o pazzo, facendo arrivare la nomea oltre il Foro dell’Ingiustizia.
La presente, giusto per rendere edotti gli ignoranti giustizialisti e sinistroidi in che mani è la giustizia, specialmente a Taranto ed anche per colpa degli avvocati.
Cane non mangia cane. E questo a Taranto, come in tutta Italia, non si deve sapere.
Questo il commento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS che ha scritto un libro “Tutto su Taranto. Quello che non si osa dire”.
Un’inchiesta di cui nessuno quasi parla. Si scontrano due correnti di pensiero. Chi è amico dei magistrati, dai quali riceve la notizia segretata e la pubblica. Chi è amico degli avvocati che tace della notizia già pubblicata. "Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico", proverbio cinese. Qualcuno a me disse, avendo indagato sulle loro malefatte: “poi vediamo se diventi avvocato”...e così fu. Mai lo divenni e non per colpa mia.
Dei magistrati già sappiamo. C’è l’informazione, ma manca la sanzione. Non una condanna penale o civile. Questo è già chiedere troppo. Ma addirittura una sanzione disciplinare.
Canzio: caro Csm, quanto sei indulgente coi magistrati…, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 19 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Per il vertice della Suprema Corte questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona”. La dichiarazione che non ti aspetti. Soprattutto per il prestigio dell’autore e del luogo in cui è stata pronunciata. «Il 99% dei magistrati italiani ha una valutazione positiva. Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa». A dirlo è il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, intervenuto ieri mattina in Plenum a Palazzo dei Marescialli, ha voluto evidenziare questa “anomalia” che contraddistingue le toghe rispetto alle altre categorie professionali dello Stato. La valutazione di professionalità di un magistrato che era stato in precedenza oggetto di un procedimento disciplinare ha offerto lo spunto per approfondire il tema, particolarmente scottante, delle “note caratteristiche” delle toghe. «È un dato clamoroso – ha aggiunto il presidente Canzio che i magistrati abbiano tutti un giudizio positivo». Questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona” e che necessita di essere “rivisto” quanto prima. Anche perché fornisce l’immagine di una categoria particolarmente indulgente con se stessa. In effetti, leggendo i pareri delle toghe che pervengono al Consiglio superiore della magistratura, ad esempio nel momento dell’avanzamento di carriera o quando si tratta di dover scegliere un presidente di tribunale o un procuratore, si scopre che quasi tutti, il 99% appunto, sono caratterizzati da giudizi estremamente lusinghieri. Ciò stride con le cronache che quotidianamente, invece, descrivono episodi di mala giustizia. In un sistema “sulla carta” composto da personale estremamente qualificato, imparziale e scrupoloso non dovrebbero, di norma, verificarsi errori giudiziari se non in numeri fisiologici. La realtà, come è noto, è ben diversa. Qualche mese fa, parlando proprio delle vittime di errori giudiziari e degli indennizzi che ogni anno vengono liquidati, l’allora vice ministro della Giustizia Enrico Costa, parlò di «numeri che non possono essere considerati fisiologici ma patologici». Ma il problema è anche un altro. Nel caso, appunto, della scelta di un direttivo, è estremamente arduo effettuare una valutazione fra magistrati che presentato le medesime, ampiamente positive, valutazioni di professionalità. Si finisce per lasciare inevitabilmente spazio alla discrezionalità. Sul punto anche il vice presidente del Csm Giovanni Legnini è d’accordo, in particolar modo quando un magistrato è stato oggetto di una condanna disciplinare. «Propongo al Comitato di presidenza di aprire una pratica per approfondire i rapporti fra la sanzione disciplinare e il conferimento dell’incarico direttivo o la conferma dell’incarico». Alcuni consiglieri hanno, però, sottolineato che l’1% di giudizi negativi sono comunque tanti. Si tratta di 90 magistrati su 9000, tante sono le toghe, che annualmente incappano in disavventure disciplinari. Considerato, poi, che l’attuale sistema disciplinare è in vigore da dieci anni, teoricamente sarebbero 900 le toghe ad oggi finite dietro la lavagna. Un numero, in proporzione elevato, ma che merita una riflessione attenta. Il Csm è severo con i giudici che depositano in ritardo una sentenza ma è di “manica larga” con il pm si dimentica un fascicolo nell’armadio facendolo prescrivere.
Solo un rimbrotto per il pm che "scorda" l'imputato in galera, scrive Rocco Vazzana il 30 novembre 2016 su "Il Dubbio". Il Csm ha condannato 121 magistrati in due anni. Ma si tratta di sanzioni molto leggere. Centoventuno condanne in più di due anni. È il numero di sanzioni che la Sezione Disciplinare del Csm ha irrogato nei confronti di altrettanti magistrati. Il dato è contenuto in un file che in queste ore gira tra gli iscritti alla mailing list di Area, la corrente che racchiude Md e Movimenti. Su 346 procedimenti definiti - dal 25 settembre 2014 al 30 novembre 2016 - 121 si sono risolti con una condanna (quasi sempre di lieve entità), 113 sono le assoluzioni, 15 le «sentenze di non doversi procedere» e 124 le «ordinanze di non luogo a procedere». L'illecito disciplinare riguarda «il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga, in ufficio o fuori, una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell'ordine giudiziario». Le eventuali condanne hanno una gradazione articolata in base alla gravità del fatto contestato. La più lieve è l'ammonimento, un semplice «richiamo all'osservanza dei doveri del magistrato», seguito dalla censura, una formale dichiarazione di biasimo. Poi le sanzioni si fanno più severe: «perdita dell'anzianità» professionale, che non può essere superiore ai due anni; «incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo»; «sospensione dalle funzioni», che consiste nell'allontanamento con congelamento dello stipendio e con il collocamento fuori organico; fino arrivare alla «rimozione» dal servizio. C'è poi una sanzione accessoria che riguarda il trasferimento d'ufficio. Per questo, la sezione Disciplinare può essere considerata il cuore dell'autogoverno. Perché se il Csm può promuovere può anche bloccare una carriera: ai fini interni non serve ricorrere alle pene estreme, basta decidere un trasferimento. E a scorrere il file con le statistiche sui procedimenti disciplinari salta immediatamente all'occhio un dato: su 121 condanne, la maggior parte (90) comminano una sanzione non grave (la censura) e 11 casi si tratta di semplice ammonimento. Le toghe non si accaniscono sulle toghe. La perdita d'anzianità, infatti, è stata inflitta solo a dieci magistrati (due sono stati anche trasferiti d'ufficio), mentre sette sono stati rimossi. Uno solo è stato trasferito d'ufficio senza ulteriori sanzioni, un altro è stato sospeso dalle funzioni con blocco dello stipendio, un altro ancora è stato sospeso dalle funzioni e messo fuori organico. Ma il dato più interessante riguarda le tipologie di illecito contestate. La maggior parte dei magistrati viene sanzionato per uno dei problemi tipici della macchina giudiziaria: il ritardo nel deposito delle sentenze, quasi il 40 per cento dei "condannati" è accusato di negligenze reiterate, gravi e ingiustificate. Alcuni, però, non si limitano al ritardo: il 4 per cento degli illeciti, infatti, riguarda «provvedimenti privi di motivazione», come se si trattasse di un disinteresse totale nei confronti degli attori interessati. Il 23 per cento delle condanne, invece, riguarda una questione che tocca direttamente la vita dei cittadini: la ritardata scarcerazione. E in un Paese in cui si ricorre facilmente allo strumento delle misure cautelari, questo tipo di comportamento determina spesso anche il peggioramento delle condizioni detentive. Quasi il 10 per cento dei giudici e dei pm è stato sanzionato poi per «illeciti conseguenti a reato». Solo il 6,6 per cento delle condanne, infine, è motivato da «comportamenti scorretti nei confronti delle parti, difensori, magistrati, ecc.. ».
Truccati anche i loro concorsi. I magistrati si autoriformino, scrive Sergio Luciano su “Italia Oggi”. Numero 196 pag. 2 del 19/08/2016. Il Fatto Quotidiano ha coraggiosamente documentato, in un'ampia inchiesta ferragostana, le gravissime anomalie di alcuni concorsi pubblici, tra cui quello in magistratura. Fogli segnati con simboli concordati per rendere identificabile il lavoro dai correttori compiacenti pronti a inquinare il verdetto per assecondare le raccomandazioni: ecco il (frequente) peccato mortale. Ma, più in generale, nell'impostazione delle prove risalta in molti casi – non solo agli occhi degli esperti – la lacunosità dell'impostazione qualitativa, meramente nozionistica, che soprattutto in alcune professioni socialmente delicatissime come quella giudiziaria, può al massimo – quando va bene – accertare la preparazione dottrinale dei candidati ma neanche si propone di misurarne l'attitudine e l'approccio mentale a un lavoro di tanta responsabilità. Questo genere di evidenze dovrebbe far riflettere. E dovrebbe essere incrociato con l'altra, e ancor più grave, evidenza della sostanziale impunità che la casta giudiziaria si attribuisce attraverso l'autogoverno benevolo e autoassolutorio che pratica (si legga, al riguardo, il definitivo I magistrati, l'ultracasta, di Stefano Livadiotti).
Ora parliamo degli avvocati. C’è il caso per il quale l’informazione abbonda, ma manca la sanzione.
Un "fiore" da 20mila euro al giudice e il processo si aggiusta. La proposta shock di un curatore fallimentare a un imprenditore. Che succede nei tribunali di Taranto e Potenza? Scrivono di Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24". L’audio che pubblichiamo, racconta in emblematica sintesi, le dinamiche, di quello che, da anni, sembrerebbe un “sistema” illegale di gestione delle procedure delle aste fallimentari. I fatti riguardano, in questo caso, il tribunale di Taranto. I protagonisti della conversazione nell’audio sono un imprenditore, Tonino Scarciglia, inciampato nei meccanismi del “sistema”, il suo avvocato e il curatore fallimentare nominato dal Giudice.
Aste e tangenti, studio legale De Laurentiis di Manduria nell’occhio del ciclone, scrive Nazareno Dinoi il 9 e 10 novembre 2016 su “La Voce di Manduria”. C’è il nome di un noto avvocato manduriano nell’inchiesta aperta dalla Procura della Repubblica di Taranto sulle aste giudiziarie truccate. Il professionista (che non risulta indagato), nominato dal tribunale come curatore fallimentare di un azienda in dissesto, avrebbe chiesto “un fiore” (una mazzetta) da ventimila euro ad un imprenditore di Oria interessato all’acquisto di un lotto che, secondo l’acquirente, sarebbero serviti al giudice titolare della pratica fallimentare. Questo imprenditore che è di Oria, rintracciato e intervistato ieri da Telenorba, ha registrato il dialogo avvenuto nello studio legale di Manduria in cui l’avvocato-curatore avrebbe avanzato la richiesta “del fiore” da 20mila euro. Tutto il materiale, compresi i servizi mandati in onda dal TgNorba, sono stati acquisiti ieri dalla Guardia di Finanza e dai carabinieri di Taranto.
I presunti brogli nella gestione dei fallimenti. «Infangata la giustizia per scopi elettorali». Il presidente dell’Ordine degli Avvocati, Vincenzo Di Maggio, attacca il M5S: preferisce il sensazionalismo all’impegno per risolvere i problemi, scrive il 15 novembre 2016 Enzo Ferrari Direttore Responsabile di "Taranto Buona Sera". «Ma quale difesa di casta, noi come avvocati abbiamo soltanto voluto dire che il Tribunale non è un luogo dove si ammazza la Giustizia». Vincenzo Di Maggio, presidente dell’Ordine degli Avvocati, torna sulla polemica che ha infiammato gli operatori della giustizia negli ultimi giorni: l’interpellanza di un nutrito gruppo di senatori Cinquestelle su presunte nebulosità nella gestione delle procedure fallimentari ed esecutive al Tribunale di Taranto.
«Fallimenti ed esecuzioni, le procedure sono corrette». Documento delle Camere delle Procedure Esecutive e delle Procedure Concorsuali, scrive "Taranto Buona Sera” il 10 novembre 2016. Prima l’interrogazione parlamentare del M5S su presunte anomalie nella gestione delle procedure fallimentari, a scapito di chi è incappato nelle procedure come debitore; poi il video della registrazione di un incontro che sarebbe avvenuto tra un imprenditore, il suo avvocato e un curatore fallimentare. Un video dagli aspetti controversi e dai contenuti comunque tutti da verificare. Un’accoppiata di situazioni che ha destato clamore e che oggi fa registrare la netta presa di posizione della Camera delle Procedure Esecutive Immobiliari e della Camera delle Procedure Concorsuali. In un documento congiunto, i rispettivi presidenti, gli avvocati Fedele Moretti e Cosimo Buonfrate, fanno chiarezza a tutela della onorabilità dei professionisti impegnati come curatori e custodi giudiziari ed esprimendo piena fiducia nell’operato dei magistrati.
Taranto, rimborsi non dovuti. Procura indaga sugli avvocati. Riflettori accesi su 93mila euro spesi tra il 2014 e il 2015 dopo un esposto del Consiglio, scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno” dell’11 aprile 2016. Finiscono all’attenzione della Procura della Repubblica i conti dell’Ordine degli avvocati di Taranto. A rivolgersi alla magistratura è stato lo stesso Consiglio, presieduto da Vincenzo Di Maggio, dopo che sarebbero emerse irregolarità contabili riguardanti le anticipazioni e i rimborsi alle cariche istituzionali nell’anno 2014, l’ultimo da presidente per Angelo Esposito, ora membro dal Consiglio nazionale forense. Il fascicolo è stato assegnato al sostituto procuratore Maurizio Carbone, l’ipotesi di reato è quella di peculato essendo l’Ordine degli avvocati ente di diritto pubblico (altrimenti si procederebbe per appropriazione indebita, ma il pm non sarebbe Carbone in quanto quest’ultimo fa parte del pool reati contro la pubblica amministrazione). Di questo se ne è parlato agli inizi, perché l’esposto era dello stesso Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, ma poi nulla si è più saputo: caduto nell’oblio. Il silenzio sarà rotto, forse, dalla inevitabile prescrizione, che rinverdirà l’illibatezza dei presunti responsabili.
E poi c’è il caso, segnalato da un mio lettore, di una eccezionale sanzione emessa dalla magistratura tarantina e taciuta inopinatamente da tutta la stampa.
La notizia ha tutti i crismi della verità, della continenza e dell’interesse pubblico e pure non è stata data alla pubblica opinione.
Il caso di cui trattasi si riferisce ad un esposto di un cittadino, presentato al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto contro un avvocato di quel foro per infedele patrocinio, di cui già pende giudizio civile.
Ma facciamo parlare gli atti pubblicabili.
L’11 maggio 2012 viene presentato l’esposto, il 3 aprile 2013 con provvedimento di archiviazione, pratica 2292, si emette un documento in cui si dichiara che il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto delibera la sua archiviazione in quanto “non risultano elementi a carico del professionista tali da configurare alcuna ipotesi di infrazione disciplinare”. L’atto è sottoscritto il 17 novembre 2014, nella sua copia conforme, dall’avv. Aldo Carlo Feola, Consigliere Segretario. Mansione che il Feola ricompre da decenni.
Fin qui ancora tutto legittimo e, forse, anche, opportuno.
E’ successo che, con procedimento penale 2154/2016 R.G.N.R. Mod. 21, il 3 ottobre 2016 (depositata il 6) il Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, dr Maurizio Carbone, chiede il Rinvio a Giudizio dell’avv. Aldo Carlo Feola, difeso d’ufficio, “imputato del delitto di cui all’art. 476 c.p. (falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici), perché, in qualità di Consigliere con funzione di Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, rilasciava copia conforme all’originale della delibera datata 3 aprile 2013 del Consiglio, con la quale si disponeva di non dare luogo ad apertura di procedimento disciplinare nei confronti dell’avv. Addolorata Renna, con conseguente archiviazione dell’esposto presentato nei suoi confronti da Blasi Giuseppe. Provvedimento di archiviazione risultato in realtà inesistente e mai sottoscritto dal Presidente del Consiglio dell’Ordine di Taranto. In Taranto il 17 novembre 2014.”
Il Giudice per le Indagini Preliminari, con proc. 6503/2016, il 21 novembre 2016 fissa l’Udienza Preliminare per il 12 dicembre 2016 e poi rinvia per il Rito Abbreviato per il 10 aprile 2017 con interrogatorio dell’imputato ed audizione del teste, con il seguito.
Il Giudice per l’Udienza Preliminare, dr. Pompeo Carriere, il 16 ottobre 2017 con sentenza n. 945/2017 “dichiara Feola Aldo Carlo colpevole del reato ascrittogli, e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, e applicata la diminuente per la scelta del rito abbreviato, lo condanna alla pena di cinque mesi e dieci giorni di reclusione, oltre al pagamento delle spese del procedimento. Pena sospesa per cinque anni, alle condizioni di legge, e non menzione. Visti gli artt. 538, 539, 541 c.p.p., condanna Feola Aldo Carlo al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, da liquidarsi in separato giudizio, nonché alla rifusione delle spese processuali dalla medesima sostenute, che si liquidano in complessivi euro 3.115,00 (tremilacentoquindici) oltre iva e cap come per legge”.
Da quanto scritto è evidente che ci sia stata da parte della stampa una certa ritrosia dal dare la notizia. Gli stessi organi di informazione che sono molto solerti ad infangare la reputazione dei poveri cristi, sennonchè non ancora dichiarati colpevoli.
Travaglio: “I giornali a Taranto non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. “E’ vero, ma non per tutti…” Lettera aperta al direttore de IL FATTO QUOTIDIANO, dopo il suo intervento-show al Concerto del 1 maggio 2015 a Taranto, di Antonello de Gennaro del 2 maggio 2015 su "Il Corriere del Giorno". "Caro Travaglio, come non essere felice nel vedere Il Fatto Quotidiano, quotidiano libero ed indipendente da te diretto, occuparsi di Taranto? Lo sono anche io, ma nello stesso tempo, non sono molto soddisfatto della tua “performance” sul palco del Concerto del 1° maggio di Taranto. Capisco che non è facile leggere il solito “editoriale”, senza il solito libretto nero che usi in trasmissione da Michele Santoro, abitudine questa che deve averti indotto a dire delle inesattezze in mezzo alle tante cose giuste che hai detto e che condivido. Partiamo da quelle giuste. Hai centrato il problema dicendo: “A Taranto i giornali non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. E’ vero e lo provano le numerose intercettazioni telefoniche contenute all’interno degli atti del processo “Ambiente Svenduto” e per le quali il Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia tergiversa ancora oggi nel fare chiarezza sul comportamento dei giornalisti locali coinvolti, cercando evidentemente di avvicinarsi il più possibile alla prescrizione amministrativa dei procedimenti disciplinari e salvarli”.
Comunque, a parte i distinguo di rito dalla massa, di fatto, però, nessuno di questa sentenza ne ha parlato.
In conclusione, allora, va detto che si è fatto bene, allora, ad indicare la notizia della condanna del Consigliere Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, come un fatto tra quelli che a Taranto son si osa dire…
Chi dice Terrone è solo un coglione. La sperequazione inflazionata di un termine offensivo come nota caratteristica di un popolo fiero. L’approfondimento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che sul tema ha scritto “L’Italia Razzista” e “Legopoli”.
Sui media spopola il termine “Terrone”. Usato dai razzisti del centro Nord Italia in modo dispregiativo nei confronti degli italiani del Sud Italia ed usati dai deficienti meridionali come caratteristica di vanto.
«Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia, terra di mezzo», diceva al telefono, parlando di un calabrese, una delle campionesse della Capitale Morale, quella Maria Paola Canegrati che smistava affarucci e mazzette per appalti nella Sanità, per circa 400 milioni di euro, a quanto è venuto fuori sinora. Naturalmente, lady Mazzetta, non sa che, invece, dire “terrone” con l'intento di offendere, è reato: ci sono sentenze, anche della Cassazione. Ma a lei deve sembrare un'ingiustizia! «Che cazzo ti devo dire, se adesso è un reato dare del terrone a un terrone, a 'sto punto qui io voglio diventare cittadina omanita»...., scrive Pino Aprile il 22 febbraio 2016.
«Io litigioso? È vero, ma sono migliorato… Mi chiamavano terun, africa, baluba, altro che non incazzarsi…» Dice Teo Teocoli in un intervista a Gian Luigi Paracchini il 22 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera".
Gli opinionisti del centro Italia “po’ lentoni” (lenti di comprendonio, anche se oggi l’epiteto, equivalente a “Terrone”, da rivolgere al settentrionale è “Coglione”) su tutti i media la menano sulla terronialità. Cioè l’usare il termine “terrone” come una parola neutra. Come se fossero un po’ tutti leghisti.
Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania”, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.
Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque meridionale e non terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te.
Essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.
Ciononostante i nordisti, anziché essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.
Mutuiamo il titolo del libro di Lino Patruno “Alla riscossa Terroni” e “Terroni” di Pino Aprile per farne un motivo di orgoglio meridionale che deve portarci ad invertire una tendenza che data 150 anni. Non rivendichiamo un passato di benessere del Meridione, rivendichiamo un presente migliore per un Sud messo alle corde.
I terroni nascono anche a Gemonio e nelle valli bergamasche, scrive "L'Inkiesta" il 6 aprile 2012. Leggendo le cronache, ma, soprattutto, vedendo le immagini, relative al marciume che sta venendo a galla dai sottoscala leghisti, mi par che si possa dire una grande verità: l'aggettivo spregiativo "terrone" non si può appioppare solo ai meridionali, ma, con grande precisione, anche ai miei conterronei nordici. Devo dire la verità. Io - nordico e fieramente antileghista da molto tempo - che le storie di Roma ladrona, dell'uccello duro, del barbarossa, dell'ampolla sul diopò (che, a dire il vero, mi par più una saracca che un rito), di riti celtici, di fazzolettini verdi come il moccio, erano tutte una rozza e ignorante presa per il culo per ammansire i buoi e farsi in comodo i sollazzi propri, ne ero convinto da tempo. Da ben prima che si svegliassero i soliti magistrati (verrà il giorno, in questo paese dei matocchi, che qualche rivoluzione la farò il popolo?), bastava un po' di fiuto per capire che il sottobosco era questo. Ma le vedete le facce del cerchio magico? Ma avete presente la pacchianità della villa di Gemonio? E poi, la priorità alla "family", come la più bieca usanza del troppo noto familismo amorale, perchè parlare di "famigghia" era troppo terrone. Ma il dato è che questi sono - culturalmente, esteticamente e antropologicamente - terroni. Perchè terrone, per me, non è un epiteto riferibile a una provenienza geografica I.G.P.; è uno stile deteriore di rappresentarsi, chiuso, retrivo, in cui il dialetto non è cultura, ma rozzume esibito con orgoglio (e questo vale tanto per i napoletani, quanto per i veneti), in cui prevale la logica del clan su quella della civile società, in cui si deve fare sfoggio dell'ignoranza perchè questo è "popolare". Terrone è un ignorante retrogrado, cafone, ineducato. Con il risultato che il Bossi e la family sprofondano, il terronismo impera e un peloso, stantio e pietistico meridionalismo riprende fiato. Grazie Bossi, grazie leghisti: avete ucciso non solo la dignità del nord, ma anche la speranza vera che una riforma moderna di questo paese, tenuto insieme con una scatarrata, si potesse fare. Ah, dimenticavo. Se qualcuno mi dovesse dire "parla lui, di ignoranza presentata con orgoglio.
Da che pulpito vien il sermone!", dico: "Non perdete tempo in analisi: son diverso e me ne vanto. Si vuol che dica che sono ignorante e delinquente. Bene lo sono, in un mondo di saccenti ed onesti mafiosi, sono orgoglioso di esser diverso. Cosa concludere, di fronte a tali notizie di carattere storico? Questo: trovo triste che i nostri bravi leghisti rinneghino le proprie radici arabe, albanesi, meridionali, mediterranee. Da loro, così orgogliosi della Tradizione, non me lo aspettavo. Anzi dirò di più. Buon per loro avere origini meridionali, perchè ad essere POLENTONI si rischia di avere una considerazione minore che essere TERRONE.
Secondo Wikipedia Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale. Origine e significato. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo, e sta ad indicare una persona zotica un pò lenta di comprendonio (po' lentone). Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta e dai movimenti goffi e impacciati.
Analisi dei termini offensivi. Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato dagli abitanti dell'Italia meridionale per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale, scrive Wikipedia. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) purtroppo con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra, anche se li ha salvati da tante carestie alimentari. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo nell'Italia del Sud, e sta ad indicare una persona zotica. Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale, anche se spesso usate solo in modo bonario. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta di comprendonio (tonta) e dai movimenti goffi e impacciati.
La Padania o Patanìa (lett. Terra dei Patanari, coltivatori di patate) si estende in tutte le regioni del nord Italia: dalla Val d'Aosta alla Toscana fino al Friuli Venezia Giulia. È facile collocare geograficamente la Patanìa vera e pura: si traccia una retta che attraversa interamente il Po, passando rigorosamente al centro, perché solo la parte nord del Po è padana. La Padania si definisce anche Barbaria, cioè terra di barbari. Il mito di una terra popolata da eroi celtici, circondata da terribili barbari di matrice slava, è il concetto su cui si basa la Lega Nord. Trascurabile il dettaglio che un tempo la Padania fosse abitata da un'accozzaglia di popoli oltre ai Celti.
Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato dagli abitanti dell'Italia settentrionale e centrale come spregiativo per designare un abitante dell'Italia meridionale, talvolta anche in senso semplicemente scherzoso, scrive Wikipedia. In passato il termine era utilizzato con un altro significato e valenza; solo nel corso degli anni sessanta ha acquisito il senso attuale. Con il termine "terrone" (da teróne, derivazione di terra) si indicava nel XVII secolo un proprietario terriero, o meglio un latifondista. Già tra le Lettere al Magliabechi, l'erudito bibliotecario Antonio Magliabechi (1633-1714) il cui lascito, i cosiddetti Codici Magliabechiani costituiscono un prezioso fondo della Biblioteca Nazionale di Firenze, scriveva (CXXXIV -II - 1277): «Quattro settimane sono scrissi a Vostra Signoria illustrissima e l'informai del brutto tiro che ci fanno questi signori teroni di volerci scacciare dal partito delle galere, contro ogni equità e giustizia, già che ho lavorato tant'anni per terminarlo, e ora che vedano il negozio buono, lo vogliono per loro». Il termine in seguito fu utilizzato per denominare chi era originario dell'Italia meridionale e con particolare riferimento a chi emigrava dal Sud al Nord in cerca di lavoro, al pari dei nordici milanesi, etichettati come baggiani, che emigravano nelle valli del Bergamasco, come menzionato da Alessandro Manzoni. Il termine si diffuse dai grandi centri urbani dell'Italia settentrionale con connotazione spesso fortemente spregiativa e ingiuriosa e, come altri vocaboli della lingua italiana (quali villano, contadino, burino e cafone) stava per indicare "servo della gleba" e "bracciante agricolo" ed era riferita agli immigrati del meridione. Gli immigrati venivano quindi considerati, sia pure a livello di folklore, quasi dei contadini sottosviluppati. Il termine, che deriva evidentemente da "terra" con un suffisso con valore d'agente o di appartenenza (nel senso di persona appartenente strettamente alla terra) è stato variamente interpretato come frutto di incrocio fra terre (moto) e (meridi)one, come "mangiatore di terra" parallelamente a polentone, "mangiapolenta", cioè l'italiano del nord; come "persona dal colore scuro della pelle, simile alla terra" o anche come "originario di terre soggette a terremoti" ("terre matte", "terre ballerine"). Il suo maggiore utilizzo data comunque essenzialmente agli anni sessanta e settanta e limitatamente ad alcune zone del nord Italia, in seguito alla forte ondata di emigrazione di lavoratori e contadini del meridione d'Italia in cerca di lavoro verso le industrie del nord e in particolare del triangolo industriale (Genova – Milano – Torino). In tale ambito si spiega anche la diffusione del termine: storicamente, grossi movimenti di popolazioni hanno sempre portato con sé anche fenomeni di intolleranza o razzismo più o meno larvati. Successivamente, allo stesso modo è sorta la locuzione "terrone del nord", generalmente per indicare gli italiani del nord-est (principalmente i veneti, detti "boari"), che per ragioni simili cominciarono negli stessi anni ad emigrare verso il nord-ovest, venendo così accomunati agli emigranti meridionali. Il riconoscimento di terrone come insulto e non come termine folkloristico è un processo che storicamente ha subito molte battute d'arresto e incomprensioni, probabilmente dovute al fatto che solo una parte della popolazione italiana ne riconosceva pienamente la gravità e il suo carattere offensivo. La Corte di Cassazione ha ufficialmente riconosciuto che tale termine ha un'accezione offensiva, confermando una sentenza del Giudice di Pace di Savona e confermando che la persona che l'aveva pronunciata dovesse risarcire la persona offesa dei danni morali. Spesso vengono associati a questo epiteto caratteristiche personali negative, tra le quali ignoranza, scarsa voglia di lavorare, disprezzo di alcune norme igieniche e soprattutto civiche. Analogamente, soprattutto in alcune accezioni gergali, il termine ha sempre più assunto il significato di "persona rozza" ovvero priva di gusto nel vestire, inelegante e pacchiana, dai modi inurbani e maleducata, restando un insulto finalizzato a chiari intenti discriminatori. Inoltre vengono spesso associati al termine anche tratti somatici e fisici, come la carnagione scura, la bassa statura, le gote alte, caratteristiche fisiche storicamente preponderanti al Sud rispetto al Nord Italia.
In conclusione c’è da affermare che bisogna essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.
Chi proferisce ingiurie ad altri o a se stesso con il termine terrone non resta che rispondergli: SEI SOLO UN COGLIONE.
Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.
LA BALLA DELLA SPEREQUAZIONE FINANZIARIA DELLE REGIONI DEL NORD A FAVORE DI QUELLE DEL SUD.
In Regione Lombardia non tornano 54 miliardi di tasse versate. (Lnews - Milano 06 settembre 2017). "La Lombardia è la regione che versa più tasse allo Stato ricevendo, in cambio, meno trasferimenti in termini di spesa pubblica. In questi anni, infatti, il residuo fiscale della Lombardia ha raggiunto la cifra record di 54 miliardi (fonte: Eupolis Lombardia). Si tratta del valore in assoluto più alto tra tutte le regioni italiane. Un'immensità anche a livello europeo se si pensa che due regioni tra le più industrializzate d'Europa come la Catalogna e la Baviera hanno rispettivamente un residuo fiscale di 8 miliardi e 1,5 miliardi". Lo scrive una Nota pubblicata oggi dal sito lombardiaspeciale.regione.lombardia.it.
RESIDUO FISCALE - "Con il termine residuo fiscale - spiega la Nota - s'intende la differenza tra quanto un territorio verso allo Stato sotto forma di imposte e quanto riceve sotto forma di spesa pubblica. Se il residuo fiscale abbia segno positivo, il territorio versa più di quanto riceve; se c'è un residuo negativo il territorio riceve più di quanto versa. Secondo James McGill Buchanan Jr, premio Nobel per l'Economia nel 1986, cui si attribuisce la paternità della definizione, il trattamento che lo Stato riserva ai cittadini può considerarsi equo se determina residui fiscali minimi in capo a individui, a prescindere dal territorio nel quale risiedono. Differenze marcate denotano una violazione dei principi di equità basilari".
I DATI PER REGIONE - "Dopo la Lombardia - appunta il teso - si colloca l'Emilia Romagna, con un residuo fiscale di 18.861 milioni di euro. Seguono Veneto (15.458 mln), Piemonte (8.606 mln), Toscana (5.422 mln), Lazio (3.775 mln), Marche (2.027 mln), Bolzano (1.100 mln), Liguria (610 mln), Friuli Venezia Giulia (526 mln), Valle d'Aosta (65 mln). In coda alla classifica: Umbria (-82 mln), Molise (-614 mln), Trento (-249 mln), Basilicata (-1.261 mln), Abruzzo (-1.301 mln), Sardegna (-5.262 mln), Campania (-5.705 mln), Calabria (-5.871 mln), Puglia (-6.419 mln) e Sicilia (-10.617 mln)".
IL DATO PRO CAPITE - Anche per quanto riguarda il residuo fiscale pro capite, la Lombardia presenta i valori più alti d'Italia, con 5.217 euro. Seguono Emilia Romagna (4.239), Veneto (3.141), Provincia Autonoma di Bolzano (2.117), Piemonte (1.950), Toscana (1.447), Marche (1.310), Lazio (641), Valle d'Aosta (508), Friuli Venezia Giulia (430), Liguria (386), Umbria (-92), Provincia Autonoma di Trento (-464), Campania (-974), Abruzzo (-979), Puglia (-1.572), Molise (-1.963), Sicilia (-2.089), Basilicata (-2.192), Calabria (-2.975) e Sardegna (-3.169)", spiega la Nota pubblicata.
Da sempre i giornali e le tv nordiste, spalleggiate dagli organi d’informazione stataliste, ce la menano sul fatto che ci sia un grande disavanzo finanziario tra le regioni del centro-nord ricco e le regioni povere del sud Italia. I conti, fatti in modo bizzarro, rilevano che il centro-nord paga molto di più di quanto riceva e che la differenza vada in solidarietà a quelle regioni che a loro volta sono votate allo spreco ed al ladrocinio. A fronte di ciò, i settentrionali, hanno deciso che è meglio tagliare quel cordone ombelicale e lasciar cadere quella zavorra che è il sud Italia. Ed il referendum secessionista è stato organizzato per questo, facendo leva sull’ignoranza della gente.
Ora facciamo degli esempi scolastici che si studiano negli istituti tecnici commerciali, per dimostrare di quanta malafede ed ignoranza sia propagandato questo referendum.
Una partita iva, persona o società, registra in contabilità la gestione e versa tasse, imposte e contributi nel luogo della sede legale presso cui redige i suoi bilanci semplici o consolidati (gruppi d’impreso con un capogruppo).
Il Centro-Nord Italia, con la Lombardia ed il Lazio in particolare, è territorio privilegiato per eleggere sede legale d’azienda, per la vicinanza con i mercati europei. Dove c’è sede legale vi è iscrizione al registro generale dell’imprese. Ergo: sede di versamento fiscale che alimenta quei numeri, oggetto di nota della Regione Lombardia. Quei dati, però, spesso, nascondono la ricchezza prodotta al sud (stabilimenti, appalti, manodopera, ecc.), ma contabilizzata al nord.
E’ risaputo che nel centro-nord Italia hanno stabilito le loro sedi legali le più grandi aziende economiche-finanziarie italiane e lì pagano le tasse. Il Sud Italia è di fatto una colonia di mercato. Di là si produce merce e lavoro (e disinformazione), di qua si consuma e si alimenta il mercato.
E’ risaputo che le aziende del centro nord appaltano i grandi lavori pubblici, specialmente se le aziende del sud Italia le fanno chiudere con accuse artefatte di mafiosità.
E’ risaputo che al nord il costo della vita è più caro e questo si trasforma proporzionalmente in reddito maggiorato rispetto ai cespiti collegati, come quelli immobiliari.
Il residuo fiscale era tollerato e l’assistenzialismo era alimentato, affinchè il mercato meridionale non cedesse e le aziende del nord potessero continuare a produrre beni e servizi e ad alimentare ricchezza nell’Italia settentrionale, condannando il sud ad un perenne sottosviluppo e terra di emigrazione.
Oggi lo Stato centralista assorbe tutta la ricchezza nazionale prodotta e l'assistenzialismo si è bloccato, ma il sud Italia continua ad essere un mercato da monopolizzare da parte delle aziende del Centro-Nord Italia. Una eventuale secessione a sfondo razzista-economica votata dai nordisti sarebbe un toccasana per i meridionali, che imporrebbero diversi rapporti commerciali, imponendo dei dazi od altre forme di limitazioni alle merci del nord. Il maggior costo di beni e servizi del nord Italia favorirebbe la nascita nel sud Italia di aziende, favorite economicamente dal minor costo della mano d’opera del posto e delle spese di trasporto e logistica locale. Inoltre quello che produce il centro nord è acquisibile su altri mercati. Quello che si produce al Sud Italia è peculiare e da quel mercato, per forza, bisogna attingere e comprare...
Quindi, viva il referendum…secessionista
A votare per questo referendum sono andati i mona. Questo l'ha detto lei, ma è vero". Risponde così il 24 ottobre 2017 all'intervistatore del programma Morning Showdi di Radio Padova il milanese Oliviero Toscani, il noto fotografo già protagonista, nel recente passato, di polemiche sui "veneti popolo di ubriaconi". "Sono andati a votare quattro contadini - rincara la dose - che non parlano neanche l'italiano". E ancora: "Nelle campagne la gente è isolata, incestuosa e vota queste cagate qua". Per lo stesso Toscani, invece, a non votare è stata "la minoranza intellettuale". Così il fotografo, maestro della provocazione, ritorna ad aprire una ferita solo apparentemente chiusa che aveva portato a querele all'epoca degli “imbriagoni”. Nell'intervista radiofonica sui referendum ha anche evidenziato un confronto con la Lombardia dove la percentuale di voto è stata minore. «Non a caso Milano - ha rilevato - è la prima città d'Italia per intellighenzia, e non a caso Milano è una città piena di immigrati. Milano è fatta così, è civile. Mentre i contadini là, che non parlano neanche italiano, cosa vuoi che votino?».
Paradosso sanità: il Sud paga più tasse perché i pazienti devono andare al Nord per curarsi. La mobilità sanitaria passiva ha un impatto enorme sui bilanci delle strutture meridionali. E le Regioni così devono aumentare le aliquote e chiudere strutture, scrive Gloria Riva il 18 gennaio 2018 su "L'Espresso". La distanza fra Catanzaro e Milano la si può calcolare in chilometri, sono 1.159, o in anni di vita in meno, che sono quattro. E in generale la prospettiva di vita in Calabria è molto più simile a quella di Romania o Bulgaria, mentre al Nord si sta come in Svezia. Tutto questo nonostante i cittadini del settentrione spendano in media 1.961 euro a testa per la sanità pubblica, quelli del Sud 1.799 e quelli del Centro 1.928 euro. Insomma, i quattrini da sborsare sono più o meno gli stessi, ma c'è un divario di assistenza sanitaria. Torniamo in Calabria: qui ogni cittadino sborsa 1.875 euro l'anno per la sanità pubblica, di cui 126 euro se ne vanno per pagare il conto presentato da altre Regioni, spesso del Nord, dove i compaesani calabresi sono andati a curarsi. Già, perché nel 2016 il 40,7 per cento dei malati di cancro della Calabria ha scelto l'ospedale di un'altra regione per curarsi. Dall'altro lato la Lombardia ha visto arrivare da fuori regione quasi 17 mila malati oncologici nei propri ospedali. Quell'immigrazione sanitaria consente ai lombardi di spendere “solo” 1.877 euro per una sanità d'eccellenza, risparmiandone 54, pagati appunti dai migranti in cerca di cure. Francesco Masotti è un dirigente sanitario dell'azienda sanitaria provinciale di Cosenza ed è anche segretario della Cgil Medici, a L'Espresso racconta la storia del commissariamento della sanità calabrese, iniziato nel 2010 e mai terminato: «Siamo al terzo piano di rientro e pare che i conti siano in peggioramento di oltre 30 milioni di euro», tutta colpa di inaspettate poste in bilancio che il commissario Massimo Scura si trova a dover contabilizzare per via di dimenticati debiti pregressi, contenziosi finanziari risalenti a 10 anni fa, recuperi di tariffe mai ritoccate ed esplose in questi ultimi anni, e poi saldi per la mobilità passiva. Rieccola, la mobilità passiva, il grande buco che attanaglia la sanità calabrese e non solo, che da sola si mangia il 65 per cento delle finanze locali. Secondo il rapporto Cergas Bocconi sullo stato di salute del Sistema Sanitario Nazionale, la Calabria da sola genera l'otto per cento dei viaggi sanitari verso altre regioni e un paziente su sei si ricovera fuori regione generando un debito per le tasche dei calabresi di 304 milioni. Una voragine. Succede perché il conto delle cure negli ospedali del Nord viene presentato alla regione Calabria. E visto che l'Italia da 17 anni si è dotata di un sistema federale per la sanità, ogni Regione, attraverso l'Irpef e l'Irap, cioè le tasse pagate dai lavoratori e dalle aziende, deve riuscire a coprire le spese per curare i propri cittadini. Ma non tutte ce la fanno. Va da sé che le Regioni con meno occupazione e povere di industria sono entrate subito in affanno e i sistemi sanitari locali sono stati ben presto commissariati. Per rimettersi in sesto, s'è provveduto a chiudere gli ospedali, ridurre i posti letto e bloccare l'assunzione di nuovi medici e infermieri, al punto che in queste regioni il personale è crollato del 15 per cento. Lo stesso è successo per i livelli essenziali di assistenza: «Il dato della Campania è davvero allarmante perché, rispetto al 2014 le performance si sono ridotte di oltre 30 punti. Ma ci sono peggioramenti anche in Puglia, Molise e Sicilia», si legge nell'indagine Cergas Bocconi, che continua spiegando come il piano di risanamento dei conti della sanità sia ancora in atto in cinque Regioni: Abruzzo, Molise, Campania, Calabria e il Lazio che dovrebbe presto uscirne dopo un decennio lacrime e sangue. Mentre la Calabria sembra lontanissima dal traguardo e «ci apprestiamo a entrare nel quarto programma di rientro. Il che significa altri tagli per il sistema sanitario calabrese, già ridotto all'osso. Ne usciremo mai?», si domanda Masotti, che spiega come il disavanzo venga pagato con un aumento delle tasse, dell'Irap e dell'Irpef. Arrivando a situazioni assurde, per cui un operaio di Varese versa l'1,58 di aliquota Irpef per la sanità, il suo collega di Gioia Tauro paga di più, l'1,73, ma poi «va in Lombardia a curarsi». Anche perché in Campania negli 10 anni sono andati in pensione 4.500 operatori - medici e infermieri - mai sostituiti. Ed è stata predisposta la chiusura di una miriade di piccoli ospedali, «a cui nessuno si è opposto, perché tutti ritenevamo fossero pericolosi per il cittadino e per gli operatori sanitari», dice il medico, che aggiunge: «Quei luoghi di cura non sono mai stati riconvertiti in presidi per il territorio». Insomma, la Calabria si trova nel limbo e secondo Masotti «poco o nulla è stato fatto, nonostante un progetto già finanziato dalla comunità e partito sei anni fa, per la costruzione di 20 Case della salute. Solo una è stata realizzata», afferma Masotti. Dunque, se prima del commissariamento la sanità calabrese era costosa perché vaporizzata in una miriade di piccoli ospedali poco efficienti, dopo la stretta economica è andata anche peggio, perché all'inefficienza si è aggiunta la penuria di strutture e di personale. Così i cittadini hanno perso qualsiasi fiducia nell'assistenza locale, hanno fatto le valigie e scelto di andarsi a curare altrove. Il paradosso è che tutto questo ha un costo altissimo per le aziende del territorio, «che per coprire i conti in rosso della sanità devono pagare più tasse che altrove». Infatti in Calabria, ma anche in altre Regioni come Marche, Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia e Sicilia le aziende pagano più del 3,9 per cento di Irap. E anche il bollo auto, in molte di queste zone, costa più che al Nord. Insomma, più tasse e meno servizi. Il tipico cane che si morde la coda.
Un referendum da presa per il culo. Il 22 ottobre 2017 si chiede ai cittadini interessati. “Volete essere autonomi e tenere per voi tutto l’incasso?” E’ logico che tutti direbbero sì, senza distinzione di ideologia o natali. Ed i quorum raggiunti sono fallimentari tenuto conto dell’interesse intrinseco del quesito.
Specialmente, poi, se è stato enfatizzato tanto dai giornali e le tv del Nord, comprese quelle di Berlusconi.
“Al di là dell’enorme spreco di soldi pubblici per organizzare due referendum buoni solo a fare un po’ di propaganda elettorale a spese dei contribuenti, ha evidenziato il trionfo dell’egoismo di chi è più ricco e pensa di poter vivere meglio mantenendo sul territorio le risorse derivante dalle imposte dopo aver beneficiato per decenni di aiuti statali e del sostegno dello Stato”. Lo ha detto il consigliere regionale dei Verdi della Campania, Francesco Emilio Borrelli, per il quale “la Lega ha mostrato, ancora una volta, il suo vero volto che è fatto di odio verso il Sud e i meridionali”.
“Così come ha ricordato anche Prodi, chiedere ai cittadini se vogliono pagare meno tasse ancora una volta a danno dei meridionali è come un invito a nozze che non si può rifiutare, ma il problema è che, per chiederlo, in questo caso, Zaia e Maroni hanno speso milioni di euro di soldi pubblici per farlo” ha aggiunto Borrelli chiedendo ai cittadini lombardi e veneti: “Visto come sprecano i vostri soldi e come hanno speso, in passato, quelli, sempre pubblici, per il finanziamento ai partiti, siete proprio sicuri di volergliene affidare ancora di più?” “La Regione Campania viene privata ogni anno di 250 milioni di euro che vengono sottratti ai servizi sanitari e ai nostri concittadini perché considerata la regione più giovane d’Italia e grazie a una norma introdotta dai governatori leghisti e mai tolta” ha continuato Borrelli, sottolineando che “ogni anno la sola Campania viene depredata di centinaia di milioni di euro di fondi che invece vengono destinati al ricco Nord senza alcuna reale motivazione”. “La Rampa” 23 ottobre 2017.
In Italia conviene non fare nulla e non avere nulla, perché se hai o fai si fotte tutto lo Stato, per dare il tuo, non a chi è bisognoso, ma a chi non sa o non fa un cazzo. Cioè ai suoi amici o ai suoi scagnozzi professionisti corporativi.
L’Italia uccisa dai catto-comunisti, scrive Andrea Pasini il 30 ottobre 2017 su “Il Giornale”. Il comunismo ha ucciso l’Italia. “Max Horkheimer fornì d’altra parte, al termine della sua vita, con una sorprendete confessione, la spiegazione di questa incapacità di analisi da parte dei membri della scuola di Francoforte: riconobbe infatti con dolore che il marxismo aveva preparato il Sistema, che esso ne era responsabile allo stesso titolo dell’ideologia liberale borghese, in quanto la sua visione del mondo si fonda ugualmente su un progetto mondiale economicista e messianico”. Guillaume Faye, all’interno dello scritto "Il sistema per uccidere i popoli", recentemente ripubblicato dai tipi di Aga Editrice, ha fotografato l’evolversi delle idee forti provenienti dal diciannovesimo secolo. Loro ci odiano, odiano il nostro Paese, ma guardandosi allo specchio non possono fare a meno di odiarsi a loro volta. Una spirale senza fine, laddove astio, animosità ed acredini bruciano la base solida di questa nazione. Vittorio Feltri, in un animoso e vitale articolo apparso qualche anno fa sulle colonne di Libero, scrisse: “Gli stessi comunisti si vergognano di esserlo stati, ma la mentalità pauperistica è rimasta e non ha cessato di provocare danni. Risultato: in Italia è impossibile fare impresa o artigianato, aprire un’azienda, essere liberi professionisti senza essere considerati sfruttatori, evasori fiscali se non addirittura ladri”.
Proprio per questo motivo, ogni giorno, metto in campo tutte le mie energie al fine di stoppare, innanzitutto fisicamente, un oblio vertiginoso. Anche questo è il mio dovere in qualità di imprenditore. Lo Stato è in pericolo, la franata negli ultimi decenni è stata infausta. Ma davanti al fatalismo che attanaglia i popoli dobbiamo mettere in campo la nostra fede. Gli uomini di fede, uomini animati da un ardire che non conosce limiti, fanno paura ai catto-comunisti colpevoli di aver ridotto in cenere le speranze del domani. L’avvenire non sarà mai rosso di colore. Tornando ai piedi dello scrittore francese Faye leggiamo: “Gli intellettuali confessano, come Débray o Lévy, di fare oramai solamente della morale e non importa più che la loro verità si opponga alla realtà. La ragione ammette di non aver più ragione”. Il paradosso del marxismo 160 anni dopo. La ragione aveva torto scomodando, il sempre attuale, Massimo Fini. Ora conta credere, ciò che importa è come e quello che si fa per invertire la rotta, per non perdere il timone. Il Paese suona il corno e ci chiama a raccolta. Impossibile, a pochi giorni dal centenario di Caporetto, non rispondere, con tutto il proprio animo in tensione, presente.
In questo rimpallo, tra menti eccelse, contro il dominio sinistrato del presente e del futuro passiamo, nuovamente, la palla a Feltri: “E anche lo Stato, influenzato da alcuni partiti di ispirazione marxista, non aiuta con tutta una serie di vincoli burocratici, lacci e lacciuoli. E i sindacati hanno completato l’opera, contribuendo ad avvelenare i rapporti tra datore di lavoro e dipendenti, trasformando le fabbriche in luoghi d’odio e di lotta violenta, per umiliare i padroni e il personale non ideologizzato”. La storia non scorre più è tutto fermo nella mente dei retrogradi. Si avvinghiano alla legge Fiano i talebani di quest’epoca, per fare il verso a "Il Primato Nazionale", dimenticandosi dei problemi reali dell’Italia. Burocrati, sordidi e grigi, in doppio petto che accoltellano il ventre molle dello stivale, una carta bollata dopo l’altra. Alzare lo sguardo e tornare a cantare, davanti alle manette rosse della coscienza, non è facile, ma abbiamo il compito di tornare a farlo. Considerando il detto, “il lupo perde il pelo, ma non il vizio”, associandolo con le profetiche lezioni di Padre Tomas Tyn, scopriamo che il comunismo non è sparito, anzi si è rafforzato ed ha trovato gli alleati nei cattolici “non praticanti”. Potrà sembrare un’assurdità, invece è la mera realtà.
L’indiscutibile commistione di progressismo e comunismo, spesso umanitario ed accatto, ha creato con l’unione di un cattolicesimo snaturato una via collegata direttamente con i diritti civili, che non interseca, mai e poi mai, la sua strada con i diritti sociali. Aborto, divorzio, pacs, dico, unioni civili, matrimoni gay e chi più ne ha più ne metta. Fanno tutto ciò che non serve per gli italiani, fanno tutto ciò che non serve per difendere le fasce deboli della nazione. Tanti nostri connazionali hanno abbracciato il nemico, sono diventati uno di loro, per questo dobbiamo denunciare gli errori di chi sfida il tricolore e salvare la Patria. Il peccato, originale e capitale, è insito nell’ideologia marxista e rappresenta il male che sta distruggendo il nostro Paese, senza dimenticare il liberismo a tutti i costi della generazione Macron.
Milano, il paradosso: se la pena è la stessa per il giudice corrotto e per chi ha rubato una bottiglia di vino. Un noto avvocato, che ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro, grazie a vari sconti di pena ha concordato 4 anni in Appello. Quasi la stessa pena, 3 anni e 8 mesi, patteggiata in Tribunale per un reato da 8 euro, scrive Luigi Ferrarella il 30 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera”. Il problema è quando la combinazione dell’algebra giudiziaria, del tutto aderente alle regole, stride al momento di tirare la riga e, come risultato, fa patteggiare 3 anni e 8 mesi a chi ha rubato al supermercato una bottiglia di vino da 8 euro, mentre chi ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro esce dalla Corte d’Appello condannato a poco più: e cioè a pena concordata di 4 anni, ridotta rispetto ai 6 anni e 10 mesi del primo grado, che grazie allo sconto del rito abbreviato aveva già ridimensionato i teorici 10 anni iniziali. Luigi Vassallo è l’avvocato cassazionista che, nelle vesti di giudice tributario di secondo grado, alla vigilia di Natale 2015 fu fermato in flagranza di reato a Milano mentre intascava i primi 5.000 dei 30.000 euro chiesti ai legali di una multinazionale per intervenire su una collega di primo grado e «aggiustare» un contenzioso da milioni di euro. Due «corruzioni in atti giudiziari» nel giudizio immediato, e una «corruzione» e una «induzione indebita» nel successivo giudizio ordinario, lo avevano indotto ad accordarsi con il Fisco per 140.00 euro e a scegliere il rito abbreviato, il cui automatico sconto di un terzo gli aveva abbassato la prima sentenza a 4 anni e 8 mesi, e la seconda a 2 anni e 2 mesi. Per un totale, cioè un cumulo materiale, di 6 anni e 10 mesi. Ora in Appello arriva - come contemplato dalla recente legge in cambio del risparmio di tempo e risorse in teoria legato alla rinuncia difensiva a far celebrare il dibattimento di secondo grado - un altro sconto di un terzo, e si aggiunge già alla limatura di pena dovuta alla «continuazione» tra le 4 imputazioni delle due sentenze di primo grado riunite in secondo grado. Alla vigilia dell’udienza, dunque, l’avvocato Fabio Giarda rinuncia ai motivi d’appello diversi dal trattamento sanzionatorio, a fronte del sì del pg Massimo Gaballo all’accordo su una pena di 4 anni, ratificato dalla II Corte d’Appello presieduta da Giuseppe Ondei. Undici mesi Vassallo li fece in custodia cautelare (fra carcere e domiciliari), sicché non appare irrealistico l’agognato tetto dei 3 anni di pena da eseguire, sotto i quali potrà chiedere di scontarla in affidamento ai servizi sociali senza ripassare dal carcere. In Tribunale, invece, da detenuto arriva e da detenuto va via (senza sospensione condizionale della pena e senza attenuanti generiche) un altro imputato che nello stesso momento patteggia 3 anni e 8 mesi – quasi la stessa pena del giudice tributario – per aver rubato da un supermercato una bottiglia di vino da 8 euro e mezzo: il fatto però che avesse dato una spinta al vigilantes privato che all’uscita gli si era parato davanti, minacciandolo confusamente («non vedi i tuoi figli stasera») e agitando un taglierino, ha determinato il passaggio dell’accusa da «furto» a «rapina impropria», la cui pena-base è stata inasprita dai vari decreti-sicurezza, tanto più per chi come lui risulta «recidivo» a causa di due vecchi furti. Per ridurre i danni, il patteggiamento non scende a meno di 3 anni e 8 mesi. Quasi un anno di carcere per ogni 2 euro di vino.
“La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla”.
Intervista al sociologo storico Antonio Giangrande, autore di un centinaio di saggi che parlano di questa Italia contemporanea, analizzandone tutte le tematiche, divise per argomenti e per territorio.
Dr Antonio Giangrande di cosa si occupa con i suoi saggi e con la sua web tv?
«Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
Perché dice che “La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla”.
«Libri, 6 italiani su dieci non leggono. In Italia poi si legge sempre meno. Siamo tornati ai livelli del 2001. Un dato resta costante da decenni: una famiglia su 10 non ha neppure un libro in casa. I dati pubblicati dall’Istat fotografano l’inesorabile diminuzione dei lettori, con punte drammatiche al Sud. Impietoso il confronto con l’estero, scrive il 27 dicembre 2017 Cristina Taglietti su "Il Corriere della Sera". La gente usa esclusivamente i social network per informarsi tramite lo smartphone od il cellulare. Non usa il personal computer perchè non ha la fibra in casa che ti permette di ampliare più comodamente e velocemente la ricerca e l'informazione. La gente, comunque, non va oltre alla lettura di un tweet o di un breve post, molto spesso un fake nato dall'odio o dall'invidia, e lo condivide con i suoi amici. Non verifica o approfondisce la notizia. Non siamo nell'era dell'informazione globale, ma del "passa parola" totale. Di maggiore impatto numerico, invece, è la ricerca sui motori di ricerca, non di un tema o di un argomento di cultura o di interesse generale, ma del proprio nome. Si digita il proprio nome e cognome, racchiuso tra virgolette, per protagonismo e voglia di notorietà e dalla ricerca risulta quanti siti web lo citano. Non si aprono quei siti web per verificare il contenuto. Si fermano sulla prima frase che appare sulla home page di Google o altri motori similari, estrapolata da un contesto complesso ed articolato. Senza sapere se la citazione è diffamatoria o meritoria o riconducibile all'autore da lì partono querele, richieste di rimozione per diritto all’oblio o addirittura indifferenza».
Ha un esempio da fare sull’impedimento ad informare?
«Esemplari sono le querele e le richieste di rimozione. Libertà di informazione, nel 2017 minacciati 423 giornalisti. I dati dell'osservatorio promosso da Fnsi e Ordine. La tipologia di attacco prevalente è l'avvertimento (37 per cento), scrive il 31 dicembre 2017 "La Repubblica". Ognuno di questi operatori dell'informazione è stato preso di mira per impedirgli di raccogliere e diffondere liberamente notizie di interesse pubblico. La tipologia di attacco prevalente è stata l'avvertimento (37 per cento) seguita dalle querele infondate e altre azioni legali pretestuose (32 per cento)».
E sull’indifferenza…
«Le faccio leggere un dialogo tra me e un tizio che mi ha contattato. Uno dei tanti italiani che non si informa, ma usa internet in modo distorto. Uno di quel popolo di cercatori del proprio nome sui motori di ricerca e che vive di tweet e post. Un giorno questo tizio mi chiede “Lei ha scritto quel libro?”
E' un saggio - rispondo io. - L'ho scritto e pubblicato io e lo aggiorno periodicamente. A tal proposito mi sono occupato di lei e di quello che ingiustamente le è capitato, parlandone pubblicamente, come ristoro delle sofferenze subite, pubblicando l'articolo del giornale in cui è stato pubblicato il pezzo. Inserendolo tra le altre testimonianze. Comunque ho scritto anche un libro sul territorio di riferimento. Come posso esserle utile?
“Volevo giusto capire, io mi sono imbattuto per caso nell'articolo, cercando il mio nome... E sotto l'articolo ho visto un link che mi collegava al suo saggio...Capire più che altro perché prendere articoli di giornale su altra gente e farne un saggio... Sono solo curiosità”.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte - spiego io. - I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale. In generale. Dico, in generale: io non esprimo mie opinioni. Prendo gli articoli dei giornali, citando doverosamente la fonte, affinchè non vi sia contestazione da parte dei coglioni citati, che siano essi vittime, o che siano essi carnefici. Perchè deve sapere che i primi a lamentarsi sono proprio le vittime che io difendo attraverso i miei saggi, raccontando tutto quello che si tace.
"Siccome io le ho detto mi sono solo imbattuto per "caso"... Io ho visto questa cosa e sinceramente l'ho letta perché ho visto il mio nome, ma se dovessi prendere il suo saggio e leggerlo non lo farei mai. Perché: Cerco di lavorare ogni giorno con le mie forze. I miei aggiornamenti sono tutt'altro. Faccio tutto il possibile per offrirmi un futuro migliore. Sono sempre impegnato e non riuscirei a fermarmi due minuti per leggere".
Rispetto la sua opinione - rispondo. - Era la mia fino ai trent'anni. Dopo ho deciso che è meglio sapere ed essere che avere. Quando sai, nessuno ti prende per il culo...
"Ma per le cose che mi possono interessare per il mio lavoro e il mio futuro nessuno mi può prendere per il culo ... Poi è normale che in ogni campo ci sia l'esperto…"»
Come commenta...
«Confermo che quando sai, nessuno ti prende per il culo. Quando sai, riconosci chi ti prende per il culo, compreso l’esperto che non sa che a sua volta è stato preso per il culo nella sua preparazione e, di conseguenza sai che l’esperto, consapevole o meno, ti potrà prendere per il culo».
Comunque rimane la soddisfazione di quei quattro italiani su dieci che leggono.
«Sì, ma leggono cosa? I più grandi gruppi editoriali generalisti, sovvenzionati da politica ed economia, non sono credibili, dato la loro partigianeria e faziosità. Basta confrontare i loro articoli antitetici su uno stesso fatto accaduto. Addirittura, spesso si assiste, sulle loro pagine, alla scomparsa dei fatti. Di contro troviamo le piccole testate nel mare del web, con giornalisti coraggiosi, ma che hanno una flebile voce, che nessuno può ascoltare. Ed allora, in queste condizioni, è come se non si avesse letto nulla».
Concludendo?
«La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla...e vota. Nel paese degli Acchiappacitrulli, più che chiedere voti in cambio di progetti, i nostri politici sono generatori automatici di promesse (non mantenute), osannati da giornalisti partigiani. Questa gente che non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla, voterà senza sapere che è stata presa per il culo, affidandosi ai cosiddetti esperti. I nostri politici gattopardi sono solo mediocri amministratori improvvisati assetati di un potere immeritato. Governanti sono coloro che prevedono e governano gli eventi, riformando ogni norma intralciante la modernità ed il progresso, senza ausilio di leggi estemporanee ed improvvisate per dirimere i prevedibili imprevisti».
L'informazione sulla politica? In Italia è troppo di parte (per 6 lettori su 10). I risultati di una ricerca del Pew Research Center di Washington in 38 Paesi: l'Italia è tra gli Stati dove la fiducia nell'imparzialità dell'informazione politica è più bassa. Per sette giovani su 10 è la Rete il luogo principale dove trovare notizie, scrive Giuseppe Sarcina, corrispondente da Washington, il 11 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". Solo il 36% degli italiani pensa che giornali, televisioni e siti web riportino in modo accurato le diverse posizioni politiche. Tra i Paesi occidentali solo gli spagnoli, con il 33%, e i greci, con il 18%, sono più critici. (In fondo all'articolo, la classifica completa). È uno dei risultati emersi dallo studio del Pew Research Center di Washington, appena pubblicato. Una ricerca di grande impegno, condotta dal 16 febbraio al 8 maggio 2017, raccogliendo 41.953 risposte in 38 Paesi.
Precisione e attendibilità. In tempi di «fake news» (qui la guida di Milena Gabanelli e Martina Pennisi), gli analisti del Pew Center hanno chiesto quanto siano considerati precisi, attendibili i media sui temi della politica. Tra gli Stati occidentali spiccano le percentuali di chi approva il lavoro di stampa e tv nei Paesi Bassi (74%), in Canada (73%) e in Germania (72%). Segue il gruppo intermedio con Svezia (66%) Regno Unito (52%), Francia (47%). Italia, Spagna e Grecia sono in coda. Negli Stati Uniti, già provati da un anno di presidenza di Donald Trump, il 47% degli interpellati apprezza il modo in cui vengono trattate le notizie politiche.
Meglio sugli Esteri. I numeri cambiano, anche sensibilmente, su altri quesiti. In Italia, per esempio, il 46% considera accurata l’informazione che riguarda l’azione di governo; il 60% quella sui principali eventi mondiali. In generale, considerando tutti i Paesi, il 75% del campione non considera accettabile un’informazione apertamente schierata su una posizione politica e il 52% promuove i media.
Per 7 giovani su 10 l'informazione è in Rete. Interessante anche il capitolo sulle news online. Si parte da un esito scontato, (i giovani si informano su Internet), per arrivare a compilare una classifica sul gap tra le diverse fasce di età tra gli utenti del web. Al primo posto il Vietnam, dove l’84% dei giovani tra i 18 e i 29 anni consulta la rete almeno una volta al giorno, contro solo il 10% degli ultra cinquantenni (gap pari al 74%). L’Italia è al terzo posto: 70% di giovani e 25% di navigatori oltre i cinquant’anni (gap del 45%). Gli Stati Uniti sono il Paese dove le distanze generazionali sono più ridotte: il 48% del pubblico più anziano consulta Internet, contro il 69% dei più giovani.
DUE PESI E DUE MISURE. Nicola Porro: "Fake news? No: se le scrive Repubblica, il giornale progressista", scrive il 28 Novembre 2017 "Libero Quotidiano". "Le fake news sono tali solo se non riguardano un tema politicamente corretto e non sono scritte a titoli cubitali...", scrive Nicola Porro sul suo profilo Twitter. Repubblica, sottolinea il vicedirettore de Il Giornale, "a pagina 4 sparava con grande evidenza un numero impressionante: 6.788.000. E la didascalia recitava: Italiane tra i 16 e i 70 anni che hanno subito qualche forma di violenza pari al 31,6%". Peccato che questa notizia sia assolutamente "falsa, doppia come un gettone. Il tutto a corredo di un pezzo che chiede maggiori risorse contro il femminicidio: cioè maggiori tasse per far sì che una donna su tre (così spiega la didascalia) non debba più subire ignobili violenze". Quel numero, continua Porro, "è un macigno" e "il giornale antibufale per eccellenza, e cioè Repubblica", non ci dice "da dove esce". Bene, continua Porro, "nasce da un rapporto Istat del 2015 su dati del 2014", e "non si tratta di un dato puntuale, ma di un sondaggio. Cioè non ci sono 6,7 milioni di donne che hanno denunciato o lamentato o raccontato una violenza. C’è un sondaggio su un campione di 24.761 donne". Proprio così. Non solo, "si dice che il 31,6% delle donne italiane subisce violenza". Ma la maggior parte di loro subisce quella psicologica: il 22% della popolazione nazionale secondo l'Istat, e cioè 4,4 milioni su 6,7 milioni delle loro stime, si lamenta solo della violenza psicologica e non già di quella fisica. Grave comunque, ma ci sarà una differenza tra l’una e l’altra".
Firenze, le fake news dei giornali sugli stupri inventati. Diversi quotidiani nazionali hanno pubblicato la notizia: A Firenze nel 2016 false 90% delle denunce per violenza sessuale. Il questore smentisce, scrive Domenico Camodeca, Esperto di Cronaca l'11 settembre su "it.blastingnews.com". “Tutte le studentesse americane in Italia sono assicurate per lo stupro e a #Firenze su 150-200 denunce all’anno, il 90% risulta falso”. È questo il passaggio incriminato, privo di virgolette nella versione originale, di un articolo apparso il 9 settembre scorso sui quotidiani La Stampa e Il Secolo XIX, a margine di una intervista al ministro della Difesa, Roberta Pinotti, sui fatti legati all’ancora presunto stupro di Firenze. Anche altre testate, tra cui Il Messaggero, Il Gazzettino e Il Mattino (o, almeno, questa la ricostruzione fatta dalla giornalista del Fatto Quotidiano Luisiana Gaita) hanno poi rilanciato la notizia che, però, si è rivelata essere una #Fake News, una bufala insomma. A smentire i Media ci ha pensato il questore di Firenze Alberto Intini: “Secondo la banca dati della polizia solo 51 denunce per#violenza sessuale nel 2016 e, nei primi 9 mesi del 2017, solo 3 da parte di ragazze americane”. Di fronte alla presunta fake news smascherata, Stampa e Secolo decidono di non mollare, virgolettano la frase da loro pubblicata e la attribuiscono a una non meglio precisata “fonte istituzionale attendibile”, anche se coperta dal segreto professionale. Dunque, a Firenze, nel 2016, ci sono state tra le 150 e le 200 denunce per violenza sessuale (reato che va dal palpeggiamento al vero e proprio stupro), oppure solo 51?. E poi, è vero che le denunce presentate dalle donne americane sarebbero false per il 90%? Sostenitori della prima tesi sono, come detto, le redazioni di Stampa e Secolo le quali, nella nota apparsa successivamente in calce al pezzo contestato, spiegano che “i dati cui fa riferimento la fonte non sono nelle statistiche ufficiali perché non sono ancora confluiti nei database Istat”. Una pezza di appoggio abbastanza fumosa che, infatti, il procuratore di Firenze Intini contraddice fornendo i numeri provenienti dalla banca dati della polizia. Per non parlare dell’altra fake news che tutte le studentesse Usa in Italia sarebbero assicurate contro lo stupro Infatti, come ha spiegato anche Gabriele Zanobini, avvocato delle due ragazze protagoniste della vicenda, l’assicurazione stipulata dalle donne americane che si recano in Italia è generica e comprende ogni tipo di incidente o aggressione in cui si può incorrere.
«Denzel Washington sostiene Trump», la bufala su Facebook. Ennesimo caso di propaganda veicolata da American News, sito che posta contenuti falsi per orientare il dibattito. L’attore trasformato in un supporter del presidente eletto, scrive Marta Serafini su “Il Corriere della Sera” il 16 dicembre 2016. Tanto Denzel Washington risponde ad un giornalista che gli chiedeva un’opinione sulle fake news e sul ruolo dell’informazione moderna. Se non leggi i giornali sei disinformato, se invece li leggi sei informato male. Quindi cosa dovremo fare? chiede il giornalista, Washington replica: “Bella domanda. Quali sono gli effetti a lungo termine di troppa informazione? Una delle conseguenze è il bisogno di arrivare per primi, non importa più dire la verità. Quindi qual è la vostra responsabilità? Dire la verità, non solo arrivare per primi, ma dire la verità. Adesso viviamo in una società dove l’importante è arrivare primi. “Chi se ne frega? Pubblica subito” Non ci interessa a chi fa male, non ci interessa chi distrugge, non ci interessa che sia vero. Dillo e basta, vendi! Se ti alleni puoi diventare bravo a fare qualsiasi cosa. Anche a dire stronzate” tuona il celebre attore e regista.
I giornalisti professionisti si chiedono perché è in crisi la stampa. Le loro ovvie risposte sono:
Troppi giornalisti (litania pressa pari pari dalle lamentele degli avvocati a difesa dello status quo contro le nuove leve);
Troppi pubblicisti;
Troppa informazione web;
Troppi italiani non leggono.
La risposta invece è: troppo degrado intellettuale degli scribacchini e troppi “mondi di informazione”. Quando si parla di informazione contemporanea non si deve intendere in toto “Il Mondo dell’Informazione”, quindi informazione secondo verità, continenza-pertinenza ed interesse pubblico, ma “I Mondi delle Informazioni”, ossia notizie partigiane date secondo interessi ideologici (spesso di sinistra sindacalizzata) od economici. Insomma: quanto si scrive non sono notizie, ma opinioni! I lettori non hanno più l’anello al naso e quindi, diplomati e laureati, sanno percepire la disinformazione, la censura e l’omertà. In questo modo si rivolgono altrove per dissetare la curiosità e l’interesse di sapere. I pochi giornalisti degni di questo titolo sono perseguitati, perchè, pur abilitati (conformati), non sono omologati.
FAKE NEWS, GIORNALI E MORALISMI SENZA PIÙ NOTIZIE, scrive Alessandro Calvi il 22 dicembre 2017 su "Stati Generali". Certo, il problema sono le fake news; eppure, si dovrebbe dire anche dell’informazione di carta, di certe sue degenerazioni; o forse oramai è tardi, forse l’informazione è già morta e quello pubblicato dalla Stampa mercoledì 22 novembre – «La notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive» – ne è il perfetto necrologio. Quella frase l’ha scritta Mattia Feltri dopo aver chiesto scusa ai lettori per aver costruito un pezzo su una notizia poi rivelatasi falsa; e però quella chiusa – «La notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive» – sembra dirci che i giornali oramai ritengono di poter fare a meno di fatti e notizie, accontentandosi delle opinioni, anche di quelle costruite su notizie false; il necrologio del giornalismo, appunto. La storia è piuttosto semplice. Feltri aveva dedicato una puntata della sua rubrica «Buongiorno» alla notizia secondo cui una bimba di 9 anni sarebbe andata in sposa a un uomo di 45 anni e poi da questo sarebbe stata violentata; tutto si sarebbe svolto nella comunità musulmana di Padova. Ebbene, dopo aver spiegato che di questo genere di storie si conosce poco o nulla poiché «avvengono dentro comunità chiuse, regolate dalla connivenza, persuase di essere nel giusto per volere divino», Feltri ricordava la «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta, un po’ genericamente recriminatoria» contro «i Weinstein e i Brizzi di tutto il mondo» e concludeva: «Tanta agitazione per ragazze indotte o costrette a concedersi in cambio di una carriera nel cinema è comprensibile e condivisibile, ma tanto silenzio per donne e bambine sequestrate a vita, in cambio di niente, è spaventoso». Ecco: peccato che alla fine sia uscito fuori che la storia della sposa bambina era falsa. A Feltri non è restato che ammettere l’errore e chiedere scusa, non rinunciando però ad affermare che, sebbene la notizia fosse falsa, «la riflessione sopravvive». E invece no: ché, anzi, a sopravvivere è semmai tutto quell’apparato fatto di notazioni e coloriture – «tanta agitazione» o «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta» – il quale, al venir meno dei fatti, si rivela per quello che è: una semplice impalcatura ideologica, forse persino un po’ infastidita da quella «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta». Tuttavia, il problema non è certo Feltri al quale piuttosto si dovrebbe riconoscere d’essere un gran signore avendo fatto ciò che pochi fanno: ammettere l’errore e chiedere scusa. D’altra parte, capita a tutti di sbagliare, soprattutto se ogni giorno – ogni giorno! – si è costretti a trarre una morale dalle notizie, con metodo oramai quasi industriale; è capitato anche al più inossidabile, al più inarrestabile, tra i dispensatori di morali e opinioni, Massimo Gramellini; la ricostruzione che fornì Alessandro Gilioli sull’Espresso di uno di questi errori – e di mezzo c’è sempre una fake news presa per buona – vale la lettura. Ma, appunto, il problema non è l’errore in sé, poiché l’errore può capitare. Il problema, sta invece nell’essere oramai diventata accettabile – tanto che non s’è visto alzarsi neppure un sopracciglio – un’affermazione come quella secondo cui «la notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive». Il problema riguarda una idea di giornalismo che sembra prescindere dai fatti, per cui le opinioni oramai precedono la cronaca la quale spesso trova spazio soltanto se è in grado di confermare le opinioni, altrimenti se ne fa a meno, poiché comunque «la riflessione sopravvive». Il problema sta insomma nel fatto che l’informazione è stata da tempo ridotta a mero dispensario di opinioni, anche senza più fatti a sostegno. Di recente, sugli Stati Generali, è stato pubblicato un intervento – «Se noi giornalisti siamo sempre meno credibili, ci sarà un perché» – di Fabio Martini, anch’egli giornalista del quotidiano La Stampa, col quale non si può che concordare. E, peraltro, da queste parti si è ragionato spesso sulla crisi del giornalismo, e in particolare sulle conseguenze della marginalizzazione della cronaca. Lo si era fatto ad esempio prendendo spunto da fatti drammatici, come le stragi delle quali i quotidiani quasi non danno più notizia, e si era fatto lo stesso anche a partire da vicende più vicine, come il mancato racconto dell’agonia del lago di Bracciano. Di recente lo si è fatto a proposito di come l’informazione ha trattato le vicende di Ostia e del Virgilio. Comunque sia, il tema è sempre lo stesso: dai primi anni Novanta la cronaca inizia a essere massicciamente sostituita da altro, in particolare dai retroscena; e questo cambia tutto: cambia l’informazione e cambia anche il rapporto tra giornali e potere. «Sulle pagine dei giornali – si perdonerà l’autocitazione da quell’articolo che prendeva a pretesto la vicenda di Ostia per parlare di giornalismo – si affacciano sempre più massicciamente spifferi di Palazzo, brogliacci, verbali. Sembra che il lettore, attraverso la lettura di un verbale riportato pedissequamente dai giornali, possa essere immerso dentro la notizia senza più filtri né mediazioni. Sembra una rivoluzione. È invece l’esatto opposto. Per farsene una idea, basterebbe chiedersi chi dirige il traffico, chi sceglie quali verbali far uscire e quali spifferi lasciar trapelare. Ecco: per lo più, sono le fonti a stabilirlo, se non altro perché sono le fonti che conoscono a fondo il contesto. Insomma, sostituendo lo spazio della cronaca con il retroscena e rarefacendo sempre più il tradizionale lavoro di inchiesta giornalistica, i giornali si sono disarmati e consegnati alle fonti, quindi al potere». Il passaggio dalla cronaca al retroscena, e l’affermarsi progressivo delle opinioni sui fatti, finisce per trasformare anche la scrittura dei giornali. Il linguaggio della cronaca diventa sempre più simile a quello degli editoriali, intessuto di pedagogismi e di toni moralisticheggianti che non dovrebbero trovare spazio nel resoconto di un fatto. Anche questo contribuisce ad allentare il rapporto con la realtà, finendo per trasformare la cronaca – quando ancora trova spazio in pagina – in un racconto di maniera che non dice più molto del mondo. E non è ancora tutto. In questi giorni sono usciti in libreria due libri – non uno, due! – che Michele Serra ha dedicato alla rubrica che da anni cura per Repubblica, «L’amaca». In quello dei due che costituisce l’esegesi dell’altro, Serra scrive che gli anni nei quali iniziò a scrivere corsivi – «gli anni della post-ideologia», afferma – non erano più quelli di Fortebraccio e della sua ferrea faziosità. In realtà, rispetto all’epoca di Fortebraccio stava cambiando soprattutto il contenitore nel quale il corsivo veniva collocato: stavano cambiando i giornali e stava cambiando persino il giornalismo. Prima, informazione era per lo più il resoconto di un fatto e quindi aveva un senso l’esistenza di editoriali e corsivi; poi, con la marginalizzazione della cronaca e l’editorializzazione dell’intero giornale, i corsivi finiscono annegati in un mare di opinioni senza più cronaca, poiché, come s’è appena visto, la cronaca ha lasciato il posto al retroscena il quale ha a sua volta contribuito all’avvicinamento della informazione al potere attraverso il disarmo nei confronti delle fonti. In questo contesto, anche la funzione dei corsivi finisce per essere stravolta rispetto all’epoca di Fortebraccio: e il rischio permanente è che si passi dal graffio contro il potere al moralismo che accarezza lo stato delle cose e che massaggia il potere o la pancia dei lettori. Imboccata questa strada – sostituita la cronaca con il retroscena, scollegata l’informazione dai fatti, ridottala a ragionamento che può essere persino basato su una notizia falsa, stravolta infine la funzione dei corsivi – i giornali si sono ridotti a raccontare sempre meno le cose del mondo e per questo hanno sempre meno lettori e sono sempre più in crisi. A sentire chi i giornali li fa, però, il problema sarebbe soprattutto quello delle fake news o della rete che ruba lettori. E quindi si finisce per ritenere che la soluzione per recuperare lettori e credibilità sia quella di differenziarsi dalla rete, lasciando alla stessa rete il notiziario e concentrandosi ancor di più sulle opinioni. Lo ha spiegato piuttosto chiaramente il direttore di Repubblica Mario Calabresi presentando la nuova veste del giornale, scrivendo di aver addirittura «raddoppiato lo spazio per le analisi e i commenti». Bene. Ma davvero abbiamo bisogno di tutte queste opinioni? Possibile che si abbia tutta questa sfiducia nella capacità dei lettori – sempre che ai lettori si raccontino anche i fatti – di formarsi da sé una opinione? Non sarà, infine, che a forza d’andar dietro alle opinioni si stia rischiando di rendere ancor più flebile il rapporto tra giornali e fatti, oltre a quello oramai quasi evanescente tra giornali e lettori? Lo dirà il tempo. Tuttavia, proprio nel giorno in cui Calabresi annunciava il raddoppio delle analisi e dei commenti, la nuova Repubblica esordiva in edicola con una grande intervista al premier spagnolo Rajoy firmata dallo stesso Calabresi e posta in apertura di edizione. Quello stesso giorno, gli altri giornali raccontavano come Amsterdam avesse sfilato a Milano l’Agenzia europea del farmaco anche per il mancato accordo tra governo italiano e governo spagnolo. Ebbene, nella intervista uscita su Repubblica al capo di quel governo non c’era neppure una domanda su quel fatto. Sarà stata un scelta di opportunità, sarà stato perché l’intervista era stata chiusa prima, comunque si è rimasti con la sensazione che mancasse qualcosa. Quella scelta è stata legittima, certo; difficile però poi lamentarsi se i lettori quel qualcosa non lo cerchino più nei giornali.
Una Costituzione troppo elogiata. Commenti positivi si arrestano sistematicamente alla prima parte del testo, mentre la seconda è ampiamente discutibile e discussa, scrive Ernesto Galli della Loggia il 12 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". Non si può proprio dire che abbia destato un grande interesse il settantesimo anniversario appena trascorso dell’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica. Alla fine dell’anno passato, l’evento è stato naturalmente e doverosamente commemorato da tutte le autorità del caso ma nella più completa distrazione della gente immersa nelle festività natalizie. E altrettanto doverosamente esso ha innescato l’ormai consueto ciclo di celebrazioni ufficiali. Che stavolta ha preso la forma di un «viaggio della Costituzione» – organizzato dalla Presidenza del Consiglio - attraverso dodici città italiane ognuna destinata a essere sede di una lezione su un tema centrale della Carta (tra i quali temi fanno bella mostra di sé Democrazia e Decentramento, Stato e Chiesa e Diritto d’asilo, Solidarietà e Lavoro, mentre manca, assai significativamente, il tema della Libertà). Come di prammatica è stata organizzata anche una mostra itinerante, ovviamente multimediale, nella quale ciascuno dei dodici articoli principali è commentato dalla voce di Roberto Benigni, confermato anche in questa occasione nel suo ruolo ormai ufficiale di aedo della Repubblica. Paradossalmente, tuttavia, proprio l’assenza d’interesse da parte del pubblico unita alla piattezza celebrativa condita dei soliti discorsi esaltanti il «testo vivo» della Carta, la sua «sintesi mirabile» e così via magnificando, sono serviti a sottolineare per contrasto qualcosa che è assolutamente peculiare della nostra scena pubblica. Vale a dire la centralità che in essa ha la Costituzione. Una centralità beninteso tutta verbale, fatta per l’appunto di un continuo discorrere sulla Costituzione in ogni circostanza plausibile e implausibile, di una sua incessante evocazione ed esaltazione, di una profusione di elogi per ogni suo aspetto: per la sua saggezza, per la sua lungimiranza, completezza, incisività, bellezza stilistica, e chi più ne ha più ne metta. Credo che in tutta Europa non esista una Carta costituzionale fatta oggetto di un altrettanto inarrestabile fiume di parole laudative, così come credo che non esista un’altra classe politica (ma ci si aggiungono volentieri anche preti e vescovi) che se ne riempia tanto la bocca come quella italiana. A cominciare da coloro che rappresentano le istituzioni, il cui discorso, appunto, è, per la massima parte e in qualsivoglia circostanza più o meno «nobile», una trama di richiami di volta in volta ammonitori o storico-encomiastici alla Costituzione. È una caratteristica così tipicamente italiana da richiedere una spiegazione. La quale credo stia nel fatto che l’ufficialità italiana, non riuscendo a immaginarsi depositaria di un qualunque destino collettivo né investita di una qualunque prospettiva nazionale, non considerandosi attrice credibile e tanto meno portavoce di un qualunque futuro significativo del Paese, sa di non poter fare altro che richiamarsi al passato. Quando in una qualunque circostanza celebrativa la suddetta ufficialità è chiamata a dire di sé e di ciò che rappresenta in modo «alto», essa sa di non essere in grado di spingere lo sguardo avanti, di non avere la statura per dar voce a un progetto o a un destino, e quindi è costretta inevitabilmente a volgere lo sguardo all’indietro, solo all’indietro: cioè per l’appunto alla Costituzione. Naturalmente uno sguardo essenzialmente contemplativo: infatti, lungi dall’essere una retorica in vista dell’azione, la retorica ufficiale della Repubblica è vocazionalmente una retorica della memoria. La dimensione dei foscoliani «Sepolcri», insomma, è ancora e sempre la nostra: anche se oggi priva degli «auspici» che a suo tempo secondo il poeta da essi avremmo dovuto trarre. C’è ancora una considerazione da fare circa il discorso sulla Costituzione tipico della ufficialità italiana. Ed è che esso, nella sua abituale, pomposa, glorificazione del testo, tende sistematicamente a nascondere due verità. La prima è che forse quel testo medesimo così compiuto e perfetto non è, visto che fino a oggi sono almeno 16 (per un totale di oltre venti articoli) le modificazioni che è stato ritenuto utile o necessario apportarvi: e quasi sempre su aspetti per nulla secondari. La seconda verità nascosta dalla magniloquenza celebrativa quando nei suoi elogi si arresta, come fa sistematicamente, alla prima parte della Carta, riguarda la natura viceversa ampiamente discutibile e discussa della seconda parte, quella che tratta dei modi in cui il Paese è quotidianamente e concretamente governato e amministrato. Non a caso il modo come in Italia funzionano l’esecutivo, la giustizia, le Regioni o la burocrazia, non è mai fatto oggetto di attenzione e tanto meno di elogi dal discorso sulla Costituzione. Accortamente i ditirambi sono riservati solo ai massimi principi: alla solidarietà, al ripudio della guerra o al diritto allo studio e via dicendo. Sul resto, silenzio. Con il risultato che modificare ciò che pure a giudizio di moltissimi andrebbe modificato di questa seconda parte si rivela da sempre di una difficoltà titanica, dal momento che la cosa può facilmente essere fatta passare per un subdolo attacco ai principi suddetti. Ma se la Costituzione è così massicciamente presente nel discorso pubblico italiano questo avviene per un’ultima ragione, pure questa patologica. E cioè perché essa viene continuamente adoperata come arma contundente nella lotta politica quotidiana, piegata a suo uso e consumo. In realtà è la Costituzione stessa che si presta a esser adoperata in tal modo. Infatti, il lungo elenco di articoli dal 29 al 47 — articoli astrattamente prescrittivi riguardanti i rapporti «etico sociali» ed economici (l’astrattezza sta nello stabilire come obbligatori per la Repubblica, nella forma perlopiù di altrettanti «diritti» dei cittadini, una lunga serie di costosissimi obiettivi di una vasta quanto assoluta genericità) — tali articoli, dicevo, si prestano molto bene a essere fatti valere a difesa polemica di qualsiasi esigenza contro qualsiasi politica di qualsiasi governo. Non a caso, un tale uso strumentalmente politico della Costituzione cominciò fin dalla sua entrata in vigore, e si può dire che da allora non ci sia stato esecutivo italiano di destra o di sinistra che nelle più svariate occasioni non sia stato accusato in un modo o nell’altro di violare la Costituzione. Inutile dire quanto anche una simile pratica abbia contribuito e contribuisca a impedire che intorno alla Costituzione stessa si formi quell’aura di «sacralità» che invano i suoi celebratori vorrebbero.
Fake news, Gabanelli: “Polizia postale? Eccessivo. Politici e giornalisti hanno sempre raccontato balle”, scrive Gisella Ruccia il 23 gennaio 2018 su "Il Fatto Quotidiano". “Fake news? Adesso sono molto di moda. Perdiamo più tempo a parlare di fake news che non a scovare le notizie vere”. Sono le parole della giornalista Milena Gabanelli, ospite di Otto e Mezzo (La7). La storica ex conduttrice di Report spiega: “Non sono molto appassionata di questo argomento. L’allarme sulle fake news è direttamente proporzionale a quanto ne parliamo e a quanto lo gonfiamo. Le balle le hanno sempre raccontate la classe politica e i giornalisti che seguono la politica, per compiacerla o semplicemente per pigrizia”. E aggiunge: “Trovo veramente eccessivo l’intervento della polizia postale. Se questo è finalizzato a essere un deterrente, ha una qualche utilità. Ma non si può pensare che le 2mila persone della polizia postale, oltre a occuparsi di cyber-terrorismo, di e-banking, di pedopornografia, di pedofilia, di giochi e di scommesse online, di tutto il crimine che passa attraverso il web, debbano mettersi lì a rispondere ai cittadini”.
Giornalisti contro avvocati: «Vietato criticarci», scrive Giulia Merlo il 23 gennaio 2018 su "Il Dubbio". Fnsi, il sindacato dei giornalisti, attacca l’Osservatorio sull’informazione giudiziaria della Camera penale di Modena che replica: «Travisamento della notizia che offende la classe forense». Accetta di definirlo un «fraintendimento». Da penalista, però, specifica che il fraintendimento da parte della Federazione Nazionale della Stampa Italiana «si colloca tra la colpa grave e il dolo eventuale». La Camera Penale di Modena, per voce del suo presidente, Guido Sola, è al centro di una polemica al vetriolo proprio con la Fnsi e l’Ordine dei Giornalisti, ragione del contendere: la creazione dell’Osservatorio sull’informazione giudiziaria (iniziativa già in atto da due anni a livello nazionale, promossa dall’Unione Camere Penali italiane con la pubblicazione del Libro Bianco sull’informazione giudiziaria). Il “fraintendimento” è nato dopo l’annuncio della Camera Penale di Modena della costituzione dell’Osservatorio: «La cronaca giudiziaria ed i temi della giustizia hanno assunto negli ultimi tempi un interesse sempre maggiore da parte dell’opinione pubblica, tanto che da alcuni anni gli addetti ai lavori ed anche esperti di psicologia e sociologia si stanno interrogando sugli effetti distorsivi dei cosiddetti “processi mediatici”», si legge nel comunicato. E ancora, «l’informazione spesso diventa strumento dell’accusa per ottenere consensi e così inevitabilmente condizionare l’opinione pubblica e di conseguenza il giudicante: pensiamo ad esempio a quanto accaduto nel processo “Aemilia” allorché, pochi giorni dopo gli arresti, prima ancora delle decisioni del tribunale del riesame, è stato pubblicato e diffuso un libro che riportava fedelmente, quasi integralmente, il contenuto della misura cautelare con atti che dovevano rimanere segretati». Proprio questo passaggio ha scatenato la reazione del sindacato nazionale del giornalisti e dell’Ordine dei giornalisti nazionale e locale, che definiscono l’iniziativa dei penalisti «inquietante» e attaccano: «La Camera Penale di Modena fa esplicitamente riferimento al processo “Aemilia”, in corso da oltre un anno a Reggio Emilia, che per la prima volta ha alzato il velo sulle infiltrazioni mafiose in Emilia Romagna, per decenni sottovalutate. E lo fa proprio in concomitanza con un’udienza dello stesso processo in cui un pentito ha rivelato che, tra i progetti degli ‘ ndranghetisti in Emilia, c’era anche quello di uccidere un giornalista scomodo. Notizia che pare non aver toccato in maniera altrettanto significati- va la sensibilità degli avvocati. Del resto, non è la prima volta che sindacato e Ordine dei giornalisti sono costretti a occuparsi di intimidazioni, esplicite o velate, fatte a chi si occupa di informare i cittadini sul processo “Aemilia”. Ricordiamo le minacce in aula ai cronisti reggiani, le richieste dei legali degli imputati di celebrare il processo a porte chiuse, le proteste contro i giornalisti già manifestate da alcuni difensori alle Camere Penali di competenza». Insomma, quella degli avvocati è un’iniziativa «dal sapore intimidatorio» ed è «grave e inquietante che i media debbano essere messi sotto osservazione da un organismo composto solo da avvocati». Allusioni che indignano il presidente delle Camere Penali modenesi. «Siamo davanti ad un esempio lampante di travisamento della notizia», ha commentato il presidente Sola, «che offende gravemente chi ha deciso di costituire l’Osservatorio e tutta la classe forense». Che quello tra avvocati e giornalisti sia stato o meno di un equivoco, il fatto più grave è che «alla nostra iniziativa è stata associata una difesa ideologica da noi mai espressa alla criminalità organizzata, identificando il difensore con l’imputato». Come se gli avvocati “fossero” i clienti che difendono (nel caso Aemilia, indagati per ‘ ndrangheta). Al contrario, ha spiegato Sola, l’obiettivo dell’Osservatorio è di «aprire un percorso culturale a più livelli sul tema del bilanciamento del diritto di cronaca con il diritto alla difesa. In particolare, il monitoraggio sull’informazione giudiziaria e sulla politica giudiziaria verranno svolti con la finalità di organizzare un convegno e discuterne con tutte le parti in causa». Quanto al citato processo “Aemilia”, Sola ribadisce che «è stato citato come esempio di patologia, ma è scontato che l’Osservatorio non nasce certo per monitorare singoli processi, per di più ancora in corso. Aggiungo che, dal mio punto di vista, le fughe di notizie sono una patologia che non è certo da imputare ai giornalisti ma a chi permette che informazioni coperte da segreto trapelino illecitamente». La polemica non è ancora chiusa e se Sola ribadisce che «sarebbe importante avere un confronto con il mondo del giornalismo, cosa che del resto già è avvenuta proficuamente in molte sedi», la Camera Penale sottolinea come l’accaduto «rafforzi la convinzione che la decisione di costituire l’Osservatorio sia quanto mai più opportuna».
Vi spiego il manuale del perfetto burocrate. Come non prendere una decisione, come rimandarla o come non fare entrare in vigore una legge? Il manuale del perfetto burocrate spiegato dal professore di diritto costituzionale a Roma 3 Alfonso Celotto durante una delle ultime puntate di Virus.
Un viaggio irriverente (e anche amaro) nei labirinti della burocrazia italiana.
“NON CI CREDO, MA È VERO”: LA VITA SECONDO LA BUROCRAZIA, scrive Alfonso Celotto il 2 maggio 2016 su "Stati Generali". La burocrazia diventa parte della nostra vita dal momento in cui nasciamo e per ogni singolo passo che il bambino e poi l’uomo compie nel Paese in cui vive. Il dottor Ciro Amendola percorre un viaggio nei meandri di quel mostro invisibile che è la burocrazia in Italia, raccontando nel suo nuovo libro Non ci credo, ma è vero. Storie di ordinaria burocrazia episodi tanto veri quanto folli, e a volte un po’ ridicoli, che ognuno di noi si trova a vivere quotidianamente nell’iter dell’esistenza. La burocrazia è una grande macchina, una grande scatola, ci accompagna dalla nascita alla morte, in ogni attimo della nostra vita, con una serie di certificazioni, copie conformi, firme autenticate, sempre ai sensi e per gli effetti della normativa vigente. Bastano pochi secondi dopo il parto per entrare nella giungla della burocrazia. La nascita comporta subito almeno 3 adempimenti fondamentali, a carico dei genitori, che dovranno armarsi di santa pazienza e di un adeguato numero di ore di permesso dal lavoro. Occorre ottenere:
· Il certificato di nascita
· Il codice fiscale
· La tessera sanitaria (a cui si collegano il libretto sanitario e la scelta del pediatra).
Per semplificare la vita ai neo genitori, ovviamente vanno richiesti in tre uffici diversi. Il certificato di nascita viene rilasciato dall’Ufficio di Stato Civile del Comune in cui è nato il bambino entro 10 giorni dalla nascita e si basa sulla “attestazione di nascita” rilasciata dalla ostetrica presente al parto. È il momento fondamentale per l’attribuzione del nome. Ai sensi della legislazione vigente, secondo le ultime modifiche del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, ogni neonato può avere fino a tre nomi, tutti riportati per esteso e senza virgola (quando firmerà dei documenti ufficiali dovrà quindi sempre mettere tutti i nomi). È vietato per legge dare al bambino lo stesso nome del padre, dei fratelli e delle sorelle o nomi volgari, ridicoli o impronunciabili. A questo punto, si è nati, si ha un nome, ma non si è ancora veramente esistenti per il diritto. Manca il codice fiscale. Che ovviamente non è di competenza del Comune, ma dell’Agenzia delle Entrate. Altra amministrazione, altre regole, altri moduli. La Agenzia delle Entrate rilascia un certificato provvisorio valido per 30 giorni, in attesa del tesserino plastificato che arriva a casa. A quel punto, il genitore si recherà, con il codice fiscale del bambino e un’autocertificazione dello stato di famiglia, presso gli uffici dell’ASL di zona per la scelta del pediatra di base. Gli verrà rilasciato il tesserino sanitario da esibire a ogni prestazione medica richiesta per il bambino, come per esempio le vaccinazioni. E potrà finalmente scegliere il pediatra. La via crucis burocratica è iniziata. Ora il cittadino esiste in vita, con nome, codice fiscale, tessera sanitaria e pediatra! La via crucis della vita burocratica è solo iniziata. Per accompagnarci – fra commi, formulari, procure e deleghe – fino alla pensione, quando ci verrà sottoposto il più paradossale dei moduli: la autocertificazione di esistenza in vita. Nulla di male che l’INPS voglia accertarsi con un modulo che la pensione sta per essere pagata a un tizio ancora in vita. Peccato che la autocertificazione venga richiesta a pena delle sanzioni correlate alle dichiarazioni mendaci! Ma se ho attestato il falso, in quanto già morto, come faccio ad essere sanzionato per aver dichiarato il falso?
Non ci credo, ma è vero. Storie di ordinaria burocrazia, di Ciro Amendola edito da Historica, 2016. Non ci credo, ma è vero. Storie di ordinaria burocrazia: Quali sono i "Dieci comandamenti" a cui si attiene quotidianamente il pubblico impiegato? E plausibile che nel 2015 il Parlamento italiano abbia approvato una legge per istituire la "giornata del dono"? Se viene trovato un geco in un ufficio pubblico intervengono gli ispettori sanitari per sopprimerlo? E possibile che la Guardia forestale abbia fatto causa alla Guardia di finanza sul colore delle divise? Perché ogni anno la Legge finanziaria (ora Legge di stabilità) ha un solo articolo con centinaia di commi? Cosa accadde veramente quando la capitale fu trasferita da Firenze a Roma?
Carte nascoste e riunioni fiume. La resistenza passiva dei burocrati. Esce un manuale di sopravvivenza: “Regola numero uno: chi non fa non sbaglia”. “Non è vero, ma ci credo. Storie di ordinaria burocrazia” (Historica) è il libro che Alfonso Celotto, docente universitario di diritto costituzionale e a lungo negli staff di diversi ministeri, ha scritto firmandolo con il suo alter ego letterario, il dott. Ciro Amendola direttore della Gazzetta Ufficiale, protagonista dei suoi primi precedenti romanzi, scrive il 27/04/2016 Giuseppe Salvaggiulo su "La Stampa". Nella stanza della dott.ssa Martone, capo di gabinetto del ministero dei Beni Culturali, «in ripetute occasioni è stata riferita la presenza di una Tarentola mauritanica». Il rag. Esposito, accompagnato da due tecnici dell’Ufficio sorveglianza sanitaria, è assertivo: «Occorre un prelievo delle feci dell’animale, per effettuare una compiuta analisi di laboratorio, sulla cui base valutare se e come procedere». Ma per la dott.ssa «non se ne parla. Quel geco mi porta fortuna. Andate via». Impossibile, obietta il rag., a meno che «lei non mi firmi il modello H32-bis, assumendosi la responsabilità per l’impropria presenza in ufficio dell’animale vivo». Basta un’autocertificazione per trasformare la temibile Tarentola mauritanica in un innocuo geco. Comincia così una delle «Storie di ordinaria burocrazia» del libro «Non ci credo, ma è vero» dal dott. Ciro Amendola, direttore della Gazzetta Ufficiale, sopraffino cultore dell’amministrazione e pseudonimo di Alfonso Celotto, costituzionalista e a lungo grand commis nei ministeri. Ogni racconto è uno spaccato della vita in un ufficio pubblico: leggi e decreti, provvedimenti e circolari, furbizie e vanità, sotterfugi e arabeschi ma anche insospettabile umanità. Nel primo capitolo l’autore ha scientificamente enucleato «le cattive abitudini del pubblico impiegato». Ne viene fuori un manuale di sopravvivenza «in una vita improntata non al senso di servizio per lo Stato, ma alla proficua occupazione delle ore da trascorrere in ufficio», il cui obiettivo è «eludere vagoni di pratiche in modo da offrire il proprio contributo operoso, ma senza prendersi alcuna responsabilità».
COME COMPORTARSI. Prima regola: tenere le carte a posto e far prevalere la forma sulla sostanza, nel senso di «chiedere sempre un parere in più e non uno in meno, seguire pedissequamente le procedure» e infischiarsene del vero interesse pubblico. Si dilatano i tempi? Meglio, l’importante è che l’istruttoria sia accuratissima e irreprensibile. «Di troppo zelo non è mai morto nessuno. Di superficialità molti». Seconda: attenersi rigorosamente al mansionario, «per fare il meno possibile». Il mansionario è «un rebus scritto in burocratese stretto», enigmatico come il responso della Sibilla cumana. Terza: copiare, perché chi copia non sbaglia mai e non si assume responsabilità (c’è sempre un precedente che aiuta e si può allegare). Quarta: nel dubbio, non fare perché «chi non fa non sbaglia» e non si assume responsabilità. Quinta: se proprio non si può evitare di affrontare una questione, convocare una riunione: consente di guadagnare tempo (convocazioni, conferme, rinvii). Indispensabile che i convocati siano almeno dieci, altrimenti la riunione potrebbe rivelarsi decisiva. Sesta: mettere da parte, sul ripiano più nascosto della stanza, le pratiche più difficili. Sono quelle legate a emergenze di attualità, sotto la luce dell’opinione pubblica. Apparentemente vanno risolte con priorità, in realtà «si fanno da sole». Troppe variabili, troppe complicazioni: meglio lasciarle lì. Dopo un paio di settimane l’attenzione scemerà e nessun superiore chiederà conto della mancata soluzione. Settima: non archiviare ordinatamente le carte più importanti, in modo che non siano rintracciabili da chiunque. Il funzionario perspicace aumenterà così il suo potere, rendendosi indispensabile. Ottava: «non regalare mai un minuto», anzi capitalizzare gli straordinari e i permessi. Il conto è semplice: «ai 365 giorni del calendario vanno sottratti 52 sabati, 52 domeniche, 30 giorni di ferie e un’ulteriore quindicina tra malattie, cure specialistiche, riposi compensativi, permessi sindacali, donazioni sangue, scioperi, permessi-studio, permessi familiari». Nona: non derogare ai ritmi della giornata-tipo: 8-11-13-15-16-16,12. Alle 8 lettura giornali e passaggio sui social network, caffè alle 11, pranzo alle 13, caffè alle 15, alle 16 chiusura dei fascicoli anche se incompiuti, in modo da presentarsi puntuali al tornello alle 16 e 12 minuti. «Ogni volta che il dott. Amendola rileggeva queste regole, si imbestialiva. Non si capacitava di atteggiamenti così miseri e gretti».
POST SCRIPTUM. Per un attimo la dott.ssa Martone ebbe voglia di mandare tutto e tutti a quel paese. Non valeva la pena spendere 15 ore al giorno contro quel muro di gomma. Poi... poi prese nel cassetto il modello H32-bis, che le era stato debitamente consegnato, e iniziò a compilarlo. In duplice copia e con firma debitamente autenticata».
“Non ci credo, ma è vero”, il libro di Celotto che racconta i paradossi della burocrazia, scrive Biancamaria Stanco il 3 Maggio 2016 su Cultora. Non ci credo, ma è vero – Storie di ordinaria burocrazia è il nuovo romanzo del giurista Alfonso Celotto firmato dal suo alter ego, il dott. Ciro Amendola. Dopo due romanzi che narrano le gesta e le vicissitudini del dott. Amendola negli uffici della Pubblica Amministrazione, ora è proprio il celebre direttore “a scendere in campo. È questa la grande novità” ha dichiarato Celotto. Il libro è infatti l’esordio narrativo di Ciro Amendola. Ma chi è davvero? È il direttore della Gazzetta Ufficiale Italiana, è un funzionario meticoloso, scrupoloso, maniaco dell’ordine e della precisione ossessionato dalla timbratura del cartellino. Un uomo abitudinario, perfezionista e amante del suo lavoro. E ha due anime: una svizzera, che si esplicita nella rigorosa puntualità e precisione professionale del dott. Amendola, e una più verace, un cuore partenopeo quello di Ciro amante della cucina, del buon vino e tifoso sfegatato del Napoli. Dietro il personaggio di Amendola vibra la personalità e l’esperienza di Alfonso Celotto, costituzionalista, avvocato e professore di Diritto Costituzionale a Roma Tre, ex Capo di Gabinetto e Capo dell’Ufficio legislativo dei ministri Bonino, Calderoli, Tremonti, Barca, Trigilia e Guidi. Un esperto conoscitore quindi delle leggi e della burocrazia che, indubbiamente, ha contribuito alla costruzione della figura del direttore. “Come disse Umberto Eco ‘in ogni romanzo c’è il 50% di un autore’ e in Amendola c’è un’amplificazione del personaggio che rispecchia quanto visto nella mia carriera” ha precisato Celotto. “Si scrive sempre su ciò che si conosce” ha aggiunto. “Come recita l’articolo 54 della Costituzione, Amendola è al servizio della Nazione” afferma il giurista. È un burocrate scrupoloso e molto attento che combatte con le continue violazioni della legge, la cattiva gestione della cosa pubblica e la lentezza della Pubblica Amministrazione. Nel primo capitolo decide di enucleare un decalogo delle «cattive abitudini del pubblico impiegato», un manuale di sopravvivenza improntato «non al senso di servizio per lo Stato, ma alla proficua occupazione delle ore da trascorrere in ufficio». 1. Tieni le carte a posto. 2. Applica con rigore il mansionario. 3. Chi copia non sbaglia. 4. Organizza riunioni con almeno 10 partecipanti. 5. Le pratiche più complesse non vanno lavorate. 6. Le carte importanti non si portano ordinatamente in archivio. 7. Non regalare mai un minuto. 8. Otto, undici, tredici, quindici. 9. Vai in ferie a giugno o a settembre. 10. Per mostrarti aggiornato usa spesso parole inglesi. Sette sono i racconti raccolti nel libro. “Sono tutte storie vere raccontate in maniera romanzata. Tutte cose verosimili” ha spiegato Celotto. Il manoscritto non va considerato un libro-denuncia del malfunzionamento del sistema burocratico italiano, per quanto rimane comunque uno specchio fedele della pessima gestione della cosa pubblica. “Non è vero, ma ci credo” – come ha affermato l’autore – è la raccolta di “racconti-verità scritti per far conoscere al lettore il settore della Pubblica Amministrazione. Una lettura leggera e semplificata. Un modo divertente per raccontare la Pubblica Amministrazione”. Celotto specifica che “il libro non vuole essere una denuncia, basta essere una macchina del fango. È un modo leggero per parlare di temi veri”. La scrittura è un’occasione per far conoscere al lettore la vita difficile di un Direttore fatta di decreti, leggi, circolari, provvedimenti, riti ministeriali e burocratici. Il direttore Amendola è convinto della necessità di riformare il sistema dell’Amministrazione Pubblica e si impegna in prima persona. È altresì convinto della difficoltà, ma da nuovo Ercole intraprende la sfida e affronta l’ennesima fatica. “Non basta una legge per cambiare il sistema, la Pubblica Amministrazione è una macchina ampia e complessa” – asserisce Celotto – “bisogna cambiare la mentalità. Si tratta di attuare un’operazione culturale”. Le parole d’ordine sono – a detta del giurista – “trasparenza” e “semplificazione”. “Serve il coraggio per rendere la macchina più veloce e funzionale” conclude Celotto. Il dott. Amendola non poteva non divenire punto di riferimento e modello di integrità morale per quanti lavorano onestamente e spingono per cambiare le cose. Forse dopo Elena Ferrante assisteremo a un nuovo caso editoriale. La differenza è che “Ciro Amendola esiste davvero, ma non potrà uscire allo scoperto. Non potrà concedersi perché deve lavorare”.
La burocrazia tra Kafka e Totò: a ruba "Non ci credo, ma è vero", scrive Affari italiani, Lunedì 4 luglio 2016. "Non ci credo, ma è vero. Storie di ordinaria burocrazia" il libricino introvabile di Alfonso Celotto è diventato un caso letterario. E' un libricino introvabile di poco più di cento pagine sui banconi di pochissime librerie, essendo pubblicato da un editore pressoché sconosciuto e privo di una rete commerciale, Historica. Ma la sua notorietà si diffonde col passaparola e il libricino va a ruba. S'intitola Non ci credo, ma è vero, storie di ordinaria burocrazia. E l'autore Ciro Amendola, non esiste. O meglio è lo pseudonimo di un tipo umano, il dott. Ciro Amendola, uno dei massimi esperti di diritto e burocrazia. Napoletano di nascita(1944), vive a Roma per necessità. Da anni fedele e scrupoloso servitore dello Stato, dal 2001 dirige la Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana. Vive secondo immutabili ritmi svizzero-napoletani per conciliare l'impiego ministeriale con la missione esistenziale di completare la grande banca dati delle leggi d'Italia. Appassionato di cucina, vini, smorfia, scaramanzia, gioco del lotto, segue con attenzione le vicende calcistiche del Napoli. Per il suo esordio da scrittore ha scelto di descrivere i riti della vita ministeriale e della burocrazia che circondano la nostra vita di cittadini, secondo abitudini e prassi ottocentesche. L'idea è dell'autore vero, Alfonso Celotto, professore universitario di Diritto, già gran commis dello Stato (è stato capo di gabinetto di diversi ministeri, tra cui quello dello della Semplificazione, ai tempi del leghista Calderoli e del suo misterioso falò delle leggi inutili), geniale osservatore della vita dei burocrati e penna acuta ed ironica (ha al suo attivo anche per Mondadori Il dott. Ciro Amendola, direttore della Gazzetta Ufficiale e per Il mio libro Il Pomodoro va rispettato), a metà tra Kafka, Totò ed Edoardo De Filippo. L'opera è un piccolo gioiellino, veloce e dilettevole a leggersi. Racconta, ad esempio, quali sono i "Dieci comandamenti" a cui si attiene quotidianamente il pubblico impiegato. Si domanda se sia plausibile che nel 2015 il Parlamento italiano abbia approvato una legge per istituire le "giornate del dono". Rivela il fatto che la Guardia Forestale ha fatto causa alla Guardia di Finanza sul colore delle divise. Spiega perché ogni anno la legge Finanziaria (ora Legge di stabilità) ha un solo articolo con centinaia di commi. E molto altro ancora. Leggi, decreti, provvedimenti e circolari. Vini, sfogliate, ministeri e ministeriali. Il dott. Ciro Amendola si confronta non solo con il mondo del diritto e della pubblica amministrazione, ma anche con cucina, scaramanzia, napoletanità. "Poiché diritto e cucina si assomigliano", spiega Celotto alias Amendola nella videointervista ad Affaritaliani.it. "Non sono scienze, sono entrambi opinabili". E noi opiniamo.
IL MISTERO DELLE SCORRIBANDE TURCHE.
Cria il traditore, scrive Antonino Beninati su Carabinieri. Dai tesori caduti vittima della furia iconoclasta del fondamentalismo a un affresco “parlante”. Quello che, dalle pareti di una chiesa salentina, racconta una storia di straordinaria attualità: la vicenda di un foreign fighter di cinquecento anni fa. È tristemente nota la figura dei foreign fighters, uomini e donne che, dopo un processo di radicalizzazione religiosa, lasciano il proprio Paese per raggiungerne un altro nel quale, opportunamente addestrati, parteciperanno ad atti di guerra o di terrorismo che non hanno nulla a che vedere con la loro storia, la loro cultura. Individui capaci di usare l’arma del terrore anche per colpire il proprio stesso Paese, come è successo di recente a Parigi. Non si tratta, però, di un fenomeno inedito. Anche il nostro Paese, nei secoli scorsi, ha avuto dei casi di foreign fighters. Una preziosa testimonianza storica ci viene fornita in proposito dall’affresco che decora la parete sopra l’ingresso laterale della chiesa di Sant’Antonio (XII secolo), a San Pancrazio Salentino, villaggio appartenuto alla Terra d’Otranto e dall’anno 1927 comune della provincia brindisina. Quasi come una moderna illustrazione a fumetti, le scene dell’anonimo dipinto narrano del tradimento di Cria, un foreign fighter di epoca rinascimentale proveniente dal vicino comune di Avetrana, in provincia di Taranto. Il traditore, cosi viene definito nell’opera, abbracciata la fede mussulmana, si arruolò nelle milizie turche. Le cronache scritte da Girolamo Marciano di Leverano (Descrizione, origini, e successi della provincia d’Otranto) raccontano che «...San Pancrazio... soffrì le ultime sue rovine nell’anno 1547 da corsari turchi, i quali accostatisi con cinque galeotte nella marina della provincia, e presa terra in un porticello detto della Calimera (Torre Colimena), presero il castello di Veterana (Avetrana), la notte del 1° gennaio, ch’era il capo dell’anno, e sbarcarono da circa cento Turchi guidati da un certo rinnegato del detto castello chiamato Chria (Cria), il quale li menava per prendere Vetrana sua patria; ove essendo arrivati, ed inteso il suono di un taburretto, con cui facevansi mattinate, dubitando che non fosse la guardia di qualche presidio militare, passò avanti e li portò a saccheggiare questa piccola terricciuola di S. Pancrazio, avendola colta d’improvviso, e portatene tutte le genti che vi erano alla marina sopra de’ vascelli, parte ne furono allora riscattati, e parte menati in Turchia e venduti per ischiavi». Inspiegabilmente, però, Cria cadde in mano ai superstiti sanpancraziesi. Il traditore venne legato nudo ad una colonna e finito con il lancio di pietre e frecce. Oltre che per la raffigurazione dei galeoni battenti bandiera turca e per quella dei corsari lanciati al trotto, l’affresco colpisce per la presenza di alcuni dettagli di eccezionale attualità: braccia e gambe penzolanti da alberi di ulivo; corpi decapitati. Mutilazioni che richiamano in modo sinistro le efferate azioni delle odierne milizie dell’Isis. Le iscrizioni presenti sull’affresco, venuto alla luce durante i lavori di restauro della chiesa di Sant’Antonio nel 1983, datano l’episodio storico al1° gennaio 1547 e mostrano quanto sentita fosse, già allora, la questione dei foreign fighters nelle piccole realtà locali. Perché essere accusato di tradimento, in un’epoca in cui esso veniva punito con la pena capitale, poteva macchiare d’infamia un’intera comunità.
IL MISTERO DELL’INVASIONE BARBARICA DEL MERIDIONE D’ITALIA.
Illustri traditori del meridione, Crispi: l’eroe garibaldino, scrive Luigi Maganuco il 25 agosto 2018 su "Il Quotidiano di Gela. Gela. Abbiamo raccontato degli uomini del risorgimento Italiano, e con nostra grande sorpresa, abbiamo scoperto ch nessuno appartiene alla categoria degli onesti ma chi più chi meno si sono macchiati di crimini spaventosi, però nella vita hanno raggiunto posti di responsabilità invidiabili. Tra questi, visto che le nostre città sono pieni di questi uomini illustri, vogliamo ricordare il siciliano Francesco Crispi. Nasce a Ribera, provincia di Agrigento, di etnia Albanese nel 1818, non brillante avvocato a Napoli, fu prima carbonaro e mazziniano, complice di Orsini nell’attentato a Napoleone III. Al momento opportuno, trasformatosi in massone, divenne l’eminenza grigia, l’arruolatore e l’organizzatore della logica Garibaldina. Crispi si avvale delle sue originali e giovanili conoscenze mafiose, quando il 10 aprile del 1860 sbarcò segretamente a Messina, assieme a Rosolino Pilo e Giovanni Corrao per preparare quel disordine popolare che, provocando la repressione Borbonica, avrebbe giustificato la spedizione dei mille, ormai pronta. L’altro aspetto della missione segreta era contattare ed accordarsi con i capi dei picciotti di Carini, Terrasini, Montelepre, S. Cipirello, Piana degli Albanesi, Partinico e Trapani. Fu così che Crispi, che lo stesso Garibaldi diceva che “…arruolava tutti, in ispecia gli avanzi di galera…”, preparò gran parte del successo della spedizione dei mille. Una volta divenuto Primo Ministro del re Umberto I, soffocherà, usando un esercito che spara ed uccide, i Fasci Siciliani, facendo centinaia di morti e feriti tra i suoi conterranei: Crispi era stato un ex rivoluzionario, ex carbonaro, ex mazziniano, ex democratico, ex siciliano ma grande uomo di Stato per noi servili adulatori della malavita organizzata (da risorgimento o rivolgimento di Aurelio Vento). Nel 1887 diviene Presidente del Consiglio Italiano, ma nel tentativo di trasformare l’Italia in potenza coloniale, incappa nella disfatta africana di Adua, che provocò migliaia di morti in Abissinia e il fallimento provvisorio dell’avventura coloniale dell’Italia in Africa. Fu accusato di bigamia perché sessantenne sposò la chiacchierata giovane siracusana Lina Barbagallo, allora sposato con Rosa Monimasson, che fu l’unica donna vestita da uomo a seguirlo tra le camicie rosse garibaldine. Così, l’armata Garibaldina dei mille al porto di partenza da Quarto presso Genova assorbiva tra le sue file di piccoli borghesi spiantati e indebitati di Bergamo, una Legione Britannica, migliaia di picciotti arruolati dall’instancabile Francesco Crispi, con il permesso ottenuto dai capizona mafiosi, conosciuti e frequentati durante la sua gioventù vissuta in Agrigento. Secondo l’autore, Aurelio Vento, che cita uno scritto ironico di Massimo D’Azeglio “…quando s’è vista un’armata sbrindellata di 60.000 uomini conquistare un regno di sei milioni con la perdita di solo otto uomini e diciotto storpiati, bisogna pensare che sotto ci sia qualcosa di non ordinario…”. Il dubbio è perfettamente legittimo perché il tradimento operato dai nostri grandi uomini è eclatante e le documentazioni venute alla luce in questi ultimi anni dimostrano chiaramente come i generali e alti comandanti borbonici, si sono venduti per trenta denari ai nostri salvatori. Questi, con l’oro rubato al banco di Napoli e al banco di Sicilia, oggi venerati e ricordati nei nostri centri abitati con strade e piazze a loro dedicate per non dimenticare, hanno corrotto parte degli ufficiali borbonici. Tratteremo questo argomento e proviamo a ricordare l’onorario pagato per tradire. Un esempio eclatante è la storia del gen. Salvatore Landi, che aveva ottenuto direttamente da Garibaldi, un pagherò di 14.000 ducati, purchè nella battaglia del 15 maggio 1860, suonasse la ritirata delle forze borboniche, per permettere ai Garibaldini di dilagare e sconfiggere l’armata borbonica. L’esito della vittoria mise in crisi il grande scrittore Cesare Abba, al seguito come reporter di guerra, che aveva inventato la famosa frase indirizzata a Nino Bixio “qui si fa l’Italia o si muore”. Ma l’anno successivo il generale si presenta al Banco di Napoli per incassare il pagherò, si accorge che era falso e valeva solo 14 ducati. Aveva tradito per 13 danari e né morì di pena. Altro grande traditore fu il gen. Ferdinando Lanza che tenne bloccati i suoi 24.000 uomini al palazzo Reale per permettere ai Garibaldini di entrare a Palermo già ingrossati dei 2.000 picciotti forniti da Francesco Crispi e arruolati nel territorio (noi gelesi abbiamo dedicato una arteria importante della nostra città per i suoi meriti) Il gen. Lanza si affrettò a firmare l’armistizio di resa alle ridicole forze garibaldine, sulla nave dell’ammiraglio inglese Mundy, fermo sulla rada con una piccola flotta militare. Il gen. Lanza così potè partecipare al furto compiuto da Garibaldi al Banco di Sicilia e incassare 600.000 ducati d’oro, per spese di guerra. La ricevuta, debitamente firmata fu consegnata a Ippolito Nievo, intendente delle finanze Garibaldine. Anche questo poeta merita una arteria importante nelle nostre città meridionali. Il 20 luglio 1860 Garibaldi arriva a Milazzo e qui il capitano Amilcare Anquissola, della corvetta “la veloce”, si consegna, senza combattere, all’ammiraglio sabaudo Persano, così la flotta militare borbonica composta da 100 vascelli 796 cannoni, si consegnò alle forze Savoiarde nel porto di Napoli. La conquista fu completata quando il criminale gen. Enrico Cialdini, il 13 gennaio 1861, rade al suolo la città di Gaeta con 160.000 cannonate. Tutti gli scrittori apologetici hanno voluto mettere in evidenza la grande armata dell’eroe dei due mondi che conquista il Regno delle Due Sicilie per la sua bravura di combattente e grande stratega militare, come l’ammiraglio Carlo Pellion di Persan ex comandante borbonico, tradisce e diventa Ammiraglio del regno Sabaudo che il 20 luglio 1866, nel corso della III guerra di indipendenza, viene sconfitto pesantemente a Lissa da pochi vascelli di legno della flotta Austriaca. Atro grande traditore il gen. Pinelli che in una nota poteva cinicamente permettersi di bandire (come asserisce lo scrittore Aurelio Vento): “sua eccellenza il Ministro della guerra si rallegra con voi del vostro slancio e delle eroiche vostre gesta. Ufficiali e soldati! Voi molto operaste ma nulla è fatto quando qualcosa rimane a fare. Ancora ladroni si annidano tra i monti, correte e snidateli e siate inesorabili come il destino. Contro tali nemici la pietà è delitto! Noi li annienteremo e purificheremo col ferro e col fuoco le regioni infestate dall’immonda bava”. Altra nota degna di rilievo, riguarda i fatti di Casalduni e Pontelandolfo, dove i soldati nordisti e sabaudi fecero stragi, saccheggi e stupri senza alcun processo e uccisero quattrocento persone per quaranta soldati nordisti. La stessa identica proporzione l’applicarono nel 1944 i soldati nazisti uccidendo trecento civili per trenta militari nazisti uccisi in via Rasella a Roma. E’ da mettere in evidenza l’onestà dei nazisti che non distrussero il quartiere di via Rasella a Roma, come fecero i piemontesi che saccheggiarono due centri di circa ottomila abitanti. Secondo i pennivendoli ufficiali, il massacro delle fosse Ardeatine non fu compiuto per vendetta dell’attentato di via Rasella ma per volontà del regime nazista. Così i partigiani che compirono l’attentato poterono continuare ad uccidere. A che serve ricordare questi epistemi storici? A chi servono? Sicuramente a nessuno legato ai colonizzatori nordisti o ai fanatici attuali al servizio della massoneria dominante. Hanno una enorme importanza per i meridionali onesti che tengono alla dignità e alla loro storia di uomini liberi e pensanti.
IL MISTERO DELLA MORTE DI MUSSOLINI.
Petacco, il revisionista che faceva capire a tutti i problemi della Storia. Giornalista e saggista, indagò persone e fatti «scomodi» senza guardare alle ideologie, scrive Paolo Giordano, Mercoledì 04/04/2018, su "Il Giornale". Se ne è andato d'improvviso, Arrigo Petacco, come d'improvviso gli venivano le idee per i suoi libri o per i suoi programmi di divulgazione storica. Chiamava l'editore, spesso la Mondadori, e proponeva argomenti che, specialmente negli anni Settanta e Ottanta, mettevano i brividi perché erano controcorrente come il (bello) Dal Gran Consiglio al Gran Sasso, una storia da rifare scritto con Sergio Zavoli nel 1973 oppure Dear Benito, caro Winston. Verità e misteri del carteggio Churchill Mussolini (Mondadori, 1985). Era, questo spezzino di Castelnuovo Magra, un giornalista tutto d'un pezzo che poi è diventato saggista e sceneggiatore, iniziando al Lavoro di Genova con la direzione di Sandro Pertini, facendo l'inviato speciale e infine dirigendo pure La Nazione di Firenze tra il 1986 e il 1987 e il mensile Storia Illustrata, che diventò in qualche modo la palestra nel quale esercitare la sua vocazione. Arrigo Petacco era un divulgatore e lo confermò anche in tv curando programmi di grande successo come Da Caporetto a Vittorio Veneto (1968) o La battaglia di Normandia (1969). Aveva la vocazione liberale di accogliere tutti i punti di vista (anche quelli contrari) e di fuggire i luoghi comuni, essendo lui di una generazione che fece i conti con quelli fascisti e quelli comunisti, praticamente il meglio (si fa per dire) del Novecento. Perciò lo attiravano le storie oblique, quelle scritte solo in parte o solo da una parte, e aveva la bella voglia, oltre che la chiarezza, di raccontare da capo a fondo. In qualche modo, il suo era un impeto televisivo, quasi da Quark, che lo portò a raccontare, tanto per dire, la figura di Joe Petrosino, l'ufficiale italoamericano che combattè contro la mafia (sul quale fu girato anche uno sceneggiato Rai di buon successo) o Il prefetto di ferro. L'uomo di Mussolini che mise in ginocchio la mafia, che ispirò il film di Squitieri del 1977. Insomma, navigava libero e così è rimasto fino all'ultimo sia nelle sue lucide apparizioni televisive (ad esempio a Porta a Porta) che nei dialoghi con gli amici, ai quali ha dispensato ilarità fino all'ultimo nonostante i malanni sempre più opprimenti. Dopotutto, basta leggere libri come Il comunista in camicia nera. Nicola Bombacci tra Lenin e Mussolini (Mondadori 1996) per rendersi conto di quanto a Petacco piacesse sparigliare le carte, indagare dove si faceva finta non fosse necessario, e poi consegnare al lettore (o telespettatore) tutti i dettagli per tirare le proprie conclusioni. Senza avere la sarcastica lucidità di Montanelli, o l'impeto romanzesco di altri scrittori di storia, Petacco si è calato nelle penombre del Novecento, specialmente quelle del Ventennio e della Seconda Guerra Mondiale, sempre con piglio garbato e volontà di ricerca. In La storia ci ha mentito. Dai misteri della borsa scomparsa di Mussolini alle «armi segrete» di Hitler, le grandi menzogne del Novecento (Mondadori, 2014), ha provato a smontare alcune leggende prima che la vulgata le consacrasse come verità storiche. Ma rimase, per carità, sempre equidistante, mai schierato, anche a costo di sopportare critiche persino esagerate (come quando affrontò il caso Matteotti in una intervista con il blog di Beppe Grillo nel 2014: «Mai creduto che Mussolini avesse ordinato il delitto»). In poche parole, dopo Montanelli e Cervi, ora con lui se ne va forse l'ultimo dei grandi divulgatori di una storia italiana che le ideologie hanno provato a scrivere a propria immagine e somiglianza, sperando di non incontrare mai giornalisti e saggisti di razza capaci di smentirle.
La congiura del silenzio, scrive il 17 marzo Alessandro Russo su "Il Giornale D'Italia". Documenti e testimonianze di settant'anni fa. Censura rossa e disinformazione. Ma i documenti parlano di una verità da riscrivere. Domenica 28 febbraio ho scritto dell'ultimo libro dello storico Roberto Festorazzi (Gli archivi del silenzio) e di come riporti alla nostra attenzione le bugie, le mistificazioni, le ricostruzioni poste in atto dalla resistenza comunista. Ho avuto la fortuna, quindi non vi riporto notizie di seconda mano, di assistere al tumulto accaduto all'Istituto storico della Resistenza di Como, dopo la lettura di un articolo che parlava del libro di Festorazzi. Ingiurie, turpiloquio e motti resistenziali sono rimbalzati nelle stanze vetuste del palazzo, anche dopo che tutto il personale si è deciso a traslocare in un'altra stanza. Rimasto da solo, continuo a consultare alcuni fondi e i documenti passano lentamente. Poi, all'improvviso, salto sulla sedia. Riprendo il fascicolo, lo ripasso bene, quindi fotografo il tutto. Memorizzo in un file le prove che le bugie dispensate per anni dalla solfa resistenziale esistono per davvero. La morale è una sola: se i partigiani sono stati capaci di mentire sulle azioni svolte dai loro stessi uomini, quanto sono allora attendibili sulle vicende che hanno insanguinato la nostra Patria dal 25 aprile 1945 in poi? Dopo aver letto “Gli archivi del silenzio” ho avvertito il bisogno di cercare alcune conferme. E sapevo anche che dovevo concentrarmi sulla figura di Mario Tonghini se volevo ottenere delle risposte alle mie domande. Queste carte sono negli archivi, le possono consultare tutti. Chissà perché restano sempre al loro posto, seppellite nei faldoni ingialliti. Allora noi le mettiamo nero su bianco, le riportiamo alla luce del sole per spiegare a chi legge quanto la macchina del fango abbia radici profonde e salde nella costruzione della nuova Repubblica. Che Mario Tonghini dovesse cadere nell'oblio era chiaro a tutti. Non se ne doveva parlare, bisognava anzi escluderlo dalla memoria che si andava costruendo in quegli anni. Figuriamoci cosa deve aver pensato Amos Santi “Aramis” quando si è trovato fra le mani la lettera del Colonnello Umberto Morandi “Lario”. In data 5 novembre 1946 il Vice segretario provinciale Amos Santi scrive infatti: “In riferimento suo foglio n.2528 di prot. SC del 2 corr. Nello scorrere i nominativi dei partigiani per i quali sono state iniziate le pratiche per il conferimento di ricompensa al valore, abbiamo trovato fra di essi, e precisamente all'ultimo foglio, il nome del partigiano TONGHINI MARIO. Le saremmo grati se volesse gentilmente farci invio di una copia della motivazione, mentre nel contempo Le siamo a precisare che qualora si procedesse alla conferma di tale ricompensa, si incorrerebbe in un errore grossolano con grave scapito non solo dell'A.N.P.I. Provinciale ma anche dell'operato della Signoria Vostra”. Il Colonnello Morandi risponde in data 12 novembre 1946, spiegando che la proposta di medaglia d'argento al valore nei riguardi di Tonghini Mario era stata avanzata il 12 luglio 1945 dal Comandante della Piazza di Como e della Brigata Perretta Gementi Oreste “Riccardo” con la seguente motivazione: “In furiosi combattimenti conduceva i propri uomini alla conquista delle posizioni. Dopo lunghe ore di combattimento riusciva a sbaragliare le forze avversarie. Partigiano di purissima fede, col suo coraggio e disprezzo della vita fu sempre esempio a tutti i componenti il Settore di Cantù”. Morandi continua specificando che la pratica di rinnovazione è stata inviata al Colonnello Manfredi in data 17 ottobre, quindi chiede i motivi “che ora si opporrebbero alla ripresa in esame della proposta stessa”. Il 19 novembre 1946 Amos Santi risponde così: “Abbiamo preso buona nota di quanto comunicato col foglio suddetto nonché del contenuto della lettera del Colonn. Manfredi, dalla quale risulterebbe che il Tonghini non ha partecipato al combattimento di Vighizzolo di cui è fatto cenno nella motivazione del Comandante Gementi e che inoltre, in tale occasione, il Tonghini non ha dimostrato per nulla di essere un uomo coraggioso. Ciò è stato garantito dal comandante del settore di Cantù, Gaffuri Dino “Walter” nonché da altri comandanti del settore stesso. Egli, per primo, non intende approvare in nessun modo la proposta di ricompensa. Di tutto quanto sopra il Colonn. Manfredi ha già reso edotto il comandante Gementi e quest'ANPI rimane sempre in attesa di una visita dello stesso non appena le condizioni di salute glielo permetteranno, per poter parlare a viva voce”. Siccome amo la verità, non aspetto molto e parlo io a viva voce con il signor Mario Tonghini, giusto settant'anni dopo quelle missive. “Non ne sapevo nulla. È una novità anche per me. Le assicuro che Santi ha mentito. Aveva tutto l'interesse per escludere me e il Comandante Gementi. Quello era uno che faceva la resistenza per interesse suo e la faceva con la Svizzera sempre alle spalle”. Tonghini resta un attimo di silenzio, come a voler riprendere il filo dei ricordi poi continua sicuro: “Non solo ho combattuto a Vighizzolo, ma sono stato io a condurre l'insurrezione in quei giorni, come comandante. L'appuntamento era alle nove di mattina con gli altri gruppi che sono poi confluiti sul luogo. E le dico un'altra cosa. Io e Gaffuri Dino “Walter” eravamo molto uniti, tanto legati, anche dalla parentela (era un secondo cugino ndr.) e smentisco assolutamente che possa aver detto quelle cose al Santi. Quel Santi era una figura pessima, uno che aveva il suo tornaconto, come le ho detto”. Già, quell'Amos Santi, appartenuto alla “Tomasic”, sempre pronto a riparare in Svizzera quando la situazione si faceva critica, non è proprio il ritratto dell'onestà. È piuttosto una di quelle anime luride che hanno mangiato al tavolo della Resistenza di marca comunista. I dubbi allora crescono, le domande si fanno pressanti e la ricerca dei documenti ancora più necessaria. Di una cosa sono però sicuro: piano piano, chi aspetta seduto in riva al fiume, vede affiorare alcune verità. Un comunista lo descrive come un "elemento di un'ignoranza esemplare, senza scrupoli".
Chi è Amos Santi. Non cada mai il silenzio sulla memoria calpestata, per difendere il ricordo dall'oblio del tempo. Amos Santi, classe 1921, arrivato da Milano si unisce al distaccamento “Tomasic” sulla linea di confine fra Como e la Svizzera. Alto, longilineo, abbastanza magro, porta barbetta e baffi a pizzo. Della linea del fronte apprezza da subito le vie di fuga, capaci di portarlo in territorio svizzero per poter gestire in tutta comodità i suoi traffici di contrabbando.
Un membro comunista lo descrive così: “Elemento di un'ignoranza esemplare, senza scrupoli, pochissimo amante del lavoro concreto, dotato di una non comune faccia tosta. Sfrutta la sua posizione per il suo interesse personale, facendo tra l'altro mangiare alla greppia dell'Anpi provinciale tutta la famiglia” [virgolettato tratto da un documento reperito presso l'Archivio di Stato (fondo Celio) inserito nel saggio “I veleni di Dongo” II ed.1996 di Roberto Festorazzi]. Insomma, questo personaggio ha preso l'Anpi per una fonte di guadagno, piuttosto remunerativa, che gli consente una copertura per i suoi movimenti e affari con la vicina Svizzera. È un faccendiere spregiudicato che si avvale della cricca comunista che vorrebbe, invece, agire liberamente senza certi soggetti “deviati”, comunque sfuggiti al loro controllo. In questa lotta intestina si costruiscono le menzogne, si riscrivono i fatti accaduti solo qualche mese prima e ci si affida all'oblio del tempo, capace di far calare il silenzio su quella memoria calpestata. I vincitori hanno sempre meno ragioni, adesso.
I vinti, storie di sangue e di verità negate, scrive Alessandro Russo l'8 marzo 2016 su "Il Giornale D'Italia". L'intervista a Roberto Festorazzi, autore del volume "Gli archivi del silenzio". "Fino a quando non avremo il coraggio di affrontare l’eredità di sangue della guerra civile, non potremo essere una nazione pacificata". Per essere appena uscito nelle librerie (Gli archivi del silenzio è distribuito dalla Ritter di Milano) il libro dello storico Roberto Festorazzi sta andando bene. Di questo discuto al telefono con il responsabile della Ritter, poco prima di raggiungere Festorazzi.
Lo storico mi accoglie nel suo studio, una stanza colma di libri, in una casetta avvolta dal silenzio. Pare una biblioteca e, nonostante la vicinanza della ferrovia, neppure il treno riesce a disturbare questo luogo dove si discute di storia e di vicende umane.
“Gli archivi del silenzio” è un libro-verità, capace di andare oltre l'inchiesta.
«Mi muovo, da sempre, con il bagaglio professionale e il metodo di lavoro del giornalista, tanto che mi piace autodefinirmi “cronista della storia”. Cioè, mi sforzo di compiere inchieste retrospettive sul nostro passato-che-non-passa, indagando su fenomeni e fatti che pesano come macigni sulla nostra coscienza collettiva contemporanea. Non c’è niente da fare. Fino a quando non avremo imparato a fare i conti, finalmente in modo equanime, con il fascismo, e finché non avremo il coraggio di affrontare l’eredità di sangue della guerra civile e dei crimini del dopo-Liberazione, non potremo essere una nazione pacificata».
Cosa la guida nel suo lavoro di storico?
«Per prima cosa, lo scrupolo di non lasciare nulla di intentato, affinché tutte le possibili fonti, di qualunque parte, siano acquisite e divengano, quindi, i materiali su cui possano lavorare i ricercatori e gli storici di oggi e di domani. La generazione testimone della guerra civile del 1943-45, ad esempio, sta scomparendo, e dunque bisogna fare in modo che gli ultimi superstiti di quella stagione possano essere messi nelle condizioni di parlare. Perché, altrimenti, tra dieci o vent’anni, potremo pentirci di aver lasciato morire, nel silenzio, personaggi che avrebbero dovuto essere ascoltati. L’appello al “chi sa, parli”, che tante volte è stato lanciato, in passato, ha senso se vi è qualcuno che sappia raccogliere le voci degli ultimi testimoni diretti».
Che senso ha, allora, la sua posizione? Lei è sicuramente uno storico non allineato.
«Ho anch’io le mie visioni culturali, ma mi sforzo di essere intellettualmente onesto, nei miei studi. L’obiettività, in assoluto, non esiste, perché ciascuno di noi, anche soltanto nella scelta degli argomenti che tratta, è condizionato dai suoi valori. Senza contare che le nostre esperienze, le nostre letture, perfino le nostre ascendenze familiari, ci condizionano ad ogni passo. Altro conto è invece lo sforzo dell’obiettività. Ecco, io mi sforzo di tendere alla neutralità. Vorrei che il mio lettore ideale, quando prende in mano un mio libro, o legga un mio articolo, abbia la certezza che non lo voglio fregare, alterando scientemente i fatti, manipolando i documenti, o cercando di dimostrare una tesi a costo di fare violenza alle evidenze empiriche. Non mi importa nulla se perdo per strada qualche lettore amante delle dietrologie. Io devo porre tutte le mie energie intellettuali e morali al servizio di una ricostruzione dei fatti, che resti il più possibile fedele ai fatti stessi, senza trattare da minus habens chi ha la pazienza di seguirmi. Le lancette della storia segnalano che siamo nel 2016. Non è più tempo né di censure né di narrazioni edulcorate. Se poi, lei, per “non allineato”, intende non incline al politicamente corretto, sono disposto a sottoscrivere».
Nel libro, in base alle testimonianze, si esclude che l'uccisione di Mussolini sia avvenuta al mattino come, invece, sostiene il teorema Alessiani.
«Non da oggi mi colloco tra coloro che si dichiarano scettici a proposito delle ricostruzioni che anticipano l’esecuzione del Duce al mattino, e in altro luogo rispetto alla cosiddetta “versione ufficiale”. La “versione ufficiale”, è vero, non convince: ma, a mio avviso, le ipotesi alternative, per un verso o per un altro, mancano di sufficienti e definitive valenze probatorie. Mi rendo conto che qualcuno resterà deluso da quest’affermazione, ma non posso avallare scenari che non siano fondati su più che convincenti elementi di prova che finora non ho visto emergere».
Non mancano appelli riguardo la raccolta fondi per sostenere gli Istituti storici della Resistenza. La sua posizione in merito?
«L’ho scritto nel mio libro. Fino a quando gli Istituti storici della Resistenza non smetteranno di agire da organismi di parte, rifiutandosi di ammettere alla consultazione dei propri archivi gli studiosi che non si ispirano alle mitologie partigiane, non appare giustificato che questi enti ricevano denari pubblici».
Che grado di attendibilità hanno questi Istituti?
«Purtroppo, molto relativa. Le loro pubblicazioni sono viziate da ideologismo, come ho cercato di dimostrare, con molti esempi, ne Gli archivi del silenzio.
Che idea si è fatto, in particolare, di quello comasco?
«L’Istituto lariano riassume bene i difetti dell’intero sistema di elaborazione della memoria resistenziale. È espressione del panorama politico-culturale di riferimento dell’Anpi, che non è una associazione fondata sulla tolleranza e sul rispetto delle diverse idee, ma espressione di una vecchia retroguardia che ha profittato per decenni di una rendita di posizione».
“Storia bugiarda” è uno dei capitoli dove spiega come siano stati costruiti a tavolino dei documenti. Modo per rafforzare i luoghi comuni, oppure c'è dell'altro?
«Invito i lettori del Giornale d’Italia ad andare a verificare, di persona, se nel libro vi siano delle illazioni, o, se invece, tutto sia dimostrato con ampia produzione di documenti. Ho parlato di una vera e propria “fabbrica del falso” che, su direttive esplicite del Partito comunista il quale aveva la necessità di legittimarsi come forza democratica, ha costruito una narrazione artificiosa e posticcia delle vicende resistenziali».
Lei ha molto coraggio. Sfido qualcuno a smentire l'affermazione. Come ha coinvolto l'ex partigiano Mario Tonghini?
«È stato Tonghini a venirmi a cercare, attraverso un mio caro amico medico di Como. Era rimasto colpito da un mio vecchio libro, intitolato La Gladio Rossa e l’oro di Dongo, e mi ha offerto sia la sua testimonianza sia un intero archivio di documenti. Potevo respingere questa mano tesa?».
I dieci misteri di Mussolini. La Marcia del '22, il delitto Matteotti, gli attentati, la guerra, il Gran Consiglio, il Gran Sasso, il carteggio, l'oro di Dongo, scrive Emma Moriconi il 22 settembre 2015 su "Il Giornale D'Italia". Lo speciale di History sulle vicende rimaste insolute: Luciano Garibaldi affronta lo spinoso tema della morte del Duce. Dieci domande che sono rimaste senza risposta ancora oggi, dopo oltre 70 anni dalla morte del Duce: è il contenuto dello speciale di History in edicola questo mese. La prima domanda è relativa alla Marcia su Roma: "Perché non fu fermata dall'esercito?" Per ogni quesito la Rivista prende a riferimento lavori di studiosi ed esperti che hanno approfondito nel tempo le relative tematiche e per la Marcia su Roma si affida a Aldo A. Mola, autore di "Mussolini a pieni voti? Da Facta al Duce. Inediti sulla crisi del 1922", edizioni Il Capricorno. Viene riproposto così il riepilogo dello studioso, e della Marcia su Roma abbiamo parlato a lungo, anche noi riepilogando ogni sua fase. Di certo lo speciale è estremamente interessante perché riesce a focalizzare i dieci punti in dieci brevi interventi, dunque di lettura immediata e quindi agevolmente consultabile anche per chi esperto non è. La seconda domanda: "Perché venne assassinato Matteotti?". Per questo argomento viene tirato in ballo il lavoro di Mauro Canali "Il delitto Matteotti", edizioni Il Mulino, che però suppone alla base della sua morte questioni affaristiche legate ad un'azienda petrolifera, ed individuando in Mussolini il mandante dell'omicidio. Abbiamo già in passato, e abbondantemente, confutato questa ipotesi. La terza domanda: "Chi ha armato gli attentatori di Mussolini?". Sull'argomento viene preso uno stralcio del volume "Il golpe inglese" e del libro "Le carte segrete del Duce", entrambi di Giovanni Fasanella, edizioni rispettivamente Chiarelettere e Mondadori. E qui, come accade molto spesso, si commette l'errore di chi compie valutazioni non supportate da fatti: secondo Fasanella infatti la polizia fascista avrebbe atteso fino all'ultimo momento prima di sventare gli attentati (anche di questi abbiamo parlato a lungo) a fini propagandistici. Sarebbe stata una cosa logica mettere a rischio la vita del Duce per "fini propagandistici". E su cosa si basa questa constatazione? Altra ipotesi che Fasanella compie è quella di questioni interne al partito fascista. A questa sinfonia siamo abituati, e ne abbiamo avuto abbastanza anche negli anni di piombo: quando a morire erano i giovani di destra, l'ipotesi era sempre quella della faida interna... addirittura arriva a supporre che Zamboni sia stato linciato "per evitare che parlasse". E la sua lista di complotti arriva persino a Italo Balbo, per il quale suppone un attentato in piena regola. Alla fine della disamina ammette però che dietro agli attentati a Mussolini potrebbe esserci un "filo massonico" a legarli insieme. In realtà potrebbero essere semplicemente ciò che sono: attentati di singoli o gruppetti contro un Capo per certi aspetti poco incline a piegare la schiena. Proseguiamo con la lista delle domande, la quarta: "Perché il Duce decise di entrare in guerra?". Per questo tema interviene Paolo Simoncelli, professore di Storia Moderna all'Università La Sapienza di Roma. Un intervento breve ma esauriente, oltre che interessante perché mette sul piatto altre questioni, anch'esse rimaste ancora misteriose, al quale si potrebbe aggiungere qualcosa: per esempio quanto Mussolini stesso disse ad un giornalista pochi giorni prima di morire. Altro argomento da noi già eviscerato a fondo in passato. Ad occuparsene è Francesco Perfetti, professore di Storia Contemporanea presso l'Università LUISS Guido Carli di Roma, il quale fa il punto sul tema in maniera sintetica ma esaustiva, rilevando come il Duce non ostacolò Dino Grandi nella presentazione dell'Ordine del Giorno, del, quale peraltro era perfettamente a conoscenza. Anche qui altre domande si aggiungono a quella principale, e anche qui l'argomento è stato da noi trattato più volte e in maniera abbastanza completa. La sesta domanda va a toccare un momento storico che abbiamo di recente trattato con una certa frequenza: la liberazione del Duce dal Gran Sasso. Su questo a parlare è Vincenzo Di Michele, autore di "Mussolini finto prigioniero al Gran Sasso" e "L'ultimo segreto di Mussolini", entrambi oggetto di nostra recentissima ed approfondita attenzione. Proseguendo eccoci giunti alla corrispondenza con Churchill. A parlarne è Roberto Festorazzi in un'intervista in cui spiega la "desiderabilità" da parte dell'Inghilterra all'alleanza Italia-Germania. Tema scottantissimo del quale abbiamo riferito più volte e che di recente è tornato alla ribalta nella diatriba tra chi sostiene che non esista e chi continua ad asserire che invece il carteggio c'è, eccome. Altra questione spinosa è quella dell'oro di Dongo, della quale si occupa lo storico Gianni Oliva, autore de "Il tesoro dei vinti. Il mistero dell'oro di Dongo", edizioni Mondadori. Anche lui, come gli altri, è sintetico ma estremamente esplicativo, spiegando come quei beni andarono al PCI e facendo riferimento anche agli omicidi legati a quella vicenda, come quelli di Gianna e Neri. E anche di questo abbiamo dato ampio resoconto anche grazie al lavoro di Servello e Garibaldi "Perché uccisero Mussolini e Claretta, la verità negli archivi del PCI". E a proposito di Luciano Garibaldi, è proprio lui ad affrontare il nono punto: "Dove e come è stato davvero ucciso Mussolini?". Del minuzioso lavoro di Luciano Garibaldi abbiamo parlato spesso: i suoi studi, le sue indagini meticolose, svolte anche sui luoghi (così come quelle del compianto Giorgio Pisanò) sono senza dubbio quanto di più idoneo a dare la misura delle menzogne dette e scritte nel tempo: menzogne che ancora oggi qualcuno è disposto a difendere come verità. Ma Garibaldi parla prove alla mano, e di fronte alla scienza c'è poco da dire. Lo storico cita anche lo studio di Mario Alessiani, del quale abbiamo dato ampio resoconto ai nostri lettori. Fu ancora Garibaldi ad accompagnarci nei luoghi dell'epilogo della vicenda terrena di Mussolini: lo scorso 28 aprile realizzammo un servizio in video con i suoi preziosi interventi chiarificatori di decenni di mistificazioni. Garibaldi per History riepiloga ciò che spiegò ai nostri lettori in quella circostanza. Ultima domanda: "Furono i servizi inglesi a volerlo morto?". Ne parla Giovanni Sabbatucci, professore di Storia Contemporanea all'Università La Sapienza di Roma, il quale riferisce che "qualche coinvolgimento inglese può esserci stato" e precisando che "da un eventuale 'Processo di Norimberga' contro i fascisti qualcosa di imbarazzante contro gli inglesi sarebbe senz'altro uscito". Sull'argomento ricordiamo che Luciano Garibaldi scrisse ben vent'anni fa un volume dal titolo "La pista inglese", teorizzando appunto il coinvolgimento degli inglesi nell'assassinio di Benito Mussolini.
Cominciano a cadere i veli dai misteri di Dongo. Uno studioso "non allineato" al pensiero unico resistenziale, un prodotto editoriale che è anche un'inchiesta. Misteri sepolti da decenni di oblio: Roberto Festorazzi smonta il teorema su cui il Pci ha costruito la sua fortuna, scrive Alessandro Russo il 28 febbraio 2016 su "Il Giornale d'Italia". Roberto Festorazzi è un giornalista profondamente innamorato del suo lavoro. Per lui non esistono pause, domeniche, feste. Lo trovi sempre al lavoro. Perché, a dirla tutta, Festorazzi è uno degli storici più importanti di questi anni. E la sua figura - ha all'attivo una trentina di libri di storia - si può certamente collocare nella schiera di quegli studiosi non allineati al pensiero unico resistenziale. “Gli archivi del silenzio” è la sua ultima fatica. Ho avuto l'onore di leggerlo in anteprima, pagina dopo pagina, in attesa che esca in tutte le librerie la prossima settimana. Festorazzi non lascia nulla al caso. Si infila nelle carte, negli atti, ricerca tutte le possibili testimonianze e ci regala un libro-inchiesta davvero straordinario. Attraverso i documenti l'autore smonta il teorema su cui il Pci, e i suoi attuali eredi, hanno costruito la propria fortuna e la colossale rendita di posizione. Con “Gli archivi del silenzio” Festorazzi dimostra come documenti e testimonianze dirompenti, che consentono di fare piena luce sui delitti e misteri del dopo Dongo, siano stati “neutralizzati” dall'apparato degli Istituti storici della Resistenza. Dimostra come questi Istituti siano in realtà delle autentiche fabbriche di colossali falsificazioni. Che insomma, per anni, ci hanno raccontato bugie, costruito a tavolino interi memoriali, riscritto la storia perché fosse possibile nascondere i crimini della Resistenza rossa. Il lavoro dell'autore è stato reso possibile anche da una fonte interna al mondo partigiano: Mario Tonghini. A 93 anni è la voce della verità, capace di spiegare come il Pci ha imposto, con l'arma del terrore e della mistificazione, la propria natura illiberale. Tonghini, organizzatore dei Gap-Sap a Como, raggiunto al telefono mi confessa di essere “rimasto disgustato da quello che è successo dopo la liberazione. Non ho mai autorizzato rappresaglie e non le ho mai avvallate. Tanto che ho abbandonato la politica e mi sono dedicato all'impresa. Ho dato lavoro a tanti, sa?”. Le carte scottanti e inedite di Tonghini hanno permesso a Festorazzi di rileggere figure strettamente legate alla fine del Duce, dei partigiani che si adoperarono per la sua cattura e per la catalogazione dell'oro di Dongo. Porta nuove luci sugli avvenimenti accaduti in quei giorni di aprile del 1945. Tonghini rivela, deluso dalle illegalità commesse dai comunisti, di abbandonare la militanza partigiana: “Sono testimone del fatto che il Pci, subito dopo la Liberazione, diede ordine a tutte le formazioni garibaldine di non consegnare le armi agli Alleati, ma di nasconderle per la rivoluzione. Fu una direttiva trasmessa verbalmente. Io la ricevetti da “Remo”, Giovanni Aglietto, che aveva retto la Federazione clandestina del Pci di Como in assenza di Dante Gorreri. Le disposizioni dicevano di consegnare le armi leggere, mentre i mitragliatori dovevano essere smontati e nascosti insieme alle bombe a mano”. Racconto che illustra come il Pci stesse strutturando la sua organizzazione paramilitare “Gladio Rossa”. Festorazzi ha svolto un lavoro egregio. Anche perché sono sicuro che non gli avranno reso vita facile. E la sua denuncia, contro le opere di disinformazione messe in atto dagli Istituiti storici della Resistenza, deve trovare seguito ed essere discussa. Nelle pagine del suo libro troverete riferimenti all'Istituto di storia contemporanea “Perretta” di Como, dove Festorazzi si è rivolto per le ricerche. Vi invito a leggere con attenzione la faziosità, le imprecisioni, la mancanza di rigore scientifico, la deliberata occultazione di fondi e la mancata catalogazione di documenti da parte di questo Istituto. È proprio l'autore che ci spinge ad una riflessione, attraverso il pensiero di Gianfranco Miglio che Festorazzi ha avuto quale maestro alla Facoltà di Scienze politiche. “Credo che questi Istituti abbiano ormai fatto il loro tempo. Essi hanno rappresentato il tentativo delle sinistre di monopolizzare ideologicamente la Resistenza. Non si possono considerare Istituti scientifici, in quanto sono serviti alla sinistra per giustificare in qualche modo la pretesa che la Resistenza sia stata solo un prodotto di sinistra”. Da “Gli archivi del silenzio” di Roberto Festorazzi. Per gentile concessione dell'autore, pubblichiamo in anteprima alcuni stralci del volume. Oreste Gementi “Riccardo”, diretto superiore di Mario Tonghini “Stefano”. L'esecuzione di Mussolini e della Petacci è avvenuta in modo diverso dalla descrizione ufficiale. Gementi riferisce quanto ebbe a conoscere, dalla viva voce di due testimoni della fucilazione, avvenuta a Giulino di Mezzegra, davanti al cancello di Villa Belmonte, qualche minuto dopo le 16 del 28 Aprile 1945. Si tratta di Guiseppe Frangi “Lino” e Guglielmo Cantoni “Sandrino”, i due partigiani posti a guardia della coppia di amanti, durante la loro ultima notte trascorsa nel casolare dei contadini De Maria, a Bonzanigo di Mezzegra. Dalla relazione di Gementi: “ “Sandrino” e “Lino”, che furono i custodi della coppia tutta la notte tra il 27 e il 28 Aprile, presenti all'esecuzione, venuti al comando [del Cvl di Como] il 1° maggio [1945], mi precisarono che dopo la dichiarazione di “Valerio” “in nome del popolo italiano ecc” il mitra di “Valerio” si inceppò e “Pietro” (Michele Moretti) che si trovava al suo fianco con il mitra spianato, fece partire la scarica mortale”. A conferma dell'attendibilità di questa testimonianza esiste un prezioso documento, datato 15 maggio 1945, firmato dal comandate “Riccardo” alias Oreste Gementi. Destinatario il Partito comunista a Mosca. “Secondo gli accordi presi con la Missione militare russa, che in questi giorni ha preso contatto con il nostro Cnl, consegniamo alla stessa, per il Museo Militare di Mosca, l'arma (Mas) con la quale il partigiano “Pietro” delle formazioni garibaldine del Lario, ha giustiziato Mussolini”. Sempre da una testimonianza di Gementi che si reca a Lasnigo da Pietro Terzi “Francesco” dove Moretti è latitante. Rivolto a Moretti gli dissi che poteva stare tranquillo, perché il suo partito non lo avrebbe abbandonato, in quanto lui rappresentava una bandiera per essere stato l'esecutore di Mussolini. Ed egli annuì scrollando il capo, senza smentire. - Comandante Oreste Gementi “Riccardo” Gementi racconta come, per tutto il mese di maggio di quel 1945, avesse insistito, presso il comunista Michele Moretti, che aveva portato a Como una tranche del tesoro di Dongo (30 milioni di lire e 35,880 chili d'oro), per ottenere la ricevuta dell'avvenuta consegna. Ma non poté ricavare soddisfazione, in quanto, anziché consegnare i valori all'autorità legale, il partigiano “Pietro” li aveva fatti recapitare, per canali interni, alla direzione del suo partito. - Così l'autore riferisce il racconto di Oreste Gementi: La sera del giorno 28 Aprile, (Gementi) ebbe modo di raccogliere, insieme a “Gina”, dalla voce dell'ex prefetto, Renato Celio, il racconto delle ore in cui in Prefettura, ebbe a snodarsi quella che è stata definita la veglia funebre della Rsi: ossia la concitata discussione fra Mussolini e i suoi gerarchi, circa i possibili sbocchi del transito da Como. I contrasti più violenti furono quelli tra il Duce e il segretario del Partito fascista Repubblicano Alessandro Pavolini e il capo delle forze armate della Repubblica neofascista Rodolfo Graziani. Pavolini era fautore di una linea intransigente, con la soluzione militare del Ridotto Alpino valtellinese che avrebbe dovuto segnare le Termopili del fascismo. Graziani, al contrario, si era già smarcato dal terreno dello scontro, con una exit-strategy che lo avrebbe visto, di lì a poco, consegnarsi nelle mani degli americani, per il tramite delle Ss di frontiera di Cernobbio, un autentico avamposto della linea negoziale, farcito di doppiogiochisti. (Da “Gli archivi del silenzio” di Roberto Festorazzi).
Mi preme ringraziare Alessandro Russo per il suo egregio lavoro, e l'autore di questo libro-inchiesta, Roberto Festorazzi: è, il suo, un volume destinato a far parlare a lungo di sé. Grazie per questo contributo di verità alla nostra storia e grazie per il trattamento di favore riservato al Giornale d'Italia nel permetterci la pubblicazione di questi stralci. La prima cosa che farò al mio rientro a Roma da Imola, da dove scrivo, sarà acquistare questo volume per divorarlo. C'è un argomento che mi preme sottolineare, e mi ripropongo di parlarne con Roberto Festorazzi non appena ve ne sarà l'occasione, volentieri anche di persona. Si tratta dell'ora della morte di Benito Mussolini e Claretta Petacci. Ho esaminato più volte e con estrema attenzione il Teorema Alessiani, e ne ho parlato anche sul Giornale d'Italia. Secondo gli studi scientifici di Alessiani - noto medico legale che fece questa indagine "tardiva" ma pur basata su elementi di scienza - l'ora della morte non può farsi risalire al pomeriggio del 28 aprile, ma al mattino. Il buon medico fornisce tutti gli elementi del caso e basa le sue deduzioni su calcoli scientifici difficilmente confutabili. Ne riparleremo, magari proprio con l'autore di questo libro straordinario, e potrebbe essere anzi una buona occasione per il collega Alessandro Russo per organizzare un'intervista con lo storico e scrittore sin dai prossimi giorni. Emma Moriconi.
Le menzogne sbugiardate e l'oro di Dongo, scrive Emma Moriconi il 18 gennaio 2015 su "Il Giornale d'Italia". I partigiani volevano fucilare il Duce a Milano, arrivarono tardi e trovarono il suo cadavere, insieme a quello della Petacci. Luciano Garibaldi: "Erano i valori confiscati alle famiglie degli ebrei. Mussolini intendeva consegnarli agli americani, affinché fossero restituiti ai superstiti". Prosegue il nostro speciale dedicato agli straordinari scritti di Vanni Teodorani e ci avviamo oggi alla sua conclusione. Riprendiamo dunque dove eravamo rimasti ieri, con l'intervista a Luciano Garibaldi, con il quale parliamo di cose estremamente interessanti. Ci sono molte brutte pagine della nostra storia che andrebbero riscritte ..."Quella sul processo per l'oro di Dongo, per esempio, è un'altra. Un processo che si interruppe per il 'suicidio' di un giurato e dopo che ben cinque suoi colleghi avevano dato forfait, un processo non per furto, ma per strage, a causa dei numerosi omicidi che quella vicenda si porta dietro. I partigiani Gianna e Neri, ma anche l'assassinio del collega Franco De Agazio, per esempio". Si, ne abbiamo parlato ai nostri lettori. De Agazio stava scoprendo cose che davano fastidio a qualcuno. Un 'fastidio' tale da finire assassinato. "Una lunga scia di sangue, si". Torniamo a "La pista inglese", sai che è un po' difficile trovarne copia? Quando uscì, nell'agosto 2002, fu accolto con enorme interesse tanto che ne furono pubblicate tre edizioni in pochi mesi. Lì ci sono i resoconti di otto anni di mie ricerche, a cominciare dal fonogramma inviato il 27 aprile 1945 dal Clnai al comando del Gruppo d'Armate alleato in cui venne richiesta l'immediata consegna di Mussolini, che era stato appena catturato. Si trattava dell'attuazione delle clausole dell'armistizio. Arrivò una risposta che era una menzogna: 'Non possiamo consegnarvi Mussolini perché è stato fucilato in piazzale Loreto, nello stesso punto dove erano stati fucilati i nostri compagni'. Mussolini invece era prigioniero a Dongo. Ciò che appare rilevante è il fatto che i capi partigiani avessero deciso, secondo quello che dice il fonogramma, di fucilare Mussolini nella piazza milanese, insieme ad altri quindici fascisti, giusto per raggiungere lo stesso numero dei partigiani fucilati per una rappresaglia nello stesso luogo nell'agosto precedente". E invece dovettero rivedere i loro piani ..."Certo, perché quando 'Valerio' arrivò a Dongo si accorse che qualcuno li aveva preceduti. Insomma, a piazzale Loreto, Mussolini furono costretti a portarcelo morto, insieme ai quindici, morti anche loro, fucilati sul lungolago di Dongo e poi trasportati a Milano". E poi c'è il caso della Petacci. La sua uccisione non era stata programmata. Perché Claretta finisce a piazzale Loreto? Perché Audisio l'aveva trovata cadavere, uccisa anche lei dagli assassini di Mussolini. Visto che ci siamo ... le vicende che orbitano intorno a Dongo sono tante e complesse, al punto che si è giunti a parlare di "dongologia", ad indicare una sorta di scienza diretta a studiare i fenomeni legati a quel luogo e a quei giorni. Fenomeni intorno ai quali orbitano oro e sangue. Abbiamo parlato un po' del sangue, parliamo ora del famoso oro di Dongo, altro tema spinoso che affronti nel tuo libro. Nel volume sono raccolte tantissime testimonianze, moltissime delle quali totalmente ignorate per decenni, relative proprio ai contatti tra Mussolini e gli inglesi. Faccio qualche nome, per rendere l'idea: Dino Campini, il ministro Carlo Alberto Biggini, l'ufficiale della Decima Sergio Nesi, l'attendente di Mussolini Carradori, l'ambasciatore della Rsi a Berlino Anfuso, il direttore del Corriere Amicucci, il sottosegretario alla Cultura Popolare Cucco, il sottosegretario all'Aeronautica Bonomi, il fondatore del Raggruppamento repubblicano socialista Clone, il giornalista americano Drew Pearson, il notaio Alberici, il commesso di Mussolini Quinto Navarra, il cassiere capo della polizia di Salò La Greca, Urbano Lazzaro, il partigiano noto con il nome di battaglia "Bill", autore della cattura di Mussolini ... insomma sono tantissime. E tutte concordano nel dire che il cosiddetto 'oro di Dongo' rinvenuto dai partigiani nella 'colonna Mussolini' non era il tesoro di Stato. Si trattava invece di valori confiscati alle famiglie degli ebrei arrestati dopo le leggi razziali, che Mussolini intendeva consegnare agli americani, dopo la resa in Valtellina, affinché fossero restituiti ai superstiti. Questo dimostra che quelle confische erano state fatte per il pesante obbligo derivante dall'alleanza con il Terzo Reich ... Dove finirono invece quelle ricchezze? Nelle casse del PCI ... Roba da matti ...E ti dico di più. Massimo Caprara (giornalista, storico, che fu segretario di Togliatti) ha testimoniato in un memoriale scritto appositamente per 'La pista inglese' (nel quale tra l'altro rivela come la 'versione Audisio' sia stato un 'falso deliberato') come questo tesoro di Dongo sia sempre stato per il partito un tabù, diciamo così. Ha anche ricordato come Togliatti, in un'intervista a L'Unità (che il tribunale di Padova acquisì per il processo, ma sappiamo tutti come quel processo rimase senza alcun esito) avesse dichiarato: è un'invenzione la circostanza che la colonna di Mussolini fosse carica di valuta italiana e straniera spiegando che quei beni, razziati sulla strada tra Musso e Dongo, fatti portare nel Comune di Dongo dal 'capitano Neri' e catalogati dalla 'partigiana Gianna', finirono nelle casse del partito. Fu un avvocato molto esperto a riciclare il tutto in Svizzera. Ecco cosa dice Caprara: 'Veniva ogni quindici giorni a Roma e si fermava a chiacchierare con me in attesa che Togliatti fosse libero. A ogni visita, compiva una singolare triangolazione che non poteva non incuriosirmi: dopo essere stato da noi al secondo piano, saliva al terzo dall'amministrazione e poi al quarto da Pietro Secchia. Fu quello stesso avvocato un giorno, a pranzo, a spiegarmi l'arcano: lui si stava occupando di riciclare il bottino di Dongo trasformandolo in depositi e titoli presso alcune banche svizzere, poi riutilizzabili in Italia'. Ecco, questo in estrema sintesi. Nel volume "La pista inglese" c'è tutto questo e di più". In questa sede è forse utile ricordare che due anni fa uscì, in prima edizione, il volume "Perché uccisero Mussolini e Claretta. La verità negli archivi del PCI". Di recente ne è stata pubblicata una versione aggiornata. Si tratta di un volume-inchiesta a cura ancora di Luciano Garibaldi e di Franco Servello. Ne abbiamo parlato lo scorso ottobre, il lettore lo ricorderà: un intricato dedalo di misteri e di morti sospette, di inchieste scomparse nel nulla e di oro rubato. Lo ricordiamo anche qui perché ciò che gli autori dicono nel libro è strettamente collegato al ragionamento odierno. E Teodorani ci racconta la verità. Il noto saggista, autore de "La pista inglese" aveva ragione: ecco come andarono le cose, tra gravi colpe, inadeguatezze varie e destino avverso. Riprendiamo la ricostruzione di Teodorani laddove ci siamo fermati ieri. Dopo la cattura, Mussolini fu consegnato al brigadiere della Guardia di Finanza di Germasino, Antonio Spadea. "Perché Mussolini - scrive Teodorani - fu sottratto alla sorte che lo attendeva e lasciato ghermire da diversa fine? Ho assodato, senza tema di smentite, che quel sottufficiale della Guardia di Finanza doveva consegnare il prigioniero a un tenente suo diretto superiore operante nella zona. Ma il tenente, De Laurentis, in precedenza paracadutato dal Sud, trattenuto altrove, non arrivò, o meglio arrivò tardi. Probabilmente con l'intenzione di affidare tanto prigioniero a una tutela più sicura e definitiva verso gli incombenti rossi, il brigadiere di Germasino aveva provveduto a consegnarlo al capitano alleato che operava nel settore e che per primo aveva avuto notizia dell'avvenuto fermo". Se a questo si aggiunge che "in molti casi i movimenti delle truppe alleate avvennero in ritardo sul previsto" - è sempre Teodorani a parlare - che Milano fu lasciata dalle truppe della Rsi "con inconsapevole anticipo", che il capitano Lapiello "che tanta parte aveva avuto nell'organizzare e articolare il piano di salvezza e che avrebbe potuto rappresentare una parte decisiva nella critica fase esecutiva", era rimasto bloccato lungo la strada a causa di un incidente di macchina sulla Roma-Napoli, ben si comprende come, oltre alla disorganizzazione americana, alla perfetta macchina inglese, alla malafede tedesca, siano entrate in gioco anche questioni addebitabili ad uno strano e macabro intervento del Fato. Insomma, per una serie di ragioni concatenate che abbiamo appena tratteggiato seppure per sommi capi, Mussolini viene consegnato alla persona sbagliata. Perché il capitano a cui il Duce viene consegnato da Spadea "non apparteneva al Secret Service americano", ma al servizio informativo di altra potenza", che prese Mussolini in consegna e lo trasferì "a nuova sede, sottraendolo al controllo della Guardia di Finanza e, quindi, degli americani, e, quando, ore dopo, arrivarono con malcelata fretta (forse sapevano?) i comunisti di Audisio, di cui egli aveva il dovere di impedire ogni movimento, non trovò di meglio che allontanarsi senza proferire sillaba". Ecco dunque la verità. E Teodorani cita proprio i documenti di cui parlavamo ieri con Garibaldi: il decreto luogotenenziale del 22 aprile 1945 n. 2, un mandato di cattura dell'Alto Commissario aggiunto per le Sanzioni contro il fascismo del 26 agosto 1944 e la clausola 29 del lungo armistizio, oltre al "solenne impegno del 27 aprile concluso con noi al quale, non si può dire quanta con quanta buona fede, avevano aderito anche il CLNAI e il comando del CVL, nei suoi organi rappresentati in Como". E Teodorani aggiunge: "Ma nulla valse contro le precise disposizioni del diplomatico sovietico Bogomoloff che allora dirigeva da Roma tutto il movimento, come tecnico specializzato". Insomma, un assassinio commesso contravvenendo a precisi ordini. Questo fu. Naturalmente per certi omicidi non esiste alcun processo.
Dongo: oro e sangue, scrive Emma Moriconi il 23 ottobre 2014 su "Il Giornale d'Italia". Servello e Garibaldi scavano tra le carte e trovano le prove di un patto tra la DC e i comunisti per coprire i responsabili del furto e degli omicidi. Con quei valori il Pci comprò anche Botteghe Oscure e la tipografia per stampare l’Unità, e ci pagò le campagne elettorali. Nella scorsa puntata di questo piccolo speciale dedicato ai misteri delle ultime ore di Mussolini abbiamo parlato di Angelo Zanessi, che riferì in un memoriale di essere entrato in possesso di materiale contenuto nelle borse che il Duce portava con sé nel suo ultimo viaggio. A questo proposito è di assoluta rilevanza un documentario: “Mussolini: Marcia, Morte, Misteri”, La Grande Storia, di Enzo Antonio Cicchino. In questa fase ci occuperemo della seconda e della terza parte, lasciando la prima al nostro speciale del prossimo martedì, dedicato alla Marcia su Roma. Il documentario presenta immagini in parte inedite del periodo ed ha il pregio di riuscire a trascinare indietro nel tempo lo spettatore. Molti aspetti andrebbero eviscerati, alcuni anche contestati, ma di certo ci sono verità che fanno accapponare la pelle. Ciò che interessa in questa sede è ciò che emerge circa l’ “oro di Dongo”, riservandoci di tornare su altri passaggi chiave della vicenda in altra sede. Gioielli, soldi contanti, oro. Valori per i quali tante persone sono morte, come i partigiani Neri e Gianna, di cui abbiamo parlato di recente, come molti testimoni “scomodi” di quelle ore. Una lunga, lunghissima scia di sangue. Aprile 1957: dopo un’istruttoria di 12 anni sono imputati 37 partigiani, quasi tutti comunisti, che devono spiegare dove sono finiti tutti quei beni, “per un valore che oggi ammonterebbe a circa 600 milioni di euro” dice il documentario. Che specifica che parte di questo tesoro sarebbe andato a coprire le spese del PCI, per l’acquisto dell’immobile in via delle Botteghe Oscure, della tipografia per stampare l’Unità e per finanziare le campagne elettorali nel dopoguerra”. Il processo va avanti 4 mesi, poi la macchina si ferma a causa della morte di un giudice, bisogna quindi rinviarlo a nuovo ruolo. Non se ne farà più nulla: nel frattempo sono arrivate prescrizioni e amnistie, così abdica la giustizia italiana. Occorre, a questo punto, prendere in considerazione un altro speciale: ancora quello di Storia in Rete dello scorso aprile. “Una catena di morti che attende giustizia”: così titola Averaldo Costa dalle pagine della rivista. Costa racconta i contenuti del volume-inchiesta di Servello e Garibaldi dal titolo “Perché uccisero Mussolini e Claretta. La verità negli archivi del PCI”. Il libro, uscito in prima edizione due anni fa (più o meno la stessa epoca del documentario di Cicchino) presenta nella sua seconda edizione una serie di nuovi colpi di scena, che gli autori raccontano dopo aver analizzato documenti inediti rintracciati presso l’Archivio Storico del Tribunale Supremo Militare e presso l’Archivio di Stato. Gli storici avrebbero rinvenuto le prove “delle manovre poste in atto per neutralizzare l’azione del generale Leone Zingales, che stava per giungere alla verità, e le prove degli accordi sotterranei tra DC e PCI per mettere una pietra tombale sui risultati dell’indagine di Ciro Verdiani, l’ispettore di Pubblica Sicurezza che aveva ricostruito il furto, ad opera di funzionari del PCI, di ingenti valori tutti di spettanza dello Stato”. Verdiani aveva tirato fuori le prove per affermare, insomma, che il “tesoro di Dongo” era finito nelle mani del PCI, il quale si era occupato di proteggere i colpevoli sia del furto che degli omicidi legati proprio al tesoro. Dicevamo dei partigiani Gianna e Neri: non furono le sole vittime. Verdiani scrisse infatti di “una minaccia di morte incombente su chiunque troppo sappia o voglia sapere, o dica, sulla destinazione e il possesso del cosiddetto ‘oro del Duce’”. Secondo le prove accumulate da Verdiani, autori materiali delle uccisioni furono Leopoldo Cassinelli (Lince) e Maurizio Bernasconi (Maurizio). Il mandante: Luigi Longo. Gli autori pubblicano il “rapporto riservato” di Verdiani: crolla finalmente – e definitivamente - quel castello di carte costruito sul sangue e sulla menzogna. DC e PCI fecero un patto: la prima avrebbe insabbiato tutto e il secondo avrebbe frenato le frange estremiste pronte alla rivoluzione. E se qualcuno avesse insistito, il PCI avrebbe provveduto a sistemare le cose come aveva sempre fatto: soffocandole nel sangue. È ciò che accadde a Franco De Agazio, fondatore e direttore del settimanale Il Meridiano d’Italia: assassinato il 14 marzo ‘47 dalla Volante Rossa. Il nipote, Franco Servello, coautore del libro-inchiesta in argomento – che ne prese il posto - subì numerosi attentati. Ecco dunque un altro personaggio che si affaccia sulla scena: Leone Zingales, un magistrato militare che voleva far luce sul mistero del “tesoro di Dongo” e assicurare alla giustizia i responsabili del furto e degli omicidi. Come rilevano Servello e Garibaldi, “se al generale Zingales fosse stato consentito di proseguire il suo lavoro di operatore di giustizia, egli avrebbe finito con l’aprire un’indagine anche sulle fucilazioni di Dongo, dato che erano state eseguite dai partigiani senza che fosse stata pronunciata alcuna sentenza di morte da nessun tribunale autorizzato. Infatti anche la postuma, e ridicola, rivendicazione stilata il 29 aprile 1945 dal CLNAI di Milano, non poteva avere, né avrà mai, il valore di una sentenza legittima”. L’argomento non è certo esaurito qui, ne parleremo ancora nella prossima puntata. Ma occorre fermarsi un momento per fare un riflessione: queste carte vengono fuori oggi, 70 anni dopo, perché coperte dal segreto di Stato. Quello stesso Stato che, rimuovendo un generale dal suo incarico, ha permesso – dolosamente - di lasciare impunito più di un delitto.
Fu Churchill a far ammazzare Mussolini. L'intervista: "Il Duce fu ucciso dagli inglesi per ordine esplicito del premier britannico" scrive Emma Moriconi il 17 gennaio 2015 su "Il Giornale D'Italia". Confermata la tesi di Luciano Garibaldi che vent'anni fa, per primo, ipotizzò la "pista inglese". Eccoci dunque giunti, nel nostro speciale dedicato ai diari di Vanni Teodorani, all'argomento da cui eravamo partiti all'inizio: la cosiddetta "pista inglese". Che vent'anni fa ipotizzò Luciano Garibaldi e che oggi trova una straordinaria conferma proprio in quelle carte che il fidato collaboratore del Duce scrisse immediatamente dopo i sanguinosi fatti dell'aprile 1945. Era infatti il 18 febbraio 1994 quando quattro articoli a firma del noto saggista venivano pubblicati su "La Notte" e la cui terza puntata recava il titolo: "Clara, Benito e i sicari di Londra". Una lunga e complessa inchiesta, quella di Garibaldi, che veniva ripresa il 2 marzo seguente: il settimanale "Noi" della Mondadori dedicava quattro pagine all'intuizione più ardita della storia con il titolo "Gli inglesi uccisero Mussolini". Un anno dopo usciva il libro-intervista di Chessa a Renzo De Felice. In quelle pagine, però, il lavoro dello storico non veniva neppure citato. Poco male, la paternità dell'intuizione è inequivocabile. Nel 2002 la Ares pubblicava "La pista inglese", oggi di difficile reperimento, mentre nel 2004 la Enigma Books, di New York, pubblicava "Mussolini: the secrets of his death. Did Winston Churchill order Mussolini's execution?". Ancora nel 2004, Peter Tompkins e sua moglie, la regista Maria Luisa Forenza, mandavano in onda su rai Tre il documentario "Mussolini: l'ultima verità": si, proprio quella "pista inglese" teorizzata da Garibaldi. Ma chi era Peter Tompkins? Era, nel 1945, un giovanotto di 24 anni che all'epoca comandava l'OSS, l'Office of Strategic Services, la futura CIA. Costui, nel 1991, aveva pubblicato il volume "Dalle carte segrete del Duce" e riconosceva che "Luciano Garibaldi è stato il primo ad avere avanzato, sulla stampa italiana, l'ipotesi della pista inglese". Il documentario di Rai Tre fece discutere non poco, com'è facilmente intuibile: esso contribuiva infatti a far crollare il castello di carte che era stato (a ben vedere poco abilmente, in fondo) costruito ad arte. Abbiamo parlato a lungo (e ancora non abbastanza, però) delle menzogne che sono state dette (e, ahimé, scritte) sulla morte del Duce. Nulla era stato raccontato come era andato veramente: falso l'orario della morte, falso il luogo, false le circostanze, falsi gli esecutori. E questo è ormai assodato da tempo. Ma che fossero stati gli inglesi a commissionare l'assassinio di Mussolini era sembrato all'epoca una specie di eresia. E invece le cose erano andate proprio così, le carte di Teodorani mettono un punto fermo su questa vicenda. Ma andiamo con ordine. Abbiamo raggiunto al telefono Luciano Garibaldi, innanzitutto per rendergli il giusto merito circa le sue straordinarie doti di "investigatore della storia", e poi naturalmente per farci raccontare la sua lunga inchiesta. Garibaldi è cordiale, affabile: in men che non si dica passiamo dal "lei" al "tu". Insomma, avevi proprio ragione ... la "Pista inglese" era quella giusta. Raccontaci. Si, anche Tompkins, il cui lavoro è basato essenzialmente sul racconto di Bruno Giovanni Lonati, ex partigiano, la confermò nel documentario di Rai Tre. Benito Mussolini e Claretta Petacci furono uccisi non dai partigiani comunisti del Clnai, solennemente 'autorizzati' dal governo italiano, ma da un gruppo di uomini al servizio di Churchill. Comandati da un ufficiale dei servizi segreti inglesi, e per ordine esplicito del premier britannico. Il documentario metteva in luce anche come la soppressione di Mussolini fosse avvenuta nella mattinata e non nel pomeriggio, come la 'vulgata' volle far credere. La testimonianza del partigiano Roberto Remund, a questo proposito, è fondamentale: quando andò a sollevare il cadavere di Mussolini per issarlo sul camion che stava trasportando a Milano i fucilati di Dongo si ritrovò tra le mani un corpo già rigido, cosa impossibile se la morte fosse sopravvenuta solo un'ora prima. E poi moltissime prove sono giunte a mettere la parola fine a quella versione, ormai definitivamente sbugiardata". Si, ne abbiamo ripercorso anche noi le contraddizioni, e abbiamo fatto alcune riflessioni, una su tutte: perché tutte quelle menzogne? "Esattamente. Perché mentire? Perché non portare Mussolini vivo sulla piazza di Dongo e fucilarlo assieme agli altri quindici? O meglio: perché non portare tutti vivi a Milano per essere qui fucilati a piazzale Loreto? E infine: perché uccidere la Petacci? Ma basterebbe guardare le versioni di Audisio, di Lampredi e di Moretti ... sono tutte diverse l'una dall'altra. Audisio scrisse che Mussolini, di fronte al mitra, sbavava dal terrore e balbettava «Ma..., ma..., signor colonnello...». Lampredi invece affermò che Mussolini si aprì la giacca e gridò, virilmente: «Sparate al petto!». Moretti rivelò a Giorgio Cavalleri (scrittore e storico comasco assolutamente al di sopra di ogni sospetto di parzialità politica) che, prima di cadere sotto la raffica, il Duce gridò: «Viva l'Italia!». Potrei continuare, di contraddizioni come queste ne ho trovate a valanga e sono tutte elencate nel mio libro. Direi che le cose sono ormai chiare: Mussolini e la Petacci sono stati ammazzati per ordine di Londra, e non tanto per il carteggio Mussolini-Churchill, ormai non più in loro possesso, ma perché non potessero parlare. Churchill aveva molte cose da nascondere. Ma non la sua corrispondenza con il Duce del 1940, bensì il tentativo, posto in atto nel 1944, di spingere Hitler a cessare la resistenza in Occidente per rivolgersi tutti assieme contro il pericolo rosso, l'Armata di Stalin che, inesorabile, procedeva verso il centro e l'ovest dell'Europa. Un progetto disonorevole nei confronti di una potenza alleata i cui soldati erano morti (e continuavano a morire) a milioni, e che, se reso pubblico al mondo, avrebbe causato un vulnus irreparabile al prestigio della Gran Bretagna". Ecco la conferma negli scritti di Teodorani. Un piano saltato per l'incapacità di alcuni, l'estrema scaltrezza di altri, la malafede di altri ancora, e una buona dose di destino avverso. "Oggi finalmente posso sciogliere ogni dubbio e riconoscere la lealtà di chi fu leale, anche se questo aggraverà la responsabilità di altri". Comincia così Vanni Teodorani a svelare quei segreti rimasti nel cassetto per tanti anni. In maniera chiara ed incontrovertibile spiega così il piano degli USA, che "prevedeva [...] la sparizione, pressoché misteriosa, di Mussolini". Il Duce, secondo il piano, doveva essere consegnato "ad un organo collettore superiore, un ufficiale di collegamento americano, che avrebbe dovuto immediatamente avviarlo ad un determinato campo di aviazione, da dove sarebbe subito stato imbarcato per la Sardegna". La missione era segretissima, com'è facilmente immaginabile. Nemmeno i reparti americani non direttamente coinvolti nella missione dovevano saperne alcunché. "Tutta l'operazione - scrive ancora Teodorani - si basava sui servizi segreti americani operanti nella RSI e, per una doverosa e indispensabile articolazione capillare, sui presidi e le stazioni della Guardia di Finanza". A fare da coordinatore tra Guardia di Finanza e americani, il nucleo speciale della Guardia di Finanza operante con il CIC e il suo comandante Emilio Lapiello. Un piano che sembra perfetto, ma che non riesce. Un po' a causa dell'incapacità di qualcuno, un po' per la malafede di qualcun altro, ancora per gli strani scherzi che il destino a volte gioca alle persone. Certo è davvero curioso che gli inglesi siano stati più abili degli americani. "Si, sono stati più abili", ci conferma ancora Luciano Garibaldi nella lunga intervista che ci ha concesso e sulla quale torneremo ancora domani. "Gli americani non avevano grandi agenti, basti vedere che Peter Tompkins, di cui parlavamo prima, era un giovane di 24 anni e comandava l'Oss ... si, gli inglesi erano decisamente più preparati ed abili". E questo per ciò che riguarda l'incapacità di qualcuno. Per quanto invece attiene alla malafede di altri, non si capisce perché Wolff non abbia messo a parte Mussolini di ciò che si preparava all'orizzonte. Tra parentesi, le rivelazioni di Teodorani spiegano anche lo strano contegno di Flamminger a Musso in quel 27 aprile, quando se ne andò a parlamentare con i partigiani e tornò dopo sei ore. Spiega dunque perché le mitragliatrici tedesche quel giorno non sbaragliarono in un istante i quattro partigiani accampati a Musso. "I tedeschi hanno tradito Mussolini - dice ancora Luciano Garibaldi, e conforta così tristemente ciò che scrivevamo appena un mese fa - Wolff aveva preso accordi ben precisi, per questo fu salvato da Norimberga". Ancora c'è molto da dire, ma la carta non è infinita e dunque diamo appuntamento ai nostri lettori a domani, quando tireremo le somme di questa brutta vicenda che però, finalmente, fa chiarezza su questa buia pagina della nostra storia.
Carteggio Mussolini-Churchill, ancora un gran dibattere, scrive Emma Moriconi il 14 aprile 2015 su "Il Giornale D'Italia". Misteri di settant'anni fa. Lo storico Luciano Garibaldi risponde a Mieli e Franzinelli: "Il Corriere si sbaglia". Sono passati 70 anni e ancora se ne parla vivacemente. Ci riferiamo alla vicenda del carteggio tra Benito Mussolini e Winston Churchill su cui è appuntata l'attenzione degli storici ormai da decenni. Di recente Mimmo Franzinelli ha pubblicato un volume dal titolo "L'arma segreta del Duce. La vera storia del Carteggio Chirchill-Mussolini", Rizzoli editore, secondo cui lo scambio di lettere segrete tra i due non vi fu mai. Tesi a cui sembra aderire anche Paolo Mieli attraverso un suo intervento sul Corriere della Sera. Gli storici sul tema sono divisi: di idea opposta sono personalità come Fabio Andriola ("Carteggio segreto Churchill-Mussolini"), Arrigo Petacco ("Dear Benito, Caro Winston"), Ubaldo Giuliani-Balestrino ("Il Carteggio Churchill-Mussolini alla luce del processo Guareschi"), Luciano Garibaldi che nel suo "La pista inglese (Mussolini: the secrets of his death nell'edizione americana del 2004) sostiene che "non fu certo per quel vero o presunto carteggio che il premier britannico ordinò la soppressione del Duce e della sua amante e confidente Claretta Petacci impedendo che potessero essere dopo il loro arresto" e specifica che "erano infatti ben altri i documenti, le carte, le testimonianze che confermano la 'pista inglese' nell'omicidio di Mussolini e di Claretta". Ed è proprio Garibaldi a rispondere, dalle colonne del Sussidiario, al Corriere. Parte spiegando come "nel suo fondamentale studio, Fabio Andriola ricorda che il 10 maggio 1945 Churchill chiese al feldmaresciallo Alexander che venisse ordinata un'inchiesta sulla morte di Mussolini e, in particolare, sul perché fosse stata uccisa anche la Petacci". Poi lo storico argomenta come il Clnai "si era appena assunta la responsabilità di quella esecuzione capitale" specificando che esso agiva in nome e per conto del Governo Bonomi, del Governo del Luogotenente Umberto di Savoia". Insomma, continua Garibaldi, "l'onta di quell' 'atto di giustizia', o di quel duplice assassinio, a seconda dei punti di vista, ricadeva sul debole Governo, sul debole sovrano di Roma", dunque "chi avrebbe potuto sospettare della lealtà britannica? Tanto valeva indossare i panni di un cavaliere della tavola rotonda". Lo storico ripercorre quindi come addivenne alla consapevolezza che dietro l'assassinio di Mussolini e di Claretta ci fossero gli inglesi, partendo dall'ipotesi avanzata da Vanni Teodorani (il lettore che ci segue sa bene di chi parliamo) sulla rivista "Asso di Bastoni", ipotesi a cui Garibaldi aderì da subito e alla quale dedicò gli studi di tutta la sua vita, argomentando con precisione ogni tesi sostenuta nel suo "La pista inglese", poi confermata ancora dallo stesso Teodorani di recente grazie alla pubblicazione dei suoi "diari", ai quali abbiamo dedicato un lungo speciale. Garibaldi quindi riferisce di come Churchill non prese in molta considerazione lo scritto di Teodorani, mentre reagì con una secca smentita ad un'inchiesta pubblicata dal nostro Giornale d'Italia nel marzo del '47: in quell'occasione negò con forza di aver mai scritto lettere a Mussolini facendo eccezione naturalmente per quelle pubblicate nei suoi libri "e risalenti agli anni in cui era un ben pagato collaboratore del Popolo d'Italia". Gli organi di stampa italiani ripresero la notizia e Churchill, nel '51, diramò un comunicato simile per frenare la polemica. In realtà, continua Garibaldi, nella misteriosa cartella del Duce non c'erano lettere autografe dei due statisti, ma "relazioni dettagliate dei contatti segreti che continuarono ad effettuarsi durante il periodo della RSI", contatti ricostruiti proprio da Garibaldi nel suo "Vita col Duce". Ma chi prese l'iniziativa di avviare questi contatti? Garibaldi continua: "Secondo Fabio Andriola, 'nel 1944 due elementi potevano indurre Mussolini e Churchill a riaprire il canale del dialogo: da un lato, il prorompere dell'Armata Rossa in Europa e la necessità di fare argine al nuovo imperialismo sovietico; dall'altro, l'estrema debolezza politica e militare di Mussolini potrebbero avere indotto quest'ultimo a fare pesanti pressioni sul premier inglese, ricattabile per le proprie proposte di qualche anno prima, per ottenere condizioni di pace non umilianti'. Dunque, l'iniziativa potrebbe essere partita da Mussolini". In quest'ottica assume rilievo anche un'altra ipotesi di Andriola, quella relativa al 25 luglio secondo la quale l'OdG che sfiduciò il Duce non fu da lui molto osteggiato perché aveva in mente una certa strategia. D'altra parte, dice ancora Garibaldi, potrebbe essere stato Churchill ad avviare la cosa "nel tentativo di porre un freno all'avanzata dell'Armata Rossa". In poche parole, il Duce poteva riuscire (ed era il solo a poterne avere qualche speranza) a convincere il Fuhrer a cessare la resistenza in Occidente. Le prove? Secondo Garibaldi sono nelle registrazioni telefoniche dei colloqui tra Benito e Claretta, pubblicate da Ricciotti Lazzero in "Il sacco d'Italia". Ed ecco ciò che premeva a Churchill: che non si venisse mai a sapere "che aveva tramato contro Stalin e la Russia, cioè che aveva cercato di pugnalare alla schiena l'Armata Rossa i cui combattenti morivano a decine di migliaia pur di sconfiggere Hitler". Non solo: Garibaldi parla di un libro che uscirà a breve dal titolo "Guareschi era innocente: ecco le prove", ancora di Ubaldo Giuliani-Balestrino. Egli nel volume sopra citato mostrava come "le due lettere di De Gasperi all'alto ufficiale dell'aviazione britannica per sollecitare il bombardamento della periferia e dell'acquedotto di Roma nel '44 erano vere". Prove che ribadisce anche nel nuovo lavoro. Quelle lettere furono giudicate false dal Tribunale di Roma, che condannò Guareschi per averle pubblicate sul Candido.
Mussolini-Churchill, storia (complicata) di un carteggio. Un libro di Enzo Antonio Cicchino e Roberto Colella fa il punto su una delle questioni insolute del Novecento 25 marzo 2016. Cinquant'anni di ricerche e di testimonianze, tra vecchie carte e strani segreti: un'indagine storica dettagliata e appassionante. Si chiama "Mussolini-Churchill, il carteggio - Indagine su uno dei grandi misteri del Novecento", ed è un libro scritto a quattro mani da Enzo Antonio Cicchino e Roberto Colella, edito dalla Mursia. Un lavoro accurato e preciso che ripercorre cinquant'anni di vicende sulle quali ancora resiste un fitto mistero. È storia, prima di tutto, perché parliamo di una indagine rigorosissima su un caso epocale: il famoso carteggio tra Mussolini e Churchill è esistito? E di cosa parliamo esattamente? Di certo è uno dei temi più dibattuti degli ultimi settant'anni e la ragione di tanta attenzione è data dal fatto che si tratta di questioni importanti per la storia del nostro Paese ma che coinvolge, ovviamente, anche altre realtà internazionali, prima tra tutte l'Inghilterra. Ma il libro che proponiamo ai nostri lettori non è solo questo: è anche un avvincente viaggio nei meccanismi intricatissimi di mezzo secolo, che attrae e cattura l'attenzione perché sembra un complicatissimo giallo letterario: un giallo lo è di certo, e non solo letterario. Ma la bellezza, la forza di questo volume sta in due fattori: il primo, come dicevamo, l'indagine storica accurata capace di mettere in luce anche moltissime contraddizioni; il secondo è appunto il dato letterario: è un libro che divori, nonostante la complessità delle vicende che va a esaminare, ingarbugliate, intricatissime, perché possiede il ritmo di un libro d'avventura, che a tratti assume le caratteristiche di un thriller. Si, perché è un susseguirsi di colpi di scena, sapientemente messi in fila dagli autori, tra personaggi i cui caratteri sono messi in evidenza quasi fossero protagonisti di una piece teatrale, al punto che sembra di vederseli scorrere sotto gli occhi, uno ad uno. Personaggi che troppo spesso i libri di storia tralasciano e che furono protagonisti proprio di quelle ore di fine aprile 1945 e, rievocati dalla penna degli autori, tornano a fornire un contributo per la realizzazione di un quadro completo e di un'atmosfera, quella atroce di quei giorni di sangue appunto, così lontani da noi eppure così ancora vicini, troppo spesso trattati - storicamente parlando - in maniera inadeguata, viziata direi. Ci sono le emozioni, per esempio: la sensazione che tutto era perduto, quella sorta di rassegnazione triste che contrassegnò la fine di una lunga e complessa pagina di storia italiana. Cicchino e Colella spiegano al lettore le ipotesi che nel tempo sono state fatte circa la fine di quelle carte, presentano i personaggi, raccontano la complicata vicenda di queste carte misteriose e riferiscono cose che fanno riflettere. Denunciano, gli autori, tutto ciò che non torna, lo fanno sinceramente e spassionatamente, ma con determinazione, in omaggio a una esigenza quanto mai attuale di verità: una verità che prima o poi, forse, verrà alla luce: ma questo potrà accadere solo quando la storia e la politica avranno preso le rispettive corrette strade, che sono necessariamente separate quando la distanza di tempo dagli eventi di cui si parla è tale e tanta. Finché la politica e la storia viaggeranno sulla stessa strada sarà difficile tirar fuori il coniglio dal cilindro. Anche perché i conigli, si sa, scappano...
La morte di Mussolini, la pista inglese e quella americana, scrive Emma Moriconi il 25 agosto 2016 su "Il Giornale D'Italia". La storia attraverso i documenti. Una conversazione molto istruttiva con Luciano Garibaldi sul recente speciale di Storia in Rete. "Ma perché al cancello di Villa Belmonte e senza testimoni? I gerarchi li fucilarono a Dongo in piazza, e lì anzi radunarono la gente per farglieli vedere, qui invece bloccarono le strade, per non far vedere niente a nessuno. Che bisogno c'era dalla casa di venire qui? Perché non fare venti metri, visto che non c'era nessuno e bastava chiudere due stradine? Perché? Per andare lontano da là. Ho sempre chiesto al Pisanò: a chi volevano far vedere la scena? Perché fare un chilometro e venire fin qua? Forse una ragione ci potrebbe essere. Non è ancora stato pubblicato un lavoro di due ricercatori svizzeri dilettanti. Essi sono entrati nell'archivio della CIA e hanno trovato una foto scattata quel giorno lì. Sulla foto ci sono i tre partigiani insieme a un personaggio molto distinto, alle loro spalle si vede una macchina con la targa consolare della Svizzera. Con la targa sono risaliti al personaggio che aveva la macchina: era un colonnello americano mandato a Lugano come civile, e aveva l'incarico di distribuire gli aiuti ai partigiani. Quel giorno lì era qui. Se è venuto è perché voleva vedere se era stato fatto quello che si doveva fare. Perché a quanto pare sia gli americani che gli inglesi avevano interesse che il Duce finisse lì, e per fargli vedere la scena più solenne li portarono lì". Ricordate questo stralcio? Sono parole di don Luigi Barindelli, parroco di Mezzegra. Parole incise su di una telecamera e riportate a voi lettori, testualmente, su queste colonne, tempo fa. Si ricollegano a quanto ha pubblicato nei giorni scorsi la rivista Storia in Rete, che ci ha raccontato delle importanti ricerche di due studiosi che aprono alla possibilità di una "pista americana" sulla morte del Duce. Ne parlo con Luciano Garibaldi, che quel giorno di aprile mi portò da don Barindelli, a Mezzegra. Vorrei avere da Luciano un commento su questo speciale. Ci parlo a lungo, vi racconto cosa ci diciamo al telefono. "La presenza ad Azzano, dunque a pochi passi dal luogo dove furono assassinati Mussolini e la Petacci, e proprio in quelle drammatiche ore, di Valerian Lada Mokarski, il numero due dei servizi segreti americani in Europa, è la conferma che vi fu una sfida, tra inglesi e americani, a chi arrivava prima ad impossessarsi delle preziose carte di Mussolini a proposito delle quali il Duce aveva detto, in più di un’occasione, ai suoi più stretti collaboratori che valevano 'una guerra vinta'. Su quella sfida ho imperniato, a suo tempo, il mio libro Mussolini. The secrets of his death, pubblicato nel 2004 a New York da Enigma Books, e il cui capitolo centrale – non a caso – ha per titolo How the British beat the Americans". Ce lo ricordiamo bene - dico a Luciano - "La pista inglese"... E siamo certi di un cosa: anche gli Americani davano la caccia al Duce... "Tra le clausole del trattato di armistizio - dice lui - vi era la consegna di Mussolini vivo al comando del XV Gruppo d'Armate dipendente dal generale americano Mark Clark, che, verso la fine del mese di aprile 1945, aveva posto la sua base a Siena. Ma i servizi speciali britannici non erano d'accordo. E si mossero con straordinaria efficienza e rapidità non appena si diffuse la notizia che Mussolini, nel primo pomeriggio di venerdì 27 aprile, era stato fatto prigioniero dai partigiani della 52.a Brigata «Garibaldi» sulla piazza di Dongo". E mi viene in mente Vanni Teodorani. Lo ricordate, non è vero? Ne abbiamo parlato a lungo, anche con Luciano, su questo quotidiano. "Le conferme più importanti - dice il mio interlocutore infatti - sono le memorie di Vanni Teodorani, pubblicate nel '54 sul settimanale «Asso di Bastoni». In quell'occasione, Teodorani fu il primo in assoluto, nella storiografia sulla fine del Fascismo, ad avanzare il sospetto della mano britannica nell'uccisione del Duce: Salvatore Guastoni - scrisse Teodorani riferendosi all’agente americano dell’OSS di origini italiane - mi assicurò che Mussolini sarebbe stato accolto in onorata prigionia di guerra dalle Forze Armate degli Stati Uniti, senza essere diviso né dalla scorta, né dal seguito: chi desiderava, poteva seguirlo per servirlo in prigionia. Nessuna offesa alla sua incolumità, e soprattutto alla sua dignità, sarebbe stata, né allora né in seguito, consentita. Teodorani si riferisce al summit svoltosi nella Prefettura di Como tra esponenti della RSI e agenti americani che accompagnavano esponenti del CLN. A quel summit non partecipò alcun agente direttamente dipendente dagli inglesi. I presenti erano tutti o al servizio degli americani, o alle dipendenze del governo di Roma".
"Dalle carte segrete del Duce" e "Quaderno 1943-1945". Le testimonianze di Peter Tompkins e Vanni Teodorani. Il carteggio con Churchill resta il fulcro della vicenda più intricata che la storia del Novecento ricordi. E poi Luciano dice dell'altro: "Che la presa di possesso politica del territorio italiano fosse stata fortemente voluta, fin dall'inizio, da Churchill, lo denuncia senza remore uno dei più autorevoli agenti americani in Italia durante il secondo conflitto mondiale, Peter Tompkins che nel suo libro «Dalle carte segrete del Duce» (Marco Tropea editore, 2001) ammette senza mezzi termini: «Fu molto facile, per gli inglesi, evitare che gli americani mettessero le mani sul Duce. Furono partigiani italiani a fare tutto, ma fu un agente del servizio segreto britannico, di origine italiana, che li spronò ad agire per chiudere in fretta il capitolo Mussolini. (...) Quanto alla morte di Claretta, non ha senso se non la si mette in rapporto con la corrispondenza segreta Mussolini-Churchill: lei sapeva e perciò doveva essere tolta di mezzo»". Già, ne abbiamo parlato spesso. Si trattò di una testimonianza esplosiva. "Ma non è tutto. «Perché - si chiede ancora Tompkins - un accordo fra Churchill e Mussolini stretto durante gli incontri segreti avvenuti a Porto Ceresio e sul Lago d'Iseo doveva essere così radicalmente cancellato da imporre l'uccisione dello stesso Mussolini e di Claretta Petacci? La reputazione di Churchill sarebbe stata gravemente danneggiata se si fosse venuti a sapere che aveva complottato con il Duce del fascismo e con alcuni generali nazisti in Italia per far sì che italiani e tedeschi unissero le loro forze a quelle degli Alleati occidentali per combattere tutti insieme contro l'URSS, specie per chi sapeva che erano stati i 20 milioni di morti sovietici nella Seconda guerra mondiale a salvare l'Europa dal dominio di Hitler e dei nazisti». Ma io insisto su Teodorani: sarà che i suoi scritti mi hanno colpita profondamente... Quelle memorie, pubblicate dai figli e consegnatemi personalmente da sua figlia Anna di recente, sono una conferma della "pista inglese". "Sì - mi dice Luciano - il Quaderno 45/46, edito dalla Stilgraf di Cesena. Nei diari si legge che l’autore, a fine aprile ’45, partecipò ad una missione con lo scopo di raggiungere il Duce in fuga da Milano e consegnarlo all’OSS americano d’intesa con i servizi segreti del Regno del Sud (il SIM, Servizio Informazioni Militari)". I nostri lettori sanno bene chi è Vanni Teodorani, l'uomo che sposò Rosina Mussolini, figlia di Arnaldo, l'amato fratello di Benito: lo dico a Luciano. "Per chi non sapesse, hai voglia di riepilogare brevemente?", gli chiedo. "Vanni era nato a Torino nel 1916, divenne un apprezzato giornalista fin dalla più giovane età e sposò Rosina Mussolini. Partecipò, non ancora ventenne, alla guerra d’Africa come direttore del Corriere Eritreo e capitano di Cavalleria impegnato sul campo contro i ribelli. Assunse poi la direzione de La Prealpina di Varese, fu corrispondente di guerra nel corso del secondo conflitto mondiale (Capo Matapan ed altri storici eventi), aderì alla RSI dove assunse l’incarico di capo della segreteria militare del Duce e sottocapo di Stato Maggiore della Divisione San Marco, incaricato di numerose missioni in Italia e all’estero. Riuscito a nascondersi dopo la sconfitta del 25 aprile, tenne il diario che è stato ora pubblicato integralmente per volontà dei figli". Vanni Teodorani è certamente personaggio chiave per capire molte faccende, interloquisco con il mio amico al telefono. "Certamente - dice lui, e continua - Come ha scritto Giuseppe Parlato nell’introduzione al volume di memorie, «Teodorani aveva trattato con gli americani per la resa dei capi fascisti senza spargimenti di sangue. L’accordo, stipulato con l’agente Guastoni dell’OSS e con il comandante della Regia Marina Giovanni Dessy, prevedeva la creazione di una zona smilitarizzata di raccolta dei reparti fascisti in Val d’Intelvi». Qui i vertici di Salò avrebbero atteso gli Alleati riuscendo così a sottrarsi alle vendette comuniste. Ma il piano fallì e lo stesso Teodorani, probabilmente per una spiata, fu catturato e violentemente malmenato dai partigiani “garibaldini”, riuscendo poi fortunosamente ad evitare il plotone d’esecuzione". Più volte, si. Penso - e lo dico, a Luciano - che Vanni sia rimasto tra noi ancora per un po' perché aveva una missione da portare a termine: raccontare. Che bella figura di uomo, che dignità, che poesia nelle sue parole... Chi non ha ancora letto quel diario lo faccia. È una testimonianza di storia ma anche di amore. Una lunga e misteriosa serie di eventi sui quali bisogna fare chiarezza. Mussolini e i Caduti del Nord furono vittime delle discordie tra gli Alleati "Occidentali contro Sovietici, ma soprattutto Inglesi contro Americani", dice lo storico. "Riepiloghiamo insieme la rivelazione dei diari di Teodorani?", chiedo a Luciano. "Ne abbiamo già scritto", mi dice lui. Ma io insisto, perché oggi, dopo lo speciale di Storia in Rete, abbiamo qualche elemento di riflessione in più. Luciano mi accontenta: "Oggi finalmente - si legge nel «Quaderno» di Teodorani - posso sciogliere ogni dubbio. Mussolini, e tutti i Caduti del Nord, sono morti vittime, più che altro, delle discordie fra gli Alleati: occidentali contro sovietici, ma soprattutto inglesi contro americani. Il piano segreto USA per il recupero di Mussolini si innestava nella più vasta intesa imperniata sulle trattative di Wolff che prevedevano la regolare occupazione delle città abbandonate dalle truppe germaniche, senza consentire sedizioni di piazza. Tutto non funzionò sia per le intemperanze dei comunisti, e dei CLN da essi dominati, sia per l’equivoco contegno di Wolff che gettò disordine e scompiglio nelle nostre file. Saltarono così date e sincronia. Per esempio Milano, che doveva essere presa in consegna dagli americani il giorno 28 aprile, fu evacuata la notte del 26, e quando gli americani arrivarono, non fu più possibile rispettare il piano precedente, a tutto vantaggio dei bolscevichi». Più avanti, nel brano che ha per titolo «Il piano americano sul Duce», Teodorani scrive: «Il piano USA, tenuto gelosamente segreto, prevedeva, con strana analogia con quanto era successo il 25 luglio 1943, la sparizione pressoché misteriosa di Mussolini. Ne era responsabile direttamente il colonnello Snowden, del Counter Intelligence Corps (CIC) dell’esercito americano. […] Egli avrebbe dovuto immediatamente avviarlo a un determinato campo di aviazione da dove sarebbe subito stato imbarcato per la Sardegna, con un volo sul tipo di quello del Gran Sasso. Nessuna notizia sarebbe stata diramata, di modo che il Governo di Roma, gli Alleati e le stesse autorità americane non interessate al piano non avrebbero, per il momento, saputo niente. Tutta l’operazione si basava sui servizi segreti americani operanti nella RSI e sulla Guardia di Finanza. […] Al Nord con i gladi, al Sud con le stellette, la Guardia di Finanza costituì sempre un organismo unico ed era perciò perfettamente normale che, nel mare magnum generale, si pensasse ad essa come a qualcosa di efficiente e fidato. Il compito di coordinamento generale tra Guardia di Finanza e americani, al fine di garantire un perfetto collegamento indispensabile alla buona riuscita di un piano così complesso, fu assunto dal nucleo speciale della GdF operante con il CIC, e personalmente dal suo comandante Emilio Lapiello». Invito Luciano a proseguire. "Ma non ti stanchi mai?", mi chiede. "No, certo che no", gli rispondo, figuriamoci. "Ancora Teodorani: «Quando il nucleo del CIC che doveva compiere la missione partì per il Nord, il capitano della GdF Emilio Lapiello, che tanta parte aveva avuto nell’organizzare e articolare il piano di salvezza del Duce e che avrebbe dovuto ricoprire una parte decisiva nella fase esecutiva, non poté partire con gli altri per un incidente stradale occorsogli sulla Roma-Napoli, che lo pose fuori servizio proprio nel momento cruciale. Si interruppero così i contatti diretti tra il CIC e la Finanza operante al Nord". Chi causò l'incidente resta un mistero. Comunque, un classico, nelle storie dei servizi segreti. Ma continuiamo a leggere il racconto di Teodorani: «Come è noto i partigiani di Dongo (“Bill” e “Pedro, n.d.r.), fermato il Duce, lo rimisero al più presto al brigadiere della Guardia di Finanza di Germasino, Antonio Spadea. Cosa successe, da quel momento? […] Ho assodato, senza tema di smentite, che quel sottufficiale della GdF doveva consegnare il prigioniero ad un tenente suo diretto superiore operante in quella zona. Ma il tenente, De Laurentis, in precedenza paracadutato dal Sud, non arrivò, o meglio, arrivò tardi. Nel frattempo, con l’intenzione di affidare tanto prigioniero ad una tutela più sicura e definitiva verso gli incombenti rossi, il brigadiere di Germasino aveva provveduto a consegnarlo al capitano Alleato che operava nel settore e che per primo aveva avuto notizia dell’avvenuta cattura». Una fotografia con i due corpi, davanti al cancello di Villa Belmonte, e nemmeno una goccia di sangue a terra. Alessiani aveva ragione. Semmai servisse, ecco l'ennesima prova concreta e incontrovertibile che la morte del Duce e della Petacci risale a molte ore prima di quanto si è detto per decenni. "Ma parliamo dell'identità di quel capitano", insisto con Luciano. Sono un pochino pressante, lo ammetto. Ma lo ascolterei per ore. "Teodorani - mi dice - ha inserito nel suo diario un titolo che parla da solo («Bogomoloff e Albione imposero l’assassinio») e ha scritto un memoriale che è uno straordinario documento storico e una clamorosa prova definitiva della validità della “pista inglese”. Leggiamo: «Quel capitano, però, non apparteneva al Secret Service americano, ma al servizio informativo britannico. L’errore del brigadiere era da prevedersi, giacché, per un normale sottufficiale della Finanza, gli Alleati erano un tutto: le stesse caratteristiche, gli abiti borghesi, l’accento inglese contribuivano ad alimentare una simile confusione. L’ufficiale in oggetto, preso in consegna il prigioniero, lo trasferì a nuova sede, sottraendolo al controllo della Guardia di Finanza, e quindi degli americani, e quando, con malcelata fretta (forse sapevano?) arrivarono i comunisti di Walter Audisio, di cui egli avrebbe avuto il dovere di impedire ogni movimento, non trovò di meglio che allontanarsi senza profferire sillaba. Quello che poi successe al Duce è noto, anche se vi sono ancora perplessità sul nome dell’effettivo esecutore materiale». Quanto al Bogomoloff nominato nel titolo, trattasi del diplomatico sovietico che da Roma impartiva le disposizioni di Mosca a Togliatti, capo del Partito Comunista Italiano. Il quale, non a caso, nel discorso alla radio del 26 aprile, diede per scontata l’uccisione di Mussolini previa semplice identificazione. Non c’è dubbio. Vanni Teodorani aveva perfettamente intuito la verità: un accordo inconfessabile tra i comunisti e i servizi segreti inglesi per far tacere per sempre Mussolini, ma anche Caretta Petacci, al corrente di tutti i suoi segreti. Tutta da leggere la conclusione scritta da Teodorani nel suo diario: «Ancora una volta, come in Spagna, come in Etiopia, dove il dirigente comunista Barontini organizzava bande ribelli contro di noi, l’Imperialismo inglese e il Komintern avevano agito in perfetta intesa, e gli sconfitti, eccezionale nuovissima alleanza, erano stati, insieme, gli italiani e gli americani». Decido che per oggi basta così. Luciano sa, però, che tornerò a far squillare il suo telefono per parlare ancora con lui. Gli dico un'ultima cosa, che credo sia fondamentale per tirare le somme. "Luciano, sai cosa penso? Che al di là di tutto abbiamo una prova, ancora una prova - semmai ve ne fosse bisogno - che il buon Aldo Alessiani aveva ragione". "Ma noi lo sapevamo già", mi dice lui. "Certo che si - gli rispondo -. Ma una foto che ritrae i corpi di Mussolini e della Petacci davanti al cancello di villa Belmonte senza una goccia di sangue a terra è definitiva, sarà il caso che la storiografia ufficiale ne prenda atto". Possiamo gettare nel secchio i libri di storia scritti fino ad ora, insomma. Qualcuno dovrà mettersi in testa che bisognerà riscriverli daccapo. E non solo per "correggere" l'ora e il luogo della morte di Benito Mussolini.
Piazzale Loreto, ecco la protostrage. Tratto dal volume "Mussolini, sangue a Piazzale Loreto", Herald Editore, scrive Luciano Garibaldi l'11 novembre 2016 su "Il Giornale D'Italia. L'orribile pagina scritta nell'aprile 1945 ha origine da un delitto commesso in quello stesso luogo. Il brano che segue è un estratto dal volume "Mussolini, sangue a Piazzale Loreto", di Luciano Garibaldi e Emma Moriconi, Herald Editore. Parliamo dei noti fatti risalenti all'aprile 1945, quando Mussolini, la Petacci e i Fascisti fucilati a Dongo vennero oltraggiati nella piazza milanese, un luogo simbolo perché proprio lì erano stati uccisi quindici partigiani a seguito di una rappresaglia. Quindici, come quelli fucilati a Dongo. E questa è storia nota. Ciò che è meno noto è perché i quindici partigiani vennero uccisi, è quella che Garibaldi definisce la "protostrage". Il libro, inoltre, è ricchissimo di fotografie inedite di quel giorno. Di seguito, dunque, un estratto dal volume, uscito lo scorso 29 luglio, è oggi disponibile e costituisce un contributo di verità su una pagina orribile della nostra storia. "Milano, 8 agosto 1944, attorno alle ore 8, viale Abruzzi, angolo piazzale Loreto: una terrificante esplosione devasta un camion tedesco dinnanzi al quale, controllati da alcuni militari della Wehrmacht, si affollano diecine di civili (padri, mamme, nonni, bambini) accorsi, come ogni mattina, per fare provvista di latte che un anziano e bonario sottufficiale tedesco da tempo distribuisce gratuitamente assieme a viveri e generi di prima necessità. Sul selciato si accasciano nove morti e un numero imprecisato di feriti, sei dei quali moriranno nei giorni seguenti. La verità storica su quella carneficina, su chi collocò l’ordigno, su chi decise quell’operazione, non è stata mai raggiunta. Sono state pubblicate diecine di ricostruzioni nessuna delle quali rafforzata da convincenti riscontri fattuali. Soltanto ipotesi, nettamente contrastanti l’una con l’altra, e viziate da evidenti pregiudizi politici: bomba comunista secondo gli storici «di destra»; bomba fascista secondo gli storici «di sinistra», anche se, francamente, è un po’ arduo dar credito a questa seconda ipotesi. Peraltro, la consultazione dei giornali dell’epoca non aiuta ad uscire dalle contraddizioni perché le notizie erano frammentarie e sommarie onde non esasperare più di tanto l’opinione pubblica. Migliore risultato non è possibile raggiungere confrontando i molti libri di storia che riferiscono quell’episodio. Tra le ricostruzioni reperibili sulla rete, abbiamo scelto quella riportata nel sito dell’Unione Nazionale Combattenti della RSI di Milano. La bomba gappista (da GAP, Gruppi di Azione Patriottica), era esplosa tra la folla compiendo una strage che era costata la vita a cinque soldati tedeschi e tredici civili italiani fra i quali una donna e tre bambini, rispettivamente di tredici, dodici e cinque anni. Ecco i nomi dei civili italiani che morirono sul colpo nell'attentato gappista o nei giorni successivi, tutti per "ferite multiple da scoppio di ordigno esplosivo": Giuseppe Giudici, 59 anni; Enrico Masnata, 21 anni; Gianfranco Moro, 21 anni; Giuseppe Zanicotti, 27 anni; Amelia Berlese, 49 anni; Ettore Brambilla, 46 anni; Primo Brioschi, 12 anni; Antonio Beltramini, 55 anni; Fino Re, 32 anni; Edoardo Zanini, 30 anni; Gianstefano Zatti, 5 anni; Gianfranco Bargigli, 13 anni; Giovanni Maggioli, 16 anni. Rimasero inoltre feriti più o meno gravemente: Giorgio Terrana, Letizia Busia, Luigi Catoldi, Maria Ferrari, Ferruccio De Ponti, Luigi Signorini, Alvaro Clerici, Emilio Bodinella, Antonio Moro, Francesco Echinuli, Giuseppe Formora, Gaetano Sperola e Riccardo Milanesi. Dei cinque soldati tedeschi uccisi, i cui nomi non furono annotati nei registri civili italiani, è rimasta memoria solo di un maresciallo di nome Karl, che per la sua mole era stato soprannominato dai milanesi di Porta Venezia "el Carlùn" (il Carlone). Il braccio di ferro tra le autorità fasciste, contrarie alla rappresaglia, e i Tedeschi. E Mussolini tentò di evitare il massacro. La prova è negli atti del processo politico subito nel dopoguerra da Vincenzo Costa. Lo storico Franco Bandini, tra i massimi storici del fascismo, così lo descrisse in un articolo pubblicato su «Il Giornale» il 1° settembre 1996: «Questo anziano maresciallo tedesco, tanto apprezzato e ben voluto, si era guadagnato quel bonario nomignolo non tanto perché era addetto alla distribuzione dei viveri alla popolazione milanese, ma perché, spinto esclusivamente dal senso di umanità, quando poteva (ciò significa a titolo personale) con un piccolo camion faceva il giro delle campagne limitrofe alla città e si riforniva di un po’ di latte; finito il giro di raccolta, rientrava in città, parcheggiava, come sempre, all’angolo fra piazzale Loreto e viale Abruzzi e qui veniva subito attorniato da padri e madri che si dividevano quel latte con quella fratellanza che proviene dalla comune disgrazia». Ma riprendiamo la lettura dal sito dell’UNCRSI: Quel nomignolo, Karl, maresciallo di fureria, se l'era guadagnato fermandosi ogni mattina, all'angolo fra viale Abruzzi e piazzale Loreto, con il suo camion per distribuire alla popolazione verdura, patate e frutta che la "Staffen Propaganda” acquistava al mercato di Porta Vittoria, aggiungeva agli avanzi delle mense militari e regalava ai milanesi, tutti, a quell'epoca, dannatamente a corto di viveri. Un'operazione di "public relations", si direbbe oggi, intrapresa dalle Forze Armate tedesche nei confronti dei civili e che, dati i tempi di fame, aveva riscosso un successo immediato. Troppo, per la sensibilità antifascista dei Gap di Milano. Il risultato fu che, la mattina dell'8 agosto 1944, i terroristi del Partito comunista si mescolarono alla piccola folla che si accalcava come di consueto davanti alle ceste del "Carlùn" e infilarono in una di queste la bomba ad alto potenziale che, poco dopo, avrebbe seminato la strage indiscriminata: 18 morti e 13 feriti, quasi tutti poveracci milanesi. Diciotto morti e tredici feriti innocenti, tutti assolutamente dimenticati, abrogati, cancellati dalla memoria storica, politica e giudiziaria italiana. Come se fossero indegni di ricordo, di pietà, di giustizia. Figuriamoci se qualcuno ricorda ciò che accadde fra il massacro e la rappresaglia. Eppure, in quelle ore disperate, mentre la gestione dei rapporti fra militari tedeschi e popolazione passava dalle "public relations" della “Staffen Propaganda” alla Gestapo del capitano Theodor Saevecke, si impegnò un braccio di ferro durissimo fra le autorità fasciste, contrarie alla ritorsione, e i militari tedeschi inferociti, che non volevano sentire ragione. Si oppose il prefetto Piero Parini, che arrivò a minacciare le dimissioni; si oppose il federale Vincenzo Costa; si oppose Mussolini, intervenendo direttamente sul maresciallo Kesselring e su Hitler. La prova è, tra l'altro, negli atti del processo politico subito nel dopoguerra da Vincenzo Costa il quale, nel suo diario ("Ultimo federale", Il Mulino, 1997) ricorda: «Alle 14 (del 9 agosto, ndr) mi trovavo nell'ufficio del Capo della Provincia quando arrivò una nuova telefonata del Duce. Abbassato il ricevitore, Parini mi permise di ascoltare la voce inconfondibile del capo: «Il maresciallo Kesserling ha le sue valide ragioni. Ogni giorno nel Nord soldati o ufficiali tedeschi vengono proditoriamente assassinati... Ha deciso di attuare la rappresaglia. Ma sono riuscito a ridurre a dieci le vittime... Ho interessato il Führer…Spero ancora». Proprio mentre le autorità fasciste e i militari tedeschi si contendevano le vite degli ostaggi appese a un filo, i gappisti milanesi colpirono di nuovo. Anche questo è stato dimenticato. Alle 13 del 9 agosto 1944 un terrorista in bicicletta, armato di pistola, fulminò con un colpo alla nuca, davanti alla porta di casa, in via Juvara 3, il capitano della Milizia Ferroviaria Marcello Mariani, sposato con quattro figli. Mentre l'uomo agonizzava nel suo sangue, un secondo gappista, di copertura, ferì a revolverate Luigi Leoni, della Brigata Nera "Aldo Resega", che era sopraggiunto e si era gettato all'inseguimento del primo. L'uccisione di Mariani fu il fatto che decise la sorte dei quindici sventurati rinchiusi a San Vittore. [...]".
La “Tragica alba” di Mussolini. Dongo, ultimo atto: un premio letterario svela un film che si credeva perduto, scrive Alessandro Russo il 4 settembre 2016 su "Il Giornale d'Italia". L'associazione Artelario.it promuove cultura e dibattito sul Ventennio. Villa Vigoni a Loveno di Menaggio ospiterà il VI Premio letterario “Il ventennio... come eravamo. Gli ultimi giorni di Mussolini sul lago”. Iniziativa organizzata dall'associazione Artelario.it, guidata da Emanuele Pitto, per domenica 18 settembre. Nello stesso giorno saranno presentati i libri “Eravamo in bianco e nero” di Enzo Pifferi e Giuseppe Guin, “Gli archivi del silenzio” dello scrittore e storico comasco Roberto Festorazzi, “Fascisti” del giornalista Giordano Bruno Guerri. La presentazione della manifestazione avverrà sabato 17 settembre a Palazzo Manzi, luogo simbolo di Dongo, che custodì gli ultimi istanti di vita degli uomini della Rsi. La costruzione si affaccia proprio sul lago e sul vecchio molo del lago di Como. E lo fa dalla piazza principale, in modo sobrio e semplice, perfettamente rispondente ai dettami dello stile neoclassico. La curiosità è rivolta anche alla serata del 18 settembre, quando verrà infatti proiettato il cortometraggio di Vittorio Crucillà “Tragica alba a Dongo”. Documento davvero eccezionale poiché gli interpreti sono gli stessi testimoni oculari di quell'episodio storico. Tra loro sono presenti anche i coniugi De Maria, i contadini presso i quali il Duce del Fascismo passò le ultime ore della sua vita insieme a Claretta Petacci. Restaurato dal Museo del Cinema di Torino, il cortometraggio può finalmente svelare il suo valore artistico e storico. Girato nel 1950, cioè ad appena cinque anni dalla fine del Fascismo, il film racconta le ultime ore di Benito Mussolini: dall'arresto a Dongo alla notte passata con Claretta Petacci, fino all'isolamento e alla successiva fucilazione. Il lavoro di Vittorio Crucillà venne però subito censurato per volere di Andreotti. Tanto da subire l'oblio per sessantasei anni, finendo nei luoghi oscuri e dimenticati della storia del cinema. Due ex partigiani, Emilio Maschera e Ugo Zanolla, fra il 1949 e 1950, decisero di produrre un film sugli eventi che portarono alla fucilazione di Mussolini e della Petacci. Non si dimentichi che Maschera e Zanolla avevano fatto parte del PWB, cioè del “Psychological Warfare Branch”, ossia l'organo dell'apparato militare statunitense che si occupava della propaganda sui mezzi di comunicazione Italiani. Di fatto vennero soppressi tutti i giornali riconducibili alla Rsi e gli unici a poter pubblicare in materia giornalistica furono i sei partiti del CNL. I due produttori, molto improvvisati, presero contatto con i giornalisti Crucillà ed Ettore Camesasca. A loro sarebbe stata affidata la regia (Crucillà) e la sceneggiatura (Camesasca). Vittorio Crucillà avrebbe inoltre inciso la voce narrante. “Tragica alba a Dongo” è di sicuro un documento di notevole interesse. Nonostante l'ostracismo politico, il cortometraggio non ha assolutamente perso la sua valenza storica. Sarebbe un grave errore pensarlo. Così come, questa nuova presentazione pubblica, deve essere l'occasione per ripensare quei giorni anche alla luce delle successive ricerche storiche sviluppate da Giorgio Pisanò e Luciano Garibaldi. L'oggetto artistico non è qui in discussione. Piuttosto, visto che parliamo di un film neorealista, si deve ricordare come i produttori decidano di affidarsi, per i personaggi di scena, a perfetti sconosciuti, presi letteralmente dalla strada. Così ritroviamo nelle scene i coniugi De Maria, alcuni partigiani che nella realtà arrestarono Mussolini, persino uno dei soldati tedeschi che aveva tentato di nascondere il Duce. Dietro alla macchina da presa, troviamo però l'unico professionista: Duilio Chiaradia. Sarà lo stesso Chiaradia a firmare la regia del primo telegiornale nel 1954. Ben due commissioni di censura, nel 1951 e nel 1953, coordinate da Giulio Andreotti, rifiutarono il nulla osta per la proiezione pubblica del film. Motivi politici. I due produttori, comunque, non tentarono nulla per scongiurare che il film terminasse in soffitta invece che nelle sale del cinema. Ora che “Tragica alba a Dongo” è stato ritrovato, proprio in una soffitta, e restaurato, l'associazione Artelario.it lo porta all'attenzione del pubblico moderno, che sarà di certo composto anche da giornalisti, storici, ricercatori e archivisti.
"Questo lavoro serva alla Storia, quando e come essa vorrà", scrive Emma Moriconi il 24 marzo 2016 su "Il Giornale D'Italia".. Misteri e contraddizioni nella "vulgata", più volte sbugiardata, sulla morte di Benito Mussolini. 28 aprile 1945: concludiamo oggi il nostro speciale dedicato al meticoloso lavoro di Aldo Alessiani. Giungiamo così al termine di questa indagine che ha visto il lavoro accurato e approfondito di Aldo Alessiani quale protagonista di un lungo e complesso speciale, che abbiamo voluto proporre per tentare di trovare qualche elemento di verità in una vicenda annosa, complessa e estremamente misteriosa: tantissimi sono i misteri che ancora sopravvivono, ma qualche elemento di verità Alessiani lo ha certamente portato con il suo lavoro. Per chiudere, ma solo per ora perché sarà necessario tornare sul tema, perché nel frattempo le nostre ricerche continuano, vorremmo raccontare al lettore ciò che scrive Alessiani a commento di questa sua fatica. Insomma vorremmo "tirare le somme" insieme a lui, e con l'occasione ringraziarlo per quello che ha voluto fare, per il contributo importante che ha inteso offrire alla storia. Con il solo rammarico che a lui, ad Aldo Alessiani, non possiamo dirlo di persona. Ma l'opera degli uomini travalica le loro stesse vite, Alessiani lo aveva previsto: aveva previsto, cioè, che di tempo ce ne sarebbe voluto moltissimo, prima che questo grande lavoro trovasse la luce e la giusta collocazione. E dunque l'appello che ci sentiamo di fare oggi è che anche la storiografia ufficiale voglia presto prendere questo esame in considerazione, anche per dibatterne qualora lo si ritenesse necessario, ma come scrisse il buon medico a Luciano Garibaldi, "non è una 'teoria'; significherebbe insozzarlo, annichilirlo a priori o per stupidità o per saccenteria". Un lavoro che non merita questo, sicuramente. Ecco cosa scrive Alessiani, in prossimità delle conclusioni: "Questo lavoro è alla fine; porta alla conclusione della pensabilità di un evento tutto diverso da quanto e come lo si è voluto esporre. Se ha centrato la verità, almeno nelle sue più essenziali tessere di paziente e faticoso mosaico che ha esagito attese, umiliazioni, delusioni, serva alla Storia quando e come essa vorrà". È davvero da sottolineare questo passo. Alessiani scrive "Storia" con la lettera maiuscola, e ne parla come se fosse una entità a sé, autonoma dalle emotività dell'uomo, dalle piccole cose terrene, dalle miserie umane, da ciò che è mortale. La Storia quale entità immortale, eterna, e superiore, che da sola deciderà "quando e come" giovarsi di questo contributo sincero e meticoloso che uno specialista ha voluto donarle. Sarebbe così, se appunto le miserie umane non ci mettessero lo zampino. Ma proseguiamo: "Indubbiamente - scrive ancora Alessiani - qualcosa da tenere assolutamente nascosto in quella notte del 28/04/45 in una casa non lontana dal lago di Como, accadde; seguì il tutto una trista scia di morti. Si fece moltissimo per far sì che tutto rendesse verosimile una esecuzione capitale, per tacere che qualcosa di non convenientemente raccontabile, forse improvviso o addirittura inatteso, perché non voluto, era purtroppo avvenuto. Non sta a me medico, pensare alle circostanze causali; senza dubbio prima di uccidere ci fu una attesa, un dialogo concitato forse. Non si è trattato del precipitarsi in una stanza di una casa rurale sparando all'impazzata già sulla soglia; il tentativo di disarmo operato lo esclude. Lo spazio del vano in cui il dramma si consumò, era ristretto anche perché in parte occupato da un letto matrimoniale; quindi il tutto può essere avvenuto in parte sul pavimento della stanza, sul letto medesimo se non addirittura sul pianerottolo immediatamente antistante. La vestizione dei cadaveri rimasti colà nella loro scomposta impudicizia, fu senz'altro laboriosa per l'essere sopraggiunto il rigor fino alla completezza, verosimilmente abbandonati dopo quel fuggi-fuggi generale che pervase coloro che furono partecipi o attori di qualcosa di inusitato e sconvolgente. Non si ebbe nemmeno il coraggio di ricomporre quegli indumenti intimi di cui i due deceduti erano soltanto ricoperti nel momento dell'evento. Ci si affidò più a quelli di vestizione che erano reperibili cercando di porli addosso nel modo migliore e più facile per chi non è aduso alla vestizione dei morti, quando specialmente questi diventano delle lignee statuarità. Si tentò di tutto per creare una sceneggiatura d'emergenza fino allo sparare sulla nuca del Mussolini molto tempo dopo la sua morte, nell'intento di creare quella pedissequa tradizionalità del colpo di grazia misconoscendo che in fase d'autopsia si sarebbe apprezzata la lesione non successa in vita. Se è vero - aggiunge poi tentando una ricostruzione questa volta non suffragata da elementi scientifici, e si tratta infatti di una supposizione che però vale la pena di riferire al lettore - si crearono addirittura due sosia perché inducessero i curiosi a far testimonianza di due sopravvivenze non più tali da molte ore. Lo stesso medico-settore volle ribadire per i dubbiosi che quanto aveva verbalizzato, apparteneva a una sentenza portata a compimento secondo la ritualità più tramandata, immaginando a contro-prova addirittura l'esecutando che alza il braccio destro in un istintivo modo di riparo, concretizzando così un colpo per proiettile in una impossibile direttrice trapassante, dimenticando l'inizio nel tempo della esperienza autoptica e non più illustrando la lesione al fianco destro in precedenza verbalizzata. Una autopsia - aggiunge - che sembra voluta ai fini di una ostinata dimostrazione che quanto s'era narrato era perfettamente vero. Forse far tutto questo era necessario; il disagio restava per la morte della donna, in un primo tempo condannata a morte per iscritto unitamente al suo compagno in un elenco limitato ai due e più tardi data per deceduta in un isterico intervento, intercettando così qualcosa di letalmente determinante e non per lei". Dagli appunti di Luciano Garibaldi, che ha dedicato tutta la sua vita nell'esame di quanto accadde in quei giorni di sangue. Settant'anni di bugie. Quella "ridicola e imbarazzante rivendicazione postuma, concepita, sottoscritta e diramata alla stampa il 29 aprile". Quanto a quest'ultimo tema ci preme qui semplicemente ricordare al lettore le deduzioni di Luciano Garibaldi che, teorizzando la pista inglese, disse qualcosa di molto interessante. Il lettore ricorderà che Il Giornale d'Italia ha con Luciano Garibaldi un rapporto che potremmo definire "privilegiato", avendone seguito in più occasioni le deduzioni, e avendo, con grande piacere, ospitato la sua firma su queste colonne. Questo ci consente di disporre di suoi "appunti", gentilmente concessi dallo stesso storico e saggista alla testata. Ce n'è uno che è relativo proprio al tema della "lista" dei "condannati a morte". Leggiamo insieme: "Nel libro di Urbano Lazzaro ('Bill') dal titolo 'Dongo, mezzo secolo di menzogne' c'è una quasi cinematografica testimonianza di prima mano su come si giunse, nel primo pomeriggio del 28 aprile 1945, nello stanzone al piano terreno del Comune di Dongo, a decidere le fucilazioni che da lì a poco sarebbero state eseguite sul marciapiede del lungolago. Leggiamo: 'Pedro si rivolse a Valerio e gli disse (...) che all'esecuzione non un solo garibaldino della 52.a avrebbe preso parte. Valerio ascoltava attentamente Pedro e il suo volto veniva, man mano che Pedro parlava, assumendo un'espressione contrariata e adirata. 'Va bene!', rispose con ira. 'Guardiamo ora questo elenco dei prigionieri!'. Lesse forte: 'Benito Mussolini!' e aggiunse subito: 'A morte!' e tracciò una croce accanto al nome di Mussolini. Pedro e Guido tacevano. C'era nell'ufficio un senso di soffocamento, come se l'aria fosse divenuta irrespirabile. Valerio continuò: 'Clara Petacci: a morte!'. Ma nell'elenco dei 31 prigionieri datomi la sera prima da Pietro e che io restituii a Pedro quando egli tornò da solo a Dongo la mattina del 28 aprile, il nome della Petacci non c'era. Mussolini era il 30° della lista. Se è accettabile che il 'colonnello Valerio' abbia letto per primo il nome di Mussolini, segnando una crocetta accanto a quel nome, non altrettanto poteva fare con il nome di Claretta Petacci, perché non compariva in quell'elenco'. Questa testimonianza - annota Garibaldi - stranamente sfuggita ad oggi agli storici, di uno dei principali attori del dramma, è di per sé bastevole a provare che il 'colonnello Valerio' sapeva già che Claretta era morta, sapeva che si sarebbe dovuto addossare la responsabilità della sua morte, sapeva che avrebbe dovuto mentire per il resto dei suoi giorni". E poi Garibaldi continua: "Ma quale 'condanna a morte'? L'ordine di fucilare Mussolini e i suoi ministri non esisteva. Il Clnai, rappresentante legittimo del governo Bonomi nell'Italia del Nord, non aveva emesso alcuna condanna a morte, che peraltro non era di sua competenza, né tantomeno alcun ordine di esecuzione. Il Clnai era tenuto a osservare il DDL (Decreto legislativo luogotenenziale) n. 142 del 22 aprile 1945, che riguardava ' i delitti commessi da Mussolini e dai ministri fascisti' e istituiva, per giudicarli, le CAS (Corti d'Assise Straordinarie). Perché il Clnai avrebbe dovuto agire illegalmente? Per ribellione al governo del Luogotenente? Non esisteva la benché minima ragione per farlo. È che, di fronte al fatto compiuto, cioè all'avvenuta uccisione di Mussolini e di Claretta Petacci a opera dei servizi britannici, previi frenetici e convulsi accordi con Roma, il Clnai fu costretto a farfugliare la ridicola e imbarazzante rivendicazione postuma, concepita, sottoscritta e diramata alla stampa il 29 aprile. Questa: 'Il Clnai dichiara che la fucilazione di Mussolini e complici, da esso ordinata, è la conclusione necessaria di una fase storica che lascia il nostro Paese ancora coperto di macerie materiali e morali. Eccetera eccetera'". Le bugie, però, hanno le gambe corte. Ciò che stupisce di più è il fatto che per lungo tempo la versione diramata dal Pci, da Audisio, da l'Unità, abbia avuto presa sugli Italiani: possibile che quelle macroscopiche contraddizioni, palesi, evidentissime, non siano state immediatamente evidenziate? Malafede o pigrizia, probabilmente. Anzi, più probabilmente entrambe.
28 aprile 1945: documenti e testimonianze a confronto. Ancora troppi sono i misteri che restano su quelle ore, e molti di essi non saranno mai svelati, scrive Emma Moriconi il 19 marzo 2016 su "Il Giornale D'Italia". Esaminiamo, insieme al Teorema Alessiani, l'esame di Franco Bandini e l'indagine commissionata a Pierucci da Pisanò. "Che nell'abbigliamento di Mussolini e della Petacci ci fosse qualcosa di strano lo aveva rilevato anche il già citato storico Franco Bandini che aveva notato sia che il cappotto di Mussolini non recava alcun foro di proiettile, sia che uno stivale era stato faticosamente reinfilato; sia, infine, il dettaglio della mancanza delle mutandine della Petacci - dice ancora Ezio Praturlon sul Giornale d'Italia del 26 aprile 1988 -. Ma stranamente Bandini, così attento e preciso su una enorme quantità di particolari di questa vicenda, per questi tre fatti si accontenta di una spiegazione frettolosa e non convincente. Ma se si torna alla ricostruzione di Alessiani, ed al fatto che gli uccisori non furono probabilmente i partigiani che avevano in custodia i prigionieri, e che quindi solo qualche ora dopo (quando era ormai sopravvenuta la rigidità cadaverica) era sorto il problema di rivestire i corpi, allora tutte le tessere del mosaico trovano una collocazione ragionevole. Ai due corpi ormai rigidi vennero infilati i capi più 'facili' da mettere. La camicia nera ed i pantaloni a Mussolini; ma non la giacca, troppo difficile, anzi impossibile da infilare a un cadavere irrigidito. Per nascondere la mancanza della giacca gli venne infilato un cappotto con maniche 'raglan'. Che mai aveva fatto parte della divisa di Mussolini: ma non fu certo cosa facile infilare quel cappotto, anche se il tipo di manica rese possibile quello che con la giacca era stato impossibile. Di certo il cappotto non reca fori di proiettili. Ma, come si può constatare dalle foto di piazzale Loreto, non appaiono fori neppure su pantaloni o sulla cinta, malgrado che il primo colpo avesse raggiunto parti del corpo che dalle foto di piazzale Loreto appaiono coperte dai pantaloni. Infine, il mistero dello stivale. Secondo Bandini, Mussolini e la Petacci erano stati falciati da raffiche di mitra sparate da due uomini che avevano aperto il fuoco stando uno alla destra, l'altro alla sinistra dei condannati (tra l'altro, secondo Bandini, Mussolini fu stroncato da sette colpi di mitra cecoslovacco, mentre dalla autopsia i colpi di fucile automatico, quattro in tutto, risultano aver prodotto ferite secondarie, essendo invece mortali due dei cinque colpi sparati da una pistola Beretta cal. 9). Dopo l'uccisione, avvenuta - secondo Bandini - in una piazzetta, nel trascinare i corpi verso un'auto Mussolini avrebbe perso uno stivale. Ma Alessiani, dallo stivale trae invece un ulteriore conforto per la sua ricostruzione. Dopo la morte i piedi si distendono da soli, e non è quindi difficile, neppure in stato di rigidità, infilare uno stivale a un cadavere. Ma a Mussolini, che nella prima guerra mondiale aveva riportato delle ferite a un piede, soltanto una delle estremità si distese: l'altra rimase bloccata ad angolo retto. Si spiega così come uno degli stivali appaia infilato normalmente, mentre l'altro - esaminato ingrandendo molte volte le foto di piazzale Loreto - risulta infilato, si, ma con tutto il lato chiaramente aperto lungo la cucitura: la cosa si spiega soltanto con la necessità di far apparire vestito un uomo che vestito non era quando era stato ucciso, ed al quale vennero infilati con grandi sforzi quegli indumenti 'minimi' che doveva avere in caso di una 'esecuzione' regolare". Prima di passare a esaminare la vicenda di Clara Petacci, vorrei soffermarmi ancora un po' su Mussolini. Chiedo al lettore di fare mente locale su quanto abbiamo esposto fino a questo momento e mi chiedo, per esempio, dove è finito il proiettile esploso, dal basso verso l'alto, sotto il mento, del quale non risulta in autopsia foro di uscita. A questo proposito leggiamo cosa dice il professor Giovanni Pierucci in risposta ai quesiti posti da Giorgio Pisanò e da noi esposti nello speciale di due anni fa su queste colonne: "Il verbale d'autopsia non documenta foro d'uscita per il colpo che attinse la regione sopraioidea: il proiettile potrebbe dunque essere 'ritenuto' nei resti (non risulta che il cadavere sia stato mai sottoposto ad esame radiografico)". A queste considerazioni vorrei aggiungerne altre. Per esempio, non risulta neppure che il proiettile sia stato "cercato". Insomma, se non c'è foro di uscita esso è stato trattenuto nella cavità cranica, cavità che è stata accuratamente esaminata alla ricerca di chissà quale "disturbo", al punto che un frammento venne persino consegnato agli Americani affinché pure loro potessero approntare i loro studi sul cervello più straordinario che la storia d'Italia abbia mai avuto. Il cervello venne asportato e posizionato in una teca a parte, teca che poi venne consegnata alla povera Rachele nel 1957. Dunque perché non si cercò il proiettile? Poteva essere rimasto nella materia cerebrale o, più probabilmente, si sarebbe dovuto trovare incastonato nelle ossa, la cui durezza avrebbe potuto fermarlo e trattenerlo. La determinazione della traiettoria di un proiettile all'interno di un corpo è materia troppo complessa, ci limiteremo qui dunque al nostro caso specifico, cioè al proiettile che, nel suo percorso intrasomatico (cioè nel percorso che segue all'interno del corpo), riduce fino a perdere la sua capacità perforante, per cui resta trattenuto all'interno del corpo stesso. In questo caso il proiettile ha due possibili vie: o rimane trattenuto in una sorta di nicchia, oppure risulta libero, per cui potrebbe trovarsi spostato dal punto in cui è terminato il tramite. Nel caso di questo colpo, sappiamo che entra da sotto il mento e già dalla forma del foro di ingresso si può orientativamente determinare in quale direzione sia andato: nel nostro caso verso l'alto, e altro purtroppo non possiamo sapere. Quindi o è rimasto in una "nicchia" che esso stesso ha formato entrando, oppure è finito nel cervello. Sarebbe bastato, in sede autoptica, esaminare precisamente il tramite servendosi degli opportuni strumenti. Questo dato non cambia, certo, la consistenza delle cose, però denota, ancora una volta semmai ve ne fosse ancora bisogno, come venne gestita la cosa.
Mussolini fu ucciso nella notte, al massimo all'alba del 28 aprile, scrive Emma Moriconi il 9 marzo 2016 su "Il Giornale D'Italia". La scienza non mente, e l'analisi medico-legale di Aldo Alessiani va posta all'attenzione della storia. Il rigor mortis, la dinamica dei fori dei proiettili: ecco lo studio di uno scienziato e le prove di ciò che afferma. Abbiamo cominciato a parlare, qualche giorno fa, del dossier Alessiani, documento di estremo interesse per chi si dimena tra i misteri di quell'aprile del 1945 quando Benito Mussolini venne assassinato insieme a Claretta Petacci. Abbiamo già visto come l'epoca della morte sia da farsi risalire al mattino, e non al pomeriggio come all'epoca si tentò di far credere, e abbiamo anche visto come Alessiani abbia basato questa sua affermazione su dati scientifici fondati sui tempi (certi, è scienza) del rigor mortis. Vi sono poi altri elementi che mettono in discussione la versione data all'epoca: l'integrità, per esempio, degli indumenti che il Duce indossava a piazzale Loreto. Non vi sono fori nel cappotto, non vi sono sulla maglia intima né sui pantaloni. Inoltre lo stivale destro ha la cerniera rotta sin da prima dell'appendimento, "come se - dice la dottoressa Conti, collaboratrice di Luciano Garibaldi - già in preda alla rigidità cadaverica, lo avessero calzato a forza incontrando resistenza per una postura viziata del piede", appunto a causa della rigidità. Dunque le due deduzioni che scaturiscono inevitabilmente: uno, che Mussolini è morto prima del pomeriggio del 28 aprile (e Alessiani, sempre poggiando ciò che dice sulla scienza, individua il momento nella notte o all'alba del 28); due, che quando è morto era privo di indumenti. L'indagine continua quindi con l'esame dei nove colpi d'arma da fuoco che sull'autopsia sono verbalizzati come "colpi vitali". Per "colpi vitali" si intendono i colpi inferti quando il soggetto era in vita. La scienza è cosa esatta, e la medicina legale è infatti in grado di definire con precisione se un colpo è stato inferto in vita o post mortem. L'esame delle lesioni su un corpo dice tante cose, bisogna solo sapere come queste lesioni si interpretano, le regole sono certe, non siamo nell'ambito delle ipotesi. I nove colpi, così come sono ben visibili nelle molte foto di quelle ore, escludono la dinamica della fucilazione e fanno invece propendere per la dinamica della colluttazione. Si tratta di esaminare foro di entrata, foro di uscita e tramite, cioè il tragitto che il proiettile compie nel corpo. I colpi provengono da due armi diverse: nella foto che proponiamo al lettore (e che ci proviene dalla documentazione fornita da Alessiani a Luciano Garibaldi), si possono evidenziare i nove colpi "vitali", numerati: 1, 2, 3, 4 e 5 sono stati sparati da pistola, a distanza ravvicinata, presentano orletto escoriativo emorragico e affumicatura. La presenza dell'orletto escoriativo emorragico e della affumicatura lasciano comprendere senza ombra di dubbio che sono stati esplosi sul corpo privo di indumenti. Se infatti Mussolini avesse indossato un indumento, esso indumento avrebbe trattenuto l'affumicatura, che dunque non sarebbe presente sulla pelle. La lesione si presenterebbe diversa da quella che si può osservare sulle foto esaminate da Alessiani e che il lettore può facilmente reperire anche in rete. Noi abbiamo scelto di non pubblicare mai quelle immagini, esse sono destinate infatti ai libri e alle riviste specializzate: lì sono necessarie per la comprensione anche scientifica di come sono andate le cose, libri e riviste specializzate forniscono lo spazio necessario per un esame completo della vicenda, spazio che qui non abbiamo per ovvie ragioni di struttura. La decisione di non pubblicarle su questo organo di stampa (il lettore non trova infatti qui le immagini di piazzale Loreto), che è un quotidiano, deriva da una precisa scelta di rispetto per quelle persone orrendamente trucidate dopo morte in un piazzale di Milano. I colpi contrassegnati invece con i numeri 6, 7, 8 e 9 sono stati sparati da mitraglietta automatica, a distanza ravvicinata. Infatti se fossero stati sparati da una distanza maggiore sarebbero più distanti l'uno dall'altro, perché i proiettili sventagliando divaricano. Altri dati che possiamo rinvenire dai fori sono i seguenti: il tramite del foro 4 è verticale, dal basso verso l'alto, e uscendo ha sfondato la teca cranica; se si osservano le immagini di Mussolini sul tavolo autoptico si può vedere che anche se il corpo è stato lavato, presenta il "tatuaggio" tipico dei colpi a bruciapelo: parliamo del foro che abbiamo contrassegnato con il numero 5. Quando si presenta il "tatuaggio" significa che il colpo ha raggiunto il corpo senza elementi ostativi tra il proiettile e il corpo stesso, e a bruciapelo, appunto. In buona sostanza non vi erano ostacoli intercettanti, cioè il corpo era privo di vestiti. Viceversa, il foro numero 1 non presenta segno di affumicatura, nessun "tatuaggio": evidentemente indossava le mutande di flanella. E infatti osservando le foto di piazzale Loreto, queste mutande sono ben visibili nella parte in cui fuoriescono dai pantaloni, all'altezza della vita, e si presentano fortemente stropicciate, come se qualcuno avesse trascinato il corpo tirandolo proprio dalle mutande di flanella. Per oggi siamo costretti a fermarci qui, lo spazio a nostra disposizione è terminato. Ma domani proseguiremo nella nostra indagine, perché è giusto e sacrosanto che i lettori sappiano che c'è stato un uomo, che si chiamava Aldo Alessiani, che ha dedicato anni della sua vita alla ricerca di una verità evidentemente ancora scomoda, ma che deve emergere, che deve essere raccontata. Una verità basata non su ipotesi o fantasiose congetture ma su dati scientifici inequivocabili.
Aprile 1945, quei "medici da copertina" che fecero malissimo il loro lavoro, scrive Emma Moriconi il 12 marzo 2016 su "Il Giornale D'Italia". Un esame autoptico condotto pessimamente: fu incompetenza o malafede? Sorridenti in posa davanti ai fotografi: ma la medicina legale ha delle regole ben precise, che andavano rispettate. Riprendiamo il nostro speciale dedicato al lavoro del dott. Aldo Alessiani sulla morte di Benito Mussolini, e prima di tornare a quanto riferisce Praturlon sul nostro Giornale d'Italia dell'aprile 1988, ci sembra di interesse essenziale quanto dice Aldo Alessiani nel suo "Teorema" relativamente all'ormai noto verbale autoptico 7241, e innanzitutto bisogna dire che un verbale autoptico è un documento di importanza notevole, perché deve servire a determinare alcune cose, per esempio l'ora del decesso, le sue modalità, deve tentare di ricostruire la dinamica della morte, insomma serve proprio a chiarire, questo è il suo scopo. In secondo luogo poi può esserci un'indagine medico legale a più ampio raggio, che può anche esulare dalla fattispecie, ma detta fattispecie è sicuramente essenziale. Voglio dire: un'autopsia non si fa per semplice curiosità, o per dare spettacolo... e invece sembra proprio che quella effettuata in quel 30 di aprile del 1945 fosse più indirizzata a fare show che a scoprire le cause e le modalità di quella morte. O, forse, c'erano cose che non si sarebbero dovute proprio scoprire...Il lettore ragioni con me: ma è mai possibile che un esame autoptico sul corpo di Benito Mussolini, per l'importanza che il personaggio aveva, per il momento storico in cui ci si trovava, con tutto il clamore di carattere internazionale che vi ruotava attorno, si potesse condurre malamente? Quello che è accaduto in quella sala settoria in quella mattina di aprile è qualcosa di assolutamente scandaloso. Vediamo cosa dice Aldo Alessiani nel merito: "Il Medico Settore, allora aiuto del titolare dell'Istituto Universitario, descrive la salma del Mussolini come 'preparata' sul tavolo anatomico. L'occhio del profano scorrerebbe lo scritto senza soffermarvisi. [...] l'operatore-settore, prima dell'intervento, dovrebbe descrivere il cadavere così come gli si presenta, lordo, ignudo, vestito, scomposto; elementi preziosi potrebbero esistere in una muta narrazione di vicissitudini emergenti per tempi, luoghi, modalità, azioni, occasionalità, corrispondenze particolarmente esistenti o non con quel che si constaterà in fase settoria (artefatti simulanti o dissimulanti). Le gore ematiche appartengono a tale fase (manomissioni, spostamenti, posizioni); l'ho già detto. Non farlo ed agire su una salma già preparata vuol dire aver commesso una grave incompletezza per nulla giovevole ai fini della indagine più importante: la modalità della morte". Ciò di cui parla Alessiani è fondamentale. Parliamo di un "esame esterno" del cadavere, assolutamente necessario prima di procedere a quello "interno". "Esame esterno" che, però, non viene eseguito come si dovrebbe. Sotto la dicitura "ispezione esterna", infatti, vengono descritti i fori dei proiettili. Non una parola sulle gore ematiche. È l'abc della medicina legale. Tenterò di parlare al lettore in termini comprensibili anche per chi non abbia i rudimenti della medicina legale. Siccome non possiamo tutti sapere tutto, e siccome ritengo essenziale che chi legge debba essere messo in condizione di comprendere tutto ciò che scriviamo, è necessario esporre con chiarezza e semplicità quello che si vuole dire. Le "gore ematiche" sono tracce di sangue: il loro esame è essenziale e anzi esso deve essere effettuato prima di procedere a qualsiasi altra indagine. A maggior ragione nel caso di Mussolini (ma questo vale anche per la Petacci e per gli altri cadaveri di piazzale Loreto), il sangue ha fatto vari e complicati giri, post mortem... dopo l'omicidio, infatti, e fino all'arrivo a piazzale Loreto i corpi hanno subito numerosi (e ben strani) spostamenti, e poi a piazzale Loreto sappiamo bene che le posizioni dei detti corpi variarono notevolmente: distesi sul selciato prima, sollevati poi, quindi appesi a testa in giù, infine "disappesi", poi trasportati. Insomma non solo bisognava esaminare esternamente il corpo, bisognava farlo anche con estrema precisione e puntualità, a maggior ragione, ancora, se consideriamo che quei corpi vennero lavati con un idrante... e invece cosa troviamo scritto nel verbale 7241? Che la salma di Mussolini è "preparata sul tavolo anatomico"! Allora: piazzale Loreto fu un orrore devastante per la nostra storia e per l'essenza stessa dell'umanità. Fermo questo, che è del tutto evidente, passiamo oltre e andiamo a occuparci soltanto di quello che dovrebbe essere il dovere di un medico legale che si accinge a effettuare un esame su un corpo che arriva in obitorio per "morte violenta". La medicina legale ha delle regole ben precise, ciò che si fa senza ottemperare a quelle regole è per incompetenza, per malafede, per corruzione. Non vi sono alternative. Non sta a me dire quale di queste opzioni si sia verificata il 30 aprile del 1945, di certo sta a me e a tutte le persone di animo puro e innamorate della verità, presa visione del detto verbale, dire che quelle regole non vennero rispettate. E questo è di una gravità inaudita: perché qui non c'è la scusante della sommossa popolare, della folla incontrollata, dell'impossibilità fattiva di far fronte a una situazione di emergenza! Qui nella migliore delle ipotesi c'è colpa grave, nella peggiore c'è addirittura il dolo. I medici che quel giorno eseguirono quell'esame autoptico ebbero bene il tempo di mettersi in posa per farsi scattare interessanti fotografie, belli e sorridenti, felici - sembrerebbe - di essere testimoni di tanta parte della storia d'Italia. Ebbero bene il tempo di mettere fotografi e giornalisti a proprio agio per tentare di trovare l'inquadratura più macabra... dovreste vederli, sorridenti davanti al flash, su quelle foto che non pubblicheremo mai su questo quotidiano... ebbene sono passati settantuno anni da quell'orrore, oggi è giunto il momento che venga messa a nudo questa incompetenza, o questa malafede: i sorrisi davanti alle macchine fotografiche non possono e non debbono oscurare il fatto che fecero - quei "medici da copertina" - male, malissimo il loro lavoro. Come il lettore facilmente comprende, dobbiamo fermarci qui per oggi e darci appuntamento a martedì prossimo per proseguire con questa indagine, che sarà lunga ma necessaria. In fondo, non sarà nemmeno "troppo" lunga: se pensiamo che veniamo da sette decenni di bugie, cosa saranno mai dieci, venti, cento puntate su un quotidiano? ...
Il dossier Alessiani, l'esclusiva del Giornale d'Italia del 1988. Il nostro quotidiano, ventotto anni fa, pubblicava lo straordinario studio del medico legale che gettava una nuova luce sull'omicidio più discusso del Novecento, scrive Emma Moriconi il 10 marzo 2016 su "Il Giornale D'Italia". Grazie alla scienza, anche dopo tanti anni, tutte le menzogne possono essere sbugiardate. Proseguendo nel discorso avviato qualche giorno fa e per completare l'argomento di cui si parlava nell'edizione di ieri, tornando al tema del rigor mortis, ancora, l'autopsia sul corpo di Benito Mussolini viene eseguita alle 7,30 del mattino del 30 aprile: i corpi presentano - come dicevamo - un rilasciamento del rigor nella muscolatura del capo - che infatti deve essere sorretto, come si vede chiaramente nelle foto che hanno fatto il giro del mondo - e nelle braccia, che penzolano. Ecco che Alessiani dunque si chiede perché, nonostante l'evidenza, Cattabeni (relatore dell'autopsia sul corpo di Mussolini) dichiara in sede autoptica che la rigidità è ancora presente? E siccome venne impedita l'autopsia sul corpo della Petacci, sarà legittimo o no ipotizzare che qualcuno abbia "consigliato" Cattabeni di scrivere una cosa piuttosto che un'altra? Sarà legittimo o no porre qualche dubbio, basato su principi scientifici, su quel che accadde quel giorno, e sulle persone coinvolte? Anche perché, guarda caso, nel 1957 venne effettuata un'autopsia sul corpo della Petacci - e naturalmente molti dati che nell'immediatezza sarebbero potuti emergere sono perduti per sempre (del resto, era quello che volevano, no?) - e sul suo corpo vennero rinvenuti due proiettili calibro 9: una Colt calibro 9, un'arma che i "giustizieri" di Dongo non possedevano ma che - guarda caso - era in possesso degli ufficiali britannici. Andiamo ora a raccontare ai nostri lettori come questo quotidiano, nell'edizione del 24 aprile 1988, pubblicava - a cura di Ezio Praturlon - in esclusiva la testimonianza scientifica di Aldo Alessiani, che titolava "Mussolini fu ucciso a letto", nell'occhiello: "Nuova luce sull' 'esecuzione' del capo del fascismo" e nel sommario: "Destatosi davanti alle armi puntate, lottò con l'uomo che stava per ucciderlo: raggiunto da alcuni colpi periferici che lo indebolirono, fu poi finito con due colpi di pistola al petto e sotto il mento. Il dottor Aldo Alessiani, medico legale della magistratura romana, attraverso i documenti ufficiali è riuscito a ricostruire minuto per minuto, quasi gesto per gesto, gli eventi di quel 28 aprile di quarantatre anni fa". E poi il pezzo, del quale riportiamo qualche stralcio: "Mussolini fu ucciso all'alba del 28 aprile 1945, almeno dieci ore prima dell'ora 'ufficiale' della sua 'esecuzione'. La sua morte non avvenne a seguito di una più o meno regolare fucilazione dove il capo del fascismo e Claretta Petacci sarebbero stati appoggiati ad un muretto; Mussolini morì invece sdraiato, probabilmente sul letto dove aveva trascorso la sua ultima notte nel casale De Maria, lottando efficacemente con l'uomo che era entrato in quella camera sul finire della notte per eliminarlo senza tante formalità. Claretta Petacci fu probabilmente uccisa perché tentò forse di aiutarlo in quella lotta mortale. Tutto questo è il frutto di una ricostruzione storico-scientifica dovuta ad un medico legale romano, Aldo Alessiani. Per rivedere quei fatti, facciamo un salto indietro nel tempo. 28 aprile 1945. Sono passate da poco le sedici quando un gruppetto di persone scende lungo la strada che attraversa l'abitato di Bonzanigo. Al centro un uomo ed una donna: lui ha un cappello in testa e si stringe a lei. 'Mussolini e la Petacci', si dirà poi. Intorno a loro pochi uomini armati. Il gruppo viene da un grande casolare dove Mussolini e la giovane donna hanno trascorso la loro ultima notte. Scendono lungo la strada e scompaiono presto alla vista degli abitanti. Giunti a Giulino di Mezzegra, il gruppo si ferma: Mussolini e la Petacci vengono spinti verso un muretto accanto al cancello di una villa. L'uomo prescelto per eseguire la sentenza di morte emessa dal Comitato di Liberazione Nazionale dell'Alta Italia comunica al capo del fascismo la sua condanna e invita la Petacci ad allontanarsi; ma lei rifiuta e si stringe anzi all'uomo del quale vuole condividere la morte, dopo averne in parte diviso la vita. A quel punto il 'giustiziere spara': anche in paese si sentono distintamente quattro raffiche di mitra. I proiettili raggiungono lui e lei al petto, come accade in una esecuzione in piena regola. I corpi senza vita cadono al suolo; vengono poi raccolti e portati a Milano dove vengono gettati sopra ai cadaveri dei quindici gerarchi fucilati a Dongo e portati in piazzale Loreto per pareggiare il conto con i quindici partigiani che, proprio in quella piazza, erano stati fucilati dagli uomini della legione 'Ettore Muti'. Anche il corpo di Marcello Petacci, fratello di Claretta, si aggiunge al funereo mucchio. Più tardi verrà condotto sul posto Achille Starace, ex segretario del Pnf, che farà il suo ultimo saluto romano verso Mussolini prima di venire fucilato. [...] Questa è la versione finora accreditata sulle circostanze della morte di Mussolini e di Claretta Petacci. Quale esecutore fu indicato (e se ne assunse pubblicamente la responsabilità) il 'colonnello Valerio', partigiano divenuto poi parlamentare del Pci con il suo vero nome: Walter Audisio. Ma qualche anno fa alcuni dubbi vennero sollevati sulla vicenda, e in particolare sul nome del 'giustiziere': non sarebbe stato Audisio, si disse, ma Luigi Longo, a quell'epoca uno dei cinque capi del ClnAI, ed in seguito segretario generale del Pci, prima di lasciare il posto a Berlinguer. Tutto questo è falso. A quarantatre anni di distanza da quel girono, mentre i protagonisti di quell'episodio sono tutti morti (non solo Mussolini e la Petacci, ma anche Longo, Audisio e i partigiani 'Gianna' e 'Neri' che 'recitarono' la parte dei due condannati che attraversarono il paese), uno studioso ha ricostruito in maniera dettagliata e scientificamente inoppugnabile la reale sequenza dei fatti che con pazienza da certosino e con intuito da Nero Wolfe, il dottor Aldo Alessiani, medico-legale della magistratura romana, ha elaborato in lunghi anni attraverso la consultazione di tutto il materiale esistente: dal referto dell'autopsia di Mussolini a tutte le fotografie eseguite in quei giorni, ed a tutto quanto è stato scritto sull'episodio. Il risultato, come si è detto, è inoppugnabile ed in sintesi è questo: Mussolini non fu ucciso nel posto indicato, né nell'ora indicata, né dalle persone indicate. Mussolini morì invece mentre ancora si trovava sul letto in una stanza del casolare dove era tenuto prigioniero, verso le cinque e trenta del mattino del ventotto aprile; morì lottando con l'uomo che si era recato ad ucciderlo, e che non poteva essere né Audisio né Longo, che a quell'ora ancora non erano arrivati sul posto. Impossibile dire chi fu realmente l'esecutore: su questo punto sono possibili soltanto due ipotesi". E, con rammarico, per oggi ci fermiamo qui. Del resto quando si trattano questioni così complesse lo spazio di cui necessiteremmo non può certo essere rinchiuso in una sola pagina. Ci torneremo quindi domani, e poi dopodomani, e eventualmente ancora il giorno successivo, finché non avremo esposto al lettore tutti i preziosi elementi in nostro possesso, che ci derivano dagli approfonditi studi di Aldo Alessiani.
La morte del Duce, la scienza può aiutarci a capire la verità. Prosegue il nostro esame del "Teorema Alessiani", scrive Emma Moriconi il 15 marzo 2016 su "Il Giornale D'Italia". L'articolo di Cattabeni su "Clinica Nuova" dell'agosto 1945 e le contraddizioni di un'indagine priva di metodo. Restiamo ancora sul lavoro di Aldo Alessiani relativo alle sue indagini sulla morte di Benito Mussolini. Troppe sono le cose che non vanno e che non tornano quanto a come venne gestita la faccenda nell'aprile del 1945: il lettore dovrà, qualora non ne fosse a conoscenza, anche sapere che nella rivista "Clinica nuova" del 15 luglio - 1 agosto 1945 il professor Mario Cattabeni scrisse un articolo dal titolo "Rendiconto di una necroscopia d'eccezione" nel quale dice che prende la parola sul caso "autopsia di Mussolini" perché "la notizia che presso l'Istituto di Medicina Legale [...] è stato possibile condurre un'indagine anatomopatologica e medico-legale sulla salma di Benito Mussolini ha destato vivissima curiosità oltre che nel mondo medico, tra i profani", curiosità dettata - dice il medico - dal fatto che ci si aspettava che essa indagine chiarisse gli aspetti relativi alla morte ma anche quelli relativi alla complessa personalità del Duce. Ammette che l'autopsia è stata condotta in condizioni di eccezionalità: "poco tempo prima di una affrettata inumazione - dice -, in una sala anatomica dove facevano irruzione ogni tanto, per l'assenza di un servizio armato d'ordine pubblico, giornalisti, partigiani e popolo". Dice poi che "non è stata una indagine di tipo antropologico giudicata irrilevante, ma, più propriamente, un riscontro medico-legale e diagnostico diretto a cerziorare, per ogni eventualità, le modalità lesive pre- e post-mortali, reperti anatomopatologici riferibili a stati morbosi pregressi o in atto, con particolare riguardo al sistema nervoso, ed eventuali contrassegni per una sicura identificazione". Dice anche che "è stato redatto un verbale specialmente dettagliato per quanto riguarda le lesioni di tipo pre- e post-mortale, rilevabili all'esame esterno ed alla dissezione": abbiamo visto nelle precedenti puntate di questo speciale come questo invece non sia avvenuto e viene da chiedersi perché il medico ci tenga tanto a fare questa precisazione nell'estate del 1945, su una rivista specializzata, incastrando un articolo in una miscellanea di articoli di clinica chirurgica. Se lo chiedeva anche il buon Aldo Alessiani nel suo "Teorema": "[...] il Medico settore - scrisse Alessiani - volle rincalzare che l'autopsia era stata più che bastevole per testimoniare l'esecuzione avvenuta e narrata nella conferma delle rivelazioni fatte a pubblico dominio. In altri termini una puntualizzazione non essendosi inizialmente espresso in un supporto tecnico confermante". Ci sono poi alcune cose che suscitano quantomeno qualche perplessità in termini umani oltre che di diritto. Al termine dell'articolo Cattabeni dice: "Ho ritenuto opportuno fissare senza alcun commento questi appunti essenziali [...] per soddisfare un legittimo senso di curiosità umana e professionale nel pubblico medico, che più di ogni altro aveva diritto di esserne informato". No. Chi aveva "più di ogni altro" diritto di esserne informato era semmai la sua famiglia, sua moglie, i suoi figli. E invece Rachele seppe tutto dai giornali, il lettore può immaginare con quale "delicatezza". Annota ancora Alessiani come Cattabeni sorvola, nell'articolo, sull'ora dell'esecuzione, "così come aveva fatto quattro mesi prima omettendo l'ora d'inizio dell'autopsia nel preambolo tecnico del verbale 7241". Un’altra cosa che proprio non si riesce a capire, e che infatti Alessaini sottolinea, è perché nel Verbale 7241 non c'è alcun riferimento alle ipostasi presenti sul corpo. Le ipostasi sono "macchie da stasi colorativa", per essere chiari e far capire a chi legge di cosa parliamo sarà utile spiegare brevemente di quale fenomeno parliamo. Si tratta di macchie di colore violacee, bluastre o color vinaccio, livifo, che si formano sulla cute o anche sugli organi interni: in base all'esame di esse si può addivenire a scoprire l'ora del decesso perché esse, con il trascorrere delle ore, modificano il loro aspetto. Non solo: in base al loro esame si possono capire le posizioni che il corpo ha assunto dopo il decesso. Si formano perche il sangue cadaverico, non essendo più in circolo, va a depositarsi nelle zone declivi del corpo. Spiegare il fenomeno ipostatico in maniera approfondita ci prenderebbe troppo spazio, ma già da queste poche (ma essenziali) informazioni il lettore può rendersi agevolmente conto dell'importanza di questo tipo di esame per la determinazione delle dinamiche della morte e delle vicende del cadavere dopo la morte. Ebbene questo è un altro dato che nell'autopsia in oggetto manca del tutto. Così argomenta la cosa Alessiani: "Si poteva fare un accenno, per una migliore puntualizzazione alle macchie da stasi colorativa (ipostasi) altro fenomeno consecutivo che bella loro fissità belle parti corporee a contatto con le superfici corporee dovevano pur esserci e stabili dopo la quindicesima ora dal decesso. Non apprezzamento nel merito". Così oggi abbiamo aggiunto altri elementi di cognizione a quelli già espressi nei giorni scorsi. C'è però ancora molto da dire, e il lettore avrà la pazienza - ci auguriamo - di seguirci nei prossimi giorni ancora, per avere in tal modo tutte le informazioni utili per comprendere la ragione della nostra insistenza su un'indagine essenziale, che la storia e - ahimè - la scienza non hanno sinora tenuta nella debita considerazione.
I fori di proiettile e quello che non torna nella "vulgata" sulla morte del Duce, scrive Emma Moriconi il 16 marzo 2016 su "Il Giornale D'Italia". Il "Teorema Alessiani", un'indagine troppo a lungo trascurata. La dinamica raccontata non può essere quella vera: ecco le prove scientifiche che dimostrano decenni di menzogne. "Mettiamoci nei panni del Medico Settore: se avesse denunciato l'effettivo orario delle 7,30 (alias 6,30), la seppure iniziale risoluzione della mandibola avrebbe condotto ad un calcolo retrogrado di 48 ore di rigor più, quanto meno, un'altra ora per il rilasciamento: totale 49. Il decesso (già lo dissi) si riconduce alle 6,30 (5,30 ora legale); ecco perché sorvola sul trattar dell'ora della morte anche nella monografia illustrata dell'agosto '45. Resta tuttavia una carenza non veniale per un medico-legale il non esprimersi sull'ora del decesso quantunque presuntiva; volerne giustificare l'omissione diventa tentativo non onesto di facilissima identificazione intenzionale". È ancora uno stralcio dal "Teorema Alessiani" che chiarisce come è tecnicamente, scientificamente impossibile far risalire la morte del Duce al pomeriggio del 28 aprile 1945. E poi c'è la malafede, perché non viene formulata dal medico che effettuò l'autopsia alcuna ipotesi sull'ora presunta della morte, il che non può e non deve succedere. E poi: se di esecuzione capitale si trattasse, noi avremmo sul corpo i fori dei proiettili in linea più o meno retta sul torace, con colui che spara posizionato di fronte a colui che viene ucciso. Il tramite dei proiettili attraverso il corpo avrebbe una direzione più o meno lineare. E invece i proiettili fanno invero strani movimenti. Naturalmente in questo caso parliamo di quelli esplosi contro di lui quando Mussolini era in vita, esulano dunque da questo esame quelli esplosi contro il suo corpo già morto, a piazzale Loreto per esempio, quando vennero esplosi colpi persino sui cadaveri. Cerchiamo di superare l'orrore che questa scena suscita, ci dobbiamo sforzare di essere lucidi e di non farci prendere dall'emotività, che pure sarebbe comprensibile. Ragioniamo dunque solo in termini scientifici. Vediamo. I colpi in questione sono nove. Il lettore stia bene attento a come si trovano posizionati sul corpo del Duce. Un colpo ha il foro di entrata sul fianco destro, "fuoriesce - dice Alessiani - dalla parte supero-esterna del gluteo omolaterale, in modo tangenziale assumendo su sagoma umana verticale, un angolo di 45 gradi". Un altro colpo possiamo vederlo sul margine esterno dell'avambraccio destro, angolazione minima. Il terzo è all'altezza della clavicola destra, sopra, nella parte carnosa che si trova proprio sopra la clavicola: "180 gradi - precisa Alessiani - su sagoma eretta". Un quarto foro lo troviamo sotto il mento, parte destra: la sua direttrice è dal basso verso l'alto; il proiettile non uscì, dunque non vi è foro di uscita rimanendo la pallottola all'interno del cranio: "Novanta gradi perfetti su sagoma eretta", precisa Alessiani. Il quinto colpo è in entrata sul margine destro dello sterno, all'altezza del secondo spazio intercostale, con percorso obliquo e foro di uscita sul dorso, "45 gradi sul piano intra-toracico". È questo il proiettile che ruppe l'aorta. Ancora, all'altezza della spalla sinistra si possono notare quattro colpi d'arma da fuoco piuttosto ravvicinati: Alessiani ne riproduce, sui suoi disegni, una distanza più regolare di quanto appaia in realtà sulle foto. Questa imprecisione tuttavia non diminuisce di un millimetro la valenza dell'esame che il medico ne fornisce. Alessiani dice che il disegno che ne risulta ricorda "un quattro di quadri coricato", i realtà i quattro fori non sono a distanza così precisa tra loro, in ogni caso parliamo di quattro fori di entrata ai quali corrispondono i quattro di uscita sul dorso abbastanza in linea. Nove fori, nove colpi inferti in vita. Posizionati in maniera disparata l'uno dall'altro salvo per i quattro alla clavicola. Un'esecuzione prevede una dinamica del tutto diversa da quella prospettata dall'esame qui riferito. Alessiani parla di "polispazialità per angolazioni che testimoniano una chiarissima polispazialità per angolazioni da inclinazioni diverse per armi sparanti come se il bersaglio fosse estremamente mobile in tempi successivi brevissimi". E poi c'è quel colpo sotto il mento. Se il bersaglio fosse in piedi di fronte a chi spara, se fossimo di fronte a una "esecuzione", come potrebbe andare, un proiettile, a colpire la parte sottostante del mento? Vediamo ancora Alessiani: "Il colpo sotto il mento, in piena verticalità di tramite, esclude il bersaglio all'impiedi, quello al fianco, che simula addirittura un colpo sparato dall'alto, una orizzontalità dell'arma. La soluzione è quella di una colluttazione con tentativo di disarmo del soccombente, iniziale". Il medico si dilunga poi in tecnicismi che, per quanto utili, è impossibile dettagliare qui. Diremo dunque, sintetizzando, che ricostruisce una dinamica di colluttazione, di contrasto, che - come abbiamo sommariamente visto fin qui - ben spiegherebbe i fori di cui abbiamo parlato. Di certo è del tutto da escludere, in ogni caso, la possibilità di una "esecuzione" così come ce l'hanno propinata per decenni. I proiettili inoltre, lo abbiamo accennato in una precedente puntata di questo speciale, non sono tutti appartenenti alla stessa arma. I quattro colpi alla clavicola vennero sparati da una mitraglietta, al contrario degli altri esplosi invece da una pistola. Dice Alessiani che essi "sono senz'altro di raffica a bruciapelo" e aggiunge: "è caratteristica delle mitragliette la distanzialità dei loro effetti già nel modesto allontanarsi del bersaglio. Potrebbero essere stati esplosi da persona intervenuta a dar manforte allo sparatore di pistla e che per non colpirlo ha indirizzato la raffica sulla spalla sinistra del soccombente, unica regione di questi, ancora scoperta durante la colluttazione oppure per altre contingenze che fanno presupporre nella fattispecie la presenza e l'intervento di una quarta persona (C. Petacci), ragione volontaria o involontaria deviante l'arma in eccentricità". È chiaro che - e lo dice lo stesso Alessiani - quanto a ciò che accadde e alle esatte modalità della colluttazione, siamo nel campo delle possibilità/probabilità. Ma sulle vicende sopra esposte si è nell'ambito dell'analisi scientifica, e non si può sostenere il contrario di ciò che dicono le prove. Contraddizioni e bugie, esami condotti male e resoconti superficiali: per rendere ancora più difficile la ricerca della verità. E anche le foto dell'epoca raccontano un'altra storia. Gli abiti intatti, il mancato esame della salma prima della preparazione sul tavolo settorio: troppe stranezze aleggiano su quel giorno di aprile. "Fermarsi solo sull'apprezzamento della polispazialità dei colpi d'arma da fuoco inferti al Mussolini e dunque non conformi a una esecuzione capitale è ingiusto verso di me e quest'opera; andiamo dunque ad indagare altre componenti dimostrative; le più importanti". Al fine di rendere più precisamente possibile al lettore i contenuti della sua indagine, Alessiani riferisce anche elementi utili circa la polvere da sparo, facendo anche le opportune distinzioni del caso tra vari tipi di polveri. Qui dobbiamo accelerare, però, e dunque siamo costretti, almeno per ora, a sorvolare anche su quanto riferisce Alessiani riguardo a Claretta Petacci, sul corpo della quale come sappiamo non venne effettuato alcun esame nell'aprile del 1945. Ne parleremo nella prossima puntata. Stringendo, Alessiani ripercorre le vicende dei corpi basandosi sulle foto successive alla morte, dunque quelle di piazzale Loreto e poi dell'obitorio, rilevando - come abbiamo avuto modo di dire - che gli abiti di Mussolini sono intatti, non presentano fori, e che dunque probabilmente è stato rivestito dopo la morte. Il lettore ricorderà la faccenda dello stivale rotto, probabilmente calzato a forza con il rigor già in corso. Ne parlammo anche quando trattammo l'eloquente lavoro di indagine di Giorgio Pisanò, nell'aprile del 2014. Così come abbiamo già riferito circa il "tatuaggio" prodotto dalla polvere da sparo sul corpo in caso di esplosione ravvicinata. A questo proposito, Alessiani nel prosieguo del suo lavoro spiega con precisione e in maniera estremamente tecnica il comportamento dell'alone escoriativo emorragico, dell'ustione, del tatuaggio, dell'affumicatura e così via, cosa non riproponibile qui non avendo a disposizione lo spazio di un manuale di medicina legale. Possiamo però riferire come ancora una volta il medico torna su un tema essenziale, denunciando che "non esiste la descrizione dello status del cadavere quale ispezione pre-autoptica, che avrebbe dovuto descrivere anche i vestimenti nelle loro alterazioni tissutali". Ne abbiamo già parlato, una faccenda gravissima. Nella prossima puntata di questo speciale tenteremo di chiudere - almeno per il momento, ma questa storia è talmente brutta e complicata che difficilmente si riuscirà mai a metterci la parola fine - questo speciale sul lavoro di Aldo Alessiani e andremo a vedere anche le deduzioni del medico sulla vicenda della Petacci. Poi esamineremo altri documenti, renderemo ancora altre testimonianze, faremo altre considerazioni. La verità esatta di come andarono le cose in quel giorno del 28 aprile del 1945 forse non sapremo mai, troppe le contraddizioni, spesso forse orchestrate proprio per confondere le acque e rendere sempre più difficile la ricerca della verità. Ma almeno sapremo come di sicuro non può essere andata.
Scienza e testimonianze, alla ricerca della verità, scrive Emma Moriconi il 18 marzo 2016 su "Il Giornale D'Italia". Prosegue il nostro speciale sul Teorema Alessiani. Gli abiti di Mussolini erano integri, i proiettili furono esplosi a bruciapelo: le troppe menzogne sulla morte del Duce, che vanno sbugiardate. Abbiamo esaminato nei giorni scorsi il lavoro del dottor Aldo Alessiani sui documenti relativi alla morte di Benito Mussolini e abbiamo visto come il coscienzioso medico riesca, basandosi su prove scientifiche, a dimostrare che la morte del Duce non può essere avvenuta nel pomeriggio del 28 aprile come si è tentato di far credere (tentando di avvalorare la cosa persino con un lungometraggio uscito negli anni Settanta, quando qualche curioso cominciava a farsi qualche domanda), ma molte ore prima. Abbiamo tentato di spiegare il tutto ai nostri lettori evitando tecnicismi che avrebbero probabilmente reso la comprensione più difficile, e sempre allo stesso fine proseguiamo oggi il nostro esame e andiamo a vedere, cercando di tirare le somme, come sia del tutto evidente - oltre a quanto abbiamo spiegato finora - che se l'alone di affumicatura del colpo sparato si può rintracciare sulla cute, essa doveva essere in quel momento priva di indumenti. Se gli indumenti fossero stati presenti, infatti, avrebbero intercettato l'alone, che sulla cute dunque non sarebbe visibile. In sede autoptica, infatti, manca un esame sia degli abiti che Mussolini indossava a piazzale Loreto (ricordate? La salma era stata "preparata" sul tavolo anatomico) sia della stessa cute: non vi è parola circa l'aspetto della cute in prossimità dei fori di proiettile. Abbiamo anche visto come Alessiani, esaminando le foto di piazzale Loreto e dei corpi in obitorio, rilevi l'integrità degli indumenti indossati dal Duce: non un foro di proiettile appare sul cappotto, né sulla camicia, né sulla maglia. Mussolini insomma non aveva abiti indosso quando venne ucciso, gli indumenti (integri) sono dunque stati messi sul corpo dopo la morte e il fatto che uno stivale sia lacerato fa propendere per una vestizione a rigor iniziato (anche il buon Pisanò arrivò a questa deduzione, il lettore ricorderà il nostro speciale di due anni fa sul tema). Andiamo ora a vedere cosa scriveva Il Giornale d'Italia nell'esclusiva già citata dell'aprile 1988. I documenti su cui il collega Ezio Praturlon sono gli stessi di cui disponiamo noi oggi, ma lui ebbe l'occasione di parlare direttamente con Alessiani, dunque può essere interessante riferirne al lettore. Era il 26 aprile, e il nostro quotidiano titolava: "Gli abiti di Mussolini non avevano fori di proiettili", e nel sommario scriveva: "Anche le foto parlano per chi sa interpretarle: e quelle dei giorni 28-30 aprile 1945 dicono che Mussolini fu raggiunto dai colpi mortali mentre era spogliato, verosimilmente a letto. La morte di Claretta non è ricostruibile perché non fu fatta l'autopsia, ma si può ipotizzare realisticamente. Il grande interrogativo che dura ancora". Già, il "grande interrogativo" che nel 1988 durava ancora e che oggi, quasi trent'anni dopo le indagini di Alessiani, non arriva ancora ad essere svelato. A questo proposito vale la pena di sottolineare come, nel tempo, si sia parlato di "scoop" derivanti da testimonianze di vario genere, più o meno affidabili, più o meno credibili, più o meno intellettualmente oneste. Il problema quando si indaga su un cosiddetto "cold case", è che moltissime prove sono ormai deteriorate, inservibili, o addirittura evidentemente svanite. Quanto alle testimonianze, bisognerebbe aprire un capitolo a parte per spiegare quanto esse siano suscettibili di una lunghissima serie di variabili. È tema prettamente criminologico, e questo è un altro campo sul quale ragionare che ci prenderebbe molto spazio qualora volessimo rendere un servizio preciso a chi legge. Ma questo non è un manuale di criminologia, dunque nostro malgrado anche qui dovremo operare di sintesi. Nelle testimonianze influiscono vari fattori: l'attendibilità del testimone, prima di tutto, che varia a seconda di una lunga serie di circostanze afferenti principalmente - per quanto ci interessa in questa sede - al tempo trascorso, alle condizioni emotive/ambientali/sociali del testimone nel momento in cui i fatti vengono da lui recepiti, la buona o mala fede. Il tema non si esaurisce certo in queste variabili, ma esse sono certamente da tenere in considerazione per quanto attiene al nostro tema odierno. Ed ecco perché, invece, il lavoro di Alessiani è estremamente interessante: proprio perché non sottostà a queste variabili, essendo piuttosto basato interamente su prove scientifiche. Ecco perché ritengo (e insisto) che certe indagini siano più affidabili di altre. Ciononostante, non possiamo certo snobbare le testimonianze, e ci mancherebbe altro. Dico solo che è necessario esaminarle tenendo ben presente che sono soggiogate alle variabili di cui parlavamo prima. Torniamo dunque, con queste premesse, all'articolo del nostro quotidiano di quell'aprile del 1988, che dice: "Sulla sorte di 'Neri' (Luigi Canali) e 'Gianna' (Giuseppina Tuissi) sono già state pubblicate varie cose, ma la ricostruzione più attenta e particolareggiata appare quella dello storico Franco Bandini; il quale, del resto, ha anche fatto una ricostruzione quanto mai dettagliata di tutto il contorno della esecuzione di Mussolini, ivi compreso il fatto che non fu certamente fucilato né nel luogo né all'ora indicati dalla versione ufficiale. Proprio a lui si deve la scoperta, tra l'altro, di un'importante testimonianza, quella di Angelo De Angelis che aiutò a caricare su un camion i corpi di Mussolini e della Petacci raccogliendoli davanti al cancello della finta esecuzione; De Angelis si accorse del fatto che inspiegabilmente i due corpi erano già in stato di rigidità cadaverica, benché fossero trascorsi solo pochi minuti dall'asserita fucilazione, e che per terra non c'erano tracce di sangue". Se Mussolini e la Petacci fossero stati uccisi in casa, si spiegherebbe anche perché il fotografo di Mezzegra venne tenuto fuori per giorni. Lo storico e il medico legale, lavorare insieme per porre dei punti fermi. Perciò Luciano Garibaldi si affidò alla collaborazione della dottoressa Conti: una squadra di professionisti al servizio della Storia. "In realtà - continua Praturlon -, come affermano sia Franco Bandini che Aldo Alessiani, i due erano già morti da alcune ore, e questo spiega la rigidità cadaverica che giustamente sorprese il testimone. Ma Bandini colloca la morte di Mussolini verso mezzogiorno, mentre come abbiamo visto, e come si cercherà di provare su base scientifica, Alessiani la colloca intorno alle 5,30, sempre del 28 aprile. Su un altro punto coincidono le due ricostruzioni - quella dello storico e quella del medico legale - ed è sull'ora dell'autopsia: all'incirca le 7 del mattino del 30 aprile. Ma lo storico, pur avendo fatto un accuratissimo lavoro di ricerca e di ricostruzione di tutte le vicende ed i personaggi di quelle giornate, comprensibilmente non seppe 'leggere' (inteso in chiave scientifica) il referto dell'autopsia. Perché una volta chiarito che l'autopsia iniziò verso le sette del mattino del 30 aprile, e che dal referto si apprende che il 'rigor mortis' iniziava a scomparire (il collo ed il mento avevano iniziato a rilasciarsi) non si poteva che giungere a una conclusione: Mussolini era morto nelle primissime ore del giorno 28. La rigidità cadaverica dura infatti, come minimo, quarantotto ore: essendo già iniziato il rilasciamento, la morte non poteva che risalire alle primissime ore del 28". Questo passo dell'articolo di Praturlon la dice lunga sull'importanza, per lo storico, di affidarsi in determinate circostanze al lavoro di altri professionisti: in questo caso di un medico legale, o quantomeno di un medico. Ed è per questo che Luciano Garibaldi, quando si trovò tra le mani il lavoro immenso di Alessiani, lo esaminò insieme alla dottoressa Conti. Uno storico e un medico, insieme, al lavoro su uno dei casi più intricati della nostra storia: è il metodo giusto per arrivare a conclusioni certe. Non si saprà mai tutto, ne siamo consapevoli, ma alcuni punti fermi si possono porre, e questo è già un passo in avanti verso la verità. Andiamo avanti con il pezzo di Praturlon: "Abbiamo già rilevato che i colpi, per la loro diversa e singolare angolatura, si spiegano soltanto con una colluttazione in posizione orizzontale (sul letto o sul pavimento). Ma risalendo all'ora della morte si giunge alla conclusione che Mussolini e Claretta a quell'ora antelucana stavano riposando, e perciò erano almeno in parte spogliati. Non disponendo di pigiami o altri indumenti notturni, si erano quanto meno 'alleggeriti': probabilmente Claretta era in sottoveste e Mussolini era in maglietta e mutande. Troppo tardi, quando già era cominciato il rigor mortis, qualcuno pensò che non si poteva far passare per una regolare 'esecuzione' l'uccisione di due persone se i corpi fossero apparsi spogliati. Ed allora cominciò un nuovo capitolo di quel 28 aprile". Mi fermerei per ora qui, e darei appuntamento al lettore alla prossima puntata, non prima però di rilevare ancora una cosa che mi sembra rilevante. Ricordate cosa ci disse don Luigi Barindelli, parroco di Mezzegra, l'anno scorso? Ci riferì la testimonianza del fotografo del posto che cercò di entrare in casa De Maria dopo aver saputo che Mussolini e la Petacci erano stati uccisi, ma che non lo fecero entrare se non dopo alcuni giorni. Il buon Sacerdote si chiedeva perché? E ipotizzava che quei giorni erano serviti per ripulire, sistemare, realizzare quella "scenografia" che poi finì sulle "cartoline ricordo", macabro souvenir di quelle terre in riva al lago. Le testimonianze, dicevamo, vanno prese "con le molle", mentre la scienza non si può discutere. Qui abbiamo un caso particolare: la scienza (che non si può discutere) arriva a certe determinazioni che vengono suffragate da certe testimonianze. Non si può non tenerne conto.
Resoconto dall'obitorio. Concludiamo il nostro speciale sul documento di Bruno Romani, scrive Emma Moriconi il 4 aprile 2016 su "Il Giornale D'Italia". "Bisognava fare tutto da soli: rimuovere i corpi, scoprire alla luce i volti, scrivere su dei lembi di carta i nomi, le generalità, gli indirizzi". Riprendiamo tra le mani il resoconto di Bruno Romani, e chiudiamo finalmente questa sequela di speciali dedicati alle pagine più buie della nostra storia. Siamo ancora all'obitorio di Milano, è il 30 aprile del 1945. Il cronista a seguire racconta ancora di come parenti, amici o semplici curiosi si aggirassero tra quei corpi impacciati nel tentativo di non calpestarli, alla ricerca dei propri cari. "Ed ogni volta che uno di essi veniva riconosciuto, si verificavano le stesse scene: si levavano striduli lamenti, preghiere recitate ad alta voce, ed anche imprecazioni e maledizioni. Bisognava fare tutto da soli - documenta ancora Romani -: rimuovere i corpi, scoprire alla luce i volti, scrivere su dei lembi di carta i nomi, le generalità, gli indirizzi. Perché, di custodi e becchini neppure l'ombra". Anche Romani e i suoi cercano: cercano di riconoscere, nel mucchio, i volti di Mussolini, di Claretta e dei gerarchi. "'Guarda' disse Gino indicando col dito un morto che portava una benda nera su di un occhio 'Questo è Barracu. E questo qui accanto è Alessandro Pavolini'. Erano entrambi facilmente riconoscibili. I loro volti ed i loro corpi erano ancora intatti". Questo passaggio è in nettissima contraddizione con quanto riferisce l'estratto pubblicato su Risorgimento Liberale, che invece dice: "I corpi sono distesi a terra. In un corridoio giacciono molti cadaveri allineati. Apre la fila Pavolini, quasi irriconoscibile; a torso nudo, indossa i pantaloni cachi e gli stivaloni neri". Quale delle due versioni è dunque quella corrispondente ai fatti? Pavolini era "facilmente riconoscibile" come dice nella versione integrale del resoconto, o "quasi irriconoscibile", come dice Risorgimento Liberale? Prosegue poi riferendo l'atmosfera del luogo: insieme ai suoi collaboratori Romani sale al primo piano dove è in corso l'autopsia sul corpo del Duce. Racconta di una stanza "gremita di medici, di ufficiali americani, di fotografi", alcuni di questi ultimi cercano di posizionarsi in modo da scattare foto "buone" e quindi "si erano arrampicati sugli alti davanzali delle finestre". Quindi spiega che l'esame autoptico si è appena concluso, un medico militare americano ricuce il cranio. Oltre che per il normale esame dell'encefalo, infatti, c'è stata anche l'asportazione di un pezzetto di materia cerebrale richiesta dagli Americani al fine di condurvi esami approfonditi in patria. Quel pezzetto di cervello, dopo l'esame, verrà dimenticato in qualche angolo e verrà restituito a Donna Rachele molti anni più tardi, dentro un pezzetto di cellophane, a sua volta rinchiuso dentro una busta da lettere. Per tornare a quel giorno in obitorio, Romani riferisce che "il chirurgo, prima di ricucire la ferita, aveva riempito il vuoto con stracci e segatura [...] ad ogni movimento - aggiunge -, ad ogni urto, il testone ballonzolava come una maschera del carnevale di Nizza". Questo è uno di quei casi che possono far rabbrividire, ma si tratta di una prassi diffusa. Cioè, quando gli organi devono essere esaminati, essi vengono asportati e al loro posto vengono posizionati materiali di riempimento. È triste, può suscitare orrore, ma è così. Resta il dato - scientifico - che se la testa "ballonzolava", il rigor doveva essere cessato. Il che dimostra che le deduzioni di Mario Alessiani circa l'epoca della morte (che il professore collocava al mattino del 28 aprile, e non certo alle 16,30 del pomeriggio come era andato raccontando Audisio e come poi la "vulgata" tentò di asseverare) erano corrette e che la fucilazione davanti al cancello di Villa Belmonte a Giulino di Mezzegra era solo una messinscena. Riferisce ancora Romani che l'aspetto del cadavere era marmoreo, e spiega che non si era formata alcuna macchia di sangue sul tavolo né la segatura sparsa a terra ne era impregnata, e attribuisce questo dato alla notevole dispersione di sangue avvenuta a piazzale Loreto. Dopo la ricucitura del cranio, Romani riferisce di un omino (un antropologo) che con un metro arrotolato in mano comincia a misurare tutte le parti del corpo di Mussolini. L'uomo spiega che è sua intenzione ricostruire la personalità del Duce attraverso i suoi dati antropometrici. Riferisce di averli trovati del tutto "normali", come "normali" erano stati i dati rilevati dall'autopsia. Nessuna malattia, nessuna traccia di malattie veneree, nessuna traccia di ulcera, niente di niente. Insomma, era un uomo "normale"... chissà cosa si aspettavano di trovare, di "non normale"... Ma un dato interessante, che riferisce ancora Romani, è che questo antropologo fa il suo comodo, prende le sue misure, volta e rivolta il corpo di Mussolini e nessuno bada a lui. Un inserviente osserva la testa, "era davvero una bella testa", dice. Dunque, abbiamo parlato prima di "servizio", riferendoci a quello che i medici offrono alla collettività, andando ad indagare sulle cause della morte per capire cosa sia successo davvero, eccetera. Abbiamo anche parlato di deontologia professionale e di "rispetto". Trasformare una sala settoria in un set cinematografico non è "rispetto". Posare con un bel sorriso stampato sulle labbra, neanche si fosse al circo o al parco giochi, non è "rispetto". E questo a prescindere dal "proprietario" del corpo che si trova sul tavolo settorio. Certo, può succedere che sia necessario documentare, anche con fotografie o filmati, un determinato esame: si fa spesso, in genere se ne occupa la scientifica, o comunque personale idoneo. Si fa con pacatezza, con rispetto, con un atteggiamento idoneo al luogo in cui si è e alla situazione in cui ci si viene a trovare. "Fosse stato un morto qualunque - commenta "Gino" con Romani - si sarebbe gridato allo scandalo e alla profanazione. Ma era Mussolini, e si frugava, con curiosità morbosa, nel suo cervello, nel suo intestino, perfino nel suo sesso, alla ricerca del segreto di venti anni di storia e dittatura". Ancora troppi misteri aleggiano su quei giorni e su quegli eventi. Un esame necroscopico condotto in pessime condizioni. Mussolini, Claretta, Starace: mancò il rispetto per i morti, e anche la deontologia professionale. Altra questione, poi, è quella relativa ai criteri con cui occorre procedere a certi esami. Un'indagine tanatologica, per essere affidabile, prevede un certo protocollo, concentrazione, ordine, metodo. Prima di tutto, esaminare corpi che sono stati - dopo morti - oggetto di sevizie di ogni genere, appesi per i piedi per ore, quindi tirati giù, lavati con gli estintori, poi caricati come sacchi su un camion e infine sbattuti in uno stanzone prima di essere portati sul tavolo settorio, non è esattamente la più agevole delle operazioni. Condurre un esame necroscopico, esterno e poi interno, presuppone molta attenzione già in condizioni standard, figuriamoci in un caso come questo. È evidente che sarebbe stato necessario operare un accuratissimo esame esterno prima di tutto, per stabilire intanto quali colpi potessero essere inquadrati come inferti in vita e quali, invece, post mortem. Il referto dell'esame autoptico sul corpo di Mussolini - ne abbiamo parlato spesso - è estremamente carente in questo senso. È estremamente carente in tutto, a dire il vero. Bene, benissimo fece Mario Alessiani a condurre la "sua" indagine. Ma completiamo il nostro ragionamento sulla testimonianza di Bruno Romani, il quale dopo aver lasciato la stanza in cui era stata completata l'autopsia su Mussolini si sposta in un altro stanzone "sulla sinistra del pianerottolo", dove un operaio sta inchiodando alcune casse di legno. In una vi trova adagiato il corpo di Achille Starace, sul quale volto non vede espressione "di dolore o di terrore". Romani legge sul suo viso un'espressione "di arroganza e di sfida". Io non ho visto dal vero il volto di Achille Starace, per ovvie ragioni prima di tutto anagrafiche. Però ho potuto vedere le foto, e non vi ho trovato arroganza né sfida. Vi ho trovato invece un'inaspettata espressione di rassegnazione bonaria. Impressioni. Accanto alla bara di Starace c'è quella di Claretta, con il corpo "ricoperto di lividi", il collo "gonfio". Un inserviente - racconta ancora Romani - con una sigaretta penzolante dalle labbra e vestito di abiti consunti si avvicina al corpo, si inginocchia accanto alla bara, "sollevò il corpo della Petacci afferrandola per le ascelle, appoggiò la testa della morta sulle proprie ginocchia, e rimase immobile in quella posizione per alcuni secondi, quasi dovesse posare davanti a un fotografo. Poi, dopo averci strizzato furbescamente l'occhio, frugò nelle tasche dei pantaloni e ne trasse fuori una lametta Gilette con la quale tagliò, all'altezza dello sterno, il reggipetto. Il seno della donna, di una perfezione scultorea, esplose nella sua nudità. L'inserviente prese uno dei seni nel cavo della mano, fece il gesto di soppesarlo, e quindi disse, guardandosi all'interno: 'è ancora bello duro!'. Un ghigno gli serrò le labbra". Poi il tizio si guarda intorno, come per capire le reazioni al suo gesto, del quale evidentemente va molto fiero. Nessuno reagisce, però. Avevamo parlato di "rispetto" e di "deontologia". Nel pezzo apparso su Risorgimento Liberale c'è anche la lista dei medici che avevano eseguito l'autopsia: Caio Mario Cattabeni, Enea Scolari, Emanuele Dabindo. Il tecnico necroscopico è Pietro Loso. I corpi di Mussolini, di Claretta e di Starace vengono, alla fine, depositati nelle bare di legno, ciascuna di esse - riferisce ancora Romani - riporta sopra un numero. Quella del Duce ha il 167, quella della Petacci il 166, quella di Starace il 165. Il nostro pietoso viaggio in quell'aprile del 1945 per ora finisce qui. Ma il lettore ricorderà quanti misteri ancora aleggiano su molte di quelle vicende. Non si finisce mai di scrivere la storia, e il tempo ci consegnerà ancora elementi utili a capire, per sapere la verità. L'Istituto di Medicina Legale di via Ponzio, dove si svolse l'autopsia di Mussolini, fu voluto proprio dal Fascismo. L'obitorio di Milano e quelle strane trame del destino. Il primo Direttore fu quell'Antonio Cazzaniga che delegò al suo "secondo" l'esame necroscopico sulla salma. Abbiamo accennato, nei giorni scorsi, al fatto che l'Istituto di Medicina Legale di Milano - dove vennero portati i corpi di Benito Mussolini, Claretta Petacci, Achille Starace, dei fascisti uccisi a Dongo e di moltissime persone, tra militari e civili, che vennero massacrate in quei giorni di guerra civile - è stato fondato durante il Fascismo. L'Università degli Studi di Milano venne infatti fondata nel 1924. Suo primo Magnifico Rettore fu il Sen. Prof. Luigi Mangiagalli, che si occupò delle discipline medico-legali e affidò all'ing. Prof. Umberto Massari lo studio del progetto dell'Istituto di Medicina Legale. Pensate che nella Rivista mensile del comune di Milano, stampata presso la Tipografia del Popolo d'Italia, nel 1934 si scriveva che, a quanto riferiva la Commissione di esperti affidataria del progetto per il nuovo obitorio, "Così come è concepito, l'edificio corrisponde a tutte le esigenze pratiche dei servizi, non solo, ma anche a quelle dell'igiene e del decoro". Un decoro che però si perse in quell'aprile del 1945, e ne abbiamo parlato a lungo. Un lungo elenco di "cose da fare" caratterizzava i compiti del personale dell'obitorio stesso, com'è logico che sia, tra cui - ovviamente - "espletamento di indagini complementari di quelle necroscopiche a fini giudiziari". È interessante curiosare tra le carte che raccontano lo spirito con cui venne edificato e organizzato quell'obitorio: spirito che è comune a ogni struttura di questo tipo. Ma in questo caso fa un certo effetto, perché sappiamo cosa accadde lì dentro in quel 30 aprile del 1945 e sembra un curioso e crudele scherzo del destino che proprio lì si sia così tanto mancato di rispetto al corpo dell'uomo che volle quella struttura, struttura che fu edificata e organizzata proprio grazie a lui. Leggere che come area fu scelta quella compresa tra le vie Mangiagalli, Ponzio e piazzale Gorini perché all'epoca era lontana da edifici civili e da aree di traffico urbano, tale dunque da "consentire all'Obitorio quell'atmosfera di austero raccoglimento che particolarmente si intona alla sua specifica funzione". Non solo: "la disposizione dell'area e la sua ampiezza consentono una sistemazione tale da occultare al pubblico della strada il carico e lo scarico delle salme [...] e tutto quando d'altro potrebbe richiamare l'attenzione della gente sulle 'operazioni' connesse all'istituzione". Queste informazioni sono facilmente reperibili sul sito web dedicato alla struttura, che fa un profilo storico dell'Istituto. Un settore della struttura venne destinata proprio al Nuovo Obitorio Comunale, distribuito in due piani: uno al pianterreno e l'altro in un sotterraneo. L'Italia fascista aveva voluto quella struttura. E ora quegli uomini che l'avevano sostenuta transitavano - cadaveri - vilipesi, offesi, maltrattati. L'obitorio venne inaugurato nel 1934. Riferisce il sito, citando uno scritto di Galassi della Regia Università di Milano, Istituto di Medicina Legale, in Acta Medica Italica, VI, 1937: "L’obitorio (ex Morgue) è diviso in tre riparti. Nella sua prima sezione comprende: una sala destinata ad accogliere i dolenti per le ore d’attesa; un locale per la formazione dei cortei funebri; la cappella per la celebrazione delle funzioni religiose di rito; una sala per l’esposizione delle salme, allo scopo di rendere possibili i necessari riconoscimenti; e, infine, un locale adibito a servizi di pronto soccorso che possono essere resi indispensabili nel caso che qualcuno dei dolenti, invitato a riconoscere un suo caro esposto, cogliesse malore. La Sezione si completa con un ufficio che ha l’incarico di provvedere alla registrazione delle salme. La seconda Sezione è destinata alla raccolta delle salme per le osservazioni e per la regolamentare giacenza di 24 o 48 ore, al fine di accertare il decesso o eventuali altri elementi che interessano in modo particolare l’autorità inquirente. Ci sono qui due grandi camerate nelle quali vengono deposte le salme: gli uomini separati dalle donne. Su un fianco dei due cameroni vi è un locale dove è sistemato il dormitorio dei custodi i quali debbono, per disposizione di legge, costantemente rimanere nei pressi del locale di osservazione. Nella terza Sezione infine si aprono le sale per le necroscopie. Sono due, separate da una terza riservata al giudice, incaricato di sorvegliare le operazioni del perito settore e ai testimoni. Da questa sala il magistrato e i testi possono appieno seguire gli atti del perito in quanto le pareti di essa sono a vetri trasparenti. Su un fianco delle tre sale una quarta se ne apre ch’è adibita ai servizi fotografici e che comprende anche l’indispensabile camera oscura per lo sviluppo delle pellicole. Tutti i locali sunnominati sono disimpegnanti da luminosi corridoi ai quali si accede direttamente da un ingresso posto sotto una galleria coperta che serve alla sosta dei carri funebri. Con la stessa galleria comunicano direttamente la cappella e la sala dei dolenti le quali, pur fronteggiando coi loro accessi l’ingresso dell’obitorio, ne sono del tutto separate in modo da evitare che il pubblico che segue i funerali sconfini nell’ambito degli altri servizi. E veniamo al sotterraneo dove troviamo in primo luogo il locale delle macchine che alimentano l’impianto frigorifero che serve ben trenta celle di congelamento. A fianco di esso, sono altri tre locali “freddi” dove le salme vengono portate allorché è necessario ch’esse vengano conservate per un tempo indefinito. Seguono locali per il lavaggio delle salme ed un archivio, dove cioè verranno raccolti indumenti e oggetti repertati dai cadaveri. Infine, c’è il locale che disimpegna il servizio refettorio per il complesso degli inservienti. Benissimo organizzato risulta pure il movimento dei “soggetti” dai locali sotterranei i cadaveri vengono portati al pianterreno a messo di montacarichi e passati nelle celle frigorifere. Da queste vengono poi traslati nelle camere di riconoscimento ove sono immessi in speciali casse rivestite di vetro. Il che permette ai visitatori interessati la più perfetta delle visibilità e, conseguentemente, facilita nel modo più assoluto i “riconoscimenti”. 30 aprile 1945: qualche osservazione a posteriori. Per i fotografi era predisposta una apposita stanza...Perché dunque durante l'esame sul corpo del Duce li vediamo ammassati nella sala settoria? Come si può vedere, tutto venne impostato rigorosamente. Ciò che vorremmo sottolineare è un passaggio specifico: "Su un fianco delle tre sale una quarta se ne apre ch’è adibita ai servizi fotografici e che comprende anche l’indispensabile camera oscura per lo sviluppo delle pellicole". Insomma l'obitorio consta, tra le altre cose, anche di una stanza apposita per i servizi fotografici. Dunque perché nelle immagini che ci riportano le cronache dell'epoca (e dal resoconto di Bruno Romani che abbiamo terminato ieri di riferire ai nostri lettori) vediamo fotografi ammassati nella stessa sala settoria in cui venne esaminato il corpo di Mussolini? Certo oggi, settantuno anni dopo, è inutile andare a cercare responsabilità di qualunque genere... ma qualche domanda, qualche perplessità va quantomeno rilevata. Perché è importante che gli Italiani si rendano conto di come fu gestita quella faccenda: e quel che accadde è grave, gravissimo. Qualche piccola annotazione ancora. Dice ancora il documento: "Bene alloggiato risulta il personale dell’istituzione: fra l’altro si è avuta un’ottima idea quando si è pensato di alloggiare il custode in quei quattro bei locali ricavati in un sopraelevato: la villetta sul tetto …. Non manca, infine, nota di grazia e di vita nel bel giardinetto, una civettuola zona sistemata a verde, copiosamente alberata e fiorita". Giusto per sottolineare un aspetto del Fascismo spesso dimenticato, che consiste nel criterio che veniva utilizzato molto spesso: lo abbiamo già visto in molti casi, per esempio il lettore ricorderà quello delle fabbriche Caproni a Predappio. Il personale, i dipendenti, cioè, venivano alloggiati direttamente sul posto di lavoro: era lo Stato a mettere a disposizione i locali abitativi, ed erano sempre belle strutture, comode e rifinite. Chiedersi perché queste cosine non vengano raccontate sui libri di scuola è d'obbligo. Altro dettaglio non insignificante: il primo direttore dell'istituto fu il professor Antonio Cazzaniga, a cui succederà il prof. Caio Mario Cattabeni. Due nomi che al lettore dovrebbero ricordare qualcosa: quando venne effettuata l'autopsia di Benito Mussolini, titolare della direzione era proprio Cazzaniga, che però non eseguì personalmente l'esame, affidando la salma nelle mani del suo "secondo", Cattabeni appunto. Perché? Perché un titolare dovrebbe lasciare ad altri un esame di questo rilievo? Tanto più se parliamo di un insigne professionista, autore - tra l'altro, e guarda un po' - di un'opera dal titolo "I problemi cronologici in medicina legale", uscito nel 1948.
Cattabeni, dal canto suo, divenne direttore dell'Istituto nel 1955. Forse Cazzaniga non se la sentì di dover sottostare a certi diktat. Forse ebbe lo scrupolo di non rendersi corresponsabile di ciò che sapeva sarebbe accaduto proprio relativamente al corpo dell'uomo che lo aveva messo a capo, anni prima, di quella struttura.
IL MISTERO DELLE FOIBE.
Settant'anni di omertà, ora spunta un'altra foiba. Lo rivela un documento "dimenticato" negli archivi del Ministero degli Esteri. Nella fossa in provincia di Udine 200-800 corpi, sembra vittime di partigiani rossi, scrive Fausto Biloslavo, Giovedì 11/02/2016, su "Il Giornale". Una nuova foiba sembra tornare alla luce dagli orrori del passato, il giorno del Ricordo del dramma degli esuli istriani, fiumani e dalmati. La fossa comune non si troverebbe nell'ex Jugoslavia, ma in provincia di Udine. Le Foibe scordate dentro un cassetto. I responsabili del massacro, nascosto per 70 anni, sarebbero i partigiani comunisti della divisione Garibaldi-Natisone, che nel 1945 erano agli ordini del IX Corpus jugoslavo del maresciallo Tito. Le vittime nella fossa comune sarebbero fra 200 ed 800. I carabinieri sono stati informati. Ieri, Giorno del ricordo dell'esodo e delle foibe, Luca Urizio, presidente della Lega nazionale di Gorizia, ha reso pubblico un documento «dimenticato» negli archivi del Ministero degli Esteri, che rivela il punto esatto della strage ancora da confermare. Il 30 ottobre 1945 arrivò a Roma un rapporto dell'Ufficio informazioni, gruppo speciale. «La foiba e la fossa comune esistente nella zona di Rosazzo (provincia di Udine, ndr) è ubicata precisamente nella zona chiamata ... (il nome del posto è cancellato per mantenere il riserbo)». L'informativa fa parte delle notizie segrete «Ermete» e riporta che «secondo quanto afferma la popolazione dovrebbero essere sepolti da 200 a 800 cadaveri facilmente individuabili perché interrati a poca profondità». L'Ufficio informazioni indica anche i presunti mandanti: «Il responsabile di detto massacro della popolazione è ritenuto il comandante della divisione Garibaldi-Natisone Sasso coadiuvato dal commissario politico Vanni». L'informativa segreta è rimasta sepolta in archivio fino allo scorso anno, quando l'ha trovata Urizio, che a Roma voleva fare luce sui deportati dei titini da Gorizia nel 1945. «Sasso» è il nome di battaglia di Mario Fantini e «Vanni» quello di Giovanni Padoan, noti fazzoletti rossi della Resistenza passati a miglior vita. Nel documento si indica anche un testimone: «Per avere chiarimenti e indicazioni necessarie per la identificazione occorre interrogare un certo Dante Donato ex comandante Osovano da Premariacco». I partigiani della brigata Osoppo erano stati massacrati dai garibaldini a Porzus nel febbraio 1945 perché si opponevano all'espansionismo titino. «La fossa non è lontana da Bosco di Romagno dove vennero trucidati parte degli osovani - rivela Urizio -. I carabinieri hanno chiesto di non rivelare la località esatta. Sopra i corpi potrebbero esserci delle armi abbandonate». Un altro documento recuperato a Roma del prefetto di Udine, Vittadini, l'11 giugno 1945, conferma che ai garibaldini «sarebbero stati anche di recente consegnati mitra russi con forte munizionamento e con l'ordine di tenersi pronti nel caso che da parte di Tito venisse ordinata un'azione di forza». Urizio ipotizza con il Giornale che «nella fossa comune potrebbero esserci civili e militari sia italiani che tedeschi. Un paese intero era a conoscenza della strage, reato che non va in prescrizione. Spero che dopo 70 anni cada finalmente il velo d'omertà». Agli inizi degli anni Novanta, dopo mezzo secolo di silenzio, i carabinieri avrebbero cominciato a ricevere vaghe informazioni sul massacro, ma la fossa non è mai stata trovata. Sembra che esista anche una confessione postuma di chi sapeva o ha partecipato alla strage. La Lega nazionale, che storicamente si batte per l'italianità, chiede di fare piena luce. Dagli archivi ministeriali romani sono saltate fuori anche le liste con nomi, cognomi e date di sparizione dei deportati dai partigiani titini nel 1945 a guerra finita. «Gli elenchi allegati si riferiscono a n. 1203 persone scomparse di Gorizia () Si ignora se dette persone siano state deportate in Jugoslavia dai partigiani di Tito o uccise e gettate nelle foibe» riporta un documento del 1° ottobre '45 dello Stato maggiore dell'esercito. «Li stiamo confrontando con le liste di quelli che sono rientrati - spiega Urizio -. A Gorizia non sono tornati in 750-800. L'obiettivo è trovare dove sono finiti per permettere ai familiari di pregare o porgere un fiore». A Gorizia esiste già un monumento dedicato a 665 scomparsi. L'iniziativa bipartisan è stata sostenuta dal comune isontino e dal senatore dem Alessandro Maran. Fra i documenti recuperati a Roma colpisce la lettera del Cln di Gradisca d'Isonzo al presidente del Consiglio, Alcide de Gasperi, del 7 giugno 1946. «L'unione italo-slava di questa zona, che si autodefinisce antifascista non è in sostanza che la continuazione del fascismo in funzione panslavista», scrive G. Francolini seguito da altre firme. «Questi signori, che amano auto definirsi il popolo non rappresentano che se stessi e quella piccola frazione eterogenea la cui unica forza di coesione si manifesta nell'odio contro il popolo italiano».
«Così sabotano il mio film sulla strage più feroce commessa dai partigiani», scrive "Il Giornale" Domenica 11/11/2012. Della maestra elementare, Corinna Doardo, 39 anni, vedova di un sarto, che aveva insegnato a leggere e a scrivere a uno stuolo di bambini, ha scritto Giampaolo Pansa ne Il sangue dei vinti: «Andarono a prenderla a casa, la portarono dentro il municipio e la raparono a zero. La punizione sembrava finita lì e invece il peggio doveva ancora venire. Le misero dei fiori in mano e una coroncina di fiori sulla testa ormai pelata e la costrinsero a camminare per la via centrale di Codevigo, fra un mare di gente che la scherniva e la insultava. Alla fine di questo tormento, la spinsero in un viottolo fra i campi. E la uccisero, qualcuno dice con una raffica di mitra, altri pestandola a morte sulla testa con i calci dei fucili». Del figlio del podestà, Ludovico Bubola, detto Mario, ha riferito Antonio Serena ne I giorni di Caino: «I barbari venuti a liberare il Veneto cominciano a segargli il collo con del filo spinato, finché la vittima sviene. Allora provvedono a farlo rinvenire gettandogli in faccia dei secchi d'acqua fredda. Ma il martire non cede e grida ancora la sua fede in faccia ai carnefici. Allora provvedono a tagliargli la lingua che gli viene poi infilata nel taschino della giacca. Quindi, quando la vittima ormai agonizza, gli recidono i testicoli e glieli mettono in bocca. Verrà poi sepolto in un campo d'erba medica nei pressi, sotto pochi centimetri di terra». Di Farinacci Fontana, che aveva appena 18 anni ed era infantilmente orgoglioso della sua fede nel Duce, compendiata fin dalla nascita in quell'assurdo nome di battesimo mutuato dal cognome di un gerarca fascista, vorrebbe parlare il regista Antonello Belluco ne Il segreto. Ma un conto è leggere certe cose sui libri degli storici revisionisti, un altro conto è guardarle al cinema, e Il segreto è appunto un film. Che nessuno deve vedere, anzi che non si deve nemmeno girare, perché è ambientato sullo sfondo dell'eccidio di Codevigo, il più cruento, insieme con quello della cartiera di Mignagola nel Trevigiano, compiuto dai partigiani in un'unica località a guerra già finita, a Liberazione già avvenuta, ad armi già deposte, in un arco temporale che va dal 29 aprile al 15 maggio, forse anche dopo, nessuno può dirlo con precisione. Così come nessuno ha mai stabilito la contabilità esatta della mattanza: c'è chi parla di 136 vittime, chi di 168 e chi di 365, come i giorni di quell'atroce 1945.
Secondo il cardiologo Luigi Masiero i giustiziati furono non meno di 600, ma il calcolo potrebbe essere inficiato dal fatto che il medico era stato, come quasi tutti, camicia nera. Un documento dell'arcidiocesi di Ravenna-Cervia ipotizza addirittura la cifra di 900 morti. Don Umberto Zavattiero, a quel tempo prevosto di Codevigo, annota nel chronicon parrocchiale: «30 aprile. Previo giudizio sommario fu uccisa la maestra Corinna Doardo. Nella prima quindicina di maggio vi fu nelle ore notturne una strage di fascisti importati da fuori, particolarmente da Ravenna. Vi furono circa 130 morti. Venivano seppelliti dagli stessi partigiani di qua e di là per i campi, come le zucche. Altri cadaveri provenienti da altri paesi furono visti passare per il fiume e andare al mare». In questa macabra ridda, diventa una certezza un titolo a tre colonne uscito sul Gazzettino soltanto 17 anni dopo, il 28 marzo 1962: «Esumate un centinaio di salme e raccolte in un piccolo ossario». È la prima cappellina sulla sinistra, nel cimitero di questo paese della Bassa padovana. Mezzo secolo fa vi furono tumulati i resti di 114 dei fascisti trucidati. Un'ottantina di loro hanno un volto negli ovali di ceramica. Tanti cognomi scolpiti sulla lapide e una postilla finale: «N. 12 ignoti». Belluco è un padovano di 56 anni, laureato in scienze politiche. Ha lavorato in Rai dal 1983 come programmista e regista per Radio 2 e Rai 3, prima a Venezia e poi a Roma. «Sono entrato grazie a un'unica referenza: l'aver vinto il premio Cento città, indetto dalla casa discografica Rca, che l'anno prima era andato al dj Claudio Cecchetto. In mensa mi chiedevano: “Tu da chi sei raccomandato?”. Tutti avevano un padrino». Nel 1987 lo convoca Antonio Bruni, dirigente della Tv di Stato: «Qua dentro, senza un partito alle spalle, non puoi far carriera. Meglio se ti cerchi un lavoro fuori». Belluco ascolta il consiglio. Si mette a girare spot e filmati per Lotto, Safilo, Acqua Vera, Lavazza, Pubblicità Progresso. Produce audiovisivi per Il Messaggero di Sant'Antonio, documentari, inchieste (sull'ecstasy, sul sequestro di Giuseppe Soffiantini, sul regista Sam Peckinpah). Nel 2006 l'esordio nel cinema con Antonio, guerriero di Dio interpretato da Jordi Mollà, Arnoldo Foà e Mattia Sbragia. La Buena Vista (Walt Disney Company) si offre di lanciare il film, ma il produttore preferisce l'italiana 01 Distribution (Rai Cinema). «Risultato: programmazione pessima. E pensare che in quattro sale di Padova aveva fatto gli stessi incassi del Codice da Vinci». Nel 2011 la sua docufiction Giorgione da Castelfranco, sulle tracce del genio viene qualificata dal ministero per i Beni culturali come film d'essai insieme con Habemus Papam di Nanni Moretti. Nello stesso anno cominciano le riprese de Il segreto, con tanto di marchio della Warner Bros sulla colonna sonora, giacché Belluco sa maneggiare tanto la pellicola quanto il pentagramma, come dimostra il Sanctus scritto a quattro mani con l'amico Pino Donaggio e cantato da Antonella Ruggiero nei titoli di coda di Antonio, guerriero di Dio. Il regista aveva già girato un quarto d'ora, dei 105 minuti previsti dal copione ambientato sullo sfondo dell'eccidio di Codevigo, quando gli capita fra capo e collo una catena di sventure difficilmente attribuibili al caso e tutte senza spiegazione: il produttore rinuncia, i contributi ministeriali e regionali vanno in fumo, le banche ritirano i finanziamenti, i collezionisti che avevano messo a disposizione materiale bellico e costumi d'epoca si defilano, la Ruggiero si rifiuta d'interpretare il tema musicale del Segreto, gli avvocati inviano diffide. «Finché un giorno Angelo Tabaro, segretario generale per la Cultura della Regione Veneto, me l'ha confessato chiaro e tondo: “Ho ricevuto telefonate dall'Anpi e dai partiti di sinistra. Non vogliono che esca questo film”».
Perché ha deciso di occuparsi dell'eccidio di Codevigo?
«Non certo per ricavarne un'opera ideologica. Nel 2010 il sindaco del paese, Gerardo Fontana, eletto con una lista civica di sinistra, mi sottopone in lettura due pagine riguardanti questa terribile storia. Sento che c'è materia su cui lavorare. Il tema non mi è indifferente: sono figlio di profughi istriani, i miei nonni e mia madre vivevano a Villa del Nevoso e scamparono alle foibe grazie a un ex repubblichino che faceva il doppio gioco per i partigiani di Tito. Butto giù una sceneggiatura e la invio a Fontana. Lui mi telefona: “Mi hai commosso”. Decidiamo di lavorare insieme al soggetto, che toccò da vicino la sua famiglia».
Ebbe qualche parente assassinato?
«Farinacci Fontana, 18 anni. Era suo cugino. Il padre Silvio, capo delle Brigate nere di Codevigo, si salvò consegnandosi ai carabinieri di Piove di Sacco. Il ragazzo, che non aveva fatto nulla di male, preferì restare in paese. Nonostante fosse stato interrogato dagli inglesi e rilasciato per la sua innocuità, finì giustiziato su ordine di un capo partigiano che faceva seviziare i prigionieri e poi li giudicava alla maniera dell'imperatore Nerone nel circo: pollice verso, morte; pollice in alto, vita. Come recita un proverbio africano, quando gli elefanti combattono, è sempre l'erba a rimanere schiacciata. Farinacci è il personaggio reale di una storia che nel Segreto è basata sulla fantasia. Di lui s'innamora Italia Martin, 15 anni. Ma Farinacci ha occhi solo per Ada, una giovane istriana. Un giorno Italia lo scopre mentre fa l'amore con Ada e per vendetta lo denuncia ai brigatisti».
Quelli sono esistiti davvero, però.
«Sì, la 28ª Brigata Garibaldi “Mario Gordini” arrivò a Codevigo il 29 aprile 1945 agli ordini di Arrigo Boldrini, detto Bulow, inquadrata nell'VIII Armata angloamericana del generale Richard McCreery. Vestiva divise inglesi, col basco fregiato di coccarda tricolore. All'epoca Bulow aveva 30 anni. L'ex parlamentare Serena nel libro I giorni di Caino scrive che Boldrini era un comunista con alle spalle un passato di capomanipolo nell'81º Battaglione “Camicie nere” di Ravenna, sua città natale. Finita la guerra, sarà deputato del Pci per sei legislature, vicepresidente della Camera e presidente dell'Anpi, l'Associazione nazionale partigiani d'Italia. Decorato dagli inglesi con medaglia d'oro al valor militare. Ma nel mio film di Bulow non parlo. Il comandante brigatista ha un nome di battaglia diverso: Ramon».
Al massimo evoca Per un pugno di dollari: «Al cuore, Ramon».
«Boldrini-Bulow s'è sempre difeso sostenendo che in quei giorni si muoveva fra Padova, Bologna, Milano, Venezia e Adria e mai ordinò le brutali uccisioni. Fatto sta che i partigiani venuti da Ravenna rastrellarono un po' in tutto il Veneto appartenenti alle disciolte formazioni della Repubblica sociale italiana e li portarono a Codevigo. Il bilancio dei processi sommari non si discosta molto da quello dell'eccidio delle Fosse Ardeatine. Solo che qui non ci sono un Herbert Kappler e un Erich Priebke che ammazzano con un colpo alla nuca 15 ostaggi in più rispetto all'ordine di rappresaglia. Dunque chi ha la responsabilità dei morti di Codevigo? Si sono forse uccisi da soli?».
Gino Minorello aveva 23 anni ed era l'organista della chiesa di Codevigo. Che cosa potrà aver mai fatto di male per meritare la morte?
«Gottardo Minato, che era il custode del cimitero, ha testimoniato che fu preso assieme a Edoardo Broccadello, detto Fiore, e a Primo Manfrin. Li misero sul ciglio della fossa. Poi diedero una fisarmonica all'organista, ordinandogli: “Suona una marcetta”. Mentre Minorello suonava, spararono a tutti e tre».
Per quale motivo la strage avvenne proprio in questo luogo?
«Siamo a meno di 5 chilometri in linea d'aria dall'Adriatico, in un territorio bagnato da quattro fiumi, Brenta, Bacchiglione, Nuovissimo e Fiumicello, sulle cui rive i prigionieri venivano spogliati, fucilati e gettati in acqua. Il mare doveva diventare la loro tomba, quando non li aspettava una fossa comune. Alcune vittime furono inchiodate vive sui tavolacci che si usavano per “far su” il maiale, come diciamo dalle nostre parti. Della maestra Doardo, forse colpevole di eccessiva severità nell'insegnare le tabelline al figlio zuccone di qualche comunista, restò integro solo un orecchio, come attestato nel referto del dottor Enrico Vidale, che esaminò le salme recuperate».
Mi racconti delle traversie del Segreto.
«Nel 2011 mi rivolgo a Sergio Pelone. Ha prodotto film di successo, come Gorbaciof, e molte opere di Marco Bellocchio, da L'ora di religione a Il regista di matrimoni».
Un produttore di sinistra.
«Maoista, a detta di Sandro Cecca, un mio amico regista. Tutti mi dissuadevano: “Figurarsi se Pelone ti produce Il segreto”. Vado nel suo ufficio a Roma e, in effetti, alle pareti noto varie scritte in cinese: massime di Mao Tse-tung, suppongo. “L'opera mi piace, può diventare un capolavoro”, mi incoraggia Pelone. Propone di chiedere i finanziamenti al ministero per i Beni culturali e alla Film commission della Regione Veneto. A quel punto diventa il capocordata. A Roma su 66 richieste di contributi ne vengono accolte solo 8. Il primo classificato è Alessandro Gassman, che becca 200.000 euro. Il cognome conta. Noi veniamo rimandati alla sessione successiva. A Venezia otteniamo 50.000 euro, un niente. Pelone firma ugualmente l'inizio delle riprese, che comincio a mie spese. Ma a marzo mi comunica che esce dal progetto perché non c'è il budget. Così ci fa perdere i finanziamenti del ministero e della Regione. E pensare che la scenografa Virginia Vianello, nipote di Raimondo, mia grande amica, mi aveva già presentato a Cinecittà Luce, che era pronta a distribuirmi il film».
Il progetto è stato azzoppato.
«E non solo finanziariamente. Dennis Dellai, regista vicentino di Così eravamo e Terre rosse, lungometraggi sulla Resistenza, che aveva promesso di mettermi a disposizione armi, automezzi e divise della seconda guerra mondiale, mi manda i costumi per girare le prime scene, però all'improvviso cambia idea. La nostra producer, Maria Raffaella Lucietto, parla con Davide Viero, aiuto regista di Dellai ed esperto di materiale bellico, il quale balbetta che tiene famiglia e che non vuole mettersi contro l'Anpi e i partigiani. Da quel momento i quattro o cinque collezionisti del Veneto ci chiudono le porte in faccia. “A Belluco non si deve dare niente”, è il passaparola».
Chi altro ha cambiato idea?
«Due del settore produzione se ne sono appena andati. Siccome realizzano audiovisivi per conto di enti pubblici, non volevano inimicarsi uno dei loro committenti».
Sia meno vago: quale committente?
«Flavio Zanonato, il sindaco di Padova. Ex Pci, oggi Partito democratico».
Non starà peccando di complottismo?
«Complottismo? Da Antonveneta mi avevano comunicato che erano disponibili 10.000 euro nell'ambito dei progetti culturali. Peccato che la fondazione bancaria sia presieduta da Massimo Carraro, già parlamentare europeo dei Democratici di sinistra, grande amico di Zanonato. Mai visti i fondi. Altri ci sono stati negati, sempre per motivi ideologici, dalle casse rurali».
Ha finito con le defezioni?
«Le racconto solo l'ultima, quella che mi ha ferito di più. Ingaggio un finalista di X Factor perché mi scriva il tema musicale del Segreto con una tonalità adatta ad Antonella Ruggiero. Spedisco testo, spartito e cover alla solista genovese. Mi scrive Roberto Colombo, il marito: “Veramente un brano interessante. Ad Antonella piace l'idea di poterlo interpretare”. Poi mi chiede: “Ci puoi mandare anche una rapida descrizione del contenuto del film?”. Mando. A quel punto ci comunica che sua moglie “ha pensato di non sentirsi a proprio agio nello sposare le tematiche della sceneggiatura”».
Tematiche politicamente scabrose.
«Le stesse che hanno indotto l'avvocato Emilio Ricci, patrocinante in Cassazione con studio a Roma, a inviarmi una raccomandata con ricevuta di ritorno in cui mi notifica che il suo assistito Carlo Boldrini, figlio ed erede di Arrigo Boldrini, venuto a conoscenza della mia intenzione di “girare un film sulle tragiche vicende relative alle stragi accadute a Codevigo nella primavera del 1945, ha evidente interesse a conoscere i contenuti della trama e dell'opera, in considerazione della complessità degli accadimenti di quel periodo e delle diverse interpretazioni-storico politiche che si sono susseguite”. Motivo per cui pretendeva una copia della sceneggiatura».
Stando allo Zingarelli, si tratterebbe di un tentativo di censura preventiva.
«L'invito perentorio mi è stato rinnovato dopo cinque mesi con una seconda raccomandata, identica alla prima. Ovviamente non gli ho spedito nulla».
È un fatto che le vicende di Codevigo furono al centro di 24 procedimenti penali riguardanti 108 omicidi, che videro imputati quattro combattenti della 28ª Brigata Garibaldi. Tutti assolti.
«Non è un film processuale. A me interessa di più capire come reagirono i bambini o perché nessuno degli abitanti di Codevigo si oppose a quella spaventosa carneficina. Perciò non comprendo da quale timore sia mosso il figlio di Boldrini, visto che nel mio film la figura del comandante Bulow, suo padre, non compare proprio».
Ha trovato un nuovo produttore per il suo film?
«Mi ero rivolto a Rai Cinema. La risposta mi è arrivata per e-mail da Carlo Brancaleoni, che dirige la struttura Produzione film di esordio e sperimentali: “Le devo purtroppo comunicare che non abbiamo ritenuto la sceneggiatura coerente con la nostra linea editoriale. Il senso narrativo essenziale, la storia d'amore dei due amanti stritolati dai meccanismi della guerra, non trova conforto, a nostro avviso, nel sottofondo storico che intende descrivere e raccontare”. Questa del “sottofondo storico” è da incorniciare. Forse la Rai trova conforto solo nei copioni che prevedono qualche milione di morti».
Dunque il produttore non l'ha trovato.
«No. Però avevo parlato con un amico del regista Dellai, il vicentino Bruno Benetti, imprenditore della Itigroup di Villaverla, che con la One art finanzia anche film statunitensi. Il suo consulente è Marco Müller, già direttore artistico della Mostra del cinema di Venezia, oggi al Festival di Roma. Un giorno dell'anno scorso Benetti mi chiama: “Müller ha letto la sceneggiatura, è rimasto impressionato. Darà l'internazionalizzazione al Segreto”. Passa qualche tempo e l'industriale telefona alla producer Lucietto: “Io non investo neanche 100 euro su un certo tipo di film”».
Adesso come se la caverà?
«Ho un po' di tempo davanti. Prima di fine aprile le riprese non possono ricominciare per motivi meteorologici, visto che l'eccidio fu commesso in primavera. Abbiamo ridotto le spese all'osso. Direttore della fotografia, scenografa e montaggista hanno accettato d'essere pagati a caratura, cioè in percentuale sui soldi che entrano in cassa. Se non entrano, lavorano gratis. C'è chi s'è offerto di noleggiarmi la macchina da presa Alexa per 1.000 euro a settimana: di norma ce ne vogliono 1.500 al giorno. L'investimento iniziale è davvero minimo: 120.000 euro. Mi rifiuto di credere che non vi sia un produttore indipendente, una casa cinematografica, una rete televisiva o anche solo un mecenate che non sia interessato a un film da cui potrebbe fra l'altro ricavare qualche soddisfazione economica».
E se non trova il mecenate?
«Il segreto uscirà comunque, questo è sicuro. Sto ricevendo attestazioni di stima commoventi. L'imprenditore Franco Luxardo, quello del maraschino, esule dalmata nipote di Pietro Luxardo, che col fratello Nicolò e la moglie di questi fu affogato nel mare di Zara dai partigiani titini, ci ha promesso 1.000 euro; a titolo personale, ha voluto precisare, perché non è riuscito a convincere nemmeno il consiglio d'amministrazione della sua azienda a compromettersi con i morti di Codevigo. Gli iscritti all'associazione Comunichiamo italiano, che ha sede a Padova, hanno deciso di autotassarsi. Se proprio non potrò entrare nel circuito normale, mi affiderò a Internet: sul sito Eriadorfilm.it si può fin d'ora prenotare il Dvd del film in edizione speciale, abbinato al libro Il segreto. Ormai ho fatto mio l'impegno dell'Amleto di William Shakespeare: parlerò anche se l'inferno stesso si spalancasse per ordinarmi di tacere».
Ma lei ha simpatia per il fascismo?
«Non vedo come potrei, essendo nato nel 1956. Giorgio Almirante sosteneva che solo chi ha vissuto sotto il Duce può ancora definirsi fascista, perché il fascismo è un'esperienza storica conclusa. Forse pensano che sia fascista perché avevo preparato la sceneggiatura di un film, Questo bacio a tutto il mondo, sulle prime due vittime delle Brigate rosse, Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci, un appuntato in congedo dei carabinieri e un agente di commercio che furono assassinati il 17 giugno 1974 nella sede di Padova del Msi-Dn, in via Zabarella. Anche in quell'occasione dalla Rai ricevetti la stessa risposta pervenutami per Il segreto: sceneggiatura non coerente con la nostra linea editoriale».
È di destra, allora?
«Sono un cattolico che crede nella dottrina sociale della Chiesa, nella difesa degli ultimi. Ho una buona cultura marxista, quanto basta per capire che non potrei mai essere marxista».
Dove s'è formato la cultura marxista?
«All'Università di Padova ho avuto Toni Negri come insegnante di dottrine dello Stato. Mi ha tenuto sotto esame per un'ora abbondante. Voto: 28. Più di Renato Brunetta, che in economia politica del lavoro mi ha dato 25».
Perché i registi sono tutti di sinistra?
«Perché la cinematografia è un potere politico fondamentale che è stato attribuito alla sinistra fin dalla nascita della Repubblica. Nella spartizione per aree d'influenza, Dc e Psi si sono tenuti il governo, gli enti pubblici, le banche e i consigli d'amministrazione; al Pci sono andati la scuola, la cultura e l'informazione. È sempre stato così e sempre sarà così. Non c'è regime, violenza, pallottola che salga infinitamente sulla Cattedra della Verità. Quando crollerà l'ultimo muro dell'ipocrisia umana, si apriranno le porte agli eserciti senza bandiere e ogni segreto sarà perdonato».
Come mai ha messo questo esergo al copione?
«È caduto il Muro di Berlino, ma non quello di Codevigo. Abbiamo bisogno di verità, dobbiamo abbattere il Muro del silenzio. Italia Martin, la protagonista del Segreto, è la giovane Italia di ieri. Oggi che quest'Italia è diventata vecchia, io mi preoccupo per sua nipote, condannata a portarsi in dote le acredini di allora anche nella Terza, nella Quarta, nella Quinta Repubblica, senza speranza».
Pansa nel mirino dei "baroni rossi". La battaglia di retroguardia degli accademici contro una nuova lettura della storia d'Italia, scrive Giampaolo Pansa, Giovedì 11/02/2016, su "Il Giornale". Più interessanti, anche se scontati, furono gli anatemi che mi arrivarono da un manipolo di intellettuali, quasi sempre docenti di storia in diverse università italiane. Il più accanito si rivelò Angelo d'Orsi, ordinario di Storia del pensiero politico a Torino. All'inizio del 2004 pubblicò sulla rivista «MicroMega» una lunga requisitoria contro il revisionismo. Scritta in uno stile da burocrate sovietico e in un pessimo italiano, evocava a mio disdoro, «la protettiva ombra del berlusconismo e dei suoi immediati pressi». Il suo stralunato atto d'accusa merita di essere ricordato per una singolare schedatura che lo accompagnava: la lista nominativa di signori che non dovevano permettersi di pubblicare ricerche storiche. Queste lingue da tagliare erano diciotto, compresa la mia. Tra loro c'erano intellettuali stimati come Sergio Romano, Francesco Perfetti, Ernesto Galli della Loggia, Giovanni Belardelli, Giovanni Sabbatucci. E giornalisti come Paolo Mieli, Pierluigi Battista, Giuliano Ferrara, Silvio Bertoldi, Gianni Oliva, Antonio Spinosa, Arrigo Petacco, Antonio Socci, Renzo Foa. «E l'elenco potrebbe continuare» minacciava d'Orsi, «arrivando sino alla più sgangherata frontiera della battaglia per la libertà di stampa». Eppure la faccenda non si concluse lì. Il direttore di «MicroMega», Paolo Flores d'Arcais, andò in orgasmo per la lista d'Orsi e decise di sfruttarla per guadagnare qualche lettore alla sua rivista quasi clandestina. La domenica 8 febbraio 2004 decise di trasferire una parte dell'elenco in un'inserzione pubblicitaria sul paginone culturale della «Repubblica». Una gogna stampata su 646 mila copie. Con un titolo di quelli furenti: Basta con i falsi storici. La manipolazione permanente della verità da parte dei vari... Seguivano i nomi di dieci loschi figuri, compreso il sottoscritto. Un altro gendarme della memoria molto solerte nel pestaggio verbale del Pansa si dimostrò di nuovo un docente di Storia dell'Università di Torino, Giovanni De Luna. Lui aveva a disposizione un quotidiano importante, «La Stampa». Nel 2003 era diretta da Marcello Sorgi, un collega che non digeriva i libri del sottoscritto, ma senza avere il coraggio di dirmelo affrontandomi in modo diretto. Sul «TuttoLibri» del 25 ottobre 2003, De Luna mi dedicò una lunga stroncatura intitolata Pansa, il sangue dei vinti visto con gli occhiali della Repubblica sociale italiana. Il titolo mi inorgoglì. L'accusa era quella che, tanti anni prima, nel 1952, era stata scagliata dall'«Unità» contro un libro del grande Beppe Fenoglio. Colpevole di vedere la guerra partigiana «dall'altra sponda», ossia dal versante dei fascisti. Al professor De Luna dovevo stare sui santissimi. Infatti quando venne intervistato dalla solita Simonetta Fiori di «Repubblica», disse che ero «straordinario nell'intercettare lo spirito del tempo». In parole povere un furbastro che fiutava il vento nuovo berlusconiano a cui accodarsi. Ma devo dedicarmi a un altro docente che mi prese di mira. Un big, così sembra, della ricerca storica: Sergio Luzzatto. Anche Luzzatto, genovese, quarant'anni giusti all'uscita del Sangue dei vinti, insegnava Storia all'Università di Torino. Ma rispetto agli altri gendarmi era un tipo avventuroso che aspirava alla notorietà. Scriveva i pezzi di polemica come un qualunque giornalista pittoresco. Nel dicembre 2002 aveva accettato di presentare a Genova I figli dell'Aquila e quel pomeriggio non mi sembrò che il Pansa gli facesse ribrezzo. Invece Il sangue dei vinti gli suscitò un disgusto profondo. Lo manifestò tutto nell'ottobre 2004. Una sera Giuliano Ferrara e Ritanna Armeni lo invitarono a Otto e mezzo, il loro talk show sulla Sette, a illustrare un suo pamphlet appena uscito, dedicato alla crisi dell'antifascismo. Accanto a lui c'ero io che avevo pubblicato in quei giorni Prigionieri del silenzio. La vicinanza, penso poco gradita a Luzzatto, mi trasformò nel suo bersaglio. Un ruolo che in fondo mi piaceva, poiché ero sempre attratto dalla rissa culturale, chiamiamola così. Tuttavia io ero soltanto un misero rappresentante di una categoria da aborrire: l'intellighenzia occidentale che, a sentir lui, aveva rinunciato a riflettere sul ruolo storico della violenza come levatrice di progresso. Quella sera Luzzatto mi sembrò un esemplare perfetto del signor Ghigliottina, nostalgico dei tagliatori di teste della Rivoluzione francese. E in quei panni mostrò di essere implacabile. Sostenne che la moralità della Resistenza consisteva anche nella determinazione degli antifascisti di rifondare l'Italia a costo di spargere molto sangue. Il signor Ghigliottina si rivelò pirotecnico. Sostenne che era sbagliato impregnarsi di buonismo. Spiegò: «Per questo non accetto il pansismo. Ossia la rugiadosa sensibilità di chi si scandalizza e quindi equipara una certa violenza partigiana, che pure Giampaolo Pansa ha avuto il merito di documentare, con quella fascista». Lo ascoltai sorridendo. A me Luzzatto sembrò un uomo delle caverne che esca dal suo antro con la clava e si scateni contro mezzo mondo. Intervistato da Dario Fertilio del «Corriere della Sera», aggiunsi: «Se è vero che l'antifascismo è in crisi, senza volerlo Luzzatto gli spara un colpo alla nuca».
I partigiani ora ammettono la vergogna di esodo e foibe. Il coordinatore dell'Anpi veneto riconosce che molti perseguitati italiani non erano fascisti ma oppositori del nuovo regime comunista e illiberale, scrive Fausto Biloslavo, Domenica 01/12/2013, su "Il Giornale". Si scusa con gli esuli in fuga dall'Istria, da Fiume e dalla Dalmazia per l'accoglienza in patria con sputi e minacce dei comunisti italiani. Ammette gli errori della facile equazione profugo istriano uguale fascista e della simpatia per i partigiani jugoslavi che non fece vedere il vero volto dittatoriale di Tito. Riconosce all'esodo la dignità politica della ricerca di libertà. Maurizio Angelini, coordinatore dell'Associazione nazionale partigiani in Veneto, lo ha detto a chiare lettere venerdì a Padova, almeno per metà del suo intervento. Il resto riguarda le solite e note colpe del fascismo reo di aver provocato l'odio delle foibe. L'incontro pubblico è stato organizzato dall'Associazione Venezia Giulia e Dalmazia con l'Anpi, che solo da poco sta rompendo il ghiaccio nel mondo degli esuli. Molti, da una parte e dall'altra, bollano il dialogo come «vergognoso». Angelini ha esordito nella sala del comune di Padova, di fronte a un pubblico di esuli, ammettendo che da parte dei partigiani «vi è stata per lunghissimi anni una forte simpatia per il movimento partigiano jugoslavo». Tutto veniva giustificato dalla lotta antifascista, compresa «l'eliminazione violenta di alcune centinaia di persone in Istria - le cosiddette foibe istriane del settembre 1943; l'uccisione di parecchie migliaia di persone nella primavera del 1945 - alcune giustiziate sommariamente e precipitate nelle foibe, soprattutto nel Carso triestino, altre - la maggioranza - morte di stenti e/o di morte violenta in alcuni campi di concentramento jugoslavi soprattutto della Slovenia». Angelini ammette, parlando dei veri disegni di Tito, che «abbiamo colpevolmente ignorato la natura autoritaria e illiberale della società che si intendeva edificare; abbiamo colpevolmente accettato l'equazione anticomunismo = fascismo e ascritto solo alla categoria della resa dei conti contro il fascismo ogni forma di violenza perpetrata contro chiunque si opponeva all'annessione di Trieste, di Fiume e dell'Istria alla Jugoslavia». Parole forti, forse le prime così nette per un erede dei partigiani, poco propensi al mea culpa. «Noi antifascisti di sinistra - sottolinea Angelini - non abbiamo per anni riconosciuto che fra le motivazioni dell'esodo di massa delle popolazioni di lingua italiana nelle aree istriane e giuliane ci fosse anche il rifiuto fondato di un regime illiberale, autoritario, di controlli polizieschi sulle opinioni religiose e politiche spinti alle prevaricazioni e alle persecuzioni». Il rappresentante dei partigiani ammette gli errori e sostiene che va fatto di più: «Dobbiamo riconoscere dignità politica all'esodo per quella componente di ricerca di libertà che in esso è stata indubbiamente presente». Gli esuli hanno sempre denunciato, a lungo inascoltati, la vergognosa accoglienza in Italia da parte di comunisti e partigiani con sputi e minacce. Per il coordinatore veneto dell'Anpi «questi ricordi a noi di sinistra fanno male: ma gli episodi ci sono stati e, per quello che ci compete, dobbiamo chiedere scusa per quella viltà e per quella volgarità». Fra il pubblico c'è anche «una mula di Parenzo» di 102 anni, che non voleva mancare. Il titolo dell'incontro non lascia dubbi: «Ci chiamavano fascisti, ci chiamavano comunisti, siamo italiani e crediamo nella Costituzione». Italia Giacca, presidente locale dell'Anvgd, l'ha fortemente voluto e aggiunge: «Ci guardavamo in cagnesco, poi abbiamo parlato e adesso ci stringiamo la mano». Adriana Ivanov, esule da Zara quando aveva un anno, sottolinea che gli opposti nazionalismi sono stati aizzati prima del fascismo, ai tempi dell'impero asburgico. Mario Grassi, vicepresidente dell'Anvgd, ricorda le foibe, ma nessuno osa parlare di pulizia etnica. Sergio Basilisco, esule da Pola iscritto all'Anpi, sembra colto dalla sindrome di Stoccolma quando si dilunga su una citazione di Boris Pahor, scrittore ultra nazionalista sloveno poco amato dagli esuli e sulle vessazioni vere o presunte subite dagli slavi. Con un comunicato inviato al Giornale, Renzo de' Vidovich, storico esponente degli esuli dalmati, esprime «perplessità di fronte alle “prove di dialogo” con l'Anpi» che farebbero parte di «un tentativo del Pd di Piero Fassino di inserire i partigiani nel Giorno del ricordo dell'esodo». L'ex generale, Luciano Mania, esule fiumano, è il primo fra il pubblico di Padova a intervenire. E ricorda come «solo due anni fa a un convegno dell'Anpi sono stato insultato per un quarto d'ora perché avevo osato proporre l'intitolazione di una piazza a Norma Cossetto», una martire delle foibe. In sala tutti sembrano apprezzare «il disgelo» con i partigiani, ma la strada da percorrere è ancora lunga e insidiosa.
Smaila: “In Italia, due pesi e due misure. Delle Foibe non interessa a nessuno”, scrive il 17/02/2016 Marco Fornasir su “Il Giornale”. «Sei libero domenica 7 febbraio? Mi piacerebbe averti con me a Verona per le celebrazioni del Giorno del Ricordo. Parlerà mia mamma». Il tono di Smaila, sempre un po’ scherzoso, aveva qualcosa di perentorio e ho risposto subito di sì. E’ stata una buona scelta, ho avuto l’occasione di stare con lui in auto un paio d’ore, il tempo di andare a Verona da Milano e ritorno, e ho avuto modo di parlarci a lungo, soprattutto toccando il tema della sua fiumanità, i ricordi legati a Fiume, quella che, per lui nato a Verona, è la sua seconda città. Una chiacchierata in dialetto (io sono di Gorizia) e Smaila ha tenuto a sottolineare che a casa si è sempre parlato dialetto fiumano (i veri fiumani dicono ja per dire sì, retaggio dell’Austria-Ungheria, mentre i croati dicono da), era un modo per rimanere con le radici in Istria e per potersi intendere con i rimasti, i parenti che non se la sono sentita di abbandonare case, beni e attività per venire a vivere in Italia. Ognuno aveva le sue buone ragioni, ma per lungo tempo i rimasti sono stati visti dagli esuli come dei traditori. Oggi il tema dei rimasti è molto vivo e le associazioni degli esuli hanno riallacciato buoni contatti con le Comunità Italiane delle varie città dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia. Come si viene a scoprire poco a poco, Fiume, pur facendo parte dell’Istria, è proprio sul confine tra Istria e Dalmazia e i fiumani si sono sempre sentiti, e lo sono veramente, un’altra cosa rispetto all’Istria e alla Dalmazia. Fiume era il porto più importante dell’Adriatico, più di Trieste, ed era di fatto lo sbocco al mare dell’Ungheria. Un’importante linea ferroviaria collegava direttamente Fiume a Budapest e qui vivevano molte famiglie ungheresi importanti, proprietarie delle più belle ville di Abbazia. Fiume, come ricorda Smaila, era una vera città colta, evoluta, multi-etnica e multi-culturale nel vero senso della parola. Grazie all’amministrazione austro-ungarica, l’integrazione non era forzata e naturalmente ogni gruppo etnico aveva le sue chiese e seguiva i propri ritmi e le proprie tradizioni, il tutto con un’armonia che oggi, in pieno periodo di globalizzazione, è veramente difficile vedere. Passato l’impero austro-ungarico, a Fiume venne il periodo di d’Annunzio e dei suoi legionari, che sbloccarono la questione fiumana con un atto di forza, facendo di Fiume una città completamente libera (e qualcuno aggiunge anche dissoluta…). Poi arrivò il governo italiano, i fascisti con l’italianizzazione forzata dei cognomi, poi i tedeschi con l’occupazione di quasi due anni, poi i partigiani titini e infine la Federazione Jugoslava. Tutti questi cambiamenti avvennero in meno di trent’anni. La famiglia Smaila, dopo l’esodo, si stabilì in un primo tempo a Lucca e successivamente a Verona, dove, nel 1950, nacque Umberto. Si erano ambientati bene a Verona, ma il cuore batteva forte per Fiume e, già nel 1952, la famiglia Smaila cominciò a passare il confine per andare a trovare i parenti rimasti: genitori, sorelle, fratelli, zii e cugini. I primi anni in treno e dal 1956 con una fiammante Fiat 600, un’auto rivoluzionaria per l’epoca. A quel tempo non c’era l’autostrada e il viaggio era lungo e impegnativo. Soprattutto il passaggio al confine era qualcosa di traumatico, con il controllo certosino di tutto il bagaglio trasportato. Molti esuli avevano chiuso con l’Istria, non volevano più tornare a vedere com’erano diventate quelle terre da sempre considerate italiane. Molti invece, soprattutto spinti dalla presenza dei parenti rimasti, compivano annuali pellegrinaggi nelle loro terre d’origine. Su come avvenivano questi viaggi da Verona a Fiume in 600, Umberto Smaila ha fatto un pezzo di cabaret durante la manifestazione di Verona, intrecciando ricordi e battute, ma al tempo stesso presentando concetti e sentimenti che sono quelli comuni a tutti gli esuli dal confine orientali, per intenderci quelli che hanno pagato interamente il debito di guerra di tutta l’Italia nei confronti della Jugoslavia, 125 milioni di dollari del tempo. Non sono mai stati risarciti dallo Stato italiano (si calcola che finora lo Stato ha restituito loro al massimo il 5%). «Comunque fin dall’adolescenza avevo capito in cosa consisteva il paradiso socialista incarnato nella Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia» spiega Umberto. «C’erano code dappertutto, in particolare per i generi alimentari. Spesso, quando arrivava il tuo turno, la merce era finita e tornavi a casa con poco o niente. Per questo quando partivamo per le vacanze estive, rigorosamente a Fiume, portavamo un bel po’ di roba, dalla pasta al caffè, dal formaggio grana all’olio di oliva. Molti prodotti non esistevano nei negozi e per i nostri parenti il nostro arrivo era una festa. Le vacanze a Fiume erano caratterizzate da un’ottima cucina» ricorda ancora Smaila. «La nonna Anna (mamma di mio papà Guerrino, aveva fatto le scuole ungheresi e parlava correttamente il magiaro) a 90 anni si faceva tutta la via Monte Grappa per andare al mercato a prendere il pesce fresco per me. La nostra via era ripida e io ancora oggi mi chiedo come faceva a quell’età a percorrerla senza sforzo apparente. La famiglia di mia madre, Giuseppina detta Mery Nacinovich, aveva uno stabile con trattoria sottostante (confiscato tutto dai titini) in via Trieste, dove alla zia Nina avevano lasciato in uso un piccolo appartamento. Qualche volta andavo a dormire da lei e sentivo giù nei giardinetti suonare la fisarmonica con ballate popolari». Riguardo alla cucina, Umberto Smaila ha ricordi affettuosi, limpidi e dettagliati. «Tutte le mie zie facevano a gara per farmi mangiare e penso sempre ai molti piatti prelibati che mi preparavano: le paprike impinide (d’inverno capuzzi impinidi), brodetto di seppie con polenta e un risotto con scampi e sugo di pomodoro, veramente eccezionale. La zia Ninetta era la specialista in goulasch. Gli anni passavano e mangiare mi piaceva sempre. Quando diventai più indipendente, alla fine della vacanza mi recavo da solo in una griglieria, a Susak (un sobborgo di Fiume) e mi ordinavo una doppia razione di rasnici e di civapcici, investendo in un colpo solo i 500 dinari che avevo messo da parte. Era il mio modo di salutare le mie terre». La memoria di Umberto non smette di offrire racconti e aneddoti legati alle sue solide radici istriane. «Finita la prima liceo classico, i miei genitori mi regalarono una Lambretta e per un po’ di tempo d’estate andavo a Fiume in Lambretta, seguendo la 1100 del papà (un’auto più grande e comoda che aveva sostituito la mitica 600). Con quello scooter mi sono divertito alla grande, di sera con mio cugino coprivamo i 10 km che separano Fiume da Abbazia per andare a ballare e al ritorno faceva così freddo che ci lacrimavano gli occhi. Ricordo che una volta mi ero portato a Fiume una fonovaligia Europhon con un filo elettrico di 100 metri, avevo installato il tutto a casa di un’amica e dall’ultimo piano mettevamo le canzoni dei Beatles e ballavamo nei giardinetti sotto casa. Per Fiume era una cosa mai vista prima. Fascino e potenza della cultura occidentale, negli anni 1964/1966 si sentivano solo musiche dei Beatles e tutti volevano vestire i jeans, che compravano negli empori di Trieste. Io stesso portavo ai miei cugini jeans ogni volta che arrivavo a Fiume. Nonostante il regime di Tito non vedesse di buon occhio questa apertura, l’esigenza dei giovani locali di sentirsi uguali ai ragazzi che vivevano all’Ovest era un fiume in piena che non si poteva più contenere. Insieme a mio cugino Paolo ci davamo un gran daffare per movimentare l’estate dei nostri coetanei fiumani. Di giorno si andava con il trolleybus a Cantrida, dove al Bagno Riviera avevamo a disposizione dei trampolini per i tuffi. Il bagno era quello frequentato dai rimasti, mentre i croati frequentavano un altro stabilimento. Lì si parlava italiano, cioè dialetto fiuman». Nel fluire dei ricordi di Umberto Smaila, siamo nel frattempo arrivati a Verona dove ha inizio la celebrazione del Giorno del Ricordo. La mamma di Umberto è fresca di parrucchiere e un po’ agitata per quello che dirà dal palco ai suoi concittadini veronesi, molti dei quali di origine fiumana. La mamma è personaggio di spicco a Verona e viene sempre intervistata come testimone vivente della tragedia del confine orientale. Presto darà alle stampe le sue memorie di fiumana e di esule. «Mia mamma – commenta Smaila – è sempre stata legata al tricolore, ai valori italiani. Mio papà era più legato a Fiume e al movimento autonomista di Riccardo Zanella, che voleva lo Stato Libero di Fiume. Infatti mia mamma ha sempre detto mi son italiana, mentre mio papà diceva mi son fiuman. Io come la penso? Sono orgoglioso di essere di quelle terre e di avere entrambi i genitori fiumani». La celebrazione volge al termine e si riprende la strada di casa. La conversazione prosegue toccando anche la politica. «Io ero critico col regime jugoslavo, ma vivevo un momento spensierato della mia vita e non volevo essere causa di discussioni in famiglia, quando eravamo a Fiume. Lì si evitava di discutere di politica, si parlava più che altro di famiglia e di ricordi. Invece i figli di mio zio Mario fra di loro avevano accese discussioni per motivi politici, io mi tenevo volutamente fuori da quel contesto, mi limitavo a osservare. E’ incredibile come la guerra ha cambiato i destini di una famiglia: io avevo tre zii, cognati di mia madre, che hanno avuto tre cognomi diversi. Il primo, lo zio Romano Bradicich, partì in camicia nera alla conquista dell’Abissinia e si fece ben 11 anni di prigionia sotto gli inglesi, ha vissuto anche lui a Verona. Suo fratello Anselmo era andato a fare il comandante delle navi da crociera a Genova e aveva cambiato il cognome in Bradini, non volendo avere più niente a che fare con le terre natìe. L’ultimo fratello, un comunista in buona fede, era andato partigiano, era rimasto in Jugoslavia e il suo cognome era Bradicic, alla croata. Ci sarebbe da fare un film su una storia così». Siamo quasi a Milano e la nostra conversazione arriva al dunque. «Guarda, la nostra storia non interessa a nessuno in Italia. Negli ultimi tempi, grazie al Giorno del Ricordo e alle altre iniziative che sono sorte (penso allo spettacolo Magazzino 18 di Simone Cristicchi che ha aperto gli occhi ad almeno un milione di persone) si è incominciato a fare un po’ di luce sulla tragedia degli esuli e sull’orrore delle foibe. In Italia c’è una visione camaleontica della storia, basti pensare alla lapide che c’è alla stazione di Bologna per ricordare il passaggio del treno dei profughi dall’Istria, quando attivisti comunisti buttarono sui binari i panini e il latte per i bambini preparato da organizzazioni caritatevoli. Su quella lapide c’è scritto che ci furono incomprensioni. Finchè quella parte politica che ha sempre visto i profughi come fascisti, per il solo torto di aver voltato le spalle al paradiso comunista di Tito, non capirà di avere completamente sbagliato le sue considerazioni, non si potranno fare passi in avanti. E quella lapide è lo specchio di come stanno le cose. Si celebra l’epopea partigiana come ricetta salvifica per l’Italia, dimenticando un po’ troppo spesso che senza l’aiuto americano non si sarebbero potuti cogliere i risultati raggiunti. Qui tutti hanno la memoria corta, se si pensa che fino a poco tempo fa era una prassi quella di bruciare bandiere americane in certe manifestazioni di piazza; fortunatamente ora questi episodi sono più rari ma bisogna continuare a restringere sempre più gli spazi a certi inutili e idioti estremismi. Per i nostri morti sono sempre stati utilizzati due pesi e due misure, gli infoibati ammazzati dai comunisti titini non hanno mai avuto la stessa considerazione di cui hanno goduto gli ebrei ammazzati dai nazisti nei campi di concentramento. Per questioni di real-politik, comunisti e democristiani hanno fatto a gara nel tentativo di seppellire tutta la vicenda delle terre perdute in Istria e Dalmazia, escludendo questa parte di storia italiana dai libri di storia delle scuole, facendone divieto di parlarne in pubblico. Gli unici che parlarono di quelle vicende furono i partiti di destra, che spesso lo fecero per ottenere dei vantaggi elettorali, con questo però dando poi ragione a chi sosteneva che gli esuli e i profughi erano tutti fascisti. E’ come un cane che si morde la coda, sembra che non ne verremo mai fuori, ma la Giornata del Ricordo, le testimonianze sempre più diffuse e i passi compiuti finalmente da certi politici verso la verità storica tengono accesa la mia speranza e quella di tanti esuli di essere considerati perseguitati alla pari con gli altri. Coloro che lasciarono quelle terre per me sono degli eroi, soprattutto per quanto hanno subito dopo il rientro in Italia e sono italiani due volte, la prima per nascita e la seconda per scelta».
LA STRAGE DI VERGAROLLA E LA CULTURA ROSSO SANGUE DELLA SINISTRA COMUNISTA.
Vergarolla: la strage dimenticata che stroncò per sempre Pola italiana, scrive il 18/08/2018 Marco Fornasir su "Il Giornale". La strage di Vergarolla, avvenuta alle 14.15 di domenica 18 agosto 1946, è la più sanguinosa (circa 100 vittime) fra quelle dell’Italia repubblicana. Tenuta nascosta per oltre mezzo secolo, non viene conteggiata tra le stragi nazionali, ma come altre stragi del nostro Paese non ha ancora ottenuto una verità processuale. Forse adesso alcune associazioni di esuli cercheranno di ottenere l’attenzione della Commissione Stragi: si spera almeno in una verità parlamentare. Quel fungo disegnato da nuvole di fumo in una normale domenica estiva a Pola, tragicamente simile al fungo atomico di Hiroshima, ebbe sugli italiani che caparbiamente resistevano a Pola lo stesso effetto che ebbe sui giapponesi: resa incondizionata. Le conseguenze della strage di Vergarolla furono impressionanti: oltre ai 64 cadaveri identificati anche se disintegrati (di una signora fu ritrovato solo un dito con la fede, piccolo ma determinante dettaglio; di uno dei figli del dottor Micheletti – l’eroe di quei giorni, medaglia d’argento al Valor Civile – fu rinvenuta solo una scarpetta) ci furono circa una cinquantina di altri sventurati che persero la vita in quello scoppio. Probabilmente uomini e donne che scappavano dai territori istriani occupati dai titini e che non erano mai stati registrati come domiciliati a Pola per paura di ritorsioni contro le loro famiglie rimaste in zona B. Basandosi sulle ossa e i resti umani reperiti, il dottor Micheletti stimò insieme a un dottore inglese che i morti totali avrebbero potuto essere compresi tra 110 e 116. In una relazione ufficiale il dottor Chiaruttini dichiarò che ci furono circa 100 morti. La terra tremò per una vasta area e i vetri di molte case di Pola andarono in frantumi, come le speranze di mantenere Pola in territorio italiano. Purtroppo ancor oggi questo episodio difficilmente viene identificato come un attentato contro la popolazione italiana e, perfino dagli attuali vertici della Comunità italiana di Pola, viene derubricato a semplice incidente (nei discorsi ufficiali si cita solo: tragica fatalità, tragico incidente). In quel periodo a Parigi erano in corso i negoziati per definire lo status dei territori italiani in tutta la Venezia Giulia e in Dalmazia e l’italianissima Pola faceva sentire quasi quotidianamente la sua voce per manifestare la volontà di rimanere parte integrante, magari sotto forma di enclave, di una ancora acerba Repubblica Italiana o di far parte del Territorio Libero di Trieste. Quella strage fiaccò definitivamente il morale dei nostri connazionali, fino alla firma del Trattato di Parigi (10 febbraio 1947) e all’esodo. Tra i pochi testi che si sono occupati di questo eccidio, lo studio più approfondito che prende in esame tutti gli aspetti della tragedia è La strage di Vergarolla (18 agosto 1946) secondo i giornali giuliani dell’epoca e le acquisizioni successive (editore LCPE), dell’ex-direttore del mensile L’Arena di Pola Paolo Radivo, figlio di istriani. Con un grande sforzo di ricerca, Radivo compara gli articoli dell’epoca con i documenti successivamente rinvenuti e ulteriori testimonianze. Il corposo volume di Radivo potrà essere il testo-chiave in caso di una commissione d’inchiesta. Quella domenica d’agosto erano in programma le gare natatorie della Pietas Julia, evento che attirò sulla spiaggia di Vergarolla buona parte della gioventù italiana di Pola e dintorni. Al momento dell’esplosione (14.15) erano presenti sulla spiaggia solo italiani, per lo più giovanissimi con le rispettive famiglie.
A esplodere furono degli ordigni incustoditi di vario genere che erano stati disinnescati e accatastati sulla spiaggia. Per esplodere, quegli ordigni avrebbero dovuto essere nuovamente riattivati e poi innescati, quindi in nessun modo si trattò di un incidente ma di un vero e proprio attentato. Rosmunda Bronzin Trani vide un uomo vestito (cosa un po’ strana d’estate) che aggiuntava dei fili elettrici presso la catasta dei residuati. E’ probabile che quell’uomo, mai identificato, sia stato l’esecutore materiale della strage, magari utilizzando l’attrezzatura delle vicine miniere di carbone dell’Arsa. Terminate ufficialmente le ostilità, Pola era rimasta territorio italiano sotto amministrazione alleata. Il maresciallo Tito pretendeva di acquisirla nella neonata Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia e la Conferenza della Pace di Parigi era orientata in tal senso. Va sottolineato che il delfino di Tito Milovan Gilas, poi caduto in disgrazia, in una intervista rilasciata al quindicinale fiumano Panorama (21 luglio 1991) dichiarò: «Nel 1946 io ed Edward Kardelj andammo in Istria a organizzare la propaganda anti-italiana… bisognava indurre gli italiani ad andare via con pressioni di ogni tipo. Così fu fatto.» Pola fu annientata, il suo spirito e quello dei suoi abitanti fu completamente distrutto. Le autorità jugoslave incolparono subito il governo alleato di scarsa sorveglianza, mentre a Pola il muro di omertà ha coperto e continua a coprire mandanti ed esecutori. Da qualche anno spuntano testimonianze che portano inequivocabilmente nella direzione dell’attentato, ma ancora la prova regina non c’è (come non c’è per altre stragi più recenti). E fin qui niente di nuovo: anche se non hanno ancora un colpevole, per alcune si è arrivati alla definizione di mandanti ed esecutori analizzando la realtà socio-politica dell’epoca. Ma le altre stragi italiane (da piazza Fontana a Bologna, che fino ad oggi è considerata la più tragica con le sue 85 vittime) vengono celebrate con tutti gli onori e con ampia partecipazione delle istituzioni e delle forze politiche. E hanno comitati che pungolano le autorità a ricercare la verità, anche quando questa ricerca sembra vivere momenti di pausa.
Vergarolla, purtroppo, non gode del medesimo trattamento, come quasi tutte le vicende che riguardano il periodo sul finire della seconda guerra mondiale nei territori del confine orientale: nessun comitato delle vittime, nessun processo (se si esclude quello sbrigativo e inconcludente doverosamente cominciato dagli anglo-americani e finito in una sciatta archiviazione), nessun riconoscimento. Anzi, ogni anno alcune associazioni di esuli si recano a una messa a Pola il 18 agosto e subito dopo rendono omaggio alle vittime deponendo una corona sul cippo accanto al duomo che ricorda quella tragedia. Si sperava di poter aggiungere al cippo due lastre di marmo con i nomi delle vittime. Inizialmente le autorità di Pola sembrarono favorevoli, ma poi avvenne il voltafaccia: non solo nessuna aggiunta al cippo esistente, ma addirittura la rimozione del cippo stesso per motivi archeologici. E’ vero, alla cerimonia prendono parte il console generale italiano di Fiume e un rappresentante della Regione Friuli Venezia Giulia, quest’ultimo l’unico a parlare, nei discorsi ufficiali, di strage. La Comunità Italiana di Pola “subisce” questa cerimonia e, quando vi partecipa, continua a parlare di disgrazia, di tragica esplosione, di tragica fatalità. In un’Europa unita, che ha abolito i confini, sarebbe ora di abbattere anche quelli culturali e riconoscere reciprocamente fra gli Stati gli episodi che ancor oggi risultano controversi: non si può ammettere nel 2018 che su episodi come questo non si riesca ad avere una verità condivisa. Per questo c’è necessità di riaprire un processo che consenta alle vittime e ai loro congiunti di avere una verità processuale. Se ciò non sarà possibile, aprire un fascicolo presso la Commissione Stragi del Parlamento potrebbe essere l’inizio di un percorso che consenta di individuare autori e mandanti di quella carneficina.
Strage di Vergarolla: quando si usava il tritolo per cacciare gli italiani, scrive Marco Fornasir il 18/08/2016 su "Il Giornale". La strage di Vergarolla, avvenuta domenica 18 agosto 1946, è forse la più sanguinosa (circa 100 vittime) fra quelle dell’Italia repubblicana. Volutamente nascosta per oltre cinquant’anni, viene finalmente portata alla luce in tutti i suoi aspetti grazie al libro del direttore de L’Arena di Pola Paolo Radivo. Un’esplosione potente squarciò la spiaggia di Vergarolla alle 14:15 di domenica 18 agosto 1946. La terra tremò per una vasta area e i vetri delle case di Pola andarono in frantumi, come le speranze di mantenere Pola in territorio italiano. Sessantaquattro sono le vittime identificate e sepolte, ma circa cento persone furono spazzate via da quello che ancor oggi a fatica viene identificato come un attentato contro la popolazione italiana e, perfino dagli attuali vertici della Comunità italiana di Pola, viene derubricato a semplice incidente. Quell’esplosione, tragicamente simile al fungo atomico di Hiroshima, ebbe anche lo stesso effetto di quelle bombe micidiali. Si può dire che l’attentato di Vergarolla, come avvenne in Giappone, costrinse la popolazione alla resa: in quel periodo a Parigi erano in corso i negoziati per definire lo status dei territori italiani in Istria e in Dalmazia. L’italianissima Pola faceva sentire quasi quotidianamente la sua voce per manifestare la volontà di rimanere parte integrante di una ancora acerba Repubblica Italiana, magari sotto forma di enclave. Quella strage fiaccò definitivamente il morale dei nostri connazionali e da allora ci fu un lento e inesorabile abbandono di ogni speranza, fino alla firma del Trattato di Parigi (10 febbraio 1947) e all’esodo. A settant’anni di distanza, dopo alcuni libri che hanno riacceso le luci su quel grave e criminale episodio, è stato realizzato finalmente uno studio approfondito che prende in esame tutti gli aspetti della tragedia. Il volume è: La strage d Vergarolla (18 agosto 1946) secondo i giornali giuliani dell’epoca e le acquisizioni successive (editore Libero Comune di Pola in Esilio – LCPE), l’autore è il direttore del mensile L’Arena di Pola Paolo Radivo, figlio di istriani. Inoltre è stato realizzato, sempre con il contributo determinante dell’LCPE, il documentario di Alessandro Quadretti L’ultima spiaggia. Pola fra la strage di Vergarolla e l’esodo. Ambedue sono importanti strumenti per capire cosa è effettivamente successo in quella tragica domenica d’agosto. Il corposo volume di Radivo conta ben 648 pagine ed è uno studio completo sulla vicenda, il documentario riporta anche le testimonianze dei pochi testimoni sopravvissuti, forse l’ultima occasione di sentire dalle voci di chi c’era la verità dei fatti. Ma chi non ha mai sentito parlare di questa strage, per intenderci più sanguinosa di quella della stazione di Bologna, ha necessità di alcuni particolari e di inquadrare i fatti nel periodo storico. Terminate ufficialmente le ostilità, Pola era rimasta territorio italiano sotto amministrazione alleata. Il maresciallo Tito pretendeva di acquisire anche l’italianissima Pola nella neonata Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia (dal 1963 Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia) e la Conferenza della Pace di Parigi era in corso. Va sottolineato che il delfino di Tito Milovan Gilas, poi caduto in disgrazia, in una intervista rilasciata al quindicinale fiumano Panorama (21 luglio 1991) dichiarò: «Nel 1946 io ed Edward Kardelj andammo in Istria a organizzare la propaganda anti-italiana… bisognava indurre gli italiani ad andare via con pressioni di ogni tipo. Così fu fatto.» In questo contesto si svolsero quella domenica di agosto le gare natatorie della Pietas Julia, evento che attirò sulla spiaggia di Vergarolla buona parte della gioventù italiana di Pola e dintorni, compresa la squadra del Centro Sportivo Proletario, filo-jugoslava, che vinse una delle gare e lasciò la zona verso l’ora di pranzo. Al momento dell’esplosione (14:15) erano presenti sulla spiaggia solo italiani, per lo più giovanissimi con le rispettive famiglie. A esplodere furono degli ordigni (di vario genere, per lo più bombe di profondità) che erano stati disinnescati e accatastati sulla spiaggia. Erano 12, 28 o 32, a seconda dei documenti del Governo Militare Alleato, e non potevano assolutamente esplodere da soli. Tanto che i ragazzini vi salivano a cavalcioni e le signore vi stendevano ad asciugare i teli da mare e i costumi da bagno. Per esplodere quegli ordigni avrebbero dovuto essere nuovamente riattivati e poi innescati, quindi in nessun modo si trattò di un incidente ma di un vero e proprio attentato. E la testimonianza di Claudio Bronzin, all’epoca un ragazzino, squarcia il muro di silenzio: ricorda che sua zia Rosmunda vide un uomo vestito (cosa un po’ strana d’estate) che aggiuntava dei fili elettrici presso la catasta dei residuati. E’ probabile che quell’uomo, mai identificato, sia stato l’esecutore materiale della strage, magari utilizzando l’attrezzatura delle vicine miniere di carbone dell’Arsa. Il risultato della strage fu impressionante: oltre ai 64 cadaveri identificati anche se disintegrati (di una signora fu ritrovato solo un dito con la fede, piccolo ma determinante dettaglio, di uno dei figli del dottor Micheletti fu rinvenuta solo una scarpetta) ci furono circa una quarantina di altri sventurati che persero la vita in quello scoppio. Probabilmente uomini e donne che scappavano dai territori istriani occupati dai titini e che non erano mai stati registrati come domiciliati a Pola per paura di ritorsioni contro le loro famiglie rimaste in zona B. Basandosi sulle ossa e i resti umani reperiti, il dottor Micheletti stimò insieme a un dottore inglese che i morti totali avrebbero potuto essere compresi tra 110 e 116. In una relazione ufficiale il dottor Chiaruttini dichiarò che ci furono circa 100 morti. Pola fu annientata, il suo spirito e quello dei suoi abitanti fu completamente distrutto. Le autorità jugoslave incolparono subito il governo alleato di scarsa sorveglianza, mentre a Pola il muro di omertà ha coperto e continua a coprire mandanti ed esecutori. Da qualche anno spuntano testimonianze che portano inequivocabilmente nella direzione dell’attentato, ma ancora la prova regina non c’è (come non c’è per molte altre stragi più recenti). Il nome che ricorre più frequentemente è quello di Ivan (Nini) Brljafa, un partigiano dell’Istria interna che a Pola ebbe poi anche qualche incarico locale dal governo jugoslavo. Brljafa si suicidò nel 1979 in seguito alla scoperta di un tumore ai reni, ma pare che lasciò un biglietto in cui confessava di aver agito su ordine di Albona (sede all’epoca di un comando dei servizi segreti jugoslavi). Altri testimoni raccontano che il giorno dopo il massacro due polesani avrebbero festeggiato insieme ai due attentatori in una trattoria di Monte Castagner, mentre dieci giorni dopo quattordici polesani brindarono alla strage in un’osteria di Monte Grande. Ma anche qui nessuna pistola fumante. Però, grazie al libro di Radivo che compara gli articoli dell’epoca con i documenti successivamente rinvenuti e ulteriori testimonianze, sono venuti alla luce numerosi elementi, soprattutto per quello che riguarda i movimenti delle truppe alleate e delle truppe titine in zona subito prima dell’attentato. E anche ciò che avvenne subito dopo viene esaminato in profondità. Inoltre vengono messi a fuoco molti dettagli che riguardano i soccorsi dopo l’esplosione, l’assistenza ai feriti e il penoso momento dei funerali cittadini. Tra tutti emerse la figura del dottor Geppino Micheletti (cugino del noto filosofo goriziano Carlo Michelstaedter) che operò consecutivamente fino a tarda sera tutti i feriti gravi, anche dopo aver saputo che i suoi figli Carlo e Renzo erano stati spazzati via dall’esplosione. Solo a tarda sera si recò a Vergarolla alla ricerca dei resti di uno dei due. Fu decorato con la medaglia d’argento al valor civile. Lui rimase a Pola fino al settembre 1947, quando partì per l’esilio, dicendo che mai avrebbe potuto curare qualcuno con il sospetto di curare un criminale coinvolto nella strage.
Rivelazioni. Istria 1946: a Vergarolla fu vera strage, scrive Lucia Bellaspiga, giovedì 12 giugno 2014 su "Avvenire". Il 18 agosto del 1946 è una domenica e a Vergarolla, la spiaggia di Pola, migliaia di polesi sono radunati per le gare di nuoto e l’anniversario della Pietas Julia, la società nautica cittadina, di chiaro orientamento patriottico. In quel momento gli eccidi e le foibe hanno già insanguinato Istria, Fiume e Dalmazia, ma da un anno a Pola un governo militare angloamericano protegge la città dai titini intanto che a Parigi le grandi potenze ancora discutono sul suo destino e ridisegnano i confini adriatici. Quel giorno, dunque, la popolazione assiste a una gara sportiva di forte valore filoitaliano, tantissimi sono i bambini, il caldo ha attratto nel bel mare istriano almeno duemila persone. È lì tra loro che alle 14.10 un’esplosione gigantesca letteralmente polverizza decine e decine di corpi (i soccorritori dovranno recuperare i poveri resti sugli alberi fino a grande distanza). Sulla sabbia giacevano da mesi residuati bellici che però erano stati disinnescati e più volte controllati dagli artificieri inviati dalle autorità anglo-americane: «Ormai facevano parte del paesaggio, ci stendevamo sopra i vestiti o mettevamo la merenda al fresco sotto la loro ombra», testimoniano oggi i sopravvissuti. Eppure qualcuno aveva riattivato quegli ordigni per farli esplodere esattamente quel giorno. Oggi possiamo scriverlo senza paura di essere smentiti dai negazionisti, che per decenni hanno parlato di 'incidente', perfino di autocombustione: a 70 anni dalla strage, due studi in contemporanea sono stati commissionati a storici super partes dal Libero Comune di Pola in Esilio (Lcpe, l’associazione che raccoglie tutti gli esuli da Pola) e dal Circolo Istria di Trieste, e le conclusioni cui i due storici sono addivenuti, pur divergendo su alcuni aspetti, concordano su un punto inconfutabile: fu strage volontaria. «È già un risultato epocale – commenta Paolo Radivo, direttore dell’Arena di Polae consigliere del Lcpe –: da molti anni ogni 18 agosto ci rechiamo a Vergarolla, oggi Croazia, per celebrare i nostri morti insieme alla comunità degli italiani rimasti a Pola». Lo scorso agosto l’onorevole Laura Garavini del Pd ha mandato un ampio messaggio e annunciato un’interrogazione parlamentare: «Era la prima volta». Aria nuova anche in Regione Friuli Venezia Giulia, dove la presidente Debora Serracchiani (Pd) inviò un suo contributo sulla mattanza che «per le modalità subdole con cui fu perpetrata e per la cortina di silenzio e travisamenti che a lungo la avvolse è uno degli episodi più cupi del dopoguerra». Se già qualche anno fa dagli archivi di Londra erano trapelati i primi indizi di un attentato volontario, tali elementi non erano ancora sufficienti. Così nei mesi scorsi William Klinger, massimo studioso italiano di Tito, si è recato negli archivi di Belgrado, mentre l’altro giovane storico, Gaetano Dato, ha consultato quelli di Zagabria, Londra, Washington e Roma. Sì, perché ciò che emerge chiaramente da entrambi gli studi è che per capire cosa avvenne su quella spiaggia bisogna guardare agli scenari mondiali: Vergarolla è il crocevia della storia moderna post bellica, la palestra in cui nasce la guerra fredda. «Klinger ha il merito di inserire la strage nella più generale politica aggressiva jugoslava contro l’Italia sconfitta ma anche contro i suoi stessi alleati anglo-americani», spiega Radivo. Già all’indomani della strage partirono due inchieste, una della corte militare e l’altra della polizia civile alleate, non a caso intitolate “Sabotage in Pola”, cioè nettamente orientate a negare l’incidente fortuito. Klinger non prova la responsabilità diretta della Ozna («negli archivi di Belgrado non ci sono i dispacci dell’epoca, l’ordine tassativo era di distruggere all’istante qualsiasi istruzione ricevuta »), ma racconta il contesto, la spietatezza della polizia di Tito, che controllava buona parte del Pci italiano e soprattutto in quel 1946 stava alzando il tasso di violenza in un crescendo di azioni, tant’è che sia gli americani che gli inglesi in documenti scritti lamentano col governo jugoslavo «le attività terroristiche e criminali». Inoltre sempre Klinger nota come all’epoca la stampa jugoslava desse conto di ogni minimo avvenimento, eppure non dedicò una sola riga a una strage terrificante: un silenzio quantomeno sospetto. Gaetano Dato spiega nei dettagli le dinamiche dell’esplosione: «Scoppiarono una quindicina di bombe antisommergibile tedesche e testate di siluro che erano state disinnescate, ma che con l’ausilio di detonatori a tempo furono riattivate». Dato avverte però che nella sua ricerca sceglie di «mettere da parte le memorie» dei testimoni, perché teme che «involontariamente selezionino una parte di verità, cancellando o modificandone altre», ma questo rischia a volte di essere il punto debole del suo lavoro di storico, che lascia aperte tutte le ipotesi: «Se devo dire la mia personale opinione – ci dice – fu una strage jugoslava, ma non posso tralasciare altre piste: quella italiana, con gruppi monarchici o fascisti che stavano organizzando la resistenza contro Tito, e quella di anticomunisti jugoslavi». Ma di entrambe, ammette, non ci sono prove. «È vero che all’epoca c’erano ancora italiani che intendevano combattere in difesa dell’italianità – commenta Radivo –, ma Vergarolla certo non aizzò i polesi a sollevarsi, anzi, ne fiaccò per sempre ogni istanza». Secondo Radivo, dunque, per comprendere i mandanti occorre vedere i risultati, «e questi furono la rinuncia a combattere per Pola italiana, con la fine di ogni manifestazione da quel giorno in poi, e mesi dopo la partenza in massa con l’esodo, ormai visto come unica salvezza. Ed entrambi i “cui prodest?” portano alla Jugoslavia». D’altra parte un’escalation di azioni precedenti hanno sbocco naturale proprio nei fatti di Vergarolla: nel maggio del ’45, già in tempo di pace, la nave Campanella carica di 350 prigionieri italiani da internare nei campi di concentramento titini cola a picco contro una mina e le guardie jugoslave mitragliano in acqua i sopravvissuti; pochi mesi dopo a Pola esplodono altri depositi di munizioni in centro città; nel giugno del ’46 militanti filojugoslavi fermano il Giro d’Italia e sparano sulla polizia civile; 9 giorni prima di Vergarolla soldati jugoslavi assaltano con bombe a mano una manifestazione italiana a Gorizia; la domenica prima della strage una bomba fa cilecca sulla spiaggia di Trieste durante una gara di canottaggio: sarebbe stata un’altra carneficina... per la quale bisognerà attendere il 18 agosto. Negli archivi di Londra un documento attesta la «volontà espressa degli jugoslavi di boicottare qualsiasi manifestazione italiana, anche sportiva». Non scordiamo che il 17 agosto del ’46, il giorno prima, a Parigi si era chiusa la sessione plenaria della Conferenza di pace e stavano iniziando le commissioni per decidere sui confini orientali d’Italia: era una data topica e i giochi non erano ancora chiusi. «I polesi potevano ancora sperare che la città venisse attribuita al Territorio Libero di Trieste, sogno sfumato solo un mese dopo, il 19 settembre»: le istanze di italianità erano ancora vive e i titoisti dovevano annientarle.
IL GIORNO DEL RICORDO DEGLI SMEMORATI.
Le foibe della memoria, scrive il 9 febbraio 2018 Luigi Iannone su "Il Giornale". Le foibe sono una profondità carsica nella nostra memoria collettiva. Un vuoto popolato di fantasmi reali e presunti che si rincorrono e mai hanno la forza necessaria per palesarsi. Quando fu istituito il Giorno del ricordo l’intento era chiaro: fare in modo che non vi fosse alcun silenzio su fatti accertati e tenuti nascosti per troppo tempo, e si ricordasse il sacrificio di tutti gli uomini, le donne e i bambini colpevoli solo di essere italiani. E invece tutto è diventato sulfureo come la polvere e il buio di quelle cavità nelle rocce. Financo le alte cariche dello Stato, come capitato anche in anni recenti, si dimenticano di celebrare con dignità e piena consapevolezza un tale abominio. Qualche citazione, una frase di circostanza negli abituali e noiosi discorsi preparati dagli uffici stampa o da asettici ghostwriter, e nulla più. In realtà, quello che accade ai primi di febbraio di ogni anno, è vergognoso e disperante. Il dibattito si accende ma prende una piega laterale e sbagliata, ponendo questo tema con sofisticata scaltrezza ad una parte consistente dell’opinione pubblica che già di suo poco sa e poco vuole sapere. E pur tuttavia, la questione viene sempre presa per il verso sbagliato. E così c’è sempre qualche mente illuminata dell’Anpi che cerca di circoscrivere il fenomeno in parametri ristretti o addirittura negarlo; chi, pur riconoscendo una tale vergogna, indirettamente costruisce plausibili motivazioni di politica estera, di rancore bellico; chi mette in mezzo i fascisti e la loro precedente violenza e via così. La vicenda di Simone Cristicchi di qualche anno fa risulta ancora paradigmatica. Il suo spettacolo Magazzino 18 ebbe tanti e tali impedimenti, manifestazioni contro e attacchi di vario genere, nemmeno si fosse peritato di declamare con orgoglio e fierezza le pagine più tetre del Mein Kampf. E invece stava rappresentando fatti accaduti alcuni decenni fa e che hanno visto, purtroppo, tanti nostri connazionali essere assassinati per il solo fatto di appartenere ad una comunità. Ma la sua vicenda è una delle tante che si sommano in lungo e in largo sul nostro territorio. Come la squallida routine impone, anche quest’anno l’andazzo pare infatti simile. Frotte di nostalgici di ogni schieramento che deviano l’interpretazione dei fatti su binari poco consoni alla verità, l’associazione dei partigiani che nel migliore dei casi fa "buon viso a cattivo gioco" oppure, per fortuna in casi isolati, ancora nega l’evidenza, e alte cariche istituzionali che, con malcelata fatica, riescono a profferire qualche parola solo poche ore prima del 10 febbraio svelando così una adesione al contesto generale di commemorazione più imposta da obblighi istituzionali che da reale e partecipato dolore. Le foibe restano una cavità che squarcia ancora la nostra memoria e da essa fanno capolino i fantasmi di tutta la storia recente che è in larga parte a servizio delle piccole beghe politiche e di mestieranti della cultura. A distanza di tanti decenni non si riesce a dare un senso a quel dolore e a rivolgere una solidale e collettiva preghiera per quegli innocenti, senza incomprensibili distinguo o paventate e inconsapevoli giustificazioni. E fin quando il nostro Paese non si scollerà di dosso i cascami di una dialettica politica sempre combinata con la falsa e capziosa storiografia sarà preda degli spasmi di ogni sorta di radicalismo e mai potrà porre la parola ‘fine’ su questa interminabile, penosa e logorante guerra civile.
Il ricordo per vincere il silenzio sul dramma di esuli e infoibati. A partire dal 2005, ogni 10 febbraio si celebra il giorno del Ricordo in memoria delle vittime delle foibe e degli esuli istriano-dalmati, scrive Marianna Di Piazza, Sabato 10/02/2018, su "Il Giornale". Oltre 10mila italiani torturati e uccisi nelle foibe. Più di 300mila quelli scappati dalla loro case per sfuggire alla violenza dei partigiani di Tito. Ogni 10 febbraio si celebra il giorno del Ricordo e per non dimenticare questa drammatica pagina della nostra storia, siamo andati nei luoghi dove si è consumata la tragedia all'indomani della fine della Seconda guerra mondiale. Sul Carso triestino, la foiba di Basovizza, pozzo minerario scavato agli inizi del 1900, è diventata il simbolo di tutte le atrocità commesse dai partigiani jugoslavi. "In quest'area gli uomini di Tito hanno realizzato un massacro veramente immane. Uno strumento di terrore con il quale il maresciallo costruiva il suo nuovo Stato rivoluzionario comunista sul sangue versato da italiani, sloveni e croati", ha dichiarato il presidente della Lega Nazionale, Paolo Sardos Albertini.
Le foibe. Le foibe sono delle cavità naturali presenti sul Carso, l'altipiano alle spalle della città di Trieste e dell'Istria. Alla fine della Seconda guerra mondiale, i partigiani di Tito le utilizzarono per scaricare al loro interno migliaia di persone. Spogliate e legate l’una con l’altra con un fil di ferro stretto ai polsi, le vittime venivano schierate sugli argini delle cavità. Una scarica di mitra ai primi faceva precipitare tutti nel baratro. Coloro che non morivano sul colpo, erano condannati a soffrire per giorni. Furono circa 10 mila gli italiani infoibati, ma anche 150mila sloveni e 900mila croati finirono vittime del maresciallo Tito. "Nel territorio di Trieste ci sono decine di foibe. Ma oltre confine, in Slovenia, vengono continuamente scoperte nuove foibe con cadaveri all'interno", ha spiegato Albertini.
Le vittime. "Con lo strumento delle foibe, si volevano eliminare le persone che avrebbero potuto dare fastidio al nuovo Stato comunista jugoslavo", ha affermato il presidente Albertini. "Le truppe di Tito, entrate a Trieste, avevano con loro un elenco delle persone che andavano infoibate. Il meccanismo delle foibe era finalizzato a creare una situazione di terrore. E il terrore è tale anche se colpisce in maniera assolutamente casuale". A Basovizza una lapide ricorda l'infoibamento di un gruppo di finanzieri. Prelevati dai partigiani titini con la scusa di dover essere sottoposti ad alcuni controlli, gli uomini sono stati invece infoibati. Pochi giorni prima avevano partecipato all'insurrezione di Trieste contro i tedeschi. "Questa è stata la loro colpa", ha raccontato Albertini. Ma le foibe non sono state l'unico strumento di repressione titino. Migliaia di persone sono state deportate nei campi di concentramento comunisti di tutta la Jugoslavia. "Mia mamma ha cercato mio padre per anni", ha sussurrato con dolore Annamaria Muiesan, esule di Pirano. "Si è fatta portare più volte vicino ai campi, ma non lo ha mai trovato". La donna, dopo essere scappata da bambina insieme alla madre e alla sorella, ha raccontato della mattina in cui hanno portato via suo padre: "I collaboratori dei titini hanno fatto irruzione in casa nostra. Da quel momento non ho più rivisto mio papà".
La foiba n.149. A guerra finita, il primo maggio 1945 Tito entra a Trieste. Per oltre un mese le forze jugoslave si abbandonano alle violenze, in quelli che a oggi sono ricordati come i "40 giorni del terrore". I partigiani portano i prigionieri, con i vagoni merci, fino alla foiba di Monrupino, meglio conosciuta come foiba 149 (guarda il video). Pochi, difficili passi lungo la scarpata, poi la condanna a morte: le vittime vengono fatte precipitare nel baratro. Secondo alcune stime, in questa foiba hanno trovato la morte circa 2.000 persone.
Quei rastrellamenti partigiani rimasti nascosti per 75 anni. Inedita testimonianza sui giorni dopo l'armistizio: «A Sussak fecero sparire un migliaio di corpi trasformandoli in sapone», scrivono Serenella Bettin e Fausto Biloslavo, Sabato 10/02/2018, su "Il Giornale". I partigiani di Tito portavano in una cartiera i «nemici del popolo» con un furgone della polizia italiana, che avevano sequestrato, per ridurli letteralmente a pezzi in barbare esecuzioni. Poi si disfacevano per sempre dei resti nel vicino saponificio, come i nazisti.
La testimonianza inedita. L'orrore perpetrato vicino a Fiume subito dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 viene rivelato per la prima volta da un'inedita testimonianza scritta anni fa e mai resa pubblica, in possesso del Giornale. La mattanza di prigionieri croati o italiani andò avanti per giorni, come in altre parte dell'Istria, dove i partigiani jugoslavi assunsero il controllo fra il settembre ed il novembre 1943 nella prima ondata delle foibe. «Questo fatto che ora vado a raccontare sembra inverosimile e lo dico come lo ebbi a sapere» scrive l'autore dell'inedita violenza alle porte di Fiume, che nel 1943 aveva poco più di vent'anni e faceva il servizio militare a Sussak, a pochi chilometri dal capoluogo del Quarnaro. Al Giornale ha chiesto di restare anonimo perché, sembra incredibile, ma dopo 75 anni continua ad avere paura. I testimoni di questa terribile storia delle violenze titine furono disarmati diversi giorni dopo l'8 settembre e trasferiti a Pola dai tedeschi, che dopo un mese ripresero il pieno controllo dell'Istria con altrettanta brutalità. «Quando fummo concentrati nel campo sportivo militare fuori della città di Pola, mi sentii chiamare venendomi incontro il carabiniere Moscatello (che era accantonato a Sussak, nda) - si legge nella testimonianza scritta - Piuttosto agitato mi disse: Ti ricordi Hai presente che il giorno dopo l'armistizio dell'otto settembre per due giorni si vedeva passare diverse volte e per tutto il giorno un va e vieni del furgone nero della Polizia Italiana?». A Sussak si era insediato il comando del II corpo d'armata Slovenia-Dalmazia del nostro esercito. Nel vuoto provocato dall'8 settembre i partigiani occuparono il centro abitato per una settimana fino alla controffensiva tedesca. E molti soldati italiani allo sbando rimasero sul posto. Il testimone ancora in vita ricorda che «andai al comando e dietro la scrivania del colonnello era seduto il capo dei partigiani, figlio dell'oste del paese». In poco meno di un mese i partigiani di Tito dichiararono l'annessione dell'Istria alla futura Jugoslavia cominciando a perseguitare chi rappresentava l'Italia. Maestri, funzionari pubblici, agenti di sicurezza e loro congiunti furono prelevati e uccisi. Gli italiani trucidati risultarono almeno un migliaio, ma anche i croati poco allineati con Tito, non solo militari, erano condannati ad una brutta fine. Nel 1943 il carabiniere Moscatello raccontò al testimone ancora in vita, che il cellulare della nostra polizia sequestrato dai partigiani andava a prelevare i nemici del popolo e «...velocemente entrava nello stabilimento della cartiera...» di Sussak. Il carabiniere confidò al commilitone «che di nascosto entrò nella cartiera... e assistette a una cosa impressionante». Dal furgone della polizia «appena entrato facevano scendere le persone all'interno e le ammazzavano facendole immediatamente a pezzi». Brutali esecuzioni sommarie, ma sapendo che ben presto sarebbero tornati i tedeschi in forze, i partigiani non volevano lasciare tracce di cadaveri infoibati o fosse comuni. «Moscatello ebbe anche a vedere che poi i pezzi venivano messi sulle cassette di legno per essere trasportate con il carretto nell'adiacente saponificio - si legge nella testimonianza scritta - passando per un piccolo ponticello in legno attraversando il fiume Eneo». I resti umani venivano fatti sparire per sempre trasformandoli in saponi. Il carabiniere testimone della mattanza potrebbe essere Venanzio Moscatello, classe 1910, scomparso da tempo. Fra il 1942 e 1943 è stato in servizio al comando italiano Slovenia-Dalmazia a Sussak, come dimostrano gli attestati militari. Purtroppo anche il figlio è morto, ma il Giornale è riuscito a recuperare una foto del carabiniere. Il commilitone che raccolse la sua terribile rivelazione nel 1943 lo ha riconosciuto: «È lui senza dubbio». E nel suo scritto ricorda come il testimone sia scampato alle esecuzioni nella cartiera della morte vicino a Fiume: «Moscatello mi disse che inorridito, sempre di nascosto si ritirò non potendo fare niente. Se lo avessero visto avrebbe certamente fatto la stessa fine».
Le pagine sulle foibe (che non scandalizzano i benpensanti). Pagine sulle foibe, sui Marò da buttare nelle cavità carsiche, sugli "idoli delle foibe" e così via. Sul web la pacificazione nazionale appare lontana, scrive Francesco Boezi, Venerdì 09/02/2018, su "Il Giornale". Il web, si sa, è un luogo colorito: si trova di tutto. Perfino pagine apertamente satiriche sulla tragedia delle foibe. Una, forse in modo meno ironico, è intitolata: "Uccidere i Marò gettandoli nelle foibe". Basta scorrere un minuto con il mouse per comprendere il taglio dato allo spazio social in questione: "Come fu che i nostri Marò vollero entrare in politica e si scavarono la foiba con le loro mani" recita la foto di un post condiviso dalla pagina "Libri vintage per l'infanzia". Satira, certo, su quella che dovrebbe essere riconosciuta pacificamente come una tragedia nazionale. E sui Marò del caso dell'Enrica Lexie, che in qualche modo vengono etichettati a simbolo politico di destra, quindi passibili di scherno e risibilità. "Si sta come d'autunno sugli alberi le foglie" è il nome di un'altra di queste pagine facilmente reperibile su Facebook. "Quest'anno le foibe non se l'è inculate nessuno... questa precarietà esistenziale non risparmia proprio nulla", si può leggere nel primo post visibile (almeno per chi non ha cliccato "mi piace"), risalente al 12 febbraio 2014. E subito dopo un murales recitante la seguente scritta: "Tu mi porti su e poi mi lasci cadere #foibe". Satira, evidentemente. Condivisa questa volta da "Anti Rac (Ama la Musica Odia il Razzismo)". In un post del 10 febbraio 2014, quindi durante Il Giorno del Ricordo, si trova scritto: "Anche Dante ha parlato del dramma delle foibe, poi non dite che non ci sono le fonti "Tanto gentile e tanto onesta pare la foiba mia quand'ellla altrui vi salta, ch'ogne lingua devan tremando muta e li occhi no l'ardiscon di guardare". Gli eccidi ai danni della popolazione italiana residente in Venezia Giulia, in Istria e in Dalmazia, quindi, "canzonati" alla maniera dell'Alighieri. L'autore, certamente, avrà voluto rendere omaggio in modo post-datato agli infoibati.
Poi, ancora, c'è la pagina "E i marò is the new "E le foibe?". In questo caso viene ripreso un famoso siparietto dell'attrice Caterina Guzzanti che, nei panni di una militante di Casapound, incalzata dall'intervistatore, ripeteva sempre la medesima frase sulle foibe. "E i marò", dunque, sarebbe in qualche modo diventata l'unica argomentazione rimasta a disposizione di un militante di destra. Oppure, a seconda delle interpretazioni, l'unica conosciuta. Un'altra pagina curiosa è "Tirare fuori a caso le foibe nei commenti". Qui gli inghiottitoi carsici sono finiti, attraverso un fotomontaggio, sui bigliettini dei Baci Perugina. Infoibamenti e dolcezze, insomma. Più difficile, invece, dedurre il collegamento pensato tra il titolo di "Idoli delle foibe", l'ennesima di queste pagine, e i personaggi selezionati per i post pubblicati: Fabrizio Corona, Enzo Salvi, Alvaro Vitali e così via.
I lettori, sicuramente, ricorderanno la chiusura di "Scl", che faceva (e fa) "satira non di sinistra". I contenuti elencati nelle circostanze citate, invece, sembrano non indignare i benpensanti e i cosiddetti controllori del web. Nessun appello pubblico, almeno sino ad ora, è stato fatto per rimuovere alcuni di questi contenuti. Se la "satira" non provoca scandalo in chi la recepisce, del resto, non sarebbe tale. E "Uccidere i Marò gettandoli nelle foibe", in particolare, è un'espressione trovata in una di queste pagine ovviamente tutelata dal diritto alla libertà di espressione. Oppure no?
Ecco il saggio per comprendere la ferocia dei miliziani di Tito. «Foibe» documenta con precisione la pulizia etnica anti italiana, scrive Matteo Sacchi, Sabato 10/02/2018, su "Il Giornale". Le violenze compiute dai partigiani titini in Istria, Dalmazia, e in molte altre zone della Venezia Giulia sono state a lungo ignorate dalla storiografia. Quando sono tornate a essere oggetto di discussione, anche perché le violente pulizie etniche dei conflitti nella ex Jugoslavia hanno reso impossibile ignorare i precedenti, il tema è stato rapidamente politicizzato. Le formazioni politiche vicine al mondo comunista hanno spesso cercato di minimizzare ciò che per anni avevano contribuito a nascondere sotto il tappeto. Quelle di destra hanno cercato di «monetizzare» politicamente il proprio merito di aver lottato per mantenere in vita il ricordo di ciò che era toccato in sorte a questi italiani scomodi, di confine. Esiste invece la necessità di una indagine degli eventi rigorosa e il meno possibile di parte. Ecco perché da oggi troverete in edicola con il Giornale il saggio scritto da Raoul Pupo e Roberto Spazzali: Foibe (pagg. 254, euro 8,50 più il prezzo del quotidiano). Il volume inquadra con chiarezza, mettendo a disposizione del lettore i fatti, anche con un gran numero di documenti. E con le parole, proprio a partire da «Foibe». Inutili le discussioni su quante siano state le persone realmente gettate nelle cavità carsiche. «Quando si parla di foibe ci si riferisce alle violenze di massa a danno di militari e civili, in larga prevalenza italiani, scatenatesi nell'autunno del 1943 e nella primavera del 1945 in diverse aree della Venezia Giulia e che nel loro insieme provocarono alcune migliaia di vittime». È in questo senso ampio che va considerato il dramma commemorato oggi nel Giorno del ricordo. Quelli perpetrati sul bordo degli inghiottitoi carsici sono solo alcuni degli eccidi perpetrati. Ciò ha contribuito a rendere particolarmente sterile il dibattito sul numero degli uccisi. Più interessante è riflettere su quale fu la metodica delle violenze, concentrate soprattutto nell'autunno del 1943 e nella primavera del 1945. Le violenze furono caratterizzate da un preciso odio etnico. Le vittime non furono soltanto esponenti del regime fascista, come spesso è stato detto da parte jugoslava. Come spiegano Pupo e Spazzali, già subito dopo l'8 settembre «vennero fatti sparire i rappresentanti dello Stato, come podestà, segretari e messi comunali, carabinieri, guardie campestri, esattori delle tasse e ufficiali postali». Una precisa volontà di «spazzare via chiunque ricordasse l'amministrazione italiana». Poi la strage si estese ai possidenti terrieri e anche ai partigiani italiani non disposti a farsi assimilare. I dati sono anche più chiari per la primavera del 1945. I campi in cui vennero inviati i prigionieri italiani, come quello di Borovnica, erano sostanzialmente strutturati per liquidarne il più possibile. E che di nuovo si trattasse di un preciso piano di occupazione e pulizia etnica lo provano le subitanee e spietate iniziative contro membri dei Cln di Gorizia e Trieste. Uccidere i partigiani italiani che davano segno di autonomia. Se a questa equazione «italiano = fascista» sponsorizzata dall'alto si sommano gli odi personali e lo spazio lasciato alla criminalità comune, si capisce l'entità delle violenze e del terrore che provocarono. L'ultima parte del libro è poi dedicata specificatamente ai luoghi, con mappe che indicano la collocazione delle foibe.
LE FOIBE E LA CULTURA ROSSO SANGUE DELLA SINISTRA COMUNISTA.
Foibe: il giorno del ricordo. L’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in occasione del Giorno del Ricordo nel 2007, userà queste parole: «Va ricordato l’imperdonabile orrore contro l’umanità costituito dalle foibe e va ricordata la “congiura del silenzio”, la fase meno drammatica ma ancor più amara e demoralizzante dell’oblio. Anche di quella non dobbiamo tacere, assumendoci la responsabilità dell’aver negato, o teso a ignorare, la verità per pregiudiziali ideologiche e cecità politica, e dell’averla rimossa per calcoli diplomatici e convenienze internazionali».
Foibe, la verità dopo tanto silenzio, scrive Aldo Quadrani su “Viterbo Post”. Il Circolo Reale riportò alla luce la tragedia nel 1997. Gabbianelli la ricordò. Il 10 febbraio, l’Italia celebrerà il giorno del ricordo una ricorrenza civile nazionale istituita con legge del 30 marzo 2004 per non dimenticare le migliaia di Italiani trucidati dall’odio comunista, gettati nelle cavità carsiche, chiamate foibe. Nella nostra città, ma anche in gran parte d’Italia, di questo dramma non se ne ebbe notizia per tanti anni, grazie anche alla connivenza di una certa politica. Dobbiamo arrivare al 6 novembre 1997 quando il Circolo Reale della Tuscia in un pubblico convegno portò alla ribalta questo doloroso evento ed in quella occasione emerse la proposta di dedicare un pubblico sito a questi martiri. Ma si dovette attendere sino al 1999 e precisamente il 16 ottobre, giorno in cui venne intitolata la piazza esterna a Porta Faul ai “Martiri delle Foibe Istriane” grazie alla determinazione dell’allora sindaco Giancarlo Gabbianelli e dell’ allora assessore Antonio Fracassini. Chi era presente forse ancora ricorda la toccante e bellissima cerimonia con tante testimonianze di profughi e parenti di infoibati. Ma anche Viterbo dette il suo contributo di sangue come scoprì, a seguito di indagini, l’allora consigliere comunale Maurizio Federici: il ventenne Carlo Celestini conobbe la tremenda fine della sua vita in un Foiba e a lui fu dedicato il cippo che a tutt’oggi si erge nella piazza. Purtroppo i viterbesi, anche della provincia, che perirono in siffatte condizioni furono molti, come accertarono in seguito lo stesso Federici coadiuvato da Silvano Olmi. Con la nascita della festività nazionale c’è ora un Comitato denominato “10 febbraio” che magistralmente porta avanti annualmente il ricordo dei nostri martiri. Quest’anno la commemorazione avverrà con due giorni d’anticipo, domenica 8 febbraio alle ore 11,30 presso il Piazzale Martiri delle Foibe Istriane, per dar modo ai nostri Cittadini di poter partecipare e ricordare chi morì per la sola colpa di essere Italiano.
E allora le foibe? Si chiede Adriano Scianca su “Il Primato Nazionale”. È capitato una volta a chi scrive di telefonare, per ragioni professionali, a una delle tre maggiori università romane a ridosso della Giornata del Ricordo in onore delle vittime delle foibe e dell’esodo giuliano dalmata. Alla domanda su quali iniziative avesse preso l’ateneo per ottemperare agli obblighi di legge che prevedono pubbliche iniziative in occasione del 10 febbraio, il funzionario dell’università, sensibilmente imbarazzato, si affrettò a precisare: “Guardi, noi abbiamo anche un dipartimento di studi ebraici”. Al che fu chiaro che il passacarte di turno confondeva la Giornata del ricordo (10 febbraio) con il Giorno della Memoria (27 gennaio) e che evidentemente no, la sua università non aveva organizzato alcuna iniziativa per ricordare i connazionali trucidati nelle cavità carsiche. Volendo, l’aneddoto evidenzia anche una stortura nel rapportarsi alla stessa commemorazione del 27 gennaio (che c’entra il fatto di ricordare l’Olocausto con il fatto di avere un dipartimento di studi ebraici?), ma non infieriamo ulteriormente. A quanto pare, il ricordo è una cosa più complicata di quanto qualcuno immaginasse. Non basta istituire una giornata ad hoc per riattivare una memoria interrotta, se non si va a lavorare sulle ragioni di quella interruzione. Certo, magari la Rai domani sera trasmetterà “Il cuore nel pozzo”, la melensa fiction cerchiobottista in cui non si parla di comunisti e in cui gli esuli cantano “O sole mio”, tipico canto del confine orientale. Ma il ricordo vero è un’altra cosa e la classe intellettual-mediatica italiana si guarda bene dall’accostarvisi, in quanto erede spirituale di chi infoibò, torturò, stuprò, cacciò i nostri connazionali, di chi non li fece sbarcare nelle stazioni a cui approdavano dopo l’esodo, di chi gettava il latte destinato ai neonati affamati in terra, con gesto di scherno e sadismo, di chi ha imposto che per anni sulle foibe cadesse un velo di vergognoso silenzio. E dopo aver lasciato per anni il ricordo in mano a un pugno di patrioti solitari, che hanno tenuto viva la memoria per anni in mezzo all’indifferenza complice, oggi si denunciano quei pochi perché strumentalizzerebbero la storia. Non scordiamo, del resto, che poco tempo fa una mediocre personalità dello spettacolo, paracadutata per meriti familiari in prima serata, poteva lanciare il tormentone “E allora le foibe?” (cosa semplicemente inconcepibile in relazione a ogni altra grande tragedia del Novecento) come a sottolineare che chi ha a cuore il martirio delle terre del confine orientale è forse troppo invadente, insistente, petulante, dovrebbe darsi una calmata. Come se di foibe si parlasse in continuazione, come se l’argomento avesse ormai stancato, fosse un fatto assodato, come se non se ne potesse più. E forse, per alcuni, è così. Perché le foibe ricordano la loro eterna colpa e quindi quel nome è per loro insopportabile. Un motivo in più per continuare a pronunciarlo: e allora le foibe?
Il 10 febbraio, data della ratifica dei trattati di pace del 1947, si ricordano gli eccidi in Istria e Venezia-Giulia. 10 febbraio 2015. A 70 anni dai massacri del 1945, scrive Edoardo Frittoli su “Panorama”. La serie di eccidi noti come i massacri delle foibe possono essere divisi in due distinti periodi: gli "infoibamenti" del settembre-ottobre 1943 e le stragi del 1945, che in alcuni casi si protrassero fino al 1947. Non si conosce esattamente ad oggi il numero esatto delle vittime. La storiografia attuale comprende una forbice stimata tra i 5000 e i 12.000 morti. Al di là degli approcci ideologizzati dalla letteratura del dopoguerra e del silenzio sotto il quale passarono gli anni della Guerra Fredda e della Jugoslavia "non allineata" di Tito, sembrano essere all'origine dei massacri una serie di gravi concause, alcune risalenti a decenni antecedenti i fatti. Le popolazioni della Venezia-Giulia, dell'Istria e della Dalmazia a cavallo tra il secolo XIX e il XX erano caratterizzate dalla dualità etnico-linguistica italiana e slava. Quest'ultima, originariamente rurale, si trovava in una posizione socio culturale più bassa rispetto agli italiani, che costituivano una sorta di borghesia urbanizzata. Tra la fine dell'800 e la Grande Guerra i movimenti nazionalisti slavi, specie in Dalmazia, furono apertamente sostenuti dall'Impero Asburgico in funzione anti-italiana. La vittoria del 1918 portò all'occupazione di tutta la Venezia Giulia, dell'Istria e dalla Dalmazia. Quest'ultima fu alla fine negata all'Italia dalla "Dottrina Wilson", e Roma ottenne solo Zara e alcune isole. Da questa situazione tra gli irredentisti italiani nacque il mito della "vittoria mutilata", ripresa totalmente dal fascismo che si affacciava al potere. Dopo il 1922 inizia il processo di "fascistizzazione" attraverso la proibizione dell'uso delle lingue slave, l'esclusione dalle cariche pubbliche dei cittadini di origine non-italiana e la conseguente attribuzione a soli cittadini italiani dell'istruzione pubblica. Con l'aggressione italo-tedesca del 1941 la geografia di Slovenia, Croazia e Dalmazia fu riscritta. L'Italia procedette all'annessione di Lubiana e gran parte dell'attuale Slovenia. La Croazia passò sotto il regime filofascista di Ante Pavelic. Gli eventi bellici fecero poi precipitare la situazione. Nel 1943 i partigiani jugoslavi erano impegnati nella lotta contro i tedeschi e gli italiani quando arrivò l'8 settembre e il conseguente sbandamento del Regio esercito. Proprio a seguito dell'armistizio si colloca la prima ondata di assassinii legati alle foibe. Nei mesi precedenti, la lotta antipartigiana condotta dagli italiani e dagli alleati tedeschi aveva portato ad alcuni gravi episodi di repressione, sfociati in veri e propri massacri tra la popolazione civile. In Croazia Ante Pavelic, alleato dell'Asse, perseguì violentemente i partigiani, gli ebrei e gli zingari. Parecchi prigionieri sloveni erano stati portati nel campo di concentramento di Gonars, in Friuli. Così come i partigiani jugoslavi furono internati da Pavelic nel campo di concentramento di Jasenovac. All'indomani del' 8 settembre parte del territorio istriano era caduto in mano ai partigiani jugoslavi, i quali compilarono liste di presunti collaborazionisti del regime fascista, che comprendevano frequentemente nomi estranei alle istituzioni nazifascisteo all'esercito. Spesso si trattava di civili italiani ritenuti "in vista" dalla popolazione slava. Gli arrestati, condotti a Pisino, furono fucilati e infoibati. Altri massacrati nelle miniere della zona. Si trattava di circa 600 persone, trascinate e gettate nelle foibe spesso ancora vive, legate tra loro da un filo di ferro collegato a pesanti massi. Nel dicembre 1943 i tedeschi riprendono l'Istria, nell'offensiva che porterà i territori della Venezia-Giulia, Istria e Dalmazia a costituire la cosiddetta zona d'Operazioni del Litorale Adriatico (OZAK) di fatto annessa al Terzo Reich. Qui cominciarono ad operare a fianco dei tedeschi i reparti italiani della RSI (Guardia Nazionale Repubblicana, il reggimento Alpini "Tagliamento", reparti delle Brigate Nere) che si macchiarono di ulteriori tragici episodi di repressione. Ad appesantire il bilancio contribuirono i bombardamenti alleati della zona costiera e l'avanzata dei titini che tra l'autunno del 1944 e la primavera del 1945 riconquistarono la Venezia-Giulia puntando rapidamente su Trieste. L'arrivo degli uomini di Tito segnò la fine anche per gli italiani che avevano fiancheggiato gli jugoslavi nella lotta contro fascisti e nazisti. La polizia segreta di Tito, l'OZNA, comprese negli elenchi dei nemici dello stato comunista di Jugoslavia anche molti elementi facenti parte del CLN. La furia vendicatrice degli uomini di Tito si riversò anche su elementi del clero locale che non si erano macchiati di collaborazionismo. Nella primavera del 1945 furono sterminati nelle foibe migliaia di persone, non solo italiane, non solo membri delle milizie fasciste del Litorale Adriatico. Anche gruppi di Sloveni che si opponevano alla futura Jugoslavia comunista, anche membri di formazioni politiche "non allineate" quali gli Autonomisti istriani, i cui vertici furono barbaramente assassinati. Neppure i membri della Resistenza italiani di ritorno dai campi di concentramento furono risparmiati. Alla tragedia si aggiunse tragedia in quanto i titini, vicini alla vittoria finale, parevano non limitarsi all'acquisizione territoriale della Venezia-Giulia. Essi ritenevano che la vittoria militare coincidesse con quella della rivoluzione sociale comunista. La classe borghese in quelle zone era tradizionalmente identificata con la popolazione italiana tout court , al di là delle appartenenze politiche. Nei mesi del caos che precedettero la fine della guerra molte furono anche le morti dovute a rappresaglie locali, vendette personali o questioni legate a beni e proprietà. Particolarmente cruenta fu la situazione di Trieste e Gorizia all'arrivo dei titini. Oltre alla eliminazione fisica e all'occultamento nelle foibe del Carso, molti furono gli italiani e in genere gli oppositori di Tito ad essere internati nel terribile lager di Borovnica, nel quale i prigionieri furono massacrati dopo orribili torture fisiche. Sembrava in sostanza che la rappresaglia in quelle zone non si sarebbe arrestata con la fine della guerra, ma che sarebbe proseguita al fine di garantire il nuovo stato jugoslavo contro ogni tipo di opposizione. Cosa che in Italia non si verificò in quanto la Resistenza non si identificherà mai, come in Iugoslavia, con una nuova realtà nazionale (La Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia) in continuità con il movimento resistenziale. Il massacro di migliaia di vite umane nella profondità delle foibe fu messo a tacere praticamente subito. L'inizio della Guerra Fredda vide le mire del maresciallo Tito ridimensionate con la costituzione del TLT di Trieste (zona libera). Nel 1948 poi avviene lo strappo tra Belgrado e Mosca. Sia il PCI che il governo ritennero prudente non riaprire la questione delle foibe. Il governo e le istituzioni per evitare di affrontare la questione dei crimini di guerra compiuti dagli italiani in un contesto internazionale molto teso. Così come ambiguo rimarrà l'atteggiamento dei comunisti italiani tra il 1945 e il 1948. Questi avevano avvallato l'ingresso dei titini nella Venezia Giulia, acconsentito a tutte le rivendicazioni territoriali jugoslave dal 1945 in avanti. Fino al 1948, anno della rottura tra Stalin e Tito e alla ratifica dei trattati di pace a Parigi il 10 febbraio 1947. Poi il grande silenzio internazionale ha coperto per decenni le imboccature delle depressioni carsiche e il loro contenuto di morte.
La tragedia delle Foibe: 60 anni di silenzio. Per 60 anni il dramma delle foibe è rimasto ignoto ai più, e secondo lo storico Gianni Oliva il silenzio è da ricondurre a tre motivi principali. Scopriamoli insieme, scrive Nicolamaria Coppola su “Quotidiano Giovani”. È stato un tabù per decenni: non una riga sui libri di scuola, nessuna pubblicazione storica nel grande circuito editoriale, niente commemorazioni ufficiali. Per 60 anni il dramma delle foibe è rimasto ignoto ai più, e secondo lo storico Gianni Oliva il silenzio è da ricondurre a tre motivi principali: innanzitutto la necessità, subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, del blocco occidentale di stabilire rapporti meno tesi con la Jugoslavia in funzione antisovietica; cause politiche dal momento che il PCI non aveva interesse a evidenziare le proprie contraddizioni sulla vicenda e le proprie subordinazioni alla volontà del comunismo internazionale; un silenzio da parte dello Stato Italiano che voleva sorpassare tutto il capitolo della sconfitta nella guerra da poco conclusasi. Solo in quest'ultimo decennio il dramma delle foibe è tornato alla ribalta, e nonostante le polemiche ideologiche si è cominciato a fare luce sulla tragedia. Dal 2005 si commemorano, nella “Giornata del Ricordo” il 10 febbraio, le vittime dei massacri delle foibe, ma sono ancora pochi gli Italiani che sanno effettivamente di cosa si tratti e cosa abbiano rappresentato per la generazione del dopoguerra. Secondo un sondaggio commissionato dall'Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, solo il 43% dei nostri connazionali sa cosa siano le foibe e ancora più bassa è la percezione sul significato dell'Esodo giuliano-dalmata (22%). Il 46% dei giovani ha una cognizione abbastanza chiara della tragedia, ma i dubbi e le incertezze sono ancora tanti. Le foibe sono delle cavità naturali con ingresso a strapiombo presenti sul Carso, la zona montuosa compresa tra Trieste, la Slovenia, l'Istria e la Dalmazia, usate per occultare i cadaveri di un numero non preciso di persone. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale i partigiani comunisti di Tito gettarono- infoibarono - in queste profonde voragini migliaia di persone, alcune dopo averle fucilate, altre ancora vive, colpevoli o di essere italiane o di essere contrarie al regime comunista. La prima ondata di violenza esplose subito dopo la firma dell’armistizio dell’8 settembre 1943 tra l'Italia guidata dal Generale Badoglio e le truppe anglo-americane: in Istria e in Dalmazia i partigiani slavi si vendicarono contro i fascisti e gli italiani non comunisti. Li consideravano “nemici del popolo”, accusandoli sia di non essere comunisti e, quindi, ostili a Tito, sia, soprattutto, di aver contribuito, allorquando il regime fascista impose in tutto il Venezia Giulia una violenta politica di snazionalizzazione, all'eliminazione delle minoranze serbe, croate e jugoslave in quella regione. Le vittime dei titini venivano condotte, dopo atroci sevizie, nei pressi della foiba: qui gli aguzzini, non paghi dei maltrattamenti già inflitti, bloccavano i polsi e i piedi tramite filo di ferro ad ogni singola persona con l’ausilio di pinze e, successivamente, legavano gli uni agli altri sempre tramite il di ferro. I massacratori si divertivano, nella maggior parte dei casi, a sparare al primo malcapitato del gruppo che ruzzolava rovinosamente nella foiba spingendo con sé gli altri. La violenza aumentò nella primavera del 1945, quando la Jugoslavia occupò Trieste, Gorizia e l’Istria. Le truppe del Maresciallo Tito, al grido di «Epurare subito», «Punire con severità tutti i fomentatori dello sciovinismo e dell’odio nazionale», si scatenarono di nuovo contro gli italiani, e a cadere dentro le foibe furono fascisti, cattolici, liberaldemocratici, socialisti, uomini di chiesa, donne, anziani e bambini. L'ondata di violenza non risparmiò neppure le popolazioni slovene contrarie al progetto politico comunista jugoslavo, le quali, oltre che infoibate, vennero deportate nelle carceri e nei campi di prigionia, tra i quali va ricordato quello di Borovnica. Questa carneficina, che testimonia l’odio politico-ideologico e la pulizia etnica voluta da Tito per eliminare dalla futura Jugoslavia i non comunisti, finì il 9 giugno 1945, quando Tito e il generale Alexander tracciarono la linea di demarcazione Morgan che prevedeva due zone di occupazione, la A e la B, dei territori goriziano e triestino, confermate dal “Memorandum di Londra” del 1954. È la linea che ancora oggi definisce il confine orientale dell’Italia. La persecuzione degli Italiani, però, durò almeno fino al 1947, soprattutto nella parte dell'Istria più vicina al confine e sottoposta all'amministrazione provvisoria jugoslava. Secondo lo storico Enzo Collotti, parlare delle foibe significa «chiamare in causa il complesso di situazioni cumulatesi nell'arco di un ventennio con l'esasperazione di violenza e di lacerazioni politiche, militari e sociali concentratesi, in particolare, nei cinque anni della fase più acuta della Seconda Guerra mondiale. È qui che nascono le radici dell'odio, delle foibe, dell'esodo dall'Istria». Le foibe sono state il prodotto di odi diversi: etnico, nazionale e ideologico. «Furono la risoluzione brutale di un tentativo rivoluzionario di annessione territoriale», ha sintetizzato lo storico triestino Roberto Spazzali. «Chi non ci stava, veniva eliminato».
IL SILENZIO SULLE FOIBE: UN GENOCIDIO CELATO DA OMBRE, scrive Giuseppe Papalia su “Secolo Trentino”. Foibe. Probabilmente a molti questa parola direbbe ancora poco se l’argomento non fosse stato portato alla ribalta dell’opinione pubblica, istituendo una giornata della memoria, meritata quanto agognata e ancora oggi criticata e strumentalizzata dalle diverse fazioni politiche che ne recriminano l’accaduto. Il 10 febbraio di ogni anno, infatti, si ricorda questo terribile genocidio ancora impresso nella mente di molti, di quell’Italia del dopoguerra travolta dalla miseria e dalla fame. Di quel paese coinvolto in una crisi identitaria radicale, non solo politica ma quasi metafisica. In cui la guerra e la persecuzione erano solo i sintomi di una guerra ormai ultima, la prova, che negli anni a venire avrebbe gettato una luce cruda su quanto accaduto. Quella luce che in molti oggi sembrano non voler riesumare, nonostante i corpi riesumati in quelle fosse furono circa 11000, comprese le vittime recuperate e quelle stimate, più i morti nei campi di concentramento jugoslavi. Una riflessione scaturisce in merito a quella storia vissuta eppure dimenticata dai più, impressa tuttavia nelle menti delle generazioni che l’hanno vissuta sulla loro pelle l’8 settembre del 1943, quando i territori istriani, giuliani e dalmati, dapprima sotto l’influenza tedesca, venivano in seguito occupati dai partigiani comunisti di Tito. Titini che, comunemente ai partigiani comunisti italiani, non solo nutrivano il progetto di avanzare in un paese ormai stremato e inerme (segnato dalla caduta del fascismo) recriminandone la conquista territoriale, ma addirittura rivelarono ben presto quell’odio etnico che li animava. L’intenzione di “de-italianizzare” i territori occupati con metodi terribili fu presto svelata. Metodi che nulla avevano da invidiare a quelli nazisti adottati nei confronti di popoli innocenti e che nulla centravano con i fatti accaduti nell’Europa della grande guerra e dei crimini di guerra. Così, occorre oggi ricordare, che Italiani senza particolare distinzione di sesso, età o fazioni politiche, erano prelevati e poi eliminati con l’unica colpa forse, di non aver partecipato attivamente a piani espansionistici di Tito, che costrinse ben 350000 persone a fuggire dalle loro terre e altre 11000, a essere uccise con modalità di una ferocia inaudita. Nella sola foiba di Basovizza, furono rinvenuti 2000 cadaveri. Nonostante in molti abbiano portato il tema alla considerazione dell’opinione pubblica, sorge spontanea una riflessione. Possibile che solo ora, dopo settantanni di macabra storia celata e quasi dimenticata, se non addirittura strumentalizzata a piacere dalle diverse fazioni politiche, possiamo ritenerci soddisfatti dell’istituzione di una giornata della memoria e (addirittura) dell’uscita di un film sull’avvenimento di tale fatto? E pensare che la cinematografia e tutte le varie ricorrenze istituite ad hoc, non si sono fatte aspettare più di tanto per quel che concerne la Shoah. Per quale motivo? Che le foibe fossero meno importanti? O probabilmente perché nonostante tutto, ancora oggi, le foibe non sono ancora entrate nella cosiddetta “memoria condivisa” di un popolo (quello italiano) che ne fu vittima oltre che carnefice? Come scrisse il grande giornalista Indro Montanelli, “sicuramente il silenzio sulle foibe oggi si spiega facilmente, considerando che la storiografia italiana del dopoguerra era di sinistra, la quale apparteneva certamente al comunismo slavo e di cui era succube e ne curava gli interessi. Di questo quindi non si poteva parlare poiché della morte di tante persone ne risentiva la coscienza. Ammesso che ce ne fosse una, in nome di una resistenza che altro non era che una guerra civile tra italiani stessi.” Forse occorrerà domandarsi cosa, al cospetto dei quei tragici avvenimenti, viene oggi ricordato nell’immaginario collettivo comune. Di quel macabro periodo in cui tutto pareva che fosse quasi un nodo, che prima o poi sarebbe certo venuto al pettine.
Foibe: anche decine e decine di sacerdoti furono torturati e uccisi, scrive “Imola Oggi”. Cinquanta sacerdoti tra le vittime delle foibe. Il racconto di Piero Tarticchio, parente di un sacerdote martire di quel periodo. La storia delle foibe è legata al trattato di pace firmato a Parigi il 10 Febbraio 1947, che impose all’Italia la cessione alla Jugoslavia di Zara – in Dalmazia –, dell’Istria con Fiume e di gran parte della Venezia Giulia, con Trieste costituita territorio libero tornato poi all’Italia alla fine del 1954. Dal 1947 al 1954 le truppe jugoslave di Tito, in collaborazione con i comunisti italiani, commisero un’opera di vera e propria pulizia etnica mettendo in atto gesti di inaudita ferocia. Sono 350.000 gli Italiani che abbandonarono l’Istria, Fiume e la Dalmazia, e più di 20.000 le persone che, prima di essere gettate nelle foibe (cavità carsiche profonde fino a 200 metri), subirono ogni sorta di tortura. Intere famiglie italiane vennero massacrate, molti venivano legati con filo spinato a cadaveri e gettati nelle voragini vivi, decine e decine di sacerdoti furono torturati e uccisi. Nella sola foiba di Basovizza sono stati ritrovati quattrocento metri cubi di cadaveri. Per decenni questa barbarie è stata nascosta, tanto che l’agenzia di stampa “Astro 9 colonne”, nel fare un conteggio dei lanci di agenzia pubblicati dal dopoguerra ad oggi sul tema delle foibe, ha scoperto che fino al 1990 erano stati poco più di 30. Negli anni Novanta l’attenzione per il tema è aumentata: oltre 100 fino al 1995, l’anno successivo i lanci sono stati ben 155. Negli anni recenti ogni anno ce ne sono stati addirittura più di 200. Dopo anni di silenzio la vicenda è arrivata in Parlamento, e con la legge n. 92 del 30 marzo 2004 è stato istituito il ”Giorno del Ricordo”, per conservare la memoria della tragedia delle foibe. Calcolare esattamente il numero delle vittime è difficile, ma sono stati almeno 50 i sacerdoti uccisi dalle truppe comuniste di Tito. Interpellato da ZENIT, Piero Tarticchio, che all’epoca dei fatti aveva sette anni, ha ricordato la tanta gente che partecipò al funerale del suo parente don Angelo Tarticchio, parroco di Villa di Rovino e attivo nell’opera caritativa di assistenza ai poveri, ucciso il 19 settembre del 1943 e sepolto il 4 novembre. Il sacerdote venne preso di notte dai partigiani jugoslavi, insultato e incarcerato nel castello dei Montecuccoli a Pisino d’Istria. Dopo averlo torturato, lo trascinarono presso Baksoti (Lindaro), dove assieme a 43 prigionieri legati con filo spinato venne ucciso con una raffica di mitragliatrice e gettato in una cava di bauxite. Tarticchio ha raccontato a ZENIT che il 31 ottobre, quando venne riesumato il cadavere, si vide che in segno di scherno gli assassini avevano messo una corona di filo spinato in testa a don Angelo. Don Tarticchio viene oggi ricordato come il primo martire delle foibe. Un’altra delle vittime fu don Francesco Bonifacio, un sacerdote istriano che per la sua bontà e generosità veniva chiamato in seminario “el santin”. Cappellano a Volla Gardossi, presso Buie, don Bonifacio era noto per la sua opera di carità e zelo evangelico. La persecuzione contro la fede delle truppe comuniste era tale che non poté sfuggire al martirio. La sera dell’11 settembre 1946 venne preso da alcune “guardie popolari”, che lo portarono nel bosco. Da allora di Don Bonifacio non si è saputo più nulla; neanche i resti del suo cadavere sono mai stati trovati. Il fratello, che lo cercò immediatamente, venne incarcerato con l’accusa di raccontare storie false. Per anni la vicenda è rimasta sconosciuta, finché un regista teatrale è riuscito a contattare una delle “guardie popolari” che avevano preso don Bonifacio. Questi raccontò che il sacerdote era stato caricato su un’auto, picchiato, spogliato, colpito con un sasso sul viso e finito con due coltellate prima di essere gettato in una foiba. Per don Francesco Bonifacio il 26 maggio 1997 è stata introdotta la causa di beatificazione, per essere stato ucciso “in odium fidei”. In “odium fidei” fu ucciso il 24 agosto del 1947 anche don Miroslav Buselic, parroco di Mompaderno e vicedirettore del seminario di Pisino. A causa della guerra in molte parrocchie della sua zona non era stato possibile amministrare la cresima, così don Miroslav accompagnò monsignor Jacob Ukmar per amministrare le cresime in 24 chiese diverse. I comunisti, però, avevano proibito l’amministrazione. Alla chiesa parrocchiale di Antignana i comunisti impedirono l’ingresso a monsignor Ukmae e don Miroslav. Nella chiesa parrocchiale di Pinguente una massa di facinorosi impedì la cresima per 250 ragazzi, lanciando uova marce e pomodori, tra insulti e bestemmie. Il 24 agosto nella chiesa di Lanischie, che i comunisti chiamavano “il Vaticano” per la fedeltà alla chiesa dei parrocchiani, monsignor Ukmar e don Milo riuscirono a cresimare 237 ragazzi. Alla fine della liturgia i due sacerdoti si chiusero in canonica insieme al parroco, ma i comunisti fecero irruzione, sgozzarono don Miroslav e picchiarono credendolo morto monsignor Ukmar, mentre don Stjepan Cek, il parroco, riuscì a nascondersi. Alcuni testimoni hanno raccontato che prima di essere sgozzato don Miloslav avrebbe detto “Perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Al funerale i comunisti non permisero ai treni pieni di gente di fermarsi, nemmeno nelle stazioni vicine. Al processo i giudici accusarono monsignor Ukmar e il parroco di aver provocato gli incidenti, così il monsignore, dopo aver trascorso un mese in ospedale per le percosse ricevute, venne condannato ad un mese di prigione. Il parroco fu invece condannato a sei anni di lavori forzati. Su don Milo, il tribunale del popolo sostenne che non era provato che “fosse stato veramente ucciso”. Poteva essersi “suicidato a scopo intimidatorio”. Le prove erano però così evidenti che l’assassino venne condannato a cinque mesi di prigione per “troppo zelo nella contestazione”. Nel 1956, in pieno regime comunista la diocesi avviò segretamente il processo di beatificazione di don Miloslav Buselic, ed è diffusa ancora oggi la fama di santità di don Miro tra i cattolici d’Istria.
Crimini titini: cinquanta i sacerdoti infoibati, da Bonifacio a Bulesic, scrive Antonio Pannullo su “Il Secolo d’Italia”. È stato solo con la legge del 2004 che ha istituito il Giorno del Ricordo in memoria delle vittime delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata, per iniziativa del deputato triestino Roberto Menia, che la maggioranza degli italiani ha saputo cosa successe alla frontiera nordorientale negli anni Quaranta. Ventimila gli italiani uccisi, infoibati, oltre 350mila le popolazioni che dovettero forzosamente abbandonare l’Istria e la Dalmazia spinti dalla furia dei partigiani comunisti di Tito. Fu un genocidio in piena regola, che ha rispettato tutti i canoni: prima lo sterminio indiscriminato delle popolazioni residenti in un determinato territorio, tanto da costringere i superstiti ad abbandonarlo, poi l’occupazione di quel territorio e la confisca – meglio: il ladrocinio – delle terre e delle case ai proprietari legittimi. Ferite queste, insieme con gli assassinii di massa, che non sono mai state rimarginate. Tra gli infoibati, ossia le persone gettate, spesso vive, nelle depressioni carsiche chiamate foibe, ci furono persino sacerdoti. E anche questo è stato appreso recentemente, poiché per decenni su quella vicenda calò una pesantissima cortina di silenzio con la complicità del debole governo democristiano che non voleva dispiacere alla Jugoslavia ma che soprattutto non voleva rinunciare all’apertura a sinistra, che poi realizzò. Sembra che i sacerdoti assassinati in questo modo siano stati non meno di cinquanta, alcuni dei quali a tutt’oggi sconosciuti e alcuni dei quali di cui non è mai stato trovato il corpo. Come accadde per don Francesco Bonifacio, torturato e assassinato dai titini, che è stato proclamato beato il 4 ottobre 2008 nella chiesa di San Giusto a Trieste da Benedetto XVI. 62 anni dopo i fatti. Francesco Bonifacio era nato nel 1912 a Pirano, oggi in Slovenia, e per la sua bontà era stato soprannominato el santin. Nel 1946 era cappellano a Villa Gardossi, un grosso comune agricolo nell’entroterra, e fu lì che fu sorpreso da quattro “guardie popolari”, nome dietro cui si nascondevano i feroci assassini titini, i quali lo derisero, poi picchiarono selvaggiamente,lo lapidarono, lo spogliarono e lo finirono a coltellate prima di gettarlo in una foiba, detta di Martines, che non lo ha mai più restituito. Il fratello, che lo cercò immediatamente avendo saputo che cosa fosse successo, venne incarcerato con l’accusa di raccontare storie. Molti anni dovettero passare prima che si facesse luce sulla vicenda. Vennero fuori i testimoni che raccontarono le atrocità di quelle ultime ore. Ma la cortina di silenzio era già scesa, di lui non si parlò più per anni. Nel 1957 il vescovo di Trieste, Santin, avviò la causa di beatificazione, ma la pratica restò ferma per 40 anni, a riprova del fatto che sulla foibe doveva calare il silenzio per sempre. Solo Benedetto XVI, recentemente, ha avuto il coraggio di dichiarare Bonifacio ucciso in odio alla Fede. A Bonifacio si è aggiunto, nel settembre del 2013, il nome di Miro Bulesic, assassinato dai partigiani rossi nell’agosto del 1947 nell’Istria settentrionale. Bulesic è stato beatificato nell’Arena di Pola nel corso di una commovente cerimonia, nel corso della quale si è appreso che nelle diocesi croate negli anni Quaranta furono trucidati ben 434 sacerdoti, tra secolari e regolari, più altri 24 morti per le torture e le sevizie in carcere. Quel 24 agosto 1947, nel corso delle cresime nella chiesa di Lanisce, esponenti comunisti irruppero nell’edificio di culto, distrussero tutto, misero a ferro e fuoco la chiesa stessa e bastonarono selvaggiamente don Miro, gettandolo contro il muro e alla fine sgozzandolo con un coltello. Il responsabile, individuato, fu poi assolto. Ma la mattanza dei religiosi era cominciata molto prima: nel settembre 1943 i partigiani jugoslavi di notte sequestrarono don Angelo Tarticchio, parroco di Villa di Rovino, e lo gettarono nelle carceri del castello di Montecuccoli a Pisino d’Istria. Dopo qualche giorno venne portato Lindaro insieme con altre 43 persone, legate insieme col filo spinato, e colpito da raffiche di mitra e gettato in una cava di bauxite. Quando don Angelo fu riesumato si vide che gli assassini gli avevano messo sulla testa una corona di spine fatta di filo spinato. Tra i sacerdoti uccisi e infoibati vanno ricordati anche don Alojzij Obit del Collio, che scomparve nel gennaio del 1944, don Lado Piscanc e don Ludvik Sluga di Circhina, assassinato insieme con altri 13 loro parrocchiano nel febbraio dello stesso anno, don Anton Pisk di Tolmino, scomparso e poi verosimilmente infoibati ad ottobre 1944, don Filip Tercelj di Aidussina, sequestrato dalla polizia segreta jugoslava nel gennaio 1946 e successivamente scomparso, don Izidor Zavadlav di Vertoiba, arrestato e fucilato il 15 settembre 1946, e molti altri rimasti ancora senza nome.
“Rosso Istria”, a rischio il film sulle foibe?, scrive Marco Minnucci su “Il Giornale”. Rosso Istria, il dramma del confine orientale del dopo guerra è il titolo del lungometraggio del regista Antonello Belluco, presentato a fine gennaio a palazzo Moroni, Padova. Il film sarà prodotto da Venice Film ed Eriador Film, sostenuti dalla Regione Veneto, con il suo fondo del cinema e dell’audiovisivo, con la collaborazione del Comune di Padova, della Treviso Film Commission e dell’ANVG (Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia). Il capoluogo veneto sarà il teatro delle riprese che punteranno l’obiettivo sul 1943 anno in cui, per le popolazioni civili Istriane, Fiumane, Giuliane e Dalmate, si consuma la tragedia per mano dei partigiani di Tito spinti da una furia anti-italiana. Che il lungometraggio metta in risalto la figura di Norma Cossetto, giovane studentessa istriana, barbaramente violentata e uccisa nel 1943 dai partigiani titini, è già scritto nel titolo, infatti era proprio Istria Rossa (il rosso è relativo alla terra ricca di bauxite dell’Istria) il titolo della tesi di laurea che Norma Cossetto stava preparando nell’estate del 1943 con il suo relatore, il geografo Arrigo Lorenzi. La Cossetto girava in bicicletta per i paesi dell’Istria, visitando luoghi, biblioteche, chiese, alla ricerca di archivi che le consentissero di sviluppare la sua tesi di laurea, che purtroppo non vedrà mai la luce perchè la studentessa verrà massacrata per la sola colpa di essere italiana. Non è un tema nuovo per Belluco, figlio di esuli, che già a novembre dello scorso anno era uscito con il film Il segreto di Italia, sulla strage compiuta dai partigiani nel 1945 a Codevigo; un film che non aveva mancato di suscitare aspre polemiche, che videro in prima fila l’ANPI di Padova. Chissà se anche in questa “opera seconda” Belluco inciamperà in quelle operazioni di boicottaggio che hanno rallentato e impedito la distribuzione del film nelle sale cinematografiche? Questa volta Belluco non sarà solo, poiché a dargli manforte ci sarà la collaborazione del cantautore Simone Cristicchi, anche lui presente alla conferenza padovana; l’autore di “Magazzino 18” sarà il compositore delle musiche che accompagneranno “Rosso Istria”. Quella tra Belluco e Cristicchi è una solidarietà artistica che, prima di sfociare in questa collaborazione, era già stata esternata dal cantautore romano sulla sua pagina Facebook con un post in cui sottolineava le similitudini tra l’ostruzionismo che aveva colpito il suo “Magazzino 18” e il “Segreto di Italia” e concludeva con questo messaggio d’ incoraggiamento: “Per fortuna, esiste una forma di promozione che nessuno può censurare. Si chiama “passaparola”. E allora…in bocca al lupo Antonello, e coraggio!” Non resta che augurarci che questa volta si faccia silenzio in sala ma, soprattutto, che ci sia una sala.
“Io, minacciato per il mio spettacolo sulle Foibe”, scrive in un a intervista a Simone Cristicchi “Il Giornale”.
In questi ultimi anni stai raccogliendo il testimone di Giorgio Gaber, porti in tournée in tutta Italia i tuoi spettacoli di teatro-canzone. In questi giorni sei in scena con “Magazzino 18″, uno spettacolo sulla tragedia delle Foibe che è al centro di polemiche secondo me vergognose. Che cos’è il Magazzino 18 e che cosa ti ha spinto a raccontare questa pagina tragica della storia d’Italia?
«Magazzino 18 è un luogo realmente esistente che si trova nel Porto Vecchio di Trieste, un hangar dove venivano messe le merci delle navi in transito; in questo magazzino n. 18 si trovano invece le masserizie degli esuli istriani, fiumani e dalmati, che all’indomani della Seconda Guerra Mondiale furono costretti ad abbandonare le loro terre. Sono oggetti di vita quotidiana – letti, armadi, cassapanche, foto, ritratti – che ci raccontano una tragedia cancellata per tanti anni dalla storia e dalla memoria, io la chiamo “una pagina strappata dai libri di storia”. Ogni oggetto racconta la storia di una famiglia, di un vissuto, di un tessuto sociale strappato e mai più ricomposto. Con questo spettacolo ho cercato di ricomporre la loro storia dimenticata e di raccontarla a chi, come me fino a pochi anni fa, non ne era assolutamente a conoscenza».
È una pagina nascosta per 50 anni dai libri di storia, una cosa vergognosa. Come ti spieghi questo dividere ancora i morti in ‘morti di serie A’ e ‘morti di serie B? È vero che hai ricevuto delle minacce perché metti in scena uno spettacolo sulle Foibe?
«Lo spettacolo in realtà non è soltanto sulle Foibe, che sono un piccolo capitolo di una storia più complicata. Le persone che mi hanno criticato sono di estrema destra e di estrema sinistra, nessuno si è sottratto alla lapidazione di chi cerca di fare giustizia, di dare voce a chi non l’ha avuta per tanti anni; tutte queste critiche sono arrivate da persone che non hanno nemmeno avuto il buon gusto di vedere lo spettacolo, quindi mi scivolano addosso».
Non capisco perché ti attacchino sia da destra che da sinistra…
«Da sinistra perché è uno spettacolo “da fascisti”, da destra perché probabilmente avrei dovuto essere più incisivo in alcuni particolari di questa storia, quando invece il mio spettacolo vuole tendere a una pacificazione tra le parti e forse invece alcuni esponenti dell’estrema destra non cercano il dialogo. Ancora oggi, a distanza di tanti anni, non accettano alcune cose e cercano sempre lo scontro. Non ho scritto questo spettacolo con Ian Bernas per creare ulteriori scontri e offese a questa gente».
La tua è sempre stata una musica di denuncia, ho sempre i brividi quando ascolto “Ti regalerò una rosa”. Tornando a un tema che hai affrontato anche in un tuo spettacolo, chi sono oggi i veri pazzi della nostra società?
«Probabilmente i veri pazzi sono i sognatori, quelli che credono che oggi si possa rifare una nuova Italia e cambiare un po’ il mondo, con una partecipazione attiva alla vita politica e sociale. I veri pazzi sono quelli che continuano a sognare e che non si lasciano soffocare da tutto quello che sta accadendo in questo momento».
Che cosa pensi della protesta dei Forconi, che proprio in queste ore stanno paralizzando molte piazze per protestare contro la linea del Governo?
«Non ho seguito bene la questione perché in questo momento sono in tournée in Croazia, posso dire che a volte sono delle valvole di sfogo difficili da gestire, ma che ci si deve aspettare… quando le persone sono soffocate a un certo punto esplodono in qualche modo. La mia paura è che questo tipo di manifestazioni possano portare a delle violenze, e quando c’è la violenza si passa sempre dalla parte del torto».
Tu sei sempre rimasto OFF, anche dopo il successo hai sempre imposto una tua linea artistica e autorale precisa fregandotene del mercato ufficiale, sei perfettamente in linea con il nostro magazine. Che consiglio ti senti di dare ai giovani artisti che cominciano questa carriera e che ci leggono su ilgiornaleOFF?
«Il consiglio che posso dare è quello di coltivare una curiosità per il mondo senza avere delle ideologie preconcette, di affidarsi all’istinto perché molto spesso ci guida verso mete a cui non avremmo mai pensato, come è successo a me: sono passato dal fumetto alla canzone, poi dalla canzone al teatro e alla scrittura, il 4 febbraio uscirà anche il libro di “Magazzino 18″, con tutti i racconti che ho raccolto in questi anni. Bisogna mantenere le antenne puntate e presentarsi al grande pubblico con una maturità quasi già acquisita, non arrivare da debuttanti e sentirsi però debuttanti sempre, per tutto il proprio percorso».
Vite negate, massacri, falsità. Anche la verità fu infoibata. Oggi la "Giornata del ricordo" per celebrare gli italiani cacciati e uccisi da Tito dopo la guerra. Una tragedia che nella gerarchia del dolore sta sempre dietro le vittime delle dittature fasciste, scrive Stefano Zecchi su “Il Giornale”. Cos'era accaduto sulle coste orientali italiane dell'Adriatico dopo la guerra? Niente di rilevante, avrebbero voluto rispondere chi governava l'Italia e chi da sinistra faceva l'opposizione. Soltanto un nuovo confine segnato con un tratto di penna sulla carta geografica dell'Europa. Vite negate. Amori, amicizie, speranze sconvolte, sentimenti calpestati, che per pudore, in silenzio, lontano da occhi inquisitori, l'esule arrivato dall'Istria, dalla Dalmazia, da Fiume chiudeva nel dolore, forse sperando che questo dignitoso comportamento lo aiutasse ad essere accolto da chi non ne gradiva la presenza. Si chiudeva così il cerchio dell'oblio, e una pesante coltre di omertà si distendeva sopra le sconvenienti ragioni degli sconfitti. La Storia non apre le porte agli ospiti che non ha invitato. Sceglie i protagonisti e i comprimari, anche se gli esclusi si sono dati tanto da fare. Esuli, allora, con la nostalgia del ritorno, con il dolore dell'assenza. L'esule dei Paesi comunisti non è mai stato troppo gradito; le sue scelte giudicate con sospetto. Nella gerarchia morale della sofferenza, egli rientra stentatamente, sì e no, agli ultimi posti, molto indietro rispetto agli esiliati delle dittature fasciste e dei sanguinari regimi latino-americani. In una intervista a Panorama del 21 luglio 1991, Milovan Gilas dichiarava tra l'altro: «Nel 1946, io e Edward Kardelij andammo in Istria a organizzare la propaganda anti italiana ... bisognava indurre gli italiani ad andare via con pressioni di ogni tipo. Così fu fatto». Gilas era il braccio destro di Tito, l'intellettuale del partito comunista jugoslavo; Kardelij era il teorico della «via jugoslava al comunismo», punto di riferimento dell'organizzazione della propaganda anti italiana. Dunque, due protagonisti di primissimo piano del partito comunista jugoslavo impegnati a cacciare con «pressioni di ogni tipo» gli italiani dalle loro case, dal loro lavoro, dalle loro terre. Tra le pressioni di ogni tipo ci furono il terrore e il massacro: una pulizia etnica. A migliaia gli italiani, senza nessun processo, senza nessuna accusa, se non quella di essere italiani, venivano prelevati di notte, fatti salire sui camion e infoibati o annegati. Non si saprà mai quanti furono ammazzati. A decine di migliaia: una stima approssimativa è stata fatta sulla base del peso dei cadaveri che venivano recuperati dalle foibe; nulla si sa degli annegati. E poi gli esuli: oltre 350mila, che lasciarono tutto, pur di rimanere italiani e vivi. Accolti in Italia con disprezzo, perché solo dei ladri, assassini, malfattori fascisti potevano decidere di abbandonare il paradiso comunista jugoslavo. Ricordo bene quando a Venezia arrivavano le motonavi con i profughi: appena scesi sulla riva, erano accolti con insulti, sputi, minacce dai nostri comunisti, radunati per l'accoglienza. Il treno che doveva trasportare gli esuli giù verso le Marche e le Puglie, dai ferrovieri comunisti non fu lasciato sostare alla stazione di Bologna per fare rifornimento d'acqua e di latte da dare ai bambini. Alla gente che abitava l'oriente Adriatico, fu negato dal nostro governo il plebiscito che avrebbe dimostrato come in quelle terre la stragrande maggioranza della popolazione fosse italiana. Prudente, De Gasperi pensava che l'esito del plebiscito avrebbe turbato gli equilibri internazionali e interni col PCI. A quel tempo, Togliatti aveva fatto affiggere questo manifesto a sua firma: «Lavoratori di Trieste, il vostro dovere è accogliere le truppe di Tito come liberatrici e collaborare con esse nel modo più stretto». Per esempio, sostenendo, come voleva il Migliore, che il confine italiano fosse sull'Isonzo, lasciando a Tito Trieste e la Venezia Giulia. I liberatori comunisti non potevano essere degli assassini: e così, sotto lo sguardo ipocrita dell'Italia repubblicana, con la vergognosa collaborazione degli storici comunisti, disposti a scrivere nei loro libri il falso, quella tragedia sparisce, non è mai accaduta. Ma il cammino trionfale della Storia dei vincitori si distrae e la verità incomincia ad affiorare. Non si dice con ottimismo che il tempo è galantuomo? Stavolta sembra di sì. Il 10 febbraio (giorno della firma a Parigi nel 1947 del trattato di pace) viene istituita nel marzo 2004 la «Giornata del ricordo», per celebrare la memoria dei trucidati nelle foibe e di coloro che patirono l'esilio dalle terre istriane, dalmate, giuliane. Ci sono voluti sessant'anni per incominciare a restituire un po' di verità alla Storia: adesso sarebbe un bel gesto che il nuovo Presidente della Repubblica onorasse questa verità ritrovata, recandosi al mausoleo sulla foiba di Basovizza per chiedere scusa alle migliaia di italiani dimenticati, offesi, umiliati, massacrati soltanto perché volevano rimanere italiani.
I partigiani ora ammettono la vergogna di esodo e foibe. Il coordinatore dell'Anpi veneto riconosce che molti perseguitati italiani non erano fascisti ma oppositori del nuovo regime comunista e illiberale, scrive Fausto Biloslavo su “Il Giornale”. Si scusa con gli esuli in fuga dall'Istria, da Fiume e dalla Dalmazia per l'accoglienza in patria con sputi e minacce dei comunisti italiani. Ammette gli errori della facile equazione profugo istriano uguale fascista e della simpatia per i partigiani jugoslavi che non fece vedere il vero volto dittatoriale di Tito. Riconosce all'esodo la dignità politica della ricerca di libertà. Maurizio Angelini, coordinatore dell'Associazione nazionale partigiani in Veneto, lo ha detto a chiare lettere venerdì a Padova, almeno per metà del suo intervento. Il resto riguarda le solite e note colpe del fascismo reo di aver provocato l'odio delle foibe. L'incontro pubblico è stato organizzato dall'Associazione Venezia Giulia e Dalmazia con l'Anpi, che solo da poco sta rompendo il ghiaccio nel mondo degli esuli. Molti, da una parte e dall'altra, bollano il dialogo come «vergognoso». Angelini ha esordito nella sala del comune di Padova, di fronte a un pubblico di esuli, ammettendo che da parte dei partigiani «vi è stata per lunghissimi anni una forte simpatia per il movimento partigiano jugoslavo». Tutto veniva giustificato dalla lotta antifascista, compresa «l'eliminazione violenta di alcune centinaia di persone in Istria - le cosiddette foibe istriane del settembre 1943; l'uccisione di parecchie migliaia di persone nella primavera del 1945 - alcune giustiziate sommariamente e precipitate nelle foibe, soprattutto nel Carso triestino, altre - la maggioranza - morte di stenti e/o di morte violenta in alcuni campi di concentramento jugoslavi soprattutto della Slovenia». Angelini ammette, parlando dei veri disegni di Tito, che «abbiamo colpevolmente ignorato la natura autoritaria e illiberale della società che si intendeva edificare; abbiamo colpevolmente accettato l'equazione anticomunismo = fascismo e ascritto solo alla categoria della resa dei conti contro il fascismo ogni forma di violenza perpetrata contro chiunque si opponeva all'annessione di Trieste, di Fiume e dell'Istria alla Jugoslavia». Parole forti, forse le prime così nette per un erede dei partigiani, poco propensi al mea culpa. «Noi antifascisti di sinistra - sottolinea Angelini - non abbiamo per anni riconosciuto che fra le motivazioni dell'esodo di massa delle popolazioni di lingua italiana nelle aree istriane e giuliane ci fosse anche il rifiuto fondato di un regime illiberale, autoritario, di controlli polizieschi sulle opinioni religiose e politiche spinti alle prevaricazioni e alle persecuzioni». Il rappresentante dei partigiani ammette gli errori e sostiene che va fatto di più: «Dobbiamo riconoscere dignità politica all'esodo per quella componente di ricerca di libertà che in esso è stata indubbiamente presente». Gli esuli hanno sempre denunciato, a lungo inascoltati, la vergognosa accoglienza in Italia da parte di comunisti e partigiani con sputi e minacce. Per il coordinatore veneto dell'Anpi «questi ricordi a noi di sinistra fanno male: ma gli episodi ci sono stati e, per quello che ci compete, dobbiamo chiedere scusa per quella viltà e per quella volgarità». Fra il pubblico c'è anche «una mula di Parenzo» di 102 anni, che non voleva mancare. Il titolo dell'incontro non lascia dubbi: «Ci chiamavano fascisti, ci chiamavano comunisti, siamo italiani e crediamo nella Costituzione». Italia Giacca, presidente locale dell'Anvgd, l'ha fortemente voluto e aggiunge: «Ci guardavamo in cagnesco, poi abbiamo parlato e adesso ci stringiamo la mano». Adriana Ivanov, esule da Zara quando aveva un anno, sottolinea che gli opposti nazionalismi sono stati aizzati prima del fascismo, ai tempi dell'impero asburgico. Mario Grassi, vicepresidente dell'Anvgd, ricorda le foibe, ma nessuno osa parlare di pulizia etnica. Sergio Basilisco, esule da Pola iscritto all'Anpi, sembra colto dalla sindrome di Stoccolma quando si dilunga su una citazione di Boris Pahor, scrittore ultra nazionalista sloveno poco amato dagli esuli e sulle vessazioni vere o presunte subite dagli slavi. Con un comunicato inviato al Giornale, Renzo de' Vidovich, storico esponente degli esuli dalmati, esprime «perplessità di fronte alle prove di dialogo con l'Anpi» che farebbero parte di «un tentativo del Pd di Piero Fassino di inserire i partigiani nel Giorno del ricordo dell'esodo». L'ex generale, Luciano Mania, esule fiumano, è il primo fra il pubblico di Padova a intervenire. E ricorda come «solo due anni fa a un convegno dell'Anpi sono stato insultato per un quarto d'ora perché avevo osato proporre l'intitolazione di una piazza a Norma Cossetto», una martire delle foibe. In sala tutti sembrano apprezzare «il disgelo» con i partigiani, ma la strada da percorrere è ancora lunga e insidiosa.
«QUEL SILENZIO ASSORDANTE SULLE FOIBE». Il comunismo e il terrore, l'intervento del Nuovo Psi di Qualiano su “Interenapoli”. Qual è il vero motivo di sessanta anni di silenzio sulle foibe? Chi ci ha guadagnato da questo silenzio? Quante carriere, politiche, universitarie, sono state costruite da questi assordanti silenzi? L’accesso agli archivi di Mosca, un tempo segreti, ha consentito la stesura di un bilancio delle vittime del comunismo spaventoso, addirittura quattro volte superiore a quello delle vittime del nazismo: il più colossale caso di carneficina politica della storia. A tutt’oggi c’è ancora chi ritiene improponibile un accostamento dei due regimi rifacendosi alla differente ispirazione iniziale: mentre il nazismo fu una dottrina dell’odio e i suoi crimini,pertanto prevedibili e legati alla sua stessa essenza, il comunismo è spesso considerato una dottrina di liberazione, di amore per l’umanità e i suoi delitti considerati a mo’ di errori, incidenti, deviazioni. Tale argomentazione è a dir poco artificiosa in quanto prevedeva in entrambi i casi lo sradicamento di una parte della società. L’utopia di una società senza classi e l’illusione di una razza pura esigevano l’eliminazione di individui che si riteneva,ostacolassero la realizzazione del progetto. Per questo il richiamo all’umanità del comunismo è servito spesso a dare una legittimazione superiore all’uso del “terrore”. Il principio umanitario della politica consiste nel non considerare nessun uomo superiore moralmente ad un altro. Il nazismo è considerato il regime più criminale del secolo, mentre il comunismo in virtù dell’alleanza dello stalinismo con le principali democrazie mondiali ne ha ricavato spesso un credito morale che non ha mai cessato di sfruttare: l’antifascismo. In virtù di questo valore i crimini comunisti sono diventati un indiscutibile strumento di legittimazione. Contrapporre la democrazia al fascismo permise al sistema comunista di presentarsi come “democratico” in quanto antifascista. In tale contesto si inserisce la complicità del comunismo italiano che in Italia ha peccato di gravi menzogne e di una palese incapacità di attuare un vero processo revisionistico. La volontà di palesare una superiorità morale del “comunista” rispetto agli altri non comunisti ha portato all’atteggiamento del PDS durante il periodo di tangentopoli che ha comportato la eliminazione di una intera classe dirigente nazionale. Il cinismo comunista fu accompagnato, insieme alla liquidazione a all’infoibamento di una intera classe dirigente ad un trasformismo mal celato complice un uso parziale della Giustizia che certamente non esaminò con eguale severità i finanziamenti illeciti di ogni partito, compresi i finanziamenti moscoviti all’ex partito comunista. La ragione del fallimento del tentativo degli “ex” comunisti di usurpare il socialismo liberale e la politica di Craxi risiede proprio nella incapacità di ripensare alla propria storia, ripudiando gli errori commessi e scavando fino infondo la tragedia e i crimini del comunismo. E’per questo che la riabilitazione della figura di Bettino Craxi non può venire da Fassino e dal DS. L’Europa dei totalitarismi e dell’uomo moralmente superiore all’altro uomo, perché politicamente diversi deve restare dietro di noi ma non può essere né dimenticata, ne sottaciuta perché non dobbiamo e non possiamo dimenticare. Il ricordo di ciò che copre di vergogna l’essere umano può impedire di ripercorrere la stessa strada dell’odio. La nostra gioventù è figlia di quei mali e deve diventare testimone dei valori della democrazia e della tolleranza. La tendenza al regime trova sviluppo dove c’è ignoranza e laddove non vengono insegnati i valori di una vita libera. Mafia, camorra e terrorismo dovrebbero essere sperati da anni, mentre a Scampia e in tutta la provincia di Napoli si muore e si uccide tutti i giorni e la corruzione riesce a trovare ampi spazi anche nelle istituzioni Il pluralismo culturale è stato il protagonista dello sviluppo politico, sociale ed economico del nostro paese e dell’intera Europa. “Le vittime della violenza non hanno colore politico”, è ciò che spesso si ascolta da chi forse cerca un alibi dimenticando che proprio l’odio politico ha provocato quelle vittime.
Non lasciatevi ingannare dal titolo, Il revisionista, in uscita da Rizzoli (pagine 474), scrive Rino Messina su “Il Corriere della Sera”. Questo non è l'ennesimo libro di Giampaolo Pansa sulla guerra civile italiana. È l'autobiografia di un giornalista che, quando si svolgeva la mattanza raccontata nel Sangue dei vinti, aveva dieci anni. E che è cresciuto a Casale Monferrato, zona di Resistenza, in una famiglia operaia, assorbendo i racconti sulla guerra e l'amore per la cultura: «I miei sapevano che l'unica possibile emancipazione era studiare e non mi facevano mai mancare libri, penne, quaderni». In uno dei brani più commoventi il padre Ernesto confida a suo figlio, da poco entrato alla «Stampa» di Torino: «Ora che scrivi per i giornaloni anche i signori mi salutano». Come fa un libro che contiene queste storie private a non essere definito un'autobiografia? Eppure Giampaolo Pansa nella prefazione dice d'essersi limitato a tracciare il suo percorso di Revisionista. Successi, ma anche attacchi e insulti, a cominciare da quando nel 2002 pubblicò I figli dell'Aquila e soprattutto nel 2003 quando firmò Il sangue dei vinti, un saggio vicino al traguardo del milione di copie. «Il vero motivo per cui l'ho scritto - confida Pansa - è ringraziare le persone che mi hanno apprezzato perché avevo dato loro voce. L'Italia degli sconfitti che prima del Sangue dei vinti non avevano diritto di partecipare al discorso pubblico. A loro ho voluto raccontare il mio percorso di giornalista che ha avuto la fortuna di incontrare tanti maestri. Tra i giornalisti che non appartengono alla sua cerchia, io credo di essere quello che meglio capisce Silvio Berlusconi. E sa perché? Perché sono nato nel 1935, un anno prima di lui, e capisco le paure e le angosce di un settantenne, ma ne condivido anche l'entusiasmo e il percorso generazionale». Il revisionista non è un libro provocatorio, a tesi, né il racconto di una sola parte italiana. È la storia di un percorso e degli incontri che hanno segnato un uomo. La Gianna, la prima fidanzatina di Giampaolo, la prima con cui abbia fatto l'amore. Ricevendone una lezione straordinaria. Gianna era una di quelle ragazze che erano state rapate a zero dopo il 25 aprile: suo padre era un fascista ucciso per vendetta e a lei era toccata quell'umiliazione. Poi Luigi Firpo, il geniale professore alla facoltà di Scienze politiche, Alessandro Galante Garrone e Guido Quazza, i due storici che seguirono la tesi di laurea di Pansa, Guerra partigiana tra Genova e il Po, un malloppo di circa mille pagine che conteneva documenti e testimonianze di prima mano e che sarebbe uscito nel 1967 da Laterza. Guido Quazza usava tenere una scheda sui suoi laureandi. Sulla tesi di Pansa scrisse: «Importante lavoro per la vastità della ricerca... È sempre presente il principio dell'audiatur et altera pars». Siamo nel 1959 e questo è un riconoscimento straordinario: ascoltare sempre l'altra voce. La lezione di Gianna era un seme che cresceva. Quella tesi avrebbe vinto uno dei due premi Luigi Einaudi: sarebbe stato il salvacondotto per entrare subito nel mondo del giornalismo, alla «Stampa» diretta da Giulio De Benedetti. Da «ciuffettino», così era soprannominato il rigoroso direttore del quotidiano torinese, a «barbapapà» Eugenio Scalfari, Il revisionista di Pansa è anche una galleria di direttori e colleghi, ritratti impietosi e affettuosi, in cui la critica non fa mai velo alla gratitudine. Leggete per esempio questo omaggio a Giorgio Bocca, diventato in questi anni l'arcinemico di Pansa in difesa di una Resistenza che ha sentito tradita dal suo più giovane collega: «Giorgio era il primo dei miei maestri indiretti. I giornalisti che leggevo con la matita in mano per prendere appunti e imparare come si doveva scrivere un buon articolo. Avevo recensito con entusiasmo un libro che raccoglieva i suoi reportage italiani. Lui mi aveva ringraziato con un biglietto e io ero andato di corsa a Milano per conoscerlo». Nel 1964, auspice Bocca, era arrivata la chiamata al «Giorno» diretto da Italo Pietra, partigiano e uomo di fiducia di Enrico Mattei. Nella stanza delle riunioni ogni mattina il direttore entrava rivolgendo, tra l'ironico e il minaccioso, questa domanda ai colleghi: chi di voi ha bruciato la mia casa sul monte Penice nel rastrellamento dell'agosto 1944? Perché il gruppo dirigente del «Giorno» era formato per metà da giornalisti che avevano fatto la Resistenza e per metà da saloini che avevano combattuto dall'altra parte, chi nella X Mas, chi nelle Brigate Nere, chi nella Guardia repubblicana. Anche in questo episodio è evidente che «il revisionismo» è il filo conduttore del racconto, ma il genere letterario è quello dell'autobiografia, sull'esempio fortunato del Provinciale di Giorgio Bocca. Trovi lo stesso stupore, la stessa potenza narrativa, tratti simili di sensualità, entusiasmo, stupore della scoperta. A volte di delusione e di stizza. Sentimenti evidenti nel capitolo «Il libertino» dedicato a Eugenio Scalfari, di cui riconosce la tenacia geniale del fondatore di imprese, ma al quale non risparmia pagine amare e impietose. «Via via - scrive Pansa - diventò la statua di se stesso. Con la barba di un biancore marmoreo... Quando morì Rocca (che con Pansa era stato vicedirettore della "Repubblica") nella cerimonia al cimitero del Verano, andai a stringere la mano a Eugenio. Ma lui se ne restò seduto e sembrò non riconoscermi». Pansa ne rimase stupito e addolorato: attribuisce questo atteggiamento all'uscita dei suoi lavori revisionisti, non apprezzati dal fondatore di «Repubblica». Nel libro c'è anche spazio per ritratti di politici, da Giorgio Almirante a Enrico Berlinguer, e soprattutto un invito al revisionismo, a raccontare le verità scomode, anche sugli anni di piombo, la stagione sanguinosa degli anni Settanta che continua a esalare veleni, come dimostrano le scritte contro Luigi Calabresi comparse in questi giorni a Torino. Giampaolo Pansa, che oggi collabora al «Riformista» ma soprattutto scrive libri, a 73 anni è felice della sua vita e continua a dirsi fortunato. Tuttavia ha qualche rimorso: «Non aver fatto abbastanza per difendere Calabresi come avrei dovuto». E qualche delusione: «Non aver mai ricevuto l'invito da una scuola di giornalismo, dove insegnano perfetti sconosciuti. Ma forse le scuole sono in mano alla sinistra e non invitano uno come me bollato a destra. Ma io avrei qualcosa da dire ai giovani: per esempio che il mestiere di giornalista non si impara, ma si ruba, e che il talento serve a ben poco senza l'umiltà e lo spirito di sacrificio».
Giampaolo Pansa, il revisionista impenitente, scrive Gabriele Testi su “Storia in Rete”. Il revisionista che non si pente. Anzi. L’autore che più di ogni altro ha attaccato in Italia miti storiografici del Novecento e l’Accademia, sta per tornare con un libro destinato a rinverdire le polemiche scatenate da «Il Sangue dei Vinti». Le tesi di Pansa? «Il PCI di Togliatti voleva l’Italia satellite dell’Urss»; «la politica di oggi non è interessata a fare i conti con la Storia»; «I miei critici? Scappano…»; «Le celebrazioni? Non mi piacciono mai»; «Il miglior leader italiano? De Gasperi»; «Gli italiani? Non hanno futuro se continuano così…». Forse perché non vogliono avere un passato? C’è sempre una prima volta, anche per Giampaolo Pansa. Quella del giornalista piemontese al Festival Internazionale della Storia di Gorizia, dunque allo stesso tempo su un terreno e in un territorio particolarmente delicato per ogni forma di rivisitazione e di analisi storiografica, non è passata inosservata. Anzi. La dialettica con un pubblico tanto attento quanto sensibile alle vicende degli italiani vissuti (e morti) oltre il Muro, in particolare comunisti di fede stalinista fuggiti in Jugoslavia e diventati «nemici del popolo», e lo scontro verbale con il moderatore Marco Cimmino non saranno dimenticati facilmente dalle parti di Gorizia. L’occasione si è comunque rivelata perfetta per una chiacchierata con un autore che, in polemica con gli accademici italiani e i «gendarmi della memoria» non arretra di un metro sul piano del confronto scientifico su quei temi, il tutto alla vigilia del compleanno che il primo ottobre gli farà oltrepassare la soglia dei tre quarti di secolo e della pubblicazione di un ultimo lavoro che lo riporterà in autunno nei panni a lui del revisionista. È lui stesso a raccontarlo a «Storia in Rete» in un’intervista esclusiva in cui si mescolano Resistenza e Risorgimento, eredità del PCI, meriti e demeriti democristiani, una visione organica della nostra società e le differenze esistenti fra i giovani di oggi e quelli le cui scelte avvennero con la Guerra.
Considerato il soggetto dei suoi ultimi due libri, considera ormai chiusa la parentesi dedicata alla Guerra Civile italiana?
«No, tant’è vero che in novembre uscirà con la Rizzoli un mio nuovo libro sulla Guerra Civile. Il titolo è: “I vinti non dimenticano”. Non è soltanto il seguito del “Sangue dei vinti” e dei miei libri revisionisti successivi. Insieme a vicende che coprono territori assenti nelle mie ricerche precedenti, come la Toscana e la Venezia Giulia, c’è una riflessione più generale, e contro corrente, sul carattere della Resistenza italiana. Dominata dalla presenza di un unico partito organizzato, il PCI di Palmiro Togliatti, Luigi Longo e Pietro Secchia. Che aveva un traguardo preciso: conquistare il potere e fare dell’Italia un Paese satellite dell’URSS».
È rimasto fuori qualcosa – un’osservazione, una storia, un nome – che le piacerebbe aggiungere o correggere?
«Non ho niente da correggere per i miei lavori precedenti. E voglio dirvi che, a fronte di sette libri ricchi di date, di nomi, di vicende spesso ricostruite per la prima volta, non ho mai ricevuto una lettera di rettifica, dico una! E non sono mai stato citato in tribunale, con qualche causa penale o civile. Persino i miei detrattori più accaniti, tutti di sinistra, non sono mai riusciti a prendermi in castagna. Mi hanno lapidato con le parole per aver osato scrivere quello che loro non scrivevano. Però non sono stati in grado di fare altro».
E a proposito di «aggiungere»?
«Come voi sapete meglio di me, nella ricerca storica esistono sempre campi da esplorare e vicende da rievocare. In Italia questa regola vale ancora di più a proposito della Guerra Civile fra il 1943 e il 1948. Parlo del ’48 perché considero l’anno della vittoria democristiana nelle elezioni del 18 aprile la conclusione vera della nostra guerra interna. I campi da esplorare sono molti, anche perché della guerra tra fascisti della RSI e antifascisti non vuole più occuparsene nessuno. I cosiddetti “intellettuali di sinistra” hanno smesso di scriverne perché si sono resi conto che il loro modo di raccontare quella guerra non regge più, alla prova dei fatti e dei documenti. Nello stesso tempo, le tante sinistre italiane non hanno il coraggio di ammettere quella che ho chiamato nel titolo di un mio libro “La grande bugia”. Se lo facessero, perderebbe molti elettori, ossia quella parte di opinione pubblica educata a una vulgata propagandistica della Resistenza. Sul versante di destra constato la stessa reticenza. Un tempo esisteva il MSI, in grado di dar voce agli sconfitti. Oggi i reduci di quell’esperienza, parlo soprattutto del gruppo nato attorno a Gianfranco Fini, si guardano bene dal rievocare il tempo della Repubblica Sociale Italiana. Infine, il Popolo della Libertà ha ben altre gatte da pelare. E a Silvio Berlusconi della Guerra Civile non importa nulla. Di fatto, sono rimasto quasi solo sulla piazza. Questo mi rallegra come autore, però mi deprime come cittadino. Sono ancora uno di quelli che non dimenticano una verità vecchia quanto il mondo: il passato ha sempre qualcosa da insegnare al presente e anche al futuro».
Che cosa risponde a chi nega valore ai suoi libri perché «poco scientifici»? È davvero soltanto una questione di note a margine?
«Mi metto a ridere! Rido e me ne infischio, perché la considero un’accusa grottesca. Questa è l’ultima trincea dei pochi “giapponesi” che si ostinano a difendere una storiografia che fa acqua da tutte le parti. A proposito delle note a piè di pagina, ricordo che tutte le mie fonti sono sempre indicate all’interno del testo, per rispetto verso il lettore e per non disturbarlo nella lettura del racconto. Per quanto riguarda i cattedratici di storia contemporanea, il mio giudizio su di loro è quasi sempre negativo. Ci sono troppi docenti inzuppati, come biscotti secchi e cattivi da mangiare, nell’ideologia comunista. Il Comunismo è morto in gran parte del mondo, ma non all’interno delle nostre università. L’accademia che ho conosciuto nella seconda metà degli anni Cinquanta era molto diversa…».
Com’è un libro di storia «scientifico»? Perché non si toglie lo sfizio e glielo fa? Oppure bisogna necessariamente scriverlo da una cattedra universitaria?
«Se per libro scientifico si intende una ricerca storica fondata su fonti controllate e che racconta fatti veri o comunque il più possibile vicini alla verità, questo è ciò che ho sempre fatto. Anche il libro che uscirà a novembre, se vogliamo usare una parola pomposa che non mi appartiene, è a suo modo un’opera scientifica. Lo è perché l’ho pensato a lungo, ci ho lavorato molto e sono pronto ad affrontare ogni contraddittorio. Ormai la storiografia accademica “rossa” non vuole fare contraddittori con i cani sciolti come me perché ha paura di essere messa sotto. Si nascondono, fanno come le lumache. Mia nonna diceva: “lumaca, lumachina, torna nella tua casina”. Non si fa così: si tengano le loro cattedre sempre più inutili, cerchino di insegnare qualcosa a studenti altrettanto svogliati. Dopodiché quello che posso fare per loro è pagare le mie tasse fino all’ultima lira, come ho sempre fatto. In fondo, io sono tra i finanziatori della ricerca storica universitaria».
A proposito di revisionismo: come giudica quello sul Risorgimento (quello neo-borbonico, ma anche la nostalgia cripto-leghista che ha in mente il Regno Lombardo-Veneto austriaco)?
«Quando ero studente diedi anche un esame di storia del Risorgimento. Non mi ricordo più con chi. Mi appassionava, però confesso di non avere un interesse per quel periodo storico. Mi rendo conto, com’è accaduto per tutte le fasi cruciali, che bisognerebbe andare a vedere anche lì se la storia ci viene raccontata nel modo giusto. Io non santifico nessuno, non mi piace. Non l’ho mai fatto nel mio lavoro di giornalista politico, per cui mi è difficile trovare qualcuno che mi entusiasmi anche tra i leader partitici. E credo che anche sul Risorgimento ci sia molto da rivedere o revisionare. Ma se un partito come la Lega Nord si mette di mezzo e pretende di riscrivere la storia, io me ne ritraggo inorridito…».
Ci fu anche allora, indubbiamente, una guerra civile che prese il nome di «brigantaggio». Ha mai pensato di occuparsene?
«Sul brigantaggio ho letto parecchio, recentemente anche un romanzo bellissimo che racconta di un episodio in Calabria o Campania, adesso non ricordo, della lotta contro i piemontesi. Ritengo che questo fenomeno fosse una forma di resistenza delle classi dirigenti del Mezzogiorno nei confronti dei Savoia per quella che era un’occupazione militare. Lo Stato unitario è certamente nato sul sangue di entrambe le parti, perché non è che i piemontesi siano andati con la mano leggera al sud, e lo dico parlando da piemontese. Del resto, le guerre sono sempre state fatte in queste modo: le vincono non soltanto coloro che hanno la strategia più intelligente, ma anche chi non usa il guanto di velluto. Basti vedere come sono stati i bombardamenti alleati in Italia durante la Seconda guerra mondiale, un altro argomento che gli storici dell’antifascismo e della Resistenza non hanno granché affrontato e che io credo di avere chiarito bene nel prossimo libro, per di più alla mia maniera. Ormai ho imparato che i conflitti bellici sono mattatoi pazzeschi. Ricordo che da bambino vidi passare sulla mia testa, a Casale Monferrato, le “fortezze volanti” americane che andavano a bombardare la Germania. In un primo tempo a scaricare esplosivo sui tedeschi erano gli aerei inglesi del cosiddetto Bomber Command, guidati da questo Harris [sir Arthur Travers Harris, maresciallo dell’aria della RAF, 1892-1984, soprannominato “Bomber Harris” NdR] che anche dai suoi era stato battezzato “Il macellaio” [per la leggerezza con cui mandava a morire i suoi equipaggi NdR]. Anch’io avrei potuto essere un bambino bombardato in Italia, ma grazie a Dio non abitavo vicino ai due ponti sul Po che attraversavano la mia città. Queste sono le guerre. È chiaro che se poi, una volta che sono finite, ci si mettono di mezzo i faziosi che pretendono di raccontarle alla loro maniera, secondo gli interessi di una parte politica, allora non ci si capisce più nulla…».
Come si esce dalle divisioni del passato? Ancora oggi l’ANPI, l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, tessera dei giovani: queste cose hanno senso per lei?
«No, e io sono stato uno dei primi a raccontarlo in qualche mio articolo e anche in un libro. Una sera mi trovavo a Modena, dove mi ero recato a presentare uno dei miei lavori revisionisti, e mi accorsi che sui quotidiani locali c’erano delle pagine pubblicitarie a colori, dunque costose, e delle locandine in cui si invitavano i ragazzi a iscriversi all’ANPI. Tutto questo non ha senso o, meglio, lo ha se si pensa che l’Associazione è oggi un partito politico, minuscolo e molto estremista. Secondo me tutto ciò non ha senso, però se vogliamo capire il fenomeno bisogna dire che l’ANPI è uno strumento nelle mani della Sinistra radicale o, diciamolo meglio, affinché non si offendano, una sua componente: è chiaro che se dovesse fare affidamento soltanto sugli ex partigiani, anche su quelli delle classi più giovani del ’25, ’26 e ’27, oggi i soci sarebbero tutti ultraottantenni. Hanno bisogno di forze fresche e hanno trasformato un’organizzazione di reduci, assolutamente legittima, in un club quasi di partito. Siamo in una situazione di sfacelo delle due grandi famiglie politiche, prima è toccato al centrosinistra e ora sta accadendo per una specie di nemesi al centrodestra, e possiamo immaginarci quanto poco conti l’ANPI in questo scenario. Quando l’Italia diventerà ingovernabile e nessuno sarà in grado di gestirla, ci renderemo conto di come certi leader politici non possano fare nulla».
Come spessore dei personaggi, chi vince tra la Prima e la Seconda Repubblica? E, fra i grandi statisti del passato, chi ci servirebbe oggi?
«È una bella domanda, che però richiede una risposta complicata. Come ho scritto nella prefazione de “I cari estinti”, tanto per citare un mio libro che sta avendo un grande successo, sono un nostalgico della Prima Repubblica. Non ricordo chi lo abbia detto, se Woody Allen o Enzo Biagi, personaggi agli antipodi fra di loro, ma “il passato ha sempre il culo più rosa”. Io sono fatalmente portato a ritenere che i capi partito della Prima Repubblica avessero uno spessore più profondo, diverso, migliore di quelli di oggi, anche se in quel periodo furono commessi degli errori pazzeschi. Prima che quella classe politica si inabissasse per sempre e la baracca finisse nel rogo di Tangentopoli – non tutta naturalmente, perché il PCI fu graziato dalla magistratura inquirente – negli ultimi quattro-cinque anni si accumulò un debito pubblico folle, che è la palla al piede che ci impedisce di correre e, soprattutto, diventa una lama d’acciaio affilata che incombe sulle nostre teste. Non ho mai votato la DC, anche perché sono sempre stato un ragazzo di sinistra, ma ho una certa nostalgia della “Balena Bianca”. Il grande merito della Democrazia Cristiana fu di vincere le elezioni del 18 aprile, perché se nel 1948 avesse prevalso il Fronte Popolare, non so che sorte avrebbe potuto avere questo Paese. Secondo me ci sarebbe stata un’altra guerra civile, se non altro per il possesso del nord Italia, anche se poi la storia non si fa con i “se”. Per fortuna, lì si impose Alcide De Gasperi in prima persona. Ero molto giovane, ma quello è un leader al quale ho visto fare grandi cose nei rapporti con gli elettori. Ma pure i leader dell’opposizione a vederli da vicino erano cosa altra da adesso. Anche di Enrico Berlinguer, che era una specie di “santo in terra”, mi resi subito conto di che pasta fosse da un punto di vista politico, più che umano. Quando lo intervistai per il “Corriere della Sera”, alla vigilia delle elezioni politiche del 1976, mi disse che si sentiva molto più al sicuro sotto l’ombrello della NATO che non “protetto” dal Patto di Varsavia. Queste risposte eterodosse sull’Alleanza Atlantica e il PCI non le pubblicò “l’Unità”, censurando di fatto il segretario del Partito, perché avevano suscitato i malumori dell’ambasciata dell’URSS a Roma. Però gli stessi concetti mi furono ribaditi dal leader comunista, senza battere ciglio, anche in televisione durante una tribuna elettorale. Evidentemente, tutto ciò non doveva finire su ”L’Unità”, che era letta come il Vangelo dai militanti comunisti, mentre in tivù si poteva dire qualsiasi cosa».
Secondo lei chi è stato il più grande? E perché?
«Io direi che oggi ci servirebbe un uomo molto pratico ed energico come Amintore Fanfani, che ha curato i nostri interessi sotto molti aspetti, oppure un temporizzatore tranquillizzante come Mariano Rumor. Con tutto il rispetto per la sua figura e la fine che ha fatto, non so invece se ci occorrerebbe un Aldo Moro. A sinistra ci vorrebbe un tipo come Craxi, diciamoci la verità: Bettino aveva un grande orgoglio di partito, ma non pendenze storiche che sarebbero state sconvenienti da mostrare come accadeva a molti leader del PCI. In conclusione, ci servirebbe un leader democratico e liberale in grado di imporsi con autorità e autorevolezza per mettere fine a questa guerra civile di parole di cui in Italia non ci rendiamo troppo conto e che diventa sempre più violenta. Il più grande di tutti resta comunque De Gasperi, un uomo affascinante, brillante e capace: se non sbaglio fece sette governi, si ritirò a metà dell’ottavo per il venir meno della fiducia e fu per undici mesi segretario della DC prima di morire nel 1954. È stato il politico che ha concesso a me e a voi, in un giorno d’estate del 2010, di procedere in quest’intervista senza paura di dire come la pensiamo».
Come giudica, anche da piemontese, il modo con cui l’Italia si appresta a «festeggiare» i primi centocinquant’anni di vita nel 2011 e le dimenticanze su Cavour in questo 2010?
«Vi dirò una cosa: io sono contrario alle celebrazioni, anche le più oneste. Non servono a nulla, se non a far girare un po’ di consulenze, a far lavorare qualche storico, vero o presunto che sia, gli architetti, qualche grafico e chi si occupa di opere pubbliche per tirar su mostre, ripristinare un museo e via dicendo. Non me ne importa nulla e non sono affatto d’accordo. Chi vuole approfondire la storia del Risorgimento, trova già tutto: basta che vada in una buona libreria e si faccia consigliare da qualche bravo insegnante, magari di liceo, che spesso è anche più competente di tanti docenti universitari…».
Che popolo sono gli italiani? È giusto dire che dimenticano tante cose belle e si accapigliano a distanza di secoli sempre sulle stesse cose?
«Io ho un’idea abbastanza precisa di come siamo: un popolo in declino, che non è all’altezza delle nazioni con le quali dovremmo confrontarci. L’Italia è un Paese di “serie B”, che presto scenderà in “serie C”, con una squadra di calcio che non combina più nulla da un sacco di anni. La gente è sfiduciata e non vuole più saperne della politica, anche per come è la politica oggi. I giovani sono in preda ai “fancazzismi” più esasperati e affollano le università per lauree assurde, vere e proprie anticamere della disoccupazione. A un sacco di ragazzi se chiedi che cosa vogliono fare da grandi, non sanno risponderti, perché non vogliono nulla. Questo è un Paese per vecchi che diventano sempre più vecchi e io mi metto in cima alla lista, perché a ottobre di anni ne avrò settantacinque. Quand’ero giovane l’Italia era un contesto più generoso e che osava, baciato da miracoli economici successivi, in cui il figlio di un operaio del telegrafo e di una piccola modista, allevato da una nonna analfabeta come Giampaolo Pansa, poteva andare all’università, laurearsi e fare il giornalista, che era la cosa che avrebbe sempre voluto fare. Adesso l’Italia è un deserto di speranze, ma anche i giovani non si accontentano mai. Oggi se ho bisogno di un idraulico, di un falegname o di un elettricista, o trovo dei signori ultracinquantenni, o mi affido a giovani molto bravi che quasi sempre sono extracomunitari. Vallo a spiegare ai ragazzi italiani che gli studi universitari non garantiscono più nulla…».
Da quanto detto non si può che arrivare al negazionismo sulle foibe.
Al Magazzino 18 sembrava di stare ad Auschwitz. Parla il coautore dello spettacolo teatrale. Bernas: "Revisionismo? Questo tema era stato occultato dalla storia ufficiale", scrive Gabriele Antonucci su “Il Tempo”. «La storia non deve essere di nessuno, ma la verità deve essere di tutti». Così il giornalista e scrittore Jan Bernas, esperto di geopolitica e di storia, ha spiegato l’urgenza artistica della genesi di «Magazzino 18», spettacolo scritto insieme a Simone Cristicchi. Un’idea accarezzata per vent’anni dal regista Antonio Calenda, che ha trovato finalmente compimento grazie ai fortunati incontri con Cristicchi e con Bernas, contattato dal cantante dopo aver letto il suo libro «Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani». Lo spettacolo, dopo il trionfale debutto a Trieste, ha ricevuto grandi consensi in tutta Italia per l’equilibrio del testo, la sensibilità di Cristicchi e la regia emozionante di Calenda. «Magazzino 18» diventerà un libro, che uscirà a febbraio per Mondadori, corredato dalle foto realizzate dall'autore all’interno del silos dove sono ancora accatastati i beni lasciati dagli esuli italiani in fuga. Per Bernas entrare al Magazzino 18 «è stata un’esperienza incredibile, mi ha ricordato l’atmosfera del campo di concentramento di Auschwitz. Prima di tutto è necessario un permesso speciale per entrare. Una volta dentro, sono rimasto colpito da un salone enorme, pieno di sedie accatastate una sopra l’altra. Dietro ognuna è riportato il nome e il cognome del proprietario. Una stanza è piena di giocattoli, un’altra di libri, registri e perfino di lettere d’amore. Fa venire i brividi». Quanto alle polemiche sullo spettacolo, l’autore se le aspettava, «ma non così forti, violente e preconcette. Le critiche più odiose sono quelle che sono arrivate prima che lo spettacolo andasse in scena o, dopo il debutto, da chi non l’aveva neanche visto. In "Magazzino 18" non diamo colpe, è semplicemente un atto di educazione alla memoria». Per Jan la parola foiba non è soltanto un tabù, ma «una semplificazione simbolica di una vicenda molto più complessa e articolata. Le foibe, in realtà, sono la punta dell’iceberg, visto che in quel periodo tanti italiani sono morti di crepacuore, chi a seguito dell’internamento, chi morto dentro, rimanendo a Pola o a Fiume». Sono state numerose le difficoltà nello scrivere un testo che affrontava una materia così delicata. «»È stato più duro che scrivere un libro. Quando devi raccontare sopra un palcoscenico avvenimenti così poco conosciuti non puoi dare nulla per scontato, né dal punto di vista storico né da quello drammaturgico. Devi condensare una vicenda complessa in meno di due ore». Sulle accuse di revisionismo, lo scrittore mostra di avere idee chiare: «Se per revisionismo intendiamo che per la prima volta in Italia viene rappresentato a teatro un argomento così occultato, allora lo è. Se con quel termine indichiamo una mistificazione storica a favore di una sola parte, non lo è certamente. È stato difficile realizzare uno spettacolo equilibrato: sarebbe stato molto più facile scrivere un testo di parte». Bernas si è accostato all’esodo degli italiani dalla Jugoslavia fin da giovanissimo. «Quando ero al liceo già mi interessavo di storia. Un giorno chiesi alla mia insegnante: "Come mai sono partiti tutti quegli italiani dall'Istria?" "Perché erano tutti fascisti". Non mi sono accontentato di quella secca risposta e ho iniziato una ricerca di molti anni che mi ha condotto a visitare quei luoghi, a conoscere e a intervistare decine di esuli». Grandi emozioni gli ha riservato la prima dello spettacolo a Trieste, dove era stata allarmata perfino la Digos per il rischio di scontri tra opposte fazioni politiche: «Quella sera c’era una tensione molto forte, ma l’applauso di un quarto d’ora con il pubblico in piedi, gli anziani esuli in lacrime che ci hanno abbracciato, l’inno nazionale cantato alla fine da tutta la sala sono stati i migliori regali che io, Cristicchi e Calenda potessimo ricevere».
Ma quanto tempo deve ancora passare perché il dramma dell’esilio giuliano-dalmata e la tragedia delle foibe diventino memoria per tutti? Si chiede Federico Guiglia su “Il Tempo”. Memoria è quel luogo del nostro animo dove il ricordo dell’orribile pagina di storia, che si è scritta sul confine nord-orientale italiano soprattutto dal ’43 al ’47, può ancora ferire gli anziani testimoni, commuovere i giovani che non conoscevano, far riflettere un’intera nazione chiamata a custodire per sempre un capitolo di sé per troppi anni rimosso. Ed è incredibile che a Simone Cristicchi, artista di valore di una generazione del tutto estranea alla vicenda, venga oggi scagliato l’anatema di «propaganda anti-partigiana» per lo spettacolo profondo e delicato, esattamente com’è lui, dedicato all’esodo di trecentocinquantamila connazionali. Come ormai si sa o si dovrebbe sapere, essi furono costretti ad abbandonare la terra in cui erano nati o cresciuti per evitare, nel migliore dei casi, di perdere la loro identità italiana. Anzi, italianissima, tipica della gente di confine, lontana da Roma e perciò amante di un amore travolgente verso la nazione italiana. Nel peggiore dei casi, gli esuli fuggivano per evitare la fine orrenda dei ventimila infoibati, uccisi o torturati dai partigiani comunisti di Tito con la sola «colpa» d’essere italiani. Senza dimenticare l’esproprio dei loro beni, che spesso erano il frutto di sacrifici che si tramandavano di padre in figlio, perché in Istria, Fiume e Dalmazia si parlava italiano dalla notte dei tempi. Dunque, è stata un’epopea triste. È stata una fuga per la vita di chi, da quel giorno, da quell’ultimo imbarco verso la madre-patria, avrebbe perduto tutto, fuorché la dignità. La dignità di raccontare quel che era successo, ma senza piangersi addosso. La dignità di ricominciare daccapo in Italia o all’estero, perché una parte notevole degli esiliati è partita due volte: la prima dalla propria terra verso la propria patria. La seconda dalla patria verso il mondo. L’Australia, il Canada, l’America, sempre portandosi nel cuore quel dramma silenzioso e quasi inconfessabile, tanto tremendo era stato. Portandoselo, il lutto collettivo, con straordinaria civiltà. È un esodo che non ha prodotto alcun atto di violenza per reazione o per vendetta, a differenza di altri esodi sradicati ed espulsi in tante parti dell’universo. Di più. Questi nostri fratelli mai hanno mostrato né fatto valere rancore nei confronti di chi li aveva cacciati da casa loro. Chiedevano e chiedono solo «giustizia». Le loro lacrime mai hanno riempito gli studi televisivi, a cui per anni i sopravvissuti e le loro famiglie si sono sottratti con discrezione. Anche nel dolore essi hanno dato prova di un’italianità esemplare: gente che non protestava, che non dava la colpa agli altri dei propri e terribili guai subìti, che non s’inventava partiti per lucrare voti sulla sofferenza. Solamente e nient’altro che un grande, infinito rispetto, dunque, possiamo noi oggi restituire ai vivi e ai morti, chiedendo scusa d’essere arrivati così tardi a «comprendere» e a «condividere» la vicenda. È quel che ha fatto Simone Cristicchi con lo spettacolo «Magazzino 18», andando a spulciare, per poi narrare, le cose senza nome e senza numeri, ma da oggi con nuova anima, abbandonate dagli esiliati in quel disperato magazzino di Trieste. Cristicchi ha dato voce e senso a una storia che è rimasta muta per decenni. L’artista, che non ha ancora trentasette anni, ha potuto e saputo più degli storici paludati, perfino, che poco o niente hanno voluto ricordare di quell’esodo alla frontiera, voltando per anni la testa e la penna dall’altra parte. Il giovane Cristicchi ha potuto e saputo più dei politici navigati, mondo al quale non appartiene. E si vede, e si sente: libero artista in libero Stato. Un mondo, quello politico, che ha scoperto l’esilio e le foibe solo in tarda Repubblica quando, con legge del 2004, fu proclamato «giorno del ricordo» il 10 febbraio, anniversario del Trattato di Pace che staccò dall’Italia quei territori italiani. Da allora l’esilio e le foibe sono tornati nella nostra storia nazionale. E ogni volta la cerimonia al Quirinale rende omaggio alla memoria dei vinti e innocenti troppo a lungo dimenticati. Il tesoro della memoria. Perciò la polemica che si è scatenata contro Cristicchi e riportata dal «Tempo», con chi sollecita la cacciata dell’artista dall’Anpi reo non si capisce di che cosa, non è né giusta né sbagliata: è semplicemente incomprensibile. La verità non può far male, neanche settant’anni dopo. Neanche quand’è raccontata con forza e dolcezza per non dimenticare.
Che le foibe siano state un tabù per decenni, lo sanno tutti. Non una riga sui libri scolastici, nessun volume storico diffuso nel grande circuito editoriale, zero commemorazioni ufficiali. Achille Occhetto, l'ex leader comunista, in un'intervista al Tempo, ammette candidamente di aver scoperto gli eccidi con cinquant'anni di ritardo. È vittima della sua stessa disinformazione? Scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Quei massacri di migliaia di italiani a fine guerra sui confini orientali sono stati nascosti e negati talmente a lungo da apparire quasi una leggenda. Forse per questo Achille Occhetto, ex segretario del Pci, che con il suo partito ha contribuito a far credere che non esistessero, afferma candidamente in un’intervista: “Io stesso ho appreso del dramma delle foibe solo dopo la svolta della Bolognina. Prima non ne ero mai venuto a conoscenza”. D’altronde è stato l’ultimo leader dei comunisti italiani, maestri nella propaganda e nel distorcere la verità. E perciò può essere rimasto vittima della sua stessa disinformazione se ha scoperto un pezzo di storia solo nel 1989. Oppure continua a mentire come hanno fatto i suoi compagni per quasi mezzo secolo, raccontando che gli esuli dell’Istria, Fiume e Dalmazia non erano semplici italiani in fuga dalle stragi comuniste ma fascisti che scappavano per i loro misfatti. Un messaggio che aveva già fatto presa nel 1947. C’è un episodio indimenticabile. Il 16 febbraio, un piroscafo parte da Pola con migliaia di connazionali che, dopo essere sbarcati ad Ancona, sono stipati come bestie su un treno merci diretto a La Spezia. Quel treno, il 18 febbraio, arriva alla stazione di Bologna, dove è prevista una sosta per distribuire pasti caldi agli esuli. Ma ad attendere i disperati c’è una folla con bandiere rosse (toh, i compagni di Occhetto?) che prende a sassate il convoglio, mentre dai microfoni è diramato l’avviso “se i profughi si fermano, lo sciopero bloccherà la stazione”. Il treno è costretto a ripartire. Questo il clima. La propaganda comunista e la mistificazione della realtà, come sappiamo, hanno influenzato non poco la cultura italiana del secondo Novecento. Ma è stato impossibile seppellire la memoria: troppi profughi, troppi testimoni e quella destra che alimenta i ricordi. E poi c’è Trieste, che Occhetto conosce bene, città decorata con la medaglia d’oro al valore militare dal capo dello Stato, nella cui motivazione c’è scritto “…subiva con fierezza il martirio delle stragi e delle foibe, non rinunciando a manifestare attivamente il suo attaccamento alla Patria…”. Tutti sapevano delle foibe, anche se era scomodo e sconveniente parlarne. Per questo motivo facciamo fatica a credere che il prode Achille l’abbia saputo così tardi. Fosse stato per il Pci, probabilmente non se ne sarebbe mai parlato, ma per fortuna è stato sconfitto dalla storia. E al grande libro dei fatti è stata aggiunta quella pagina strappata.
Pianse Achille Occhetto il giorno in cui, con la “svolta della Bolognina”, seppellì il Partito comunista italiano dando vita al Pds, scrive Luca Rocca su “Il Tempo”. Può sembrare incredibile, ma è lo stesso Occhetto quello che oggi si commuove per lo spettacolo teatrale “Magazzino 18” con il quale Simone Cristicchi ha messo in scena le foibe e l’esodo istriano, giuliano e dalmata. Quei drammi che proprio la sinistra italiana, per molti decenni, non ha voluto vedere per non dover fare i conti con sé stessa e perché ottenebrata dall’ideologia, adesso inteneriscono colui che pose la prima pietra per la costruzione della sinistra postcomunista.
Occhetto, come giudica lo spettacolo di Cristicchi?
«Davvero molto bello. Trasmette un grande pathos per via di vicende drammatiche nelle quali i torti e le ragioni non stanno tutti da una parte. Si è lontani da una visione manichea. Anche se da un punto di vista della vicenda storica, infatti, nel grande capitolo del ’900, tra fascismo e antifascismo le colpe stanno dalla parte del primo, occorre dire, e nello spettacolo di Cristicchi ne ho trovato traccia, che lo stalinismo ha “macchiato” le idealità dello stesso antifascismo».
Dunque Cristicchi, nel raccontarci che gli esuli non erano fascisti ma italiani che fuggivano da una dittatura, ha usato un metro di giudizio oggettivo?
«Non c’è dubbio. Cristicchi ci dice che, al di là delle affermazioni ideologiche con le quali si combattono delle battaglie politiche, ci furono anche molti antifascisti che si ingannarono, perché non capirono fino a che punto si stava vivendo il dramma di un popolo e non uno scontro fra nostalgici del fascismo e non, come invece una certa propaganda cerca di far vedere».
C’è chi a Cristicchi vorrebbe togliere la tessera onoraria dell’Anpi.
«Un’iniziativa totalmente sbagliata. Il pezzo teatrale di Cristicchi inquadra tutta la vicenda nel torto storico fondamentale del fascismo. L’autore ci dice, fin dall’inizio, che se non ci fosse stato quel tipo di guerra e soprattutto quel tipo di odio nazionalistico che aveva suscitato le reazione dell’altra parte, probabilmente non si sarebbe arrivati a quel punto. Poi, naturalmente, mette in evidenza come anche la sinistra allora non capì fino in fondo quel dramma umano. Non fummo messi nelle condizioni di vedere che cosa realmente accadeva, di capire il reale dramma che si nascondeva oltre i pretesti ideologici».
“Magazzino 18” ha provocato uno “strappo” fra quanti sostengono che il negazionismo è da respingere sia a “destra” che a “sinistra”, e quanti continuano a ritenere che il male del fascismo non è uguale a quello, spesso definito “presunto”, compiuto ai danni degli esuli. Foibe comprese.
«Non si può negare la drammatica realtà delle foibe. Forse ci furono degli antifascisti jugoslavi onesti che rimasero impigliati in quelle vicende, si possono fare delle analisi articolate quanto si vuole, ma il dato di fatto è indubbio».
Per decenni questo capitolo della nostra storia è rimasto sconosciuto.
«Io stesso ho appreso del dramma delle foibe solo dopo la “svolta della Bolognina”. Prima non ne ero mai venuto a conoscenza».
Com’è stato possibile?
«Di fronte a una storia del ‘900 segnata dai gradi delitti e dalla conculcazione delle libertà da parte del nazifascismo, probabilmente si è cercato di non vedere, e di non ricercare, qualche cosa che poteva addolorarci. Il fatto che quella ricerca venisse poi svolta dalla parte fascista, ha provocato una reazione di tipo ideologico dall’altra parte. Il merito dello spettacolo di Cristicchi, ecco perché mi stupisco di certe posizioni, è che ha portato una vicenda drammatica e umana lontano dal furore degli opposti ideologismi, per ricollocarla nella sua drammatica realtà storica».
Lei ha pianto il giorno in cui, con la “svolta della Bolognina”, sancì la fine del Pci, ora si commuove assistendo alla messa in scena dell’esodo istriano. Se lo sarebbe mai immaginato?
«Ogni fatto umano, raccontato nella sua tensione reale, è destinato a commuovere. Non penso sia una commozione che fuoriesca da quell’orizzonte morale e ideale per cui mi sono commosso leggendo il Diario di Anna Frank o le Lettere dei condannati a morte della Resistenza. Ho ritrovato, sotto un segno diverso, lo stesso dramma pagato da innocenti».
La «guerra civile culturale» in Italia non è mai finita, scrive Luca Rocca su “Il Tempo”. Se intorno a un cantante che mette in scena la «verità storica» sull’esodo istriano, giuliano e dalmata che «condannò» migliaia di italiani alla fame, alla sete e alla morte, si produce ancora uno «squarcio storico», allora siamo ancora lontani da una «storia condivisa». Con «Magazzino 18» andato in scena a Trieste, Simone Cristicchi racconta la verità stabilita dai documenti storici. La verità di italiani, non di fascisti, in fuga dalle «speciali purghe» titine e in cerca dell’agognata libertà. Una verità che a quanto pare può essere raccontata solo dopo una preventiva revisione del «copione» da parte dei «depositari» della verità. E se da una parte la onlus Cnj ha annunciato di aver raccolto qualche centinaio di firme di aderenti all’Anpi per chiedere che a Cristicchi venga ritirata la tessera onoraria dell’associazione dei partigiani, dall’altra c’è chi, fra i rappresentanti dei partigiani, nello spettacolo storico-teatrale di Cristicchi vede una ventata di verità. È il caso di Elena Improta, vicepresidente Anpi Roma, a cui abbiamo chiesto un commento sulla vicenda.
La vicenda Cristicchi ha riaperto una ferita che in realtà non si era mai chiusa. Che posizione ha l’Anpi sulla polemica innescata da «Magazzino 18»?
«Le posizioni nell’associazione non sono univoche. Mi sono informata, ho letto tutto e poi ho parlato con persone che hanno visto lo spettacolo di Cristicchi. Si tratta di iscritti al Partito democratico, persone che hanno avuto parenti deportati ad Auschwitz. Gente, insomma, vicina alla Resistenza e alla lotta di Liberazione. Ebbene, tutti mi hanno riferito che in quello spettacolo non hanno trovato assolutamente nulla di sconvolgente e che si tratta di una polemica assolutamente ideologica. Cristicchi ha solo voluto evidenziare che vanno condannate tutte le forme di violenza che hanno segnato la nostra storia. Non ci possiamo più nascondere».
Qualcuno, come la onlus Cnj, vorrebbe addirittura togliere la tessera onoraria dell’Anpi al cantante per aver ricordato le foibe e il destino di quegli esuli.
«Quelle associazioni e quegli esponenti territoriali dell’Anpi che hanno sottoscritto l’appello contro Cristicchi per il ritiro della tessera perché nel suo spettacolo ha ricordato le foibe, mi sembrano fuori dal mondo. Non c’è nulla di sconvolgente in quelle dichiarazioni. Ricordare quello che furono le foibe non è uno scandalo e nulla toglie al valore della Resistenza e alla lotta partigiana. Se memoria dev’essere, si ricordi tutto. È arrivato il momento di riconoscere che chi scappava da Tito non era fascista, ma cercava la libertà come la cercavano i nostri partigiani. Mi chiedo se chi ha rilasciato certe dichiarazioni abbia realmente visto lo spettacolo di Cristicchi. Il "negazionismo" va condannato a 360 gradi, anche quello sulle foibe».
C’è chi nell’Anpi ha una posizione molto rigida e si accoda alla richiesta di Cnj.
«Le opinioni di chi persegue rigidamente i valori dell’Anpi sono univoche nel senso che ricordano solo la violenza fascista, riconoscono e condannano solo quella, non quella delle foibe. Sto parlando della parte "conservatrice" che fa riferimento o che è vicina ai Comunisti italiani e a Rifondazione comunista. Sbagliano e lo ripeto. Ricordare le foibe non vuol dire negare la Resistenza o la lotta partigiana».
Accanto a Elena Improta c’è Mario Bottazzi, ex combattente partigiano ora nel comitato provinciale dell’Anpi romana. Va oltre, Bottazzi, e si chiede perché non si debbano ammettere nell’Anpi anche persone legate alla destra più moderna e antifascista. Sul «caso Cristicchi» abbiamo sentito anche Carlo Smuraglia, presidente nazionale dell’Anpi che si chiede: «Chi, come e quando ha deciso di dare la tessera ad honorem a Cristicchi? In ogni caso l’Anpi toglie le tessere solo in casi eccezionali, solo in presenza di gravissimi fatti di indegnità». Sottolinea, il presidente dell’Anpi, che «si occuperà della cosa, lo farà la sezione locale, per verificare di che spettacolo parliamo e di questa tessera ad honorem. Sarà una verifica seria e non improvvisata». E poi prosegue: «In genere sono per rispettare le manifestazioni d’arte, prenderle per quelle che sono e poi discutere. Certe cose non si affrontano a picconate, vanno rispettate. Se poi uno fa uno spettacolo per negare l’esistenza delle camere a gas, allora ci si arrabbia. Se invece affronta qualcosa che è ancora oggetto di discussione, è diverso». Infine Smuraglia ammette che su quegli esuli italiani in fuga da una dittatura perché in cerca della libertà e non in quanto fascisti, «è arrivato il momento di discutere seriamente, di affrontare l’argomento nelle sedi opportune».
Cristicchi: "Canterò e reciterò le foibe. E già mi insultano". Il cantautore porta a teatro il dramma giuliano-dalmata: "A 50 anni di distanza è ancora un argomento scomodo", scrive Francesco Cramer su “Il Giornale”.
Perché questo tema?
«Per emozionare e illuminare delle storie rimaste al buio».
Di cui pure lei sapeva poco?
«Pochissimo. A scuola il dramma degli esuli istriani e dalmati non viene raccontato».
Eppure lei ha fatto studi umanistici.
«Liceo classico a Roma. Ma, come molti, da ragazzino davanti alla targa "Quartiere giuliano-dalmata" mi chiedevo chi fosse il signor Giuliano Dalmata».
Un capitolo di storia che dovuto studiare da solo?
«Sì. Ringrazio la mia curiosità e la mia sete di sapere».
Quando è nata l'idea dello spettacolo?
«Un anno fa, in una libreria di Bologna, mi ha colpito un libro di Jan Bernas: "Ci chiamavano fascisti, eravamo italiani". L'ho divorato».
Poi?
«Ho contattato l'autore su facebook: "Dobbiamo parlarci...". Siamo diventati amici e abbiamo cominciato ad approfondire la cosa».
Da lì è partita l'idea di raccontare a teatro le storie narrate nel libro?
«Sì. Poi ho chiesto di poter visitare il Magazzino 18 di Trieste, inaccessibile al pubblico. Lì ho varcato la porta della tragedia».
Il Magazzino 18: l'immenso deposito di cose mai ritirate dagli esuli istriani.
«Impressionante la tristezza di quel luogo. C'è di tutto: quaderni di scuola, posate, bicchieri, armadi e sedie; montagne di sedie».
Da qui il titolo dello spettacolo: Magazzino 18. Cosa vedremo a teatro?
«Le vicende umane di una pagina nera e dimenticata, attraverso il personaggio principale: un archivista del ministero degli Interni inviato al magazzino a mettere ordine».
E attraverso gli oggetti emergeranno le storie vere?
«Sì, in sei o sette brani con altrettante canzoni. Tutti episodi drammatici e commoventi».
Ci anticipi qualcosa.
«Ci sarà la storia della tragedia dei comunisti di Monfalcone, partiti per la Jugoslavia per costruire il "Sol dell'avvenire". Solo che dopo il loro arrivo Tito ruppe con Stalin e venne accusato di deviazionismo. Per i comunisti di Monfalcone non ci fu scampo: furono considerati nemici e molti finirono nel gulalg di Goli Otok-Isola calva».
Una faida tra compagni.
«Certo. Un sopravvissuto racconta: "Sono stato utilizzato come utile idiota della storia e ho contribuito a far andar via i miei connazionali. Solo dopo ho capito"».
Lei sa che raccontare queste vicende è politicamente scorretto?
«Lo so bene. Su twitter e facebook sono arrivati i primi insulti. Qualcuno mi ha pure dato del traditore».
Traditore? E perché?
«Perché il mio spettacolo "Li romani in Russia", dove racconto il dramma dei soldati italiani inviati dal Duce sul fronte sovietico, mi ha affibbiato la patente di uomo di sinistra».
Invece?
«Invece a me interessa raccontare cose accadute. La verità è che siamo un Paese ancora intossicato dall'ideologia; che tanti danni ha fatto nel passato. Tra cui strappare alcune pagine di storia del nostro popolo».
Che lei vuole riattaccare.
«Certo. La mia vuole essere un'opera di educazione alla memoria. Per non dimenticare. Mai».
Cristicchi: «Io e la mia compagnia siamo stati insultati». Il cantante parla dalla sua pagina Facebook e risponde a chi contesta il suo spettacolo «Magazzino 18», scrive Carlo Antini su “Il Tempo”. Simone Cristicchi prende la parola in prima persona. E lo fa dalla sua pagina Facebook. Il cantautore romano risponde a chi lo contesta. A chi contesta il suo spettacolo «Magazzino 18» (che dovrebbe andare in onda in seconda serata il 10 febbraio su Rai1) perché colpevole di essere antipartigiano. Cristicchi è un artista coraggioso e non si fa intimorire dalle minacce. Neppure da chi ha chiesto la sua espulsione dall’Associazione Nazionale Partigiani. «La tessera mi è stata donata dall’Anpi stessa nel 2010 come attestato di riconoscenza per lo spettacolo con il Coro dei Minatori di Santa Fiora - ha scritto Cristicchi sul suo Facebook - A quanto mi risulta, qualche mese fa la richiesta è già pervenuta all’Anpi, che ha risposto "No" al ritiro della tessera. Ora un’oceanica folla (un centinaio di firmatari) ci sta riprovando, con la benedizione del CNJ, che continua a violare leggi sulla privacy pubblicando mie corrispondenze private sul loro sito». Ma Cristicchi denuncia anche veri e propri episodi di violenza e intimidazione subìti negli ultimi mesi. «Senza pensare al fatto che io e la mia compagnia abbiamo subìto insulti e una sospetta ruota squarciata durante il tour in Istria - conferma il musicista - Bel modo di esporre le proprie idee! Complimentoni». Alla lunga prende il sopravvento la rabbia e la voglia di mettere in luce le contraddizioni del movimento. «Detto questo, se da una parte è deludente constatare cotanta presunzione, sono quasi contento che stiano uscendo allo scoperto questi atteggiamenti, le loro critiche campate in aria e la valanga di menzogne sul mio spettacolo. Così mostrano il loro vero volto, in fondo non così diverso dagli estremisti di destra che loro si vantano di "combattere". Si. Indossando le magliette "I love foiba". Da antifascista, sono schifato da tutto ciò. La tessera gliela rispedisco io! In posta prioritaria. Altrimenti, senza tante chiacchiere, si facciano loro uno spettacolo con la loro "sacrosanta" verità. In fondo, ma molto in fondo, siamo un paese democratico, no?»
Cristicchi racconta le foibe "Ora mi danno del fascista". Il cantautore porta in scena un musical sugli orrori dei comunisti titini e l'esodo degli italiani dalmati. "Sfido l'estrema sinistra: venite a vedermi", scrive di Simone Paliaga su “Libero Quotidiano”.
«"Chi è Giuliano Dalmata?" si chiede in una battuta del musical, confondendo due aggettivi per un nome e cognome, il funzionario inviato da Roma a catalogare il materiale dei profughi italiani provenienti dall’Istria e dalla Dalmazia. Probabilmente questi sono gli stessi pensieri che balzano alla mente quando a Roma ci si imbatte nel Villaggio giuliano dalmata», ci racconta Simone Cristicchi. In questi giorni che la parola negazionismo rimbalza ovunque il cantante si trova a Trieste per inaugurare il Salone del libro dell’Adriatico Orientale Bancarella (17-22 ottobre con oltre cento incontri) e per togliere il velo a una storia negata e dimenticata da anni. Si tratta di un altro negazionismo di cui pochi si ricordano: l’esodo di 300 mila italiani dalle terre italiane di Istria e Dalmazia alla fine della Seconda guerra mondiale a causa dell’occupazione jugoslava e con il beneplacito inglese. Per riportarlo al centro dell’attenzione al Politeama Rossetti di Trieste il 22 ottobre, con repliche fino al 27, verrà presentato in anteprima nazionale lo spettacolo di Simone Cristicchi e Jan Bernas Magazzino 18, per la regia di Antonio Calenda.
Cristicchi, prima che le venisse in mente di scrivere il musical sapeva di questo episodio storico?
«Vagamente. È un argomento che non si studia a scuola. L’ho conosciuto attraverso un libro che ho trovato a Bologna. Si tratta di “Ci chiamavano fascisti, eravamo italiani” (Mursia) di Jan Bernas che poi è diventato il coautore del musical. Tra quelle pagine ho trovato testimonianze di coloro che hanno vissuto l’esodo, il controesodo di molti monfalconesi poi andati in Jugoslavia e finiti a Goli Otok… Questi fatti nessuno li conosce».
Che cosa è il Magazzino 18?
«Mi trovavo a Trieste per fare delle ricerca sulla Seconda Guerra mondiale e ho sentito dell’esistenza di un deposito dove si trovano accatastate le masserizie degli esuli, il Magazzino 18. Dopo un po’ di traversie sono riuscito a visitarlo. E mi è sembrato di rivedere Ellis Island, l’isola dove gli emigrati italiani venivano tenuti in una sorta di quarantena prima di poter sbarcare negli Stati Uniti».
Perché ha pensato di ricavare uno spettacolo dalle vicende dell’esodo?
«Perché è una storia che merita di essere raccontata. Non è stato un lavoro di poco conto. Tra ricerche e scrittura mi ci è voluto un anno di fatiche. Prima ho cominciato a lavorare al testo e poi ne sono uscite anche le canzoni… Si tratta di un musical civile con una scenografia imponente, un coro, un’orchestra. Un lavoro che senza l’aiuto del teatro stabile non avrei potuto realizzare».
Cosa ha provato quando è entrato per la prima volta nel Magazzino 18?
«Avevo l’impressione di trovarmi in un luogo quasi sacro… era ricolmo degli oggetti degli italiani che erano stati costretti a lasciare le loro terre in Istria e Dalmazia. Mobili, poltrone, attaccapanni, tutto insieme. I numeri della tombola si trovavano a fianco di un cuscino. Su ogni sedia era appiccicato il nome del proprietario… era come se questi oggetti parlassero. Avevo l’impressione si essere immerso in una atmosfera fiabesca. In questo magazzino era finito il contenuto di un’intera città. È per questo che ho deciso di ambientare il musical dentro quelle pareti, dentro quel Magazzino».
La canzone che lo racconta ha scatenato una valanga di polemiche…
«Quando l’ho pubblicata sono rimasto colpito dalla quantità di critiche dell’estrema sinistra che mi sono piombate addosso. Se prima per i temi che toccavo mi consideravano di sinistra a un tratto sono diventato un fascista. Io invece sono un artista, voglio raccontare storie. Non mi interessano questi giochi politici. Mi sento libero di occuparmi delle storie che voglio. Più mi attaccano e più io mi incaponisco. Sfido queste persone che mi accusano. Spero vengano a teatro e si ricredano. Nel testo non c’è niente di revanscista. È equilibrato e intende raccontare un pezzo dimenticato della nostra storia di italiani».
Chi ha strumentalizzato questa vicenda penalizzandone la diffusione?
«La strumentalizzazione politica è stata fatta dall’estrema destra come dall’estrema sinistra. Negli anni Settanta gli uni lo hanno impiegato come mezzo di propaganda mentre a sinistra provavano a giustificarlo. Ma il giustificazionismo è pericoloso. Si può finire con avallare qualsiasi cosa».
Cosa ha provato la gente non ideologizzata… quella che non sta né da una parte né dall’altra?
«Una reazione di vergogna. Un po’ quella che ho provato io quando ne sono venuto a conoscenza per la prima volta. Ci si chiede come sia possibile che questa tragedia sia stata rimossa dalla nostra attenzione, che se ne trovino scarse tracce anche nei manuali scolastici…».
Ha intenzione di continuare in questo filone artistico?
«Certo. È un linguaggio ideale per raccontare la nostra storia. Il teatro civile attira un pubblico di intellettuali mentre la musica è più coinvolgente. Dai bambini agli anziani, tutti possono godere dello spettacolo e imparare qualcosa sulla storia italiana. E se dovesse funzionare questo spettacolo potrei anche continuare, magari occupandomi del Risorgimento».
Gallone: si parli delle foibe nei libri di scuola.
La senatrice di Bergamo (Bergamo, non Trieste, sic!) Alessandra Gallone chiede che non si nasconda più la verità sulle foibe ed è firmataria con altri della richiesta di una commissione d'inchiesta sulle stragi del '43. Ecco il suo intervento per il Giorno del ricordo. «Oggi celebriamo un ricordo: il ricordo delle foibe, quell’immane tragedia che toccò il nostro popolo dell’Est, gli italiani di Trieste, di Quarnaro, dell’Istria, della Dalmazia, di Fiume e di tutti i luoghi ceduti. Significò per loro l’abbandono della propria terra – terra italiana, finita nel territorio della ex Iugoslavia – ma soprattutto sopruso, devastazione, morte. In quelle fosse comuni c’è un pezzo d’Italia e uno dei pezzi d’Italia cui più dobbiamo rispetto. Furono oltre 10.000 gli italiani che trovarono una morte orribile in quelle orribili fosse per mano dei partigiani nazionalisti comunisti iugoslavi, italiani colpevoli di essere italiani, mentre gli altri venivano strappati via dalle loro case e dalle loro terre, costretti a fuggire per scampare alle persecuzioni, eppure restando determinati nella volontà di rimanere italiani. Il genocidio di questi italiani – perché di una vera pulizia etnica si trattò – fu condotto senza distinzioni politiche, di censo, di sesso, di religione o di età. Furono arrestati cattolici ed ebrei, dipendenti privati ed industriali, agricoltori, pescatori, vecchi, bambini e soprattutto carabinieri, poliziotti e finanzieri servitori dello Stato. Gli eccidi del ’43 e del dopoguerra compiuti contro migliaia di inermi ed innocenti al confine orientale dell’Italia furono un vero crimine contro l’umanità, al pari di altri stermini compiuti e che ancora oggi vengono perpetrati in altre parti del mondo. Questa giornata è per questo non solo una celebrazione nostra, ma anche un importante riconoscimento umano che vale per ogni epoca e per ogni luogo nel quale vengano lesi sacrosanti diritti umani, quali il diritto a vivere in pace nella propria terra, il diritto a non essere vittime dell’odio cieco, il diritto a non vedere profanati i cadaveri dei propri cari. E` nostro dovere ricordare per la nostra coscienza di italiani, ma oggi anche per il nostro sentimento di europei, perché oggi tutti noi vogliamo e dobbiamo vivere in pace e in collaborazione nella prospettiva della più larga unità europea. Mi chiedo anche, e vi chiedo, che sarebbe successo nell’ex Iugoslavia se il ricordo delle foibe fosse rimasto vivo, se non fosse stato coperto dalla viltà e menzogna di un’intera classe politica. Arrivo a volte a pensare che forse neppure la disgregazione della Iugoslavia avrebbe raggiunto certe punte di ferocia se in quelle terre si fosse ricordato per sempre che simili eccidi, un simile cieco furore antietnico, non può rimanere impunito. Ricordare una delle pagine più buie della storia dell’umanità è perciò indispensabile non solo come tributo morale alle vittime di quello sterminio, ma anche come occasione d’incontro per discutere, confrontarsi, far sì che simili tragedie non debbano ripetersi nella storia. Fu una guerra civile; e il furore ideologico e le vendette personali diedero vita alla pagina più triste della storia italiana. In questo quadro vanno inserite le vicende degli esuli, che hanno vissuto un duplice dramma: l’essere costretti ad abbandonare la propria casa vedendo trucidare i loro parenti e, subito dopo, l’essere accolti con indifferenza e in molti casi con ostilità da quella stessa Italia dalla quale avevano sperato di ricevere un abbraccio solidale. Per sentirci vicini a quanti hanno sofferto lo sradicamento, il minimo che possiamo fare è cercare di porre rimedio attraverso una obiettiva ricognizione storica e una valorizzazione di identità culturali di lingua e di tradizioni che non possono essere cancellate. Ma ciò che ancora mi sorprende è che nonostante sia trascorso così tanto tempo, il tempo necessario per ristabilire l’oggettività storica, il racconto di quei tragici avvenimenti non si trovi per nulla, o quanto meno non sia sufficientemente riportato nei libri di scuola dei nostri figli. Perché? Cosa dobbiamo ancora nascondere? È necessario un intervento – e so che e' in corso, per fare in modo che nelle scuole siano adottati solo libri completi di tutti gli aspetti, di tutte le vicende drammatiche del Novecento e, tra queste, la tragedia delle foibe. Non dobbiamo bendarci gli occhi né far finta di non sapere o dimenticare che i misfatti sono frutto delle azioni umane. Un Paese democratico non deve mai avere paura di portare alla luce del sole tutti gli angoli della propria storia. La responsabilità é il prerequisito di una compiuta analisi che non ci faccia mai più ricadere nell’orrore: ecco perché il nostro compito é conservare vivo il ricordo di ciascuna di tali tragedie, consegnando ai giovani il senso della sacralità della vita umana, della dignità della persona e dell’empietà di ogni azione che la sottometta a qualsiasi esigenza ideologica o strumentale. Io e molti altri colleghi siamo firmatari di una richiesta formale per l’istituzione di una Commissione monocamerale d’inchiesta sulle stragi delle foibe, non improntata a spirito di vendetta, il cui provvedimento però ad oggi non é ancora neanche stato incardinato. E al Consiglio regionale del Friuli-Venezia Giulia in questi giorni è stata formalizzata la richiesta di avviare l’esame di questo provvedimento presentato al Senato, perché, a fronte delle mancate restituzioni e dei congrui risarcimenti, appare quanto mai urgente e opportuno procedere rapidamente ad istituire questa Commissione. Concludo il mio intervento formulando l’auspicio che il significato di questa giornata si consolidi ancora di più nella percezione comune degli italiani, soprattutto dei giovani, e che si costruisca così una coscienza condivisa sulle cause e sulle responsabilità di quanto accadde in quegli anni. In nome del ricordo e dei valori da esso richiamati, possiamo guardare avanti e ricostruire un avvenire basato sul principio della dignità e del valore umano, perché senza dignità e senza valore non si é assolutamente nulla.» Sen. Alessandra Gallone.
IL MISTERO DI SALVATORE GIULIANO.
La vera fine di Salvatore Giuliano, scrive il 22/03/2018 Paola Carella su “Il Giornale". “Io così sacciu la storia e accussì la racconto”. Così inizia il racconto di Giacomo Bommarito, la vedetta di Salvatore Giuliano, u picciutteddu, nel libro intervista “Io c’ero”, di Valentina Gebbia e Nunzio Giangrande, edito da Dario Flaccovio editore. Una lunghissima intervista, fatta a più riprese, in cui l’ultraottantenne racconta, dopo un silenzio durato settanta anni, la Sua storia su una delle figure più note e controverse della storia italiana e internazionale, quella del bandito Salvatore Giuliano. Qual è la verità sul suo conto e sulla sua morte? Attraverso questo libro si ridisegna il profilo di un personaggio raccontato in oltre quaranta libri, film e personaggio di primo piano nei testi storici e nei saggi dal secondo dopoguerra in poi. Eppure la vicenda di Salvatore Giuliano si svolse in un arco temporale di soli sette anni, dal 1943 al 1950, anno della sua presunta morte. Tanti i misteri che ruotano attorno alla sua figura: Turiddu, come lo chiamavano i suoi, era al tempo stesso uomo amato dalla sua terra e bandito terribile di cui persino i servizi segreti internazionali si occuparono. Nel secondo dopoguerra la Sicilia deteneva il deprimente primato nazionale di uccisioni, rapine, sequestri ed estorsioni e le Forze dell’Ordine, anche per i tristi trascorsi siciliani, spesso erano “strumento di oppressione e soprusi ai servizi del signore più forte”. Montelepre era un piccolo paesino su un colle nella Sicilia occidentale e aveva sempre covato il seme della ribellione e dell’insofferenza al potere, imposto con la forza, sin dai tempi della carboneria mazziniana. La seconda guerra mondiale aveva lasciato tanta miseria e le elezioni italiane del giugno 1946 avevano messo la DC con il governo De Gasperi alla guida del paese: ovunque in Sicilia serpeggiava il malcontento della popolazione, affamata e senza lavoro, che si fece sentire da più parti, il contrabbando diviene un’alternativa di sopravvivenza, così inizia la storia di Salvatore Giuliano. Giacomo Bommarito nella sua testimonianza ripercorre passo dopo passo la vita di un uomo fuorilegge, protetto da tutti, restituendo una verità scomoda con dovizia di particolari e dettagli. Nei capitoli che si susseguono vengono riportati numerosi momenti di quei sette anni di latitanza: dall’intervista di Mike Stern, che intervistò Giuliano nel suo rifugio sui monti di Montelepre, immortalati in una fotografia riportata nel libro fino all’incontro con la giornalista/spia svedese Maria Cyliakus con la quale era nata una relazione. E ancora gli incontri con il colonnello americano Charles Poletti insieme al Principe Raimondo Lanza di Trabia: una narrazione fitta e intrinseca, dal linguaggio semplice, in cui si vuole fare luce su molti angoli bui, compreso quello del famoso diario in cui il bandito annotava qualunque cosa e che fu la sua condanna a morte. Un racconto, quello riportato dai due autori, che mostra una versione molto diversa da quella ufficiale, ma che trova affinità con i ricordi degli anziani: tanti i dettagli che trovano riscontro con la storia e che destano numerosi interrogativi ai quali ancora nessuno sa o vuole rispondere, come quello sulla strage di Portella della Ginestra:-“ Ero la vedetta di Salvatore Giuliano, andavo a prendere il pane, gli portavo le sigarette e Giuliano non ha mai sparato a Portella della Ginestra. L’ho visto Giuliano a Portella, l’ho visto quando è andato e l’ho visto quando è tornato, lui era un bandito, non era cattivo, se aveva un pezzo di pane lo dava a chi aveva più fame di lui”. Secondo quanto dice l’uomo la strage venne ordinata dalla mafia e dalla politica di allora – “per mettere il popolo siciliano contro Giuliano, la mafia doveva consegnare alla giustizia Giuliano morto perché sapeva troppe cose”. Come è possibile che Salvatore Giuliano avesse ordinato la strage di Portella della Ginestra? Come avrebbe potuto sparare contro amici, parenti, quegli stessi che lui aiutava? Nel 2016 si sarebbe dovuta attuare la desecretazione degli atti relativi alla strage di Portella ma ad oggi siamo ancora in attesa. Accanto a Salvatore Giuliano gravitavano pezzi della mafia, dello Stato e dei servizi segreti: qual è la verità sul suo conto e sulla sua morte? Tanti gli interrogativi che non trovano risposta come quello che ruota attorno alla morte del bandito ed ecco che il testimone racconta di un appuntamento a Borgetto al quale Turiddu si presentò vestito in abiti eleganti il 6 luglio del 1950 ma la morte di Giuliano risalirebbe al 5 luglio 1950 e le foto mostrano una scena che è molto lontana simile a una scenografia. Il corpo ritrovato era davvero il suo? L’Europeo, nel 1950 titolava “Di sicuro, c’è solo che è morto”, eppure neanche questa è mai stata una certezza.
SCADUTO IL SEGRETO DI STATO SU PORTELLA E SULLA MORTE DI GIULIANO. Scrive Pino Sciumé il 5 luglio 2016 su “Siciliaonpress”. Mattina del 5 luglio 1950. A Castelvetrano, in provincia di Trapani, in un cortile ubicato nella via Mannone, un corpo senza vita, riverso bocconi e circondato da carabinieri, magistrati, giornalisti, abitanti del posto, fu mostrato all’opinione pubblica come un trofeo di guerra, la vittoria dello Stato contro il ricercato più pericoloso che per sette anni lo aveva tenuto in pugno. Quel corpo era del “bandito” Salvatore Giuliano. Autori della brillante operazione furono il Colonnello Ugo Luca e il Capitano Antonio Perenze, quest’ultimo dichiaratosi autore materiale dell’eliminazione fisica dell’imprendibile “re di Montelepre”. L’operazione militare, ordinata direttamente dall’allora ministro degli Interni Mario Scelba, siciliano di Caltagirone e inventore del famoso corpo di polizia denominato “La Celere”, sembrò mettere a tacere per sempre la questione del banditismo siciliano che, secondo le fonti governative, aveva provocato centinaia di morti nei sette anni precedenti, culminati con la strage di Portella delle Ginestre in cui la banda Giuliano provocò la morte di undici contadini e il ferimento di altre trenta persone. Poco prima della morte di Giuliano era cominciato a Viterbo il processo per la strage di Portella, definita da Scelba, opera di criminali comuni che nulla avevano a che fare con i politici, gli agrari e la mafia. La Corte non si preoccupò pertanto di ricercare eventuali mandanti, ma di accertare la responsabilità personale degli esecutori comminando loro la giusta condanna. Due anni dopo, dodici componenti della c.d. banda Giuliano furono condannati alla pena dell’ergastolo, dodici e non undici, quanti erano effettivamente presenti sul monte Pizzuta assieme a Giuliano. Ma uno in più, uno in meno… Le cronache di quei tempi riferiscono che nessun siciliano credeva alla colpevolezza di Giuliano perché quello di Portella era il suo popolo, la gente per cui aveva lottato contro uno Stato da lui considerato nemico e da cui voleva che la Sicilia si distaccasse. Umberto Santino, giornalista e attento osservatore, come lo fu il coraggioso Tommaso Besozzi (autore dell’articolo: “Di sicuro c’è solo che è morto” scritto all’indomani del 5 luglio 1950) così scrive in uno dei suoi pezzi “La verità giudiziaria sulla strage si è limitata agli esecutori individuati nei banditi della banda Giuliano. Nell’ottobre del 1951 Giuseppe Montalbano, ex sottosegretario, deputato regionale e dirigente comunista, presentava al Procuratore generale di Palermo una denuncia contro i monarchici Gianfranco Alliata, Tommaso Leone Marchesano e Giacomo Cusumano Geloso come mandanti della strage e contro l’ispettore Messana come correo. Il Procuratore e la sezione istruttoria del Tribunale di Palermo decidevano l’archiviazione. Successivamente i nomi dei mandanti circoleranno solo sulla stampa e nelle audizioni della Commissione parlamentare antimafia che comincia i suoi lavori nel 1963”. Ancora Umberto Santino, nei suoi articoli che fanno parte dell’Archivio del compianto Professor Giuseppe Casarrubea, scrive: “Nel novembre del 1969 il figlio dell’appena defunto deputato Antonio Ramirez si presenta nello studio di Giuseppe Montalbano per recapitargli una lettera riservata del padre, datata 9 dicembre 1951. Nella lettera si dice che l’esponente monarchico Leone Marchesano aveva dato mandato a Giuliano di sparare a Portella, ma solo a scopo intimidatorio, che erano costantemente in contatto con Giuliano i monarchici Alliata e Cusumano Geloso, che quanto aveva detto, nel corso degli interrogatori, il bandito Pisciotta su di loro e su Bernardo Mattarella era vero, che Giuliano aveva avuto l’assicurazione che sarebbe stato amnistiato”. E ancora: “Montalbano presenta il documento alla Commissione antimafia nel marzo del 1970, la Commissione raccoglierà altre testimonianze e nel febbraio del 1972 approverà all’unanimità una relazione sui rapporti tra mafia e banditismo, accompagnata da 25 allegati, ma verranno secretati parecchi documenti raccolti durante il suo lavoro. La relazione a proposito della strage scriveva: “Le ragioni per le quali Giuliano ordinò la strage di Portella della Ginestra rimarranno a lungo, forse per sempre, avvolte nel mistero”. La Commissione Parlamentare Antimafia istituì nel 1971 una sotto commissione sui fatti Portella presieduta da Marzio Berardinetti che tra l’altro affermò: “Il lavoro, cui il comitato di indagine sui rapporti fra mafia e banditismo si è sobbarcato in così difficili condizioni, avrebbe approdato a ben altri risultati di certezza e di giudizio se tutte le autorità, che assolsero allora a quelli che ritennero essere i propri compiti, avessero fornito documentate informazioni e giustificazioni del proprio comportamento nonché un responsabile contributo all’approfondimento delle cause che resero così lungo e travagliato il fenomeno del banditismo”. Per tali motivi, nell’intento di non andare oltre in interrogatori che potevano portare a verità scomode fu apposto il Segreto di Stato fino al 2016, fino a questo 5 luglio 2016, 66° anniversario della messinscena della morte di Salvatore Giuliano. Abbiamo sentito il nipote Giuseppe Sciortino Giuliano, figlio di Mariannina e sorella di Salvatore. “Noi della famiglia siamo sicuri dell’estraneità di mio zio sui fatti di Portella. Quella fu una Strage di Stato addossata ad arte a Giuliano. Le Autorizzo a scrivere che noi conosciamo la verità fin dal 1965. Ora se lo Stato vuole aprire quegli archivi che ben venga, anche se non credo ci possa essere ormai qualcosa che non conosciamo. Ma dalla fine del prossimo settembre sarà in distribuzione in tutta Italia prima e successivamente negli Stati Uniti, un Docufilm di circa tre ore in formato DVD che farà conoscere al mondo intero la verità su mio zio Salvatore Giuliano, eroe siciliano, colonnello dell’Evis, punto fermo dell’ottenimento del mai attuato Statuto Siciliano, anche se lui ha sempre lottato per l’Indipendenza della Sicilia”. Una pagina dell’Unità del 7 luglio 1950 mostra la cronaca della morte di Salvatore Giuliano. Potrà essere risolto nel 2016, allorché cadrà il segreto di stato sulle carte conservate negli archivi dei ministeri dell’interno e della difesa, il giallo sulla morte del bandito Giuliano, uno dei tanti misteri della storia italiana sui quali recentemente la magistratura è tornata ad indagare. Ne è convinto Giuseppe Sciortino Giuliano, nipote di Salatore Giuliano, che ha appena pubblicato un libro (“Vita d’inferno. Cause ed affetti”) che si chiude con una ricostruzione secondo la quale il cadavere mostrato all’epoca alla stampa non sarebbe stato quello del celebre bandito, bensì di un sosia.
Montelepre: una “Vita D’inferno”. Ricordato Salvatore Giuliano, nel 60° anniversario della morte, con una pubblicazione del nipote Pino Sciortino Giuliano. La vicenda di Salvatore Giuliano ci riporta ad anni particolarmente “inquieti”, complessi, della storia della Sicilia e, nonostante gli innumerevoli fiumi d’inchiostro versati, su quei fatti permangono ancora molte zone d’ombra. Sono gli anni dello sbarco degli Alleati, del separatismo, della ribellione civile frettolosamente etichettata come bieco “banditismo”. Un groviglio di rapporti nebulosi – tra americani e mafia, tra patiti politici e mafia, tra Giuliano e politici senza scrupoli –, pose le basi della nascente Repubblica Italiana. Allora tutti si incontrarono, dialogarono e si accordarono: aristocratici, politici, intellettuali, operai, contadini, servizi segreti internazionali, forze di polizia e banditi. Il “caso” Giuliano servì a ognuno fino a quando considerarono conveniente l’accordo, poi… la mattina fatidica del 5 Luglio del 1950, in un cortile di Castelvetrano, il “presunto” corpo di Turiddu venne trovato crivellato di colpi, in seguito, ad un falso conflitto a fuoco sostenuto dagli agenti del Cfrb, e nell’arco di appena un decennio tanti possibili testimoni uscirono di scena con morti alquanto misteriose. In pochi si salvarono affrontando il carcere duro e solo pochissimi resistettero e tornarono a casa a fine pena. Seguì l’inevitabile volontario silenzio degli esigui superstiti. A 60 anni dalla morte del leggendario colonnello dell’Evis, il nipote di Salvatore Giuliano, Giuseppe Sciortino Giuliano, figlio della sorella del bandito, Mariannina, ha presentato lo scorso 5 luglio (data ufficiale della morte di Turiddu), ad un folto pubblico proveniente da tutta la Sicilia ed anche dall’estero, l’ultimo suo libro “Vita d’Inferno - Cause ed effetti”. Un’opera che racconta la vita degli abitanti di Montelepre, paese natale di Giuliano, dal 1943 al 1950, periodo di forti tensioni politiche e civili, caratterizzato da arresti ingiustificati, false accuse e vessazioni da parte dello Stato nei confronti della popolazione contadina dell’area monteleprina, posta in continuo stato d’assedio ed ingiustamente colpevolizzata. «Un pregevole recupero della verità storica, troppo spesso mistificata dalla storiografia ufficiale (figlia faziosa dei poteri imperanti) – ha evidenziato il relatore, prof. Salvatore Musumeci, giornalista ed esperto di storia della Sicilia, tra l’altro presidente nazionale del Mis –, che malgrado tutto si è mantenuta, pur rimanendo per parecchio tempo in uno stato di oblio. Su Salvatore Giuliano molto è stato scritto con lo scopo di intorpidire le acque. Oggi più che mai, mentre si celebrano i falsi miti dei 150 di Stato unitario, Montelepre, e non tanto la sola figura di Turiddu, ha bisogno di conoscere e di riappropriarsi della verità storica, perché per quegli eventi è stata colpevolizzata un’intera cittadina che nulla aveva a che fare con gli accadimenti che travolsero Giuliano. Ai monteleprini è successo ciò che accadde ai meridionali all’indomani della forzata annessione piemontese e per spiegarlo cito un pensiero di Pino Aprile (dal suo recente Terroni): “È accaduto che i (monteleprini) abbiano fatto propri i pregiudizi di cui erano oggetto. E che, per un processo d’inversione della colpa, la vittima si sia addossata quella del carnefice. Succede quando il dolore della colpa che ci si attribuisce è più tollerabile del male subìto. Così, la resistenza all’oppressore, agli stupri, alla perdita dei beni, della vita, dell’identità, del proprio paese, è divenuta vergogna”». Fatti analoghi sono stati vissuti da Ciccu Peppi, il protagonista del libro “Vita d’Inferno - Cause ed effetti”, e da tre quarti della popolazione monteleprina continuamente vessata dal famigerato “don Pasquale”, il brigadiere Nicola Sganga, e dallo “Sceriffo”, il maresciallo Giovanni Lo Bianco (ambedue appartenenti alla Benemerita). Sciortino, inoltre, descrive le ipotesi più attendibili sull’uccisione di Giuliano e una ricostruzione delle circostanze in cui morì Gaspare Pisciotta, braccio destro del bandito, avvelenato in cella il 9 febbraio 1954. Parla anche della strage di Portella della Ginestra e di come la banda Giuliano sarebbe stata oculatamente coinvolta al fine di giustificare il massacro. In appendice, il volume contiene una poesia scritta da un componente della Banda Giuliano, Giuseppe Cucinella che ha ispirato l’opera di Giuseppe Sciortino Giuliano. «La poesia – ha sottolineato l’autore –, è stata in qualche modo ispiratrice della stesura del libro. Devo molta riconoscenza alla figlia di Giuseppe Cucinella (la signora Giusi Cucinella, ndr), che me l’ha messa a disposizione ed io ho voluto farle il regalo di inserirla all’interno del libro. Proprio, perché dalla lettura di questa poesia si vede il patriottismo di quest’uomo, che era comune anche a tutti gli altri, e ciò per dimostrare che gli uomini di mio zio non erano volgari delinquenti ma gente che aveva un ideale e combatteva per questo ideale. All’interno della mia famiglia mi sono dovuto caricare di una responsabilità enorme, perché dovevo in qualche modo rimuovere la macchia nera di Portella delle Ginestre che aveva colpevolizzato un’intera comunità. Per cui io stesso sono diventato ricercatore della verità e man mano che gli uomini di mio zio uscivano dal carcere li avvicinavo, chiedevo, li intervistavo perché volevo capire, io per primo, quello che veramente era successo in quegli anni. Questo mi ha permesso di avere una cognizione di causa sull’argomento e sulla vita in generale di mio zio e di tutto il periodo storico e, quindi, ho potuto scrivere diversi volumi (Mio fratello Salvatore Giuliano, scritto assieme alla madre Mariannina, e Ai Siciliani non fatelo sapere, ndr)». Allo storico monteleprino, prof. Pippo Mazzola, abbiamo chiesto: quali nuove verità apprenderemo nel 2016 quando verranno desecretati i faldoni del fondo Giuliano? «Sicuramente nessuna – sorride ironico il Mazzola –. Sappiamo da fonti attendibilissime che nel corso degli anni, via via, sono spariti tutti i documenti compromettenti, tra cui il fascicolo 29 C contenente il memoriale di Gaspare Pisciotta e i suoi quattordici quaderni. Pare che siano scomparsi durante il governo D’Alema. Oggi non possiamo provarlo, ma chi vivrà vedrà». Prima di lasciare Montelepre ci fermiamo per qualche attimo al Cimitero. Incontriamo una comitiva ed una graziosa ragazza ci chiede: «Excuse me, here is the tomb of Salvatore Giuliano?». Rispondiamo: «Yes, in the chapel on the left most». Ci ringrazia e l’ascoltiamo spiegare: «Giuliano was a hero who fought for the Sicily against the abuses of the Italian State. For the Sicily’s independence. Too bad that Sicilians like him there are not more!». Lasciamo ai lettori il piacere della traduzione. Giuseppe Musumeci. Pubblicato su “Gazzettino”, settimanale regionale, Anno XXX, n. 25, Giarre sabato 10 luglio 2010
IL MISTERO DI MORO E DELLA STRATEGIA DELLA TENSIONE.
“Caso Moro”, Sciascia, Mattarella e la Sicilia, scrive il 22 giugno 2018 su "La Repubblica" Simona Zecchi, Giornalista e scrittrice. Scriveva Leonardo Sciascia sul Corriere della Sera nel 1982: «Si è parlato - e molti che non ne hanno parlato ci hanno creduto - della 'geometrica' perfezione di certe operazioni delle Brigate Rosse: e si è poi visto di che pasta sono fatti i brigatisti e come la loro efficienza venisse dall'altrui inefficienza. Arriveremo alla stessa constatazione - almeno lo spero - anche con la mafia». Già altrove lo scrittore siciliano era ricorso a rappresentare le due forze - terrorismo e mafia - come motrici entrambe degli omicidi Mattarella (Piersanti, ammazzato il 6 gennaio 1980) e Reina (Michele, ammazzato il 9 marzo 1979). Scriveva in particolare il 7 gennaio del 1980 sempre sul Corriere: «Io sono stato tra i pochissimi a credere che Michele Reina, segretario provinciale della Democrazia Cristiana, fosse stato assassinato da terroristi. Terroristi magari un pò sui generis, come qui ogni cosa; ma terroristi. [...] Oggi di fronte all'assassinio del presidente della Regione Mattarella, quella mia ipotesi, che quasi mi ero convinto ad abbandonare, mi pare che torni a essere valida.» Giovanni Falcone, infatti, titolare della prima istruttoria sull'omicidio di Piersanti Mattarella aveva sin da subito indirizzato le indagini verso una pista nera per ciò che riguardava gli assassini materiali di cui chiese l'arresto nel 1986. Quella istruttoria culminò in una requisitoria depositata nel 1991 che poi non ebbe conferme giudiziarie ma che proprio recentemente ha di nuovo fatto capolino. Mattarella ha rappresentato in terra siciliana, per ciò che riguarda il compromesso storico fra PCI e DC, quello che Aldo Moro (con un percorso iniziato nel 1969 attraverso una sua "strategia dell'attenzione" verso il partito comunista italiano) è stato a livello nazionale, con tutte le specificità e le differenze che certo li caratterizzavano e che caratterizzavano le "due terre": la Sicilia spesso per anni un mondo a parte, e il resto d'Italia. Una differenza che anche si inserisce nella questione del compromesso in sé a livello nazionale. Chi si è opposto a logiche criminali come Mattarella e Reina si era anche opposto a un sistema di potere più complesso e ampio. Nel caso di Mattarella parliamo -secondo quanto emerse allora e permane come sospetto per il momento oggi - di terrorismo nero oltre all'intervento di Cosa Nostra. Per quanto riguarda il sequestro e l'omicidio di Aldo Moro - strage degli agenti annessa-, l'evento spartiacque per gli equilibri nazionali indicativi per Moro di un cambiamento nel Paese al quale dare inizio, si è trattato di terrorismo rosso. Il colore politico, è ormai giunto il momento di dichiararlo con coraggio, cambia soltanto in funzione di dinamiche ma non di resa, di risultati. Cambiare approccio per ricostruire i cinquantacinque giorni del Caso Moro nella inchiesta da me condotta e culminata nel libro, "La Criminalità servente nel Caso Moro" ha significato certo attraversare quaranta anni di storia politico-criminale e di contesti politici nazionali e internazionali, ma non da ultimo ha inoltre significato raccogliere i fatti che conducevano verso quel filone, esaminarli in controluce ed esporli tutti in fila come se posti su un tavolo immaginario (anche se in realtà fisicamente è avvenuto proprio così), certo verificandoli. Lavorare su temi così complessi non può prescindere dall'analisi dei fatti e dei contesti insieme. Concentrarsi soltanto su uno dei due fattori rende il quadro intero sbilanciato nelle sue tinte. Così, la tavolozza che mano a mano ne è emersa non lasciava scampo: i vertici della criminalità organizzata e delle consorterie che la costituivano in quegli anni (attenzione non pedine o anche soltanto boss qualunque seppure di rilievo) hanno influito e operato nel Caso Moro, moltissimo. Non soltanto per ciò che riguarda le presenze di uomini della 'ndrangheta accertate o ancora da accertare sul luogo della strage, Via Fani, dove alle 9.02 del mattino la raffica di fuoco incrociato è partita, ma anche per quanto riguarda la gestione del sequestro fino alla consegna di Moro morto in Via Caetani, riverso nell'abitacolo di una Renault 4 rossa, e per le connivenze tra frange della lotta armata allineate alle BR e la criminalità organizzata e comune. A parte, poi, va considerato l'aspetto forse più noto al grande pubblico: il ruolo di alcune organizzazioni criminali nel tentativo di liberazione dell'onorevole Moro. Aspetto questo che ricostruito da me interamente dall'inizio, compiendo tabula rasa su quanto scritto e raccolto sino a quale momento da altri, ha anche fatto emergere dettagli e aneddoti rilevanti e nuovi per la comprensione dell'Affaire tutto. L'insieme di questa distesa di elementi conducevano tutti in Calabria: la 'ndrangheta, cresciuta nel corso degli anni all'ombra dei riflettori di una Cosa Nostra più 'spettacolare', infatti, rappresenta secondo quanto da me ricostruito la costante del Caso Moro e insieme la costante di altri eventi tragici che, come le ultime inchieste della Procura di Reggio Calabria certificano, ha attraversato questo Paese. Una costante operante quasi sempre con Cosa Nostra ma non necessariamente. Durante il corso delle indagini che la Commissione Parlamentare d'inchiesta sul caso stava svolgendo, ho seguito dunque un mio percorso investigativo parallelo supportato ovviamente dalla ricerca incessante e dallo studio degli atti passati e nuovi che come già svolto per un'altra inchiesta, quella sulla morte di Pier Paolo Pasolini, mi ha poi portato a sviscerare elementi inediti e anche alla ricostruzione di un contesto mai considerato prima in modo unitario. Fino a giungere agli anni della trattativa Stato-mafia così come la conosciamo, quella il cui processo di Palermo è da poco culminato a un primo grado di condanne e ad alcune assoluzioni (parziali o totali). Il cuore di questo libro-inchiesta è costituito da due punti principali: da un lato la spiegazione del "mistero" del falso comunicato del lago della Duchessa, legato alla scoperta del covo di Via Gradoli il 18 aprile del 1978 nel bel mezzo del sequestro, e l'emersione di una nuova prigione in cui Aldo Moro è stato di passaggio durante la sua prigionia: un covo non lontano dal lago stesso nella Sabina fra il Lazio e l'Umbria, luogo legato a sua volta sia a elementi della lotta armata sia alla criminalità; dall'altro, lo sviluppo delle inchieste del generale Dalla Chiesa e il giudice Vittorio Occorsio sulle morti dei quali pesa l'ombra sia della mafia sia del terrorismo: entrambi, infatti, stavano indagando su una struttura riservata composta da parti della massoneria, della criminalità organizzata, consorterie politiche e della magistratura, e di elementi del terrorismo di destra e di sinistra. Nel libro, tra le altre cose inedite, viene per la prima volta pubblicato l'estratto di un verbale sconosciuto alle cronache e alle ricostruzioni sin qui svolte, un verbale che porta proprio la firma del Generale. Intorno a questi due punti cardinali della inchiesta vengono da me sviluppati ulteriori fatti e risvolti a essi collegati. La "geometrica potenza" invocata da Sciascia, espressione usata in un articolo sequestrato a Franco Piperno leader di Potere Operaio, e operativo presso l'Università della Calabria, si dispiega tutta qui. Attraverso un metodo giornalistico che definisco "della piramide rovesciata" arrivo dunque al cuore del Caso Moro cercando di consegnare un pezzo di verità mancante di questo segreto usurato della Repubblica. Con le "prove" che un giornalista umilmente può portare. Il libro: “La criminalità servente nel Caso Moro”, La Nave di Teseo
Il grande vecchio, scrive Gianni Barbacetto il 15 novembre 2009. Sono passati 20 dalla caduta del muro di Berlino. A breve saranno 40 anni dalla bomba alla Banca dell'Agricoltura, a Piazza Fontana a Milano. In questi giorni dove si è celebrata la caduta del muro (e del regime comunista), mi chiedo quanti siano ancora interessati a conoscere la storia oscura del nostro paese. A dare una risposta ai tanti perché degli anni della strategia della tensione. Perché quelle morti, perché quelle bombe. Quale era la strategia che perseguivano, queste persone? Il libro di Barbacetto, che usa la metafora ancora attuale del "Grande vecchio" dà una risposta, a queste domande. “Ci avete sconfitto, ma oggi sappiamo chi siete” dice l'ex giudice che indagò sulla strage alla Stazione di Bologna Libero Mancuso “e andremo in giro a dire i vostri nomi a chiunque ce li chieda”. Compito degli storici o di quelli come me, con la passione per la storia, col vizio di voler coltivare la memoria di ciò che è stato è ricordare. E le pagine del libro, che mettono insieme i fatti di questa guerra che si è consumata, senza che nessuno (o quasi) se ne sia preso la colpa, storicamente e giuridicamente, hanno appunto questo fine: dare la parola ai magistrati che si sono occupati di queste inchieste. Sono loro, una volta tanto, a raccontare una storia di attentati, stragi e bombe, e delle difficoltà che hanno dovuto affrontare: omertà, depistaggi e veri e propri attacchi sia da parte degli imputati (direttamente o tramite giornali “amici”), sia all'interno dello stato (come nel caso dell'ex presidente Cossiga, nella sua guerra personale contro il CSM). Per la strage di Piazza Fontana, i ricordi del giudice istruttore Giancarlo Stiz e del pm Pietro Calogero, che seguirono il filone Veneto delle indagini: i neofascisti di Ordine Nuovo Franco Freda, Giavanni Ventura, Carlo Maria Maggi, e Pino Rauti (esponente del MSI, tirato in ballo nell'inchiesta dalle confessioni del bidello Marco Pozzan) e Delfo Zorzi. Indagini riprese poi a Milano dal giudice istruttore Gerardo D'Ambrosio e dal pm Emilio Alessandrini: i primi a intravedere la pista nera sulla strage, mentre in Italia si sbatteva il mostro in prima pagina (l'anarchico Pietro Valpreda e il "suicida reo confesso" Giuseppe Pinelli). E in mezzo i servizi che invece che aiutare l'indagine, si occupavano di esfiltrare dei testimoni: Pozzam, lo stesso agente Guido Giannettini. Processo scippato ai giudici (una costante in tante altre inchieste sull'eversione nera, in Italia) e spostata dalla Cassazione a Palermo. La strage di Piazza della Loggia a Brescia: la bomba esplosa durante il comizio antifascista il 28 maggio 1974. Raccontata attraverso il lavoro dei primi giudici: Domenico Vino e Francesco Trovato; inchiesta riaperta poi dal g.i. Francesco Zorzi, sulle confessioni del pentito Sergio Latini e Guido Izzo. Fra tutti gli episodi raccontati, è l'unico ad avere un procedimento ancora aperto: il processo a Brescia iniziato nel novembre 2008 ha portato a giudizio tra gli altri, un ex politico come Pino Rauti e un generale dei carabinieri, Francesco Delfino. L'inchiesta di Padova sulla Rosa dei venti del giudice istruttore Giovanni Tamburino, che portò alla scoperta di questa organizzazione con finalità eversive che coinvolgeva industriali, ex fascisti, vertici militari (il colonnello dell'esercito Amos Spiazzi) e vertici dei servizi (il generale del Sid Vito Miceli). L'ultimo filone di indagini su Piazza Fontana, portato avanti dal giudice istruttore Guido Salvini a fine anni 80, che si è basato sugli archivi ritrovati in via Bligny (gli archivi di Avanguardia Operaia che contenevano dossier anche sul terrorismo nero, oltre che dossier sulle Br), le rivelazioni del pentito Nico Azzi e dell'artificiere di Ordine Nuovo Carlo Digilio, sul lavoro del capitano dei Ros Massimo Giraudo. Un lavoro che ha permesso una rilettura degli anni del golpe, sempre ventilato, mai attuato, "il golpe permanente". Il golpe Borghese della notte della Madonna del 1970, al golpe bianco di Edgardo Sogno nella primavera del 1974. E prima ancora il “tintinnar di sciabole" del Piano Solo. Un lavoro che permise di rileggere episodi di cronaca, attentati dell'anno nero che fu il 1973. "Alla fine e malgrado tutto, ribadisce Salvini, «un preciso giudizio si è radicato comunque nelle carte dei processi. La strage di piazza Fontana non è un mistero senza padri, paradigma dell’insondabile o, peggio, evento attribuibile a piacimento a chiunque, che può essere dipinto con qualsiasi colore se ciò serve per qualche contingente polemica politica. La strage fu opera della destra eversiva, anello finale di una serie di cerchi concentrici uniti – come disse nel 1995 alla Commissione stragi Corrado Guerzoni, stretto collaboratore di Aldo Moro – se non da un progetto, almeno da un clima comune». «La giustizia vuole più dolore che collera» scriveva Hannah Arendt nel 1961, all’apertura del processo al nazista Adolf Eichmann a Gerusalemme. Alla chiusura dei processi per le stragi, la banalità del male si presenta sotto forma di tentazione a dimenticare per sempre una vicenda con tanti morti, un’insanabile ferita alla democrazia che ha colpevoli, ma non condannati. La verità, nella sua interezza, è affidata ora agli storici. O consegnata ai capricci della memoria: che custodisce i ricordi nel tempo dell’indignazione, e poi li abbandona nel tempo della smemoratezza."
La bomba alla Questura nel 1973. L'inchiesta portata avanti dal giudice istruttore Antonio Lombardi sulla bomba alla Questura di Milano: in particolare, è questa vicenda svela bene quale fosse il disegno dietro tutti gli episodi stragistici. Ovvero addossare tutta la colpa della strage sulla sinistra: Gianfranco Bertoli, con un passato da informatore del Sifar e poi del Sid, doveva recitare la parte dell'anarchico solitario che uccide persone inermi (e il ministro Rumor, reo secondo Ordine Nuovo che aveva organizzato il teatro, di aver avviato l'iter per il loro scioglimento).
Le bombe sui treni in Italia centrale: l'Italicus (4 agosto 1974) e gli altri attentati (il fallito attentato a Vaiano, ad es.), avvenuti nella primavera estate del 1974, per mano dei neofascisti di Ordine Nero: i quattro colpi grossi (assieme alla bomba a Brescia) che avrebbero dovuto preparare il terreno l'ennesima reazione forte dello stato. Reazione che, come nel 1969, non avvenne, come non ci fu nemmeno il golpe solo minacciato dell'ex partigiano bianco Edgardo Sogno, su cui indagò il giudice Violante a Torino. Per l'Italicus, il giudice che ha indagato sulla strage si chiama Claudio Nunziata, che lavorò assieme a Rosario Minna. Ma stesso è lo scenario che si scopre, come per le precedenti inchieste: un organizzazione neofascista (Ordine Nero, di Mario Tuti e Augusto Cauchi), con coperture da parte dei carabinieri e finanziata da un imprenditore di Arezzo, tale Licio Gelli. Nunziata fu definito come un Torquemada dei treni, dai giornali della destra (come Il giornale di Indro Montanelli e di Guido Paglia, esponente di Avanguardia Nazionale). Perché era un magistrato zelante che non guardava in faccia a nessuno: nemmeno nella ricca Bologna massonica. Nunziata non si trattenne nemmeno dal criticare il comportamento della sua procura, per come venivano gestiti i carichi di lavoro e per come non venivano seguite le indagini che riguardavano l'eversione. Su di lui si concentrò un fuoco amico da parte del CSM e anche da parte dell'allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga: fu sospeso e lasciato senza stipendio, fino alla sua riabilitazione, avvenuta anni dopo. "in fondo mi è andata bene, altri hanno pagato con la vita" il suo amaro commento.
La strage alla stazione di Bologna. Libero Mancuso iniziò la sua carriera a Napoli: seguì il rapimento da parte delle Br di Ciro Cirillo e assistì alla trattativa di esponenti dello stato con la Camorra di Cutolo per la liberazione dell'assessore. Nauseato, alla fine della vicenda, chiese il trasferimento a Bologna, in cerca di una maggiore tranquillità. Ma il 2 agosto 1980 scoppiò la bomba alla stazione. E il suo capo alla procura gli assegnò un'indagine sull'ex colonnello Amos Spiazzi (un personaggio già emerso nell'inchiesta di Tamburino sulla Rosa dei Venti). Da qui l'inizio dell'inchiesta che lo portò fino alla strage, in cui emerse il ruolo di depistaggio dei vertici del Sismi e della Loggia P2 (nonostante questo l'avvocatura di Stato chiese l'archiviazione del reato di eversione per quanto riguarda la Loggia P2 e Gelli, al processo di Appello). I processo fu, uno tra pochi, ad arrivare a giudizio con una condanna per i responsabili della strage, individuati negli estremisti dei Nar (Fioravanti, Mambro e Ciavardini). Come per altri giudici, anche per Mancuso non mancarono polemiche, diffamazioni, attacchi da parte dei Giornali (Il giornale, Il sabato ..) e persino dal capo dello stato, allora Francesco Cossiga.
La loggia P2: lo stato nello stato. Di questa storia, ne ha parlato Blu Notte recentemente: a partire dai giudici istruttori Gherardo Colombo e Giuliano Turone che, nella primavera del 1983, seguendo una indagine sul finto rapimento di Michele Sindona, si imbattono in questo strano, all'apparenza sconosciuto ma potente imprenditore. Licio Gelli da Arezzo. Dalla perquisizione in uno dei suoi uffici emerge una struttura che comprende i vertici dei servizi, politici, magistrati, giornalisti, politici, industriali (tra cui l'attuale presidente del Consiglio) ... Uno stato dello stato: dalla storia della P2 si capisce meglio l'evoluzione della politica filoatlantica italiana, la guerra non ortodossa compiuta sugli italiani: se nella prima metà degli anni 70 si parlava di golpe e si usavano le bombe per destabilizzare, a partire dal 1974 si usò questa loggia massonica segreta, come camera di compensazione per i poteri forti del paese. Come struttura in qui selezionare la classe dirigente del paese: l'obbiettivo non era più abbattere o sostituire le istituzioni, ma occuparle. Silenziosamente. Nella politica, nei posti chiave della magistratura, nell'informazione, nell'industria. Con l'attuazione del piano di rinascita democratica: un disegno politico quanto mai attuale.
Gladio. L'inchiesta del giovane giudice Felice Casson, a Venezia, che partendo dalla strage di Peteano e dalle confessioni del pentito (con ritardo e con ancora tanti punti aperti sulla sua sincerità), arriva a scoprire Gladio, la struttura italiana dell'organizzazione Stay Behind. Una struttura misto civile militare, addirittura fuori dall'organizzazione Nato e di cui nemmeno tutti i presidenti del Consiglio ne furono a conoscenza (come ad esempio Amintore Fanfani). Una struttura di cui l'opinione pubblica non fu informata: fino all'ammissione della sua esistenza da parte del primo ministro Giulio Andreotti nel 1990, quando ormai l'inchiesta veneziana stava arrivando al termine. Casson partì da qui partì, dai legami tra Gladio e i gruppi della destra eversiva che negli anni 70 compirono attentati in Italia. Una indagine con gli stessi protagonisti delle altre: gli ordinovisti veneti (il medico Carlo Maria Maggi, Franco Freda, Carlo Digilio, l'artificiere-confidente dei servizi); i vertici dei servizi come l'ammiraglio Fulvio Martini, legato anche al Conto Protezione di Craxi/Martelli, che avrebbe portato fino a Gelli. Cosa è Gladio? Solo una storia di arsenali nascosti sui monti del Friuli e forse qualche campo di concentramento in Sardegna, che si sarebbe dovuto usare per gli enuclenandi del Piano Solo? O forse, come in una struttura a scatole cinesi, una dentro l'altra, Gladio era solo il guscio esterno, quelle più presentabile, di altre strutture (come il Noto Servizio o Anello), più nascoste, dalle finalità più ambigue, ai limiti (se non oltre) del codice. Campagne stampa diffamatorie contro esponenti politici o sindacali da togliere di mezzo; l'utilizzo della corruzione come normale sistema di trattativa politica; l'utilizzo della malavita (come la Banda della Magliana, per l'individuazione della prigionia di Aldo Moro da parte della BR) in funzione di braccio armato, che può essere sempre reciso alla bisogna, allo stragismo e terrorismo della cui incredibile durata e virulenza nel nostro paese non è stata data ancora una plausibile spiegazione. E soprattutto, la domanda più importante: siamo sicuri che queste siano solo storie del passato? Se qualcuno, nel passato, ha pensato di mettere una bomba per spostare il baricentro della politica italiana, depistando le indagini della polizia, insabbiandone altre grazie a Procure compiacenti (vi ricordate come veniva chiamata la Procura di Roma? Il porto delle nebbie), cosa sarebbe disposto a fare oggi, per evitare tutti cambiamenti in ambito sociale e politico? Siamo sicuri che i servizi deviati (che poi non è nemmeno giusto chiamarli così, essendo stati solo al servizio di quei poteri forti già attivi nei anni 70) oggi non siano più operativi?
Ma esiste un’altra verità che i sinistroidi tacciono.
Le stragi senza colpevoli dell'estremismo nero. Franco Freda fa l’editore ad Avellino. Fioravanti e Mambro hanno scontato due mesi per ogni persona uccisa. Abbatangelo gode addirittura del vitalizio, scrive Paolo Biondani il 2 agosto 2017 su "L'Espresso". Sono rimasti quasi tutti impuniti. E oggi non si sentono vinti, ma vincitori. Sono i precursori e gli ispiratori dei movimenti neonazisti e neorazzisti di oggi. Se le Brigate rosse erano contro lo Stato, che le ha sgominate con centinaia di arresti e condanne, il terrorismo di destra era dentro lo Stato. Gli stragisti hanno trovato complicità e protezioni nei servizi e negli apparati di polizia e di giustizia. Così troppe bombe nere sono rimaste senza colpevoli. E i teorici della violenza hanno potuto riproporsi come cattivi maestri. Il più famoso dei terroristi neri, Franco Giorgio Freda, è libero da anni. Vive ad Avellino con una giovane scrittrice e fa ancora l’editore di ultradestra, con un sito che lo celebra come «un pensatore» da riscoprire: il padre «preveggente» di un «razzismo morfologico» da opporre «alla mostruosità del disegno di una società multietnica». Freda è stato condannato in tutti i gradi di giudizio per 16 attentati con decine di feriti che nel 1969 aprirono la strategia della tensione: bombe contemporanee sui treni delle vacanze, all’università di Padova, in stazione, in fiera e in tribunale a Milano. La sua casa editrice però parla solo dell’assoluzione in appello per piazza Fontana (17 morti, 88 feriti), per insufficienza di prove (e abbondanza di depistaggi). Liberato nel 1986, Freda si è rimesso a indottrinare neonazisti fondando un movimento chiamato Fronte Nazionale: riarrestato, è stato difeso dall’avvocato Carlo Taormina e nel 2000 la Cassazione gli ha ridotto la condanna a tre anni per istigazione all’odio razziale. Dopo di che è tornato libero. Il suo braccio destro, Giovanni Ventura, che aveva confessato gli attentati del 1969 che prepararono piazza Fontana, non ha mai scontato la condanna: è evaso nel 1978 e ha trovato rifugio sotto la dittatura in Argentina, che ha rifiutato di estradarlo. A Buenos Aires è diventato ricco con un ristorante per vip, fino alla morte per malattia nel 2010. Nell’ultimo processo su piazza Fontana, la sentenza conclude che Freda e Ventura erano colpevoli, ma le nuove prove sono state scoperte troppo tardi, dopo l’assoluzione definitiva. Per la catena di bombe nere che hanno insanguinato l’Italia fino agli anni Ottanta, oggi in carcere si contano solo due condannati. A Opera è detenuto Vincenzo Vinciguerra, esecutore della strage di Peteano, un irriducibile che rifiuta la scarcerazione e oggi accusa i servizi. Il secondo è Maurizio Tramonte, condannato solo ora per la strage di Brescia, commessa nel 1974 mentre collaborava con il Sid del generale Maletti (che è libero in Sudafrica). Tramonte è stato arrestato in giugno dopo l’ultima fuga in Portogallo. Il suo capo, Carlo Maria Maggi, leader stragista di Ordine Nuovo nel Triveneto, condannato per la strage Brescia (8 morti, 102 feriti), sconta la pena a casa sua, perché ha più di 80 anni ed è malato. Sconti e benefici di legge hanno cancellato il carcere anche per Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, i fondatori dei Nar (con Massimo Carminati), che dopo l’arresto hanno confessato più di dieci omicidi e sono stati condannati anche per la strage di Bologna (85 vittime), nonostante le loro proteste. E nonostante i depistaggi: due ufficiali del Sismi fecero trovare armi ed esplosivi su un treno, nel 1981, per salvare i neri incolpando inesistenti terroristi esteri. Fioravanti e Mambro hanno ottenuto la semilibertà nel 1999. Paolo Bolognesi, presidente dei familiari delle vittime, notò «hanno scontato solo due mesi di carcere per ogni morte causata». Anni dopo Bolognesi, mentre parlava in una scuola di Verona, si vide attaccare da uno studente di destra poi arrestato come uno dei picchiatori che nel 2008 hanno ucciso a botte un ragazzo di sinistra. Per le carneficine nere le condanne si limitano a pochi esecutori. I mandanti e tutti gli altri complici sono sconosciuti. E per molte stragi, da piazza Fontana a Gioia Tauro all’Italicus, l’impunità è totale. A fare eccezione è la strage del treno di Natale (23 dicembre 1984, sedici morti, 267 feriti), che è costata l’ergastolo, tra gli altri, a Pippo Calò, il boss della cupola di Cosa Nostra trapiantato a Roma. Il procuratore Pierluigi Vigna parlò di «terrorismo mafioso»: un attacco allo Stato ripetuto nel 1992-93. Come custode dell’esplosivo usato dai mafiosi, è stato condannato un politico di destra: Massimo Abbatangelo, ex parlamentare del Msi. Scontati sei anni, ha poi beneficiato della cosiddetta riabilitazione, che cancella la sentenza dal certificato penale. E il 4 luglio scorso l’ex deputato con la nitroglicerina ha perfino riottenuto il vitalizio della Camera.
Morire di politica - Violenza e opposti estremismi nell'Italia degli anni '70, scrive “La Storia siamo noi" della Rai. 69 morti e più di mille feriti, 7.866 attentati e 4.290 episodi di violenza: sembra un bollettino di guerra, è invece il bilancio di una stagione politica tra le più drammatiche della prima Repubblica, quella che negli anni Settanta ha visto contrapposte l'estrema destra e l'estrema sinistra, il rosso e il nero. Mai come in quegli anni questi due colori hanno finito per dividere e accecare centinaia di migliaia di giovani di più generazioni, che si sono odiati e combattuti senza esclusione di colpi, trascinando il nostro Paese quasi alle soglie di una guerra civile. Una violenza che nasce nei cortei e nelle piazze, che diventa sempre più cieca, anche se ammantata di grandi ideologie.
Gli anni Settanta cominciano nel '68. Due episodi, accaduti entrambi a Roma, preludono all'esplosione di violenza degli anni che verranno: la "battaglia di Valle Giulia" (1 marzo 1968) e l'attacco dei militanti del Movimento Sociale all'Università "La Sapienza" (16 marzo 1968).
L'episodio di Valle Giulia prende avvio da una manifestazione indetta per protestare contro lo sgombero della facoltà di Architettura, occupata il 29 febbraio dagli studenti. Sgomberata dalla polizia, chiamata dal rettore Pietro Agostino D'Avack, la facoltà resta presidiata. Il corteo di protesta si riunisce prima a Piazza di Spagna, per poi dirigersi a Valle Giulia con l'intento di liberare la facoltà dalle forze dell'ordine. Gli studenti attaccano la polizia lanciando sassi e altri oggetti contundenti, la battaglia dura diverse ore e alla fine il bilancio è di 228 fermi e 211 feriti di cui 158 tra le forze dell'ordine. Tra i partecipanti agli scontri troviamo il regista Paolo Pietrangeli (che all'episodio dedicò una canzone), Giuliano Ferrara (che rimase ferito), e Oreste Scalzone, fondatore e leader dei gruppi della sinistra extraparlamentare Potere Operaio e Autonomia Operaia. Ispirato dall'episodio di Valle Giulia, Pier Paolo Pasolini scrive la poesia Il PCI ai giovani in cui dichiara polemicamente di simpatizzare con gli agenti perché veri "figli di poveri"; è l'interpretazione del Sessantotto come di 'una cifrata rivolta della borghesia contro se stessa'.
Pochi giorni dopo la battaglia di Valle Giulia, il 16 marzo, circa 200 militanti del Movimento Sociale si presentano all'università di Roma 'La Sapienza' per dare una lezione al movimento studentesco: poiché è di sinistra, va fermato. A guidarli c’è anche il Segretario del partito Giorgio Almirante insieme allo stato maggiore dell'MSI eletto a Roma: Anderson e Caradonna. Decine di picchiatori aggrediscono gli studenti di sinistra che ripiegano nella facoltà di Lettere - sulla cui scalinata viene fotografato Almirante attorniato da picchiatori armati di bastoni? ma poi l'attacco viene respinto; i militanti del MSI si rifugiano nella facoltà di Giurisprudenza che viene circondata dagli studenti di sinistra che tentano di entrare. Dalle finestre i missini cominciano a tirare mobili e a lanciare suppellettili. Un banco, lanciato dall'ultimo piano, ferisce gravemente alla spina dorsale Oreste Scalzone che si salva per miracolo. I fascisti asserragliati dovranno uscire dall'università dentro i blindati della polizia.
Piazza Fontana: 12 dicembre 1969. Milano, ore 16,37 del 12 dicembre 1969, una bomba collocata in una valigetta esplode nella Banca Nazionale dell'Agricoltura a Piazza Fontana: 16 vite stroncate e 88 feriti gravi. Inizia in questi locali anneriti dal fumo la vera storia politica degli anni Settanta con la lunga escalation di sangue che l'ha contrassegnata. Quella di Piazza Fontana, insieme alla strage di Bologna, è uno degli attentati più gravi dell'Italia del Dopoguerra. «Simbolicamente quella deflagrazione, in un freddo pomeriggio del dicembre 1969, racchiude in sé tutto quanto accadrà dopo. Incancrenirà le ideologie, ridurrà i cervelli di migliaia di giovani ad agglomerati di pulsioni emotive e ribellistiche, polverizzerà i sentimenti in milioni di frammenti di vita, di odio e di amore, di voglie di cambiamento e desideri di distruzione. E, soprattutto, come un colpo d'ascia, taglierà in due tronconi le pulsioni di un Paese ancora acerbo. Sfumerà in due colori, il rosso e il nero, le vitalità di più di una generazione» (da Baldoni A, Provvisionato S., A che punto è la notte, Vallecchi, 2003, p. 18).
Non sarà l'unica strage, altre cinque insanguineranno l'Italia negli anni Settanta: Gioia Tauro (22 Luglio 1970), Questura di Milano (17 maggio 1973), Piazzale della Loggia a Brescia (28 maggio 1974), treno Italicus (4 agosto 1974), Stazione di Bologna ( 2 agosto 1980): 132 morti che ancora chiedono giustizia. Il 12 dicembre del 1970, durante la manifestazione per il primo anniversario della strage di Piazza Fontana, scoppiano incidenti, la polizia carica, un agente spara un candelotto lacrimogeno ad altezza uomo e uccide lo studente Saverio Saltarelli, 23 anni.
Il rapporto Mazza (1971). A lanciare per primo l'allarme su una degenerazione dello scontro politico è il Prefetto di Milano Libero Mazza in un lungo rapporto sulla situazione di Milano in cui denuncia gli estremismi sia di destra che di sinistra: nessuno però lo prende in adeguata considerazione. Il fascicolo ha per titolo: Situazione dell'ordine pubblico relativamente a formazioni estremiste extraparlamentari, ma passa alla cronaca e poi alla storia più semplicemente come 'Rapporto Mazza', dal nome del suo autore che per mesi verrà criticato dalla sinistra come allarmista. In realtà il 'Rapporto Mazza' era stato redatto nel dicembre del 1970, ma diventa pubblico il 16 aprile 1971, quando viene riportato dal «Giornale d'Italia». Si sostiene che la contestazione sta prendendo una brutta piega, e che esiste il rischio di un'insurrezione armata contro lo Stato. Mazza è bollato come 'fascista', nonostante il suo passato di partigiano, e negli slogan dei cortei viene apostrofato con violenza («Mazza, ti impiccheremo in piazza»). Nel rapporto fa riferimento anche al "Collettivo politico metropolitano", crogiuolo delle future Brigate Rosse, in cui milita Renato Curcio: «Il gruppo conta pochissimi aderenti e nel gennaio 1970 ha pubblicato un opuscolo di propaganda dal titolo "Collettivo". I suoi principali esponenti sono Renato Curcio studente universitario, Corrado Simioni impiegato da Mondatori e Franco Troiano impiegato alla Siemens. Rispetto alle organizzazioni politico-sindacali di tipo tradizionale, il movimento ha recentemente annunciato la formazione di nuclei, denominati "Brigate rosse", da inserire nelle fabbriche».
Il "giovedì nero" di Milano: 12 aprile 1973. In quegli stessi anni anche a destra si fa strada la violenza con esiti drammatici. Siamo a Milano, il 12 aprile 1973: il Movimento Sociale ha indetto una manifestazione 'contro la violenza rossa'; nel partito si avverte la necessità di fare qualcosa contro lo strapotere delle formazioni estremiste della sinistra extraparlamentare: è oltre un anno che il Movimento Sociale non riesce a tenere nessun comizio a Milano. Tra gli oratori chiamati per la manifestazione spicca il nome di Ciccio Franco, il leader calabrese del 'Boia chi molla', motto della rivolta avvenuta a Reggio Calabria nel luglio del 1970, scoppiata in seguito alla decisione di spostare il capoluogo di regione a Catanzaro. La manifestazione era stata autorizzata da tempo, ma viene revocata nella mattinata del 12 dal Prefetto Libero Mazza che vieta tutte le manifestazioni di carattere politico fino al giorno 25, anniversario della Liberazione. Ma, ricorda Maurizio Murelli, militante del MSI: «Il comizio si sarebbe fatto a qualsiasi costo, lo volesse il prefetto o no. Questa era la parola d'ordine per quanto riguardava il Movimento Sociale»; nel pomeriggio, verso le 17,30, si radunano presso la sede del MSI in Via Mancini alcune centinaia di giovani che si dirigono verso Piazza Tricolore; a loro si aggregano altri gruppi provenienti da Piazza Oberdan, altri ancora si attestano in Corso Concordia. Dopo che una delegazione del MSI, capitanata dal vicesegretario Franco Maria Servello insieme all'On. Franco Petronio, Ciccio Franco e Ignazio La Russa, allora Segretario regionale del Fronte della Gioventù, si era recata in Prefettura per protestare contro il divieto, a ridosso di Piazza Tricolore viene lanciata una bomba a mano SRCM che ferisce un agente ed un passante. Le forze dell'ordine intervengono per disperdere i manifestanti e in Via Bellotti un altro militante Vittorio Loi, 21 anni, lancia una seconda bomba a mano contro le forze dell'ordine uccidendo sul colpo l'agente Antonio Marino: originario di Caserta, faceva parte della Seconda compagnia del Terzo celere e avrebbe compiuto 23 anni a giugno. La sera stessa il Movimento Sociale mette una taglia sugli assassini e il giorno dopo si consegnano Vittorio Loi e Maurizio Murelli. La morte dell'agente Marino mette in discussione la convinzione, molto diffusa a sinistra, che ci sia una sorta di connivenza tra estremisti di destra e forze dell'ordine.
Roma 16 aprile 1973: il rogo di Primavalle. Tra gli innumerevoli fatti di sangue che contraddistinguono questa stagione politica uno su tutti esprime l'aberrazione a cui si può arrivare in nome dell'odio ideologico: il rogo di Primavalle. A Roma nella notte del 16 aprile un commando di Potere Operaio si dirige verso Via Bibbiena nel quartiere popolare di Primavalle dove abita la famiglia di Mario Mattei, netturbino e segretario della sezione locale del Movimento Sociale Italiano. Al terzo piano, sotto la porta dell'appartamento, vengono versati diversi litri di benzina e viene quindi appiccato il fuoco: restano intrappolati nelle fiamme i figli di Mattei, Virgilio, di 22 anni, e il fratellino Stefano di 10. Viene lasciato un cartello sotto il palazzo: 'Giustizia proletaria è fatta'. Per il rogo di Primavalle vengono condannati con sentenza definitiva Achille Lollo, Manlio Grillo e Marino Clavo, esponenti di Potere Operaio, tutti fuggiti all'estero. Nel febbraio del 1975 si apre il processo per il rogo di Primavalle: il 28 febbraio nelle zone limitrofe al Tribunale di Roma, in Piazzale Clodio, scoppiano violenti scontri tra giovani di destra e di sinistra. A Piazza Risorgimento viene assassinato lo studente greco fuorisede del FUAN, Mikis Mantakas. La condanna è caduta in prescrizione il 28 gennaio 2005. Nel febbraio del 2005 la procura di Roma ha deciso di riaprire il caso. Le fiamme del rogo di Primavalle dimostrano che si è innescata una degenerazione senza limiti né tabù (come nel film Arancia Meccanica uscito proprio in quegli anni, 1971). Inizia a dilagare di un odio inarrestabile tra le opposte fazioni.
Dopo Piazza della Loggia, l'antifascismo militante. La mattina del 28 maggio 1974 una bomba nascosta in un cestino portarifiuti esplode sotto i portici di Piazza della Loggia a Brescia: è in corso una manifestazione antifascista indetta dai sindacati. L'attentato, rivendicato da Ordine Nero, provoca 8 morti e più di 90 feriti. Dopo la strage di Piazza della Loggia si avvia una campagna che chiede la messa al bando del MSI; si inaugura così una delle stagioni più funeste, ossia quella dell'antifascismo militante. Afferma Marco Boato, deputato dei Verdi, ex dirigente di Lotta Continua: «E' successo che una dimensione assolutamente condivisibile, quella dell'antifascismo - l'Italia è una repubblica nata sull'antifascismo, dalla Resistenza - è diventata una dimensione di scontro di piazza, anche ad un livello individuale assolutamente degenerato.»
Le leggi speciali. Di fronte a un ordine pubblico messo sempre più a rischio il Parlamento approva nel 1975 le cosiddette "leggi speciali": si tratta della cosiddetta 'legge Reale' (dal nome del Ministro che l'ha redatta, il repubblicano Oronzo Reale), che autorizza la polizia a sparare in caso di necessità e la misura del fermo di 48 ore. La legge risponde al desiderio di protezione e sicurezza dei cittadini. Approvata a grande maggioranza dall'opinione pubblica, viene sottoposta a referendum l'11 giugno 1978: il 23,5% vota per l'abrogazione, il 76,5% per il mantenimento. Nel 1978 segue l'istituzione di corpi speciali con finalità antiterrorismo: il GIS (Gruppo Intervento Speciale) dei Carabinieri ed il NOCS (Nucleo Operativo Centrale di Sicurezza) della Polizia. Nel 1980 viene emanata la cosiddetta "legge Cossiga" (legge n. 15 del 6 febbraio) la quale prevede condanne sostanziali per chi venga giudicato colpevole di "terrorismo" ed estende ulteriormente, secondo alcuni in modo incostituzionale, i poteri della polizia. Anche questa legge viene sottoposta ad un referendum, tenuto il 17 maggio 1981: l'85,1% si esprime per il mantenimento, il 14,9% per l'abrogazione.
Il 1977: una nuova stagione di contestazione. Nel 1977 una nuova grande contestazione nasce dalle università. Ma, diversamente dal '68, esplode con violenza. Dopo la morte dello studente Francesco Lorusso a Bologna (11 marzo 1977), si allarga l'area della rivolta armata, nei cortei compaiono le P38 e le bombe molotov; negli scontri a Milano, Torino e Roma fanno la loro parte anche gli agenti delle squadre speciali. Il movimento del Settantasette è una galassia politica e culturale variegata che va dall'ironia dadaista degli 'indiani metropolitani', alle rivendicazioni delle femministe, alle provocazioni dell'autonomia creativa fino alle provocazioni violente dell'autonomia organizzata. Nascono le radio libere: Radio Alice a Bologna, Radio Sherwood a Padova, Radio Città Futura a Roma. Sostiene Marco Boato: «Il '77 è il secondo ciclo di un grande movimento collettivo che si verifica nel nostro paese all'interno del quale si scontrano due anime. Un'anima che potremmo definire creativa quasi di rinnovamento di costumi, di valori, di espressioni, fortemente innovativa, e un'anima violenta, alla fine è prevalsa questa seconda». Un elemento scatenante di questa nuova svolta violenta è anche la delusione della prova elettorale della sinistra extraparlamentare nelle elezioni del 20 giugno 1976, sotto il cartello elettorale di Democrazia Proletaria (raggiunge solo l'1,51 %, 556.022 voti). In molti si convincono che l'unica strada è quella della lotta armata, mentre altri si rifugiano nel privato e si comincia a parlare di riflusso.
Walter Rossi (30 settembre 1977). L'episodio più eclatante in questi anni è l'uccisione a Roma dello studente Walter Rossi. È il 30 settembre 1977, nel quartiere Balduina un gruppo di giovani di sinistra sta distribuendo volantini per protestare contro il ferimento, avvenuto la sera prima a Piazza Igea, di una compagna, Elena Pacinelli 19 anni, colpita da tre proiettili. In Viale Medaglie d'oro i compagni di Elena, dopo aver subito un'aggressione con sassi e bottiglie partita dalla vicina sede del MSI, vedono un blindato della polizia avanzare lentamente verso di loro, seguito da un gruppo di fascisti che lo utilizza come scudo. Due persone si staccano dal gruppo e fanno fuoco contro i giovani di sinistra. Walter Rossi, 20 anni, militante di Lotta Continua è colpito alla nuca: gli agenti si scagliano su chi tenta di soccorrerlo. I compagni del ragazzo pregano gli stessi agenti di chiamare qualcuno, un'ambulanza: «Non abbiamo la radio, non possiamo fare nulla», si sentono rispondere. I colpevoli saranno individuati anni dopo in Alessandro Alibrandi e Cristiano Fioravanti. Fioravanti attribuisce ad Alessandro Alibrandi il colpo mortale, ma in seguito alla morte di quest'ultimo in uno scontro a fuoco con la polizia (5 dicembre 1981) il procedimento penale viene archiviato. Fioravanti è condannato a nove mesi e 200 mila lire di multa, solo per i reati concernenti le armi. L'uccisione di Walter Rossi è un segno che anche l'estrema destra sta cambiando.
7 gennaio 1978: la strage di Via Acca Larentia. Sul finire degli anni Settanta lo spontaneismo armato trascina anche la destra nella galassia del terrorismo A scatenarlo un triplice omicidio che avrà un effetto devastante su tutta la destra italiana: l'eccidio di Acca Larentia. Sono le ore 18,20 e alcuni ragazzi stanno uscendo dalla sede del Movimento Sociale in Via Acca Larentia numero 28, al quartiere Tuscolano di Roma, quando una raffica di mitra Skorpion uccide Francesco Ciavatta, di 18 anni e Franco Bigonzetti di 19. Alcuni mesi dopo la strage, il padre di Ciavatta, operaio, si suicida per la disperazione gettandosi dalla finestra della sua casa in Piazza Tuscolo. Il duplice omicidio viene rivendicato in una maniera inusuale, mediante una cassetta audio fatta ritrovare accanto ad una pompa di benzina: la voce contraffatta di un giovane, a nome dei Nuclei Armati per il Contro potere Territoriale, dice: Ieri alle 18.30 circa, un nucleo armato, dopo un'accurata opera di controinformazione e controllo della fogna di via Acca Larentia, ha colpito i topi neri nell'esatto momento in cui questi stavano uscendo per compiere l'ennesima azione squadristica. Da troppo tempo lo squadrismo insanguina le strade d'Italia coperto dalla magistratura e dai partiti dell'accordo a sei. Questa connivenza garantisce i fascisti dalle carceri borghesi, ma non dalla giustizia proletaria, che non darà mai tregua. I due giovani missini sono stati uccisi con quella stessa mitraglietta Skorpion che dieci anni dopo, nel 1988, sarà utilizzata in altri tre omicidi, firmati dalle Brigate rosse: quelli dell'economista Ezio Tarantelli, dell'ex sindaco di Firenze Lando Conti e del senatore Roberto Ruffili. La sera stessa del duplice omicidio, davanti alla sezione di via Acca Larentia scoppiano violenti scontri tra militanti di destra e forze dell'ordine: sembra che un giornalista RAI per sbaglio abbia gettato un mozzicone di sigaretta su una chiazza di sangue: il gesto, interpretato come un segno di disprezzo, infiamma gli animi e fa scoppiare il finimondo. Un tenente dei carabinieri fa fuoco ad altezza uomo e uccide Stefano Recchioni, 19 anni. Il bilancio è tremendo: tre ragazzi di destra uccisi, due dai comunisti, uno dallo Stato. Per molti è la prova di essere soli, contro tutti; scatta la molla della vendetta e della violenza fine a se stessa, non supportata da alcun preciso disegno politico. «È una violenza confusa e irrazionale, priva di programma, velleitaria quella che va organizzandosi dopo Acca Larentia. La scorciatoia della lotta armata si apre quasi da sola: nasce una sigla, quella dei NAR, Nuclei Armati Rivoluzionari, che non diventerà mai una vera e propria organizzazione di lotta armata, ma resterà soltanto una sigla a disposizione, una sigla che può usare chiunque abbia voglia di combattere il suo senso di impotenza e di incertezza» (da Baldoni A., Provvisionato S., op. cit., p. 253). Dalla deposizione di Francesca Mambro alla Seconda Corte d'assise d'appello di Bologna: «Acca Larentia segna il momento in cui la destra, i fascisti a Roma, hanno uno scontro armato violentissimo con le forze dell'ordine. Per la prima volta e per tre giorni, i fascisti romani spareranno contro la polizia. E questo segnò ovviamente un punto di non ritorno. Anche in seguito, per noi che non eravamo assolutamente quelli che volevano cambiare 'il palazzo', rapinare le armi ai poliziotti o ai carabinieri, avrà un grande significato. Che lo facessero altre organizzazioni era normale, il fatto che lo facessero i fascisti cambiava le cose di molto, perché i fascisti fino ad allora erano considerati il braccio armato del potere costituito. E poi diventerà anche un momento di prestigio» (udienza del 17 novembre 1989).
I NAR sono una delle 177 sigle che praticano la lotta armata nel 1978; l'anno dopo saranno 215, ma questo è terrorismo, ed è un'altra storia.
L'estremismo di sinistra. Dalla relazione della Commissione Parlamentare sul Terrorismo. Documento aggiornato al 24/02/2006 da Archivio 900. Nella seduta del 23 ottobre 1986 la Camera dei Deputati, approvando una proposta del deputato Zolla deliberò di istituire una Commissione parlamentare d'inchiesta per accertare, in relazione ai risultati della lotta al terrorismo in Italia, le ragioni che avevano impedito l'individuazione dei responsabili delle stragi verificatesi a partire dal 1969. Si era appena concluso il quindicennio terribile ('69-'84) che la Commissione fa oggetto della sua considerazione di insieme e nel quale il nostro Paese aveva conosciuto tensioni sociali estreme, tali da porre in discussione la stessa tenuta delle istituzioni democratiche. Altissimo era stato il numero degli attentati e degli episodi di violenza dichiaratamente ispirati da ragioni politiche o comunque immediatamente percepiti come tali dall'opinione pubblica ed alto il prezzo di sangue che il paese aveva pagato: nel periodo più acuto della crisi, e cioè dal 1969 al 1980, trecentosessantadue morti e quattromilaquattrocentonovanta feriti, di cui rispettivamente centocinquanta e cinquecentocinquantuno attribuibili ad episodi di strage lungo l'arco che lega l'attentato di Piazza Fontana a Milano nel dicembre del 1969 a quello della stazione di Bologna nell'agosto del 1980 (114). La risposta dello Stato era stata complessivamente ferma, le istituzioni democratiche avevano tenuto, i terrorismi di opposta matrice politica sostanzialmente disvelati e sconfitti. Tuttavia gli autori degli episodi di strage erano rimasti impuniti; da ciò la determinazione parlamentare di cui innanzi si è detto con la quale si è aperta una vicenda istituzionale che la presente relazione ambirebbe concludere, almeno allo stato delle acquisizioni attuali. Significativo appare peraltro che già nel 1986 il Parlamento manifestava di avvertire come le ragioni che avevano impedito l'individuazione dei responsabili delle stragi fossero da porre in relazione ai risultati della lotta al terrorismo in Italia, fossero cioè da individuare nei probabili limiti di una risposta istituzionale che pure nel suo complesso doveva (e deve) ritenersi positiva. E' un approccio che dopo un decennio appare ancora estremamente fondato e che la Commissione ritiene di mantenere fermo nell'analizzare separatamente, appunto dall'angolo visuale della risposta istituzionale, fenomeni che nella realtà storica del periodo ebbero compresenza ed ambiti di reciproca influenza: e cioè, da un lato, l'estremismo ed il terrorismo di sinistra, dall'altro, l'estremismo ed il terrorismo di destra. E ciò al fine di cogliere per entrambi nella risposta istituzionale identità o differenze di risultati e di limiti. Tutto ciò nella ribadita avvertenza che tale approccio analitico può apparire utile a disvelare insieme - e cioè in termini di una coincidenza almeno parziale - le ragioni dello stragismo e le ragioni della mancata individuazione delle relative responsabilità.
Sulla base di queste scelte di metodo è quindi possibile comprendere perché, nell'ordine espositivo, appaia opportuno affrontare innanzitutto l'analisi dell'eversione e dell'estremismo di sinistra, atteso che più diretta ne appare la connessione con due fenomeni che determinarono la grande tensione sociale che segnò il finire degli anni '60 e cioè la contestazione studentesca, da un lato, la protesta operaia e sindacale, dall'altro. Sul punto alla riflessione della Commissione due appaiono i dati che meritano di essere preliminarmente sottolineati. La riflessione storiografica sul partito armato, che ampiamente utilizza le fonti derivanti dall'analisi giudiziaria del fenomeno e dalla ormai imponente memorialistica dei principali attori di quella fosca stagione, consente di ritenere ormai acquisito che la lotta armata sia stata un derivato della storia della sinistra italiana, in particolare della sinistra di ispirazione marxista, per quanto riguarda l'ideologia, gli orientamenti, i progetti ed anche per quanto riguarda parziali insediamenti sociali. Sul punto non sembra ormai possibile nutrire dubbi di qualche fondatezza, giovando semmai segnalare i ritardi con cui fu percepita la reale natura di un fenomeno che, malgrado la sua natura clandestina, solo in parte ebbe carattere occulto nel suo svolgimento. In realtà le motivazioni politiche e gli obiettivi che il "partito armato" si proponeva furono resi sempre immediatamente conoscibili, sicché è il ritardo di percezione che potrebbe oggi assumere rilievo in una prospetti va critica, (attivando una problematica che merita di essere risolta), una volta che appare ben difficile ricondurre quel ritardo esclusivamente ai fenomeni di rimozione collettiva, che pure vi furono in ampi strati della pubblica opinione politicamente orientata a sinistra. Analogamente indubbio è che originariamente il movimento di contestazione studentesca, che prese il nome dal "sessantotto", non aveva come componente prevalente un progetto rivoluzionario di ispirazione marxista mediante lo strumento della lotta armata. Il movimento ebbe in realtà basi culturali non diverse da forme anche intense di protesta giovanile che in ambito occidentale si erano manifestate anni prima. Ovvio è il riferimento ai moti universitari statunitensi del 1964 e ad analoghe esperienze francesi, tedesche e inglesi degli anni successivi. I modelli culturali iniziali, solo latamente politici, (gli hippies, i figli dei fiori, i Beatles, la "contestazione", come venne definita, di stili di vita "borghesi", i primi contatti con le culture orientali, una maggiore libertà nei rapporti familiari e sessuali) erano ben diversi da quelli che avrebbero assunto dominanza nella radicalizzazione successiva ed esprimevano una aspirazione intensa quanto confusa ad un modello alternativo di società, più libera, meno stratificata e massificante. Non a caso nell'originaria atmosfera culturale il filosofo più letto era Marcuse (e non Marx) ed alimentava una protesta genericamente antiautoritaria, che nell'ambito universitario investiva innanzitutto il potere accademico. Con tali caratteri non può sorprendere che la spinta che alimentava la protesta giovanile, mentre profondamente incise sui costumi sociali liberalizzandoli, non seppe trovare uno sbocco politico; rapidamente quindi, almeno come movimento di massa, sfilacciandosi ed esaurendosi. Questa fu la tendenza in altre nazioni dell'Occidente che conobbero il fenomeno. Non così in Italia dove l'intrecciarsi dei moti studenteschi con le tensioni sindacali ed operaie che caratterizzarono il medesimo periodo, determinò un naturale terreno di cultura per una radicalità politica, già propria di gruppi sorti nel periodo precedente ma rimasti sino a quel momento sostanzialmente quiescenti e non operativi, che furono indicati da subito come sinistra extraparlamentare per l'assenza di un riferimento istituzionale in partiti rappresentati in Parlamento, ma anche perché intrisi di valori di fondo non coerenti con i principi della democrazia parlamentare. Il passaggio decisivo alla estremizzazione dello scontro sociale e quindi alla lotta armata può individuarsi in due eventi che segnano il tardo autunno del 1969. Il primo è lo sciopero generale proclamato dai sindacati per il 19 novembre 1969, che indicono a Milano un comizio al Teatro Lirico al centro della città, dove il sovrapporsi alla protesta sindacale di un corteo organizzato da formazioni di sinistra extraparlamentare a prevalente componente studentesca, determinò i disordini in cui morì Antonio Annarumma. Il secondo, sempre a Milano, è la strage di piazza Fontana di cui ampiamente ci si occuperà in pagine seguenti, ma della quale vuol qui sottolinearsi il carattere di spartiacque, che fortemente incide sull'esplodere della violenza successiva. Vuol dirsi cioè che nel "partito armato", dove le due componenti studentesca e operaista continueranno a lungo a convivere, fu percepibile almeno nella sua fase iniziale anche una ulteriore componente che potrebbe definirsi latamente "resistenziale", (si pensi, come esempio certamente non esaustivo all'esperienza individuale di Giangiacomo Feltrinelli, che giustificava la scelta dell'organizzazione armata e clandestina, con la necessità di contrastare un golpe autoritario e militare ritenuto imminente); anche se va riconosciuto che tale aspetto scemò nell'evoluzione successiva, a mano che un disegno sempre più segnatamente rivoluzionario e quindi antidemocratico venne a delinearsi.
La storia del partito armato, come si è già accennato, è ormai nota, perché ricostruita con sufficiente compiutezza dalla indagini giudiziarie e dalla stessa memorialistica dei suoi protagonisti. Sicché superfluo appare ripercorrerne sia pur sinteticamente le tappe, se non al fine di articolare intorno alle fasi della sua evoluzione, il giudizio che la Commissione ritiene compito suo proprio in ordine all'efficacia e ai limiti dell'azione di contrasto che al partito armato fu opposta dagli apparati istituzionali dello Stato. In tale prospettiva, ciò che colpisce allo stato attuale della riflessione è la sostanziale fragilità ed insieme il carattere di relativa segretezza che denunziano nella fase della loro costituzione i vari gruppi eversivi di sinistra, sì da fondare l'avviso meditato che una più ferma ed accorta risposta repressiva immediata avrebbe potuto almeno limitare l'alto prezzo di sangue che il paese pagò negli anni successivi.
Quanto alla fragilità e cioè alla ridotta capacità offensiva, sul piano di una lotta armata, dei vari gruppi eversivi che, pur tra notevoli diversità, costituirono nel loro insieme il "partito armato", sarà sufficiente il richiamo ad alcuni episodi che possono dirsi esemplari. Il primo organico tentativo fatto da una personalità di rilievo avente a disposizione molte risorse e molti legami internazionali, l'editore Giangiacomo Feltrinelli, si conclude tragicamente in un disastro, denunciante, per le sue modalità, improvvisazione e velleitarismo, portando rapidamente alla dissoluzione dei pochi nuclei che si erano costituiti. Altrettanto evidente è la fragilità di tentativi come quello della "Barbagia Rossa" in Sardegna o dei "Primi fuochi di guerriglia" in Calabria. Ed ancora: il 25 gennaio 1971 otto bombe incendiarie vengono collocate su altrettanti autotreni fermi sulla pista di Linate dello stabilimento Pirelli, solo tre, però esplodevano, non le altre cinque perché difettose. L'impreparazione è confessata nel volantino di rivendicazione, che commenta: "Sbagliando si impara. La prossima volta faremo meglio". L'11 marzo 1973, a Napoli, il militante dei N.A.P., Giuseppe Vitaliano Principe, è ucciso dall'esplosione di un ordigno che sta preparando, mentre rimane gravemente ferito Giuseppe Papale. Il 30 maggio dello stesso anno un altro militante dei NAP Giuseppe Taras è ucciso dall'esplosione dell'ordigno che sta preparando sul tetto del manicomio giudiziario di Aversa. D'altro lato le stesse Brigate Rosse nel documento teorico del settembre 1971 devono constatare "lo stato di impreparazione in cui si trovano le forze rivoluzionarie di fronte alle nuove scadenze di lotta".
A tale iniziale scarsa potenzialità offensiva, che alla luce dei fatti innanzi ricordati appare innegabile, si aggiunge la constatazione altrettanto dovuta del carattere di relativa segretezza e di permeabilità, che i gruppi eversivi denotano nella fase costitutiva e di operatività iniziale. Si pensi al gruppo "22 ottobre", operativo a Genova, che risulta essere stato infiltrato sin dall'inizio da ambigui personaggi tra malavitosi e confidenti della polizia (Adolfo Sanguinetti, Gianfranco Astra, Diego Vandelli). A tale gruppo è attribuibile la prima vittima della lotta armata, il fattorino portavalori dello IACP di Genova, Alessandro Floris, ucciso durante una rapina destinata ad autofinanziamento. Il gruppo (che all'inizio del mese si era inserito in un programma-radio annunciando: "Attenzione proletari, la lotta contro la dittatura borghese è cominciata") dopo la rapina è rapidamente liquidato. Per ciò che concerne il gruppo eversivo di maggior consistenza, e cioè le B.R., basterà rammentare ciò che riferisce Moretti, con riguardo alla fase preliminare di costituzione della struttura, in ordine ad una riunione che nel novembre 1969 si tenne al pensionato Stella Maris di Chiavari per iniziativa del Comitato Politico Metropolitano di cui furono fondatori tra gli altri Renato Curcio e Alberto Franceschini e nel quale erano confluiti Comitati Unitari di base di alcune fabbriche (tra cui la Sit-Siemens, ove operava lo stesso Moretti) e collettivi autonomi costituiti in varie situazioni dalla sinistra extraparlamentare. Riferisce Moretti: "A un certo punto ci accorgiamo che il convegno, pure indetto con una certa riservatezza, è sorvegliato da alcuni poliziotti della squadra politica di Milano: li conoscevamo benissimo, almeno quanto loro conoscevano noi". Esemplare ancora, il modo con cui Franceschini descrive le prime esperienze di clandestinità con riferimento alla situazione della Pirelli; "Ci conosciamo, nome per nome. Eravamo clandestini per modo di dire, stavamo in quella clandestinità di massa, in quella omertà proletaria che copriva tutti i comportamenti illegali. Vanno alla clandestinità obbligata solo quelli che stanno per essere arrestati". E' nota peraltro una deposizione del generale Dalla Chiesa che senza dare indicazioni ulteriori ha lasciato capire che l'opera di infiltrazione soprattutto dell'Arma dei Carabinieri nelle organizzazioni eversive di sinistra era stata quasi permanente e sin dall'inizio. Il dato è stato direttamente confermato alla Commissione nel corso della X legislatura dal generale Giovanni Romeo, ex capo dell'Ufficio "D" del SID: "Abbiamo seguito l'intera problematica del terrorismo in modo molto attento... Quando tutti parlavano di dover affrontare il terrorismo mediante infiltrazioni, il reparto D lo aveva già fatto, ed è per questo che è pervenuto a quei risultati" (il riferimento è ai due arresti di Renato Curcio). "Se questa informazione verrà fuori, molti uomini potranno correre pericoli" (il che esclude che il riferimento fosse a nomi noti come quelli di Girotto e Pisetta). Sono dati che ricevono conferma anche da altre fonti indubbiamente autorevoli. Con riferimento all'infiltrazione iniziale di Girotto ai suoi risultati positivi ma anche alla possibilità non sfruttata di risultati ulteriori, ha scritto il generale Vincenzo Morelli che ha ricoperto vari incarichi di comando nell'Arma dei CC e che dal 1980 al 1982 è stato comandante della I Brigata CC di Torino: "L'arresto di questi due brigatisti era stato infatti deciso ed eseguito in modo frettoloso a causa di sopravvenute difficoltà che minacciavano, di compromettere il confidente; così almeno si disse allora (il corsivo è della Commissione). Secondo alcuni esperti, tuttavia, era questo un rischio che poteva essere corso di fronte alle inderogabili necessità di continuare le indagini: essi suggerivano di non arrestare per il momento i due capi storici delle Brigate Rosse ma di continuare a seguirne i movimenti attraverso quegli elementi scaltri e di fiducia da tempo infiltrati nell'organizzazione eversiva". Appaiono quindi evidenti una serie di indici di una attività informativa fin dall'inizio penetrante ed efficace, che lascia interdetti dinanzi a risultati nell'attività di contrasto, che se non furono scarsi per ciò che in seguito si dirà, non ebbero però quella rapida definitività che lo stato delle informazioni di cui si era in possesso avrebbe potuto consentire. Una spiegazione del fenomeno potrebbe rinvenirsi nella circostanza che i gruppi eversivi, malgrado la loro scarsa organizzazione e la loro relativa permeabilità, trovarono nelle tensioni sociali del periodo (la prima metà degli anni settanta) una notevole capacità di radicamento. Il dato è però ambivalente atteso che, con riferimento alla realta sociale e politica in cui i gruppi venivano a radicarsi, la permeabilità ed il carattere di relativa segretezza divenivano indubbiamente maggiori. Si pensi ad esempio a periodici legali come "Nuova resistenza", che sorge per iniziativa concordata dalle B.R. con Feltrinelli e nel cui primo numero poteva leggersi: "Tutto il lavoro del nostro giornale vuol essere un contributo a sciogliere ostacoli, presentando la pratica, le tesi e le tendenze di quei movimenti di classe che hanno come base comune lo sviluppo della guerriglia, come forma di lotta dominante per la liberazione della classe operaia da ogni sfruttamento". Si pensi all'intera storia di Potere Operaio le cui vicende, se da un lato sono intimamente legate al terrorismo diffuso di Autonomia Operaia, dall'altro appartennero alla vita ufficiale del paese, sì da essere state suscettibili di una piena conoscibilità contestuale al loro svolgimento. Ha scritto riferendosi a Potere Operaio, Giorgio Bocca: "Ogni quattro attivisti di P.O. due sono poliziotti". A tanto può aggiungersi l'indiscutibile patrimonio informativo che deve ritenersi certamente derivato da una attività di contrasto che ha riguardato la confusa nebulosa dell'estremismo di sinistra e che ha conosciuto anche momenti di intensa efficacia; così negli ultimi mesi del 1971, quando hanno luogo "operazioni setaccio" nelle aree metropolitane con centinaia di arresti, migliaia di denuncie, sequestri di un imponente quantità di armi e munizioni. Vuol dirsi in altri termini, che il magma protestatario in cui le B.R. operano il loro radicamento sociale, era agevolmente conoscibile e noto, sì da rendere più severo il giudizio in ordine all'assenza di più intensi risultati nel contrasto al fenomeno eversivo.
Peraltro, sospendendo per ora il giudizio su tali aspetti almeno per alcuni profili inquietanti, va sottolineato come anche in ragione di tale radicamento in realtà sociali diffuse e nel loro complesso eversive, i gruppi clandestini, pur tra ricorrenti insuccessi, (si pensi, oltre a quelli già ricordati, al rapimento Gancia e alla sua sanguinosa conclusione nella cascina Spiotta) ottengano anche clamorosi risultati (i rapimenti Costa e Sossi da parte delle B.R., quello Di Gennaro ad opera dei NAP). Il successo di tali operazioni e le dichiarazioni di alcuni sequestrati (che presentano l'organizzazione delle BR come fortissima e in possesso di informazioni penetranti e globali) alimentano il mito della invincibilità delle BR e l'opinione diffusa che le stesse fossero qualcosa di diverso da ciò che erano e che pubblicamente dichiaravano di essere incentivando quel moto collettivo di rimozione, che già si è segnalato, nella pubblica opinione orientata a sinistra e dando altresì fondamento all'ipotesi che alle spalle delle BR e degli altri gruppi eversivi potesse esservi in Italia o all'estero un'unica centrale (il mito del Grande Vecchio) di direzione e controllo. Sono ipotesi che, per quanto autorevolmente e ripetutamente affacciate, non trovano riscontro in una storia, quella del partito armato, che ormai può ritenersi quasi compiutamente disvelata. Ma soprattutto giova sottolineare come il patrimonio informativo di cui gli apparati di sicurezza erano in possesso già all'epoca dei fatti, era già idoneo a smentire la fondatezza delle ipotesi medesime e a fondare un'azione di contrasto ferma ed efficace.
D'altro canto non vi è dubbio che un tal tipo di risposta vi sia stato; ciò che colpisce è però il carattere altalenante di un'azione repressiva che conosce momenti di forte intensità, inframmezzati a cali di tensione e a bruschi ripiegamenti. Sicchè la valutazione d'insieme che la Commissione ritiene di formulare sul punto è su un carattere di "stop and go" nella risposta istituzionale, carattere che merita di essere investigato e nei limiti del possibile chiarito ai fini di una sua meditata e motivata valutazione. Ed invero può dirsi storicamente accertato che, ad onta della presunta invincibilità delle B.R., fu ben possibile al generale Dalla Chiesa, pochi mesi dopo il clamoroso successo dell'operazione Sossi, infiltrarne addirittura il vertice nel giro di poche settimane (l'infiltrato è padre Girotto detto "frate Mitra") giungendo così all'arresto di due dei capi storici, Curcio e Franceschini, in occasione di un appuntamento al quale sarebbe dovuto intervenire anche Moretti che riesce fortunosamente a sfuggire alla cattura. In pochi mesi, quindi le B. R. sono decapitate, ma è disarmante l'estrema facilità con cui un'operaziona guidata da Margherita Cagol riesce a liberare Curcio dal carcere di Casale Monferrato. Tra il 1974 e il 1976 l'organizzazione appare comunque ridotta ai minimi termini, anche per effetto di una pressione costante delle forze di sicerezza sul vertice delle B.R. che culmina con il nuovo arresto di Curcio e di Nadia Mantovani, Angelo Basone, Vincenzo Guagliardo e Silvia Rossi Marchese, nella base di via Maderno a Milano, il 18 gennaio 1976, cui segue quello di Semeria, il 22 marzo, alla stazione centrale, sempre a Milano. E si è già riferito in ordine alla fonte che consente alla Commissione di ritenere che tali successi costituirono il frutto di una attività informativa dei servizi di sicurezza operata mediante infiltrati diversi dai noti Girotto e Pisetta. Appare quindi davvero singolare che subito dopo sia stato possibile ai pochi brigatisti residui riorganizzare sostanzialmente le proprie forze al fine di determinare un salto qualitativo all'azione eversiva, la quale passa da una fase iniziale che può definirsi di propaganda armata ad una fase successiva di vero e proprio terrorismo di sinistra, che si concluderà soltanto nei primi anni del decennio successivo. Ad un giudizio reso oggi sereno anche dagli anni trascorsi, tale recuperata possibilità dei pochi brigatisti residui di riorganizzarsi, per raggiungere come si vedrà un più elevato livello di aggressività, appare oggettivamente collegabile a scelte operative degli apparati istituzionali assolutamente non condivisibili e di ben difficile spiegabilità. Specifico è il riferimento allo scioglimento del 1975 del nucleo antiterrorismo del generale Dalla Chiesa. Tale scelta appare oggi ancora più grave, alla luce di acquisizioni in base alle quali risulterebbe che i servizi di sicurezza avevano chiaramente percepito che le BR avevano la possibilità di riorganizzarsi attingendo ad un più elevato livello di pericolosità. Già nel giugno del 1976 il settimanale "Tempo" pubblicò le seguenti dichiarazioni di uno dei massimi responsabili dei Servizi, generale Maletti: "Nell'estate del 1975 (...) avemmo sentore di un tentativo di riorganizzazione e di rilancio (delle BR, n.d.r.) sotto forma di un gruppo ancora più segreto e clandestino, e costituito da persone insospettabili anche per censo e per cultura, e con programmi più cruenti. (...) Questa nuova organizzazione partiva col proposito esplicito di sparare, anche se non ancora di uccidere. (...) Arruolavano terroristi da tutte le parti e i mandati restavano nell'ombra, ma non direi che si potessero definire di sinistra". Lo stesso Maletti, in un'intervista successiva, dichiarò: "Già nel luglio del 1975 inviai un rapporto al Ministro dell'Interno che allora era Gui, per avvertirlo che d'ora in poi gli eversori avrebbero inaugurato la tecnica dell'attentato alla persona, in particolare quella della sparatoria alle gambe".
Ed invero solo nel 1976 le B.R. alzano il tiro ponendo l'omicidio politico a fine dichiarato della propria azione. Episodi omicidiari precedenti, infatti, come l'uccisione di due militanti dell'M.S.I. a Padova, furono eventi volontari ma non premeditati. Soltanto alla vigilia delle elezioni politiche del 1976, le BR per la prima volta sparano per uccidere: la vittima è il Procuratore della Repubblica di Genova, coco, (che era considerato il responsabile del mancato avviarsi delle trattative al momento del sequestro Sossi) e due uomini di scorta. Che si fosse in presenza di un'evoluzione e quindi di una seconda fase del gruppo eversivo non può ormai revocarsi in dubbio. Ciò è pacificamente riconosciuto dagli stessi protagonisti della lotta clandestina. "Nel corso del 1976, l'impianto organizzativo subisce una trasformazione radicale, che non resterà senza conseguenze nel dibattito interno. Questa trasformazione costituisce una vera e propria seconda fondazione delle BR, in seguito alla quale tutti i comparti e tutte le attività dell'organizzazione vengono ripensati entro lo schema di una impostazione che mette al centro l'attacco al cuore dello Stato". Sorprende che un simile ambizioso ed estremo programma sia nutrito da un gruppo terroristico ridotto a poche unità e fortemente provato, come oggi riconosce parlando di sé. Lauro Azzolini dichiara a un giornalista; "Dopo Sossi, dopo la Spiotta, dopo la caduta di tanti compagni, con le forze regolari ridotte a quindici persone, Moretti, Bonisoli ed io facemmo una lunga riflessione e arrivammo a questa alternativa; qui, o questa guerra la facciamo sul serio, o tanto vale piantarla. Qui o ci mettiamo in testa di vincere, o siamo vinti in partenza. E' il fronte logistico che diventa il vero centro dell'organizzazione, e lì ci siamo noi, Moretti, Bonisoli ed io. La direzione strategica perde ogni importanza". E il giornalista che riceve tale dichiarazione ritiene di commentarla così: "I fondatori delle B, i capi storici, dicono che l'esperienza era esaurita nel 1975. E allora perché continuare per altri sette anni? Perché strascinamento e involuzione militarista sono l'effetto di una crisi sociale ed economia che si trascina: è la tesi fondamentale della nostra ricerca. La storia non si scrive con i se, ma come ipotesi si può dire che, se fra il '75 e il '76 non fosse ripartita l'eruzione sociale, la guerriglia urbana sarebbe probabilmente finita lì". E' valutazione che la Commissione ritiene solo in parte da condividere. E' pur vero infatti che le forti tensioni sociali che riesplodono nel Paese con il movimento del 1977 diedero nuova linfa all'estremismo terroristico. Ma è altrettanto vero, da un lato, che l'eruzione sociale segue di circa un anno il momento riorganizzativo delle BR, dall'altro che la successione storica degli eventi nello spazio temporale considerato denuncia momenti di forte debolezza e quasi di stallo nella risposta istituzionale dello Stato. Attribuire tutto ciò a meri fenomeni disorganizzativi sarebbe già grave nella prospettiva del giudizio storico politico che alla Commissione compete. E per altro anche un simile giudizio non può pienamente apparire satisfattivo, perchè contrastato dai notevoli successi del periodo precedente, consentiti anche dal cospicuo patrimonio informativo sul fenomeno di cui gli apparati di sicurezza erano in possesso.
Certo sul piano dell'oggettività storica non soltanto dal 1975 in poi le nuove BR (sostanzialmente rifondate) sotto la direzione di Moretti ed articolate soprattutto nelle due colonne di Genova e di Roma (la prima con un insediamento sociale di tradizione operaia, la seconda di tipo giovanile studentesco) appaiono abbastanza diverse da quelle del periodo di propaganda armata, ma subiscono per alcuni anni un'azione di contrasto abbastanza evanescente. Sul punto non può non sottolinearsi, tra l'altro, che alcuni dei protagonisti di sanguinosi eventi immediatamente successivi erano stati addirittura arrestati e poi rilasciati (come Morucci) o erano riusciti ad evadere (come Gallinari). E' in questa situazione che l'eruzione del movimento del '77 innalza in maniera esponenziale le possibilità di insediamento sociale dei gruppi terroristici. Il movimento ha una precisa data di nascita: il 1° febbraio 1977, quando durante scontri tra studenti di sinistra e di destra a Roma, nell'aula magna di Statistica (occupata) viene ferito alla testa da un colpo di pistola lo studente di sinistra Guido Bellachioma. I gruppi dell'ultrasinistra replicano con quella che definiscono "una risposta di massa" - nella quale, in un primo momento, hanno un ruolo gli "indiani metropolitani", più folcloristici che violenti - con l'occupazione dell'università, sino agli scontri col servizio d'ordine che protegge Lama, (sono in prima fila i futuri brigatisti Emilia Libera e Antonio Savasta). E' da tale area ribollente di protesta e conflittualità sociale che affluiscono alle BR centinaia di militanti, parte "regolari", parte no, che farà loro superare la stagnazione dl '76, col solo segnale nazionale - a Genova - che ora si spara per uccidere. Dirà Morucci: "A un certo punto c'è stata in Italia un'area di circa 200 mila giovani che è passata al comunismo marxista per mancanza di alternativa" (intervista a "il Giorno", 26 aprile 1984). Le BR divengono così il punto di riferimento di una parte dell'eredità (marxista-leninista oltreché anarco-libertaria) della sinistra italiana, alla quale si rivolgeranno centinaia di militanti che dai comportamenti collettivi ribelli che coinvolgono decine di migliaia di giovani (dai cortei che scandiscono: "Attento poliziotto è arrivata la compagna P38") passano alla pratica delle armi. Ciò non può essere storicamente dimenticato per negare di tali fenomeni la reale e dichiarata natura. Ma altrettanto impossibile è negare che nella fase la risposta dello Stato appare complessivamente deludente, per giungere a risultati di grottesca inefficienza nei giorni drammatici del sequestro Moro, che saranno oggetto in seguito di un'analisi separata e che tuttavia si situano in tale panorama complessivo, in cui viene a collocarsi il sorgere di un nuovo soggetto della lotta armata che del movimento del '77 deve ritenersi il più tipico prodotto: Prima Linea.
Anche per tale formazione terroristica, come già per le BR e forse in maniera più intensa, risalta alla riflessione della Commissione una notevole permeabilità e quindi conoscibilità già nella fase fondativa, che suscita forti perplessità intorno ai limiti dei risultati conseguiti nell'azione di contrasto immediato da parte degli apparati istituzionali di sicurezza pubblica. Prima Linea nasce infatti da un vero e proprio congresso costitutivo a San Michele a Torre presso Firenze nell'aprile 1977 e preceduto da riunioni a Salò e Stresa dell'autunno '76, promosse dalle componenti più estreme di una formazione extraparlamentare notissima e che non aveva in sé nulla di clandestino: "Lotta continua". PL costituisce quindi una sostanziale evoluzione dei cosiddetti "servizi d'ordine" di LC, con abitudine alla violenza e presenza riconosciuta sul territorio; A Milano, Torino, Bergamo, Napoli, in Brianza, a Sesto San Giovanni. "Prima Linea non è un nuovo nucleo combattente comunista, ma l'aggregazione di vari nuclei guerriglieri che finora hanno agito con sigle diverse", come può leggersi nel volantino che rivendica la prima clamorosa azione del nuovo soggetto della lotta armata, l'irruzione nella sede dei dirigenti FIAT a Torino, il 30 novembre 1976. La trasparenza della fase costitutiva non sembra quindi essere discutibile, se è vero che a San Michele a Torri viene approvato uno statuto: al vertice vi è una "conferenza di organizzazione", di fronte alla quale il comando nazionale deve rispondere del proprio operato. Vengono costituiti un settore tecnico logistico e uno informativo, ma quella che pesa è la struttura armata, che va dalle "ronde proletarie", ai "gruppi di fuoco" (che possono anche decidere le azioni) alle "squadre di combattimento" (che si limitano ad eseguirli). Ancora una volta è la stessa memorialistica dei protagonisti a dar conto di un livello di clandestinità davvero esile. "I sergenti (dei servizi d'ordine), noti a tutti (come Chicco Galmozzi, arrestato nel marzo '76 dopo un'allegra serata con cibi e liquori espropriati), potevano entrare alla mensa della Marelli (a Sesto) e sedere ammirati, come i moschettieri del re, al tavolo delle impiegate". Ed ancora Pietro Villa (uno dei fondatori) ricorda: "A Salò abbiamo discusso praticamente in pubblico. A Firenze ci trovavamo in una cascina (S. Michele a Torri), ma alla sera io e i compagni milanesi tornavamo in città per dormire in albergo, figurati che clandestinità. 'Senza tregua' (rivista legale sotto il cui striscione i militanti sfilavano nei cortei) esibiva le armi e scandiva 'Basta parolai, armi agli operai', senza subire conseguenze". Appare in proposito esemplare la vicenda del gruppo che si articolare intorno alla redazione di tale rivista. Il gruppo di Torino, guidato da Marco Donat Cattin (figlio del ministro DC Carlo) con nome di battaglia di "comandante Alberto", compie un'irruzione nel centro studi Donati (della DC e proprio della corrente di Carlo Donat Cattin), nel corso della quale una componente del commando, Barbara Graglia, perde ingenuamente un paio di guanti facilmente a lei collegabili: recano infatti il numero di matricola 236 delle allieve del collegio del Sacro Cuore. Durante una perquisizione del suo alloggio vengono trovati manifestini dal titolo “Costruiamo i comitati comunisti per il potere operaio”, che esprimono la necessità della guerra civile, ciclostilati in via della Consolata 1 bis, la vecchia sede di Potere operaio, intestata ora al centro Lafargue dove viene redatto il periodico 'Senza tregua'. Con Barbara Graglia frequentano la sede Marco Scavino, che è stato dirigente di Potere ope raio - possiede lui le chiavi dell'appartamento -, Felice Maresca, un operaio della Fiat, Valeria Cora, Marco Fagiano, Carlo Favero e una ottantina di giovani provenienti da Potere operaio e da Lotta continua. Vuol dirsi cioè, come ormai più volte sottolineato in sede saggistica, che con riguardo a Prima Linea si accentuano i due caratteri già innanzi sottolineati con riferimento alle BR dopo la fase rifondativa del 1975 e cioè: da un lato l'ampiezza dell'insediamento sociale, dall'altro nella risposta dello Stato, forti elementi di colpevole sottovalutazione e comunque di notevole debolezza. E' un giudizio già più volte formulato con argomentazioni che alla Commissione paiono sostanzialmente condivisibili, stante la esemplarità di episodi e sequenze oggettive. Leader come Galmozzi, Borelli, Scavini sono arrestati nel maggio '77, appena costituita l'organizzazione con statuto, ma tornano in libertà. Baglioni viene liberato mentre è in corso il sequestro Moro; Rosso e Libardi subito dopo. Marco Donat Cattin svolge tranquillamente il suo lavoro di bibliotecario, presso l'Istituto Galileo Ferraris, prendendo regolari permessi per partecipare alle azioni armate. In una di queste, in vista del processo di Torino alle Br, Prima linea uccide il maresciallo Rosario Berardi, uomo di punta dell'antiterrorismo (10 marzo '78) e la rivendicazione telefonica viene addirittura dalla casa dell'on. Carlo Donat Cattin, con relativa registrazione degli inquirenti. Un altro leader di PL, Roberto Sandalo, dalle future clamorose confessioni (marzo 1980), ben noto come "Roby il pazzo", capo del servizio d'ordine di Lotta continua, può frequentare la qualificata scuola allievi ufficiali alpini, ad Aosta, che controlla i curricula; e, come ufficiale, trasporta armi per l'organizzazione.
Non può quindi sorprendere come già nel 1984 e cioè al concludersi della fosca stagione, in sede saggistica fu da più parti avanzata l'ipotesi che sarebbe stato possibile stroncare il terrorismo sul nascere o almeno sin dal 1972 e ridurlo a fenomeno sporadico; e che pertanto la violenza estremistica aveva potuto dispiegarsi impunita per un decennio e il terrorismo rosso svilupparsi pressoché indisturbato fino al delitto Moro, solo in quanto dall'interno degli apparati dello Stato alcune forze avevano preferito lasciare mano libera ad un fenomeno che screditava le forze della sinistra parlamentare e i sindacati, inficiandone la capacità di rappresentanza sociale; o addirittura aveva ritenuto di usare l'estremismo e poi il terrorismo rosso per determinare allarme sociale con esiti politici stabilizzanti. Misurandosi con tale giudizio, come indubbiamente è dovuto, la Commissione osserva che, alla stregua dei dati già esposti, va riconosciuto che una risposta dello Stato all'estremismo di sinistra vi è stata, ha avuto carattere di fermezza ed ha conseguito successo finale. Le forze politiche - anche di sinistra e segnatamente il PCI - furono fermissime nella condanna del terrorismo e nel riaffermare i valori dello Stato democratico nato dalla Resistenza e ostacolarono con successo la possibilità che movimenti eversivi realizzassero un più ampio insediamento sociale. Il Parlamento varò provvedimenti legislativi rigorosi atti a combattere il terrorismo. Ottima fu nel suo complesso la tenuta e la risposta della istituzione giudiziaria, che pagò un doloroso prezzo di sangue in tutte le sue componenti (Bachelet, Alessandrini, Croce). In particolare la magistratura inquirente seppe trovare forme efficaci di conduzione e coordinamento delle indagini, che avrebbero dato positivi risultati anche in anni successivi nel contrasto a forme diverse di criminalità. Una democrazia ancor giovane seppe, nel suo complesso, reggere ad una difficile prova. Tutto ciò è indubbio, ma altrettanto innegabile è che nel corso del tempo la risposta istituzionale degli apparati di sicurezza ha conosciuto l'alternarsi di momenti di fermezza con momenti di minore tensione e di stallo spinti in alcuni casi fino alla colpevole tolleranza; giudizio negativo che ovviamente coinvolge - e sia pure in maniera indiretta - l'azione degli Esecutivi succedutisi nel tempo. Per tali ultimi profili peraltro, oggettività impone di riconoscere che consimili atteggiamenti di colpevole minimizzazione, o di tolleranza, furono presenti anche nel corpo sociale almeno con riguardo alla violenza diffusa e si accompagnarono ad una ritardata presa di coscienza della reale natura di un terrorismo, cui a lungo ci si intestardì ad attribuire "colore politico" diversa da quello palese e palesemente dichiarato. Si pensi con riferimento all'opinione pubblica orientata a sinistra al peso della coscienza di una affinità di matrice culturale, ai riflessi, a volte inconsci, dell'antica diffidenza verso lo Stato e di miti rivoluzionari non ancora superati che indicevano spesso ad atteggiamenti di comprensione verso i gruppi estremisti, a volte anche al fine di tentarne il recupero politico. Si pensi ancora, in termini più generali e con particolare riferimento alla vicenda di Prima Linea, a quanto la collocazione in fasce medio-alte di molti dei suoi protagonisti abbia influito nel determinare in ampi settori del ceto dirigente un atteggiamento minimizzante che caratterizzò anche specifici episodi giudiziari. Esemplari in tal senso possono ritenersi:
- da un lato, nella sua drammaticità, la vicenda della famiglia Donat Cattin, che vedeva riuniti al suo interno un Ministro della Repubblica e uno dei capi delle formazioni militari che attentavano al cuore dello Stato; a riprova che per ampi strati della borghesia italiana i moti studenteschi, prima, e la contestazione armata, poi, furono anche un conflitto generazionale, dove "l'uccisione della figura paterna" come via di crescita e di accesso alla maturità, perdeva il suo connotato metaforico per acquisire i caratteri di una tragica realtà quotidiana;
- dall'altro la nota sentenza dell'11 marzo 1979 con cui la Corte di assise di Torino escluse che il Gruppo della Consolata, di cui si è già detto, costituisse una banda armata, e sminuendone la pericolosità, la qualificò come una mera associazione sovversiva per la rudimentalità della sua composizione, per la carenza di mezzi, per l'inefficienza operativa. Sicché giova avvertire fin da ora (in parte anticipando il giudizio conclusivo cui la Commissione ritiene di giungere e ribadendo la scelta di metodo che la Commissione ha operato), che non è soltanto l'altalenanza della risposta (degli apparati di sicurezza) dello Stato in sé considerata a fondare un giudizio valutativo più grave, quanto piuttosto il suo inserirsi in un ben più ampio quadro di riferimento, che oggi è possibile ricostruire pur sempre su base oggettiva come esito di una riflessione complessiva che abbracci l'intero periodo 1969-84 in tutti i suoi aspetti ed insieme valorizzi dati emergenti dalla analisi del periodo anteriore.
Con il sequestro dell'onorevole Moro, la strage degli uomini di scorta, la prigionia e quindi l'uccisione dell'ostaggio, le BR raggiungono il più elevato livello di aggressività e sembrano saper rendere concreto e veritiero il loro disegno di portare un attacco al cuore dello Stato. Pure il sanguinoso esito della vicenda apre all'interno delle BR ferite e contraddizioni ed al contempo svela la sterilità dell'operazione militare nella sua incapacità di raggiungere sbocchi politici ulteriori. In realtà il risultato sperato di un riconoscimento politico viene sfiorato ma non raggiunto, in questo - e solo in questo - dovendosi ritenere efficace la scelta politica di rifiutare l'apertura della trattativa. (Secondo quanto riferito alla Commissione dall'addetto stampa di Moro, dottor Guerzoni è possibile che vi sia stato un intervento della Presidenza del Consiglio sul Pontefice perché il suo elevato appello agli "uomini delle BR" non contenesse un riconoscimento politico seppure in forma larvata). L'apparato istituzionale registra per converso una secca sconfitta, apparendo disarmato e incapace di elaborare vuoi una strategia politica, vuoi una adeguata risposta repressiva. Né vi è dubbio che la totale negatività di risultati nel contrasto al più grave degli atti terroristici del partito armato sia da collegare, come effetto a causa, a decisioni istituzionali del periodo immediatamente anteriore che appaiono inspiegabili al limite della dissennatezza. E' un giudizio che sostanzialmente è stato già espresso in sede parlamentare e che alla Commissione è consentito rafforzare sia per la maggior distanza temporale che oggi separa da quei tragici eventi, sia soprattutto per la maggiore ampiezza di ambito investigativo in cui gli episodi specifici vengono a situarsi. Già nella relazione della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla strage di Via Fani era infatti possibile leggere: "La Commissione non ha potuto avere risposte convincenti sul perché l'Ispettorato antiterrorismo, costituito sotto la direzione del questore Santillo il 1º giugno 1974, sia stato, nel pieno "boom" del terrorismo (gennaio 1978), disciolto, e perché non ne sia stata utilizzata l'esperienza organizzativa ed il personale addetto. [...]. L'Ispettorato antiterrorismo aveva cominciato a costruire una mappa dei movimenti eversivi e a raccogliere informazioni sui singoli presunti terroristi, in una visione unitaria del fenomeno, la sola capace di consentire un corretto apprezzamento e una lotta efficace. [...]. Gli stessi interrogativi la Commissione si è posta in ordine alle esperienze accumulate dal Nucleo antiterrorismo costituito nel maggio 1974 presso il Comando Carabinieri di Torino, che svolse un importante lavoro investigativo ai tempi del seque sto Sossi [...]". Sono perplessità che, come già accennato, possono oggi trasformarsi in una valutazione più marcatamente negativa, considerando come scelte opposte a quelle oggetto di critica determinarono con immediatezza positività di risultati. Ed infatti pochi mesi dopo l'epilogo della vicenda Moro e cioè il 9 agosto 1978 il Presidente del Consiglio Andreotti e i ministro dell'interno Rognoni e della difesa Ruffini, riuniti a Merano, conferiscono a Dalla Chiesa "compiti speciali operativi" nella lotta al terrorismo, sui quali doveva riferire "direttamente al Ministro dell'interno", con decorrenza dal 10 settembre 1978. Il generale Dalla Chiesa ricostruisce il Nucleo antiterrorismo e consegue in poche settimane un risultato di elevato livello, quando nell'autunno del 1978 le forze del Nucleo fanno irruzione nell'individuato covo milanese di via Monte Nevoso. Si tratta in realtà del quartiere generale delle BR dove vengono arrestati due dei cinque membri dell'esecutivo. L'importanza del risultato non viene colta appieno dagli organi di informazione che minimizzano l'episodio quasi che si trattasse dell'arresto di due militanti stampatori dei documenti relativi al sequestro Moro, mentre è sul contenuto di questi che si accentra l'attenzione dell'opinione pubblica, trascurando l'importanza operativa intrinseca del risultato. Ancora una volta quindi le BR denunciano una loro fragilità ed una loro incapacità a resistere veramente ad una azione repressiva condotta con la professionalità e l'efficienza propria degli apparati di sicurezza di uno Stato moderno. La contraddizione con la disarmante inefficienza che ha caratterizzato la risposta istituzionale durante la prigionia di Moro, è evidente. Parrebbe quasi che gli apparati istituzionali che non hanno saputo proteggere Moro né individuarne la prigione né liberarlo, dimostrino una improvvisa efficienza nell'individuare il luogo altrettanto segreto dove erano custodite "le carte di Moro" ed entrarne in possesso, attivando peraltro in ordine all'utilizzazione di tali documenti una vicenda oscura che si snoderà negli anni successivi e che appare oggi - almeno a livello di ipotesi giudiziarie - collegata all'omicidio dello stesso generale Dalla Chiesa. Potrebbe pensarsi che, imboccata una nuova via, ci si avvicini ad un successo finale. Ma ciò non avviene. Per circa tre anni il partito armato continua in una alternanza singolare di successi parziali e di sconfitte altrettanto parziali. Sul piano degli esiti politici alcuni omicidi appaiono addirittura controproducenti, come l'assassinio di Emilio Alessandrini, organizzato da Donat-Cattin all'inizio del 1979 e teorizzato con la singolare affermazione della necessità di colpire i magistrati riformisti perché più pericolosi dei magistrati reazionari; come l'assassinio dell'operaio Guido Rossa, che vanamente le BR tentarono di giustificare affermandone la natura preterintenzionale. Si tratta, come già per l'uccisione di Moro, di fatti che per il partito armato ebbero valenza negativa sotto il profilo propagandistico, perché posero in difficoltà il raggiungimento dell'obiettivo, pure dichiarato, di conseguire più ampi radicamenti sociali. Altri episodi costituiscono invece un indubbio successo come il sequestro del giudice D'Urso, nel corso del quale le BR riescono a piegare lo Stato alla trattativa giungendo ad ottenere che sia la stessa figlia del magistrato a leggere da una emittente radiofoni il testo di un loro comunicato accusatorio. Tuttavia, dopo poche settimane, l'inafferrabile capo delle BR, Mario Moretti, viene catturato all'esito di una banale azione di infiltrazione ad opera della pubblica sicurezza; ciò a conferma di una permanente fragilità dello stesso vertice operativo dell'organizzazione terroristica. Ma ancora una volta il colpo decisivo non viene sferrato e le BR seppur divise (si autonomizza a Milano la Brigata Walter Alasia, che aveva come punto di riferimento sociale l'Alfa Romeo; alcuni dei suoi componenti erano anche nel consiglio di fabbrica), seppur distinte (l'ala cosiddetta movimentista, che dovrebbe far capo a Senzani, che poi diventerà il partito della guerriglia, e l'ala cosiddetta militarista), e seppure prive del leader che le aveva guidate per dodici anni, il Moretti appunto, mettono a segno nel giro di pochi mesi quattro rapimenti: Sandrucci, dirigente dell'Alfa a Milano; Taliercio, dirigente del Petrolchimico; Roberto Peci, fratello di Patriz io, uno dei grandi pentiti, nell'estate del 1981; l'assessore democristiano Ciro Cirillo. In tale ultimo episodio non solo lo Stato è piegato alla trattativa ma questa ultima ha disvelato con il tempo un torbido retroscena del rapporto tra terrorismo, servizi di sicurezza e malavita organizzata. Di fatto in cambio di denaro e di reciproci favori fra la malavita e il terrorismo, Cirillo sarà rilasciato in luglio.
Ma ormai un nuovo decennio è iniziato; e la situazione sociale del Paese è profondamente mutata. La ristrutturazione industriale della fine del decennio ha profondamente mutato il mondo delle fabbriche e la stessa condizione del lavoro dipendente venendo così meno, o almeno fortemente attenuandosi, la possibilità di un radicarsi in quel mondo dell'azione politica dei gruppi estremisti e di elementi della protesta giovanile e della contestazione studentesca. Il mutamento sociale e le difficoltà esterne che ne derivavano per la realizzazione di un progetto già originariamente velleitario sono percepiti all'interno del partito armato già sul finire degli anni Settanta. Poco dopo l'attentato ad Alessandrini l'ala militarista di Prima Linea e lo stesso Donat-Cattin riconoscono che non esistono più le condizioni per la lotta armata in Italia ed emigrano in Francia. Il resto dell'organizzazione si scioglie in un convegno avvenuto a Barzio nella Pasqua del 1981 ed evolve in un "polo organizzato", una rete di protezione di militanti ricercati che daranno poi vita ai Comunisti organizzati per la liberazione proletaria (Colp). La lotta armata è dunque in una fase di declino e le operazioni delle BR, che pur proseguono, non possono essere più presentate come un attacco al cuore dello Stato. Conscia di questa difficoltà derivante dalla profonda mutazione economico-sociale che il Paese ha conosciuto, la stessa area movimentista delle BR, diretta da Senzani, tenta una nuova via di radicamento sociale in direzione del sottoproletariato meridionale urbano e sconta fatalmente, nella nuova realtà, un più intenso inquinamento da parte della criminalità organizzata.
La parabola del partito armato si chiude sostanzialmente quando, il 17 dicembre 1981, alcuni brigatisti travestiti da idraulici rapiscono il generale James Lee Dozier, responsabile logistico del settore sud-est della Nato. Da Verona lo portano senza difficoltà a Padova. E' un'operazione eclatante, perché nessun movimento guerrigliero era riuscito a sequestrare un generale americano. L'azione è quindi clamorosa, quanto confuso.
IL MISTERO CIRO CIRILLO.
Morto Ciro Cirillo, il Dc sequestrato dalle Br e rilasciato dopo una oscura trattativa con la camorra. Aveva novantasei anni: Domani i funerali, scrive il 30 luglio 2017 "La Repubblica". Se ne sono andati un uomo e un pezzo di storia che sconvolse l'Italia. È morto all'età di 96 anni l'ex presidente della Regione Campania Ciro Cirillo. L'esponente di punta della Dc fu sequestrato a Torre del Greco (Napoli) dalle Brigate Rosse il 21 aprile1981 (quando era assessore ai lavori pubblici della Campania e presidente della commissione che doveva gestite tutti gli appalti del post terremoto del 1980) per poi essere rilasciato dopo diversi giorni di prigionia in circostanze ancora oggi avvolte da molti misteri. Un rapimento che ha segnato la memoria del nostro Paese con il primo serio sospetto di trattativa tra lo Stato, le Br e la camorra di Cutolo, a tre anni dal rapimento Moro. Durante il rapimento ci fu anche un conflitto a fuoco: furono uccisi l'agente di scorta Luigi Carbone e l'autista Mario Cancello, e venne gambizzato il segretario dell’allora assessore campano all'Urbanistica, Ciro Fiorillo. L'ultima uscita pubblica di Ciro Cirillo, l'ex presidente della Regione Campania è dell'anno scorso, quando decise di festeggiare insieme a figli, nipoti e gli altri parenti i suoi 95 anni. Era il febbraio del 2016 quando convocò i suoi cari al Circolo Nautico di Torre del Greco per un pranzo al quale presero parte diversi amici politici della vecchia Democrazia Cristiana, in particolare della città vesuviana dove risiedeva. Per l'occasione fu presente anche il sindaco Ciro Borriello. I funerali di Ciro Cirillo si svolgeranno domani, lunedì 31 luglio, a Torre del Greco, alle ore 16.30 nella chiesa dei Carmelitani Scalzi a corso Vittorio Emanuele. Il rapimento Cirillo per anni è stato avvolto dal mistero. Una vicenda scomoda su cui i riflettori sono rimasti sempre bassi, fino al febbraio dell'anno scorso quando lo stesso Cirillo rilascia un'intervista alla tv svizzera italiana, per negare con decisione ogni trattativa finalizzata al suo rilascio da parte del boss ("Lo escludo, assolutamente") e allo stesso tempo per rimestare antiche accuse: "Ci fu un'istruttoria, da parte del giudice Carlo Alemi, che aveva un solo obiettivo, incastrare Antonio Gava, allora ministro dell’Interno". Accuse che il giudice ha prontamente ricusato, con un 'intervista all'Espresso: “Mi sembra incredibile che il dottor Cirillo abbia oggi fatto quelle affermazioni, totalmente discordanti peraltro con quanto affermò, in mia presenza ed al mio indirizzo, il 19 maggio 2008, all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, in occasione della presentazione del documentario “La trattativa” del programma Rai “La storia siamo noi”, allorché mi disse: “Anzi penso che mai come in questo momento avremmo tutti bisogno di magistrati coraggiosi e onesti come lei”. Intrecci mai chiariti e che ora con la morte di Cirillo tornano a infittirsi. Infatti in un'intervista a Repubblica, a firma di Giuseppe D'Avanzo, nel 2001 Cirillo disse di aver affidato la verità sul suo rapimento a un memoriale di una quarantina di pagine consegnato a un notaio con l'impegno di renderlo pubblico solo dopo la sua morte. Ma in una successiva intervista al Mattino ritrattò: "Dissi anche che lo avevo dato ad un notaio, che lo conservava in cassaforte. Non era vero. Ma quell'invenzione ebbe effetto, per un po' sono stato lasciato in pace dai giornalisti".
Rapimento Cirillo: le Br, Cutolo e la Dc. Così D'Avanzo raccontò la trattativa. E il suo clamoroso prezzo. L'articolo di Giuseppe D'Avanzo su Repubblica del primo febbraio 1985, di Giuseppe D'Avanzo, pubblicato su Repubblica il primo febbraio 1985. "Può dirsi sufficientemente provato che nelle trattative per il rilascio di Ciro Cirillo sono intervenuti esponenti democristiani ed esponenti dei servizi segreti". Il giudice istruttore di Napoli, Carlo Alemi, non ha dubbi. Nella lunga ordinanza-sentenza di rinvio a giudizio dei brigatisti della colonna napoletana delle Br il magistrato affronta al capitolo nono "le trattative per il sequestro Cirillo". Soltanto tredici pagine, ma un rosario di testimonianze sufficienti a fargli chiedere un'ulteriore "approfondita istruttoria" per conoscere "l'esatto ruolo svolto dalla Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo per il rilascio di Cirillo; l'intervento di esponenti di partiti politici che hanno fatto da tramite ed eventualmente da garanti tra le Br e Cutolo nello sviluppo della trattativa; il ruolo svolto durante i giorni del sequestro dai servizi segreti e se questo sia stato contenuto nell'ambito dei compiti istituzionali". Le tredici pagine, tuttavia, con le testimonianze dei brigatisti pentiti già disegnano lo scenario della trattativa, i suoi protagonisti, il prezzo che gli intermediari si dicevano pronti a pagare per la liberazione dell'assessore regionale Dc. E se il prezzo è clamoroso - forse fu offerta anche l'indicazione del luogo dove era custodito Patrizio Peci -, altrettanto clamoroso è l'unico nome di protagonista che salta fuori, Gava: nome sussurrato da tempo ma mai entrato finora in un'inchiesta giudiziaria. A vuotare il sacco sono stati Pasquale Aprea e Maria Rosaria Perna, i carcerieri di Cirillo nei due mesi della sua prigionia. "Nella prima decade di maggio - hanno raccontato - durante la fase in cui il sequestro andava politicamente malissimo, le Br con lo spostamento dei compagni detenuti ad Ascoli seppero che la camorra dietro pressioni di esponenti politici napoletani offriva per la liberazione di Cirillo 5 miliardi, armi a volontà, un elenco di magistrati napoletani con relativi indirizzi. Anzi si offriva di effettuare agguati ai danni di magistrati indicati dalle Brigate rosse". Antonio Chiocchi, uno dei fondatori della colonna napoletana, riferì in più occasioni ai due che "Gava era andato da Cutolo per trattare la liberazione di Cirillo presso le Brigate rosse". Silvio o Antonio Gava? Il magistrato non lo scrive. Inizialmente la trattativa si arena di fronte al rifiuto dei terroristi. Maurizio Stoccoro, un altro pentito, ha confermato di aver saputo da Giovanni Planzio, capo storico della colonna, "che Cutolo era intervenuto per sollecitare il rilascio di Cirillo in quanto alla camorra serviva che venissero allentati i posti di blocco della Polizia che ne impedivano tutti i traffici illeciti". "Cutolo ci offrì - ha raccontato Stoccoro - denaro, due o più miliardi, molte armi. Quante ne avessimo volute". Un'offerta che non interessò le Brigate rosse. L'attacco delle Br, infatti, - ha spiegato Stoccoro ai magistrati - era rivolto alla Dc proprio per dimostrare che mentre la Democrazia cristiana per Moro non aveva voluto trattare, aveva invece trattato per Cirillo". A maggio la trattativa ha una svolta. Comincia l'andirivieni di camorristi e brigatisti nel carcere di Ascoli Piceno e di Palmi. Giovanni Planzio ha detto ai giornalisti che "per Cirillo cominciarono a muoversi i servizi segreti". Con l'arrivo ad Ascoli Piceno degli uomini del colonnello Musumeci aumenta anche il prezzo offerto alle Brigate rosse. Intermediari Luigi Bosso, un delinquente comune politicizzatosi in carcere, e Sante Notarnicola. "Alle Brigate rosse - annota il giudice istruttore - viene offerto un grosso quantitativo di mitra, un elenco di carabinieri e di magistrati dell'antiguerriglia, l'indicazione del luogo in cui era custodito Patrizio Peci". Il superpentito delle Br era in quelle settimane - siamo nella primavera dell'81 - nelle mani delle squadre speciali del generale Dalla Chiesa. Chi dichiarò la disponibilità di far conoscere alle Brigate rosse il preziosissimo indirizzo? Gli omissis dell'ordinanza lasciano la domanda senza risposta. Ad avviare finalmente la trattativa fu Giovanni Senzani, il leader della colonna Napoli. Ha raccontato Maria Rosaria Aprea: "Una sera Senzani, entrando a casa, disse: "Qui ci facciamo pure i soldi". Antonio Chiocchi e Pasquale Aprea si ribellarono con asprezza al loro capo. Ma Senzani ribadì "la correttezza politica di tale richiesta". "Gli obiettivi politici - spiegò - sono stati raggiunti. La corresponsione di sussidi ai disoccupati, la smobilitazione della roulottopoli dei terremotati, la pubblicazione dei verbali di interrogatorio di Cirillo. E' giusto - conclude il criminologo - espropriare Cirillo, la sua famiglia, la Democrazia cristiana"". L'intera ricostruzione della trattativa è stata confermata da altri pentiti. Michele Galati, membro del direttivo della "colonna veneta" delle Br, nel carcere di Cuneo incontrò i brigatisti Moretti, Guagliardo, Franceschini. Il giudizio politico che espressero sulla trattativa fu lapidario. "Le Br - sostennero Moretti e Franceschini - non avevano alcun interesse ad un pagamento da parte di alcuni palazzinari napoletani ma puntarono immediatamente ad una trattativa che vedesse direttamente coinvolta la Dc". Enrico Fenzi, brigatista e cognato di Senzani, molto vicino al leader Mario Moretti, ha riferito, dal suo canto, ai giudici: "Moretti ripetè più di una volta che era venuto fuori e bisognava pur dirlo che se Cirillo non era stato ammazzato ciò era dovuto all'intervento di Cutolo". Testimonianze confermate dal maresciallo Angelo Incandela, comandante degli agenti di custodia del carcere di Cuneo: "Sì, il pentito Sanna ci tracciò tutto il quadro delle trattative intercorse tra servizi segreti, camorra e Brigate rosse al fine di ottenere la liberazione di Cirillo". E Luigi Bosso ha confermato, prima della sua morte improvvisa, che fu "Cutolo ad attribuirgli l'incarico di entrare in contatto con i brigatisti di Palmi, latore di questo messaggio: la Dc è disposta a trattare a tutti i livelli attraverso il canale di Cutolo".
E Cirillo disse a D'Avanzo: "La verità? E' dal notaio". L'assessore regionale Dc, sequestrato nel 1981 dalle Br e rilasciato dopo una trattativa che vide intermediario il boss camorrista Raffaele Cutolo, vent'anni dopo incontrò il giornalista. "Glielo dico subito, non le racconterò quello che so: non voglio farmi sparare. Ho scritto tutto in una quarantina di pagine. Dopo la mia morte si vedrà", di Giuseppe D'Avanzo, pubblicato su Repubblica il 12 aprile 2001. Ciro Cirillo, scatarrando come una locomotiva ("Mi sono raffreddato, maledizione"), viene giù con passo svelto dal piano superiore della villa bianca nel sole. Prende posto nell'angolo del divano bianco, oltre la tenda e la grande finestra c'è il mare di Napoli e, alle spalle, il Vesuvio. Ciro Cirillo, 80 anni, è vispo come un grillo. Ride, sorride, ammicca, allude, insinua, ricorda, omette, dissimula. Se il più crudo cinismo può essere bonario, Ciro Cirillo è un cinico bonario. Bonario soprattutto con se stesso. Si è appena seduto e subito la mette giù, bella chiara: "Signore mio, glielo dico subito, io non le racconterò la verità del mio sequestro. Quella, la tengo per me, anche se sono passati ormai venti anni. Sa che cosa ho fatto? Ho scritto tutto. Quella verità è in una quarantina di pagine che ho consegnato al notaio. Dopo la mia morte, si vedrà. Ora non voglio farmi sparare - a ottant'anni, poi! - per le cose che dico e che so di quel che è accaduto dentro e intorno al mio sequestro, dopo la mia liberazione...". Alle 21,45 del 27 aprile 1981 nel garage di via Cimaglia a Torre del Greco, Napoli, le Brigate Rosse sequestrano l'assessore regionale all'Urbanistica, Ciro Cirillo. Cinque persone lo attendono nell'oscurità e quando ne vengono fuori stanno già sparando. Muoiono Luigi Carbone, agente di scorta, Mario Cancello, autista. Ciro Cirillo fu prigioniero delle Brigate Rosse per ottantanove giorni. "Mi tenevano in una casetta di legno all'interno di un appartamento. C'era un lettino e un wc chimico. Ogni sera - ricorda Cirillo - arrivava il fiorentino, quel Senzani, e cominciava a soffocarmi di domande. C'era stato il terremoto, la Dc mi aveva messo alla testa della commissione tecnica per la ricostruzione e Senzani voleva da me 'i piani'. Dove tieni 'i piani'? Ce li hai a casa? Andiamo a prenderli! Come se i piani fossero già pronti. Che gli dovevo dire? Che io nemmeno volevo fare l'assessore all'urbanistica? Era vero, finii lì controvoglia, a sapere che cosa mi sarebbe successo... Dunque, quello mi interrogava e io rispondevo il meno possibile. Facevo il fesso. Tu, mi diceva Senzani, sei il punto di riferimento di questo regime e io non capivo nemmeno di quale regime parlasse. Mi diceva: noi abbiamo visto che, con l'uccisione di Aldo Moro, non abbiamo avuto il rivolgimento che ci aspettavamo e abbiamo deciso di cambiare area, obiettivo e metodo. Il metodo era di cavare i soldi di un riscatto dal mio sequestro. Cominciarono a chiedermi quanti soldi avessi. Io, di soldi, non avevo poi tanti. Sì e no, una cinquantina di milioni al Banco di Napoli. E gli amici? - mi chiedevano i brigatisti - Quanto ti possono dare gli amici politici, gli amici imprenditori? Ma quali imprenditori, dicevo io...". Negli atti, non è questa la storia. Ciro Cirillo indica ai figli gli "amici" che gli devono un favore. Per quel tale mi sono "interessato", a quell'altro ricordategli dell'appalto, a quell'altro poi ditegli di quel mio "intervento". Ciro Cirillo nella "casetta di legno" butta giù una lista di nomi. Albino Bacci, Bruno Brancaccio, Italo Della Morte, Michele Principe, presidente della Stet... Sono lunghe quelle notti nella casa di Antonio Gava sulla collina di Posillipo. Don Antonio li convoca. Gli imprenditori accorrono e si sistemano intorno al tavolo nel Cubo. Il Cubo è bianco, gigantesco, piazzato al centro del salone e protetto da due porte scorrevoli. Antonio Gava di tanto in tanto si allontana per ricevere un giornalista, per parlare con il presidente del Consiglio Arnaldo Forlani e li lascià lì a fare i conti di quel che possono dare o devono dare. Tutti gli imprenditori edili napoletani che avevano partecipato al sacco della città negli Anni Cinquanta e Sessanta, legati a cappio doppio alla Dc di Antonio Gava, mettono mano al portafoglio e partecipano alla "colletta". Saranno ripagati per quel gesto di solidarietà e si taglieranno, al momento opportuno, una bella fetta nella torta della ricostruzione. Ciro Cirillo ha bevuto il suo caffè. Ora si guarda intorno soddisfatto mentre si sistema più comodamente nell'angolo del divano. "Sa che cosa mi chiedo qualche volta? Mi chiedo: a chi devi ringraziare, Ciro? Sa come rispondo? Ciro, tu non devi ringraziare nessuno perché - glielo voglio dire - quelli là, gli imprenditori mica hanno fatto grandi sacrifici. Glien'è venuto solo bene ad aiutarmi. Tanto bene e tanti affari". I soldi degli imprenditori era necessari, ma non potevano essere sufficienti. Chi avrebbe convinto i brigatisti a intascare il denaro e a lasciar libero il prigioniero? C'era un solo uomo che aveva quel potere, pensano i dorotei. Quell'uomo era in carcere ad Ascoli Piceno e si chiamava Raffaele Cutolo, capo della Nuova Camorra Organizzata. A sedici ore dal sequestro, nel carcere di Ascoli Piceno si presenta un uomo del Sisde. E' solo la prima di una lunga teoria di visite illegali, non autorizzate, segrete. Dinanzi al camorrista sfileranno spioni, camorristi latitanti, "ambasciatori" delle Brigate Rosse, "due uomini politici di livello nazionale". Cutolo fa il prezioso, si lascia pregare e implorare. Chiede sconti di pena per i suoi, per sé perizie psichiatriche per venir fuori dalla galera, vuole appalti della ricostruzione a vantaggio delle imprese che controlla e qualche miliarduccio per la mediazione. Gli dicono: "Tranquillo, entro due o tre anni uscirai...". Cutolo ricorda: "Mi è stato promesso che sarei uscito dal carcere. Mi fecero balenare la possibilità formale della scarcerazione...". Incassato il "premio" per il presente e assicurazioni per il futuro, il camorrista offre alle Br "soldi, armi e una lista di indirizzi per eseguire le condanne a morte di magistrati antiterrorismo e un elenco di esponenti delle forze dell'ordine". Quel che soltanto nel 1978 la Dc e lo Stato si erano rifiutati di accettare per uno statista del livello di Aldo Moro, decretandone - come sostiene oggi Francesco Cossiga - la morte, va in porto per Ciro Cirillo. Il riscatto venne pagato. Senzani intasca su un bus di Roma 1 miliardo e 450 milioni. Cutolo sdegnato dice di aver rifiutato la tangente. I suoi lo contraddicono: "Si mise in tasca una cifra che oscillò tra i 2 miliardi e 800 milioni al miliardo e mezzo". All'alba del 24 luglio 1981, Ciro Cirillo viene rilasciato in un palazzo abbandonato in via Stadera a Poggioreale. Ciro Cirillo non appare imbarazzato. Non c'è nessuna incertezza nella sua voce, nessun dubbio nelle sue parole. Si attende la domanda. Deve essere una domanda che in questi venti anni si sarà sentito fare mille volte. Ha imparato a fronteggiarla anche se, a quanto pare, sembra gradirla come una pernacchia. "Ora a questo punto, signore mio, lei mi chiederà: perché per Moro la fermezza e per lei la trattativa? Me la faccia. So che deve farmela. E allora me la faccio da solo perché conosco la risposta: la Dc non poteva tollerare altro sangue, non avrebbe sopportato un altro esponente di prima fila morto ammazzato dai terroristi. Così il segretario del partito Flaminio Piccoli e il mio amico Antonio Gava decisero di darsi da fare. Non creda alla chiacchiere sulla trattativa con Cutolo. Fu Cutolo a farsi avanti. Gli affari della camorra, con tutta quella polizia nelle strade, stavano andando a rotoli. E allora meglio offrire un aiuto e darci un taglio a quella storia". Ciro Cirillo dice proprio così, lo dice con una soddisfazione che gli fa luccicare gli occhi. Le Br non dissiparono il gruzzolo del riscatto. Si armarono meglio. Uccisero. Nel primo anniversario del sequestro di Cirillo, il 28 aprile 1983, ammazzarono Raffaele Delcogliano, assessore campano alla formazione professionale. Lo uccisero con il suo autista, Aldo Iermano. Il 28 luglio 1982, spararono in faccia al capo della squadra mobile di Napoli, Antonio Ammaturo e al suo autista, Pasquale Paola. Assaltarono due caserme dell'Esercito. Ci rimisero la vita un soldato di leva, Antonio Palumbo, e due agenti di polizia, Antonio Bandiera e Mario De Marco. Nella camorra per due anni si scatenò la più violenta guerra della sua storia scandita da mille morti all'anno. I rivali di Cutolo videro nel patto stretto dal camorrista con i politici e gli imprenditori una definitiva minaccia per il loro potere e affari e partirono all'attacco sterminando sistematicamente gli uomini della Nuova Camorra Organizzata, minacciando i dorotei campani per goderne dei favori, assediando gli imprenditori per sciogliere il nodo che li legava a Cutolo. "Se vuole sapere come andò dopo, glielo dico...". Ciro Cirillo è un fiume in piena. "La verità è che io sono stato umiliato, mortificato. Perché? E me lo chiede. Ero sulla cresta dell'onda. Sarei diventato ancora presidente della Regione. Avrei gestito la ricostruzione della regione. Sarei stato eletto in Parlamento. Avrei fatto il ministro. Beh, quanto meno il sottosegretario. Invece accadde che dopo la liberazione mi fecero sapere che era meglio che non mi facessi più vedere alle riunioni di partito. Nomi non ne faccio, no. Sono personaggi in auge e nomi non ne faccio. Comunque, uno di questi signori mi avvicina e mi dice: “Ciro, con la tua presenza nuoci al partito...”. Capito, a me che per un soffio non ero stato accoppato dalle Br, dicono: fatti più in là, sparisci. No, non li odio. Certo, non posso considerare i Popolari di oggi dei miei amici". Il 16 marzo 1982 l'Unità pubblica in prima pagina la notizia che per la liberazione di Cirillo erano stati coinvolti i vertici dei servizi segreti e il capo della camorra Cutolo. E' la verità sostanziale affondata dalla falsità del documento che la raccoglie. Lo scoop è l'inizio della più imponente operazione di cancellazione di prove e di morte di testimoni che abbia mai funestato un caso politico-giudiziario. Muoiono i latitanti che trattarono dentro e fuori il carcere per conto di Cutolo. Muoiono gli ufficiali dei servizi segreti che accompagnarono la trattativa. Muore l'avvocato di Cutolo che faceva da messaggero. Muore l'ambasciatore delle Brigate Rosse. Muoiono suicidi i compagni di cella del camorrista. Le Brigate Rosse si incaricano di ammazzare Antonio Ammaturo che aveva ricostruito la vicenda in un dossier spedito al Viminale e scomparso per sempre. Nonostante le difficoltà, il giudice istruttore Carlo Alemi, il 28 luglio 1988 deposita la sua ordinanza di rinvio a giudizio e scrive delle trattativa e del "patto scellerato" stretto dalla Dc con la camorra. Antonio Gava è il ministro degli Interni della Repubblica nel governo presieduto da Ciriaco De Mita. Che tuonerà: "Alemi è un giudice che si è posto fuori del circuito istituzionale" (Alemi è un uomo gentile e riservato. E lo è rimasto anche dinanzi alla persecuzione e i processi disciplinari che ha dovuto subire per quella sua indagine. Oggi è presidente del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere). E' a suo agio Ciro Cirillo quando parla del processo. "Quello non era un processo, fu un tentativo di mettere in difficoltà il mio amico Antonio Gava. Lei sa che cosa disse la sentenza? Disse: “E' stato impossibile accertare la verità”. Vede che quei quaranta fogli che ho lasciato nella cassaforte del mio notaio, prima o poi, torneranno utili?"
Chi trattò con la camorra per salvare Cirillo? Forse nessuno, scrive Paolo Comi l'1 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Il vecchio assessore democristiano è morto domenica a 96 anni. Fu al centro di un mistero mai risolto e di gigantesche polemiche. A 96 anni, domenica, è morto Ciro Cirillo, gran democristiano anni 70 in Campania. Aveva sessant’anni, il 21 aprile del 1981, quando un commando delle Br lo aspettò sotto casa, a Torre del Greco, la sera, all’ora di cena, e appena la sua auto si fermò, il commando iniziò a sparare, come si faceva in quegli anni. Restarono sull’asfalto, morti stecchiti, il suo autista e la guardia del copro, un maresciallo dei carabinieri. Mentre il suo segretario particolare, un ragazzo di trent’anni, si salvò, ma con la gamba maciullata. Lui restò illeso. I brigatisti lo sollevarono di peso, lo gettarono nel cassone d’un furgone e lo portarono nella prigione del popolo. Li guidava un certo Giovanni Senzani, che era stato un consulente del ministero di giustizia, era uno studioso, un sociologo. Ala militarista delle Br. Da quel giorno iniziarono mesi di fuoco, paragonabili forse solo ai due mesi di tre anni primi, quelli celebri del rapimento di Aldo Moro nel 1978. Diamo un’occhiata alle date che separano l’inizio di aprile all’inizio di agosto del 1981. 4 aprile, notte, una strada di periferia a Milano, al polizia intercetta Mario Moretti ed il professor Enrico Fenzi che stanno andando a trovare un esponente della mala che loro non sanno essere un confidente della questura. Moretti e Fenzi vengono bloccati, immobilizzati e disarmati. Moretti è considerato il capo assoluto delle Br, l’erede di Curcio, il cervello del sequestro Moro e anche l’uomo che ha sparato al presidente della Dc. Fenzi è uno dei leader dell’ala militare delle Br, e Moretti è in lite con lui. Fatto sta che le Br sono decapitate. Prendono il comando Barbara Balzerani, che guida i movimentisti, e, appunto, Senzani del quale abbiamo già parlato come leader dei militaristi. Però tutto si può dire meno che l’arresto di Moretti abbia indebolito l’organizzazione. Passano poco più di due settimane dal colpo a favore della polizia e Senzani risponde. 21 aprile, rapito Ciro Cirillo. 20 maggio, Porto Marghera, un commando, pare guidato da Antonio Savasta, entra in casa di un dirigente del Petrolchimico della Montedison, un certo Giuseppe Taliercio, e se lo porta via. Due settimane dopo un altro dirigente d’azienda, Renzo Sandrucci, uomo Alfa Romeo, viene sequestrato a Milano. È il 3 giugno. La settimana successiva, il 10 giugno, tocca a a Roberto Peci, che è il fratello di Patrizio Peci, il primo pentito della storia delle Br. Roberto non ha neanche 30 anni. Il suo rapimento è una vendetta trasversale. A questo punto le Brigate Rosse si trovano ad avere contemporaneamente nelle loro mani quattro prigionieri. Un giorno sì e uno no arrivano proclami, dichiarazioni, confessioni, fotografie, richieste di riscatto. E le azioni militari non si limitano alla gestione delle prigioni del popolo e agli interrogatori. Si spara, si ferisce, si uccide per strada. Negli stessi giorni dei quattro rapimenti vengono uccisi Raffaele Cinotti, Mario Cancello, Luigi Carbone, Sebastiano Vinci. Ciascuno in un giorno diverso e in un luogo diverso: tutti e quattro poliziotti. Era quello il clima in quegli anni. Non è facile crederci, magari, ma la lotta politica avveniva in questo clima qui. Eppure non prevaleva la pulsione repressiva, illiberale. Pensate che in quegli stessi anni il Parlamento approvava le leggi- Gozzini, e cioè una serie di norme, che oggi vengono considerate dai più ultraliberali, che attenuano le pene, introducono premi e semilibertà e misure alternative al carcere…
I quattro sequestri hanno esiti diversi. Il 5 luglio si conclude tragicamente il sequestro di Taliercio. L’ingegnere viene ucciso in modo barbaro. L’autopsia stabilisce che era ferito, aveva dei denti rotti e non mangiava da cinque giorni. Taliercio si era rifiutato di collaborare, probabilmente aveva mantenuto un atteggiamento di sfida. Il processo per la sua morte si concluderà con tre condanne all’ergastolo per tre brigatisti poco conosciuti, mentre il leader della colonna, il romano Antonio Savasta, che collabora con gli inquirenti, se la cava con dieci anni. Il nome di Taliercio, chissà perché, scompare dal Pantheon degli eroi di quegli anni. Non so quanti siano gli italiani che oggi, se gli chiedi a bruciapelo chi era Taliercio, sono in grado di rispondere. Temo poche centinaia. Il 23 e il 24 luglio, nel giro di poche ore, si concludono positivamente il sequestro Sandrucci e quello Cirillo. Vengono liberati tutti e due. Per tutti e due è stato pagato un riscatto. Pochi giorni dopo, il 3 agosto, la notizia atroce dell’uccisione di Roberto Peci, che ha una figlioletta di un anno, viene processato dal tribunale dei terroristi davanti a una telecamera, e poi, davanti alla telecamera, ucciso con una mitraglietta. La cassetta di questo obbrobrio viene mandata ai giornali. Di suo fratello Patrizio, che era l’obiettivo di questa spietatezza, non si saprà mai più niente. Ha cambiato nome, ha cambiato connotati – pare – con una operazione di chirurgia plastica, vive in una località sconosciuta. Ora dovrebbe avere un po’ meno di settant’anni. Di come si sia ottenuta la liberazione di Sandrucci non si sa molto e non si parla molto. La liberazione di Cirillo invece solleva un pandemonio di polemiche. Questo Cirillo è l’ex presidente della Regione, è un uomo forte della cosiddetta corrente del Golfo, cioè quella corrente democristiana che fa capo ad Antonio Gava e che è il braccio napoletano dei dorotei. Cirillo, al momento del sequestro, è l’assessore all’urbanistica della Campania e si occupa dell’immenso affare della ricostruzione dopo il terremoto del 1980. I giornali raccontano che per liberarlo, il suo partito, che appena tre anni prima non ha voluto trattare con le Br per salvare Moro, ha trattato invece, eccome, non solo con le Br ma anche con la camorra di Raffaele Cutolo che avrebbe fatto da intermediaria. Non si saprà mai se è vero. Si sa che un riscatto di un miliardo e 400 milioni di lire (cifra molto alta per quell’epoca, quando un’automobile di media cilindrata costava circa quattro-cinque milioni) è stato pagato a Roma, il 21 luglio, all’interno di un tram (il numero 19) che va dalla stazione Termini a Centocelle. I soldi li porta in un borsone un amico di Cirillo e li consegna a Giovanni Senzani in persona, che acchiappa la borsa, scende al volo da un tram e vola via con una Fiat 128 che lo aspetta alla fermata. La Dc raccolse i soldi? Il segretario democristiano Flaminio Piccoli sapeva? E Antonio Gava?
L’anno dopo l’Unità, cioè il giornale del Pci, pubblica uno scoop clamoroso: è stato il ministro Vincenzo Scotti in persona a trattare con la camorra, anzi è andato personalmente in carcere a discutere con Raffaele Cutolo. E’ una bomba atomica sulla politica italiana. Ma poche ore dopo l’uscita del giornale si scopre che il documento che accusa Scotti è falso. E’ una contraffazione realizzata da un certo Gino Rotondi (che non si saprà mai se lavorava per la camorra, o per i servizi segreti, o se era un mitomane) che la consegna a una giovanissima cronista del giornale dei comunisti. Lo scandalo a quel punto si rovescia e travolge tutti i dirigenti dell’Unità, a partire dal direttore, il giovane Claudio Petruccioli, che si dimette dopo poche ore, e persino qualche dirigente del Pci, e precisamente il vice di Berlinguer, Alessandro Natta, che si dimette anche lui dal suo incarico. Il capogruppo Giorgio Napolitano prende la parola alla Camera e chiede scusa a nome del partito e del giornale. Allora le cose andavano così, a voi verrà da sorridere ma è la verità: se un giornale pubblicava una notizia falsa (cosa che oggi avviene quasi tutti i giorni su moltissimi giornali) poi era un casino e addirittura il direttore ci rimetteva il posto. Non potevi neppure mettere in pagina delle intercettazioni un pop’ contraffatte, perché rischiavi grosso…Il caso Cirillo finì così. La Dc se la cavò. Nessuno mai seppe la verità. Recentemente Giovanni Senzani – che oggi è libero e un paio d’anni fa ha presentato un suo film, pare piuttosto bello, a Locarno – in una intervista al “Garantista” ha giurato che non ci fu nessuna trattativa né con la camorra né con la Dc. Che pagarono i parenti di Cirillo. Lui, Cirillo, una volta libero fu costretto a ritirarsi dalla politica. In un’intervista a Repubblica disse che la verità l’aveva detta a un notaio e che sarebbe diventata pubblica dopo la sua morte, Cioè ora. Poi però smentì, e disse che non c’era nessun segreto. Adesso aspettiamo un paio di giorni per vedere se esce fuori ‘ sto notaio. Altrimenti ci dovremo rassegnare all’idea che probabilmente furono davvero i parenti di Cirillo a tirare fuori il miliardo e rotti e che la Dc non c’entrava niente.
IL MISTERO DELLE STRAGI. IL TRENO ITALICUS.
Strage dell’Italicus, Alberto Moravia sul Corriere di 43 anni fa: «Vogliono l’Italia in preda alla paura». Il 4 agosto 1974 una bomba esplose sul treno Italicus diretto a Monaco in prossimità di San Benedetto Val di Sambro. Della strage che causò 12 morti e 48 feriti furono accusati alcuni esponenti dell’estrema destra neofascista, ma i processi si conclusero con l’assoluzione di tutti gli imputati. Dal Corriere del 5 agosto 1974 di Alberto Moravia. Ripubblichiamo il testo che Alberto Moravia scrisse il 4 agosto 1974 sulla strage del treno Italicus. L’idea della strategia della tensione, ossia della provocazione, sistematica, torna, naturalmente, ad affacciarsi di fronte alla strage del treno Roma-Monaco. E come potrebbe essere diversamente? Certo, preferiremmo pensare all’atto assurdo di un esaltato o di un gruppo di esaltati; ma gli attentati anonimi, gli omicidi misteriosi che dal 12 dicembre del 1969 si sono seguiti in questo Paese, non possono non essere ormai ricollegabili anche dalle persone più ottimiste e fiduciose ad un disegno eversivo. Del resto durante recenti processi per falliti attentati la strategia della tensione è stata riconosciuta come una realtà, per loro positiva e necessaria, dagli stessi attentatori. Così dovrebbe essere chiaro a tutti che ogni mattina, in un luogo imprecisato d’Italia o in più di un luogo, gruppi di persone si riuniscono, calme e razionali, per escogitare via via i mezzi più atti a rovesciare le istituzioni e a creare un governo favorevole alla loro ideologia e ai loro interessi. Perché questi mezzi sono quasi unicamente violenti? Evidentemente perché, a quanto pare, si tratta di minoranze molto ristrette o addirittura di gruppi esigui, i quali sanno di certo che non potrebbero raggiungere il successo attraverso il voto politico, sola via legittima al potere in regime di democrazia. Ci troviamo, dunque, in una situazione senza precedenti, almeno in Italia. Non bisogna, infatti, dimenticare che persino il fascismo, tra le due guerre, potè, conquistare e mantenere il potere soltanto grazie ad una relativa base di massa. I gruppi eversivi ai quali bisogna attribuire la strategia della tensione sono invece addirittura senza volto. Oltre che su aiuti stranieri ammessi recentemente anche da personaggi del partito di maggioranza, ma finora mai provati, essi non possono contare che sulla già menzionata strategia, servendosene come di un detonatore per provocare interventi radicali di non meglio identificate forze dell’ordine. Anche questo, del resto non è ormai un mistero per nessuno ed è stato confermato da innumerevoli inchieste, interviste, relazioni, fughe di notizie, memoriali, eccetera. A questo punto, però, ci sembra del tutto inutile di continuare a passare in rivista le varie fasi insieme torpide e sanguinose della strategia della tensione. Esse sono chiare e non hanno bisogno di essere ulteriormente illuminate. Cerchiamo, invece, di vedere cosa è stato fatto dall’altra parte, cioè dalla parte della difesa delle istituzioni repubblicane. Siamo tentati di dire: troppo poco, anche di specificare dove la difesa è stata viva ed efficace e dove invece, fiacca e inoperante. Ma preferiamo guardare unicamente agli aspetti positivi. Ebbene, diciamolo pure, qualche cosa è stato fatto dal dicembre del 1969, anche se, naturalmente, non è stato fatto abbastanza. Il popolo italiano nel suo complesso ha resistito al canto insidioso e paralizzante delle sirene e della paura. E’ rimasto calmo e lucido, senza cadere nelle auspicate emotività e mitomanie. Questo ha permesso alla stampa, soprattutto da ultimo, di svolgere un buon lavoro, in accordo proprio con quella civiltà occidentale che mette tra i consumi più indispensabili e più diffusi quello dell’informazione. Sono stati pubblicati centinaia di articoli i quali se non altro hanno servito a definire con sufficiente precisione i lineamenti principali del disegno eversivo. Questo, bisogna ammetterlo, è stato fatto in condizioni politicamente sfavorevoli, fra le tentazioni della politica degli opposti estremismi e quella dell’unilateralità partigiana. Ad ogni modo qualche verità è pur venuta a galla, e come sempre la verità ha portato ad un risultato politico positivo, come per esempio il voto del referendum. Di conseguenza, ci lusinghiamo di pensare che, come ogni mattina, alcune persone o gruppi di persone si alzano con quest’idea: «Vediamo cosa si può fare per rovesciare le istituzioni repubblicane». Così, alla stessa ora altre persone speriamo più numerose e più forti si alzano con il pensiero opposto: «Vediamo cosa si può fare per difendere la Repubblica». L’attentato al treno Roma -Monaco vorrebbe ispirarci paura, una paura dimentica delle vittime, sollecita soltanto di noi stessi. E invece, no. Esso ci ispira la pietà indignata che non si può fare a meno di provare di fronte a chi è stato adoperato come mezzo iniquo per un fine ingiusto. E quanto alla paura, come diceva Tolstoj a proposito di un mediocre scrittore di libri terrorizzanti: «Egli vuole farci paura. E invece non riesce che a far paura a se stesso».
4 agosto 1974: la strage del treno Italicus. Italicus: segreto di Stato? Fu apposto nel 1982, ma tolto nel 1985. Nell’anniversario della strage del treno si torna a parlare delle norme che tolgono il segreto di Stato. In realtà la lenta desecretazione incide poco sulla ricerca della verità, scrive Valeria Palumbo il 4 agosto 2016 su “Il Corriere della Sera.” Nella notte tra il 3 e il 4 agosto 1974 il treno espresso 1486 “Italicus” stava viaggiando da Roma a Monaco di Baviera. Alle ore 1.23 mentre attraversava la galleria di San Benedetto Val di Sambro, in provincia di Bologna, una bomba ad alto potenziale esplose nella quinta carrozza. I morti furono 12, i feriti 44. Tra le vittime anche un giovane ferroviere di 24 anni, Silver Sirotti, che era sopravvissuto alla bomba, ma morì cercando di salvare i passeggeri dal terribile rogo che si era sviluppato. A Sirotti, già medaglia d’oro al valor civile, il 4 agosto 2016, è stato intitolato un parco a Forlì, la sua città (in via Ribolle): il sindaco e i familiari hanno partecipato alla cerimonia commemorativa. I colpevoli della strage non sono stati mai individuati, ma la Commissione parlamentare sulla loggia P2 scrisse negli atti che: «La strage dell’Italicus è ascrivibile ad un organizzazione terroristica di ispirazione neofascista o neonazista operante in Toscana»; che «la loggia P2 è quindi gravemente coinvolta nella strage dell’Italicus e può ritenersene addirittura responsabile in termini non giudiziari ma storico-politici quale essenziale retroterra economico, organizzativo e morale». Il processo si concluse con l’assoluzione generale di tutti gli imputati. Ma soprattutto, a differenza di altre stragi (con cui condivide piste, depistaggi e inchieste infinite e mai conclusive), per quella dell’Italicus fu effettivamente posto il segreto di Stato: a proposito di Claudia Ajello, che fu sentita parlare della strage da una tabaccaia, e che lavorava per il Sid, l’allora servizio segreto italiano. Fu rinviata a giudizio per falsa testimonianza, prima condannata e poi assolta. Ma ciò che interessa è che l’informativa chiesta dal tribunale di Bologna ai Servizi segreti conteneva alcuni omissis. Il 14 maggio 1982 il tribunale chiese una copia integrale del testo; Nino Lugaresi, allora capo del Sismi (che nel 1977 aveva sostituito il Sid), rispose che le parti mancanti erano coperte dal segreto di Stato. La questione fu girata all’allora presidente del Consiglio, il repubblicano Giovanni Spadolini, che, in settembre, confermò il segreto. Nel 1985, però, come annunziò il Corriere della Sera in prima pagina il 5 febbraio (e richiamo in quarta), il premier Bettino Craxi fece togliere il segreto sugli omissis per l’Italicus e per Piazza Fontana. Emerse che l’Ajello era infiltrata negli ambienti degli esuli greci: proprio nel 1974, a seguito della guerra per la questione di Cipro, cadde la giunta dei colonnelli greci, che, come è emerso più volte, interessavano molto i nostri servizi segreti. Questo però risultò ininfluente per la strage dell’Italicus e la faccenda finì lì. Quindi oggi non dovrebbero esistere altri documenti inediti sull’attentato al treno, oscurati dal segreto di Stato. In realtà la relativa inutilità della rimozione anticipata del segreto di Stato, voluta dal premier Mateo Renzi nella primavera del 2014, era già stata sottolineata allora. Il segreto non era già opponibile ai magistrati sui fatti di strage, di mafia e di eversione dell’ordine democratico. Con la legge 124 del 2007, che segnava l’ennesima riforma dei servizi segreti, si stabiliva che il segreto sarebbe stato a tempo e ci sarebbe stata un progressivo slittamento dei livelli di classificazione (segretissimo-segreto-riservatissimo-riservato). In realtà non sono mai stati completati i regolamenti attuativi. Fu questo che, nel 2014, gli esperti chiesero al premier, oltre alla pubblicità di dove siano gli archivi.
Italicus: una strage, un treno, tanti binari, scrivono Paolo Rastelli e Silvia Morosi su “Il Corriere della Sera” tratto da “Poche Storie” il 4 agosto 2016. Agosto. Improvviso si sente un odore di brace. Qualcosa che brucia nel sangue e non ti lascia in pace, un pugno di rabbia che ha il suono tremendo di un vecchio boato: qualcosa che urla, che esplode, qualcosa che crolla. Un treno è saltato (Claudio Lolli, “Agosto”, 1976). Attorno all’una di notte del 4 agosto 1974, all’uscita dalla galleria degli Appennini, nei pressi della stazione di San Benedetto Val di Sambro (Bologna), un ordigno ad alto potenziale esplode nella quinta vettura del treno Espresso 1486 Italicus, diretto a Monaco di Baviera. Il punto, vale la pena ricordarlo, è lo stesso dove a distanza di dieci anni, il 23 dicembre 1984, si verificherà la strage del Rapido 904 o strage di Natale, ai danni del rapido proveniente da Napoli e diretto a Milano. L’attentato dell’Italicus, che provoca la morte di dodici viaggiatori e il ferimento di circa 50 persone (se la bomba fosse esplosa in galleria, la strage sarebbe stata ben peggiore), viene rivendicato con un volantino nel quale si legge: «Abbiamo voluto dimostrare alla nazione che siamo in grado di mettere le bombe dove vogliamo, in qualsiasi luogo, dove e come ci pare […] seppelliremo la democrazia sotto una montagna di morti». Una delle vittime, Silver Sirotti, ferroviere 25enne, era uscito incolume dall’esplosione, ma imbracciò un estintore e risalì sulla carrozza devastata salvando molte vite, prima di essere sopraffatto da fiamme e fumo. Racconta un testimone della strage: «Il vagone dilaniato dall’esplosione sembra friggere, gli spruzzi degli schiumogeni vi rimbalzano su. Su tutta la zona aleggia l’odore dolciastro e nauseabondo della morte». I due agenti di polizia che hanno assistito alla sciagura raccontano: «Improvvisamente il tunnel da cui doveva sbucare il treno si è illuminato a giorno, la montagna ha tremato, poi è arrivato un boato assordante. Il convoglio, per forza di inerzia, è arrivato fin davanti a noi. Le fiamme erano altissime e abbaglianti. Nella vettura incendiata c’era gente che si muoveva. Vedevamo le loro sagome e le loro espressioni terrorizzate, ma non potevamo fare niente poiché le lamiere esterne erano incandescenti. Dentro doveva già esserci una temperatura da forno crematorio. “Mettetevi in salvo”, abbiamo gridato, senza renderci conto che si trattava di un suggerimento ridicolo data la situazione. Qualcuno si è buttato dal finestrino con gli abiti in fiamme. Sembravano torce. Ritto al centro della vettura un ferroviere, la pelle nera cosparsa di orribili macchie rosse, cercava di spostare qualcosa. Sotto doveva esserci una persona impigliata. ‘Vieni via da lì’, gli abbiamo gridato, ma proprio in quel momento una vampata lo ha investito facendolo cadere accartocciato al suolo» (da “Gli anni del terrorismo” di Giorgio Bocca). Il 1974 è l’anno che molti storici identificano con l’inizio dei cosiddetti «anni di piombo», teatro, purtroppo, di omicidi mirati, attentati, stragi. Da Pasolini, a Moro, da Piazza della Loggia alla Stazione di Bologna. I processi instauratisi a seguito della strage sono stati caratterizzati da esiti diversi. Gli imputati, appartenenti a gruppi dell’estremismo di destra aretino, vengono dapprima assolti per insufficienza di prove, poi condannati in grado di appello e, infine, definitivamente assolti nel 1993. Uno degli imputati, Mario Tuti, si rende peraltro autore – durante le indagini sulla strage – degli omicidi del brigadiere Leonardo Falco e dell’appuntato Giovanni Ceravolo (che stavano procedendo a perquisizione nella sua casa) nonché, dopo l’arresto per tali delitti, dell’omicidio di uno degli imputati che in primo grado erano stati condannati per la strage di piazza della Loggia a Brescia, e che veniva ritenuto disposto a collaborare. Secondo la Relazione che il ministro degli Interni Paolo Emilio Taviani tenne durante la seduta parlamentare di lunedì, 5 agosto 1974: I primi rilievi tecnici eseguiti dal personale della direzione di artiglieria e dai vigili del fuoco, basati anche sul ritrovamento di un fondo di sveglia con applicati due contatti, lasciano supporre che si sia trattato di un ordigno a tempo, caricato con notevole dose (tra i tre e i quattro chilogrammi) di tritolo. La Cassazione, pur confermando l’assoluzione degli estremisti di Arezzo per la strage sul treno Italicus, ha peraltro stabilito che l’area alla quale poteva essere fatta risalire la matrice degli attentati era «da identificare in quella di gruppi eversivi della destra neofascista». A simile conclusione era pervenuta anche la relazione di maggioranza della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia massonica “Propaganda 2″ (più nota come P2), richiamata anche in elaborati della Commissione parlamentare di inchiesta sulle stragi. In mezzo a tante supposte verità e spiegazioni, negli anni se ne è fatta avanti una dai tratti oscuri. La figlia di Aldo Moro (all’epoca Ministro degli Esteri del Governo Rumor), Maria Fidia Moro, ha detto che era il padre il vero obiettivo dell’attentato all’Italicus. Aldo Moro, infatti, era solito recarsi in villeggiatura a Bellamonte, in Val di Fiemme e pare avesse scelto proprio quel treno per recarvisi. Salito sul treno alla stazione Termini, venne fatto scendere da alcuni funzionari del Ministero, suoi collaboratori, a causa di alcune carte che avrebbe dovuto firmare. Ci misero un po’ e gli fecero perdere il treno. Lo scorso 22 aprile, il Governo Renzi ha tolto il segreto di Stato su tutte le stragi degli anni ’70 e ’80, Italicus compresa.
IL MISTERO DELLE STRAGI. L’AEREO DC-9 ITAVIA.
27 GIUGNO 1980. Ustica. «Quella notte c’era una guerra. Chiedete alla Nato», scrive Giulia Merlo il 30 luglio 2016 su "Il Dubbio”. Quei fatti sono coperti dal segreto militare e ciò significa che, se gli ufficiali rivelassero ciò che è successo rischierebbero 23 anni di carcere. Sono passati 36 anni dalla notte di venerdì 27 giugno 1980, in cui l’aereo di linea DC-9 della compagnia italiana Itavia esplose e si inabissò nel braccio di mare tra le isole di Ustica e Ponza, nel mar Tirreno. Nel disastro persero la vita tutti e 81 i passeggeri, sulle cause della strage, invece, nessun tribunale ha ancora accertato la verità. Nel corso degli anni, le teorie più dibattute sono quella di un missile stranieri, contrapposta a quella dell’attentato terroristico, con un ordigno esplosivo piazzato nella toilette. Secondo la prima tesi, ad abbattere il DC-9 sarebbe stata una testata francese, destinata ad abbattere un aereo libico con a bordo Gheddafi. La seconda ricostruzione, invece, è quella avvalorata dai fantomatici documenti cui il senatore Carlo Giovanardi ha fatto più volte riferimento. Il giornalista Andrea Purgatori, che in quegli anni era inviato per il Corriere della Sera e che ha pubblicato numerose inchieste sulla strage, smentisce in modo secco la decisività di questo dossier».
Proviamo a fare chiarezza su queste carte coperte dal segreto di Stato?
«Partiamo da un dato incontrovertibile: sulla strage di Ustica non c’è mai stato il segreto di Stato. Quei fatti sono coperti dal segreto militare e ciò significa che, se gli ufficiali rivelassero ciò che è successo quella notte, rischierebbero 23 anni di carcere. Nei documenti che ha visto Giovanardi non c’è nulla che possa davvero chiarire cosa è successo».
E quindi lei cosa pensa che contengono?
«Probabilmente si tratta di dossier che ricostruiscono i rapporti opachi intercorsi in quegli anni tra l’Italia e la Libia, ma non sarebbe certo di una novità. Io penso che quelle carte siano più importanti per capire cosa è successo alla stazione di Bologna poco più di un mese dopo, sempre nel 1980».
Lei ha sempre sconfessato la tesi della bomba nella toilette. Come mai?
«Non sono io a sconfessarla, l’ordinanza di rinvio a giudizio del 1999 parla di aereo «esploso in scenario di guerra aerea». Inoltre le perizie a sostegno dell’ipotesi della bomba sono state scartate perchè i periti sono stati dichiarati infedeli dal tribunale, per connivenze con i periti dei generali coinvolti».
La pista della presenza di caccia stranieri, invece?
«Che quella notte nei cieli italiani volassero aerei non identificati è stato confermato dalla Nato. Attualmente non esiste una sentenza su quella strage, perchè l’inchiesta è ancora in corso. In sede civile, invece, la Cassazione ha condannato nel 2015 i ministeri dei Trasporti e della Difesa al risarcimento dei danni, per responsabilità nell’«abbattimento» del DC-9 e - cito testualmente - ha definito l’ipotesi del missile come causa «congruamente provata»».
C’è chi obietta che gli alti ufficiali coinvolti sono stati tutti assolti nel 2006...
«Attenzione, sono stati assolti in Cassazione dalla condanna per depistaggio, non nel processo sulle cause della strage, tuttora in corso».
L’ultimo segreto nelle carte di Moro: “La Libia dietro Ustica e Bologna”. Da Beirut i servizi segreti avvisarono: “Tripoli controlla i terroristi palestinesi”. I parlamentari della Commissione d’inchiesta: “Renzi renda pubblici i documenti”, scrive il 05/05/2016 Francesco Grignetti su “La Stampa”. Tutto nasce da una direttiva di Matteo Renzi, che ha fatto togliere il segreto a decine di migliaia di documenti sulle stragi italiane. Nel mucchio, i consulenti della commissione d’inchiesta sul caso Moro hanno trovato una pepita d’oro: un cablo del Sismi, da Beirut, che risale al febbraio 1978, ossia un mese prima della strage di via Fani, in cui si mettono per iscritto le modalità del Lodo Moro. Il Lodo Moro è quell’accordo informale tra italiani e palestinesi che risale al 1973 per cui noi sostenemmo in molti modi la loro lotta e in cambio l’Olp ma anche l’Fplp, i guerriglieri marxisti di George Habbash, avrebbero tenuto l’Italia al riparo da atti di terrorismo. Ebbene, partendo da quel cablo cifrato, alcuni parlamentari della commissione Moro hanno continuato a scavare. Loro e soltanto loro, che hanno i poteri dell’autorità giudiziaria, hanno potuto visionare l’intero carteggio di Beirut relativamente agli anni ’79 e ’80, ancora coperto dal timbro «segreto» o «segretissimo». E ora sono convinti di avere trovato qualcosa di esplosivo. Ma non lo possono raccontare perché c’è un assoluto divieto di divulgazione. Chi ha potuto leggere quei documenti, spera ardentemente che Renzi faccia un passo più in là e liberalizzi il resto del carteggio. Hanno presentato una prima interpellanza. «È davvero incomprensibile e scandaloso - scrivono i senatori Carlo Giovanardi, Luigi Compagna e Aldo Di Biagio - che, mentre continuano in Italia polemiche e dibattiti, con accuse pesantissime agli alleati francesi e statunitensi di essere responsabili dell’abbattimento del DC9 Itavia a Ustica nel giugno del 1980, l’opinione pubblica non sia messa a conoscenza di quanto chiaramente emerge dai documenti secretati in ordine a quella tragedia e più in generale degli attentati che insanguinarono l’Italia nel 1980, ivi compresa la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980». Ecco il messaggio destinato al ministro degli Interni, ai servizi italiani e a quelli alleati in cui si segnala che George Habbash, capo dei guerriglieri palestinesi del Fplp, indica l’Italia come possibile obiettivo di un’«operazione terroristica». Va raccontato innanzitutto l’antefatto: nelle settimane scorse, dopo un certo tira-e-molla con Palazzo Chigi, i commissari parlamentari sono stati ammessi tra mille cautele in una sede dei servizi segreti nel centro di Roma. Dagli archivi della sede centrale, a Forte Braschi, erano stati prelevati alcuni faldoni con il marchio «segretissimo» e portati, con adeguata scorta, in un ufficio attrezzato per l’occasione. Lì, finalmente, attorniati da 007, con divieto di fotocopiare, senza cellulari al seguito, ma solo una penna e qualche foglio di carta, hanno potuto prendere visione del carteggio tra Roma e Beirut che riporta al famoso colonnello Stefano Giovannone, il migliore uomo della nostra intelligence mai schierato in Medio Oriente. Il punto è che i commissari parlamentari hanno trovato molto di più di quello che cercavano. Volevano verificare se nel dossier ci fossero state notizie di fonte palestinese per il caso Moro, cioè documenti sul 1978. Sono incappati invece in documenti che sorreggono - non comprovano, ovvio - la cosiddetta pista araba per le stragi di Ustica e di Bologna. O meglio, a giudicare da quel che ormai è noto (si veda il recente libro «La strage dimenticata. Fiumicino 17 dicembre 1973» di Gabriele Paradisi e Rosario Priore) si dovrebbe parlare di una pista libico-araba, ché per molti anni c’è stato Gheddafi dietro alcune sigle del terrore. C’era la Libia dietro Abu Nidal, per dire, come dietro Carlos, o i terroristi dell’Armata rossa giapponese. Giovanardi e altri cinque senatori hanno presentato ieri una nuova interpellanza. Ricordando le fasi buie di quel periodo, in un crescendo che va dall’arresto di Daniele Pifano a Ortona con due lanciamissili dei palestinesi dell’Fplp, agli omicidi di dissidenti libici ad opera di sicari di Gheddafi, alla firma dell’accordo italo-maltese che subentrava a un precedente accordo tra Libia e Malta sia per l’assistenza militare che per lo sfruttamento di giacimenti di petrolio, concludono: «I membri della Commissione di inchiesta sulla morte dell’on. Aldo Moro hanno potuto consultare il carteggio di quel periodo tra la nostra ambasciata a Beirut e i servizi segreti a Roma, materiale non più coperto dal segreto di Stato ma che, essendo stato classificato come segreto e segretissimo, non può essere divulgato; il terribile e drammatico conflitto fra l’Italia e alcune organizzazioni palestinesi controllate dai libici registra il suo apice la mattina del 27 giugno 1980». Dice ora il senatore Giovanardi, che è fuoriuscito dal gruppo di Alfano e ha seguito Gaetano Quagliariello all’opposizione, ed è da sempre sostenitore della tesi di una bomba dietro la strage di Ustica: «Io capisco che ci debbano essere degli omissis sui rapporti con Paesi stranieri, ma spero che il governo renda immediatamente pubblici quei documenti».
Stragi, i palestinesi dietro Ustica e Bologna? Il centrodestra: fuori le carte, scrive giovedì 5 maggio 2016 “Il Secolo D’Italia”. Reazioni, polemiche ma anche approvazione dopo che in una interpellanza presentata in vista della celebrazione solenne il 9 maggio a Montecitorio della Giornata della memoria delle vittime delle stragi e del terrorismo, i senatori Giovanardi, Quagliariello, Compagna, Augello, Di Biagio e Gasparri, hanno chiesto al Presidente del Consiglio di rendere pubbliche le carte relative alle stragi di Ustica e della stazione di Bologna. Gli interpellanti – si legge in una nota – citano gli autorevoli interventi del 2014 e 2015, in occasione della giornata della memoria e dell’anniversario di Ustica, dei Presidenti della Repubblica Napolitano e Mattarella e dei presidenti di Camera e Senato nei quali si chiede di arrivare alla verità «pretendendo chiarezza oltre ogni convenienza» e l’intervista del 3 maggio ultimo scorso del Ministro degli esteri Gentiloni sul caso Regeni, dove afferma testualmente: «La nostra ricerca della verità è al primo posto, e non può essere cancellata da interessi e preoccupazioni geopolitiche». Gli interpellanti ricordano poi di aver potuto consultare il carteggio dell’epoca tra la nostra Ambasciata a Beirut e i Servizi segreti a Roma, relativo ai drammatici avvenimenti del 1979 e 1980, quando si sviluppò un drammatico confronto fra l’Italia da una parte e dall’altra le frange più estreme del Movimento per la liberazione della Palestina con dietro la Libia di Gheddafi ed ambienti dell’autonomia, materiale non più coperto dal segreto di Stato, ma che, essendo stato classificato come segretissimo, rende penalmente perseguibile anche dopo 36 anni la sua divulgazione. La figlia di una vittima chiede chiarezza sulle stragi: «Sconcertata, come figlia di una vittima dell’esplosione del DC9 Itavia, e come Presidente onorario dell’Associazione per la Verità sul disastro aereo di Ustica, nell’apprendere che dopo 36 anni da quella tragedia non sono ancora divulgabili documenti che potrebbero contribuire in maniera decisiva a far piena luce su quella strage», scrive Giuliana Cavazza, presidente onorario dell’associazione citata. «Lunedì sarà celebrata a Montecitorio la giornata della memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi: aggiungo la mia modesta voce a quella dei vertici istituzionali che hanno più volte sottolineato la necessità di cercare la verità al di là di ogni convenienza o calcolo politico. Mi auguro pertanto che per quella data il Presidente del Consiglio abbia già assunto la decisione di rendere noto il contenuto dei documenti che solo i membri della Commissione di inchiesta sulla morte di Aldo Moro hanno già potuto consultare». Di diverso avviso Bolognesi: «Ho letto le carte contenute nei faldoni messi a disposizione della Commissione Moro e posso affermare che su Ustica e Bologna non ci sono né segreti, né rivelazioni, né novità. I decenni passano ma i depistaggi sembrano resistere», ha detto infatti Paolo Bolognesi, deputato Pd, presidente dell’Associazione 2 agosto 1980, commentando le recenti notizie di possibili nuovi elementi sulle stragi di Ustica e Bologna contenuti nei documenti consultati dai componenti della Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro di cui Bolognesi fa parte. C’è poi la tesi di Zamberletti: «Torniamo indietro al 2 agosto 1980, data della strage di Bologna. Era il giorno in cui io, da sottosegretario, avrei firmato un accordo italo-maltese. L’accordo, che fu poi firmato regolarmente, prevedeva da parte italiana la garanzia militare sulla sovranità aerea e marittima di Malta. La notizia della bomba alla stazione di Bologna, che ci arrivò quando eravamo a La Valletta, mi diede subito la sensazione della vendetta contro l’Italia». È questa la verità sulle stragi di Bologna e Ustica secondo Giuseppe Zamberletti, all’epoca sottosegretario agli Esteri nel governo Cossiga, in un’intervista a La Stampa. «I libici – dice – esercitavano fino a quel momento un protettorato di fatto su Malta». Zamberletti afferma di essere stato avvertito anche dall’allora direttore del Sismi, il generale Santovito, che gli chiese di soprassedere, poiché Gheddafi considerava Malta “una cosa sua”, «il governo Cossiga però decise di andare avanti. E se oggi Malta è nella Unione europea e non in Africa, tutto cominciò quel giorno. Questi documenti che sono stati desecretati sono un punto di inizio e non di arrivo. È proprio il caso di andare avanti», dice in riferimenti all’interrogazione con cui alcuni parlamentari chiedono di rendere pubblici tutti i documenti: «Nel febbraio 1978 c’era dunque questo accordo tra italiani e palestinesi, ma che ci fossero rapporti tra Gheddafi e certe schegge palestinesi è una grande novità, di cui all’epoca non avevamo assolutamente contezza».
«Vi dico la verità su Ustica: è stata una bomba e veniva da Beirut», scrive Giulia Merlo il 2 ago 2016 su “Il Dubbio”. «Smettetela di chiedere a me di rivelare questi documenti: mi costerebbe 3 anni di carcere e la decadenza da senatore. È il governo Renzi ad avere il dovere morale di togliere il segreto sui dossier». «Il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha il dovere di togliere la dizione "segretissimo" da quelle carte in modo da poterle divulgare, solo così le verità nascoste per trentasei anni verranno finalmente svelate». Non ha dubbi, il senatore Carlo Giovanardi. In qualità di membro della commissione Moro, ha avuto modo di visionare dei documenti che getterebbero nuova luce sulla tragica vicenda del volo Itavia DC-9, inabissatosi nel braccio di Mar Tirreno tra Ustica e Ponza con a bordo 81 persone, il 27 giugno del 1980.
Cominciamo dal principio: cosa è successo a bordo di quell'aereo?
«Nella toilette è esplosa una bomba, che ha provocato la caduta del velivolo e la morte di tutti i passeggeri».
Eppure molte voci sostengono che, quella notte, nei cieli italiani fosse in corso una guerriglia aerea in cui erano coinvolti caccia da guerra francesi e libici e che il volo Itavia sia stato abbattuto da un missile.
«Io mi sono interessato della questione quando ero ministro e su questi fatti ho risposto in Parlamento, sulla base delle fonti ufficiali provenienti dalla Nato e dei dossier dei nostri servizi di intelligence. Ciò che sostengo è suffragato non solo da questo, ma anche da 4000 pagine di perizie, svolte dai maggiori esperti internazionali di aereonautica. Aggiungo anche che ho letto in aula le missive personali indirizzate all'allora premier Giuliano Amato dal presidente americano Bill Clinton e da quello francese Jaques Chirac, in cui entrambi giurano sul loro onore che, durante la notte della strage, nei cieli di Ustica non volavano né aerei americani né francesi».
Gli scettici hanno sostenuto che la bomba nella toilette sia smentita dal fatto che il lavandino è stato ritrovato intatto nel relitto.
«Gli americani, in un documentario prodotto dal National Geographic, hanno preso un vecchio DC-9 e riprodotto l'esplosione, verificando che è ben possibile che il lavello non si sia rotto».
E quindi il mistero riguarda quale mano abbia piazzato la bomba. La risposta sta nelle carte da lei visionate?
«Esattamente. Si tratta di documenti che nessun magistrato ha mai potuto esaminare, su cui da due anni è caduto il segreto di Stato ma che rimangono bollati come "segretissimi" e dunque sono non divulgabili. Il carteggio fa riferimento ai rapporti tra il governo italiano e la nostra ambasciata a Beirut negli anni 1979 e 1980. Io ho potuto esaminarlo in presenza dei membri dei servizi e con la possibilità di prendere appunti, ma quei dossier contengono messaggi dalla capitale libica, alcuni datati anche 27 giugno, che annunciano vittime innocenti e parlano anche di un aereo come obiettivo del Fronte nazionale per la liberazione della Palestina, organizzazione controllata dai libici».
In questi dossier ritorna la teoria del cosiddetto "lodo Moro", ovvero il patto segreto tra Italia e filopalestinesi, che permetteva ai gruppi palestinesi di trasportare e stoccare armi nel nostro territorio a patto di non commettere attentati?
«Certo che quei documenti riguardano il "lodo Moro". E' chiaro che quell'accordo non era stato siglato in carta bollata, ma la sua esistenza è chiara e dalle carte emerge anche come Il Fronte popolare per la liberazione della Palestina lo considerasse violato nel 1979, quando il governo italiano sequestrò i missili trovati a Ortona e arrestò il militante del Fplp Abu Anzeh Saleh, poi detenuto nel carcere di Trani. Per questo minacciavano ritorsioni contro l'Italia. Tornando a Ustica, ricordo che l'unico governo a non rispondere alle rogatorie italiane è stato quello di Gheddafi».
Ustica è stata una rappresaglia libica, dunque?
«E' stato l'allora ministro Zamberletti a definirla così. Lo stesso che, proprio il 2 agosto (data della strage alla stazione di Bologna) firmava un accordo italo-maltese di assistenza militare e di estrazione petrolifera, che di fatto subentrava a quello tra Malta e la Libia. Secondo Zamberletti, Bologna e Ustica sono state entrambe un avvertimento dei libici al governo italiano e le due stragi sono legate da un filo rosso arabo-palestinese».
Rivelare questi documenti, dunque, fugherebbe qualsiasi ulteriore dubbio sull'ipotesi del missile sul volo Itavia?
«Certo. Eppure faccio notare che, ora che queste carte sono state lette e che io ne chiedo la desecretazione, la presidente dell'associazione delle vittime di Ustica, durante le commemorazioni delle stragi di quest'anno, non ha più chiesto che i dossier vengano pubblicati».
E questo che cosa significa?
«La senatrice Daria Bonfietti (che ha perso un fratello nella strage di Ustica ndr) sostiene che io abbia in mano un due di picche, invece io credo di avere un poker d'assi. I dossier che ho letto svelano la verità su quegli attentati ma, evidentemente, renderli pubblici potrebbe in qualche modo mettere in discussione i risarcimenti che si aggiungono ai 62 milioni di euro già percepiti. La Cassazione in sede civile, infatti, ha riconosciuto un risarcimento del danno di centinaia di milioni di euro all'Itavia, agli eredi Davanzali (ex presidente dell'Itavia) e alle famiglie delle vittime. Ciò nasce da una sciagurata sentenza civile di primo grado, scritta dal giudice onorario aggiunto Francesco Betticani, che teorizza appunto che ad abbattere l'aereo sia stato un missile non meglio identificato. L'appello viene vinto dall'Avvocatura di Stato che, però, commette un errore procedurale. La Cassazione allora annulla la sentenza di appello e rinvia alla Corte, la quale, però, può conoscere solo gli elementi portati dalle parti e non aggiungerne di nuovi. In questo modo è stata confermata in Cassazione civile l'assurda ipotesi del missile, definita "più probabile che no", totalmente smentita invece in sede penale».
In che modo l'ipotesi della bomba cambierebbe le carte in tavola per i familiari delle vittime?
«La risposta è semplice: se si fosse trattato di una bomba, come hanno stabilito le perizie tecniche, la responsabilità di non aver vigilato a Bologna avrebbe coinvolto anche la società Itavia e dunque il Ministero non dovrebbe risarcire le centinaia di milioni di danni. Aggiungo che a ogni famiglia delle persone decedute sono stati assegnati 200 mila euro e i 141 familiari superstiti godono dal 2004 di un assegno vitalizio mensile di 1.864 euro netti, rivalutabili nel tempo».
Che fare dunque ora?
«Innanzitutto smetterla di chiedere a me di rivelare questi documenti, cosa che mi costerebbe 3 anni di carcere e la decadenza da senatore per indegnità morale. E' il governo Renzi ad avere il dovere morale di togliere il segreto sui dossier per amore di verità, così forse - almeno - ripuliremo una volta per tutte l'immaginario collettivo su Ustica, inquinato da sceneggiati e depistaggi».
La colpevolezza dei Nar è un dogma ideologico. Le strane relazioni che intercorrevano tra l'Italia e gli arabi del Fplp, scrive il 02/08/2016 Dimitri Buffa su “Il Tempo”. Anche oggi come da 36 anni a questa parte alle 10 e 25 in punto la città di Bologna si fermerà per qualche minuto. Per commemorare gli 85 morti e i 200 feriti di un attentato che, al di là delle sentenze definitive e della colpevolezza come esecutori materiali ormai appiccicata addosso in maniera indelebile ai tre ex Nar Valerio Fioravanti, Luigi Ciavardini e Francesca Mambro, rimane ancora avvolto nel mistero. Un po’ di luce però, almeno sul movente lo può fare il libro «I segreti di Bologna», di Valerio Cutonilli e Rosario Priore, rispettivamente un avvocato e un magistrato, entrambi coraggiosi nell’andare contro corrente rispetto alla vulgata che ha voluto che questa strage fosse fascista sin dai primi istanti. Il Tempo già si era occupato di uno dei misteri di questa indagine, ossia la mancata identificazione di un cadavere e la scomparsa di un corpo di una delle vittime. Ma l’indicibile segreto di Stato che forse non sarà mai tolto, perchè è servito all’Italia a non subire più attentati da parte di terroristi palestinesi e medio orientali in genere, compresi quelli dell’Isis (toccando ferro), non è negoziabile nè rivelabile. E dopo gli anni ’70 che avevano lasciato una lunga scia di oltre sessanta morti del tutto rimossi dall’inconscio collettivo ad opera di settembre nero e altre formazioni dell’epoca, oggi se ne conosce il nome: «Lodo Moro». E colui che gli diede il nome non sapeva che un giorno, il 16 marzo 1978 ne sarebbe diventato vittima. Molte indagini infatti hanno acclarato, e il libro le elenca tutte in maniera che anche un bambino di sette anni potrebbe capire, che le armi alle Br in Italia le portarono anche i palestinesi del Fplp di George Habbash. Quel fronte popolare di resistenza palestinese di matrice marx leninista che invano nel febbraio 1978 tramite gli informatori del colonnello Stefano Giovannone, vero e proprio sacerdote della liturgia del «Lodo Moro», soffiò al Viminale della preparazione di un attentato con rapimento di un’alta personalità politica in Italia sul modello del sequestro di Hans Martin Schleyer, il presidente della Confindustria della ex Germania Ovest sequestrato nel settembre 1977 dalla Raf. Insomma se tutte le rivoluzioni finiscono per mangiarsi i propri figli il «lodo Moro» si mangiò suo padre, Aldo Moro. Il libro in questione, quindi, rivela e mette in fila tutti i segreti di Stato legati al «Lodo Moro» a cominciare dal ruolo di Carlos e di Thomas Khram e dei suoi accoliti dell’Ori, organizzazione rivoluzionaria internazionale, nella strage di Bologna, che potrebbe anche essere avvenuta per errore, cioè esplosivo in transito, cosa che spiegherebbe la mancata identificazione di almeno una delle vittime. Per non parlare degli omissis legati alle minacce di ritorsione sempre segnalate dal Sismi di Santovito, che venivano fino a tutto il luglio 1980 da parte dell’Fplp, legate alla vicenda dei missili Strela Sam 7 sequestrati qualche mese prima all’autonomo Daniele Pifano e destinati ai palestinesi. Con annessi arresto di Abu Anzeh Saleh e trattativa per farlo rilasciare dai giudici di Chieti e L’Aquila. Poi c’è la storia del trattato segreto tra Italia e Malta siglato dall’allora sottosegretario Giuseppe Zamberletti a La Valletta proprio un’ora prima della deflagrazione di Bologna. O quella dell’appoggio italiano, sottobanco, al tentato golpe contro Gheddafi fomentato dall’Egitto di Sadat, senza contare la vicenda di Ustica e via dicendo. Verità mai cercate anzi sacrificate da alcuni magistrati sull’altare della ragion di Stato. Moventi precisi, quasi certi, conosciuti da Francesco Cossiga, Giulio Andreotti, Giuseppe Zamberletti, Bettino Craxi, Lelio Lagorio e Giuseppe Santovito. Tragici segreti di Stato e insieme di Pulcinella. Ma che, per evitare che venissero fuori i nostri accordi sottobanco con i palestinesi dell’Olp e del Fplp, nonchè quelli con Gheddafi che includevano l’aiuto a scovare e uccidere i dissidenti libici in Italia, si preferì seppellire sotto i depistaggi ai danni dei Nar. Che in fondo, essendo tutti già condannati per altri omicidi e atti di terrorismo, erano dei capri espiatori perfetti, Ma oggi quando si chiede di togliere i segreti di Stato su Bologna, magari sperando di trovarci dietro chissà quale appoggio occulto della P2 di Licio Gelli, con quale onestà intellettuale si fanno questi appelli? Il «Lodo Moro» e il doppiogiochismo dell’Italia tra «la moglie americana e l’amante libica, e magari l’amichetta palestinese», per citare una felice battuta di Giovanni Pellegrino presidente della Stragi, rimarranno sempre segreti. L’Italia deve accontentarsi dei colpevoli di repertorio. Dimitri Buffa.
«Le stragi di Ustica e Bologna? Cercate in medioriente», scrive Giulia Merlo il 2 ago 2016 su “Il Dubbio”. Il 2 agosto di 36 anni fa, la stazione di Bologna venne devastata da un'esplosione che provocò 85 morti e oltre 200 feriti. Il giudice Rosario Priore racconta la sua verità e spiega il “Lodo Moro”. Che cosa è successo alla stazione Bologna, quel 2 agosto del 1980? A 36 anni dalla strage più sanguinosa del secondo dopoguerra - in cui persero la vita in un’esplosione 85 persone e ne rimasero ferite 200 - la verità processuale è stata stabilita in via definitiva e ha riconosciuto colpevoli i militanti neofascisti dei Nuclei Armati Rivoluzionari, Giusva Foravanti e Francesca Mambro. Secondo l’ex magistrato Rosario Priore, titolare delle inchieste sulla strage di Ustica e autore con Valerio Cutonilli del libro I segreti di Bologna, la verità storica apre scenari completamente diversi.
Partiamo dall’inizio, perchè lei scarta la pista neofascista?
«Da magistrato rispetto la cosa giudicata, ma sul piano storico la ricostruzione presenta numerose falle, dovute probabilmente al fatto che l’istruttoria del processo è stata molto lunga, il che spesso si presta a inquinamenti di ogni genere. Gli elementi che rimandano alla pista mediorientale, invece, sono molto evidenti e in alcuni di questi mi sono imbattuto in prima persona nei processi da me istruiti».
A che cosa si riferisce?
«Principalmente alle dichiarazioni di Carlos, detto lo Sciacallo e membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Non solo, però, io credo che il primo a raccontare le cose per come andarono fu il presidente Francesco Cossiga, quando parlò di esplosione prematura».
Non si trattò di una strage voluta?
«Io credo non sia stato un atto doloso per colpire deliberatamente Bologna. La mia ipotesi è che l’esplosivo si trovasse lì perchè doveva essere trasportato dai membri del Fronte Popolare fino al carcere speciale di Trani, in cui era detenuto il militante filopalestinese Abu Anzeh Saleh».
A che cosa serviva quell’esplosivo?
«Il quantitativo fa pensare alla necessità di abbattere mura robuste, come quelle del carcere di Trani. Io credo servisse a far evadere Saleh e che sia esploso per errore a Bologna».
Era così facile per forze straniere trasportare armi ed esplosivi in territorio italiano?
«In quel periodo vigeva ancora il cosiddetto “lodo Moro”, che concedeva alle organizzazioni palestinesi il libero passaggio sul suolo italiano con armi, al fine di stoccarle e usarle successivamente, a patto che non agissero in territorio italiano. Di questo patto esistono le prove, come i depositi di armi in Sardegna e in Trentino».
Possiamo parlare di una sorta di disegno internazionale?
«In quegli anni gli attori in gioco erano molti e molto complessi. Da un lato i filopalestinesi, dall’altro gli americani e la Nato. Noi ci trovavamo nel mezzo e Aldo Moro, da politico raffinato quale è stato fino alla sua morte (nel 1978) sapeva che le regole della partita andavano capite e interpretate».
Lei ha indagato anche sulla strage di Ustica, che avvenne il 27 giugno, un mese prima della strage alla stazione, e in cui persero la vita gli 81 passeggeri del volo Itavia, che viaggiava da Bologna a Palermo. In questo caso una verità processuale chiara manca e le ipotesi rimangono molte. Lei vede un legame con la strage di Bologna?
«Io credo esista un legame generale tra i due eventi, come in tutti i fatti di quegli anni. Anche in quella situazione si riverbera il “lodo Moro”, a cui ancora si ispirava la nostra politica estera. In volo quella notte c’erano velivoli stranieri non Nato, che sorvolavano i nostri cieli con il nostro benestare, sfruttando i buchi sul controllo aereo del patto Atlantico».
Quindi lei scarta decisamente la teoria della bomba a bordo dell’aereo?
«L’ipotesi della bomba non regge. Non posso dire cosa sia successo quella notte, è possibile che si sia trattato di una cosiddetta near-collision tra il volo di linea e un altro aereo militare. Anche i radar indicano questa strada, così come il ritrovamento sui monti calabresi di un aereo da guerra libico».
Tornando ai fatti di Bologna, il suo libro ha scatenato molte polemiche e il presidente dell’associazione delle vittime Paolo Bolognesi l’ha messa in guardia dal commettere il reato di depistaggio.
«Non voglio alimentare polemiche ma trovo strane queste sue affermazioni. Lui si è battuto una vita per capire cosa sia successo a Bologna, ma io ho fatto lo stesso, con intento cronachistico. Entrambi abbiamo lo stesso obiettivo, trovare la verità».
I MISTERI DEL VELIVOLO ITAVIA. Ustica, la firma di Pertini era falsa: l’ufficiale pilota che cercava la verità sul Dc 9 venne radiato ingiustamente. Mario Ciancarella, ex capitano che indagava sui misteri del velivolo precipitato nel 1980, venne cacciato -per indegnità - dall’Aeronautica con decreto del Quirinale nel 1983. Il tribunale 33 anni dopo: firma del presidente apocrifa. «La Difesa risarcisca», scrive Alessandro Fulloni l'11 ottobre 2016 su "Il Corriere della Sera". Un falso pazzesco. Una firma mai vergata dal presidente-partigiano Sandro Pertini. Che di quell’atto che cacciò dall’Aeronautica un suo ufficiale - se non rovinandogli la vita di certo cambiandogliela pesantemente - non sapeva nulla. La firma dell’allora Capo di Stato sul decreto di radiazione del capitano-pilota Mario Ciancarella (in prima fila nelle denunce per cercare la verità a Ustica e nella riforma, erano gli anni Settanta, dell’ordinamento militare) sottoscritta nel 1983, era apocrifa. In sintesi: «taroccata» come in un documento uscito da una stamperia fuorilegge. Firmata chissà da chi, in una notte buia del 1983. Lo ha stabilito, 33 anni dopo, il tribunale civile di Firenze e la notizia è stata rivelata dall’associazione «Rita Atria» di cui lo stesso ex ufficiale, oggi residente a Lucca dove ha aperto una libreria, è fondatore. La sentenza, spiega una nota della stessa associazione, arriva «dopo due perizie - una di parte e una disposta dal magistrato - che hanno potuto rilevare come il falso sia tanto evidente quanto eseguito con assoluta approssimazione». Non basta. Nella motivazione si legge che il ministero della Difesa è stato condannato in contumacia al pagamento delle spese processuali di 5.885 euro. È solo l’inizio di una specie di rivincita giudiziaria che vedrà l’ex pilota - «cacciato per indegnità a portare la divisa», questa fu la formula usata per radiarlo - avviare con ogni probabilità altre cause, sia in sede penale che davanti alla magistratura contabile. Ma a questo punto è il caso di fare un lungo passo indietro e arrivare alla fine degli anni Settanta, quando tutto comincia. Anni in bianco e nero, anni di piombo. Terrorismo, stragi impunite, l’ombra dei servizi deviati e della P2. Mario Ciancarella è un giovane ufficiale dell’Aeronautica, capitano pilota a Pisa, vola sugli Hercules C-130 della brigata aerosoccorritori, la 46°. Si interessa di sindacato, parola che nelle forze armate di quegli anni era impronunciabile. «Ci chiamavano i “nipotini” delle Brigate Rosse» ricorda oggi l’ex ufficiale riferendosi a quel gruppo di colleghi con cui fondò il movimento dei militari democratici. E che collaborò alla stesura della legge 382/78 - ovvero la riforma dell’ordinamento militare - soprattutto in un punto: la possibilità di disobbedire a un ordine palesemente ingiusto. Battaglia che gli valse processi, un arresto e la radiazione dall’Aeronautica. Giunta tramite ufficiale giudiziario con un atto falso, si scopre ora. Che con quella firma Pertini non c’entrasse nulla, Ciancarella l’aveva intuito subito dopo aver ricevuto la copia del decreto presidenziale. Ma questo avvenne dieci anni dopo la radiazione. E, tra l’altro, dopo la morte dello stesso ex inquilino del Colle. «Prima non era possibile avere quell’atto, non era diritto dell’interessato, mi venne spiegato». Quella firma «l’avevo vista su altre carte: era apocrifa in un modo spudorato». Trovare un avvocato disposto a portare avanti la battaglia per accertare la verità non fu semplice. «Ci ho messo 16 anni... E altri 7 per arrivare alla sentenza». Che gli ha dato ragione. Ciancarella si era interessato anche dei misteri che ruotavano attorno all’abbattimento del Dc9 Itavia a Ustica, il 27 giugno 1980. In particolare al giudice istruttore Rosario Priore il pilota raccontò di quella testimonianza drammatica raccolta poche ore dopo la sparizione dal radar del velivolo da Alberto Dèttori, il sottufficiale radarista, impiegato nella stazione radar di Poggio Ballone, trovato impiccato nel 1987. «Comandante, siamo stati noi a tirarlo giù. Siamo stati noi». «È una cosa terribile...». «Io non le posso dire nulla, perché qua ci fanno la pelle». Qualche mese prima Ciancarella era stato convocato proprio da Pertini al Quirinale insieme a Sandro Marcucci e Lino Totaro, entrambi aviatori e tra i fondatori del movimento democratico. Avevano parlato della riforma dell’ordinamento. Il presidente voleva saperne di più. «La segreteria del Quirinale mi chiamò a casa. Fissarono un appuntamento con me, io non volevo essere solo e mi presentai con i colleghi». Il presidente fu schietto e brutale «ma trasparente: parlammo circa tre ore. Ci congedò dicendoci che se quella sulla modifica dell’ordinamento militare era una battaglia giusta allora avremmo dovuto combatterla seguendo le vie istituzionali, dal confronto sindacale a quello politico ed eventualmente in aula giudiziaria, senza alcun appoggio diretto del Quirinale». Che però continuò discretamente a interpellarli, e forse a osservarli benevolmente, anche in seguito. Sino al via libera parlamentare della legge. (Questo fu il destino dei tre fondatori del movimento militari democratici: Sandro Marcucci, capitano pilota nella brigata degli aerosoccorritori, si interessò di Ustica, cercando documenti e testimonianze. Morì il 2 febbraio 1992, una domenica limpida e senza vento, precipitando a Campo Cecina, in Toscana, a bordo di un aereo anti-incendio civile: due anni fa la procura di Massa ha deciso di riaprire un’inchiesta su quell’incidente. Lino Totaro, sergente maggiore, dovette lasciare l’Aeronautica perché dichiarato instabile mentalmente. Lui oggi vive in Africa, «abbastanza serenamente». Di Mario Ciancarella si è detto.)
Ustica e l’ipocrita giustizia bifronte. A 38 anni dalla strage, per la Cassazione penale ad abbattere il Dc9 fu una bomba, per la Cassazione civile un missile. In mezzo, risarcimenti milionari, scrive Maurizio Tortorella il 26 giugno 2018 su "Panorama". Trentotto anni dovrebbero bastare, per ottenere la verità, o almeno per ottenere una sola versione accreditata (e credibile) dei fatti. E invece, nel triste anniversario del 27 giugno 1980, gli 81 poveri morti della strage di Ustica continuano a ballare un’oscena danza macabra tra due verità giudiziarie, entrambe ufficiali ma opposte. Da una parte, infatti, esiste una sentenza penale definitiva, che risale al 2006: frutto di una lunga istruttoria, di un processo durato 272 udienze con oltre 4mila testimoni, e di 11 perizie affidate a tecnici di grande valore, quella pronuncia della Cassazione ha stabilito che il 27 giugno 1980 il Dc9 dell’Itavia, precipitato nel Tirreno lungo la rotta Bologna-Palermo, non cadde per colpa di un missile ma per una bomba. Alla fine di un procedimento che aveva messo insieme 1 milione e 750 mila pagine di istruttoria, con quella decisione di 11 anni fa i supremi giudici hanno assolto dall’accusa di depistaggio i generali dell’Aeronautica militare italiana, che peraltro avevano rinunciato alla prescrizione. Dall’altra parte esiste, al contrario, un ginepraio di processi in sede civile che hanno invece avvalorato la tesi del missile. L’ultima è stata una sentenza della Cassazione, pronunciata nel giugno 2017, che ha condannato lo Stato a risarcire con altri 55 milioni di euro i familiari delle 81 vittime. All’opposto dei loro colleghi del penale, i giudici della Cassazione civile si sono convinti (a dire il vero con molte incertezze) che l’incidente del volo Itavia si verificò “a causa dell’operazione di intercettamento realizzata da parte di due caccia, che nella parte finale della rotta del Dc9 viaggiavano parallelamente a esso, di un velivolo militare nascostosi nella scia del Dc9 al fine di non essere rilevato dai radar, e quale diretta conseguenza dell’ esplosione di un missile lanciato dagli aerei inseguitori contro l'aereo nascosto, oppure quale conseguenza di una quasi-collisione verificati tra l’aereo nascosto e il Dc9”. Il ginepraio è reso ancora più intricato dal fatto che ora la terza sezione civile della stessa Cassazione sta per pronunciarsi sulle dimensioni del risarcimento riservato all’Itavia, la compagnia proprietaria del Dc9, andata fallita dopo il disastro e stabilirà se 265 milioni di euro liquidati dalla Corte di Appello bastano o sono troppi. Il motivo di questa assurda giustizia bifronte va cercato nei suoi effetti risarcitori: infatti, se la causa riconosciuta della strage è la bomba, la responsabilità di non avere vigilato sulla sicurezza dell'aereo ricade sull'Itavia; se è un missile, invece, la responsabilità cade interamente sullo Stato italiano, che avrebbe dovuto prevenire ed evitare l'evento. Va detto che da tempo lo Stato si è fatto carico dei risarcimenti: a ogni famiglia degli 81 morti sono stati assegnati 200 mila euro (per un totale di 15,8 milioni) mentre nel 2004 i 141 familiari superstiti hanno ottenuto un vitalizio di 1.864 euro netti mensili rivalutabili, per un totale di altri 31 milioni al 31 dicembre 2014. Si stima pertanto che lo Stato spenda ancora circa 4 milioni di euro l’anno soltanto per i vitalizi. Ma all’assurdità della giustizia bifronte si aggiunge un altro assurdo, se possibile ancora più grave e politicamente rilevante. Nella scorsa legislatura, i parlamentari della commissione d’inchiesta sul caso Moro hanno scoperto l’esistenza di documenti segreti dai quali emergerebbe con chiarezza la possibilità di un coinvolgimento diretto del terrorismo palestinese nella caduta dell’aereo. Secondo quei documenti, insomma, a far cadere il Dc9 sarebbe stata una bomba che il Fronte di liberazione della Palestina avrebbe piazzato sull’aereo come mostruosa ritorsione per l’arresto di alcuni suoi militanti in Italia. Carlo Giovanardi, che fino allo scorso 4 marzo è stato senatore, ha più volte chiesto al governo di togliere il vincolo del segreto di Stato da quelle carte, senza mai nemmeno ottenere una risposta. "È davvero assurdo e vergognoso che le nostre istituzioni continuino a parlare del dovere di ricercare la verità su Ustica " dice Giovanardi “quando il primo a nasconderla è proprio il governo italiano". Quanti altri anniversari serviranno per fare cadere quella scritta “Top secret”?
Strage di Ustica, il testimone che riscrive la storia d'Italia: "Era guerra, ho visto tutto", scrive il 20 Dicembre 2017 “Libero Quotidiano”. Si riaccende lo scontro politico, dopo le novità arrivate dagli Usa, sul caso Ustica, con la nuova testimonianza su quanto avvenne il 27 giugno del 1980, la notte in cui il Dc9 Itavia, in volo da Bologna a Palermo, con a bordo 81 persone, sparì dai radar, finendo in mare. Le parole di Rian Sandlin, l’ex marinaio della portaerei Saratoga, che al giornalista Andrea Purgatori racconta di un conflitto aereo, nel Mediterraneo, tra caccia americani e libici, rilanciano, di fatto, l’ipotesi di un incidente di guerra che coinvolse il volo civile italiano. Parole che - in attesa di un interessamento della Procura di Roma - riaprono il dibattito tra chi sostiene la tesi della bomba a bordo e chi pensa che a colpire l’aereo sia stato un missile, forse alleato. Per Daria Bonfietti, presidente dell’Associazione Parenti delle Vittime della strage di Ustica "il fatto che due Mig libici fossero stati abbattuti la notte di Ustica lo avevano già detto altri, ma sentirlo dire da un signore che stava sulla Saratoga, che finora gli Usa ci avevano detto stesse in rada, è una novità importante". "È chiaro che ci sono cose non dette su Ustica, ma il problema non è la verità, perché loro, al governo, sanno qual è la verità, il problema è che non vogliono raccontarla", aggiunge Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione 2 agosto: "Pensavano con la direttiva Renzi di tacitare la richiesta di verità, ma non hanno fatto il loro dovere fino in fondo, ora basta, diano le carte vere". Di cosa "vergognosa" e di "bufala gigantesca", parla invece il senatore di Idea, Carlo Giovanardi. "Sono falsità - sottolinea - già smentite da sentenze penali passate in giudicato che dicono che non c’è stata alcuna battaglia aerea, nessun missile, nessun aereo in volo". Giovanardi, non dà alcun credito alle ultime novità: "Ci sono 4mila pagine di perizie internazionali che dicono dov’era la bomba, quando è esplosa e tutti i dettagli - spiega il senatore di Idea - dall’altra, invece, abbiamo 27 versioni diverse" che accusano "gli Usa, i francesi, i libici". "Ho letto cose terrificanti in Commissione Moro - ricorda il senatore che è membro dell’organismo che indaga sulla morte del leader Dc - sui palestinesi che preparavano un terribile attentato, i documenti sono ancora segretati e Gentiloni, che abbiamo chiesto venisse a riferire, non ci risponde". "Per arrivare a chiarire rendiamo pubbliche quelle carte, in particolare il carteggio del biennio ’79-’80 dei nostri servizi da Beirut che parla delle minacce di rappresaglia da parte dei palestinesi, dopo lo stop al Lodo Moro", conclude il senatore di Idea.
Strage di Ustica, la verità del militare Usa: «Due Mig libici abbattuti dai nostri caccia la sera dell’esplosione». La nuova testimonianza ad «Atlantide», su La7. Torna l’ipotesi del volo colpito per errore, scrive Ilaria Sacchettoni il 20 dicembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Trentasette anni dopo, una nuova testimonianza riaccende la speranza di raggiungere la verità sull’esplosione in volo del Dc-9 che uccise 81 persone sui cieli di Ustica. Brian Sandlin, all’epoca marinaio sulla Saratoga destinata dagli Usa al pattugliamento del Mediterraneo, intervistato (questa sera ad Atlantide su La7) da Andrea Purgatori, autore della prima ricostruzione sulla vicenda, racconta i fatti di cui fu testimone. È la sera del 27 giugno 1980. Dalla plancia della nave che staziona a poche miglia dal golfo di Napoli, il giovane Sandlin assiste al rientro da una missione speciale di due Phantom disarmati, scarichi. Aerei che sarebbero serviti ad abbattere altrettanti Mig libici in volo proprio lungo la traiettoria aerea del Dc-9: «Quella sera — racconta l’ex marinaio — ci hanno detto che avevamo abbattuto due Mig libici. Era quella la ragione per cui siamo salpati: mettere alla prova la Libia». È un’affermazione storica. Per la prima volta qualcuno attesta lo scenario bellico nei cieli italiani durante gli ultimi anni della guerra fredda. «Eravamo coinvolti in un’operazione Nato e affiancati da una portaerei britannica e da una francese» aggiunge Sandlin. La pista del Dc-9 vittima di un’iniziativa militare alleata nei confronti della Libia ha faticato a farsi strada. Ed è ancora alla ricerca di conferme. L’Italia di quegli anni sconta ambiguità. Le istituzioni — per evitare ritorsioni — collaboravano con Gheddafi fornendogli nomi e indirizzi degli oppositori al suo regime che si trovavano in Italia. Gli Usa invece, erano decisi a combatterlo come avverrà in futuro con altri colonnelli (tra cui Saddam Hussein): «Il capitano Flatley — prosegue Sandlin — ci informò che durante le nostre operazioni di volo due Mig libici ci erano venuti incontro in assetto aggressivo e avevamo dovuto abbatterli». L’ex marinaio della Us Navy è pronto a smentire la versione di una bomba terroristica piazzata a bordo dell’aereo Itavia. E a supportare gli approfondimenti dei magistrati della Procura di Roma, Maria Monteleone ed Erminio Amelio, sull’aereo colpito per errore durante un’azione di forza degli alleati. A 57 anni compiuti Sandlin restituisce l’atmosfera che si respirò nei giorni successivi: «Ricordo che in plancia c’era un silenzio assoluto. Non era consentito parlare, non potevamo neppure berci una tazza di caffè o fumare. Gli ufficiali si comportavano in modo professionale ma parlavano poco fra loro». La sensazione diffusa è quella di aver commesso qualcosa di enorme. Possibile che fosse proprio l’abbattimento di un aereo civile? Sandlin non ipotizza ma offre nuovi dettagli. Ma il suo silenzio in tutti questi decenni? È terrorizzato. Nel 1993 la visione di una puntata di 60 minutes (leggendario programma d’inchiesta della Cbs raccontato anche nel film Insider di Michael Mann con Al Pacino) per un attimo addormenta la paura e restituisce memoria all’ex marinaio. Sandlin, però, non trova ancora il coraggio di mettere a disposizione di altri le proprie informazioni. Un sottoufficiale prossimo alla pensione, racconta, era stato ucciso in una rapina tanto misteriosa quanto anomala. Unico ad essere colpito benché in un gruppo di bersagli possibili. Sapeva qualcosa su Ustica? La paura, spiega Sandlin, scompare nel momento in cui cambiano gli scenari internazionali e lo strapotere della Cia è ridimensionato: «Oggi non credo — dice — che possa ancora mordere». E allora l’ex marinaio della Usa Navy parla, racconta e smentisce verità ufficiali. Ad esempio quella del Pentagono sul fatto che, quella notte, i radar della Saratoga sarebbero stati spenti per non disturbare le frequenze televisive italiane. Impossibile, dice l’uomo. Mai e poi mai una nave così avrebbe potuto spegnere i radar.
Strage di Ustica. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La strage di Ustica fu un disastro aereo, avvenuto nella sera di venerdì 27 giugno 1980, quando un aereo di linea Douglas DC-9-15 della compagnia aerea italiana Itavia, decollato dall'Aeroporto di Bologna e diretto all'Aeroporto di Palermo, si squarciò in volo all'improvviso e cadde nel braccio di mare compreso tra le isole tirreniche di Ustica e Ponza, chiamata posizione Condor. Nell'evento persero la vita tutti gli 81 occupanti dell'aereo. Molti aspetti di questo disastro, a partire dalle cause stesse, non sono ancora stati chiariti. Nel corso degli anni, sulla strage di Ustica si sono dibattute principalmente le ipotesi di un coinvolgimento internazionale (in particolare francese, libico e statunitense, con una delle aviazioni militari dei tre Paesi, che avrebbe colpito per errore il DC-9 con un missile diretto al nemico), di un cedimento strutturale o di un attentato terroristico (un ordigno esplosivo nella toilette del velivolo. Nel 2007 l'ex-presidente della Repubblica Cossiga, all'epoca della strage presidente del Consiglio, ha attribuito la responsabilità del disastro a un missile francese «a risonanza e non ad impatto», destinato ad abbattere l'aereo su cui si sarebbe trovato il dittatore libico Gheddafi. Tesi analoga è alla base della conferma, da parte della Corte di Cassazione, della condanna al pagamento di un risarcimento ai familiari delle vittime, inflitta in sede civile ai Ministeri dei Trasporti e della Difesa dal Tribunale di Palermo. I procedimenti penali per alto tradimento, a carico di quattro esponenti dei vertici militari italiani, si sono conclusi con l'assoluzione degli imputati. Altri procedimenti a carico di militari (circa 80) del personale AM si sono conclusi con condanne per vari reati, tra i quali falso e distruzione di documenti. La compagnia Itavia, già pesantemente indebitata, cessò le operazioni il 10 dicembre; il 12 dicembre le fu revocata la licenza di operatore aereo (su rinuncia della stessa compagnia) e, nel giro di un anno, si aprì la procedura di fallimento. Ricostruzione cronologica dell'avvenimento.
Alle 20:08 del 27 giugno 1980 il DC-9 immatricolato I-TIGI decolla per il volo IH870 da Bologna diretto a Palermo con 113 minuti di ritardo accumulati nei servizi precedenti; una volta partito, si svolge regolarmente nei tempi e sulla rotta assegnata (lungo l'aerovia "Ambra 13") fino all'ultimo contatto radio, tra velivolo e controllore procedurale di Roma Controllo, che avviene alle 20:59.
Alle 21:04, chiamato per l'autorizzazione di inizio discesa su Palermo, dove era previsto arrivasse alle 21:13, il volo IH870 non risponde. L'operatore di Roma reitera invano le chiamate; lo fa chiamare, sempre senza ottenere risposta, anche da due voli dell'Air Malta, KM153, che segue sulla stessa rotta, e KM758, oltre che dal radar militare di Marsala e dalla torre di controllo di Palermo. Passa senza notizie anche l'orario di arrivo a destinazione, previsto per le 21:13.
Alle 21:25 il Comando del soccorso aereo di Martina Franca assume la direzione delle operazioni di ricerca, allerta il 15º Stormo a Ciampino, sede degli elicotteri Sikorsky HH-3F del soccorso aereo.
Alle 21:55 decolla il primo HH-3F e inizia a perlustrare l'area presunta dell'eventuale incidente. L'aereo viene dato per disperso.
Nella notte numerosi elicotteri, aerei e navi partecipano alle ricerche nella zona. Solo alle prime luci dell'alba, un elicottero di soccorso individua alcune decine di miglia a nord di Ustica alcuni detriti in affioramento. Poco dopo raggiunge la zona un Breguet Atlantic dell'Aeronautica, che avvista una grossa chiazza di carburante; nel giro di qualche ora cominciano ad affiorare altri detriti e i primi cadaveri dei passeggeri. Ciò conferma che il velivolo è precipitato nel mar Tirreno, in una zona in cui la profondità dell'acqua supera i tremila metri.
Le vittime del disastro furono ottantuno, di cui tredici bambini, ma furono ritrovate e recuperate solo trentotto salme. La Procura di Palermo dispose l'ispezione esterna di tutti i cadaveri rinvenuti e l'autopsia completa di 7 cadaveri, richiedendo ai periti di indicare:
causa, mezzi ed epoca dei decessi;
le lesioni presentate dai cadaveri;
se su di essi si ravvisassero presenze di sostanze tossiche e di corpi estranei;
se vi fossero tracce evidenti di ustioni o di annegamento.
Sulle sette salme di cui fu disposta l'autopsia furono riscontrati sia grandi traumi da caduta (a livello scheletrico e viscerale), sia lesioni enfisematose polmonari da decompressione (tipiche di sinistri in cui l'aereo si apre in volo e perde repentinamente la pressione interna). Nelle perizie gli esperti affermarono che l'instaurarsi degli enfisemi da depressurizzazione precedette cronologicamente tutte le altre lesioni riscontrate, ma non causò direttamente il decesso dei passeggeri facendo loro soltanto perdere conoscenza. La morte, secondo i medesimi esperti, sopravvenne soltanto in seguito, a causa di traumi fatali, riconducibili (così come la presenza di schegge e piccole parti metalliche in alcuni dei corpi) a reiterati urti con la struttura dell'aereo in caduta e, in ultima analisi, all'impatto del DC9 con l'acqua. La ricerca tossicologica dell'ossido di carbonio e dell'acido cianidrico (residui da combustione) fu negativa nel sangue e nei polmoni. Nessuna delle salme presentava segni di ustione o di annegamento. Il controllo radiografico, alla ricerca di residui metallici, risultò positivo su cinque cadaveri. Più precisamente:
nel cadavere 20 due piccole schegge nell'indice e nel medio sinistri;
nel cadavere 34 piccoli frammenti in proiezione della testa dell'omero destra e della quinta vertebra lombare;
nel cadavere 36 minuti frammenti nella coscia sinistra;
nel cadavere 37 un bullone con relativo dado nelle parti molli dell'emibacino;
nel cadavere 38 un frammento delle dimensioni di un seme di zucca e di forma irregolare nella mano destra.
La perizia ritenne di escludere, per le caratteristiche morfologiche e dimensionali, la provenienza dei minuscoli corpi estranei dall'eventuale frammentazione di involucro di un qualsiasi ordigno esplosivo.
Comunicazioni radio del DC-9 con Roma Ciampino 18:26:06Z. (ora in GMT):
Roma: «870 identifichi.»
IH870: «Arriva.»
Roma: «Ok, è sotto radar, vediamo che sta andando verso Grosseto, che prua ha?»
IH870: «La 870 è perfettamente allineata sulla radiale di Firenze, abbiamo 153 in prua. Ci dobbiamo ricredere sulla funzionalità del VOR di Firenze.»
Roma: «Sì, in effetti non è che vada molto bene.»
IH870: «Allora ha ragione il collega.»
Roma: «Sì, sì pienamente.»
IH870: «Ci dica cosa dobbiamo fare.»
Roma: «Adesso vedo che sta rientrando, quindi, praticamente, diciamo che è allineato, mantenga questa prua.»
IH870: «Noi non ci siamo mossi, eh?!.»
Comunicazioni radio del DC-9 con Roma Ciampino 18:44:08Z.
IH870: «Roma, la 870.»
Roma: «IH870 per Ponza, 127,35.»
IH870: «127,35. Grazie, buonasera.»
Comunicazioni radio del DC-9 con Roma Ciampino 18:44:44Z.
IH870: «È la 870, buonasera Roma.»
Roma: «Buonasera 870. Mantenga 290 e richiamerà 13 Alfa.»
IH870: «Sì, senta: neanche Ponza funziona?»
Roma: «Prego?»
IH870: «Abbiamo trovato un cimitero stasera venendo... da Firenze in poi praticamente non ne abbiamo trovata una funzionante.»
Roma: «Eh sì, in effetti è un po' tutto fuori, compreso Ponza. Lei quanto ha in prua ora?»
IH870: «Manteniamo 195.»
Roma: «195. Sì, va bene. Mantenga 195, andrà un po' più giù di Ponza di qualche miglio.»
IH870: «Bene, grazie.»
Roma: «E comunque 195 potrà mantenerlo, io penso, ancora un 20 miglia, non di più perché c'è molto vento da ovest. Al suo livello dovrebbe essere di circa 100-120 nodi l'intensità.»
IH870: «Eh sì, in effetti sì, abbiamo fatto qualche calcolo, dovrebbe essere qualcosa del genere.»
Roma: «Ecco, non lo so, se vuole continuare con questa prua altrimenti accosti a destra anche un 15-20 gradi.»
IH870: «Ok. Mettiamo per 210.»
Comunicazioni radio del DC-9 con Roma Ciampino 18:46:31Z.
IH870: «È la 870, è possibile avere un 250 di livello?»
Roma: «Sì, affermativo. Può scendere anche adesso.»
IH870: «Grazie, lasciamo 290.»
Comunicazioni radio del DC-9 con Roma Ciampino 18:50:45Z.
Roma: «L'Itavia 870 diciamo ha lasciato Ponza 3 miglia sulla destra, quindi, quasi quasi, va bene per Palermo così.»
IH870: «Molto gentile, grazie. Siamo prossimi a 250.»
Roma: «Perfetto. In ogni caso ci avverta appena riceve Palermo.»
IH870: «Sì, Papa-Alfa-Lima lo abbiamo già inserito, va bene e abbiamo il DME di Ponza.»
Roma: «Perfetto. Allora normale navigazione per Palermo, mantenga 250, richiamerà sull'Alfa.»
IH870: «Benissimo, grazie.»
Comunicazioni radio del DC-9 con Roma Ciampino 18:56:00Z.
IH870: «È sull'Alfa la 870.»
Roma: «Eh sì, affermativo. Leggermente spostato sulla destra, diciamo 4 miglia e comunque il radartermina. 28,8 per ulteriori.»
IH870: «Grazie di tutto, buonasera.»
Roma: «Buonasera a lei.»
Comunicazioni radio del DC-9 con Roma Ciampino 18:56:54Z.
IH870: «Roma, buonasera. È l'IH870.»
Roma: «Buonasera IH870, avanti.»
IH870: «115 miglia per Papa-Alfa... per Papa-Romeo-Sierra, scusate. Mantiene 250.»
Roma: «Ricevuto IH870. E può darci uno stimato per Raisi?»
IH870: «Sì: Raisi lo stimiamo per gli uno-tre.»
Roma: «870 ricevuto. Autorizzati a Raisi VOR. Nessun ritardo è previsto, ci richiami per la discesa.»
IH870: «A Raisi nessun ritardo, chiameremo per la discesa, 870.»
Roma: «È corretto.»
Comunicazioni radio del DC-9 con Roma Ciampino 18:59:45Z - ultimo segnale del transponder.
Il flight data recorder (FDR) dell'aereo aveva registrato dati di volo assolutamente regolari: prima della sciagura la velocità era di circa 323 nodi, la quota circa 7 630 m (25 000 piedi) con prua a 178°, l'accelerazione verticale oscillava, senza oltrepassare 1,15 g. La registrazione del tranquillo dialogo tra il comandante Domenico Gatti e il copilota, che si raccontavano barzellette, restituito dal cockpit voice recorder (CVR), si era interrotta improvvisamente e senza alcun segnale allarmante che precedesse la troncatura.
Gli ultimi secondi dal CVR: «Allora siamo a discorsi da fare... [...] Va bene i capelli sono bianchi... È logico... Eh, lunedì intendevamo trovarci ben poche volte, se no... Sporca eh! Allora sentite questa... Gua...». La registrazione si era interrotta tagliando l'ultima parola («Guarda!»). Questo particolare potrebbe indicare un'improvvisa interruzione dell'alimentazione elettrica.
Le principali ipotesi sulle quali gli inquirenti hanno indagato sono:
il DC-9 sarebbe stato abbattuto da un missile aria-aria sparato da un aereo militare;
il DC-9 sarebbe precipitato dopo essere entrato in collisione (o in semicollisione) con un aereo militare;
sarebbe avvenuto un cedimento strutturale;
sarebbe esplosa una bomba a bordo.
A partire dalla succitata prima ipotesi, negli anni si è affermata la tesi che in zona vi fosse un'intensa attività aerea internazionale: sebbene dagli enti militari, nazionali e alleati, sino ai primi anni novanta non fosse mai giunta alcuna conferma di tali attività (che pure è stato ipotizzato possano essere state occultate), né sul relitto sia mai stato trovato alcun frammento di missile, ma soltanto tracce di esplosivo, si sarebbe determinato uno scenario di guerra aerea, nel quale il DC-9 Itavia si sarebbe trovato per puro caso mentre era in volo livellato sulla rotta Bologna-Palermo. Testimonianze emerse nel 2013 confermerebbero la presenza di aerei da guerra e navi portaerei. L'occultamento e la distruzione, di alcuni registri (Marsala, Licola e Grosseto) e di alcuni nastri radar (Marsala e Grosseto) che registrarono il tracciato del volo DC-9 IH870, a fronte delle prove prodotte da altri analoghi registri e nastri non occultabili e non distrutti (Fiumicino, Satellite russo), vengono portati a sostegno di tale ipotesi. Da testimonianze risulta che se il disastro avesse avuto cause chiare (difetto strutturale o bomba) non sarebbe stato necessario occultare e distruggere prove di primaria importanza sul volo, come è stato stabilito dalle conclusioni della sentenza nel Procedimento Penale Nr. 527/84 A G. I.. I dati di volo distrutti e recuperati da altre fonti nazionali e internazionali e l'allarme generale della difesa aerea lanciato da due piloti dell'aeronautica militare italiana potrebbero confermare la tesi accusatoria, secondo la quale l'aereo DC-9 Itavia del volo IH870, attorno al quale volavano almeno tre aerei dei quali uno a velocità supersonica, sia stato abbattuto da un aereo che volava a velocità supersonica, tesi proposta per la prima volta dall'esperto del National Transportation Safety Board, John Macidull.
Nel libro pubblicato nel 1994 The other side of deception - ISBN 0-06-017635-0 - scritto dall'ex-agente del Mossad Victor Ostrovsky, a pagina 248 si cita una conversazione tra l'autore ed un collega inglese avvenuta a fine gennaio 1990 in un albergo ad Ottawa (Canada):
"Do you believe or think or know if the Mossad may have had any involvement in what happened to Flight 103 over Lockerbie?"
I was dumbfounded. It took me several seconds to realize what the man had asked me. I responded almost automatically.
"No way".
"Why?"
"No reason. Just no way, that's all. Up to this point, every time Israel or the Mossad has been responsible for the downing of a plane, it's been an accident, and related directly to the so-called security of the state, like the shooting down of the Libyan plane over the Sinai and the Italian plane (thought to carry uranium) in 1980, killing eighty-one people. There is no way that they'd do this".
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"Credi o pensi o sai se il Mossad può essere implicato in quanto è successo al volo 103 su Lockerbie?"
Ero perplesso. Ci misi diversi secondi a realizzare quanto mi era stato chiesto. Risposi quasi automaticamente.
"In nessun modo".
"Perché?"
"Nessun motivo. Semplicemente in nessun modo, è tutto. Sino ad oggi, ogni volta che Israele o il Mossad è stato responsabile dell'abbattimento di un aereo, si è trattato di un incidente, ed in diretta relazione con la cosiddetta sicurezza di Stato, come l'abbattimento dell'aereo libico sul Sinai e l'aereo italiano (che si pensava trasportasse uranio) nel 1980, nel quale furono uccise ottantuno persone. In nessun modo avrebbero fatto una cosa simile".
Victor Ostrovsky non è mai stato interrogato dai giudici italiani in relazione ai fatti della Strage di Ustica ed alle informazioni contenute nel suo libro.
Sul caso Ustica la magistratura italiana ha condotto un'attività di indagine durata per decenni, con cospicue cartelle di atti: al processo di primo grado si giunse con due milioni di pagine di istruttoria, 4 000 testimoni, 115 perizie, un'ottantina di rogatorie internazionali e 300 miliardi di lire di sole spese processuali e quasi trecento udienze processuali. Le indagini vennero avviate immediatamente sia dalla magistratura sia dal Ministero dei Trasporti, all'epoca ministro Formica. Aprirono un procedimento le procure di Palermo, Roma e Bologna, mentre il ministro dei trasporti nominò una commissione d'inchiesta tecnico-formale diretta dal dottor Carlo Luzzatti, che però non concluse mai i suoi compiti, visto che, dopo aver presentato due relazioni preliminari, decise per l'autoscioglimento nel 1982 a causa di insanabili contrasti di attribuzioni con la magistratura. Formica finì con l'adeguarsi alla tesi prevalente, che l'aereo era precipitato per un cedimento strutturale dovuto alla cattiva manutenzione. Il 10 dicembre 1980 Itavia interruppe l'attività, mentre ai dipendenti non veniva più corrisposto lo stipendio. Il Ministero dei Trasporti il 12 dicembre 1980 revocò all'Itavia le concessioni per l'esercizio dell'attività, su rinuncia della stessa compagnia aerea. Dal 1982 l'indagine divenne, di fatto, di esclusiva competenza della magistratura, nella persona del giudice istruttore di Roma Vittorio Bucarelli. La ricerca delle cause dell'incidente, nei primi anni e senza disporre del relitto, non permise di raggiungere dati sufficientemente attendibili. Sui pochi resti disponibili, i periti rinvennero tracce di esplosivi. Nel 1982, una perizia eseguita da parte di esperti dell'aeronautica militare italiana, trovò solo C4, esplosivo plastico presente nelle bombe, come quella fatta esplodere nel successivo 1987 da agenti della Corea del Nord sul volo Korean Air 858. Nella relazione della Direzione laboratori dell'A.M. - IV Divisione Esplosivi e Propellenti (Torri) del 5 ottobre 1982 (parte I, Libro I, Capo I, Titolo III, capitolo III della sentenza ordinanza del giudice istruttore) la causa dell'incidente viene individuata nella detonazione di una massa di esplosivo presente a bordo del velivolo, in ragione della rilevata presenza su alcuni reperti di tracce di T4, e dell'assenza di tracce di TNT. La perizia dell'Aeronautica Militare venne seguita da una controperizia dell'accusa. La seconda repertazione, nel 1987, trovò T4 e TNT su di un frammento dello schienale nº 2 rosso: la perizia chimica Malorni Acampora del 3 febbraio 1987 (disposta dal giudice istruttore nel corso della perizia Blasi: Parte I, Libro I, Capo I, Titolo III, Capitolo IV, pag. 1399 e ss. della sentenza ordinanza del giudice istruttore) rileva la presenza chiara e inequivocabile sia di T4 che di TNT (sempre nel frammento dello schienale nº 2 rosso), miscela la cui presenza è tipica degli ordigni esplosivi. Queste componenti di esplosivi, solitamente presenti nelle miscele di ordigni esplosivi, hanno indebolito l'ipotesi di un cedimento strutturale, come era stato ipotizzato il 28 gennaio 1981 da una commissione nominata dal ministro dei trasporti Formica. L'acclarata presenza di esplosivi indeboliva l'ipotesi di cedimento strutturale, tanto più per cattiva manutenzione. Ciò aprì, in epoche successive, spiragli per richieste di risarcimenti a favore dell'Itavia (cui tuttavia il ministro dei Trasporti Formica aveva revocato la concessione dei servizi aerei di linea per il pesante passivo dei conti aziendali, non per il disastro). Secondo le rivelazioni di due cablogrammi (cable) (03ROME2887 e 03ROME3199) pubblicati sul sito WikiLeaks, l'allora ministro per le relazioni con il parlamento, Carlo Giovanardi, difese in Parlamento la versione della bomba, paragonandola a quella della strage di Lockerbie. Tuttavia, in un'intervista concessa ad AgoraVox Italia, Giovanardi smentì la versione dell'ambasciata statunitense, in cui si legge che lo stesso avrebbe espresso la sua volontà di "mettere a tacere" le ipotesi sulla strage di Ustica. Le parole di Carlo Giovanardi furono poi contestate dalla senatrice Bonfietti, presidente dell'Associazione parenti delle vittime della strage di Ustica.
Il recupero del relitto. Nel 1987 l'allora ministro del Tesoro Giuliano Amato stanziò i fondi per il recupero del relitto del DC-9, che giaceva in fondo al mar Tirreno. La profondità di 3 700 metri alla quale si trovava il relitto rendeva complesse e costose le operazioni di localizzazione e recupero. Pochissime erano le imprese specializzate che disponevano delle attrezzature e dell'esperienza necessarie: la scelta ricadde sulla ditta francese Ifremer (Institut français de recherche pour l'exploitation de la mer, Istituto di ricerca francese per lo sfruttamento del mare), che il giudice Rosario Priore avrebbe poi ritenuto collegata ai servizi segreti francesi. Sulla conduzione dell'operazione di recupero effettuata dai DSRV della Ifremer, che portò in superficie la maggior parte della cellula dell'aeromobile, scaturirono molti dubbi, principalmente sui filmati consegnati in copia e sul fatto che l'ispezione al relitto documentata dalla ditta francese fosse davvero stata la prima. Le difficoltà tecniche, i problemi di finanziamento e le resistenze esercitate da varie delle parti interessate contribuirono a rimandare il recupero per molti anni. Alla fine due distinte campagne di recupero, nel 1987 e nel 1991, consentirono di riportare in superficie circa il 96% del relitto del DC-9; si specifica che è stato recuperato l'85% della superficie bagnata dell'aereo. Il relitto venne ricomposto in un hangar dell'aeroporto di Pratica di Mare, dove rimase a disposizione della magistratura per le indagini fino al 5 giugno 2006, data in cui fu trasferito e sistemato, grazie al contributo dei Vigili del Fuoco di Roma, nel Museo della Memoria, approntato appositamente a Bologna. Molto interesse destò nell'opinione pubblica il rinvenimento il 10 maggio 1992, durante la seconda campagna di recupero al limite orientale della zona di ricerca (zona D), di un serbatoio esterno sganciabile di un aereo militare, schiacciato e frammentato, ma completo di tutti i pezzi; tali serbatoi esterni generalmente vengono sganciati in caso di pericolo o più semplicemente in caso di necessità (come ad esempio in fase di atterraggio) per aumentare la manovrabilità dell'apparecchio. Il serbatoio fu recuperato il 18 maggio e fu sistemato a Pratica di Mare con gli altri reperti. Lungo 3 metri, per una capienza di 300 U.S. gal (1 135 litri) di combustibile, presentava i dati identificativi: Pastushin Industries inc. pressurized 300 gal fuel tank installation diagram plate 225-48008 plate 2662835 che lo indicavano quindi prodotto dalla Pastushin Aviation Company di Huntington Beach, Los Angeles, California (divenuta poi Pavco)[68] negli Stati Uniti oppure all'estero su licenza. Tale tipo di serbatoio era installabile su almeno quattro modelli di aerei: MD F-4 Phantom (in servizio nelle flotte di Stati Uniti, Israele, Germania, Grecia e Regno Unito), Northrop F-5 (in servizio nel 1980 nelle flotte di Arabia Saudita, Austria, Bahrein, Botswana, Brasile, Canada, Cile, Corea del Sud, Etiopia, Filippine, Giordania, Grecia, Honduras, India, Iran, Iran, Kenya, Libia, Malesia, Norvegia, Pakistan, Paesi Bassi, Singapore, Spagna, Sudan, Svizzera, Thailandia, Taiwan, Tunisia, Turchia, Stati Uniti, Venezuela, Vietnam del Sud e Yemen), F-15 Eagle (in servizio nelle flotte di Arabia Saudita, Giappone, Israele e Stati Uniti), Vought A-7 Corsair II (in servizio nelle flotte di Stati Uniti, Grecia, Portogallo e Thailandia). Nessuno degli aerei listati è stato impiegato nelle flotta di Francia, nazione responsabile dell'abbattimento secondo le ipotesi di Francesco Cossiga e Canal+. Gli Stati Uniti, interpellati dagli inquirenti, risposero che dopo tanti anni non era loro possibile risalire a date e matricole per stabilire se e quando il serbatoio fosse stato usato in servizio dall'Aviazione o dalla Marina degli Stati Uniti. Furono interpellate anche le autorità francesi, che risposero di non aver mai acquistato o costruito su licenza serbatoi di quel tipo; fornirono inoltre copie dei libri di bordo di quel periodo delle portaerei della Marine nationale Clemenceau e Foch.
Buona parte degli oblò del DC-9, malgrado l'esplosione, sono rimasti integri; secondo i periti, questo fatto escluderebbe che l'esplosione sia avvenuta a causa di una bomba collocata all'interno dell'aereo.
Nel 1989 la Commissione Stragi, istituita l'anno precedente e presieduta dal senatore Libero Gualtieri, deliberò di inserire tra le proprie competenze anche le indagini relative all'incidente di Ustica, che da quel momento divenne pertanto, a tutti gli effetti, la Strage di Ustica. L'attività istruttoria della Commissione determinò la contestazione di reati a numerosi militari in servizio presso i centri radar di Marsala e Licola. Per undici anni i lavori si susseguirono, interessando i vari governi del tempo e le autorità militari. Come riportato esplicitamente nelle considerazioni preliminari dell'inchiesta del giudice Priore, sin dalle prime fasi gli inquirenti mossero accuse di scarsa collaborazione e trasparenza da parte di, come definito: «soggetti che a vario titolo hanno tentato di inquinare il processo, e sono riusciti nell'intento per anni». Venne coniato il termine muro di gomma, divenuto poi il termine utilizzato per descrivere il comportamento delle istituzioni nei confronti delle ricostruzioni che attribuivano la causa del disastro aereo di Ustica ad un'azione militare. Dopo cinque mesi, infatti, venne presentata una secca ed essenziale ricostruzione da parte dei due esperti Rana e Macidull, che affermavano con certezza che si era di fronte ad un abbattimento causato da un missile. La ricostruzione non venne presa in seria considerazione dal governo presieduto dall'onorevole Francesco Cossiga, che assunse un orientamento diverso e non fu disposto a modificarlo. Il presidente della società Itavia, Aldo Davanzali, per aver condiviso la tesi del missile, fu indiziato del reato di diffusione di notizie atte a turbare l'ordine pubblico, su iniziativa del giudice romano Santacroce a cui era affidata l'inchiesta sul disastro. L'ex ministro Rino Formica, ascoltato dalla Commissione, dichiarò di ritenere verosimile l'ipotesi di un missile, già da lui sostenuta in un'intervista all'Espresso del 1988: a suo dire, a convincerlo tempestivamente che il DC-9 era stato abbattuto da un missile era stato il generale Saverio Rana, presidente del Registro Aeronautico, il quale all'indomani della sciagura, dopo un primo esame dei dati radar, avrebbe detto al ministro dei Trasporti che l'aereo dell'Itavia era stato attaccato da un caccia ed abbattuto con un missile. Per Formica, il generale Rana - nel frattempo morto per tumore - era «un compagno, un amico» nel quale aveva piena fiducia. In seguito all'intervista all'Espresso, interrogato dalla commissione parlamentare sulle stragi, Formica disse di aver parlato dopo l'incidente solo col ministro della Difesa Lelio Lagorio delle informazioni avute da Rana, anche se non era andato oltre, trattandosi non di certezze ma di opinioni ed intuizioni; ma Lagorio, il 6 luglio 1989, davanti alla stessa commissione, nel confermare che Formica gli parlò del missile, commentò: «Mi parve una di quelle improvvise folgorazioni immaginifiche e fantastiche per cui il mio caro amico Formica è famoso». Il 27 maggio 1990 i periti hanno concluso che si tratta di un missile e non di una bomba a bordo. Malgrado ciò, gli esperti dell'aeronautica militare italiana che hanno partecipato alla superperizia, in qualità di consulenti di parte, continuano a sostenere la tesi della bomba.
Anche gli inquirenti denunciarono esplicitamente che il sostanziale fallimento delle indagini fosse dovuto a estesi depistaggi ed inquinamenti delle prove, operati da soggetti ed entità molteplici, come riportano i passi introduttivi del Procedimento Penale Nr. 527/84 A G. I. «Il disastro di Ustica ha scatenato, non solo in Italia, processi di deviazione e comunque di inquinamento delle indagini. Gli interessi dietro l'evento e di contrasto di ogni ricerca sono stati tali e tanti e non solo all'interno del Paese, ma specie presso istituzioni di altri Stati, da ostacolare specialmente attraverso l'occultamento delle prove e il lancio di sempre nuove ipotesi – questo con il chiaro intento di soffocare l'inchiesta – il raggiungimento della comprensione dei fatti [...] Non può perciò che affermarsi che l'opera di inquinamento è risultata così imponente da non lasciar dubbi sull'ovvia sua finalità: impedire l'accertamento della verità. E che, va pure osservato, non può esserci alcun dubbio sull'esistenza di un legame tra coloro che sono a conoscenza delle cause che provocarono la sciagura ed i soggetti che a vario titolo hanno tentato di inquinare il processo, e sono riusciti nell'intento per anni.» (CAPO 3° Gli inquinamenti. Capitolo I Considerazioni preliminari. pag. 3.) Per questa ipotesi investigativa, assieme alle indagini per la ricerca delle cause si sovrapposero le indagini per provare quegli inquinamenti e quei depistaggi.
Tracciati radar. L'aereo DC-9 era sotto il controllo del Centro regionale di controllo del traffico aereo di Ciampino e sotto la sorveglianza dei radar militari di Licola (vicino Napoli) e di Marsala (in Sicilia). Tra le tracce radar oggetto di visione, è stata accertata la presenza di tracciati radar di numerose stazioni, civili e militari, nazionali ed internazionali.
Il registro del radar di Marsala. Animazione a velocità raddoppiata del tracciato radar, registrato dall'impianto di Ciampino, degli ultimi minuti del volo. Il DC-9 è diretto a sud e vi è un vento a circa 200 km/h verso sud-est. Si notino i due echi senza identificazione sulla sinistra: secondo alcuni periti si tratta della traccia di un aereo, secondo altri di falsi plot, errori del radar. La scritta "IH870" scompare con l'ultima risposta del transponder. Altri contatti su cui si sono concentrate le indagini sono i plot doppi dopo il disastro, sospettati di essere tracce di altri aerei in volo. Tali plot potrebbero anche essere stati determinati, si è ipotizzato, dalla struttura principale dell'aereo in caduta e da fenomeni di chaffing causati da frammenti, anche se restano i dubbi per i plot ad ovest del punto di caduta in quanto sopravvento e quindi difficilmente attribuibili a rottami che cadono nel letto del forte vento di maestrale (che proviene appunto da Nord-Ovest e spinge verso Sud-Est). Durante le indagini si appurò che il registro dell'IC, cioè del guida caccia Muti del sito radar di Marsala, aveva una pagina strappata nel giorno della perdita del DC-9. Il pubblico ministero giunse quindi alla conclusione che fosse stata sottratta la pagina originale del 27 giugno e se ne fosse riscritta poi, nel foglio successivo, una diversa versione. Durante il processo, la difesa contestò questa conclusione e affermò che la pagina mancante non sarebbe stata riferita al giorno della tragedia, ma alla notte tra il 25 e il 26 giugno. L'analisi diretta della Corte concluse che la pagina tra il 25 e il 26 era stata tagliata, come osservato dalla difesa, ma quella che riguarda la sera del 27 giugno era recisa in modo estremamente accurato, così che fosse difficile accorgersene (il particolare era infatti stato omesso all'avvocato difensore). La numerazione delle pagine non aveva invece interruzioni ed era quindi posteriore al taglio. Interrogato a questo proposito, il sergente Muti, l'IC in servizio quella sera a Marsala non fornì alcuna spiegazione («Non so cosa dirle»). La difesa riconobbe in seguito che la pagina del registro dell'IC, cioè del guida caccia Muti in servizio il 27 giugno, era stata effettivamente rimossa dal registro.
Il registro del radar di Licola. Il centro radar di Licola è il più vicino al punto del disastro. All'epoca era di tipo fonetico-manuale: nella sala operativa del sito, le coordinate delle tracce venivano comunicate a voce dagli operatori seduti alle console radar ad altri operatori, che le disegnavano stando in piedi dietro un pannello trasparente. Parallelamente tali dati venivano scritti da altri incaricati sul modello "DA 1". Il "DA 1" del 27 giugno 1980 non fu mai ritrovato.
Aeroporto di Grosseto e centro radar di Poggio Ballone. Il giudice istruttore e la Commissione stragi sono in possesso dei tracciati del radar di Grosseto: nelle registrazioni del radar dell'aeroporto di Grosseto si vedono due aerei in volo in direzione nord, sulla rotta del DC-9 Itavia. Mentre due altre tracce di velivoli, provenienti dalla Corsica, giungono sul posto alcuni minuti dopo l'orario stimato di caduta del DC-9 stesso. I nastri con le registrazioni radar del centro della Difesa aerea di Poggio Ballone sarebbero invece spariti: ne rimangono soltanto alcune trasposizioni su carta di poche tracce.
Aeroporto di Ciampino. Il radar di Ciampino quella sera registrò delle tracce che, secondo i periti interpellati dall'associazione dei parenti delle vittime, potevano essere identificate come una manovra d'attacco aereo condotta nei pressi della rotta del DC-9.
Aeroporto di Fiumicino. Il radar dell'Aeroporto di Roma-Fiumicino registrò il volo del DC-9 Itavia del 27 giugno 1980 nel lasso di tempo intercorso tra le ore 20:58 e le 21:02.
AWACS. In quelle ore, un aereo radar AWACS, un quadrireattore Boeing E-3A Sentry, dell'USAF, uno degli unici due presenti in Europa nel 1980, basati a Ramstein (Germania) dall'ottobre del 1979, risulta orbitante con rotta circolare nell'area a nord di Grosseto. Dotato dell'avanzatissimo radar 3D Westinghouse AN/APY-1 con capacità "Look down", in grado di distinguere i velivoli dagli echi del terreno, era in condizione di monitorare tutto il traffico, anche di bassa quota, per un raggio di 500 km.
Portaerei Saratoga. L'ammiraglio James Flatley al comando della portaerei USS Saratoga della US Navy, ancorata il 27 giugno 1980 nel golfo di Napoli, dopo aver inizialmente dichiarato che «dalla Saratoga non fu possibile vedere nulla perché tutti i radar erano in manutenzione», successivamente cambiò versione: disse che nonostante fossero in corso lavori di manutenzione dei radar, uno di essi era comunque in funzione ed aveva registrato «un traffico aereo molto sostenuto nell'area di Napoli, soprattutto in quella meridionale». A detta dell'ammiraglio, si videro passare «moltissimi aerei». I registri radar della Saratoga sono andati persi. Secondo altre fonti, la Saratoga non si trovava affatto in rada a Napoli il 27 giugno 1980.
Civilavia e Centro bolognese. Le stazioni radar di Civilavia e di Centro bolognese si occupavano di registrare tutti i voli nazionali ed internazionali civili, commerciali e militari, per poi procedere alla stampa e alla fatturazione dei costi di ogni passaggio aereo a ciascuna compagnia, società o autorità competente. I nastri con le registrazioni dei voli, decrittati e stampati, furono acquisiti dal giudice istruttore.
Radar russo. Nell'aprile del 1993 il generale Yuri Salimov, in forza ai servizi segreti russi, affermò di aver seguito i fatti di Ustica attraverso un radar russo basato in Libia che, con l'ausilio di un satellite, era in grado di monitorare il mar Tirreno meridionale.
Il traffico aereo. Diversi elementi portarono gli inquirenti ad indagare sull'eventuale presenza di altri aerei coinvolti nel disastro. Si determinarono con certezza alcuni punti:
In generale la zona sud del Tirreno era utilizzata per esercitazioni NATO.
Furono inoltre accertate in quel periodo penetrazioni dello spazio aereo italiano da parte di aerei militari libici. Tali azioni erano dovute alla necessità da parte dell'Aeronautica Militare Libica di trasferire i vari aerei da combattimento da e per la Jugoslavia, nelle cui basi veniva assicurata la manutenzione ai diversi MiG e Sukhoi di fabbricazione sovietica, presenti in gran quantità nell'aviazione del colonnello Gheddafi.
Il governo italiano, fortemente debitore verso il governo libico dal punto di vista economico (non si dimentichi che dal 1º dicembre 1976 addirittura la FIAT era parzialmente in mani libiche, con una quota azionaria del 13% detenuta dalla finanziaria libica LAFICO, tollerava tali attraversamenti e li mascherava con piani di volo autorizzati per non impensierire gli USA. Spesso gli aerei libici si mimetizzavano nella rete radar, disponendosi in coda al traffico aereo civile italiano, riuscendo così a non allertare le difese NATO.
Diverse testimonianze, inoltre, avevano descritto l'area come soggetta a improvvisa comparsa di traffico militare statunitense. Un traffico di tale intensità da far preoccupare piloti, civili e controllori: poche settimane prima della tragedia di Ustica, un volo Roma-Cagliari aveva deciso per sicurezza di tornare all'aeroporto di partenza; in altre occasioni i controllori di volo avevano contattato l'addetto aeronautico dell'ambasciata USA per segnalare la presenza di aerei pericolosamente vicini alle rotte civili. Più specificamente, durante la giornata del 27 giugno 1980 era segnata nei registri, dalle 10:30 alle 15:00, l'esercitazione aerea USA "Patricia", ed era poi in corso un'esercitazione italiana h. 24 (cioè della durata di ventiquattro ore) a Capo Teulada, segnalata nei NOTAM.
Durante quella sera, tra le ore 20:00 e le 24:00 locali, erano testimoniati diversi voli nell'area da parte di aerei militari non appartenenti all'aeronautica militare italiana: un quadrireattore E-3A Sentry (aereo AWACS o aereo radar), che volava da oltre due ore a 50 km da Grosseto in direzione nord ovest, un CT-39G Sabreliner, un jet executive militare e vari Lockheed P-3 Orion (pattugliatori marini) partiti dalla base di Sigonella, un Lockheed C-141 Starlifter (quadrireattore da trasporto strategico) in transito lungo la costa tirrenica, diretto a sud.
Inoltre, sembra che in quei giorni (ed anche quella sera) alcuni cacciabombardieri F-111 dell'USAF basati a Lakenheath (Suffolk, Gran Bretagna), si stessero trasferendo verso l'Egitto all'aeroporto di Cairo West, lungo una rotta che attraversava la penisola italiana in prossimità della costa tirrenica, con l'appoggio di aerei da trasporto strategico C-141 Starlifter. Gli aerei facevano parte di un ponte aereo in atto da diversi giorni, che aveva lo scopo di stringere una cooperazione con l'Egitto e ridurre la Libia, con la quale vigeva uno stato di crisi aperta sin dal 1973, a più miti consigli.
Intensa e insolita attività di volo fino a tarda sera era testimoniata anche dal generale dei Carabinieri Nicolò Bozzo presso la base aerea di Solenzara, in Corsica, che ospitava vari stormi dell'Armée de l'air francesi: ciò smentiva i vertici militari francesi, i quali avevano affermato ai magistrati italiani di non aver svolto con la loro aeronautica militare alcuna attività di volo nel pomeriggio del 27 giugno 1980.
La sera della strage di Ustica, quattro aerei volavano con lo stesso codice di transponder. Il DC-9 Itavia aveva come codice il n. 1136 e altri tre velivoli, di cui uno sicuramente militare, erano dotati dello stesso numero di riconoscimento.
Dalla perizia tecnico-radaristica risulta che trenta aerei supersonici militari, difensori e attaccanti, sorvolarono la zona di Ustica nel pomeriggio e alla sera del 27 giugno 1980, dalle 17:30 alle 21:15, per 3 ore e 45 minuti. Gli aerei militari avevano tutti il transponder spento per evitare di essere identificati dai radar. Un'esercitazione d'aviazione di marina, come ha detto l'ammiraglio James H. Flatley, nella sua prima versione e che conferma la presenza di una portaerei che raccolse i propri aerei.
Intensa attività militare. Successivamente, all'inizio dell'agosto 1980, oltre a vari relitti furono ritrovati in mare anche due salvagenti e un casco di volo della marina americana; a settembre, presso Messina, si rinvennero frammenti di aerei bersaglio italiani, che sembrano però risalenti a esercitazioni terminate nel gennaio dello stesso anno. Questi dati evidenziano che nell'area tirrenica, in quel periodo del 1980, si svolgeva un'intensa attività militare. Inoltre, benché molti di questi fatti, se presi singolarmente, appaiano in relazione diretta con la caduta del DC-9, si è notata da alcuni la coincidenza temporale dell'allarme degli F-104 italiani su Firenze, al momento del passaggio del DC-9, dell'esistenza di tracce radar non programmate che transitano ad oltre 600 nodi in prossimità dell'aereo civile, della pluritestimonianza dell'inseguimento tra aerei da caccia sulla costa calabra e, infine, delle attività di ricerca, in una zona a 20 miglia ad est del punto di caduta, effettuate da velivoli non appartenenti al Soccorso aereo Italiano.
Due aerei militari italiani danno l'allarme. Due F-104 del 4º Stormo dell'aeronautica militare italiana, di ritorno da una missione di addestramento sull'aeroporto di Verona-Villafranca, mentre effettuavano l'avvicinamento alla base aerea di Grosseto si trovarono in prossimità del DC-9 Itavia. Uno era un F-104 monoposto, con un allievo ai comandi; l'altro, un TF 104 Gbiposto, ospitava due istruttori, i comandanti Mario Naldini e Ivo Nutarelli. Alle ore 20:24, all'altezza di Firenze-Peretola, il biposto con a bordo Naldini e Nutarelli, mentre era ancora in prossimità dell'aereo civile, emise un segnale di allarme generale alla Difesa Aerea (codice 73, che significa emergenza generale e non emergenza velivolo) e nella registrazione radar di Poggio Ballone «il SOS-SIF è [...] settato a 2, ovvero emergenza confermata, ed il blink è settato ad 1, ovvero accensione della spia di Alert sulle consolles degli operatori» – in linguaggio corrente: «il segnale di allarme-SIF (Selective Identification Feature, caratteristica di identificazione selezionabile) è posizionato su 2, ossia emergenza confermata, ed il lampeggìo è posizionato su 1, ossia accensione della spia di allarme sulla strumentazione degli operatori» – quindi risulta che Naldini e Nutarelli segnalarono un problema di sicurezza aerea e i controllori ottennero conferma della situazione di pericolo. I significati di tali codici, smentiti o sminuiti di importanza da esperti dell'aeronautica militare italiana ascoltati in qualità di testi, furono invece confermati in sede della Commissione ad hoc della NATO, da esperti dell'NPC (NATO Programming Centre), i quali difatti hanno affermato nel loro rapporto del 10 marzo 1997: « Varie volte è stato dichiarato lo stato di emergenza confermata relativa alla traccia LL464/LG403 sulla base del codice SIF1 73, che all'epoca del disastro veniva usato come indicazione di emergenza. La traccia ha attraversato la traiettoria del volo del DC-9 alle 18:26, ed è stata registrata per l'ultima volta nei pressi della base aerea di Grosseto alle 18:39». L'aereo ripeté per ben tre volte la procedura di allerta, a conferma inequivocabile dell'emergenza. Né l'aeronautica militare italiana né la NATO hanno mai chiarito le ragioni di quell'allarme.
Il MiG-23 precipitato in Calabria. Il 18 luglio 1980 la carcassa di un MiG-23MS dell'Aeronautica militare libica venne ritrovato sui monti della Sila in zona Timpa delle Magare, nell'attuale comune di Castelsilano, crotonese (allora in provincia di Catanzaro), in Calabria, dalla popolazione locale. Il Giudice Istruttore ipotizzò una correlazione del fatto con la caduta del DC-9 Itavia, in quanto furono depositate agli atti delle testimonianze di diversi militari in servizio in quel periodo, tra le quali quelle del caporale Filippo Di Benedetto e dei suoi commilitoni del battaglione "Sila", del 67º battaglione Bersaglieri "Persano" e del 244º battaglione fanteria "Cosenza", che affermavano di aver effettuato servizi di sorveglianza al MiG-23 non a luglio, bensì a fine giugno 1980, il periodo cioè della caduta del DC-9 Itavia. Si teorizzò quindi che il caccia libico non fosse caduto il giorno in cui fu dichiarato il ritrovamento dalle forze dell'ordine (cioè 18 luglio), ma molto prima, probabilmente la stessa sera della strage, e che quindi il velivolo fosse stato coinvolto, attivamente o passivamente, nelle circostanze che condussero alla caduta dell'aereo Itavia. I sottufficiali Nicola De Giosa e Giulio Linguanti dissero altresì che la fusoliera del MiG era sforacchiata «come se fosse stata mitragliata» da «sette od otto fori da 20 mm» simili a quelli causati da un cannoncino. La perizia eseguita nel corso dell'istruttoria del giudice Vittorio Bucarelli fece bensì emergere elementi che vennero interpretati come coerenti con la tesi che l'aereo fosse precipitato proprio il 18 luglio: dalle testimonianze dei Vigili del Fuoco e dai Carabinieri accorsi sul luogo dello schianto e dal primo esame del medico legale si evinse che il pilota era morto da poco; il paracadute nel quale era parzialmente avvolto era sporco di sangue e il cadavere (non ancora in rigor mortis) riportava ferite in cui era visibile del sangue che iniziava a coagularsi. In aggiunta fu riportato che dai rottami del MiG usciva il fumo di un principio di incendio (subito domato dai Vigili del Fuoco). Per contro tali affermazioni vennero confutate dal professor Zurlo, che in una lettera scritta con il dottor Rondanelli e inviata nel 1981 alla sede dell'Itavia affermò che il cadavere pilota del MiG era in avanzato stato di decomposizione, tale da suggerire una morte avvenuta almeno 20 giorni prima del 23 luglio. A gennaio 2016 un’inchiesta del canale televisivo francese Canal+ addebitò la responsabilità dell'abbattimento dell'aereo Itavia ad alcuni caccia francesi impegnati in un'operazione militare sul mar Tirreno: secondo la ricostruzione proposta, un velivolo estraneo si sarebbe nascosto ai radar volando sotto il DC-9, non riuscendo però ad evitare l'intercettazione da parte dei suddetti caccia francesi, che nel tentativo di attaccarlo avrebbero inizialmente colpito per errore l'I-TIGI. Il velivolo nascosto sarebbe poi comunque stato colpito e infine sarebbe precipitato in Calabria, venendo quindi identificato col MiG caduto a Timpa delle Magare. Le ipotesi del documentario vennero però presto confutate dai documenti di anni di indagini e perizie, come dalla sentenza-ordinanza del giudice Priore. Tra le testimonianze che datano la caduta del MiG al giorno stesso della strage di Ustica, il 27 giugno, si annovera quella dell'ex caporale Filippo Di Benedetto e alcuni suoi ex commilitoni; la tesi è sostenuta dal maresciallo Giulio Linguanti e dal giudice istruttore Rosario Priore, che a sua volta trovò una serie di testimoni che riferirono di aver visto il 27 giugno 1980 due caccia che ne inseguivano un terzo, sparando con il cannoncino, lungo una rotta che da Ustica andava su Lamezia e fino a Castelsilano.
La tesi della bomba. Il giorno dopo il disastro, alle 12:10, una telefonata al Corriere della Sera annunciò a nome dei Nuclei Armati Rivoluzionari, un gruppo terrorista neofascista, che l'aereo era stato fatto esplodere con una bomba da loro posta nella toilette, da uno dei passeggeri: tal Marco Affatigato (imbarcato sotto falso nome), membro dei NAR che - invece - era in quei mesi al servizio dell'intelligence francese e che, nel settembre dello stesso anno, rientrato in Italia, venne recluso nel carcere di Ferrara. Affatigato, però, sconfessò rapidamente la telefonata: per rassicurare la madre chiese alle Digos di Palermo e di Lucca di smentire la notizia della sua presenza a bordo dell'aereo precipitato. Circa un mese dopo ci fu la strage di Bologna. In entrambi i casi, Bologna era la città in cui avrebbero colpito i NAR ma per tutti e due i casi Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, ai vertici del gruppo terrorista, smentirono un coinvolgimento dell'organizzazione negli eventi, come la smentì il colonnello Amos Spiazzi dopo aver conosciuto in carcere Marco Affatigato. Vi è quindi chi ipotizza un depistaggio nel depistaggio, ovvero che la strage di Bologna sia servita ad avvalorare la tesi della bomba dei NAR collocata all'interno dell'aereo.
La tesi della bomba avrebbe diviso anche i periti incaricati dal giudice Vittorio Bucarelli di analizzare i resti ripescati dal fondale marino: un primo momento li vide concordi all'unisono circa il missile; successivamente, due dei cinque tecnici avrebbero cambiato versione propendendo per la bomba. La bomba sarebbe stata collocata durante la sosta nell'aeroporto di Bologna, nella toilette posteriore dell'aereo. La perizia sulle suppellettili del gabinetto ritrovate ha confermato che erano intatte la tavoletta del water e il lavandino: inoltre secondo gli specialisti britannici del Dra di Halstead, nessuno dei pezzi della toilette, water e lavandino è scheggiato da residui di esplosivo. Inoltre il giudice osservò come fosse possibile collocare una bomba su un aereo partito con due ore di ritardo, avendo la certezza che sarebbe esplosa in volo, invece che a terra.
I dialoghi registrati.
Alle 20:58 di quella sera, nella registrazione di un dialogo tra due operatori radar a Marsala, seduti di fronte allo schermo radar, si sentì uno dei due esclamare: «[...] Sta' a vedere che quello mette la freccia e sorpassa!» e poco dopo anche «Quello ha fatto un salto da canguro!»
Alle 22:04 a Grosseto gli operatori radar non si accorsero che il contatto radio con Ciampino era rimasto aperto e che le loro voci venivano registrate. Nella registrazione si sente: «[...] Qui, poi... il governo, quando sono americani...»
e quindi: «Tu, poi... che cascasse...» e la risposta: «È esploso in volo!»
Alle 22:05, a Ciampino, gli operatori, parlando del radar di Siracusa, dissero: «[...] Stavano razzolando degli aerei americani... Io stavo pure ipotizzando una collisione in volo.» ed anche: «Sì, o...di un'esplosione in volo!»
I nastri telefonici e le testimonianze in aula. «Allora io chiamo l'ambasciata, chiedo dell'attaché... eh, senti, guarda: una delle cose più probabili è la collisione in volo con uno dei loro aerei, secondo me, quindi...» (27 giugno 1980, ore 22:39 locali. Dalla telefonata tra Ciampino e l'ambasciata USA). Nel 1991 gli inquirenti entrarono in possesso solo di una piccola parte dei nastri delle comunicazioni telefoniche fatte quella notte e la mattina seguente. La maggior parte di tali nastri è andata perduta, in quanto erano stati riutilizzati sovraincidendo le registrazioni. Dall'analisi dei dialoghi emerse che la prima ipotesi fatta dagli ufficiali dell'aeronautica militare italiana era stata la collisione e che in tal senso avevano intrapreso azioni di ricerca di informazioni, sia presso vari siti dell'aeronautica sia presso l'ambasciata USA a Roma. Più volte si parlava di aerei americani che "razzolano", di esercitazioni, di collisione ed esplosione, di come ottenere notizie certe al riguardo. Tutto il personale che partecipava alle telefonate venne identificato tramite riconoscimenti e incrocio di informazioni. Solo dopo il rinvenimento di quei nastri, si ammise per la prima volta di aver contattato l'ambasciata USA o di aver parlato di "traffico americano"; prima era sempre stato negato. Le spiegazioni fornite dagli interessati durante deposizioni e interrogatori contrastano comunque con il contenuto delle registrazioni o con precedenti deposizioni.
Udienza del 21 febbraio 2001: PM - «Furono fatte delle ipotesi sulla perdita del DC-9 in relazione alle quali era necessario contattare l'ambasciata americana?» Chiarotti - «Assolutamente no, per quello che mi riguardi [...] La telefonata fu fatta per chiedere se avessero qualche notizia di qualsiasi genere che interessasse il volo dell'Itavia, [...]».
Udienza del 7 febbraio 2001: capitano Grasselli - «Normalmente chiamavamo l'ambasciata americana per conoscere che fine avevano fatto dei loro aerei di cui perdevamo il contatto. Non penso però che quella sera la telefonata all'ambasciata americana fu fatta per sapere se si erano persi un aereo. Ho ritenuto la telefonata un'iniziativa goliardica in quanto tra i compiti del supervisore non c'è quello di chiamare l'ambasciata [...]».
Deposizione del 31 gennaio 1992 del colonnello Guidi: - «Ho un ricordo labilissimo anzi inesistente di quella serata. Nessuno in sala operativa parlava di traffico americano, che io ricordi. [...] pensando che l'aeromobile avesse tentato un ammaraggio di fortuna, cercavamo l'aiuto degli americani per ricercare e salvare i superstiti». Una volta fatta ascoltare in aula la telefonata all'ambasciata, Guidi affermò di non riconoscere la propria voce nella registrazione e ribadì che non ricordava la telefonata. Nel 1991 affermava: «Quella sera non si fece l'ipotesi della collisione» e ancora «Non mi risulta che qualcuno mi abbia parlato d'intenso traffico militare [...]. Se fossi stato informato di una circostanza come quella dell'intenso traffico militare, avrei dovuto informare nella linea operativa l'ITAV, nella persona del capo del II Reparto, ovvero: Fiorito De Falco». Nel nastro di una telefonata delle 22:23 Guidi informò espressamente il suo diretto superiore, colonnello Fiorito De Falco, sia del traffico americano, sia di un'ipotesi di collisione, sia del contatto che si cercava di stabilire con le forze USA. Ma nella deposizione dell'ottobre 1991, anche il generale Fiorito De Falco affermava: «[...] Guidi non mi riferì di un intenso traffico militare».
Le morti sospette secondo l'inchiesta Priore. «La maggior parte dei decessi che molti hanno definito sospetti, di sospetto non hanno alcunché. Nei casi che restano si dovrà approfondire [...] giacché appare sufficientemente certo che coloro che sono morti erano a conoscenza di qualcosa che non è stato mai ufficialmente rivelato e da questo peso sono rimasti schiacciati.» (Ordinanza-sentenza Priore, capo 4, pag. 4674).
Per due dei 12 casi di decessi sospetti permangono indizi di relazione al caso Ustica:
maresciallo Mario Alberto Dettori: trovato impiccato il 31 marzo 1987, in un modo definito dalla Polizia Scientifica innaturale, presso Grosseto. Mesi prima, preoccupato, aveva rovistato tutta la casa alla ricerca di presunte microspie. Vi sono indizi che fosse in servizio la sera del disastro presso il radar di Poggio Ballone (GR) e che avesse in seguito sofferto di «manie di persecuzione» relativamente a tali eventi. Confidò alla moglie: «Sono molto scosso... Qui è successo un casino... Qui vanno tutti in galera!». Dettori confidò con tono concitato alla cognata che «eravamo stati a un passo dalla guerra». Tre giorni dopo telefonò al capitano Mario Ciancarella e disse: «Siamo stati noi a tirarlo giù, capitano, siamo stati noi [...]. Ho paura, capitano, non posso dirle altro al telefono. Qui ci fanno la pelle». Il giudice Priore conclude: «Sui singoli fatti come sulla loro concatenazione non si raggiunge però il grado della prova».
maresciallo Franco Parisi: trovato impiccato il 21 dicembre 1995, era di turno la mattina del 18 luglio 1980, data del ritrovamento del MiG libico sulla Sila. Proprio riguardo alla vicenda del MiG erano emerse durante il suo primo esame testimoniale palesi contraddizioni; citato a ricomparire in tribunale, muore pochi giorni dopo aver ricevuto la convocazione. Non si riesce a stabilire se si tratti di omicidio.
Gli altri casi presi in esame dall'inchiesta, sono:
colonnello Pierangelo Tedoldi: incidente stradale il 3 agosto 1980; avrebbe in seguito assunto il comando dell'aeroporto di Grosseto.
capitano Maurizio Gari: infarto, 9 maggio 1981; capo controllore di sala operativa della Difesa Aerea presso il 21º CRAM (Centro Radar Aeronautica Militare Italiana) di Poggio Ballone, era in servizio la sera della strage. Dalle registrazioni telefoniche si evince un particolare interessamento del capitano per la questione del DC-9 e la sua testimonianza sarebbe stata certo «di grande utilità all'inchiesta», visto il ruolo ricoperto dalla sala sotto il suo comando, nella quale, peraltro, era molto probabilmente in servizio il maresciallo Dettori. La morte appare naturale, nonostante la giovane età.
Giovanni Battista Finetti, sindaco di Grosseto: incidente stradale; 23 gennaio 1983. Era opinione corrente che avesse informazioni su fatti avvenuti la sera dell'incidente del DC-9 all'aeroporto di Grosseto. L'incidente in cui perde la vita, peraltro, appare casuale.
maresciallo Ugo Zammarelli: incidente stradale; 12 agosto 1988. Era stato in servizio presso il SIOS di Cagliari, tuttavia non si sa se fosse a conoscenza d'informazioni riguardanti la strage di Ustica, o la caduta del MiG libico.
colonnelli Mario Naldini e Ivo Nutarelli: incidente di Ramstein, 28 agosto 1988. In servizio presso l'aeroporto di Grosseto all'epoca dei fatti, la sera del 27 giugno, come già accennato, erano in volo su uno degli F-104 e lanciarono l'allarme di emergenza generale. La loro testimonianza sarebbe stata utile anche in relazione agli interrogatori del loro allievo, in volo quella sera sull'altro F-104, durante i quali, secondo l'istruttoria, è «apparso sempre terrorizzato». Sempre secondo l'istruttoria, appare sproporzionato - tuttavia non inverosimile - organizzare un simile incidente, con esito incerto, per eliminare quei due importanti testimoni.
maresciallo Antonio Muzio: omicidio, 1º febbraio 1991; in servizio alla torre di controllo dell'aeroporto di Lamezia Terme nel 1980, poteva forse essere venuto a conoscenza di notizie riguardanti il MiG libico, ma non ci sono certezze.
tenente colonnello Sandro Marcucci: incidente aereo; 2 febbraio 1992. Marcucci era un ex pilota dell'Aeronautica militare coinvolto come testimone nell'inchiesta per la strage di Ustica. L'incidente fu archiviato motivando l'errore del pilota. Tuttavia, nel 2013 il pm di Massa Carrara, Vito Bertoni, riaprì l'inchiesta contro ignoti per l'accusa di omicidio. L'associazione antimafia “Rita Atria” denunciò che l'incidente non fu causato da una condotta di volo azzardata, come sostennero i tecnici della commissione di inchiesta, ma probabilmente da una bomba al fosforo piazzata nel cruscotto dell'aereo.
maresciallo Antonio Pagliara: incidente stradale; 2 febbraio 1992. In servizio come controllore della Difesa Aerea presso il 32º CRAM di Otranto, dove avrebbe potuto avere informazioni sull'abbattimento del MiG. Le indagini propendono per la casualità dell'incidente.
generale Roberto Boemio: omicidio; 12 gennaio 1993 a Bruxelles. Da sue precedenti dichiarazioni durante l'inchiesta, appare chiaro che «la sua testimonianza sarebbe stata di grande utilità», sia per determinare gli eventi inerenti al DC-9, sia per quelli del MiG libico. La magistratura belga non ha risolto il caso.
maggiore medico Gian Paolo Totaro: trovato impiccato alla porta del bagno, il 2 novembre 1994. Gian Paolo Totaro era in contatto con molti militari collegati agli eventi di Ustica, tra i quali Nutarelli e Naldini.
Il rinvio a giudizio. Alla luce di queste anomalie inspiegate e delle risposte, da parte del personale dei due siti radar di Marsala e Licola, ritenute insoddisfacenti, il 28 giugno 1989il giudice Bucarelli accolse la richiesta del procuratore Santacroce e rinviò a giudizio per falsa testimonianza aggravata e concorso in favoreggiamento personale aggravato, ventitré tra ufficiali e avieri in servizio il giorno del disastro. L'ipotesi accusatoria fu che i militari, con una vasta operazione di occultamento delle prove e di depistaggio, avrebbero tentato di nascondere una battaglia tra aerei militari, nel corso della quale il DC-9 sarebbe precipitato.
Telefonata anonima a Telefono Giallo. Nel 1988, l'anno prima, durante la trasmissione Telefono giallo di Corrado Augias, con una telefonata anonima qualcuno aveva dichiarato di essere stato «un aviere in servizio a Marsala la sera dell'evento della sciagura del DC-9». L'anonimo aveva riferito che i presenti come lui, avrebbero esaminato le tracce, i dieci minuti di trasmissione di cui parlavano nella puntata, dichiarando: «noi li abbiamo visti perfettamente. Soltanto che il giorno dopo, il maresciallo responsabile del servizio ci disse praticamente di farci gli affari nostri e di non avere più seguito in quella vicenda. [...] la verità è questa: ci fu ordinato di starci zitti».
Scontro aereo tra caccia. In un articolo dal titolo Battaglia aerea poi la tragedia, pubblicato dal quotidiano L'Ora il 12 febbraio 1992, il giornalista Nino Tilotta affermò che l'autore della telefonata sarebbe stato in effetti in servizio allo SHAPE di Mons, in Belgio, e che avrebbe detto in trasmissione di essere a Marsala per non farsi riconoscere. Avrebbe rivelato la sua identità rilasciando l'intervista anni dopo essere andato in pensione in quanto, come aveva affermato, non si sentiva più vincolato dall'obbligo di mantenere il segreto militare. L'articolo parlava di uno scontro aereo avvenuto tra due caccia F-14 Tomcat della US Navy ed un MiG-23 libico. Secondo questa versione, il SISMI all'epoca comandato dal generale Giuseppe Santovito avrebbe avvertito gli aviatori libici di un progetto di attaccare sul mar Tirreno l'aereo nel quale Gheddafi andava in Unione Sovietica. Sembra che i progettisti di questa azione di guerra siano da ricercare tra quelli indicati dall'ammiraglio Martini, e cioè tra francesi e americani. In seguito alla spiata del SISMI, l'aereo che trasportava Gheddafi, arrivato su Malta, tornò indietro, mentre altri aerei libici proseguivano la rotta.
Testimonianze americane. Ventiquattr'ore dopo il disastro del DC-9, l'addetto militare aeronautico americano Joe Bianckino, dell'ambasciata americana a Roma, organizzò una squadra di esperti, formata da William McBride, Dick Coe, William McDonald, dal direttore della CIA a Roma, Duane Clarridge, dal colonnello Zeno Tascio, responsabile del SIOS (servizio segreto aeronautica militare italiana) insieme a due ufficiali italiani. Il giorno successivo alla strage Joe Bianckino era già in possesso dei tabulati radar e i suoi esperti li avevano sottoposti ad analisi. John Tresue, esperto missilistico del Pentagono, affermò, durante il suo interrogatorio come testimone, che gli furono consegnate dopo la sciagura, diverse cartelle con i tabulati dei radar militari; John Tresue informò il Pentagono, che ad abbattere il DC-9 era stato un missile. Il 25 novembre 1980, John Macidull, un esperto americano del National Transportation Safety Board, analizzò il tracciato radar dell'aeroporto di Fiumicino e si convinse che, al momento del disastro, accanto al DC-9 volava un altro aereo. Macidull disse che il DC-9 era stato colpito da un missile lanciato dal velivolo che era stato rilevato nelle vicinanze, velivolo non identificato in quanto aveva volontariamente spento il dispositivo di riconoscimento (transponder). Tale aereo, secondo Macidull, attraversava la zona dell'incidente da Ovest verso Est ad alta velocità, tra 300 e 550 nodi, nello stesso momento in cui si verificava l'incidente al DC-9, ma senza entrare in collisione.
Testimonianze libiche. Nel 1989 l'agenzia di stampa libica Jana preannunciò la costituzione di un comitato supremo d'inchiesta sulla strage di Ustica: «Tale decisione è stata presa dopo che si è intuito che si è trattato di un brutale crimine commesso dagli USA, che hanno lanciato un missile contro l'aereo civile italiano, scambiato per un aereo libico a bordo del quale viaggiava il leader della rivoluzione.
La firma falsa del presidente della Repubblica. Mario Ciancarella, ex capitano che indagava sull'incidente aereo, venne cacciato dall’Aeronautica con decreto del Quirinale nel 1983. Tuttavia il decreto non era stato firmato veramente dal presidente della Repubblica Sandro Pertini, ma da un soggetto esterno che ha falsificato la sua firma. In seguito a questa scoperta, è stato richiesto il reintegro del capitano Mario Ciancarella al ministro della difesa Roberta Pinotti.
Il processo della strage di Ustica. Il processo sulle cause e sugli autori della strage in realtà non si è mai tenuto in quanto l'istruttoria relativa definì "ignoti gli autori della strage" e concluse con un non luogo a procedere nel 1999. (ref. "L'istruttoria Priore") Il reato di strage non cade comunque in prescrizione per cui, se dovessero emergere nuovi elementi relativi, un eventuale processo potrebbe essere ancora condotto. Il processo complementare sui fatti di Ustica, per la parte riguardante i reati di depistaggio, imputati a carico di alti ufficiali dell'aeronautica militare italiana, è stato invece definitivamente concluso in Cassazione nel gennaio del 2007, con una sentenza che ha negato si siano verificati depistaggi.
L'istruttoria Priore. Le indagini si conclusero il 31 agosto 1999, con l'ordinanza di rinvio a giudizio-sentenza istruttoria di proscioglimento, rispettivamente, nei procedimenti penali nº 527/84 e nº 266/90, un documento di dimensioni notevoli che, dopo anni di indagini, la quasi totale ricostruzione del relitto, notevole impiego di fondi, uomini e mezzi, escluse le ipotesi di una bomba a bordo e di un cedimento strutturale, circoscrivendo di conseguenza le cause della sciagura ad un evento esterno al DC-9. Non si giunse però a determinare un quadro certo ed univoco di tale evento esterno. Mancano tuttora, del resto, elementi per individuare i responsabili. «L'inchiesta», si legge nel documento, «è stata ostacolata da reticenze e false testimonianze, sia nell'ambito dell'aeronautica militare italiana che della NATO, le quali hanno avuto l'effetto di inquinare o nascondere informazioni su quanto accaduto». L'ordinanza-sentenza concludeva: «L'incidente al DC-9 è occorso a seguito di azione militare di intercettamento, il DC-9 è stato abbattuto, è stata spezzata la vita a 81 cittadini innocenti con un'azione, che è stata propriamente atto di guerra, guerra di fatto e non dichiarata, operazione di polizia internazionale coperta contro il nostro Paese, di cui sono stati violati i confini e i diritti.»
Il processo in Corte di Assise sui presunti depistaggi. Il 28 settembre 2000, nell'aula-bunker di Rebibbia appositamente attrezzata, iniziò il processo sui presunti depistaggi, davanti alla terza sezione della Corte di Assise di Roma. Dopo 272 udienze e dopo aver ascoltato migliaia tra testimoni, consulenti e periti, il 30 aprile 2004, la corte assolse dall'imputazione di alto tradimento - per aver gli imputati turbato (e non impedito) le funzioni di governo - i generali Corrado Melillo e Zeno Tascio "per non aver commesso il fatto". I generali Lamberto Bartolucci e Franco Ferri furono invece ritenuti colpevoli ma, essendo ormai passati più di 15 anni, il reato era già caduto in prescrizione. Anche per molte imputazioni relative ad altri militari dell'Aeronautica Militare Italiana (falsa testimonianza, favoreggiamento, e così via) fu accertata l'intervenuta prescrizione. Il reato di abuso d'ufficio, invece, non sussisteva più per successive modifiche alla legge. La sentenza non risultò soddisfacente né per gli imputati Bartolucci e Ferri, né per la Procura, né infine per le parti civili. Tutti, infatti, presentarono ricorso in appello.
Il processo in Corte di Assise d'Appello, sui depistaggi. Anche il processo davanti alla Corte di Assise d'Appello di Roma, aperto il 3 novembre 2005, si è chiuso il successivo 15 dicembre con l'assoluzione dei generali Bartolucci e Ferri dalla imputazione loro ascritta perché il fatto non sussiste. La Corte rilevava infatti che non vi erano prove a sostegno dell'accusa di alto tradimento. Le analisi condotte nella perizia radaristica Dalle Mese, sono state eseguite con «sistemi del tutto nuovi e sconosciuti nel periodo giugno-dicembre 1980» e pertanto non possono essere prese in considerazione per giudicare di quali informazioni disponessero, all'epoca dei fatti, gli imputati. In ogni caso la presenza di altri aerei deducibile dai tracciati radar non raggiunge in alcuna analisi il valore di certezza e quindi di prova. Non vi è poi prova che gli imputati abbiano ricevuto notizia della presenza di aerei sconosciuti o USA collegabili alla caduta del DC-9.
Il ricorso in Cassazione (procedimento penale). La Procura generale di Roma propose ricorso per cassazione chiedendo l'annullamento della sentenza della Corte d'Appello del 15 dicembre 2005, e come effetto dichiarare che «il fatto contestato non è più previsto dalla legge come reato» anziché «perché il fatto non sussiste». La legge inerente all'alto tradimento venne infatti modificata con decreto riguardante i reati d'opinione l'anno successivo. Il 10 gennaio 2007 la prima sezione penale della Cassazione ha assolto con formula piena i generali Lamberto Bartolucci e Franco Ferri dichiarando inammissibile il ricorso della Procura generale e rigettando anche il ricorso presentato dal governo italiano.
Le dichiarazioni di Cossiga: ipotesi francese e nuova inchiesta. A ventotto anni dalla strage, la procura di Roma ha deciso di riaprire una nuova inchiesta a seguito delle dichiarazioni rilasciate nel febbraio 2007 da Francesco Cossiga. L'ex presidente della Repubblica, presidente del Consiglio all'epoca della strage, ha dichiarato che ad abbattere il DC-9 sarebbe stato un missile «a risonanza e non a impatto», lanciato da un velivolo dell'Aéronavale decollato dalla portaerei Clemenceau, e che furono i servizi segreti italiani ad informare lui e l'allora ministro dell'Interno Giuliano Amato dell'accaduto. In relazione a ciò, il giudice Priore dichiarò in un'intervista all'emittente francese France 2 che l'ipotesi più accreditata era che ci fosse un elemento militare francese.
Perizie d'ufficio e consulenze tecniche di parte. Volendo fare una breve sintesi dell'enorme numero di perizie d'ufficio e consulenze di parte, oltre un centinaio al termine del 31 dicembre 1997, possiamo ricordare: perizie tecnico-scientifiche: necroscopiche, medico-legali, chimiche, foniche, acustiche, di trascrizione, grafiche, metallografico-frattografiche, esplosivistiche, che non sono mai state contestate da alcuna parte.
Sono state essenzialmente quattro:
Stassi, Albano, Magazzù, La Franca, Cantoro, riguardanti le autopsie dei cadaveri ritrovati, durata anni, non s'è mai pienamente conclusa;
Blasi, riguardante il missile militare che ha colpito l'aereo civile, durata molti anni, è sfociata in spaccature profondissime e mai risolte;
Misiti, riguardante l'ipotesi bomba, durata più anni, è stata rigettata dal magistrato perché affetta da tali e tanti vizi di carattere logico, da molteplici contraddizioni e distorsioni del materiale probatorio da renderlo inutilizzabile ai fini della ricostruzione della verità;
Casarosa, Dalle Mese, Held, concernente la caduta del MiG-23.
Perizie d'ordine generale ovvero quelle con quesiti sulla ricostruzione dei fatti e sulle loro cause, che sono state sottoposte a critiche, contestazioni ed accuse:
radaristiche che hanno determinato documenti di parte critici e contrastati, in particolare l'interpretazione dei dati radar ovvero l'assenza o la presenza di altri velivoli all'intorno temporale e spaziale del disastro;
esplosivistica, dalle cui sperimentazioni sono state tratte deduzioni di parte a volte non coincidenti.
Le dichiarazioni di Giorgio Napolitano. L'8 maggio 2010, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in occasione del Giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo, ha chiesto la verità sulla strage di Ustica. Poco prima Fortuna Piricò, vedova di una delle vittime della strage, aveva chiesto di «completare la verità giudiziaria che ha parlato di una guerra non dichiarata, di completarla definendo le responsabilità». Una richiesta che Napolitano ha appoggiato: «Comprendo il tenace invocare di ogni sforzo possibile per giungere ad una veritiera ricostruzione di quel che avvenne quella notte». Intorno a quella strage, Napolitano ha visto «anche forse intrighi internazionali, [...] opacità di comportamenti da parte di corpi dello Stato». Poco tempo dopo, il 26 giugno 2010, in occasione del trentennale del disastro, il Presidente ha inviato un messaggio di cordoglio ai parenti delle vittime: «Il dolore ancora vivo per le vittime si unisce all'amara constatazione che le indagini svolte e i processi sin qui celebrati non hanno consentito di fare luce sulla dinamica del drammatico evento e di individuarne i responsabili... Occorre il contributo di tutte le istituzioni a un ulteriore sforzo per pervenire a una ricostruzione esauriente e veritiera di quanto accaduto, che rimuova le ambiguità e dipani le ombre e i dubbi accumulati in questi anni.». Anche in occasione del trentunesimo anniversario della strage, il 27 giugno 2011, il presidente Napolitano ha lanciato un appello perché si compia ogni sforzo, anche internazionale, per dare risposte risolutive.
Il Memorandum e le intercettazioni di Massimo Carminati. Il 2 settembre 2014, sono stati rivelati gli appunti segreti, le informative e i carteggi segreti del Ministero degli Affari Esteri, contenuti nel Memorandum che ha per oggetto la strage di Ustica in relazione alle questioni informative aperte con gli Stati Uniti. Sempre nel 2014, stando ad alcune intercettazioni emerse durante le indagini sulla cosiddetta Mafia Capitale uno dei boss della cupola mafiosa, Massimo Carminati, conversando con un suo collaboratore avrebbe affermato che «la responsabilità di Ustica era degli Stati Uniti».
Condanna in sede civile dei ministeri dell'interno e dei trasporti. Il 10 settembre 2011, dopo tre anni di dibattimento, una sentenza emessa dal giudice civile Paola Proto Pisani, ha condannato i ministeri della Difesa e dei Trasporti al pagamento di oltre 100 milioni di euro in favore di 42 (quarantadue) familiari delle vittime della Strage di Ustica. Alla luce delle informazioni raccolte durante il processo, i due ministeri sono stati condannati per non aver agito correttamente al fine di prevenire il disastro, non garantendo che il cielo di Ustica fosse controllato a sufficienza dai radar italiani, militari e civili (alché non fu garantita la sicurezza del volo e dei suoi occupanti), e per aver successivamente ostacolato l'accertamento dei fatti. Le conclusioni del giudice di Palermo escludono che una bomba fosse esplosa a bordo del DC-9, affermando bensì che l'aereo civile fosse stato abbattuto durante una vera e propria azione di guerra, dipanatasi senza che nessuno degli enti controllori preposti intervenisse. La sentenza individuò inoltre responsabilità e complicità di soggetti dell'Aeronautica Militare Italiana nel perpetrare atti illegali finalizzati a impedire l'accertamento della corretta dinamica dei fatti che condussero alla strage. Il 28 gennaio 2013 la Corte di Cassazione, nel respingere i ricorsi dell'avvocatura dello Stato ha confermato la precedente condanna, condividendo che il DC-9 Itavia fosse caduto non per un'esplosione interna, bensì a causa di un missile o di una collisione con un aereo militare, essendosi trovato nel mezzo di una vera e propria azione di guerra. I competenti ministeri furono dunque condannati a risarcire i familiari delle 81 vittime per non aver garantito, con sufficienti controlli dei radar civili e militari, la sicurezza dei cieli. La sentenza fu accolta favorevolmente dall'associazione dei familiari delle vittime. Il 30 giugno 2017 un ulteriore ricorso dell'avvocatura dello Stato è stato rigettato dalla Corte d'Appello di Palermo, che ha nuovamente additato a causa dell'incidente un atto ostile perpetrato da un aereo militare straniero.
Risarcimento danni all'Itavia e ai suoi dipendenti. Aldo Davanzali, anche se formalmente non per motivi direttamente correlati alla sciagura, perse la compagnia aerea Itavia, che cessò di volare e fu posta in amministrazione controllata nel 1980, con i conti in rosso, previa revoca della licenza di operatore aereo: un migliaio di dipendenti restarono senza lavoro. Probabilmente anche l'errata conclusione peritale in merito ai motivi del disastro influì sulla decisione di chiudere la società. Lo stesso Davanzali chiese allo Stato un risarcimento di 1 700 miliardi di lire per i danni morali e patrimoniali subìti a seguito della strage di Ustica, nell'aprile 2001. All'Itavia saranno infine corrisposti 108 milioni di euro, a risarcimento delle deficienze dello Stato nel garantire la sicurezza dell'aerovia su cui volava il DC-9.
Risarcimento recupero carcassa del DC-9. La Corte dei Conti richiese un risarcimento di 27 miliardi di lire a militari e personaggi coinvolti, come compenso per il recupero della carcassa del DC9.
Risarcimento vittime. La Corte di Cassazione, il 28 gennaio 2013, ha riconosciuto un risarcimento di 1,2 milioni di euro ai familiari di quattro vittime della strage di Ustica. Il giudice di Palermo, il 9 ottobre 2014, ha condannato il ministero della Difesa e il ministero dei Trasporti, a rimborsare le spese di giudizio e a risarcire con 5 637 199 euro, 14 familiari o eredi, di Annino Molteni, Erica Dora Mazzel, Rita Giovanna Mazzel, Maria Vincenza Calderone, Alessandra Parisi e Elvira De Lisi morti nella tragedia aerea di Ustica.
Ustica, sul Dc9 abbattuto la summa dei depistaggi, simbolo delle stragi italiane. Si sa tutta la verità sull'abbattimento dell'aereo Itavia in quel giugno 1980? Scrive Beppe Crespolini l'1 luglio 2017 su "Bergamo news". Le stragi ed alcuni fatti gravissimi accaduti in Italia, alludo, ad esempio, all’omicidio Moro, alle stragi di Bologna e di Brescia, sono soggetti a depistaggi e a inquinamenti di prove che allontanano la verità e lasciano in testa il dubbio che non tutto sia stato detto per coprire personaggi, istituzioni e azioni di paesi ai quali in quei giorni ed ancora oggi, non si vogliono attribuire, per convenienze politiche e strategiche, responsabilità. Connivenze di servizi segreti, di politici e interessi che volano molto al di sopra delle teste dei cittadini comuni rappresentano quella ragion di stato che piange davanti alle telecamere dopo aver condiviso la responsabilità dei morti con altre realtà e aver architettato sordide coperture agli autori dei misfatti. Vien da chiedersi se l’etica abbia mai sfiorato coloro che siedono nelle famigerate “stanze dei bottoni” o se la ragione di stato autorizzi il sacrificio di molte persone o di un solo cittadino per compiacere alleati ritenuti utili in un’ottica che a noi non è dato di comprendere. In questi giorni ricorre un nuovo triste anniversario il cui racconto sintetizzo per ragioni di cronaca, perché non venga dimenticato il dolore inflitto alle famiglie delle 81 persone che hanno perso la vita in quel lontano 27 giugno del 1980. Sono le ore 20,08 del 27 giugno 1980. Il DC9 I-TIGI della compagnia aerea Itavia scompare dall’aerovia Ambra 13. Dopo l’ultimo contatto radio, avvenuto alle 20,59 con Roma e la successiva autorizzazione ad iniziare la discesa verso Palermo, l’aereomobile non dà più segnali. I tentativi di comunicare con il comandante sono vani. Anche due aerei di Air Malta, il KM 153 e il KM 758 che seguono la stessa rotta, tentano di mettersi in contatto con il volo Itavia I-TIGI. Nessuna risposta. Alle 21,56 si alza in volo il primo elicottero Sikorski per cercare il velivolo scomparso. Nessuna traccia viene trovata. L’aeromobile è dato per disperso e solo alle prime luci dell’alba si individua l’area di mare nel quale l’aereo, o quello che resta di lui, si è inabissato. Degli 83 passeggeri, dei quali 13 bambini, ne vengono ripescati solo 38. E qui inizia la ridda delle ipotesi e delle certezze alle quali seguono regolari smentite che indicano nel cedimento strutturale del velivolo prima, e nello scoppio di un ordigno a bordo successivamente, le cause del disastro. Una figura di spicco, anche in questo caso, così come nel caso Moro, sostiene tesi che poi verranno tutte cancellate mano a mano che le indagini proseguono: Francesco Cossiga. Anche Giovanardi fu sospettato di voler mettere a tacere “l’incidente” obbedendo, probabilmente, a qualche ordine impartito da ambienti ai quali non si può che dire sì. Furono investiti più di 300 miliardi di lire in indagini e ricuperi dal mare delle parti dell’aereo e continuarono per molto tempo a sovrapporsi tesi diverse, fino a che non si arrivò ad una prima ammissione di responsabilità che attribuiva la causa del disastro ad un missile sganciato da aerei francesi di stanza in Corsica. Ma anche questa ipotesi perse di credibilità fino a che si arrivò, con estrema difficoltà, ad ammettere che l’aereo di Itavia fu abbattuto da un caccia americano durante la battaglia con un Mig libico che viaggiava sotto la pancia del DC9, nel tentativo di far rientro alla base senza che nessuno lo individuasse. Il MIG libico fu abbattuto lo stesso giorno della scomparsa dai radar del DC9 Itavia, ma non fu il MIG a causarne la distruzione, bensì uno dei due caccia americani che ingaggiò il combattimento con l’aereo libico che stava rientrando alla base dopo la manutenzione effettuata in Iugoslavia. La tesi che ormai si dà per certa è che nell’inseguimento del MIG, il caccia predator americano sia entrato in collisione con il DC9 Itavia. Pare che i nostri servizi segreti fossero tacitamente consenzienti al passaggio sul nostro territorio del MIG nel viaggio di rientro alla base. Ma anche la data dell’abbattimento del Mig, in un primo momento, fu spostata, in modo tale da non mettere in relazione i due avvenimenti. Come sempre accade in presenza di fatti di gravità assoluta, si verificarono alcuni suicidi e morti “casuali” in incidenti stradali e per infarto tra i testimoni più vicini alla verità, durante lo svolgimento delle indagini. Negli scorsi mesi è uscita una pellicola che, personalmente, ritengo molto ben realizzata e rispettosa dello svolgimento dei fatti, per quanto sia consentito ad un film. Il titolo è Ustica, per la regia di Sergio Martinelli, regista lombardo specializzato proprio nella ricerca della verità sulle cause e sulle responsabilità di persone o “entità” che hanno provocato eventi tristissimi nella nostra Repubblica. Si può ancora parlare di Repubblica quando il destino di una nazione come la nostra è talmente condizionato da parentele con realtà extra-nazionali delle quali si tutelano gli interessi? Il prezzo da pagare è il depistaggio dei fatti e la creazione di barriere che devono impedire, nella mente di chi le crea, di arrivare a capo delle responsabilità se non in tempi biblici, con difficoltà enormi e con ulteriori sacrifici di vite umane. Così, ai morti di Ustica vanno aggiunte altre vittime, vale a dire, quelle persone che, per loro sfortuna, erano in possesso della verità, ragion per cui sono state “suicidate”, nel timore che riferissero i fatti così come si erano svolti. Le logiche politiche, talora, prescindono dalla vita e dalla morte della gente. Ci sono ancora tanti casi di disastri e di stragi aperti nella nostra nazione ma temo, ahimé, che difficilmente la verità, questa grande premessa etica della vita di tutti noi, potrà venire a galla nella sua cruda e nuda essenza. L’ affermazione della verità, dovere morale di qualsiasi essere umano degno di tale nome, porterebbe a galla responsabilità di persone e di istituzioni che negandola, si sono qualificati come schiavi al servizio della menzogna, per favorire stati amici o istituzioni indegne. Quando si compiono azioni criminali, immorali e irrispettose della dignità dei cittadini e della loro sicurezza, sarebbe auspicabile che le prove venissero immediatamente prodotte. Questo eviterebbe annosi processi e dispendio di milioni di euro o di lire, moneta di quel tempo, che avrebbero potuto essere destinati al benessere della gente. Ma da noi, le verità sono tante e si confondono, perché ognuno di coloro che le professa, per amore del proprio tornaconto o per imposizione di qualche entità più forte, si rende disponibile ad assecondare con servilismo le coperture depistanti. I modi per essere ringraziati sono molti e non sempre fatti di denaro. La garanzia della conquista del potere o del suo mantenimento è più gratificante di valige di denari, colorati di rosso, quel rosso sangue che campeggia anche nella nostra bandiera.
Ustica, la contro indagine: "il testimone fu eliminato con un sabotaggio". L'incidente delle Frecce tricolore dove perse la vita un testimone della vicenda di Ustica secondo i familiari non sarebbe stato un incidente, scrive Alessandro Raffa Esperto di Cronaca su "it.blastingnews.com" e curato da Pierluigi Crivelli il 4 luglio 2017. Sono trascorsi più di 37 anni dal quel tragico 27 Giugno 1980 in cui avvenne la strage di Ustica, tuttavia diversi aspetti della vicenda non sono stati ancora chiariti, e negli anni si sono moltiplicate le voci di quanti pensano ad un coinvolgimento dei servizi segreti. Diversi casi di suicidio accaduti a personaggi legati alla vicenda a vario titolo hanno fatto ipotizzare negli anni che in alcuni casi si potesse trattare di omicidi mascherati da suicidio, e secondo quanto sostengono i familiari di un pilota morto in seguito all'incidente di Ramstein, persino la strage in oggetto non sarebbe frutto del caso, ma della necessità di eliminare un testimone scomodo.
L'incidente di Ramstein. Con questo nome viene ricordato l'incidente aereo accaduto nell'Agosto 1988 durante un'esibizione delle "frecce tricolore" presso la base Nato di Ramstein, in Germania. Secondo la versione ufficiale un errore del pilota Ivo Nutarelli provocò un incidente che coinvolse tre aerei, due dei quali precipitarono in fiamme sulla pista, mentre un terzo cadde sulla folla, provocando 67 morti e oltre 300 feriti. A distanza di 29 anni una contro indagine della famiglia di Nutarelli sostiene però che non si sia trattato di un normale incidente, ma che questo sia stato frutto di un sabotaggio. E mediante un avvocato chiedono di riaprire il caso, almeno per riabilitare la posizione del pilota incolpato di essere il responsabile dell'errore umano che portò alla tragedia.
Nutarelli era un testimone di Ustica. La sera della strage di #ustica il pilota Nutarelli insieme al collega Naldini si erano alzati in volo dalla base di Grosseto e avevano volato sulla scia del Dc 9 Itavia della strage, fino a 10 minuti prima che questo cadesse nelle acque di Ustica. Durante il volo dagli aerei dei due piloti partirono due segnali di allarme, che avrebbero dato secondo quanto ricostruito in seguito dopo aver visto altri aerei da combattimento volare negli spazi destinati ai voli civili. Secondo alcuni si sarebbe trattato di un velivolo libico, mentre secondo altri sarebbero stati aerei da guerra statunitensi o francesi. Quanto i due piloti avevano visto nei cieli lo riferirono al Colonnello Tedoldi, che alcune settimane dopo però perse la vita mentre viaggiava in automobile con la moglie ed i figli.
La contro inchiesta. Secondo l'avvocato Osnato, che segue la vicenda di Ustica per conto dei familiari delle vittime, Nutarelli ed il collega Naldini erano certamente al corrente di molteplici fatti riguardanti la strage di Ustica, cosa che trova riscontro anche nelle carte dei titolari dell'inchiesta, tuttavia il loro nome e la volontà di sentirli arrivano nell'aula del tribunale solo ad otto anni di distanza dai fatti, quando i due sono morti. Di quel volo purtroppo mancano le conversazioni radio tra i due velivoli e la base, in quanto trattandosi di un'esercitazione non erano previste conversazioni. La morte per i due piloti è arrivata due settimane dopo che i Carabinieri si erano recati alla base radar di Poggio Ballone per sequestrare i tracciati relativi al volo di Nutarelli e Naldini. E secondo l'avvocato non sarebbe un caso. "A Ramstein si è trattato di omicidio e non di un fortuito incidente", afferma senza mezzi termini.
Ustica, la Corte d'appello conferma il risarcimento da 17 milioni, scrive il 29/06/2017 “La Sicilia”. I giudici di secondo grado: "Ci fu depistaggio e il DC) fu abbattuto da un missile". Ma il depistaggio è prescritto, mentre resta in piedi l'indennizzo per "fatto illecito". Lo Stato dovrà risarcire oltre 17 milioni di euro a 29 familiari delle vittime della strage di Ustica del 27 giugno del 1980, che registrò 81 morti. E’ quanto ha stabilito, con una sentenza depositata ieri, la prima sezione civile della Corte d’Appello di Palermo rigettando l’appello che l’Avvocatura dello Stato aveva presentato contro la sentenza di condanna emessa dal Tribunale civile di Palermo nel 2011. Secondo la Corte del capoluogo siciliano, resta accertato il depistaggio delle indagini svolte all’indomani del disastro aereo del Dc9 Itavia. Il velivolo, che da Bologna era diretto a Palermo, con ogni probabilità fu abbattuto da un missile e a parere dei giudici civili di Palermo i Ministeri della Difesa e dei Trasporti non assicurarono al volo adeguate condizioni di sicurezza. Per i giudici palermitani è esclusa l’ipotesi alternativa della bomba collocata a bordo dell’aereo o di un cedimento strutturale, in linea, quindi, con lo scenario già tracciato dall’istruttoria conclusa nel '99 dal giudice Rosario Priore. (ANSA). La Corte d’Appello ha dichiarato la prescrizione del risarcimento per depistaggio, ma ha confermato il risarcimento da fatto illecito liquidando, complessivamente, in favore dei 29 familiari oltre 17 milioni e 400 mila euro di risarcimento. Alla somma dovranno essere detratti gli indennizzi già ricevuti dallo Stato.
Strage di Ustica: per la Corte d'Appello di Palermo l'aereo fu abbattuto da un missile, per il senatore Giovanardi la verità è un'altra, scrive "AvioNews" il 30 giugno 2017. E' stata depositata mercoledì 28 giugno 2017 la sentenza che conferma il risarcimento per i familiari delle vittime del DC-9 precipitato il 27 giugno 1980. (WAPA) - La prima sezione civile della Corte di Appello di Palermo ha depositato mercoledì la sentenza con cui obbliga lo Stato a risarcire con oltre diciassette milioni di Euro i familiari delle 81 vittime della strage di Ustica. Secondo i giudici l'aereo DC-9 di Itavia decollato il 27 giugno 1980 da Bologna alla volta di Palermo e precipitato nel Mar Tirreno nel tratto compreso tra le isole di Ponza ed Ustica fu abbattuto probabilmente da un missile, ed i ministeri della Difesa e dei Trasporti non garantirono la sicurezza del volo. E' stato quindi rigettato l'appello dell'Avvocatura dello Stato contro la precedente condanna emessa dal Tribunale Civile di Palermo. Anche se il segreto di Stato non permette di ricostruire l'esatta dinamica dei fatti, soddisfazione è stata espressa dagli avvocati dei familiari delle vittime. Il senatore Carlo Giovanardi ha definito invece in una nota il sistema giuridico italiano "schizofrenico" con una verità processuale in ambito penale "nella quale si afferma, dopo anni di processo e centinaia di udienze, che su Ustica non c'è mai stata nessuna battaglia aerea e meno che mai è stato lanciato un missile" diversa da quella accertata dal Tribunale civile. Per Giovanardi è necessario stabilire la verità ed identificare i mandanti e gli esecutori che avrebbero collocato una bomba a bordo del velivolo. Per questa ragione il senatore chiede che sia tolto il segreto di Stato al carteggio tra il Governo e l'ambasciata italiana a Beirut nei mesi precedenti la strage che conterrebbe rivelazioni importanti per fare luce sulle ragioni dell'accaduto.
Ustica, altre tre condanne in appello per lo Stato: 55 milioni per risarcire i familiari delle vittime. Decisione della prima sezione civile della Corte di Appello di Palermo, che segue la prima sentenza, sempre di condanna, riguardante i ministeri di Difesa e Trasporti, scrive il 10 luglio 2017. A distanza di 37 anni esatti dalla strage di Ustica arrivano nuove sentenze secondo cui i ministeri della Difesa e dei Trasporti dovranno risarcire 45 familiari delle 81 vittime per complessivi 55 milioni di euro. È quanto ha deciso, depositando tre nuove decisioni, la Prima Sezione civile della Corte di Appello di Palermo. La strage, ricordiamolo, avvenne il 27 giugno 1980: lo scoppio in volo del Dc9 Itavia diretto da Bologna a Palermo provocò la morte di 81 persone. Lo scorso 28 giugno la stessa Corte aveva già condannato i due ministeri a risarcire altri 39 familiari dei passeggeri del Dc9 per ulteriori 17 milioni di euro. Nelle tre sentenze la Corte di Appello del capoluogo siciliano, rigettando altrettanti ricorsi dell’Avvocatura dello Stato, quantifica il danno rimandando ai motivi della sentenza emessa il 28 giugno scorso. In primo grado, nel settembre 2011, il tribunale di Palermo aveva condannato i due ministeri a risarcire oltre 100 milioni di euro a 81 familiari. Secondo la Corte d’Appello palermitana i ministeri della Difesa e dei Trasporti, innanzitutto, «avrebbero dovuto attivarsi per le opportune reazioni, per consentire ad esempio l’intercettazione del velivolo ostile al fine di garantire la sicurezza e l’incolumità di passeggeri ed equipaggio». Il tribunale, sposando le conclusioni raggiunte in primo grado - concluso nel 2011 con la condanna degli stessi ministeri - ribadisce che sulla base dei rilevamenti radar l’incidente del Dc9 Itavia si verificò «a causa dell’operazione di intercettamento realizzata da parte di due caccia, che nella parte finale della rotta del Dc9 viaggiavano parallelamente ad esso, di un velivolo militare precedentemente nascostosi nella scia del Dc9 al fine di non essere rilevato dai radar, quale diretta conseguenza dell’esplosione di un missile lanciato dagli aerei inseguitori contro l’aereo nascosto oppure quale conseguenza di una quasi-collisione verificati tra l’aereo nascosto e il Dc9».
Incidente aereo di Ustica: la compensatio lucri cum damno, scrive Pasquale Fornaro il 6 luglio 2017. Qui la sentenza: Corte di Cassazione - sez. III civile - ord. interlocutoria n. 15534 del 22-6-2017. La società Aerolinee Itavia S.p.A. conveniva in giudizio il Ministero della difesa, il Ministero dei trasporti e il Ministero dell’interno, per sentirli condannare al risarcimento dei danni patiti a seguito della sciagura area verificatisi nel cielo di Ustica il 27 giugno 1980, in occasione della quale era andato distrutto il DC 9/10-I-TIGI di proprietà di essa attrice ed erano decedute 81 persone. L’adito Tribunale di Roma, con sentenza del novembre 2003 accoglieva la pretesa risarcitoria e condannava i Ministeri dell’interno, della difesa e dei trasporti, in solido tra loro, al pagamento della complessiva somma di euro 108.071.773,64, oltre accessori, nonché alle spese di lite. Successivamente, l’impugnazione di tale decisione da parte delle Amministrazioni soccombenti veniva accolta dalla Corte di appello di Roma con sentenza dell’aprile 2007, la quale, a sua volta, fu oggetto di ricorso per cassazione da parte della Aerolinee Itavia S.p.A., in amministrazione straordinaria, sulla base di nove motivi. Con la sentenza n. 10285 del 2009, la Corte dichiarò inammissibile il ricorso nei confronti del Ministero dell’interno e ne accoglieva i primi sette motivi nei confronti dei Ministeri della difesa e dei trasporti. A seguito di riassunzione da parte della Aerolinee Itavia S.p.A., in amministrazione straordinaria, la Corte di appello di Roma, nel contraddittorio con il Ministero dell’interno, il Ministero della difesa ed il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, con sentenza resa pubblica il 27 settembre 2012, pronunciava in via definitiva sulla domanda proposta dall’attrice nei confronti del Ministero dell’interno, rigettandola con compensazione delle spese processuali dei gradi di merito e pronunciava in via non definitiva sulla domanda proposta dalla stessa società in amministrazione straordinaria nei confronti degli altri due Ministeri convenuti, rimettendo la causa sul ruolo, con separata ordinanza, per la determinazione dell’ammontare del danno.
Con sentenza definitiva resa pubblica il 4 ottobre 2013, la Corte di appello di Roma condannava il Ministero della difesa ed il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, in solido tra loro, al pagamento, in favore della Aerolinee Itavia S.p.A., della somma di euro 265.154.431,44 (di cui euro 27.492.278,56 a titolo di risarcimento del danno, euro 105.185.457,77 per rivalutazione ed euro 132.476.695,11 per interessi), oltre interessi legali dalla sentenza al saldo, oltre al pagamento dei 3/4 delle spese processuali di tutti i giudizi, con compensazione del restante 1/4.
La Corte territoriale però negava il diritto dell’Itavia a vedersi risarcito: sia il danno per la perdita dell’aeromobile, in quanto la società attrice aveva incassato un indennizzo assicurativo da parte dell’Assitalia ammontante a lire 3.800.000.000, mentre il valore del velivolo al momento del sinistro, come accertato dal c.t.u., era di lire 1.586.510.540; sia il danno conseguente alla revoca delle concessioni di volo. Ricorrevano per cassazione, pertanto, il Ministero della difesa ed il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, mentre la Aerolinee Itavia S.p.A., proponeva altresì ricorso incidentale.
La Terza Sezione Civile cui il ricorso era assegnato con ordinanza interlocutoria n. 15534/17 depositata il 22 giugno, è stato posto il quesito alle Sezioni Unite “se nella liquidazione del danno debba tenersi conto del vantaggio che la vittima abbia comunque ottenuto in conseguenza del fatto illecito, ad esempio percependo emolumenti versatigli da assicuratori privati (come nel caso di specie), da assicuratori sociali, da enti di previdenza, ovvero anche da terzi, ma comunque in virtù di atti indipendenti dalla volontà del danneggiante.
Quesito, dunque, che in sé pone anche l’interrogativo sul se la cd. Compensatio lucri cum damno possa operare come regola generale del diritto civile oppure in relazione a determinate fattispecie.
I problemi della compensatio lucri cum damno nascono al momento stesso in cui si cerca di definirla. Tale locuzione allude al principio per cui il giudice, in sede di quantificazione del risarcimento del danno dovuto dall’autore, deve tenere conto non solo del pregiudizio causato dal fatto illecito (contrattuale o extracontrattuale), bensì anche degli eventuali vantaggi che si sono venuti a creare nel patrimonio del soggetto danneggiato. E’ ben possibile, quindi, che un comportamento di per sé illecito o dannoso possa produrre effetti positivi nella sfera giuridica del danneggiato. Si pensi, ad esempio ad un sinistro stradale che abbia provocato la distruzione integrale di un autoveicolo di modesto valore. La corresponsione in toto del costo del ripristino della cosa danneggiata provocherebbe al danneggiato un vantaggio patrimoniale ulteriore rispetto al valore effettivo del bene. Pertanto, assodato che il risarcimento del danno soddisfa l’esigenza di tenere indenne il danneggiato dalle perdite subite, cioè l’esigenza di ripristinare il suo patrimonio come se l’illecito non fosse mai stato commesso, e se è inoltre vero che, per quantificare l’ammontare del risarcimento dovuto, si fa il conteggio differenziale tra la consistenza patrimoniale prima e dopo il fatto è, per forza, altrettanto vero che gli eventuali vantaggi recati alla vittima debbano al pari essere tenuti in considerazione. Ciò significa che il giudice deve “compensare” le perdite con i benefici che il fatto illecito o l’inadempimento contrattuale, abbiano determinato nella sfera giuridica della parte danneggiata, detraendo i secondi dalle prime. Di fronte, comunque, ad vuoto legislativo dottrina e giurisprudenza si sono interrogati, se e in che modo detto effetto economico vantaggioso debba essere computato in detrazione a quanto dovuto dal danneggiante a titolo di risarcimento.
In dottrina si ravvisano ben tre orientamenti diversi. Alcuni autori negano del tutto che nel nostro ordinamento esista un istituto giuridico definibile come “compensatio lucri cum damno”; altri ammettono che in determinati casi danno e lucro debbano compensarsi, ma negano che ciò avvenga in applicazione di una regola generale; altri ancora fanno della compensatio lucri cum damno una regola generale del diritto civile.
Chi aderisce al primo orientamento fa leva principalmente sulla mancanza di una regola ad hoc che definisca l’istituto e aggiunge un immancabile richiamo all’ “iniquità” di un istituto che ha l’effetto di sollevare l’autore del fatto illecito dalle conseguenze del suo operato.
Chi aderisce al secondo orientamento, invece, condivide l’affermazione secondo cui nel nostro ordinamento alcuna norma generale sancisce tale istituto ma soggiunge che il problema dell’individuazione delle conseguenze risarcibili d’un fatto dannoso è una questione di fatto, da risolversi caso per caso, e che nel singolo caso non può escludersi a priori che concause preesistenti o sopravvenute al fatto illecito consentano alla vittima di ottenere un vantaggio.
Infine chi aderisce al terzo orientamento sostiene che l’istituto della compensatio lucri cum damno è implicitamente presupposto dall’art. 1223 cc là dove ammette il risarcimento dei soli danni che siano “conseguenza immediata” dell’illecito, e che inoltre, quel principio generale è desumibile da varie leggi speciali: tra queste l’art. 1, comma 1 bis della legge 14 gennaio 1994 n. 20, o l’art. 33 comma 2 del D.P.R. 8 giugno 2011 n.327.
I contrasti, inoltre, non mancano nella stessa giurisprudenza. Essa ha sempre ritenuto esistente un istituto giuridico definibile come compensatio lucri cum damno.
Secondo un primo orientamento la compensatio opera solo quando sia il danno che il lucro scaturiscano in via “immediata e diretta” dal fatto illecito. In applicazione di tale principio è stata, pertanto, esclusa la compensatio in tutti i casi in cui la vittima di lesioni personali, o i congiunti di una persona deceduta a seguito di un illecito, avessero ottenuto il pagamento di speciali indennità previste dalla legge da parte di assicuratori sociali, enti di previdenza, come pure gli indennizzi da parte di assicuratori privati contro gli infortuni. In questi casi il diritto al risarcimento del danno trae origine dal fatto dell’illecito, mentre il diritto all’indennità scaturisce dalla legge.
Un diverso orientamento, opposto, ammette l’operatività della compensatio lucri cum damno. Se, infatti, taluni affermano che essa operi solo quando danno e lucro scaturiscano in via immediata e diretta dal fatto illecito, elevando la causa del lucro dal rango di “occasione” a quello di “causa”, si giungerebbe al risultato di detrarlo dal risarcimento.
In attesa della decisione della Suprema Corte, si può concludere affermando che la “compensatio lucri cum damno”, seppur non codificata, è istituto di creazione giurisprudenziale e dottrinale che trova la sua origine e ragion d’essere direttamente negli artt. 1223 c.c., risarcimento del danno contrattuale, e 2056 c.c. ,valutazione dei danni extracontrattuali, e costituisce il corollario necessario del principio base per cui il risarcimento del danno deve adempiere la sua funzione ripristinatoria dello status quo ante, senza che siano rimasti danni non risarciti o, in senso opposto, provocati ingiusti profitti.
Pasquale Fornaro. Laureato in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Napoli Federico 2. Specializzato nelle Professioni Legali presso l'Università degli Studi di Roma Guglielmo Marconi.
SEGRETI DI STATO/ Dal Lodo Moro alle stragi, i silenzi di un testimone scomodo. E' tornata d'attualità la vicenda del cosiddetto lodo Moro. "La Stampa" ha intervistato Bassam Abu Sharif, ma i conti non tornano. Molte le reticenze. E non solo sue, scrive Salvatore Sechi il 5 luglio 2017 su "Il Sussidiario". E' tornata d'attualità la vicenda del cosiddetto lodo Moro. Il termine indica lo scambio (una sorta di informale patto di non belligeranza) tra Aldo Moro, per conto del governo italiano, e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, un'organizzazione del terrorismo palestinese affiliata all'Olp. Il Fplp risulta legatissimo all'Unione sovietica, alla primula rossa del terrorismo Carlos, alle Cellule rivoluzionarie tedesche di Thomas Kram. Attraverso il responsabile per l'informazione, Bassam Abu Sharif (più tardi stretto collaboratore di Arafat), il Fronte intrattiene ottimi rapporti con il col. Stefano Giovannone, uomo di assoluta fiducia di Moro sulle questioni e i rapporti mediorientali. E con la sua collaborazione invia in Italia il giordano Abu Saleh Anzeh. Sarà sempre Giovannone a proteggere Abu Saleh (un finto studente nelle università di Perugia e Bologna) anche dai tentativi della questura del capoluogo emiliano e in generale del ministero dell'Interno di rimandarlo in Giordania, per antisemitismo e odio rissoso verso Israele. Come capo-centro del Sismi, da Beirut nel 1972-1981, e in quanto collegato a Moro, Giovannone ha l'incarico di vigilare sulla sicurezza delle nostre rappresentanze diplomatiche in Medio oriente. Acquisisce una conoscenza preziosa e ineguagliata dei problemi e dei dirigenti politici del Medio oriente. Morto nel 1985, dopo un calvario giudiziario in cui è stato lasciato solo dai suoi referenti politici, ai minuziosi contatti con i palestinesi di Giovannone si debbono i sette anni di pace di cui l'Italia ha potuto godere dal 1973 all'80. Da quanto emerge da diversi documenti dell'intelligence, il nostro governo gioca la carta della diplomazia parallela. Condivide l'obiettivo di dare ai palestinesi uno Stato e riconosce un vero e proprio salvacondotto per i terroristi (o estremisti arabi che li si voglia chiamare), cioè il diritto a lottare per conseguirlo anche col trasporto di armi sul nostro territorio. In cambio, il Fronte si impegna a non compiere azioni di guerra o di rappresaglia anti-israeliana all'interno delle nostre frontiere, oltre a fornire — pare — una moral suasion sui paesi arabi per la fornitura (e il prezzo) del petrolio. L'intesa si rompe nell'inverno del 1979-1980. Abu Saleh Anzeh (legatissimo ad Habbash), insieme a Daniele Pifano e ad altri tre rappresentanti romani di Autonomia vengono fermati e arrestati il 7 novembre 1979 a Ortona e condannati dai tribunali di Chieti e di Ortona, il 25 gennaio 1980, a sette anni di carcere per il trasporto di alcuni missili Sam 7 Strela di fabbricazione sovietica. Sono solo in transito da noi, ma la loro destinazione è di essere usati contro un nostro alleato, Israele. I paesi arabi reagiscono con una forte minaccia. Se Abu Saleh Anzeh non verrà immediatamente liberato (il che avverrà il 17 giugno 1981 per decorrenza dei termini di custodia), ci saranno pesanti ritorsioni contro la popolazione civile (Giovannone parla di una città o di un aeroporto). Questo è il messaggio che i nostri servizi (Ucigos e Sismi) recepiscono e diffondono. Nel giro di qualche semestre si avrà l'abbattimento nel mare di Ustica di un aereo Dc9 dell'Itavia (con la morte di 81 persone) e l'attentato alla stazione centrale di Bologna con 200 feriti e 84 morti. Il 2 settembre a Beirut scompaiono due giornalisti, Italo Toni e Graziella De Palo, che il Fplp avrebbe dovuto proteggere. Forse i due giornalisti hanno appurato troppo sui responsabili della strage di Bologna? C'è un collegamento tra i due episodi? A chiarire il clima di quel periodo la Commissione parlamentare d'inchiesta su Moro ha di recente chiamato uno dei dirigenti del Fplp, amico di Giovannone, Bassam Abu Sharif. La Stampa lo ha fatto intervistare da Francesca Paci. In realtà la sua testimonianza, che sia Fioroni sia la giornalista non hanno pensato minimamente di contestare, è poco affidabile e reticente. Vediamolo da vicino. Sharif ignora la differenza, sul piano giuridico, tra la promessa di un impegno e un "lodo". Il Fronte avrebbe concesso solo la prima, e l'Italia si sarebbe obbligata a fornire un aiuto umanitario che per la verità era in corso da anni. La mediazione svolta da Giovannone non può essere scambiata per una responsabilità istituzionale per la quale il colonnello dei carabinieri non aveva la veste né le deleghe. Sharif dice di avere contato circa un migliaio di italiani che frequentarono i corsi di addestramento militare e ideologico, e ricorda l'opzione del Fronte per il sindacato. Ma non è in grado di fare i nomi di nessuno. Non spende una parola su Rita Porena, una giornalista e ricercatrice del ministero degli Esteri che era legata a Giovannone, ma anche a lui e al responsabile dei servizi segreti di Al Fatah, Abu Iyad. Per la verità, è incomprensibile, se è ancora in vita, la mancata testimonianza di costei. Avventata mi pare la negazione di ogni rapporto tra il Fplp e le Brigate rosse. E' vero che inizialmente ci furono delle resistenze, ma le testimonianze raccolte dal giudice Mastelloni, insieme alle memorie di Mario Moretti, presso il Tribunale di Venezia mostrano che fu stabilita una collaborazione sul traffico delle armi. Suscitano ulteriori dubbi e riserve sull'affidabilità di Sharif la sua dichiarazione di non sapere nulla di quanto avvenne a Ortona, come della strage di Ustica e di quella di Bologna. Eppure Abu Saleh Anzeh, cioè una persona molto vicina ad Habbash e a Giovannone, è direttamente o indirettamente presente in tutte queste vicende. Sulla crisi dei missili del novembre 1979, quando il lodo Moro si ruppe, il silenzio di Sharif è solo reticenza. Trovo molto strano e preoccupante che il senatore Fioroni e i suoi collaboratori di centro-sinistra e di centro-destra non abbiano voluto contestare le affermazioni di questo alto dirigente del Fplp. Per quale ragione l'hanno invitato in Commissione se non avevano nulla da chiedergli?
Esclusiva mondiale, i diari segreti di Arafat: Craxi, Andreotti e i fondi neri di Berlusconi. Molte le rivelazioni del leader palestinese sull’Italia: dopo un incontro segreto con l'ex Cavaliere mentì in cambio di soldi per salvarlo da un processo. La verità sul caso Sigonella. Il giudizio su Saddam. Così viene riscritta la storia degli ultimi decenni. Ampi stralci sull'Espresso in edicola da domenica 4 febbraio, scrive Lirio Abbate il 2 febbraio 2018 su "L'Espresso". “L'Espresso” ha scoperto, in esclusiva mondiale, i diari segreti di Yasser Arafat, leader dell'Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) e poi presidente dell'Autorità nazionale palestinese. Diversi stralci dei diari sono pubblicati sull'Espresso in edicola da domenica 4 febbraio. I diari sono 19 volumi scritti in arabo a partire dal 1985 e conclusi nell'ottobre del 2004, quando Arafat ha lasciato il suo quartier generale a Ramallah, in Cisgiordania, per essere ricoverato in un ospedale di Clamart, alla periferia di Parigi dove morì un mese dopo. I diciannove volumi sono una miniera di informazioni che raccontano intese politiche, azioni di guerra e affari che fino adesso erano rimasti oscuri. La lettura del diario rivela ad esempio che Arafat aiutò Berlusconi quando questi era sotto processo per aver finanziato illecitamente il Partito Socialista di Bettino Craxi. Arafat incontrò segretamente Berlusconi nel 1998, in una capitale europea, e dopo quell'incontro decise di confermare la falsa versione data da Berlusconi ai giudici, cioè che i dieci miliardi di lire al centro del processo erano destinati non al Partito Socialista Italiano bensì all'Olp, come sostegno della causa palestinese. Non era vero, ma Arafat rivela nei diari di aver confermato pubblicamente questa versione ricevendo in cambio un bonifico. Nel diario si trovano annotati i dettagli con i numeri di conto e i trasferimenti del denaro ottenuto da Arafat. I diari rivelano inoltre la trattativa tra Arafat e l’Italia avvenuta nel 1985, quando Craxi era primo ministro e Giulio Andreotti ministro degli Esteri, durante la vicenda dell’Achille Lauro, la nave da crociera dirottata da quattro terroristi palestinesi. Arafat rivela che fu Giulio Andreotti (e non Bettino Craxi, come si era sempre creduto) a consentire al terrorista Abu Abbas di scappare in Bulgaria e di lì rifugiarsi in Tunisia. Giulio Andreotti, secondo quanto emerge dai diari del leader palestinese, ha sempre avuto un ruolo importante nelle mediazioni internazionali che hanno riguardato la Palestina e sarebbe stato spesso una sorta di mediatore nascosto tra l’Olp e gli americani. Nei diari il leader palestinese non si assume mai la responsabilità di aver commissionato un attentato. Prende atto delle stragi compiute dai palestinesi e le commenta. A lui venivano proposti gli attentati e lui si limitava a rispondere: “Fate voi”. Poi quando scoppiavano le bombe che gli erano state annunciate, il comandante sorrideva e scriveva: “Bene, bene”. Nessun attentato dell’Olp coinvolse l'Italia dopo il 1985. «L’Italia è la sponda palestinese del Mediterraneo», scrive Arafat nei suoi diari, che confermano gli accordi segreti tra Olp e governo di Roma affinché il territorio italiano fosse preservato da attentati. La lettura dei diari rivela inoltre che Arafat era fortemente contrario alla Prima Guerra del Golfo (1990-1991), scatenata dall'allora presidente dell'Iraq Saddam Hussein: «Devo schierarmi con lui, il mio popolo me lo impone», scrive Arafat, «ma ho cercato con più telefonate di farlo desistere dalla follia che sta facendo». Arafat racconta anche di aver fatto negoziazioni di pace segrete con l’allora premier israeliano Yitzhak Rabin. E dell’ex presidente israeliano Shimon Peres scrive: «Una bravissima persona: un bel soprammobile». Arafat dedica molto spazio a raccontare i suoi stretti rapporti con il dittatore cubano Fidel Castro: racconta con affetto e stima i diversi incontri con lui, fino all'ultimo avvenuto all’Avana. I diciannove volumi di cui L’Espresso fornisce gli stralci sono stati affidati a due fiduciari lussemburghesi, che dopo una lunga negoziazione hanno ceduto i documenti a una fondazione francese con la clausola che il contenuto dei diari debba essere usato solo come “documentazione di studio” e non per pubblicare libri o girare film.
Silvio Berlusconi, Yasser Arafat nei suoi diari: "Ho mentito per salvarlo", scrive il 3 Febbraio 2018 "Libero Quotidiano". L’Espresso pubblica i diari segreti di Yasser Arafat, leader dell’Olp. Si tratta di 19 volumi scritti in arabo a partire dal 1985 e conclusi nell'ottobre del 2004, quando Arafat ha lasciato il suo quartier generale a Ramallah, in Cisgiordania. La lettura del diario rivela ad esempio che Arafat aiutò Silvio Berlusconi quando questi era sotto processo per aver finanziato il Partito Socialista di Craxi. Arafat incontrò Berlusconi nel 1998 e dopo quell'incontro decise di confermare la falsa versione data da Berlusconi ai giudici, cioè che i 10 miliardi di lire al centro del processo erano destinati non al Partito Socialista Italiano bensì all’Olp. L’avvocato Niccolò Ghedini smentisce immediatamente: "Si tratta di materiale offerto a più persone nei tempi passati sui quali non è stato fatto nessun controllo in relazione alla verifica sull'autenticità della provenienza, della completezza e del contenuto. I fatti ivi narrati, per quanto riguarda i rapporti con il presidente Silvio Berlusconi, sono assolutamente non fondati e contraddetti dalle stesse dichiarazioni ufficiali più volte rilasciate pubblicamente dallo stesso Arafat".
Arafat e i fondi neri di Berlusconi: ecco i diari segreti. Le bugie per salvare l'ex Cav dai processi. La verità sul caso Sigonella. L’incontro con Di Pietro. Gli appunti riservati del capo palestinese. Diciannove volumi, di cui solo adesso si è appresa l’esistenza. E che l'Espresso ha letto in esclusiva, scrive Lirio Abbate il 7 febbraio 2018 su "L'Espresso". Yasser Arafat, il guerrigliero più famoso del Medio Oriente, il più celebre e misterioso protagonista della causa palestinese, ha riversato per diciannove anni i suoi pensieri più segreti nelle pagine di diciannove volumi, di cui solo adesso si è appresa l’esistenza. Li ha scritti in arabo, iniziando nel 1985. Ha continuato fino all’ottobre del 2004, un mese prima della morte. I diari rivelano tutto quello che in vita Arafat non ha detto pubblicamente. Chi ha già letto ciò che ha scritto Arafat ne ha raccontato un’ampia parte all’Espresso. I diciannove volumi sono una miniera di informazioni che raccontano intese politiche, azioni di guerra e affari che fino adesso erano rimasti oscuri. Sono appunti che rivelano ciò che faceva e pensava uno dei protagonisti del XX secolo, prima leader dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) e poi presidente dell’Autorità nazionale palestinese, primo abbozzo di uno Stato che non è mai nato. Nei diari di Arafat si parla anche del nostro Paese. Ci sono molti riferimenti a Giulio Andreotti, Bettino Craxi e a Silvio Berlusconi, e soprattutto al dirottamento della nave da crociera “Achille Lauro” e alla conseguente crisi di Sigonella (1985), il più grave incidente diplomatico mai avvenuto tra Italia e Usa. Si parla poi del famoso (e fino a ieri solo ipotizzato) accordo per evitare che ci fossero attentati terroristici in Italia. Ma soprattutto nei diari si racconta del rapporto tra il leader palestinese e Berlusconi. C’è anche la rivelazione di un incontro segreto fra i due, avvenuto in una capitale europea nello stesso periodo in cui a Milano era in corso il processo nel quale il Cavaliere era imputato di aver gestito, attraverso la società offshore All Iberian, i miliardi in nero destinati dalla Fininvest al Partito socialista di Bettino Craxi.
Sono fatti poi dichiarati prescritti dal tribunale, ma di cui ora si apprendono retroscena sconosciuti. Il Cavaliere, per difendersi durante il processo, aveva indicato come beneficiario finale dei suoi dieci miliardi di lire l’Olp, a cui avrebbe fatto pervenire il denaro - come sostegno alla causa palestinese, su richiesta di Craxi - usando come mediatore Tarak Ben Ammar: produttore televisivo tunisino amico e socio di Berlusconi, oggi nel cda di Mediaset ma anche in quelli di Generali, Mediobanca, Telecom Italia e Vivendi. Tarak Ben Ammar aveva confermato questa versione, sostenendo che quei soldi erano andati a lui, legalmente, per poi essere destinati all’Olp. Quindi non erano, secondo Berlusconi e Ben Ammar, finanziamenti illeciti a Craxi. Arafat nei suoi diari racconta però una storia molto diversa. Scrive infatti di essere rimasto estremamente sorpreso nell’apprendere dai giornali che Berlusconi lo aveva finanziato: di quei dieci miliardi all’Olp non era mai arrivata nemmeno una lira. Per chiarire la vicenda, lo stesso Arafat organizza allora un incontro con Berlusconi, in un luogo segreto fuori dall’Italia, nella primavera del 1998. Il Cavaliere accetta. Sul diario si legge: «Berlusconi mi parla di Tarak Ben Hammar, ma io non lo conosco». Arafat ribadisce quindi di non aver mai ricevuto i dieci miliardi e lo dice chiaramente anche a Berlusconi. Ma il leader palestinese, contemporaneamente, apre una porta al Cavaliere: gli dice che se avesse voluto una sua dichiarazione di conferma di aver ricevuto quei soldi, da utilizzare ai fini processuali, l’avrebbe fatta. Naturalmente, in cambio di un versamento. E così è stato: la dichiarazione di Arafat in favore di Berlusconi (che quindi conferma la sua tesi difensiva) viene resa nota e pubblicata su un giornale israeliano.
L’incontro segreto rivelato da Arafat è confermato all’Espresso da personalità che erano presenti. A questa storia nel diario del leader palestinese vengono riservate dieci pagine, dove si trovano annotati i dettagli con i numeri di conto e i trasferimenti del denaro ottenuto da Arafat.
L’incontro con Di Pietro. Negli appunti c’è anche la notizia di un incontro tra Arafat e Antonio Di Pietro, nel 1998. L’ex magistrato arriva a Gaza nello stesso periodo in cui è in corso il processo All Iberian a Milano. E Arafat scrive nel suo diario: «Non ho potuto dire nulla a Di Pietro perché avevo già un accordo personale con Berlusconi». Contattato dall’Espresso, Di Pietro oggi dice: «Non era una rogatoria e non ero lì per All Iberian. In quel periodo avevo già lasciato la magistratura. È vero, ho incontrato Arafat, ma il motivo lo tengo per me». E poi aggiunge: «In quel periodo ero sotto attacco dall’area di Berlusconi». Facendo riferimento a quello che scrive il leader palestinese l’ex magistrato spiega: «So bene a cosa si riferisce Arafat negli appunti. Ripeto, l’ho visto e ci ho pure parlato a lungo. Abbiamo anche pranzato insieme e con noi c’erano altre quattro persone».
Il caso Sigonella. I diari rivelano poi la trattativa tra Arafat e l’Italia avvenuta nel 1985, quando Craxi era presidente del Consiglio, durante e dopo la vicenda dell’Achille Lauro, la nave da crociera dirottata da quattro terroristi palestinesi. Durante il sequestro della nave il governo italiano cerca di risolvere la vicenda contattando Arafat. Il quale invia sull’Achille Lauro un suo uomo, Abu Abbas, indicandolo come mediatore. Dopo pochi giorni i quattro dirottatori e Abu Abbas portano la nave in Egitto e rilasciano i passeggeri: ma uno di loro - l’americano Leon Klinghoffer, di origini ebraiche - era stato ucciso e gettato in mare. Secondo gli accordi, i terroristi sarebbero dovuti andare in Tunisia, con un aereo e un salvacondotto, sempre in compagnia di Abu Abbas. Venuti a conoscenza della morte di Klinghoffer, però, gli americani fanno alzare in volo i loro caccia e costringono l’aereo in cui i cinque si trovano ad atterrare nella base Nato di Sigonella, in Sicilia. Qui, dopo una lunga trattativa, i quattro terroristi si consegnano alle autorità italiane. Ma gli americani vogliono anche l’arresto di Abu Abbas, considerandolo un terrorista al pari dei quattro. Gli italiani si rifiutano di consegnarlo, al punto da circondare l’aereo con i carabinieri. E consentono così ad Abu Abbas di scappare in Bulgaria e di lì rifugiarsi prima in Tunisia poi a Gaza. Chi ha letto gli appunti di Arafat rivela che la linea dura del governo italiano verso le pretese americane sarebbe stata decisa non da Craxi - come si è sempre creduto - ma da Andreotti, che era in contatto diretto con Arafat. Sarebbe stato Andreotti a imporre di fatto a Craxi di fermare gli americani e di rispettare gli accordi presi con Arafat. Del resto Andreotti, secondo quanto emerge dai diari del leader palestinese, aveva sempre avuto un ruolo importante nelle mediazioni internazionali che hanno riguardato la Palestina e sarebbe stato spesso una sorta di “mediatore nascosto” tra l’Olp e gli americani. Nei diari il leader palestinese non si assume mai la responsabilità di aver commissionato un attentato o un omicidio. Prende atto delle stragi compiute dai palestinesi e le commenta. Chi lo ha conosciuto e gli è stato al fianco per diversi anni conferma all’Espresso che Arafat «non ha mai ordinato un attentato. A lui venivano proposti e lui si limitava a rispondere: “Fate voi”. Poi quando scoppiavano le bombe che gli erano state annunciate, il comandante sorrideva e diceva: “bene, bene”». Ma nessun attentato dell’Olp coinvolse il nostro Paese. «L’Italia è la sponda palestinese del Mediterraneo», scrive Arafat. E per questo doveva essere preservata da attacchi.
Il triangolo Gelli, Berlusconi, Craxi. Parlando di Craxi, Berlusconi e Licio Gelli, il capo dell’Olp racconta nei suoi appunti una storia che li vede tutti e tre collegati tra loro. Si tratta di una vicenda dei primissimi anni Ottanta, quando Roberto Calvi - allora presidente del Banco Ambrosiano e uomo di Licio Gelli - ha bisogno di un passaporto nicaraguense. Per procurarglielo, Gelli si sarebbe rivolto a Berlusconi (membro della sua loggia, la P2) e il Cavaliere a sua volta avrebbe chiesto aiuto all’amico Bettino Craxi. Il quale avrebbe investito della questione Arafat, ritenuto in grado di procurare un passaporto del Nicaragua. Ci sono anche alcuni aneddoti che Arafat riporta nei suoi appunti e collegati alle visite ufficiali in Italia. Ad esempio, il 5 aprile 1990 il capo dell’Olp arriva a Roma con un volo proveniente da Parigi. Deve incontrare, tra gli altri, il presidente della Repubblica, Francesco Cossiga. Arafat scrive nel diario che quando arriva al Quirinale il capo del protocollo gli fa togliere il cinturone con la pistola, quello che lui portava sempre con sé. Arafat racconta che a quel punto i pantaloni erano troppo larghi e gli cadevano. Per questo si presentò davanti a Cossiga tenendoli stretti con le mani, evitando una brutta figura istituzionale. Al Capo dello Stato disse: «Mi scusi signor Presidente, non è colpa mia ma del suo ambasciatore...», quello che gli aveva fatto togliere il cinturone. Anche il giorno della consegna del Premio Nobel per la Pace, il comandante palestinese scrive che il programma della cerimonia ha avuto un ritardo a causa della sua divisa militare che comprendeva la pistola. Il 17 luglio 1990 Arafat, che per lungo tempo era stato single (e mai erano apparse donne nella sua vita) sposa Suha Tawil. Lui confida sul diario: «Come faccio a sposarmi con Suha? Io sono già sposato con la Palestina ed il suo popolo».
L’amicizia con Fidel. Arafat dedica poi molto spazio a raccontare i suoi rapporti con il dittatore cubano Fidel Castro, fino all’ultimo incontro avvenuto all’Avana. Quasi coetanei, i due avevano in comune anche la militanza guerrigliera e i principali nemici, cioè Stati Uniti e Israele. Entrambi, inoltre, amavano le uniformi, portavano la barba e avevano il carisma del leader capace di suscitare grandi speranze e aspettative nei propri popoli. Oltre che a Cuba, Castro e Arafat si erano incontrati spesso alle riunioni dei Paesi non allineati e ai funerali dei vecchi leader sovietici, dai quali entrambi avevano ricevuto sostegno politico e un fiume di rubli negli anni della Guerra Fredda. Le pagine dei diari raccolgono poi il disagio e lo sfogo del capo palestinese quando deve appoggiare Saddam Hussein, durante la prima guerra del Golfo (1990-1991). Così scrive Arafat: «Devo schierarmi con lui: il mio popolo me lo impone. Ma ho cercato con più telefonate di farlo desistere dalla follia che sta facendo». Arafat racconta quindi di negoziazioni di pace, segrete, con l’allora premier Yitzhak Rabin, mentre dell’ex presidente israeliano Shimon Peres scrive: «Una bravissima persona: un bel soprammobile». I diciannove volumi sono stati affidati a due fiduciari lussemburghesi, che dopo una lunga negoziazione hanno terminato la cessione dei documenti a una fondazione francese con la clausola che il contenuto dei diari debba essere usato solo come “documentazione di studio” e non per pubblicare libri o girare film. Il carico di testimonianza che lascia Arafat è pesante. E non sarà facile, per molti, accettare le conseguenze delle rivelazioni contenute nelle pagine di questo diario.
I diari di Arafat, ecco i nuovi dettagli segreti. Mentre emergono nuovi inediti particolari, l’Anp apre un’inchiesta sul nostro scoop, scrive Lirio Abbate il 14 febbraio 2018 su "L'Espresso". I diari che il leader dell’Olp Yasser Arafat ha lasciato in eredità alla storia, i cui primi stralci sono stati pubblicati in esclusiva mondiale sull’ultimo numero dell’Espresso, ci mostrano il volto di un comandante temuto da molti ma innamorato del suo popolo. Nelle pagine dei diciannove volumi che solcano i fatti dal 1985 all’ottobre del 2004 c’è la storia di una tragedia, quella palestinese, vista con gli occhi di un uomo che scrive di vivere e resistere per la sua gente. E negli appunti ricorre spesso una frase: «Il mio più grande amore è la Palestina». Aver rivelato l’esistenza di questi diari e una parte del loro contenuto (stralci che L’Espresso ha pubblicato dopo averli riscontrati) ha mandato su tutte le furie il nipote del defunto leader palestinese, Nasser al-Kidwa, oggi presidente della Yasser Arafat Foundation (Yaf). Al-Kidwa ha scritto in un nota che Arafat «effettivamente ha lasciato dei diari nei quali ha segnato le sue osservazioni sugli eventi politici incorsi durante la sua lunga lotta, ma questi diari sono in possesso della Yaf e nulla di essi è stato ceduto». Kidwa ha assicurato che la fondazione «farà presto una revisione di tutti i contenuti dei diari e, dopo aver preso una decisione politica in merito, li svelerà al pubblico». Ma una parte delle memorie del leader palestinese sono, evidentemente, sfuggite al controllo del nipote. Tanto che l’Autorità palestinese ha deciso di aprire un’inchiesta per scoprire come sia avvenuta la fuga di notizie. I fiduciari che hanno in custodia gli appunti del leader dell’Olp rivelano anche altri punti del manoscritto. In particolare sui rapporti con Papa Giovanni Paolo II e alcune delle loro conversazioni private, durante gli incontri in Vaticano. Chi è stato accanto al leader palestinese conferma che Arafat «scriveva i suoi pensieri e quel che gli dicevano i suoi interlocutori su un quadernetto grande come il palmo d’una mano, da cui non si separava mai». E in questi lunghi anni c’è stato qualcuno vicino al leader che si è preso cura di conservare questi quadernetti. Dagli appunti, come ha rivelato L’Espresso, emergono incontri segreti, fra cui quello con Silvio Berlusconi, e il versamento di somme di denaro per ottenere una dichiarazione che avrebbe dovuto proteggere il Cavaliere dal processo per i fondi neri della società off shore All Iberian, in cui era imputato insieme a Bettino Craxi. Un favore a Berlusconi? Di sicuro, negli effetti. Ma nelle intenzioni «potrebbe essere stato anche un tentativo di salvare Craxi, che si era speso tanto per la Palestina», dice Luisa Morgantini, ex vice presidente del Parlamento europeo, impegnata per la difesa della Palestina e tra le fondatrici della rete internazionale delle “Donne in nero contro la guerra e la violenza”, che conosceva bene il capo dell’Olp e ne era amica. «La falsa dichiarazione di Arafat (aveva confermato la versione del Cavaliere, secondo la quale i fondi al centro del processo erano una donazione all’Olp e non un finanziamento illecito al Psi, Ndr) può essere quindi stato un atto di amicizia e di riconoscenza», aggiunge Morgantini. L’ex europarlamentare sostiene che «questi gesti di generosità facevano parte della personalità di Arafat», quindi «non credo che alla base ci sia stato uno scambio di favori. In fondo Craxi aveva fatto tanto per Arafat». Morgantini aggiunge che il suo amico Arafat invece «non aveva rispetto per Berlusconi. Ma se l’obiettivo era quello di salvare Craxi, allora potrebbe essersi reso disponibile a risolvere il problema». Ricevendo in cambio versamenti dal Cavaliere o no? «Non lo so. Ma non ho mai visto Arafat circondato dal lusso o dalla ricchezza. Conduceva una vita parca e i soldi li usava per la politica o per donarli a chi ne aveva di bisogno. Per se non teneva nulla e viveva in abitazioni modeste». Eppure era considerato uno degli uomini più ricchi del mondo... «Non so se nascondesse il denaro. Certo viveva in maniera molto sobria», risponde Morgantini. La celebrità mondiale di Yasser Arafat è durata a lungo. Sono stati pochi gli uomini politici a riuscire ad occupare, come ha fatto lui fino alla sua morte avvenuta nel novembre 2004 a Parigi, le prime pagine dei giornali e gli schermi televisivi. Occorre partire da lontano, nel dicembre 1968 quando il settimanale americano “Time” gli ha dedicato la copertina: allora, per la maggior parte dell’opinione pubblica occidentale Arafat era solo un capo terrorista e il portavoce d’una oscura organizzazione, Al Fatah, che aveva giurato la distruzione di Israele. L’aspetto esteriore dell’uomo contribuiva a questa immagine: con la “kefiah” araba o un berretto militare, mal rasato, gli occhi nascosti dietro lenti scure, un abito cachi pieno di tasche, portava sempre una pistola alla cintura o un mitra a tracolla. Tuttavia chi lo conosceva nell’intimità sostiene che queste apparenze erano ingannevoli. Lontano dai media, senza niente in capo e vestito normalmente, quell’ometto grassottello e calvo - dicono i suoi amici di un tempo - era un conversatore gioviale e un capo generoso. Paradossalmente, il comandante conosceva solo superficialmente le questioni militari e non era abile con la pistola. I suoi aggiungono anche che era un uomo sensibile al punto da singhiozzare quando fu proiettato per lui un documentario sul massacro di Sabra e Chatila del settembre 1982. E, secondo i testimoni che gli sono stati accanto, le lacrime gli spuntavano anche quando parlava delle sventure del suo popolo. Ad ascoltare i suoi amici, Arafat non era né un estremista né un sognatore. Sapeva, come del resto emerge anche dai diari, che bisognava trovare un modus vivendi con gli israeliani. Già nel 1968 diceva: «Se gli ebrei e i palestinesi potessero unirsi, il Medio Oriente entrerebbe nell’età dell’oro. Il genio, le risorse naturali e intellettuali dei nostri due popoli basterebbero a vincere l’egoismo, la corruzione e la doppiezza della maggior parte dei regimi arabi». Arafat aveva accumulato sconfitte senza mai disperare e anche nei momenti più difficili mostrava fiducia. Leggeva con attenzione i giornali e le sintesi della stampa internazionale che gli veniva fornita dai suoi collaboratori. E approfittava dei pochi momenti liberi per giocare a scacchi o guardare cartoni animati su videocassette. Il poeta palestinese Mahmoud Darwish ha sintetizzato così la figura di Arafat: «La sua politica non sempre è stata giusta. Lo critichiamo e talvolta lo giudichiamo con severità. Ma lui è il simbolo della nostra identità, della nostra unità e delle nostre aspirazioni nazionali».
Totò, Peppino, Arafat e Berlusconi. L’esclusiva “mondiale” dell’Espresso sui “diari” di Arafat non torna. I testi non li ha visti nessuno, le date ballano, i testimoni smentiscono. Controinchiesta di Luciano Capone del 7 Febbraio 2018 su “Il Foglio”. La notizia, annunciata già da sabato pure su Repubblica, tradotta anche in inglese, era davvero clamorosa: “L’Espresso ha scoperto, in esclusiva mondiale, i diari segreti di Yasser Arafat, leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e poi presidente dell’Autorità nazionale palestinese”. L’impressione era che quella di Lirio Abbate fosse l’inchiesta giornalistica dell’anno, o forse anche del secolo, vista l’importanza dal punto di vista storico e politico che può essere contenuta nei diari “segreti” di uno dei leader più importanti e controversi – questa è la formula di rito – della seconda metà del Novecento. Pareva strano che, di tutto ciò che di interessante c’è stato nella vita personale e politica di Arafat, l’anticipazione degli “ampi stralci” riguardasse un episodio giudiziario della vita di Silvio Berlusconi. E anche la storia, in realtà, non tornava molto: l’idea che nel 1998 Arafat si fosse incontrato in segreto con Berlusconi per chiedergli soldi in cambio di una falsa testimonianza nel processo “All Iberian” sul finanziamento illecito al Psi di Bettino Craxi appariva ben più bizzarra della storia di “Ruby nipote di Mubarak”. E la parte più inverosimile, naturalmente, è il fatto che un personaggio storico si descriva nel suo diario personale come un taglieggiatore o un corrotto. Ma se ci sono i documenti originali, se la grafia è quella di Arafat, c’è poco da discutere.
Pareva strano che, di tutto ciò che di interessante c’è stato nella sua vita, Arafat parlasse di un processo di Silvio Berlusconi. Dopo la pubblicazione, domenica, dell’“esclusiva mondiale” però il mondo ha ignorato l’esclusiva. Nessun grande giornale internazionale in questi giorni ha ripreso l’inchiesta giornalistica dell’anno. E per un semplice motivo: i “diari segreti” di Arafat sono talmente segreti che non ce li ha neppure l’Espresso. Il settimanale non solo non li ha pubblicati, ma non li ha neppure mai visti. L’inchiesta non ha alla base un documento scritto, ma è il frutto, almeno finora, della tradizione orale. Un aedo incontra Lirio Abbate e gli narra il contenuto dei diari segreti: “Chi ha già letto ciò che ha scritto Arafat ne ha raccontato un’ampia parte all’Espresso”, scrive il giornalista. Inoltre, oltre a non sapere chi sia la fonte orale, quale ruolo abbia e come sia entrato in possesso di questo prezioso materiale storico, non si capisce questi diari da dove provengano e dove siano adesso di preciso: “I diciannove volumi sono stati affidati a due fiduciari lussemburghesi – scrive il settimanale – che dopo una lunga negoziazione hanno terminato la cessione dei documenti a una fondazione francese con la clausola che il contenuto dei diari debba essere usato solo come “documentazione di studio” e non per pubblicare libri o girare film”. E qui la faccenda si fa già abbastanza evanescente. Il problema è che non solo non vengono resi noti i nomi dell’aedo e dei fiduciari lussemburghesi, che in qualche modo avrebbero prelevato da Ramallah e dal controllo dell’Anp i diciannove volumi, ma neppure il nome di questa fondazione francese che ora li custodisce. Eppure se l’obiettivo è mettere a disposizione questi “diari segreti” per lo studio, gli storici – che si fidano più dei documenti originali rispetto ai racconti – per studiare questi benedetti diari dovrebbero quantomeno sapere dove si trovano. In Francia, dove sarebbe questa fondazione che possiede le memorie del leader palestinese, i giornali hanno completamente ignorato la notizia. Silenzio totale sull’esclusiva mondiale.
Aiuta a inquadrare la possibile origine di questi presunti e invisibili “diari segreti” la versione dell’onorevole Niccolò Ghedini, l’avvocato di Silvio Berlusconi: “Alcuni mesi orsono – ha dichiarato – un tizio ha avvicinato me e una persona vicina al presidente Berlusconi, dicendo di essere in possesso di questi diari di Arafat in cui c’erano scritte cose compromettenti su Berlusconi, ma che avrebbe potuto distruggerli in cambio di denaro”. L’avvocato capisce che la cosa non è proprio limpida quando l’interlocutore, proveniente da ambienti “variegati” dice di poter fornire solo una traduzione in francese e si rifiuta di mostrare l’originale dei diari in arabo per valutarne la genuinità, e interrompe le comunicazioni. Convinto di essere di fronte a uno dei tanti falsi diari di personaggi storici che di tanto in tanto circolano, liquida tutto con un suo “mavalà”. Ora vede riemergere l’identico racconto orale come esclusiva inchiesta giornalistica: “Il settimanale l’Espresso pubblica con grande risalto stralci degli asseriti diari di Arafat. – scrive Ghedini in una nota – Il materiale in questione è stato offerto a più persone nei tempi passati e alle richieste di verifica della autenticità della provenienza, della completezza e del contenuto non è stato possibile alcun controllo”. L’avvocato smentisce il contenuto di ciò che è riportato e spiega tutto con la battaglia politica: “E’ sintomatico, che tale materiale in circolazione già da tempo e mai ritenuto di reale interesse appaia, guarda caso su l’Espresso, proprio a pochi giorni dalla consultazione elettorale”. Anche la Yasser Arafat Foundation, che possiede i veri diari del leader palestinese e non ha ancora deciso se pubblicarli o meno dopo averli revisionati e ripuliti, ha preso le distanze e annunciato querele: “Quello che l’Espresso ha pubblicato riguardo a ciò che sono stati definiti come i diari di Yasser Arafat è illegale e viola l’etica giornalistica”, ha dichiarato il presidente della fondazione Nasser al Kidwa che è il nipote di Arafat (davvero, non come Ruby).
Nella copertina su Ilaria Capua il documento era vero, ma le accuse false. I diari ricordano l’(inesistente) intercettazione di Crocetta. Ma quella di Ghedini, si dirà, è la naturale reazione di una persona che è il legale del Cav. e uno dei più importanti dirigenti di Forza Italia. Il punto è che, in termini molto simili, è la stessa identica posizione che ha preso l’ambasciatore di Palestina in Italia: “L’articolo dell’Espresso sostiene di basarsi su un presunto diario di Yasser Arafat, senza essere in grado di dimostrarne l’effettiva esistenza. Si tratta di un articolo che vuole mettere in cattiva luce il leader e simbolo della lotta nazionale del popolo palestinese – scrive l’ambasciatore Mai Alkaila – Chiediamo ai media e all’Espresso in particolare di essere scrupolosi nella verifica delle fonti prima della divulgazione delle loro notizie; e di non coinvolgere la questione palestinese in discussioni politiche accese dalla campagna elettorale”. Se già a questo punto i diari de relato di Arafat somigliano più a una patacca che a una rivelazione mondiale, è entrando nei dettagli che molte cose non tornano. L’Espresso scrive che nelle sue memorie Arafat parla di un incontro segreto con Berlusconi, avvenuto in una capitale europea, nello stesso periodo in cui a Milano era in corso il processo All Iberian nel quale Berlusconi era imputato per aver finanziato in maniera illecita il Psi di Craxi. Un processo in cui Berlusconi verrà condannato in primo grado e poi prosciolto per prescrizione. Ebbene, una versione della difesa era che i circa 10 miliardi di lire contestati non erano finiti nelle casse del Psi, ma erano andati su richiesta di Craxi all’Olp di Arafat attraverso la mediazione del produttore televisivo tunisino, e amico di Berlusconi, Tarak Ben Ammar. Niente finanziamento illecito a Craxi, quindi. Questa è la versione finora confermata da tutte le parti in causa, ma a cui non credettero i giudici di primo grado.
L’Espresso ora dice che nei suoi presunti diari Arafat scrive che questa storia è falsa, quei soldi non sono mai arrivati all’Olp. “Per chiarire la vicenda, lo stesso Arafat organizza allora un incontro con Berlusconi, in un luogo segreto fuori dall’Italia, nella primavera del 1998. – scrive il settimanale – Il Cavaliere accetta. Sul diario si legge: ‘Berlusconi mi parla di Tarak Ben Hammar, ma io non lo conosco’”. A quel punto il leader palestinese fa una proposta-ricatto a Berlusconi: “Gli dice che se avesse voluto una sua dichiarazione di conferma, da utilizzare ai fini processuali, l’avrebbe fatta. Naturalmente in cambio di un versamento. E così è stato: la dichiarazione di Arafat in favore di Berlusconi (che quindi conferma la sua tesi difensiva) viene resa nota e pubblicata su un giornale israeliano” (quale? E quando?). Sono molte le cose che non tornano nella vicenda. L’Espresso scrive che nel diario ci sono “i dettagli con i numeri di conto e i trasferimenti del denaro ottenuto da Arafat”, ma non pubblica nessuno di questi dettagli, non dice neppure quanto sarebbe costata questa falsa testimonianza. Ma la cosa più banalmente sorprendente è che questa testimonianza non esiste. “Arafat non è mai apparso nel processo – dice al Foglio il professor Ennio Amodio, all’epoca avvocato di Berlusconi nel processo All Iberian – Ho letto questa notizia con stupore, nel processo non si è mai parlato di questa vicenda, non so da dove salti fuori”. Arafat non ha testimoniato? “Ma si figuri”. E’ mai stata usata qualche sua intervista nella difesa? “No, è una notizia che non è mai emersa, me la ricorderei”.
“Mesi fa un tizio mi ha avvicinato, voleva soldi in cambio della distruzione di questi asseriti diari”, dice Niccolò Ghedini. L’altro aspetto che non torna è uno dei pochi virgolettati di Arafat, tra l’altro con un errore di trascrizione del nome di Ben Ammar: “Berlusconi mi parla di Tarak Ben Hammar, ma io non lo conosco”. Appare un’affermazione singolare. Ben Ammar è sì un amico di Berlusconi, ma da prima è un amico dei palestinesi. Tra i due è l’imprenditore maghrebino che conosce Arafat, non il Cavaliere. Ben Ammar proviene da un’importante famiglia tunisina: è il nipote del padre della patria Bourghiba (davvero, non come Ruby). Il padre, Mondher Ben Ammar, è stato ambasciatore tunisino in Italia e in mezza Europa e poi ministro del governo per una decina d’anni. Sua sorella e zia di Tarak, Wassila Ben Ammar, era la moglie del presidente Bourghiba e ha avuto un ruolo di primo piano nella politica tunisina: aveva una forte influenza su Bourghiba e fu la principale artefice nel 1982, dopo la guerra in Libano, del trasferimento di Arafat e del quartier generale dell’Olp in Tunisia, paese che ospiterà il centro delle operazioni palestinesi per una decina di anni. Il Foglio ha provato a contattare Tarak Ben Ammar, per sentire la sua versione sulla ricostruzione dell’Espresso: “Sono attualmente a Los Angeles. Comunque è fake news”, è la sua risposta. L’altro dettaglio riguarda l’incontro con Berlusconi organizzato da Arafat “in un luogo segreto fuori dall’Italia, nella primavera del 1998” in cui sarebbe stato raggiunto l’accordo economico in cambio della falsa testimonianza. Ora, c’è da dire che realmente Berlusconi ha visto Arafat nella primavera del 1998, ma non era all’estero e nient’affatto in segreto: si sono incontrati il 12 giugno 1998 a Roma durante il viaggio di Arafat in Italia. Il leader palestinese incontrò papa Giovanni Paolo II, poi il leader di Forza Italia all’Excelsior, il leader dei Ds Massimo D’Alema e anche l’allora presidente del Consiglio Romano Prodi. E se l’accordo fosse avvenuto in quella occasione? Appare improbabile, visto che ormai il processo All Iberian era chiuso: il 2 giugno, dieci giorni prima, il pm Francesco Greco aveva iniziato la requisitoria. E in ogni caso la testimonianza di Arafat in quel processo non c’è mai stata. Un altro punto con diverse incongruenze in questo diario di Arafat in cui si parla prevalentemente di Berlusconi, è il triangolo con Craxi e Gelli (c’è sempre Licio Gelli in qualche documento segreto e scottante). L’Espresso scrive che chi ha letto il diario di Arafat dice che Arafat nelle sue memorie parla di una vicenda che li vede collegati. “Roberto Calvi – allora presidente del Banco Ambrosiano e uomo di Licio Gelli – ha bisogno di un passaporto nicaraguense. Per procurarglielo, Gelli si sarebbe rivolto a Berlusconi – riporta l’Espresso – e il Cavaliere a sua volta avrebbe chiesto aiuto all’amico Bettino Craxi. Il quale avrebbe investito della questione Arafat, ritenuto in grado di procurare un passaporto del Nicaragua”. In questa specie di fiera dell’est del passaporto la prima cosa che non si capisce è cosa dovesse farsene Calvi di un passaporto nicaraguense (non esattamente un passepartout), la seconda è se poi l’abbia mai ricevuto. Ci sono poi, nella ricostruzione, due cose abbastanza inverosimili: la prima è che il segretario del Psi si mettesse a trafficare passaporti falsi in prima persona e la seconda è che il leader dell’Olp fosse consapevole di tutta la trafila. Ricordiamo che questi sono i diari di Arafat e quindi se è lui a scrivere la vicenda dovrebbe essere andata così, con Craxi che chiama e dice: “Ciao Yasser sono Bettino, mi ha detto Silvio Berlusconi, a cui l’ha chiesto Licio Gelli, che Roberto Calvi gli ha chiesto la cortesia di procurargli un passaporto falso del Nicaragua. Che dici, me ne procuri uno?”. C’è poi un problema di date, che non tornano. L’Espresso scrive che la vicenda del passaporto nicaraguense di Calvi è dei “primissimi anni Ottanta”. Calvi muore nel giugno 1982, quindi è prima. Nel marzo 1981 viene scoperta la lista degli appartenenti alla P2, da quel momento Gelli è latitante e verrà arrestato l’anno successivo, quindi i “primissimi anni Ottanta” è prima del 1981. Resta solo il 1980, ma non si capisce bene cosa debba farsene Calvi di un falso passaporto nicaraguense visto che è a piede libero. Tra l’altro, per la cronaca, quando il 18 giugno 1982 il presidente del Banco Ambrosiano viene trovato impiccato sotto il ponte dei Frati neri a Londra, nelle sue tasche viene trovato un passaporto falso a nome “Gian Roberto Calvini” e non è del Nicaragua (viste le sue conoscenze e frequentazioni, di certo non c’era bisogno di scomodare Gelli, Berlusconi, Craxi e Arafat per un documento falso).
“Ciao Yasser sono Bettino, mi ha detto Silvio che Licio Gelli gli ha detto che Calvi cerca un passaporto falso del Nicaragua. Ne hai uno?” Nel caso dell’Espresso non si può dire che l’inchiesta si basi su un documento falso, semplicemente perché il documento non c’è proprio. E’ quindi, questa dei “diari di Arafat”, una faccenda diversa rispetto all’“inchiesta” sui “trafficanti di virus” (sempre di Lirio Abbate) che ha disintegrato Ilaria Capua. In quel caso il documento era vero, ma le accuse false. Ed è anche diverso dallo scoop, sempre dell’Espresso, sul resoconto delle spese sostenute dal Vaticano per il rapimento di Emanuela Orlandi. In quel caso il documento era tarocco, ma esisteva. I “diari di Arafat” ricordano piuttosto l’intercettazione di Crocetta su Borsellino, quando l’Espresso chiese le dimissioni del presidente della Sicilia dopo aver pubblicato un’intercettazione che non esiste.
IL MISTERO DELLE STRAGI. MILANO. PIAZZA FONTANA.
Guido Salvini: «La guerra tra pm ha fermato la verità su piazza Fontana». Intervista al magistrato che ha indagato sulla strage del 12 dicembre del ’69, scrive Rocco Vazzana il 20 Dicembre 2018 su "Il Dubbio". «Senza la “guerra tra magistrati” che io ho solo subito gli esiti di quei processi sarebbero stati diversi e la verità completa». A quasi cinquant’anni dalla strage di Piazza Fontana, Guido Salvini, ex giudice istruttore nel processo di Milano, ripercorre gli anni in cui la democrazia rischiò di sbriciolarsi sotto le bombe.
In tutto questo tempo si sono svolti tre processi, sono stati individuati due colpevoli, gli ordinovisti Franco Freda e Giovanni Ventura, ma nessuna condanna è stata mai pronunciata. Come è possibile?
«Aggiungo a Freda e Ventura Carlo Digilio che è stato dichiarato colpevole di concorso della strage per aver preparato l’ordigno ma già in Corte d’Assise ha avuto la prescrizione in quanto collaboratore. Ciò che ha danneggiato queste indagini, e in generale le indagini sulle stragi, è stata la frammentazione dei processi. Perché le collaborazioni e le testimonianze sono arrivate in tempi diversi, in un arco temporale lungo più di trent’anni. In questo modo nessun processo ha potuto utilizzare tutte le prove esistenti, ognuno ne ha utilizzato solo una parte. Se oggi, per fare un’ipotesi metagiudiziaria fosse possibile celebrare un processo mettendo insieme tutte le prove raccolte sino ad oggi probabilmente quelli che sono stati imputati sarebbero condannati».
Perché il processo fu spostato a Catanzaro?
«Con la giustificazione dell’ordine pubblico. Il Procuratore capo di Milano e poi la Cassazione stabilirono che a Milano vi era il rischio di scontri di piazza fra gruppi opposti. La sede scelta però era troppo distante. L’unico precedente paragonabile, da questo punto di vista, è stato il processo per il disastro del Vajont, che fu trasferito a L’Aquila, un luogo praticamente irraggiungibile per i valligiani. Sono decisioni che ledono il diritto di partecipare delle persone offese. E l’obiettivo credo che fosse quello che in un’aula così distante si annacquassero testimonianze imbarazzanti per lo Stato. A Catanzaro l’istruttoria fu anche resa difficile dalla distanza dello scenario delle indagini, tutti i testimoni erano in Veneto. Eppure il giudice istruttore di allora, Emilio Ledonne, fece un ottimo lavoro con il filone che portò al rinvio a giudizio di Delle Chiaie e Facchini, anche se poi assolti nel 1988. E fu Ledonne a individuare, già all’epoca, come esplosivista del gruppo “zio Otto”, anche se allora non fu identificato in Carlo Digilio, l’uomo che 15 anni dopo diventerà con me l collaboratore di giustizia per la strage. Anche se nessuno ha scontato delle pene, però, le indagini non sono state affatto inutili. Le sentenze dicono che la strage di Piazza Fontana è stata organizzata lì in Veneto, dalle cellule di Ordine Nuovo. Su quanto avvenuto si sa praticamente tutto e la paternità politica è indiscussa».
Perché lei definisce il 12 dicembre una strage “incompleta”: cinque attentati e una sola strage?
«Quel giorno è senza dubbio accaduto qualcosa di strano. Perché gli attentati di Milano e Roma erano stati preceduti da 17 episodi simili dall’inizio del 1969. Erano attentati dimostrativi che erano stati tollerati perché servivano a stabilizzare il quadro politico: c’era Rumor che spingeva per mantenere un monocolore con l’appoggio solo dei socialdemocratici, che si era separati dal Psi, i socialisti e le sinistre andavano isolate e l’asse del governo spostato a destra».
Fino a quel momento, la strategia “dimostrativa” è condivisa da vari gruppi dell’estrema destra, compreso il Fronte nazionale di Junio Valerio Borghese…
«Senza dubbio, il Fronte nazionale in quel 1969 si sta preparando a una sterzata istituzionale: stringe rapporti col mondo imprenditoriale, Piaggio per citarne uno, attiva propri civili e militari in tutto il Paese e rappresenta una forza non trascurabile della destra reazionaria italiana. Borghese si era rivolto anche all’ambasciatore americano a Roma Graham Martin prospettandogli il suo progetto, senza ricevere in cambio un pieno consenso ma una risposta evasiva. Gli Stati Uniti non comprendevano bene la reale forza del Fronte. L’Italia non era la Grecia, dove gli americani erano certi che nel 1967 il golpe sarebbe riuscito poiché la struttura democratica era molto più debole».
Ma il 12 dicembre finisce la fase “dimostrativa” perché a prendere in mano la situazione è un altro gruppo: Ordine Nuovo.
«Quello che accade il 12 dicembre non doveva essere molto diverso da ciò che era accaduto nei mesi precedenti. Si alza però il tiro, si scelgono due città importanti come Milano e Roma e si punta su obiettivi facilmente confondibili: le banche, dunque il capitalismo, e la patria, con gli attentati all’Altare della patria. Attentati quindi attribuibili tranquillamente all’estrema sinistra. È presumibile che questi cinque attentati contemporanei dovessero rimanere gravi ma nell’alveo degli attacchi dimostrativi, ma a un certo punto Ordine Nuovo deve aver pensato che fosse arrivato il momento dell’assalto finale alla democrazia. E ha trasformato la bomba della banca Milano in una strage. Prendendo di sorpresa anche le forze di destra più moderate che fino a quel momento avevano visto di buon occhio la strategia “stabilizzatrice” di azioni solo dimostrative».
Perché Ordine Nuovo decide di accelerare all’improvviso?
«È stata quasi certamente una scelta dei diretti esecutori. Il fatto che ci sia stato un momento in cui la strategia cambia repentinamente è testimoniato dall’allora vice presidente del Consiglio Paolo Emilio Taviani, uno politico che sapeva e sa quello dice. Taviani ha testimoniato davanti a noi di aver appreso allora da alti funzionari dei Servizi che un avvocato e agente del SID, Matteo Fusco Di Ravello, stava partendo da Roma per Milano per fermare l’attentato perché si era capito che avrebbe provocato una strage. E questo finale non faceva parte del piano “morbido” di stabilizzazione. Ma quando Fusco arrivò all’aeroporto sentì alla radio: “Esplode una caldaia a Milano” e capì che ormai non poteva far nulla. E c’è un dettaglio molto umano, che rende credibile questo racconto: l’avvocato ha una reazione istintiva, si attacca al telefono per sentire la figlia che si trova in albergo a Milano in piazza della Scala, cioè davanti alla Banca Commerciale dove era stata piazzata la seconda bomba. La ragazza è una militante di estrema sinistra che partecipa attivamente alla vita politica. La figlia è stupita da tanta apprensione e ne chiede il motivo. La risposta è quasi un dramma di famiglia: “Perché è successo qualcosa di grosso e non sono riuscito a impedirlo”. La figlia di Fusco lo ah testimoniato davanti a noi».
Perché gli attentati contemporanei avvenuti a Roma, uno alla Bnl e due all’Altare della Patria, non provocano vittime?
«Chi ha piazzato la bomba alla BNL ha avuto probabilmente un’esitazione e ha abbandonato l’ordigno in un sottopassaggio dove ha causato solo feriti. Me se la bomba fosse stata deposta come a Milano nel salone la storia e le conseguenze di quel giorno sarebbero completamente diverse Per due giorni dopo infatti, il 14 dicembre era stata da tempo convocata una manifestazione nazionale della destra a Roma, organizzata dal MSI, ma a cui avevano aderito tutte le sigle di destra, compreso Ordine Nuovo. L’avevano battezzata “Appuntamento con la nazione”. Se gli attentati romani fossero andati a segno con vittime quella manifestazione sarebbe stato il pretesto per scatenare una specie guerra civile, assalti alle sedi dei PCI, reazioni della sinistra, morti strada e di conseguenza la dichiarazione dello stato di emergenza».
Lei ha detto che quel 12 dicembre accadde troppo e troppo poco allo stesso tempo. Cosa intendeva?
«Troppo per chi pensava ad attentati dimostrativi che servivano solo a mantenere alta la tensione, troppo poco perché sarebbe servita una seconda strage per mettere in ginocchio la democrazia. Per capire quei fatti bisogna anche inserire i fatti italiani in un contesto internazionale ben preciso. Nel febbraio del ‘ 69 Nixon arriva in visita a Roma. È l’occasione per chiedere al Presidente Saragat di impedire l’avvicinamento dei comunisti al governo. Saragat, il più filo atlantico dei socialdemocratici, concorda. E se guardiamo con attenzione alla stagione più calda della strategia della tensione, quella con le sue le stragi più gravi, notiamo che va dal 1969 al 1974, un periodo di tempo che coincide esattamente con la presidenza Nixon, con Kissinger al suo fianco. Sono anni in cui è ancora pensabile intervenire in quel modo nella politica dei Paesi europei. In Italia accadono Piazza Fontana, la strage alla Questura Piazza della Loggia, la strage di Gioia Tauro, i fatti di Reggio Calabria e una lunga serie altri attentati. Tutto ciò che accade dopo è più difficile da capire. Per intenderci, già Bologna è meno interpretabile».
Un ruolo chiave, da un punto di vista processuale, lo ha giocato il collaboratore Digilio…
«Il racconto di Digilio ruota attorno al casolare ai Paese, vicino a Treviso, in cui lui, Zorzi, Ventura, Pozzan avevano la loro santabarbara: armi, esplosivi e anche una stampatrice per il materiale di propaganda. Lì avevano preparato gli ordigni. È un casolare in campagna che per lungo tempo non si è riusciti a rintracciare».
Perché non è stato trovato?
«È stata la conseguenza di chi credeva di poter fare tutto da solo. Attorno a quel casolare ruotava la credibilità della testimonianza di Digilio. La Procura di Milano decise, senza neanche avvisarmi, di fotocopiare un po’ di atti del processo di Catanzaro e non si accorse che in mezzo a quel materiale c’era l’agenda di Ventura, in cui c’era traccia del casolare raccontato da Digilio. E quando il casolare venne finalmente trovato dalla Procura di Brescia, anni dopo, il processo di piazza Fontana era già finito. La Procura di Milano non si è accorta di nulla, si è fatta sfuggire la prova regina. Se avessero guardato quell’agenda ci sarebbero state sicuramente le condanne».
Una sbadataggine in buona fede?
«Per presunzione. Volevano fare tutto da soli, senza collaborare con me che ero il Giudice Istruttore e seguivo quelle indagini da anni. Anzi, hanno occupato il loro tempo ad attaccarmi, chiedendo al CSM di farmi trasferire da Milano con una serie di pretesti. Invece di privilegiare il gioco di squadra hanno creato un clima di guerra tra magistrati che ha favorito solo gli ordinovisti».
Quanto hanno contribuito i Servizi a confondere le acque nel corso dei vari processi?
«Se c’è un dato certo nella storia di piazza Fontana è la copertura del SID. Perché le condanne al gen. Gianadelio Maletti e al cap. Antonio Labruna, benché modeste, sono comunque definitive. Condannati per aver fatto fuggire all’estero Pozzan e Giannettini due personaggi decisivi».
La politica ha avuto un ruolo?
«I governi dell’epoca hanno a lungo negato che Giannettini fosse un agente del Sid. Lo hanno ammesso solo nel 1977, quindi molto tardi. E’ chiaro i vertici dello Stato sapevano chi fosse Giannettini e che era l’elemento di collegamento con la cellula di Padova. È questo uno degli elementi che la fanno definire quella una strage di Stato».
Un anno fa ci disse di aspettare ancora le scuse da parte di Francesco Saverio Borrelli per averle “fatto la guerra” con esposti al Csm per cacciarla via da Milano. Sono arrivate?
«No. Borrelli fa parte di quelle persone che pensano di non sbagliare mai. E ricordo che il trasferimento per un magistrato equivale alla morte civile: via dalla propria città, via dalle proprie indagini e anche via dalla propria famiglia. A me quegli anni hanno cambiato la vita. Forse lui non se ne ricorda nemmeno».
Ma perché quell’astio da parte della Procura?
«Per invidia, perché ero arrivato dove loro non erano riusciti. Un po’ lo stesso problema che si presentò con Felice Casson».
Che accadde con Casson?
«La mia indagine, pur considerando Gladio una grande scoperta per la ricostruzione della storia d’Italia dagli anni ‘50 in poi, aveva comunque rifiutato l’idea sposata da Casson secondo cui Gladio aveva commesso le stragi. Quando, con il mio lavoro, questa ipotesi, viene esclusa per concentrarsi sugli ordinovisti veneti che operavano nel suo “cortile di casa”, certo a Venezia questo non fu molto gradito. Perché a venir meno non era solo un filone d’indagine ma anche una ricostruzione che aveva dato grande credito politico. Tanto è vero che due ordinovisti in un’intercettazione telefonica dicono: “Quel giudice di Milano ha tolto a Casson il pane di bocca”».
IL MISTERO DELLE STRAGI. LA STAZIONE DI BOLOGNA.
C’è una pista araba per la strage alla stazione di Bologna? Scrive Paolo Delgado il 2 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Trentasette anni dopo la bomba alla stazione di Bologna, cioè la più sanguinosa strage nella storia d’Italia, oggi si ripeteranno puntualissime le polemiche che accompagnano da sempre la commemorazione. Stavolta nel mirino ci sarà la stessa procura di Bologna, fortemente criticata per aver archiviato l’inchiesta sui mandanti della strage. E’ opportuno ricordare che, secondo una sentenza definitiva ma giudicata quasi ovunque non credibile, non sono ancora stati individuati né i mandanti, né il movente, né gli esecutori materiali della strage. Ci sono tre condannati, Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, ma come “anelli intermedi”: quelli che avrebbero organizzato, su mandato non si sa di chi, l’attentato poi realizzato non si sa da chi per non si sa quali ragioni. Si può scommettere che nella polemica sui mandanti non una parola verrà dedicata alla denuncia che il quotidiano romano Il Tempo porta avanti, inascoltato, da una settimana. Il direttore Gian Marco Chiocci ha rivelato che esistono delle note dell’allora capo dei servizi segreti in Medio Oriente Stefano Giovannone, capocentro Sismi a Beirut e già uomo di fiducia di Aldo Moro. Le informative, ancora secretate dal Copasir, potrebbero secondo Chiocci gettare una luce tutta diversa sulla strage e sui suoi mandanti. Le note di Giovannone sono state visionate dai parlamentari della commissione Moro, ma senza il permesso di fotocopiarle né di diffonderne i contenuti. Prima di entrare nel merito degli appunti del vero ideatore del famoso Lodo Moro, quello che consentiva alle organizzazioni palestinesi di usare di fatto l’Italia come base in cambio dell’impegno a non colpire obiettivi italiani ( a meno che, segnalava però Cossiga, non avessero rapporti con Israele: il che, secondo l’ex presidente picconatore, escludeva dall’accordo gli ebrei), bisogna chiarire perché quelle note sono importanti e fino a che punto costituiscono un elemento valido per l’individuazione della verità sulla strage del 2 agosto 1980. A rendere particolarmente interessante quel documento è prima di tutto proprio il fatto che siano note di pugno di Giovannone. Non si trattava infatti di un agente dell’Intelligence come tanti: “Stefano d’Arabia”, com’era soprannominato, era senza dubbio la persona che nello Stato italiano conosceva meglio, più a fondo e più da vicino le organizzazioni palestinesi, nei confronti delle quali provava una assoluta simpatia. Il secondo elemento d’interesse è la stessa scelta di mantenere il segreto su quelle note del 1979- 80 a destare curiosità e sospetti: cosa giustifica, a quasi quarant’anni di distanza, tanta prudenza? Allo stesso tempo va chiarito che gli appunti di Giovannone non indicano affatto con certezza una responsabilità palestinese nella strage. In compenso confermano al di là di ogni dubbio che le indagini trascurarono deliberatamente una pista e scelsero, non sulla base di elementi concreti ma al contrario ignorando i soli elementi concreti a disposizione, di seguire solo quella neofascista. L’antefatto è noto ma conviene riassumerlo. Nella notte tra il 7 e l’8 novembre tre autonomi romani del collettivo di via dei Volsci furono arrestati a Ortona mentre trasportavano per conto dei palestinesi due lanciamissili Sam- 7 Strela di fabbricazione sovietica. Giovannone si mobilitò immediatamente, poche ore dopo l’arresto, per cercare invano di risolvere l’incidente, evidentemente molto preoccupato per qualcosa, anzi per qualcuno, che non potevano certo essere i tre autonomi. Si trattava infatti Abu Anzeh Saleh, ufficialmente studente a Bologna, in realtà responsabile militare del Fronte popolare per la Liberazione della Palestina in Europa. Saleh, che aveva chiesto ai tre autonomi di occuparsi del trasporto, senza chiarire di cosa si trattasse, fu arrestato pochi giorni dopo. Qualche settimana fa l’allora dirigente dell’Fplp Abu Sharif, nel corso dell’audizione di fronte alla Commissione Moro, ha rivelato che proprio Saleh era il dirigente palestinese a cui lo Stato italiano si era rivolto, dopo il sequestro di Moro, chiedendo un intervento dell’Olp a favore della liberazione dell’ostaggio. I rapporti stretti tra Giovannone e Saleh sono confermati dall’interessamento del potente colonnello perché al palestinese, espulso nel ‘ 74, fosse consentito il ritorno e il soggiorno in Italia. La preoccupazione di Giovannone era comprensibile e fondata. Sin dal ‘ 73 era in vigore l’accordo con il Fronte, come con altre organizzazioni palestinesi, che avrebbe dovuto mettere Saleh al riparo da ogni rischio d’arresto. Il colonnello aveva capito al volo che, con tre autonomi italiani di mezzo e nel clima dell’epoca, ottenere la scarcerazione del palestinese sarebbe stato molto difficile. Era ben consapevole di quanta irritazione ciò avrebbe comportato nei vertici dell’Fplp, allora fortemente influenzato dalla Libia, e quanto fosse di conseguenza alto il rischio di una reazione violenta. Pochi giorni dopo gli arresti, Giovannone accenna, nelle informative ancora secretate, a una lettera inviata al premier italiano Cossiga da Arafat, evidentemente preoccupatissimo per i sospetti di collusione tra palestinesi e terrorismo italiano. Nella lettera, mai consegnata a Cossiga per l’intervento del responsabile dell’Olp in Italia Nemer Hammad, Arafat attribuiva alla Libia ogni responsabilità per il trasporto dei lanciamissili. In dicembre Giovannone accenna per la prima volta a una divisione tra falchi e colombe ai vertici dell’Fplp e del conseguente rischio di dure rappresaglie ove l’Italia non mantenesse i propri impegni con il Fronte. In concreto, senza la liberazione di Saleh e la restituzione dei lanciamissili. Il colonnello torna a registrare la possibilità di rappresaglie e di iniziative punitive nei confronti dell’Italia nei primi mesi del 1980, dopo che il 25 gennaio tutti gli imputati erano stati condannati in primo grado a sette anni. In aprile Giovannone riporta le preoccupazioni dello stesso leader dell’Fplp George Habbash, che si dice pressato dall’ala estremista del Fronte favorevole alla rappresaglia. Nella stessa occasione il responsabile dei servizi segreti italiani in Medio Oriente specifica che l’eventuale attentato sarebbe commissionato a un’organizzazione esterna all’Olp, quella di Carlos con il quale, aggiunge Giovannone, l’area dura dell’Fplp ha appena preso contatti. L’esecuzione, prosegue la nota, sarebbe probabilmente affidata a elementi europei, per non ostacolare il lavoro diplomatico in vista del riconoscimento dell’Olp da parte dell’Italia. In maggio Giovannone cita apertamente un ultimatum, con scadenza il 16 maggio, dopo il quale la maggioranza sia dei vertici che della base del Fronte è favorevole a riprendere la piena libertà d’azione in Italia, se nel frattempo non ci sarà stata la liberazione di Saleh. Il colonnello afferma anche che, secondo le sue fonti, a premere per un’azione violenta è la Libia, principale sostegno del Fronte ma che, in ogni caso, nulla succederà prima della fine di maggio. La fase più pericolosa è invece considerata l’avvio del processo d’appello, il 2 luglio. Nelle settimane seguenti il governo italiano fa sapere di essere pronto a prendere in considerazione la condizione di Saleh, ma non quella dei tre autonomi italiani, e di essere disponibile a indennizzare i palestinesi per i due lanciamissili sequestrati. Il 29 maggio però la Corte d’Appello dell’Aquila respinge la richiesta di scarcerazione di Saleh e le fonti di Giovannone alludono a due possibili ritorsioni: un dirottamento aereo oppure l’occupazione di un’ambasciata. Ma è lo stesso capocentro del Sismi, in giugno, a sottolineare che gli siano stati segnalati obiettivi falsi allo scopo di coprire quelli e a ipotizzare un attentato “suggerito” dalla Libia all’Fplp ma non rivendicato per evitare di creare problemi all’Olp. L’ultimo appunto è di fine giugno. Giovannone dice di essere stato informato sulla scelta del Fronte di riprendere a muoversi in piena libertà, cioè senza più offrire le garanzie previste dal Lodo Moro e afferma di aspettarsi «reazioni particolarmente gravi» se l’appello non rovescerà la sentenza di condanna. Il processo però viene subito rinviato fino a ottobre. Le comunicazioni di Giovannone si fermano qui, ma l’11 luglio il direttore dell’Ucigos prefetto Gaspare De Francisci mette in allarme con una nota riservata il direttore del Sisde Giulio Grassini in merito a possibili ritorsioni da parte dell’Fplp. Né l’informativa di Giovannone né i molti altri elementi che potrebbero indicare una pista libicopalestinese per la strage sono tali da permettere di arrivare a conclusioni credibili, come troppo spesso ha cercato di fare negli ultimi anni uno stuolo di investigatori dilettanti. Ma il punto non è sostituirsi agli inquirenti. È, più semplicemente, chiedersi perché, che, con elementi simili a disposizione, gli investigatori abbiano deciso, sin dalle prime ore dopo l’attentato, di seguire tutt’altra pista.
2 AGOSTO 1980. Bologna, il buco nero della strage alla stazione. 36 anni dopo, Bologna si prepara ad accogliere i famigliari delle vittime e le commemorazioni. Per non dimenticare l'atto terroristico che provocò 85 vittime. La dinamica e i mandanti, nonostante i processi e le condanne, non sono mai stati chiariti, scrive Michele Sasso l'1 agosto 2016 su “L’Espresso”. La più grande strage italiana in tempo di pace. Ottantacinque morti, più di duecento feriti. Il 2 agosto 1980, un giorno d’estate di un Paese che esiste solo nella memoria, è diventato un tutt’uno con la strage di Bologna. È un sabato quel 2 agosto di 36 anni fa. Le ferie estive che svuotano le città del Nord sono appena iniziate. Chi ha scelto il treno deve passare necessariamente per Bologna, scalo-cerniera per raggiungere l’Adriatico o puntare verso Roma. La stazione è affollatissima dalle prime ore del mattino. I voli low cost arriveranno sono trent’anni dopo. Dopo la bomba alla stazione, che provocò 85 morti, il nostro settimanale preparò un numero speciale e mise in copertina la riproduzione di un quadro di Renato Guttuso, realizzato apposta per l'occasione. Guttuso dette all'opera lo stesso titolo dell'incisione di Francisco Goya Il sonno della ragione genera mostri ed aggiunse la data della strage, 2 agosto 1980, unico riferimento al fatto specifico, vicino alla firma dell'autore. La tavola originale è esposta nel Museo Guttuso. Raffigura un mostro con sembianze da uccello e corpo di uomo, denti aguzzi, occhi sbarrati e di fuoco, che tiene un pugnale nella mano destra e una bomba a mano nella sinistra, e colpisce alcuni corpi morti o morenti, sopra i quali sta a cavalcioni Alle 10 e 25 però il tempo si ferma: 23 chili di tritolo esplodono nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione ferroviaria. Le lancette del grande orologio, ancora oggi, segnano quel tempo e quella stagione di morte e misteri. Un boato, sentito in ogni angolo della la città, squarcia l'aria. Crolla l'ala sinistra dell'edificio: della sala d'aspetto di seconda classe, del ristorante, degli uffici del primo piano non resta più nulla. Una valanga di macerie si abbatte anche sul treno Ancona-Basilea, fermo sul primo binario. Pochi interminabili istanti: uomini, donne e bambini restano schiacciati. La polvere e il sangue si mischiano allo stupore, alla disperazione e alla rabbia. Tanta rabbia per quell’attentato così mostruoso e vile che prende di mira turisti, pendolari, ferrovieri. Perché nessuno anche in quei primi istanti ha mai dubitato sulla matrice terroristica della strage: l'odore dell'esplosivo era inconfondibile. Cominciò quel giorno una delle indagini più difficili della storia giudiziaria italiana. Un iter che ha portato a cinque gradi di giudizio, alla condanna all'ergastolo degli ex Nar Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, e a quella a trent'anni di Luigi Ciavardini. Con un corollario di smentite, depistaggi e disinformazione. Resta la verità giudiziaria della pista neofascista e la strategia della tensione ma rimangono senza nomi i mandanti. I responsabili dei depistaggi, invece, come stabilito dai processi, sono Licio Gelli, P2, e gli ex 007 del Sismi Francesco Pazienza, Pietro Musumeci, Giuseppe Belmonte. Il giorno dei funerali, il 6 agosto, «non era possibile determinare quante persone fossero presenti», come scrisse Torquato Secci, che quel giorno perse il figlio e poi diventò il presidente dell’associazione tra i familiari delle vittime della strage. Non tutte le vittime ebbero, però, il funerale di Stato: solo sette le bare presenti in chiesa in mezzo alle quali camminò il presidente della Repubblica Sandro Pertini, giunto insieme a Francesco Cossiga, presidente del Consiglio dei ministri. Fuori dalla chiesa, la gente in piazza iniziava a contestare le autorità. Solo Pertini e il sindaco di Bologna, Zangheri, ricevettero degli applausi. Ancora prima dei funerali si svolsero manifestazioni in Piazza Maggiore a testimonianza delle immediate reazioni della città. Un moto di indignazione e dolore scosse l’intero Paese. L'Espresso uscì la settimana successiva con un numero speciale: in copertina un quadro a cui Renato Guttuso ha dato lo stesso titolo che Francisco Goya aveva scelto per uno dei suoi 16 Capricci: «Il sonno della ragione genera mostri». Trentasei anni dopo, con l’eredità di ombre, depistaggi e la strategia della tensione per controllare il Paese, si rinnova il ricordo collettivo e personale della strage. Bologna si prepara a rinnovare l’impegno con la “giornata in memoria delle vittime di tutte le stragi”, organizzata dall’associazione dei familiari delle vittime del 2 agosto che tenne viva la memoria e la spinta civile durante l’intero processo.
Come a sinistra si racconta sempre un'altra storia.
La strage di Bologna: l’intervista di Gianni Barbacetto al giudice Mastelloni. Ad ogni anniversario della strage di Bologna spuntano le rivelazioni su nuove piste e nuovi responsabili per la bomba. Piste e responsabili che spesso si sono rivelati sbagliati o, peggio, dei depistaggi. L'ultimo libro sulla bomba alla stazione: il saggio uscito per Chiarelettere di Rosario Priore e Valerio Cutonilli "I misteri di Bologna". L’1 agosto 2016 sul Fatto Quotidiano Gianni Barbacetto (autore tra gli altri del libro "Il grande vecchio" sulle stragi e sui segreti italiani) intervista il giudice Carlo Mastelloni, che nel passato aveva indagato sul disastro di Argo 16 e sui contatti tra Br e Olp per lo scambio d'armi. Diversamente da Priore, Mastelloni ha pochi dubbi sull'origine della bomba e sui responsabili: sono stati i neofascisti dei Nar, Valerio Fioravanti e Francesca Mambro. Quest'intervista cancella la tesi dei due autori del libro. E' la più grave delle stragi italiane: 85 morti, 200 feriti. È anche l’unica con responsabili accertati, condannati da sentenze definitive: Valerio Giusva Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini. Esecutori materiali appartenenti ai Nar, i Nuclei armati rivoluzionari. La strage di Bologna del 2 agosto 1980, ore 10.25, è anche l’unica per cui sono state emesse sentenze per depistaggio: condannati due uomini dei servizi segreti, Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte, e due faccendieri della P2, Licio Gelli e Francesco Pazienza. I depistaggi: fanno parte della storia delle indagini sull’attentato di Bologna (come di tutte le stragi italiane, a partire da piazza Fontana) e arrivano fino a oggi, dopo che sono passati 36 anni. Malgrado le sentenze definitive che attribuiscono la responsabilità dell’attentato ai fascisti nutriti dalla P2, sono continuamente riproposte altre spiegazioni, fantasmagoriche “piste internazionali”. La pista palestinese, più volte presentata in passato, anche da Francesco Cossiga, torna alla ribalta oggi aggiornata dal magistrato che ha indagato sulla strage di Ustica, Rosario Priore. Continua a resistere la pervicace volontà di non guardare le prove raccolte in anni d’indagini e allineate in migliaia di pagine di atti processuali, per inseguire le suggestioni evocate da personaggi pittoreschi e depistatori di professione. Del resto Fioravanti e Mambro, che pure hanno confessato decine di omicidi feroci, continuano a proclamare la loro innocenza per la strage della stazione: non possono e non vogliono accettare di passare alla storia come i “killer della P2”. La definizione è di Vincenzo Vinciguerra, protagonista dell’altra strage italiana per cui c’è un responsabile condannato, quella di Peteano. Ma Vinciguerra ha denunciato se stesso e ha orgogliosamente rivendicato l’azione di Peteano come atto “di guerra politica rivoluzionaria” contro uomini dello Stato in divisa. Su Bologna, sulle 85 incolpevoli vittime, sui 200 feriti, invece, 36 anni dopo restano ancora all’opera i dubbi, le menzogne, i depistaggi. Non ha dubbi: “Cominciamo a mettere le cose al loro posto: la matrice neofascista della strage di Bologna è chiara”. Carlo Mastelloni è dal febbraio 2014 procuratore della Repubblica a Trieste. Non dà credito alla pista internazionale per l’attentato: il giudice Rosario Priore, in un libro scritto con l’avvocato Valerio Cutonilli, spiega la strage con una pista palestinese. “Non l’ho mai condivisa”, dice Mastelloni. In estrema sintesi, secondo i sostenitori di questa ipotesi, la Resistenza palestinese avrebbe compiuto la strage come ritorsione per l’arresto nel novembre 1979 di Abu Saleh, uomo del Fronte popolare di liberazione della Palestina (Fplp), componente radicale dell’Olp di Yasser Arafat, fermato in Italia con tre missili terra-aria tipo Strela insieme a Daniele Pifano e altri due esponenti dell’Autonomia romana. La strage come vendetta per la rottura da parte italiana del cosiddetto “Lodo Moro”, cioè dell’accordo di libero transito in Italia dei guerriglieri palestinesi, in cambio della garanzia che sul territorio italiano non avrebbero compiuto attentati. “Quella pista”, ricorda Mastelloni, “si basa sul fatto che a Bologna la notte prima della strage era presente Thomas Kram; tuttavia, all’elemento certo di quella presenza si è aggiunto il nulla indiziario”. Kram è un tedesco legato al gruppo del terrorista Carlos, lo Sciacallo. Nuovi documenti, ancora secretati perché coinvolgono Stati esteri, sono stati di recente acquisiti dall’attuale Commissione parlamentare d’inchiesta sull’assassinio di Aldo Moro: proverebbero che gli accordi con la Resistenza palestinese hanno tenuto almeno fino all’ottobre dell’80, assicura lo storico Paolo Corsini, che ha potuto leggere quelle carte in qualità di componente dell’organismo parlamentare. Racconta Mastelloni: “Quando il vertice del Sismi (il servizio segreto militare erede del Sid) dopo l’arresto di Pifano e degli altri fu costretto a rivelare la persistenza del Lodo Moro a Francesco Cossiga – che già ne era stato sommariamente informato attraverso le lettere inviate da Moro prigioniero nella primavera 1978 – questi andò su tutte le furie. Soprattutto dopo aver appreso che il transito dei missili era stato accordato al capo dell’Fplp George Habbash dal colonnello del Sid Stefano Giovannone”. La furia di Cossiga, i contatti di Giovannone. In quei mesi Cossiga era presidente del Consiglio. “Appunto. E si arrabbiò moltissimo. Di qui l’atteggiamento furioso di Habbash che rivendicò i missili e la copertura datogli “dal governo italiano” che lui evidentemente identificava in Giovannone, capocentro Sismi a Beirut. Conosco un po’ la personalità di Cossiga: gli piacevano assai certi intrighi internazionali e poi credeva di avere le stesse capacità strategiche di Moro. Per questo è assai facile che il Lodo abbia tenuto fino a tutto il 1980, almeno fino alla conclusione del mandato di Cossiga. È però da escludere che di fronte a una strage come quella di Bologna il Lodo Moro potesse essere idoneo a coprire il fatto. Mi si deve poi spiegare quale utilità avrebbe mai conseguito il Kgb – che aveva avuto alle sue dipendenze Wadi Haddad fino al 1978, così come nella sua orbita si trovava Habbash e lo stesso Arafat capo dell’Olp – colpendo la rossa Bologna”. Cossiga arrivò a dire, in un’intervista al Corriere del giugno 2008, che la strage fu la conseguenza un transito di esplosivo finito male. “Non è assolutamente plausibile. L’esplosivo usato per l’attentato poteva esplodere solo se innescato, non per altri fattori accidentali. La strage fu causata dalla deflagrazione di una valigia riempita con circa 20 chili di Compound B, esplosivo di fabbricazione militare in dotazione a istituzioni come la Nato”. Priore sostiene che l’Fplp di Habbash aveva una così forte influenza su Giovannone e, tramite questi, sul governo italiano, da pretendere che le nostre autorità rifiutassero a statunitensi e israeliani di esaminare i missili Strela sequestrati. “Il dottor Habbash è stato un capo carismatico ma, francamente, penso che i nostri alleati non avessero bisogno di analizzare gli Strela che già conoscevano. Le rivelo che spesi ogni energia –tante missive di richiesta allo Stato maggiore dell’esercito – per avere notizia dei missili sequestrati e poi inviati agli organi tecnici dell’Esercito. Dove si trovavano? Silenzio. Mi fu poi detto nel 1986, dal generale Vito Miceli, che erano stati spediti agli americani per le analisi”. L’ipotesi è che il destinatario ultimo dei missili sequestrati fosse niente di meno che il terrorista Carlos, che stava progettando un’azione clamorosa, un attentato contro i leader egiziano Sadat. “Lo escludo. Nel 1979, Carlos già da anni era stato espulso dal circuito di Fplp. Penso che quei missili fossero in transito e che gli autonomi arrestati si sarebbero dovuti limitare a trasportarli, probabilmente fino al confine svizzero. Si trovava infatti in Svizzera quella che io chiamo la testa del motore, e cioè la centrale del terrorismo palestinese. Mi pare che proprio in quel periodo a Ginevra fosse in programma un’importante conferenza internazionale cui doveva partecipare Henry Kissinger, da anni obbiettivo del Fplp. Carlos aveva assunto il comando dell’organizzazione poi chiamata Separat, vicina ai siriani, e quindi all’Unione Sovietica. Escludo perciò che Carlos avesse bisogno proprio dei due missili di Habbash così come escludo che quest’ultimo si mettesse nelle mani di Carlos per compiere un attentato eclatante nella rossa Bologna”. È dunque solida, da un punto di vista giudiziario, la matrice fascista della strage di Bologna. “Sì. Ricordiamoci innanzitutto il luogo e il contesto: agli inizi degli anni Ottanta, Bologna era ancora la capitale simbolica del Pci. Finiti gli anni del compromesso storico e degli accordi con la Dc, Enrico Berlinguer riposizionò il Partito comunista all’opposizione”. Tanti i testimoni che parlano di Giusva. Responsabile della strage, per la giustizia italiana, è il gruppo dei Nar, i Nuclei armati rivoluzionari di Valerio Giusva Fioravanti. “Lo provano le testimonianze di militanti di primo piano dei Nar: da Cristiano Fioravanti a Walter Sordi, da Stefano Soderini a Luigi Ciavardini. Ma decisiva appare nel contesto della strage la vicenda dell’omicidio Mangiameli. Francesco Ciccio Mangiameli, leader nazionale di Terza Posizione, fu indicato dal colonnello Amos Spiazzi nell’agosto del 1980 come coinvolto nell’attentato. Nel settembre dello stesso anno, Mangiameli venne eliminato dai fratelli Fioravanti, Francesca Mambro e Giorgio Vale a Roma, dopo essere stato attirato in una trappola. Omicidio inspiegabile, se non con il pericolo che ‘Ciccio’ rivelasse quello che sapeva sulla strage di Bologna”. Giusva Fioravanti e Francesca Mambro erano stati a Palermo, da Mangiameli, nel mese di luglio 1980, per pianificare l’evasione di Pierluigi Concutelli, capo militare di Ordine nuovo. “Sì. Ed è proprio per paura di quanto avevano appreso durante quel viaggio in Sicilia che Giusva era deciso a eliminare anche la moglie e la bambina di Mangiameli. Questo lo ha raccontato il pentito Cristiano Fioravanti, fratello di Giusva”. Cristiano Fioravanti è un personaggio drammatico, grande accusatore del fratello Giusva. È un personaggio credibile? “Certamente sì. In diverse confidenze fatte nel carcere di Palianolo si evince dalle dichiarazioni di Sergio Calore e Raffaella Furiozzi – e in parziali confessioni rese alla Corte d’assise di Bologna, poi ritrattate ma solo su fortissime pressioni del padre dei fratelli Fioravanti, Cristiano ha additato il fratello come responsabile della strage che, nelle intenzioni, non avrebbe dovuto assumere dimensioni così devastanti”. In aggiunta c’è la testimonianza di Massimo Sparti. “Ed è molto importante. Sparti parla di una richiesta urgente di documenti falsi per Francesca Mambro avanzata da un Valerio Fioravanti molto preoccupato che la ragazza fosse stata riconosciuta alla stazione di Bologna. Inoltre, è assolutamente certo che Giusva e Francesca volevano eliminare Ciavardini per aver fatto incaute rivelazioni il 1° agosto alla fidanzata. Stefano Soderini era già stato mobilitato per l’eliminazione del giovane, allora minorenne e ferito in uno scontro a fuoco durante un’azione dei Nar. Non le pare abbastanza per considerare definitiva la matrice fascista della strage?”. Alcuni ritengono però che in tutta la vicenda processuale sia apparsa indeterminata, se non assente, la figura dei mandanti e la motivazione profonda per la strage. “Resta un buco di ricostruzione storica. Ma nessuno può levarmi dalla testa che le continue e pervicaci campagne volte ad accreditare l’innocenza degli attentatori materiali neofascisti non hanno avuto altro esito – anche dopo la sentenza definitiva della Cassazione – che allontanare ancora di più la ricerca dei mandanti e dei loro scopi”. Oggi resta intoccabile quella grande lapide (“Vittime del terrorismo fascista”) all’interno della stazione, con i nomi degli 85morti di Bologna. “Sì, e aggiungo una cosa: quella lapide è tuttora scomoda per parecchi ambienti”.
Strage di Bologna, la mano dei Servizi segreti: i documenti inediti sull'Espresso. Nuovi elementi rivelano le complicità dello Stato e il ruolo di Licio Gelli nell'attentato che il 2 agosto del 1980 è costato la vita a 85 innocenti. Ve li raccontiamo nel numero in edicola da domenica 29 luglio, scrivono Paolo Biondani e Giovanni Tizian il 27 luglio 2018 su "L'Espresso". Il capo della P2, i finanziamenti e il misterioso documento “Bologna”. Le protezioni che i servizi hanno fornito ai terroristi neri coinvolti nella strage e un secondo covo rimasto finora segreto. L'ombra di Gladio sulle sul curriculum criminale del quarto neofascista sotto processo con l'accusa di essere uno degli esecutori. Insomma, sulla bomba del 2 agosto 1980 alla stazione dei treni di Bologna che ha ucciso 85 innocenti, i misteri sono ancora molti. Conosciamo gli esecutori, ma non i nomi degli ideatori politici. Per questo attentato, il più sanguinario, c’è un processo in corso contro un terrorista di destra accusato di essere il quarto complice, dopo i tre stragisti già condannati. E c’è una nuova indagine, ancora aperta, sui mandanti occulti. A 38 anni dalla strage, L’Espresso in edicola a partire da domenica 29 luglio, pubblicherà un ampio servizio esclusivo sull’attentato: con tutte le sentenze e altri documenti, finora inediti, che disegnano la stessa trama nera, una strage di Stato. La mano di alcuni uomini dei servizi fedeli non alla Costituzione ma a Licio Gelli, il fondatore della loggia segreta P2. Prendiamo, per esempio, Valerio Fioravanti, il terrorista di destra condannato in via definitiva come esecutore materiale dell’attentato alla stazione. Vito Zincani, il giudice istruttore della maxi-inchiesta sulla strage, ricorda bene le vecchie carte ora ritrovate da L’Espresso: «Fioravanti aveva rubato un’intera cassa di bombe a mano, modello Srcm, quando faceva il servizio militare a Pordenone. Era stato ammesso alla scuola ufficiali quando risultava già denunciato e implicato in gravi reati. Per capire come avesse fatto, abbiamo acquisito i suoi fascicoli. E negli archivi della divisione Ariete abbiamo trovato un documento dell’Ufficio I, cioè dei servizi militari: indicava proprio Fioravanti e Alessandro Alibrandi come responsabili del furto delle Srcm. Quelle bombe sono state poi utilizzate per commettere numerosi attentati. Sono fatti accertati, mai smentiti». C'è poi l'imputato del nuovo processo di Bologna, Gilberto Cavallini. Al centro di un caso ancora più inquietante. Il mistero di una banconota spezzata. Il 12 settembre 1983 i carabinieri perquisiscono a Milano un covo di Cavallini. Tra le sue cose, elencate nel rapporto, il reperto numero 2/25: una mezza banconota da mille lire, con il numero di serie che termina con la cifra 63. Tra migliaia di atti ufficiali dell’organizzazione Gladio,la famosa rete militare segreta anticomunista, L'Espresso ha recuperato le foto di banconote da mille lire, tagliate a metà, e i fogli protocollati che spiegano a cosa servivano: erano il segnale da utilizzare per accedere agli arsenali, per prelevare armi o esplosivi, in particolare, dalle caserme in Friuli. Su una foto si legge il numero di una mezza banconota: le ultime due cifre sono 63. Le stesse delle mille lire spezzate di Cavallini. Infine il ruolo del Gran Maestro della P2: Licio Gelli, morto nel 2015, senza aver scontato neppure un giorno di carcere per il depistaggio ordito dopo la strage di Bologna. A suo carico, oggi, emergono nuovi fatti, su cui indaga la Procura generale nel filone sui mandanti. E che L'Espresso è in grado di rivelare: tra le sue carte dell’epoca sequestrate a Gelli ora emerge un documento classificato come «piano di distribuzione di somme di denaro». Milioni di dollari usciti dalla Svizzera proprio nel periodo della strage e dei depistaggi, tra luglio 1980 e febbraio 1981. Il documento ha questa intestazione: «Bologna - 525779 XS». Numero e sigla corrispondono a un conto svizzero di Gelli. Altre note, scritte di pugno da Gelli, riguardano pacchi di contanti da portare in Italia: solo nel mese che precede la strage, almeno quattro milioni di dollari. A chi erano destinati quelle somme indicate nel documento “Bologna”? Paolo Bolognesi, il presidente dell’associazione dei familiari delle vittime del 2 agosto 1980, è convinto di una cosa: «Mani esterne hanno sempre lavorato contro la verità. Esiste ancora un pezzo delle nostre istituzioni che rema in direzione contraria alla verità».
Bologna, quando mettere le bombe era un modo per far politica, scrive Paolo Delgado il 3 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Da Piazza Fontana al massacro della stazione di Bologna, una lunga scia di sangue e di misteri di Stato durata 11 anni. È stata la più sanguinosa e feroce di tutte: 85 vittime, il crimine più orrendo nella storia della Repubblica. Eppure quella di Bologna è stata una strage “fuori stagione”: la si potrebbe definire inattesa, se il termine non suonasse sinistro, e dunque difficilmente comprensibile. La vera stagione delle stragi, quella in cui le bombe esplodevano con frequenza oggi inimmaginabile anche se fortunatamente non tutte mietevano vittime, era iniziata nel 1969 e si era prolungata sino al 1974. Per rendere l’idea di cosa s’intenda basti dire che solo le Sam, Squadre azione Mussolini, attive soprattutto a Milano e nel nord, firmarono in quei cinque anni un’ottantina di attentati esplosivi. Per convenzione si data l’esordio della tremenda “stagione delle stragi” al 12 dicembre 1969, quando alle 16.37 del pomeriggio una bomba esplose nel salone della Banca nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana, a Milano. L’attentato uccise subito 13 persone, altre quattro non sopravvissero alle ferite. I feriti furono 83. Una seconda bomba, nella sede milanese della Banca commerciale italiana, in piazza della Scala, non esplose. A Roma, nelle stesse ore, i botti furono tre: una bomba nel sottopassaggio di via Veneto, una di fronte all’Altare della Patria in piazza Venezia e un’altra all’ingresso del Museo del Risorgimento, nella stessa piazza. Nella capitale i feriti furono 16. Le esplosioni si verificarono tutte nell’arco degli stessi 53 minuti. Lo shock fu immenso e il seguito peggiorò le cose: la morte in questura dell’anarchico Pino Pinelli precipitato non si saprà mai come dal balcone della Questura di Milano nella notte tra il 15 e il 16 dicembre, le false accuse contro gli anarchici, i depistaggi e le reticenze dello Stato, la scoperta del coinvolgimento di un neofascista arruolato e poi fatto fuggire all’estero dai servizi segreti, Guido Giannettini, “l’agente Zeta”, la farsa di un processo spostato da Milano, sede naturale, a Catanzaro nel quale sfilarono uno dopo l’altro gli uomini del potere muti e reticenti. Ma in quel 12 dicembre 1969 la stagione del sangue era iniziata già da mesi, il 25 aprile, con una bomba al padiglione Fiat della fiera di Milano, nessuna vittima, molti feriti. Poi, il 9 agosto, nel pieno dell’esodo estivo, otto ordigni scoppiarono su altrettanti treni. Le bombe del 12 dicembre furono le prime a uccidere, non a esplodere. La cosiddetta “strategia della tensione” avrebbe fatto nei cinque anni successivi 113 vittime in 4.584 attentati. Le stragi propriamente dette falciarono in quegli anni 50 persone. Secondo un luogo comune diffuso quanto infondato la sola strage di cui si conoscono almeno gli esecutori è quella di Bologna, arrivata sei dopo la fine della “strategia della tensione”. È un’idea sbagliata per molti motivi: prima di tutto esistono enormi dubbi, diffusi anche tra i magistrati che si sono occupati di stragi e di neofascismo sulla effettiva colpevolezza dei condannati per quella strage, i militanti dei Nar Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini. In secondo luogo, anche limitandosi alla in questo caso molto discutibile verità giudiziaria, i condannati non sarebbero né gli ideatori né gli esecutori materiali del massacro ma solo una sorta di “anello intermedio”. Infine e soprattutto i colpevoli per la strage di piazza Fontana sono stati individuati, i neofascisti Franco feda e Giovanni Ventura, anche se non condannati. Essendo stati già assolti in via definitiva in precedenti processi non potevano infatti essere riprocessati, e in ogni caso ventura è del frattempo deceduto. Piazza Fontana è una strage impunita, non più misteriosa. Ne seguirono parecchie. Il 22 luglio 1970, nel pieno della rivolta di Reggio Calabria, la più lunga rivolta urbana di tutto l’Occidente dal dopoguerra in poi, della quale anche per insipienza della sinistra avevano preso le redini i neofascisti, una esplosione sui binari provocò il deragliamento di un treno a Gioia Tauro: sei morti. Il 31 maggio un’autobomba uccise tre carabinieri a Peteano, in provincia di Gorizia. Reo confesso il neofascista Vincenzo Vinciguerra. Il 17 maggio 1973, un anarchico sospetto però di legami con vari servizi segreti qua e là per il mondo e con l’estrema destra, tirò una bomba nel cortile della Questura di Milano nel corso della commemorazione del commissario Luigi Calabresi, ucciso l’anno precedente: quattro morti, 40 feriti. Il 28 maggio 1974 la bomba di piazza della Loggia a Brescia, esplosa nel corso di una manifestazione sindacale antifascista, uccise otto persone. Quest’anno è diventata defiitiva la condanna per gli ordinovisti veneti Carlo maria Maggi. Pochi mesi dopo, il 4 agosto, l’attentato al treno Italicus fece 12 vittime e ne ferì 105. Che queste stragi, come molti altri attentati, rientrino nella stessa cornice è praticamente certo. Si trattava di una strategia di infiltrazione nei gruppi dell’estrema sinistra, di provocazione e di innalzamento costante della tensione con al termine il miraggio del golpe codificata dai teorici della guerra non convenzionale, molti dei quali si erano incontrati nel noto convegno svoltosi nel maggio 1965 all’Hotel Parco dei Princìpi a Roma, organizzato dall’Istituto di studi militari Pollio, appunto sulle strategie di “guerra rivoluzionaria e non convenzionale”. Ma parlare di identica cornice non implica affatto una regia comune o l’esistenza di un’unica centrale. È al contrario probabile che ciascuna strage risponda a logiche, circostanze e anche organizzatori diversi, sia pure nell’ambito dello stesso progetto di massima e degli stessi ambienti politici. Sono peraltro leciti dubbi anche sulla omogenietà tra l’ultimo attentato, quello dell’Italicus, e quelli precedenti. Altrettanto discutibile il coinvolgimento diretto dello Stato. L’idea che a organizzare le stragi fossero i governi o i vertici dei servizi segreti dell’epoca, largamente diffusa negli ambienti di sinistra dell’epoca, è fantapolitica venata di paranoia. Molto più probabilmente tra i servizi segreti e gli ambienti neofascisti sussisteva un rapporto in cui ciascuno dei due soggetti pensava di poter usare e manipolare l’altro. Certamente, nel clima della “guerra non convenzionale”, i neofascisti furono usati in funzione di infiltrati provocatori, ma gli stessi neofascisti pensavano di sfruttare la postazione ai loro fini, tutt’altro che coincidenti con quelli dei servizi stessi. La strage di Bologna cade però in una fase tutta diversa. In pochi anni il mondo e l’Europa erano cambiati: caduti i regimi fascisti in Spagna, Portogallo e Grecia, caduta l’amministrazione Nixon negli Usa, ogni pur tenue rapporto sospettabile si connivenza con l’estrema destra era stato tagliato. Per innalzare la tensione, in un Paese dove ferimenti e omicidi politici erano non per modo di dire all’ordine del giorno, non c’era certo bisogno e neppure ci si trovava di fronte a un’insorgenza sociale o politica “di sinistra” tale da giustificare un ritorno alla strategia della tensione. È vero che alcune bombe erano tornate a esplodere prima di quella tremenda di Bologna nel 1979 ma erano rimaneggiate in modo tale da fare solo rumore. Poche settimane prima della strage un ordigno era stato rinvenuto a palazzo dei Marescialli, sede del Csm, proprio nel giorno del raduno degli alpini nella stessa piazza Indipendenza. La strage fu evitata perché il timer non funzionò, ma l’artificiere del Movimento popolare rivoluzionario Emanuele Macchi, che firmò l’attentato, ha sempre sostenuto di aver modificato la bomba proprio per non farla esplodere. Dal momento che lo stesso Mpr era responsabile anche dei precedenti attentati a Roma, in ciascuno dei quali gli ordigni erano stati rimaneggiati in modo da renderli di fatto inoffensivi è probabile che Macchi non menta. Senza entrare in particolari, anche il contesto indica la strage di Bologna come sostanzialmente diversa da quelle precedenti e probabilmente da inquadrarsi più nel quadro delle tensioni internazionali, in particolare sullo scenario mediorientale, che in una sanguinosa “coda” della strategia della tensione. Il 23 dicembre 1984 un altro treno, il Rapido 904, fu squassato da un’esplosione. In quella passata poi alla storia come “la strage di natale” perirono 17 persone e i feriti si contarono a centinaia. Non fu una bomba politica e neppure legata a terrorismo internazionale. Quella del dicembre 1984 non fu l’ultima bomba della serie iniziata nel 1969 ma il primo anello di una nuova catena di sangue, le stragi mafiose. Serviva, secondo l’impianto dell’accusa, a distogliere l’attenzione dalle deposizioni dei primi grandi pentiti di mafia ed era stata organizzata, sempre stando alle condanne, da Pippo Calò, il boss di Cosa nostra che viveva a Roma. Ma il mandante, Totò Riina, è stato assolto tre anni fa. Un simile attentato era anomalo per gli usi di Cosa nostra, indicava però un cambio di strategia che si sarebbe dispiegato solo sei anni dopo, con le stragi di Capaci e via D’Amelio e poi con gli attentati dinamitardi di Roma, Firenze e Milano. La strategia della guerra aperta contro lo Stato.
LA VERITÀ SULLA BOMBA. Strage di Bologna, le carte segrete sui palestinesi. I telex dei nostri 007 a Beirut rimasti nascosti per quasi 30 anni. Parlavano di ritorsione palestinese per la rottura del "Lodo Moro", scrive Gian Marco Chiocci il 28 Luglio 2017 su "Il Tempo". È giusto continuare a nascondere ai cittadini quanto accadde nel nostro paese nell’estate del 1980? A distanza di tanti anni, oggi che il regime di Gheddafi si è dissolto nel nulla e molti dei protagonisti politici italiani dell’epoca sono passati ad altra vita, sussistono esigenze di segretezza sul legame che legherebbe il terrorismo palestinese alla strage alla stazione di Bologna? Stando ai documenti del centro-Sismi di Beirut relativi al biennio ‘79-80 custoditi incredibilmente ancora sottochiave al Copasir verrebbe da dire di sì visto che la verità documentale stravolgerebbe completamente - e capovolgerebbe - la verità giudiziaria passata in giudicato. Verità giudiziaria, per quanto riguarda la pista palestinese, archiviata a Bologna dopo l’apertura di un’inchiesta a seguito di notizie rimaste coperte per più di vent’anni. Ma a 37 anni dal mistero dell’esplosione di Bologna escono dunque altre prove, clamorose, sulla «pista palestinese» opportunamente occultata dal nostro Stato e dai nostri servizi segreti per una indicibile ragion di Stato. Pista che si rifà alla ritorsione, più volte minacciata dai terroristi arabi, per la rottura del «Lodo Moro» (l’accordo fra i fedayn e l’Italia a non compiere attentati nel nostro Paese in cambio del transito indisturbato delle armi dei terroristi). Roba da far tremare i polsi. Seguiteci con attenzione e annotate i continui riferimenti alla città di Bologna. Tutto ha inizio nel novembre 1979 quando i carabinieri, a Ortona, in Abruzzo, sequestrano alcuni missili terra-aria «Strela» di fabbricazione sovietica. I militari arrestano i tre esponenti dell’autonomia operaia romana che quei razzi custodiscono all’interno dell’auto. Seguendo la traccia dei missili i magistrati abruzzesi arrestano a Bologna Abu Anzeh Saleh, rappresentante in Italia dell’organizzazione terroristica Fplp (Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina). Questo Saleh viene «individuato» e descritto già nella commissione Mitrokhin che indagava sulle spie del Kgb in Italia. Saleh risulta essere il dirigente della rete logistica palestinese in Italia. In alcune interviste Saleh ha confermato il suo ruolo rivoluzionario negando qualsiasi ruolo dei palestinesi con la strage di Bologna (lo stesso ha fatto, lo scorso 26 giugno, in commissione Moro Nassam Abu Sharif, già braccio destro di Arafat, ricordando che Saleh fu la persona contattata dai Servizi italiani il giorno dopo il sequestro Moro per chiedere che l’Olp mediasse con le Brigate Rosse per ottenere la liberazione del leader democristiano). Insomma, un personaggio cruciale, nevralgico, questo Saleh. Sconosciuti sono i risvolti internazionali della vicenda raccontata nei documenti ancora top secret in parlamento che Il Tempo è oggi in grado di rivelare. Il palestinese Saleh era persona protetta dal Sismi in ottemperanza all’accordo segreto di cui sopra. Con le manette dei carabinieri all’arabo residente a Bologna, l’accordo segreto fra Italia e Palestinesi, il cosiddetto «lodo Moro» era da considerarsi violato. A parte il governo in carica e l’intelligence a Beirut nessuno poteva immaginare che quell’arresto a Ortona rappresentava l’inizio della fine. Dietro il transito di quei missili c’era Gheddafi, il partner intoccabile della disastrata economia italiana che proprio in quel periodo aveva stretto una pericolosa alleanza con l’Urss. In ossequio alla ragion di Stato e all’accordo, il ruolo della Libia nella vicenda fu tenuto accuratamente nascosto, così come non venne mai identificato il giovane extraparlamentare di Bologna che aveva accompagnato il palestinese Saleh a Ortona nelle ore successive al sequestro delle armi. Perché quel ragazzo bolognese scomparve nel nulla? E perché i fatti occultati riguardavano e riguarderanno anche in seguito sempre Bologna? Il Sismi diretto dal generale Santovito sapeva bene che, dopo l’arresto di Saleh, i vertici dell’Fplp chiesero a un loro militante di restare in Emilia per mantenere i contatti con un terrorista del famigerato gruppo Carlos, dal nome del super terrorista venezuelano che intorno a se aveva raggruppato la crema criminale del terrorismo arabo marxista-leninista. Chi era il basista in Emilia di Carlos “lo Sciacallo” e perché non è stato mai localizzato il suo covo? I vertici palestinesi – stando ai telex top secret del novembre 1979 - temevano che, a distanza di un anno dall’omicidio Moro, potesse emergere la prova delle collusioni dell’ala oltranzista dell’Olp con il terrorismo italiano. La dirigenza dell’Fplp era spaccata. La parte vicina ai paesi arabi filosovietici (Siria e Libia), indispettita dal voltafaccia italiano, respinse l’invito alla prudenza dell’ala «moderata» e più violenta e reclamò un’azione punitiva. Poco prima del Natale 1979, esattamente il 18 dicembre, l’Fplp minacciò una rappresaglia contro il nostro paese. Le nostre «antenne» del Sismi a Beirut, legatissime al Fplp come peraltro confermato lo scorso 2 luglio alla Stampa dall’allora responsabile dell’informazione Abu Sharif («io personalmente siglai l’accordo con l’Italia attraverso il colonnello del Sismi Giovannone a Beirut») lanciarono drammatici Sos. Nelle carte si fa cenno a un interlocutore del Fplp (...) che minacciava durissime rappresaglie qualora finisse per essere formalizzato il rifiuto dell’Italia all’impegno preso con il Lodo. Saleh in cella è il prezzo dello strappo letale, Roma è disposta a pagarlo? Stando sempre alle corte riservate lo 007 Giovannone, o chi per lui, da Beirut insiste a non giocare col fuoco. Da gennaio a marzo le minacce salgono di livello. Arriviamo al 14 aprile 1980. Habbash, leader del Fplp, spiffera agli agenti segreti italiani che l’ala moderata del Fronte fa sempre più fatica a frenare lo spirito di vendetta contro Roma che alligna nell’anima più irriducibile del suo gruppo. Anche l’idea di rivolgersi ad Arafat cade nel vuoto perché non sarebbe in grado – così riportano le note coperte dal sigillo del segreto– di prevenire un attentato affidato a «elementi estranei al Fplp», comunque coperti da una «etichetta sconosciuta». Ma chi sono questi «estranei»? Quale sarebbe questa sigla non conosciuta? I servizi italiani lo fanno capire di lì a poco allorché annotano la presenza del ricercatissimo «Carlos lo Sciacallo» proprio a Beirut accostandola alla possibilità che proprio a Lui e al suo gruppo internazionale venga affidato l’attentato in Italia. Dunque i documenti tuttora segreti riscontrerebbero le dichiarazioni rese anni e anni fa al giudice Mastelloni da tale Silvio Di Napoli, all’epoca dirigente del Sismi preposto alla ricezione die messaggi cifrati provenienti dal centro Sismi di Beirut. Quando il capo degli 007 a Beirut, Giovannone, informa il direttore Santovito che il Fplp, preso atto della condanna di Saleh, ha subito contattato Carlos, in Italia scatta l’allarme rosso. I servizi tricolori di Beirut ribadiscono ancora come la sanguinaria ritorsione può essere compiuta da «elementi non palestinesi» o «probabilmente europei» per non creare problemi al lavorio politico-diplomatico per l’imminente riconoscimento della casa madre della causa palestinese: l’Olp di Araf. Sono giorni gonfi di tensione. A metà maggio scade l’ultimatum del Fronte. Il Sismi scrive al comando di Forte Braschi che la dirigenza del Fplp è pronta, dopo 7 anni di non belligeranza, a riprendere le ostilità contro il Paese non più amico, contro i suoi cittadini, contro gli interessi italiani nel mondo «con operazioni che potrebbero coinvolgere anche innocenti». La fonte del colonnello Giovannone confessa che è la Libia, ormai sponsor principale del Fplp, a premere. L’Italia, col sottosegretario Mazzola, è in bambola. Prende tempo con vane e finte promesse su Saleh. In un documento dove si ribadisce il ruolo istigatore di siriani e libici, la ritorsione del Fplp viene data per certa ed imminente. E’ l’inizio della fine. Il Sismi in Libano scrive che non si può più fare affidamento sulla sospensione delle azioni terroristiche in Italia decisa nel ‘73. Secondo i documenti ancora coperti dal segreto, insomma, la nostra intelligence fa sapere della decisione del Fplp di vendicarsi a seguito del mancato accoglimento del sollecito per lo spostamento del processo di Saleh. Mancano due mesi alla strage alla stazione di Bologna. Luglio passa veloce, i contatti dei nostri servizi col Fplp si fanno via via più radi. Non c’è più feeling.Ogni canale viene interrotto. E’ il silenzio. Spettrale. Inquietante. Prolungato. Sino alla mattina del 2 agosto quando una bomba devasta la sala d’aspetto della stazione di Bologna: 80 morti, 200 feriti. La più grave strage dal dopoguerra. E’ stato Carlos? Sono stati i palestinesi? Tantissimi indizi portano a pensarlo ma nessuno di questi vedrà mai la luce per oltre trent’anni, i magistrati mai verranno messi a conoscenza di questi clamorosi carteggi all’indomani dello scoppio nelal sala d’aspetto di Bologna. Fatto sta, per tornare a quel 1980, che l’estate successiva alla strage Saleh tornerà libero su decisione della Cassazione dopo le ennesime pressioni del Sismi sui magistrati abruzzesi. E non sembra poi un caso se fu proprio il capo dei servizi segreti dell’Olp, a cui gli oltranzisti del Fplp erano affiliati, a organizzare con l’avallo del Sismi uno scientifico depistaggio sulla strage di Bologna, e non è ovviamente un caso se la base del depistaggio fu proprio Beirut. Ma chi e come si prestò a sviare le indagini? La memoria giudiziaria ci riporta a Rita Porena, giornalista free lance, in seguito identificata come anica personale del capocentro Sismi a Beirut, collaboratrice remunerata, che riuscì a intervistare proprio a Beiurut un leader dell’Olp il quale, poco dopo la strage di Bologna, disse che noi loro campi di addestramento (frequentati assiduamente da brigatisti rossi) erano stati individuati ed espulsi dei neofascisti che progettavano e organizzavano un gravissimo attentato in Italia. Fu quella di Beirut la prima «rivelazione» (falsa) sulla pista neofascista, pista orchestrata da quello Stefano Giovannone da tutti considerato, anche con una certa ammirazione, il migliore e più fedele custode del Lodo Moro anche dopo la morte del politico che diede il nome al lodo segreto. Mettetela come vi pare ma l’escalation delle minacce e degli ultimatum sovrapposti alla coincidenza temporale della strage di Bologna non danno scampo a una ipotesi alternativa, che invece – all’epoca - diventa l’unica da seguire: perché la strage - si è detto per anni - è per sua natura fascista. «Fascista» senza alcuna prova, indizio, risconto. Dunque, senza alcun plausibile motivo (o forse i motivi erano ben chiari a chi non voleva rendere noto il risultato prodotto da un accordo che ci avrebbe delegittimato per sempre come Paese sponsor dei terroristi nemici di Israele che insanguinavano l’Europa) le indagini vengono indirizzate sugli ambienti neofascisti. Nessuna spia, a poche ore dalla bomba e nemmeno nelle settimane e nei mesi (e negli anni) a venire, si prenderà la briga di avvisare mai i magistrati di Bologna delle minacce palestinesi, dell’ingiustificata presenza a Bologna del gruppio Carlos, del ruolo delicatissimo di Saleh. Sulla scia dell’Olp anche il Sismi si attiverà per depistare l’inchiesta. Lo farà in mille modi, usando personaggi e storie diverse. Ma i documenti tuttora inaccessibili del Sismi, di cui Il Tempo ha scoperto l’esistenza, rivelano lo scenario di crisi conosciuto dalle nostre autorità e taciuto ai magistrati, e oggi consentono una lettura del depistaggio molto più grave e realistica anche perché solo dopo 20 anni, e per un caso fortuito (attraverso la ricerca dei consulenti della Mitrokhin) si è scoperta la presenza (sempre nascosta) a Bologna, il giorno della strage, di un certo Thomas Kram, che i servizi della Stasi, gli 007 della Germania Est, indicavano come membro del già citato gruppo terroristico di Carlo lo Sciacallo. Per la cronaca Kram era entrato nell’inchiesta sulla «pista palestinese», poi archiviata a Bologna nel 2015. Oggi gli unici che si ostinano a negare l’importanza di quelle carte sembrerebbero quelli strenuamente contrari alla loro divulgazione. Curioso paradosso. Ma ai giudici bolognesi non può essere opposto alcun veto perché le indagini per il reato di strage non lo consentono. Basterebbe una semplice richiesta al Copasir per illuminare a giorno il buio della strage del 2 agosto. Il buon senso porta ad augurarsi che sia la procura di Bologna a chiedere di sua iniziativa il carteggio esplosivo. La politica, per una volta, raddrizzi la schiena e non speculi per interesse. Lo deve agli 80 morti e ai familiari delle vittime che vogliono davvero la verità. Molti, già da 37 anni, con il loro silenzio si sono fatti compici degli assassini. Molti altri si sono messi a posto la coscienza sostenendo di non saperne abbastanza. Ora Il Tempo gli sta fornendo i necessari riscontri necessari. D’ora in poi, chi non agisce, è complice.
Libri. “I segreti di Bologna”: perché sulla strage la verità è ancora lontana, scrive il 2 agosto 2018 Francesco Filipazzi su Barbadillo. In occasione del 2 agosto, ogni anno vengono riaperte vecchie ferite e proposte nuove letture di quella che è stata la strage più grave del dopoguerra italiano, la Strage di Bologna. La verità giudiziaria, fra depistaggi, silenzi e manomissioni, è notevolmente carente e nel corso degli anni la sentenza finale, che condanna i terroristi neofascisti dei Nuclei Armati Rivoluzionari, è stata messa più volte in discussione, sotto molti aspetti. Un paio d’anni fa fece invece scalpore un libro, scritto dal magistrato in pensione, Rosario Priore, insieme a Valerio Cutonilli, dal titolo “I segreti di Bologna”. Il filo conduttore del volume, ampiamente contestato dall’associazione dei Famigliari delle Vittime e da molta parte della stampa, tanto che qualcuno arrivò ad ipotizzare una denuncia per il reato di depistaggio, è legato all’ipotesi della “pista palestinese”. Questo filone di indagine non è stato molto battuto dalla magistratura bolognese, ma al contrario rinverdito negli anni da inchieste parlamentari, da Francesco Cossiga, ai tempi presidente del Consiglio e dagli interrogatori del terrorista Carlos, legato al gruppo palestinese Fplp e ai servizi segreti della Germania est. Il volume in sé è molto interessante e ha il pregio di non proporre una soluzione incontestabile al mistero di Bologna. Anzi, riguardo all’esplosione del 2 agosto, vengono valutate tutte le ipotesi ma non viene mai sentenziato che la strage è necessariamente di matrice palestinese. Semplicemente viene presentata una serie di fatti, verificati, che hanno preceduto l’attentato. Ciò che del libro appare estremamente interessante, a parere nostro, è in realtà tutta la ricostruzione dei rapporti intercorsi negli anni ’70 fra servizi italiani, gruppi palestinesi, mondo arabo, Libia, Brigate Rosse e altri gruppi della sinistra extraparlamentare. In sostanza gli autori spiegano in modo piuttosto dettagliato, avvalendosi di informative dei servizi e documenti giudiziari, la ragnatela di rapporti e contatti che hanno animato alcuni capitoli fra i più importanti della Guerra Fredda. Una guerra in gran parte segreta, di cui ancora oggi non sappiamo tutto. La narrazione dei fatti parte dal caso dei “missili di Ortona”. La notte fra il 7 e l’8 novembre 1979 dei militanti di Autonomia Operaia vengono fermati dalle Forze dell’Ordine italiane mentre trasportano dei missili Strela, di fabbricazione sovietica. La situazione è poco chiara ed iniziano le indagini, che portano all’arresto di un militante palestinese, a Bologna. Quella che sembrerebbe una normale azione di polizia diventa però una crisi internazionale. I missili infatti sono del Fplp, un gruppo piuttosto importante nel terrorismo internazionale legato alla causa palestinese, che infatti nei mesi successivi ne rivendica la proprietà e ne chiede la restituzione, in base agli accordi presi fra l’organizzazione e l’Italia. Ma quali accordi? Qui esplode il bubbone. L’atlantista Italia, per evitare attentati e ritorsioni, avrebbe infatti intrattenuto rapporti e preso accordi con i terroristi palestinesi (all’epoca peraltro non integralisti islamici ma di ispirazione piuttosto socialista e marxista) per far sì che questi potessero transitare in Italia senza problemi, trasportando anche armi e munizioni. L’accordo è noto con il nome di Lodo Moro. Nel libro vengono quindi ricostruiti tutti i retroscena, presentati attori e circostanze dello stesso. L’affaire Ortona dunque sarebbe stata una rottura dell’accordo stesso da parte dell’Italia, per volere di Cossiga. Il Fplp iniziò quindi a minacciare ritorsioni. In questo clima di tensione, con i servizi in allerta per il pericolo di un attentato dinamitardo, arriva il 2 agosto con relativa strage. Certo, la strage per ipotesi potrebbe essere attribuita senza troppi problemi al Fplp, o al massimo al gruppo del terrorista Carlos, noto bombarolo legato sia al Fplp che ai servizi della Germania Est. Il libro però non manca di mettere in dubbio questa ricostruzione sotto il profilo della volontarietà dell’azione. L’esplosione sarebbe da attribuire ad un passaggio di armi destinate ai gruppi terroristici che ruotano attorno all’Olp, ma un errore umano avrebbe provocato la detonazione. Questa pare di capire, è la versione più accreditata secondo gli autori, i quali però, come già detto, non danno una risposta definitiva. In generale il volume è un tentativo di spiegare le dinamiche, talvolta perverse, che hanno mosso la politica internazionale dell’Italia negli anni ’70. Una politica fatta talvolta di doppiezze ed equilibrismi, che se studiata in modo corretto aiuta a capire anche gli sviluppi successivi della geopolitica mediterranea. Riguardo la strage, certamente vengono aggiunti elementi interessanti al quadro globale nel quale avvenne, ma la ricerca della verità completa è ancora piuttosto lunga ed ardua. Va inoltre sottolineato che la “pista palestinese” proprio di recente è stata esclusa dal nuovo capitolo processuale aperto di recente, riguardante il ruolo di Gilberto Cavallini.
Strage di Bologna, ecco (tutte) le fake news dell’Espresso, scrive Massimiliano Mazzanti lunedì 30 luglio 2018 su "Il Secolo D’Italia". Riceviamo da Massimiliano Mazzanti e volentieri pubblichiamo: Caro direttore, purtroppo, un quotidiano non gode dello stesso statuto comunicativo di una trasmissione satirica televisiva e, per tanto, non è lecito in alcun modo lasciarsi andare al turpiloquio che, nel caso delle “rivelazioni” sui rapporti Gelli-Servizi deviati-Nar-Cavallini dell’Espresso di domenica sarebbe l’unico linguaggio adatto per ribattere adeguatamente alle fake news propalate ai lettori di quel giornale. Tre, sostanzialmente, le tesi lanciate dal settimanale e riprese – inopinatamente senza commenti o analisi – da diversi quotidiani, tra i quali quelli con la cronaca di Bologna: Cavallini era in possesso di un “pass” speciale per accedere agli arsenali segreti di “Gladio”; i “servizi segreti” aiutarono Valerio Fioravanti ad accedere al corso Auc dell’Esercito; i “servizi” aiutarono in ogni modo i Nar, occultando la matrice fascista della strage di Bologna.
Il “pass” di Cavallini. Dopo l’arresto, nel corso della perquisizione, la Polizia ritrovò a Cavallini, tra una miriade di altre cose, una banconota strappata da mille lire e ne repertò il ritrovamento. Per anni quel pezzo di carta non ha significato nulla, mentre oggi, su segnalazione dell’Associazione familiari delle vittime, quel mezzo foglietto potrebbe essere l’indizio che collega l’imputato nel nuovo processo per la bomba alla stazione niente meno che a “Gladio”. Infatti, tra la vasta documentazione giudiziaria accumulata sulla struttura segreta della Nato, ci sarebbero anche parecchie banconote spezzate da mille lire, la cui funzione sarebbe stata quella di certificare l’appartenenza alla “rete” del soggetto che, presentandosi a un arsenale segreto con una metà del biglietto di banca, sarebbe stato identificato tramite la perfetta coincidenza di quella stessa metà con l’altra conservata dai custodi delle armi. Ora, non solo non è certo che gli “armieri” di “Gladio” utilizzassero proprio questo sistema, ma anche quando così fosse stato, nel caso di Cavallini, due circostanze non tornano proprio. In primo luogo, negli anni del terrorismo, la banconota da mille lire era quella con riprodotto il profilo di Giuseppe Verdi e contraddistinta da una sequenza alfa-numerica di tre lettere e sei numeri; ora a Cavallini è stata trovata una banconota con le due cifre finali “63” e, pare, tra le tante che farebbero parte della documentazione “Gladio” ce ne sarebbe anche una con le due cifre finali “63”; curiosamente, però, gli autori dello “scoop” non citano le lettere della seria che sole potrebbero associare la banconota di Cavallini alla serie eventuale di “Gladio”. Non bisogna essere Sherlock Holmes per capire che, se di una cifra di 6 numeri, si prende in considerazione quella formata dagli ultimi due, si riducono a 99 le possibilità di trovare una coincidenza ed è facile che, confrontando una banconota (quella di Cavallini) con tante o tantissime (quelle di “Gladio”) si trovi anche il fatidico “63”. In secondo luogo, proprio quella banconota – e anche l’avventurosa interpretazione che ne hanno dato le parti civili – è da quasi due anni nella disponibilità dei pubblici ministeri che hanno rinviato a giudizio Cavallini, i quali, però, non solo non l’hanno ritenuta utile per il processo in corso, ma la scartarono come prova nelle indagini preliminari del secondo troncone delle nuove investigazioni per la strage – quelle così dette “sui mandanti” -, al termine delle quali chiesero appunto l’archiviazione (non ottenuta perché la Procura generale ha deciso di avocare questa seconda inchiesta). Forse, in questa decisione dei pm di Bologna ha avuto non poco peso un particolare evidentemente sfuggito ai grandi giornalisti de “L’Espresso”: le mezze-banconote repertate nelle inchieste su “Gladio” – inchieste, detto per inciso, che non hanno portato alla luce alcunché di illegale commesso da questa struttura Nato – sono appunto, come si diceva, quelle con Verdi; mentre a Cavallini fu trovato un mezzo biglietto della serie dedicata a Marco Polo ed entrato in circolazione nel 1982. Insomma, per quanto è dato conoscere, la possibilità di collegare Cavallini a “Gladio” sulla base di quella banconota è pari a zero.
Fioravanti ufficiale grazie ai “servizi segreti”. L’altro mirabile “scoop” dell’Espresso è costituito dal fatto che Fioravanti, nel 1977, fu ammesso, durante il servizio di Leva, al Corso Allievi ufficiali, non ostante i reati di cui si sarebbe macchiato prima di partire per il servizio militare. Ora, “Giusva” partì per la Scuola di Cesano nell’aprile del ’77, a 19 anni e, per quanto avesse qualche denuncia alle spalle, non era gravato da alcun precedente passato in giudicato, mentre era pur sempre l’ex-attore di successo di un noto sceneggiato televisivo. È tanto difficile pensare che qualcuno – un maresciallo “fan” dei <Benvenuti>, un ufficiale “amico di famiglia” e non necessariamente i “servizi segreti” – abbia “spinto” un po’ la richiesta del ragazzo di fare la Leva in una condizione migliore rispetto a quella ordinaria? Per altro, a volerla ragionare tutta, questa vicenda, andrebbe rilevato un altro particolare, che balza agli occhi, leggendo lo “scoop” de “L’Espresso”, quando su questa materia viene richiamato il sodalizio di Fioravanti e Alessandro Alibrandi. Nel 1977 la Sinistra parlamentare ed eversiva – con un particolare ardore da parte di Lotta continua – sollevò una interminabile e vastissima polemica contro Antonio Alibrandi, padre di Alessandro e magistrato in quel di Roma, per il così detto “Processo degli 89”, coi quali il giudice tentò di mettere un freno a un tentativo di inquinamento delle Forze armate da parte dei movimenti eversivi “rossi”. Ad Alibrandi padre fu riservato – da parte di Lotta continua e non solo, anche da parte del Pci – esattamente lo stesso trattamento usato con Luigi Calabresi e che portò, come si ricorderà, all’assassinio del commissario di Polizia per mano degli stessi capi di Lc. Ciò non solo può spiegare, in relazione ai Nar, almeno parte dell’involuzione radicale del figlio Alessandro – pur sempre un ragazzo che vede il padre aggredito sguaiatamente dal “sistema” di cui faceva parte e che avrebbe dovuto tutelarlo -; ma, in relazione ai fatto oggi contestati a Fioravanti, il “Processo agli 89” testimonia semmai del clima di pesante timore di essere infiltrato da forze ostili – queste sì, innegabilmente, finanziate e addestrate da una potenza straniera, l’Urss, dalle Br al Pci, come ha dimostrato Valerio Riva – in cui operava l’Esercito. E che in questo “clima” si soprassedesse sui “nei” dei ragazzi di destra arruolati nella Leva è a dir poco scontato e tutt’altro che significativo.
L’asse Servizi deviati-Nar. Infine, a pochi giorni dalla celebrazione del 2 agosto, per quanto scomodo risulti, bisogna rimarcare ancora una volta quanto sia falsa e stucchevole questa vera e propria leggenda dei “servizi deviati” che aiutarono i Nar a occultare le loro responsabilità sulla strage di Bologna. A poche ore dallo scoppio della bomba, esattamente alle 21.30 del 2 agosto, quando ancora inquirenti e investigatori – cioè: forze di polizia e magistrati – non erano neanche sicuri che si fosse trattato di un attentato, il prefetto Italo Ferrante diramò una richiesta di investigazioni in tutta Italia a carico di qualsiasi estremista di destra. Alle 11 del giorno dopo, con un secondo telegramma, lo stesso Ferrante precisò meglio i confini degli accertamenti da fare, citando anche i nomi di Mario Tuti, Luciano Franci e Piero Malentacchi. Ne giorni successivi – non ostante polizia e magistrati brancolassero sostanzialmente nel buio – la “pista nera” prese sempre più corpo: come, se non proprio in base alle “veline” dei servizi segreti, gli unici “titolati” a formulare accuse e ipotesi senza doversi curare troppo delle formalità e degli indizi? Fu questo il depistaggio? Semmai, anche se nessuno sembra volersene ricordare, i “servizi” che cercarono di indirizzare altrove le indagini non furono quelli “deviati” e “nostrani”, bensì quelli francesi, tedeschi, americani e di “mezza Europa” che, come scrissero all’epoca i giornali, si riunirono a Bologna per indagare congiuntamente, sollevando l’irritazione degli inquirenti bolognesi e degli “spioni” italiani. I “servizi”, “deviati” o meno, piaccia o no a Paolo Bolognesi, in quei primi giorni di indagine fecero senz’altro sopra a tutto e solo due cose: nascosero la presenza di Thomas Kram a Bologna la notte tra l’1 e il 2 agosto e intervennero evidentemente sulle redazioni giornalistiche il 5 agosto affinché non si desse alcuna importanza al comunicato dettato all’Ansa – e pubblicato solo dal Giornale d’Italia -, con cui il “Fronte popolare per la Liberazione della Palestina” ammetteva le proprie responsabilità. Curioso, no? I “servizi deviati” ebbero la possibilità – negli istanti fatidici dell’immediato dopo-attentato – di segnalare la presenza a Bologna di un noto terrorista straniero e, qualche giorno dopo, di indicare per loro stessa ammissione i responsabili della strage e, al contrario, per “proteggere” i Nar, indirizzarono le indagini sul “terrorismo nero”. Evidentemente, nella redazione de L’Espresso e pur troppo non solo lì, lo spazio per le comiche non è ancora finito.
STRAGE DI BOLOGNA: I DEPISTAGGI E L’ONESTÀ INTELLETTUALE. Scrive Dimitri Buffa l'1 agosto 2018 su L’Opinione. Prepariamoci, da domani per un’intera giornata si tornerà a parlare di un terribile episodio di 38 anni prima, la strage di Bologna. E si tornerà a parlare dei depistaggi, dei mandanti politici, della Loggia P2. Parole che viaggiano da anni senza alcuna onestà intellettuale. E senza alcuna logica che non sia quella ideologica. Nella città felsinea, inoltre, si prevedono le solite sceneggiate fatte di manifestazioni condite con fischi alle autorità politiche e con declamazioni a effetto. Tutto si vedrà e sentirà, come da 38 anni a questa parte, tranne un qualcuno che – a mo’ di imitatore di quel bambino che esclamò: “il Re è nudo” – si erga e dichiari, una volta per tutte, che di quella strage, al di là di una sentenza passata in giudicato che consegna alla storia tre colpevoli di repertorio, Francesca Mambro, Valerio Fioravanti e l’allora minorenne Luigi Ciavardini (più un quarto in dirittura d’arrivo, Gilberto Cavallini, protagonista suo malgrado di un ennesimo processo fotocopia fuori tempo massimo), noi non sappiamo nulla. Anzi, non vogliamo saperlo. E che i depistaggi ci furono, eccome se si furono, sebbene tutti ai danni di coloro che poi sarebbero stati condannati, ossia lo stato maggiore degli ex Nar, è cosa certa. Ma le vittime furono proprio quei “ragazzini” – all’epoca – pieni di rabbia esistenziale e di desiderio di vendicarsi contro tutto e tutti e quindi facili a essere incastrati fin da subito nelle manovre di depistaggio del Sismi della P2, come a sinistra amano tuttora chiamarlo. E a parte la storia arcinota del finto ritrovamento, il 13 gennaio del 1981, sul treno Taranto-Milano di armi ed esplosivo analogo a quello usato a Bologna, ci furono anche due vere e proprie esecuzioni ai danni di esponenti dell’estrema destra (più un tragico caso di scambio di persona in un ulteriore episodio) che nel piano di depistaggio ordito dal Sismi – preoccupatissimo che venisse fuori il cosiddetto Lodo Moro a favore dei terroristi palestinesi e arabi in Italia o le manovre di Gheddafi nel Mediterraneo – dovevano da morti essere incolpati della strage. Il primo fatto risale al 6 gennaio del 1981. Alcuni uomini della Digos stanno appostati vicino all’abitazione dell’ex militante Nar, Pierluigi Bragaglia – a via Vallombrosa, a Roma in zona Cortina d’Ampezzo – che possiede una Renault 5 rossa. Poche ore prima era stato ucciso Luca Pierucci, militante di quello stesso gruppo armato, perché considerato un delatore. Arriva una Renault 5 dello stesso modello e colore di quella di Bragaglia – oggi rifugiato riconosciuto come tale in Brasile proprio come l’ex leader dei proletari armati per il comunismo Cesare Battisti – gli uomini della Digos aprono il fuoco ma uccidono la ventottenne Laura Rendina che stava sul sedile posteriore. In macchina c’erano due coppie appena tornate dal ristorante. Nessuna traccia di Bragaglia. La caccia ai Nar – con ogni mezzo e con ogni modalità – era cominciata ufficialmente all’inizio di settembre del 1980 quando vennero spiccati i mandati di cattura ai danni di tutti loro proprio per la strage di Bologna. La manovra orchestrata dal depistaggio del Sismi era di far uccidere tutti quelli possibili per poi incolparli da morti. Manovra che se non era riuscita con Bragaglia, e a rimetterci la vita fu una povera donna innocente, andò in qualche maniera “meglio” con Pierluigi Pagliai e con Giorgio Vale. Pagliai, localizzato in Bolivia dal Sismi il 5 ottobre 1982, era un militante neofascista della vecchia guardia. Riparato in Sudamerica come tanti suoi camerati. Cinque giorni dopo viene ucciso da una calibro 22 con le mani alzate davanti alla chiesa “Nuestra Señora de Fátima” di Santa Cruz de la Sierra. Tornerà cadavere in Italia sullo stesso Dc9 dell’Alitalia che aveva portato il commando. Il 5 maggio di quello stesso terribile anno, il 1982, Giorgio Vale, un ventenne di Terza posizione, veniva crivellato di colpi a Roma nella casa “covo” di via Decio Mure 43 al Quadraro. Naturalmente alla stampa parlarono prima di “suicidio” e poi di conflitto a fuoco, ma ben presto venne fuori che Vale non aveva sparato neanche un colpo mentre chi aveva fatto irruzione ne aveva esplosi quasi un centinaio, uno solo dei quali mortale, alla tempia dello stesso giovane terrorista. La strage che “doveva essere fascista” per ordine dei servizi segreti militari che dovevano coprire il Lodo Moro e i patti coi gruppi armati terroristi palestinesi in Italia (che qualche giorno dopo l’esecuzione di Pagliai, il 9 ottobre 1982, avrebbero ucciso un bambino di due anni, Stefano Gaj Taché, davanti alla Sinagoga di Roma) era stata certamente depistata. Ma le vittime del depistaggio erano stati proprio i militanti della destra eversiva.
Strage di Bologna, i giudici escludono Carlos dai testi: la “pista palestinese” resta fuori dal processo a Cavallini. Secondo la Corte d'Assise, l’indagine bis archiviata nel 2015 è stata esaustiva e non ha trascurato nulla. No anche alla deposizione dell’ex senatore Carlo Giovanardi. Ammessi invece Giusva Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, le tre persone condannate in via definitiva che tutte le parti hanno chiesto di ascoltare, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 4 aprile 2018. Niente “pista palestinese” nell’ultimo processo sulla strage di Bologna. Lo hanno deciso i giudici della corte d’Assise del capoluogo emiliano, escludendo i testimoni indicati dalla difesa di Gilberto Cavallini, l’ex Nar accusato a 38 anni di distanza di concorso nella strage del 2 agosto 1980. Per sostenere l’ipotesi alternativa della verità giudiziaria, i legali dell’ex estremista nero volevano ascoltare alcuni testimoni: tra tutti anche Ilich Ramirez Sanchez alias ‘Carlos‘, il terrorista detenuto in Francia. Secondo la Corte, l’indagine bis archiviata nel 2015 è stata esaustiva e non ha trascurato nulla. No anche alla deposizione dell’ex senatore Carlo Giovanardi. Ammessi invece Giusva Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, le tre persone condannate in via definitiva che tutte le parti hanno chiesto di ascoltare. L’ipotesi dell’accusa – il pool di pm è coordinato dal procuratore capo Giuseppe Amato – è che Cavallini abbia partecipato alla preparazione della strage, fornendo ai condannati supporto e covi in Veneto. L’ex Nar, oggi sessantacinquenne, sconta il massimo della pena per alcuni omicidi politici, tra cui quello del giudice Mario Amato, poche settimane prima della strage di Bologna. Fu l’ultimo della banda di terroristi a essere catturato, a Milano, nel settembre 1983 e fu condannato per banda armata nello stesso processo che portò all’ergastolo Mambro e Fioravanti, mentre Ciavardini, minorenne nel 1980, ebbe una condanna a 30 anni. La rilettura delle migliaia di pagine di atti processuali definisce secondo l’accusa un ruolo più preciso di Cavallini nella preparazione della bomba nella sala d’aspetto di seconda classe che devastò un’ala dello scalo bolognese. Al processo deporrà anche a Carlo Maria Maggi, ex leader di Ordine Nuovo, mentre non è stat ammessa la deposizione di Roberto Fiore, il leader di Forza Nuova indicato dalle parti civili. Non è stata ammessa neanche la testimonianza dei feriti o dei parenti delle vittime, perché, in sostanza, l’oggetto delle loro testimonianze è agli atti. Intanto prosegue il percorso dell’inchiesta della Procura generale sui mandanti dopo l’avocazione del fascicolo con l’avvio di una rogatoria in Svizzera. per verificare gli eventuali movimenti per diversi milioni di dollari che, prima dell’eccidio, sarebbero partiti da un conto bancario elvetico aperto riconducibile al maestro venerabile della Loggia P2 Licio Gelli.
Chi ha compiuto la strage di Bologna? Scontro in Aula. Frassinetti (FdI) nega la matrice neofascista: il centrosinistra insorge, ma tanti studiosi seguono piste alternative, scrive il 2 agosto 2018 "In Terris". La Camera dei Deputati si è trasformata stamattina in qualcosa di simile a un saloon del far west. Ad accendere la miccia dello scontro, dopo il minuto di silenzio per ricordare le vittime della strage di Bologna, l'intervento della deputata Paola Frassinetti (FdI), la quale si è fatta interprete di un sentimento diffuso presso molti storici, giornalisti e gente comune, ossia che la matrice neofascista dell'attentato sia per nulla scontata, nonostante le sentenze passate in giudicato. Secondo l'onorevole, “la verità non s’è ancora affermata. I veri colpevoli non sono stati ancora condannati. Bisognerebbe avere il coraggio di dire che i giudici a Bologna sono sempre stati prigionieri di logiche idelogiche-giudiziarie con lo scopo non di ricercare la verità ma di riuscire, a tutti i costi, ad arrivare alla conclusione che la matrice fosse nera per ragione di Stato”. E ancora ha proseguito la deputata di FdI: "Bisognerebbe avere lo stesso coraggio del presidente Cossiga quando nel 1991 ebbe l'onestà di ammettere che si era sbagliato e che la strage non era addebitabile ad ambienti di estrema destra chiedendo anche scusa".
I tumulti in Aula. Dai banchi di Pd e Leu le parole sono apparse come un'eresia. Fin da subito molti deputati hanno reagito con urla e strepiti. Ha preso la parola Pier Luigi Bersani, ex segretario del Pd e oggi deputato Leu, il quale ha ricordato che le stragi non riuscirono a privare l'Italia della democrazia. “Attorno a noi c’erano solo bombe – ha concluso tra gli applausi del centrosinistra – ma quegli attentati non riuscirono a portarci dove volevano”. L'intervento di Bersani ha però accentuato lo scontro. Giovanni Donzelli (FdI) ha fatto un accorato discorso rivolto al deputato di Leu. “Se qualcuno pensa che c’è una forza democraticamente eletta che ha causato le stragi deve dirlo, sarebbe come se io accusassi la forza politica di Bersani di aver rapito Moro”, ha attaccato Donzelli, scatenando ulteriori polemiche. Sulla vicenda, intervistato dall'Ansa, ha detto la sua anche Paolo Bolognesi, presidente dell'Associazione dei familiari delle vittime della Strage di Bologna: "La loro fortuna è di essere deputati, perché altrimenti sarebbero denunciati per depistaggio. L'immunità di parlamentari li salva dall'accusa".
I dubbi sulla matrice neofascista. Il tema della matrice della strage di Bologna tiene banco da trentotto anni, quanti sono passati dall'esplosione alla stazione. Nel corso del tempo si è diffusa l'idea che esista su quell'evento una verità storica diversa da quella processuale, anche da persone di sinistra. Tra queste Rossana Rossanda, cofondatrice de Il Manifesto, che in un'intervista del 2008 al Corriere della Sera affermò: "Ci sono molti conti che non tornano", disse, chiedendosi quale – a differenza di quella di Piazza Fontana dove "il quadro neofascista è plausibile" - sia la logica politica della strage. Una pista seguita da storici e giuristi è quella palestinese, cui ha accennato anche la Frassinetti nel suo intervento di oggi alla Camera sottolineando che "il nuovo processo iniziato a Bologna in Corte di Assise a marzo è un'altra occasione perduta" perché "invece di approfondire la pista che porta a verificare l'ipotesi dell'esistenza di una ritorsione del terrorismo palestinese...". Ne parlò un anno fa in un'intervista ad In Terris l'avvocato romano Valerio Cutonilli, che scrisse insieme al giudice Rosario Priore Strage all’Italiana (ed. Trecento) e I segreti di Bologna (ed. Chiarelettere).
2 agosto, l’alfabeto della strage di Bologna. Angela e Zangheri, il bus, Cavallini, l’orologio e i misteri: non basta un vocabolario per l’orrore e i segreti, scrive Gianluca Rotondi il 2 agosto 2018 su "Il Corriere della Sera".
Angela Fresu. La vittima più giovane del massacro. Aveva appena tre anni quel 2 Agosto 1980. Era con la madre Maria, 24 anni, emigrata dalla provincia di Sassari e impiegata in una fabbrica di confezioni a Empoli. Stava andando con due amiche e la figlioletta in vacanza al Lago di Garda. Erano insieme nella sala d’aspetto della stazione quando la deflagrazione le spazzò via. Si salvò solo una delle amiche. Al nome di Maria Fresu è legata un’anomalia che ha alimentato teorie, complotti e sospetti. Del corpo della ventiquattrenne non fu trovata traccia, se non, a distanza di tempo, un lembo di pelle. Come se si fosse disintegrata, ipotesi ritenuta assai improbabile da alcuni esperti.
Bene Carmelo. Le parole dell’indimenticato attore e drammaturgo risuonarono dalla torre Asinelli la sera del 31 agosto del 1981, nel primo anniversario della strage, quando davanti a migliaia di bolognesi declamò alcune letture della Divina Commedia. Dedicò quell’interpretazione struggente non alle vittime del massacro, ma ai tantissimi feriti che riuscirono a sopravvivere. L’evento fu accompagnato da polemiche e divisioni, anche in Rai, che ne impedirono la trasmissione. L’amministrazione comunale volle invece fortemente rispondere al terrorismo con la cultura.
Cavallini. L’ultimo dei Nar ad arrendersi e a finire a processo, 38 anni dopo l’attentato, con l’accusa di aver dato supporto logistico a Mambro e Fioravanti per commettere l’eccidio. Secondo la Procura fornì covi e mezzi in Veneto, lui 65 anni, sepolto dagli ergastoli ma in semilibertà, sarà interrogato dopo l’estate.
Desecretazione. Insieme ai mandanti del massacro, resta uno dei nodi che hanno segnato questi 38 anni. Nonostante promesse e impegni dei governi, di qualsiasi colore, non si è mai arrivati alla compiuta desecretazione degli atti custoditi negli archivi di Stato. Nemmeno la direttiva Renzi ha scalfito il muro eretto in questi anni, con archivi solo parzialmente aperti e molti altri rimasti inaccessibili insieme ai tanti segreti sulla stagione dell’eversione e sul grumo di poteri che anche negli apparati dello Stato hanno depistato o addirittura favorito le stragi.
Esplosivo. Quello nascosto in una valigetta e usato per compiere la strage è ancora oggi oggetto di analisi. Secondo gli atti giudiziari dei processi celebrati in questi anni, il 2 Agosto ‘80 furono usati 23 chili di esplosivo, circa 5 di una miscela di tritolo e T4 e 18 di nitroglicerina a uso civile. Nel processo in corso contro Gilberto Cavallini, accusato di concorso nella strage, il presidente della Corte d’Assise Michele Leoni ha disposto una nuova perizia sull’esplosivo per via dei dubbi sollevati nell‘appello bis sulla reale composizione dell’ordigno.
Fioravanti e Mambro. Gli ex neofascisti ragazzini dei Nar condannati con sentenza passata in giudicato insieme a Luigi Ciavardini si sono sempre dichiarati innocenti per Bologna mentre hanno confessato decine tra omicidi e rapine commessi con il gruppo armato di estrema destra. Recentemente hanno testimoniato entrambi nel processo all’ex compagno d’armi Cavallini.
Gelli. Il venerabile maestro capo della loggia massonica P2, già condannato per calunnia aggravata dalle finalità di depistaggio sulla strage e scomparso nel 2015, viene ritenuto dall’Associazione dei familiari il grande burattinaio che non sviò solo le indagini ma fu tra i mandanti e finanziatori della strage, il punto di raccordo tra servizi deviati e neofascisti arruolati per destabilizzare il Paese.
Innocentisti. Non sono pochi coloro che hanno a più riprese sostenuto che la verità sul 2 Agosto non sia quella cristallizzata nelle sentenze, peraltro rimaste monche quanto a mandanti e finanziatori. Tra loro figurano intellettuali, scrittori e magistrati che non hanno mai creduto alla verità giudiziaria e anzi hanno invitato a seguire piste alternative, finora rimaste prive di riscontri.
Lo Sciacallo. Ilich Ramirez Sanchez, meglio noto come Carlos, è un terrorista di origine venezuelano condannato in Francia per diversi attentati commessi col suo gruppo Separat. In più occasioni ha sostenuto di avere informazioni preziose sulla strage. Inizialmente accusò Cia e Mossad, poi i servizi segreti americani attraverso Gladio.
Mandanti. Il buco nero del 2 Agosto. La Procura in questi anni ha aperto e archiviato i fascicoli nati dagli esposti dei familiari per arrivare ai mandanti che ordinarono la strage. Di recente la Procura generale ha avocato a sé l’inchiesta che ora punta dritto su coloro che avrebbero finanziato i terroristi neri. L’inchiesta ruota attorno al documento intitolato «Bologna– 525779 – X.S.» e relativo a un conto aperto da Licio Gelli alla Ubs di Ginevra, proveniente dal fascicolo del processo per il crac del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Per l’Associazione da quel conto sarebbero usciti milioni di dollari serviti a finanziare il massacro.
Neofascisti. Tra le ipotesi oggetto della nuova inchiesta, anche il finanziamento da parte della massoneria in favore di elementi dell’estremismo nero veneto, per esempio alla galassia di Ordine Nuovo di Carlo Maria Maggi, condannato in via definitiva per la strage di piazza della Loggia, a Brescia.
Orologio. Fermo alle 10,25, è uno dei simboli della strage alla stazione insieme all’autobus 37. Tornò in funzione dopo l’esplosione ma successivamente fu di nuovo bloccato, un fermo-immagine, ora eterno, per ricordare per sempre l’ora esatta della strage e coltivare la memoria.
Pista palestinese. È la pista alternativa(archiviata)alla verità codificata dai processi uscita dalla commissione Mitrokhin. Una strada sulla quale si è a lungo indagato senza successo e che vedeva nella rottura del Lodo Moro, l’immunità per l’Italia dagli attentati e il libero passaggio dei terroristi mediorentali nel Paese, la ragione del massacro a Bologna.
Quadro. Quindici giorni dopo la strage, l’Espresso pubblicò in copertina un quadro a cui Renato Guttuso diede lo stesso titolo che Francisco Goya aveva scelto per uno dei suoi 16 Capricci: «Il sonno della ragione genera mostri». Guttuso aggiunse solo la data del 2 Agosto 1980.
Risarcimenti. Li chiedono ininterrottamente da anni i familiari delle vittime e dei feriti. Alcune promesse sono state mantenute ma non tutte. Restano i vuoti sugli indennizzi e le pensioni.
Servizi. La mano degli apparati deviati dello Stato, dei gruppi di potere occulto che insieme a massoneria ed eversione nera avrebbero commissionato e depistato le indagini. È questo secondo i familiari delle vittime l’ultimo tassello per comporre il puzzle di quella stagione di terrore.
Trentasette. L’autobus divenuto il simbolo del massacro. Un bus di linea che dopo l’esplosione venne utilizzato per trasportare i cadaveri all’obitorio e permettere alle ambulanze di assistere i feriti. Quest’anno torna in moto per la prima volta e accompagnerà il corteo fino alla stazione.
Ustica. La tragedia del Dc 9 è stata più volte accostata alla strage, come se ci fosse un legame tra i due eventi e una unica matrice, quella libico-palestinese dietro i due attentati. Ma l’ipotesi emersa secondo alcuni dalla commissione Moro e che si fonderebbe su un patto, violato dall’Italia con i fedayn arabi, non ha mai trovato riscontri.
Vittime. Bambini, studenti, intere famiglie, pensionati, vacanzieri e lavoratori. Ottantacinque morti e più di duecento feriti che ancora chiedono verità e giustizia. I loro parenti sono di nuovo tornati in Tribunale a distanza di 38 anni nel processo a carico di Cavallini.
Zangheri. I compagno professore, il sindaco della strage, infonde coraggio alla città ferita a morte e pretende risposte. «Non arretreremo» dice in una piazza Maggiore gremita e attonita, con a fianco il presidente della Repubblica Pertini.
Le voci della strage. Stazione di Bologna. Due giovanissimi cameramen arrivano sul luogo dell'attentato e documentano l'inferno: polvere, sangue, disperazione, rabbia e stupore. Quaranta minuti choccanti nel documentario di History Channel. Online su L'Espresso i minuti iniziali, con le prime registrazioni della sala operativa e il sonoro originale dei soccorritori, scrive Gianluca De Feo il 30 luglio 2007 su "L'Espresso". Erano passati pochi minuti e nessuno riusciva a capire. Perché sembrava incredibile. Il boato era stato sentito in ogni angolo della la città. Poi per pochi secondi il silenzio. Ma le voci che lo avevano seguito parlavano di tanti morti: una decina, forse trenta. Una cifra impensabile: trenta morti alla stazione, nel cuore di Bologna, nei giorni dell'esodo d'agosto. Tutti correvano verso la piazza dilaniata: baristi con il grembiule addosso, cameriere con la divisa di una volta, operai in tuta blu, carabinieri con la cravatta da cerimonia. Per coprire i corpi travolti nel parcheggio dei taxi usavano le tovaglie. E subito l'incredibile diventava vero: i cadaveri erano decine. Alla fine saranno 85. Quella mattina del 2 agosto 1980, pochi minuti dopo le 10.25 nella piazza della Stazione arrivarono anche Enzo Cicco e Giorgio Lolli, meno di quarant'anni in due. Arrivarono di corsa, prima delle ambulanze. Da poche settimane i due ragazzi avevano cominciato a collaborare come cameramen per Punto Radio Tv, storica emittente nata da un'idea di Vasco Rossi e poi acquistata dal Pci. Le loro immagini documentano l'incredibile: la polvere, il sangue, la disperazione, la rabbia. Ma soprattutto lo stupore per quell'attentato così mostruoso che aveva sepolto turisti, pendolari, ferrovieri, baristi, ferrovieri. Perché nessuno anche in quei primi istanti ha mai dubitato sulla matrice della strage: l'odore dell'esplosivo era inconfondibile.
Adesso, 27 anni dopo, History Channel trasmette integralmente i quaranta minuti girati da Cicco e Lolli. "L'Espresso" anticipa i minuti iniziali, con le prime registrazioni della sala operativa e poi il sonoro originale dei soccorritori. Un filmato choccante, che costringe lo spettatore a immergersi tra le rovine e i suoni di quel dramma; tutto sembra uscire da un'atmosfera irreale. Pochi urlano e lo fanno solo per cercare di dare un ordine a quei soccorsi fatti solo di buona volontà; i più sembrano parlare a bassa voce, quasi sussurrare, come se l'enormità della tragedia gli avesse tolto il respiro. C'è chi piange, senza riuscire a fermarsi. E una folla crescente di persone che sente il bisogno di fare qualcosa, affrontando a mani nude quella montagna che ha preso il posto della sala di aspetto inghiottendo 85 vite. Da quella di Angela Fresu, che a ottobre sarebbe andata all'asilo, a quella di Luca Mauri, che forse aveva già comprato la cartella per la prima elementare; da Marina Trolese, di sedici anni che lotterà invano per dieci giorni, a quella di Antonio Montanari, che di anni ne aveva 86 e aveva già visto due guerre prima di venire massacrato da una guerra mai dichiarata.
History Channel ha mandato in onda questo documento alle 10.25, nell'orario esatto dell'esplosione. È un filmato che costringe a entrare nella polvere, obbligando ogni spettatore a fare i conti con la ferita più profonda nella storia della Repubblica: oggi come allora, le immagini tolgono il fiato. E spingono solo a chiedere: perché?
Strage di Bologna, la memoria divisa. I familiari (anche) contro i magistrati. La contestazione annunciata. Gelo con la Procura dopo lo stop all’inchiesta sui mandanti dell’esplosione del 2 agosto 1980 nella sala d’aspetto della stazione che causò 85 morti e duecento feriti, scrive Marco Imarisio il 1 agosto 2017 su "Il Corriere della Sera". L’autobus della linea 37, matricola 4030, tornerà per la prima volta in piazza Medaglie d’oro. Quella mattina divenne un simbolo, della tragedia, dei soccorsi, di una città che cerca di reagire fin da subito. Gli autisti tolsero i montanti e i corrimano per consentire l’ingresso delle barelle, e fissarono delle lenzuola ai finestrini, per impedire la vista dei corpi feriti, mutilati, oltraggiati. Non tornò più in servizio, per rispetto delle vittime. Non è mai stato formalmente dismesso, per rispetto della propria storia. Oggi, 37 anni dopo la strage, uscirà dal capannone di via Bigari, dove è stato conservato e curato come una reliquia laica, e verrà portato davanti alla stazione.
Lo strappo del 2005. Ci sarà il 37, memoria della Bologna che seppe resistere e rimase in piedi, per quanto colpita. Mancherà il resto, la concordia istituzionale, la condivisione del ricordo. Quest’anno come non mai. Succede spesso, il 2 agosto ha talvolta fatto più notizia per la contestazioni che per l’esercizio delle memoria. Nulla, neppure una apparenza di quiete, è stato più come prima dopo il 2005, quando gli abituali fischi contro gli esponenti del governo divennero bordate, lunghe quanto il discorso dell’allora vice primo ministro Giulio Tremonti e capaci di oscurarlo. Da allora non parla più nessuno, o quasi. È stato inventato lo spazio mattutino tra le mura del Comune, per ridare la voce alla politica nazionale, che nel momento più importante, l’unico che davvero conta, il corteo da piazza Nettuno alla stazione, il comizio alle 10.10 del presidente dell’Associazione familiari delle vittime seguito dal minuto di silenzio e dal discorso del sindaco, è sempre stata costretta all’anonimato e al silenzio, accompagnato dal rumore di fondo dei fischi.
L’attacco al governo. Ma questa volta si è passati alle parole. Che spesso sono pietre, per definizione e contenuto. «Il governo si è comportato in maniera assurda e truffaldina nei confronti delle vittime. I suoi rappresentanti in piazza e sul palco non sono graditi. Non li vogliamo accanto a noi». Paolo Bolognesi, il deputato Pd che dal 1996 è il volto dell’Associazione familiari, ci è andato pesante. Il suo canone prevede da sempre dichiarazioni roboanti. Ma per questo 2 agosto ha scelto lo scontro frontale, in polemica con il suo segretario Matteo Renzi, che da presidente del Consiglio promulgò la direttiva per rendere pubbliche le carte sugli anni della strategia della tensione, con il sottosegretario Claudio De Vincenti che lo scorso anno, alla cerimonia «privata» in Comune promise che tutto sarebbe stato risolto entro l’anniversario del 2017. «Invece continuano a fare il gioco delle tre carte. Ancora lo scorso maggio ho chiesto alla presidenza del Consiglio la lista degli iscritti alla Gladio nera. Mi è stato risposto che c’è un problema di privacy. Sembra che la verità interessi solo a noi».
I dubbi sui mandanti. Il bersaglio inedito degli strali di Bolognesi e dell’Associazione è la magistratura. Fino a oggi l’asse tra i familiari e i magistrati aveva retto seppur con difficoltà alle scosse del tempo e al paradosso di un processo per strage chiuso a differenza di molti altri con colpevoli accertati, i terroristi neri Francesca Mambro, Valerio Fioravanti e Luigi Ciavardini, ma che ha lasciato dietro di sé una scia di dubbi e illazioni su chi davvero avesse progettato quella atrocità. La ferita non si rimargina mai, come le feroci discussioni, eufemismo, tra chi inneggia a quella sentenza contro gli allora giovani neofascisti dei Nuclei armati rivoluzionari e chi insiste a dire che è sbagliata, che quei «ragazzini» non c’entrano, e dietro l’esplosione c’è il terrorismo medio-orientale, la Libia o qualche intrigo internazionale. Il gelo con la procura è sceso a marzo, dopo la richiesta di archiviazione dell’inchiesta sui mandanti e l’invio per competenza a Roma del filone che riguarda l’eventuale partecipazione all’attentato dell’ex Nar Gilberto Cavallini. Non si è mai sciolto, anzi.
Il testo del discorso. E qui di parole ne sono bastate poche, tante quante lo slogan scelto per il manifesto della commemorazione di quest’anno: La storia non si archivia, la forza della verità non si può fermare, la giustizia faccia la sua parte. Il messaggio è arrivato forte e chiaro al procuratore capo Giuseppe Amato, che ne ha preso atto. «Non credo che la nostra presenza possa riscuotere un apprezzamento», ha detto, seguito a ruota dal procuratore aggiunto Valter Giovannini, che rappresenta la memoria storica della procura bolognese. «Sono d’accordo con la non partecipazione alla commemorazione in stazione». La mediazione del sindaco Virginio Merola, che invece appoggia le ragioni della protesta contro il governo, ha strappato ai magistrati la promessa di una presenza in Comune, in quella che si presenta come una vera e propria riserva indiana degli ospiti sgraditi. Bolognesi ha fatto un altro strappo non inviando il testo del suo discorso a sindaco e prefetto, come invece accade ogni anno da 37 anni. Si annunciano sorprese. Era quasi meglio quando c’erano i fischi.
Strage di Bologna, l’articolo di Enzo Biagi: «Quante trame di vita su quei binari». Il 2 agosto 1980 una bomba esplose alla stazione di Bologna, nel più grave atto terroristico avvenuto in Italia nel dopoguerra. I morti furono 85. Questo è il pezzo che Enzo Biagi scrisse sul «Corriere della Sera». Ripubblichiamo il testo che Enzo Biagi scrisse il 2 agosto 1980 sulla strage alla stazione di Bologna. "Nell’aria bruciata d’agosto, si è alzata una nuvola di polvere sottile, ha invaso il piazzale, sul quale mi sono affacciato tante volte. Bastava la voce dell’altoparlante, con quegli inconfondibili accenti, per farmi sentire che ero arrivato a casa. Adesso la telecamera scopre l’orologio, con le lancette ferme sui numeri romani: le dieci e venticinque. Un attimo, e molti destini si sono compiuti. Ascolto le frasi che sembrano monotone, ma sono sgomente, di Filippini, il cronista della TV, costretto a raccontare qualcosa che si vede, a spiegare ragioni, motivi che non si sanno: lo conosco da tanti anni, e immagino la sua pena. Dice: «Tra le vittime, c’è il corpo di una bambina». Mi vengono in mente le pagine di una lettura giovanile, un romanzo di Thornton Wilder, «Il ponte di San Louis Rey», c’era una diligenza che passava su un viadotto, e qualcosa cedeva, precipitavano tutti nel fiume, e Wilder immaginava le loro storie, chi erano, che cosa furono. Quell’atrio, quelle pensiline, il sottopassaggio, il caffè, le sale d’aspetto che odorano di segatura, e nei mesi invernali di bucce d’arancio, mi sono consuete da sempre: con la cassiera gentile, il ferroviere che ha la striscia azzurra sulla manica, che assegna i posti, e mentre attendiamo mi racconta le sue faccende, quelle del suocero tedesco che vuol bere e di sua moglie che dice di no, e la giornalaia, che scherza: «Ma come fa a leggere tutta questa roba?», e vorrei sapere qualcosa, che ne è stato di loro, e li penso, ma non so pregare. Si mescolano i ricordi: le partenze dell’infanzia per le colonie marine dell’Adriatico, i primi distacchi, e c’erano ancora le locomotive che sbuffavano, i viaggi verso Porretta per andare dai nonni, e le gallerie si riempivano di faville, e bisognava chiudere i finestrini, e una mattina, incolonnato, mi avviai da qui al battaglione universitario, perché c’era la guerra. Ritornano, con le mie, le vicende della stazione: quando, praticante al «Carlino», passavo di notte al Commissariato per sapere che cos’era capitato, perché è come stare al Grand Hotel, ma molto, molto più vasto, gente che va, gente che viene, e qualcuno su quei marciapiedi ha vissuto la sua più forte avventura: incontri con l’amore, incontri con la morte. Passavano i treni oscurati che portavano i prigionieri dall’Africa, che gambe magre avevano gli inglesi, scendevano le tradotte di Hitler che andavano a prendere posizione nelle coste del Sud, e conobbi una Fraulein bionda in divisa da infermiera alla fontanella, riempiva borracce, ci mettemmo a parlare, chissà più come si chiamava, com’è andata a finire. Venne l’8 settembre, e davanti all’ingresso, dove in queste ore parcheggiano le autoambulanze, si piazzò un carro armato di Wehrmacht; catturavano i nostri soldati, e li portavano verso lo stadio, che allora si chiamava Littoriale. Un bersagliere cercò di scappare, ma una raffica lo fulminò; c’era una bimbetta che aveva in mano la bottiglia del latte, le scivolò via, e sull’asfalto rimase, con quell’uomo dalle braccia spalancate, una chiazza biancastra. Cominciarono le incursioni dei «liberators», e volevano sganciare su quei binari lucidi che univano ancora in qualche modo l’Italia, ma colpirono gli alberghi di fronte, qualche scambio, i palazzi attorno, le bombe caddero dappertutto, e vidi una signora con gli occhialetti d’oro, immobile, composta, seduta su un taxi, teneva accanto una bambola, pareva che dormisse, e l’autista aveva la testa abbandonata sul volante. «Stazione di Bologna», dice una voce che sa di Lambrusco e di nebbia, di calure e di stoppie, di passione per la libertà e per la vita, quando un convoglio frena, quando un locomotore si avvia. Per i viaggiatori è un riferimento, per me un’emozione. Ecco perché mi pesa scrivere queste righe, non è vero che il mestiere ti libera dalla tristezza e dalla collera, in quella facciata devastata dallo scoppio io ritrovo tanti capitoli dell’esistenza dei mici. «Stazione di Bologna»: quante trame sono cominciate e si sono chiuse sotto queste arcate di ferro. Quanti sono stati uccisi dallo scoppio, o travolti dalle macerie: cinquanta, sessanta, chissà? Credere al destino, una caldaia che esplode, un controllo che non funziona, una macchina che impazzisce, qualcuno che ha sbagliato, Dio che si vendica della nostra miseria, e anche l’innocente paga? Anche quei ragazzi nati in Germania che erano passati di qui per una vacanza felice, ed attesa, il premio ai buoni studi o al lavoro, una promessa mantenuta, un sogno poetico realizzato: «Kennst Du das Land, wo die Zitronen bluhen?», lo conosci questo bellissimo e tremendo Paese dove fioriscono i limoni e gli aranci, i rapimenti e gli attentati, la cortesia e il delitto, dovevano pagare anche loro? Forse era meglio vagheggiarlo nella fantasia. Ci sono genitori che cercano i figli; dov’erano diretti? Perché si sono fermati qui? Da quanto tempo favoleggiavano questa trasferta? E le signorine del telefono, già, che cosa è successo alle ragazze dal grembiule nero che stavano dietro il banco dell’interurbana: chi era in servizio? Qualcuna aveva saltato il turno? Che cosa gioca il caso? Poi, l’altra ipotesi, quella dello sconosciuto che deposita la scatola di latta, che lascia tra le valigie o abbandonata in un angolo, magari per celebrare un anniversario che ha un nome tetro, «Italicus», perché vuol dire strage e un tempo «Italicus» significava il duomo di Bolsena, le sirene dei mari siciliani, i pini di Roma, il sorriso delle donne, l’ospitalità, il gusto di vivere di un popolo. Non mi pare possibile, perché sarebbe scattato l’inizio di un incubo, la fine di un’illusione, perché fin lì, pensavamo, non sarebbero mai arrivati. «Stazione di Bologna», come un appuntamento con la distruzione, non come una tappa per una vacanza felice, per un incontro atteso, per una ragione quotidiana: gli affari, i commerci, le visite, lo svago. Come si fa ad ammazzare quelle turiste straniere, grosse e lentigginose, che vedono in ognuno di noi un discendente di Romeo, un cugino di Caruso, un eroe del melodramma e della leggenda, che si inebriano di cattivi moscati e di sole, di brutte canzoni? Come si fa ad ammazzare quei compaesani piccoli e neri, che emigrano per il pane e si fermano per comperare un piatto di lasagne, che consumano seduti sulle borse di plastica? Come si fa ad ammazzare quei bambini in sandali e in canottiera che aspettano impazienti, nella calura devastante, la coca cola e il panino e non sanno che nel sotterraneo, non lo sa nessuno, c’è un orologio che scandisce in quei minuti la loro sorte? Vorrei vedere che cosa contengono quei portafogli abbandonati su un tavolo all’istituto di medicina legale: non tanto i soldi, di sicuro, patenti, anche dei santini, una lettera ripiegata e consumata, delle fotografie di facce qualunque, di quelle che si vedono esposte nelle vetrine degli «studi» di provincia: facce anonime, facce umane, facce da tutti i giorni. Dicono i versi di un vero poeta, che è nato da queste parti e si chiama Tonino Guerra: «A me la morte / mi fa morire di paura / perché morendo si lasciano troppe cose che poi non si vedranno mai più: / gli amici, quelli della famiglia, i fiori / dei viali che hanno quell’odore / e tutta la gente che ho incontrato / anche una volta sola». Sono facce che testimoniano questa angoscia, ma nessuno ha potuto salvarle. «Stazione di Bologna». D’ora in poi non ascolteremo più l’annuncio con i sentimenti di una volta; evocava qualcosa di allegro e di epicureo, tetti rossi e mura antiche, civiltà dei libri, senso di giustizia, ironia, rispetto degli altri, massi, anche la tavola e il letto, il culto del Cielo e il culto per le buone cose della Terra. Ora, ha sapore di agguato e di tritolo. Perché il mondo è cambiato e in peggio: i figli degli anarchici emiliani li battezzavano Fiero e Ordigno, quelli dei repubblicani Ellero e Mentana, quelli dei socialisti Oriente e Vindice, quelli dei fascisti Ardito e Dalmazia, una gli insegnavano a discutere a mensa imbandita. Si picchiavano anche, si sparavano, talvolta, ma il loro ideale era pulito e non contemplava l’agguato: Caino ed Erode non figuravano tra i loro maestri. «Stazione di Bologna»: si può anche partire, per un viaggio senza ritorno".
L'Associazione delle vittime: «Lo Stato non vuole la verità sulla strage di Bologna». «Se si sapessero come sono andate veramente le cose si innescherebbe un effetto a catena che a molti farebbe paura» afferma il presidente Paolo Bolognesi. Sulle polemiche dopo l'archiviazione dell'indagine sui mandanti: «Anche noi abbiamo il diritto di critica, non parliamo solo in tribunale», scrive Federico Marconi l'1 agosto 2017. «L’Italia non ha mai fatto i conti con il proprio passato. È una costante: è stato così per il fascismo, lo è oggi per la strategia della tensione. Ci sono ancora dei grumi, delle situazioni e degli apparati che non si possono assolutamente svelare. Se così fosse ci sarebbe un effetto a catena che a molti farebbe paura». Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione delle vittime della strage di Bologna e deputato Pd, non si nasconde dietro frasi di circostanza quando si parla dell’attentato che il 2 agosto 1980 sconvolse Bologna e l’Italia. La bomba che scoppiò quel giorno alla stazione fece 85 morti e oltre 200 feriti: la più grande strage che l’Italia abbia conosciuto in tempo di pace. Nonostante lacune nelle indagini e depistaggi di cui furono responsabili dirigenti del Sismi, dopo un tormentato iter giudiziario sono stati individuati i responsabili dell'eccidio: nel 1995 la Cassazione ha condannato in via definitiva all’ergastolo Francesca Mambro e Giusva Fioravanti, membri del gruppo di estrema destra Nuclei Armati Rivoluzionari.
Presidente Bolognesi, dopo 37 anni si continuano ancora a cercare i mandanti della strage.
«Ancora non sappiamo tutta la verità e ci impegneremo fino a che non verrà fatta. Abbiamo cercato una sponda negli ultimi governi, e in un primo momento sembrava che l’avessimo trovata: nel 2015 è stato stipulato un accordo per la digitalizzazione degli archivi con il Ministero della Giustizia e quello dei Beni Culturali. Questa è una metodologia di indagine e di analisi che permetterebbe di fare chiarezza sui mandanti della strage. La digitalizzazione viene però osteggiata, boicottata, con tutte le motivazioni più incredibili. Nei tre anni successivi all’accordo non è stata digitalizzata una pagina. Dopo i miei reclami è stato fatto un comunicato congiunto in cui si diceva che gli archivi non possono essere divulgati per ricerche di natura giudiziaria, una cosa totalmente assurda. Ma questi sono messaggi che vogliono rassicurare qualcuno che è un po' preoccupato, sicuramente non i familiari delle vittime. Poi c'è la direttiva Renzi (con cui nel 2014 è stato deciso di declassificare i documenti riguardanti le stragi, ndr), che tante speranze aveva dato alle associazioni: ma gli unici che vogliono che funzioni sono i familiari delle vittime, non certo gli apparati dello Stato».
Quali difficoltà ci sono in questa partita che si gioca negli archivi?
«Innanzitutto abbiamo un blocco costante e metodico da parte degli apparati dello Stato. Sembrerà incredibile, ma sia dal Ministero della Difesa che dal vecchio Ministero dei Trasporti sono spariti gli archivi. Incredibile ma vero, il Ministero della Difesa dal 1980 al 1986 non ha nulla che riguardi i voli e le navi che attraversavano l'Italia e il Tirreno. Ma se non si trovano questi archivi fai qualcosa, fai un'inchiesta per capire dove sono andati a finire. Nessuno però fa una piega: questo dei documenti è l’ultimissimo dei loro problemi».
Per quale motivo ci sono ancora tutte queste resistenze da parte dello Stato?
«Perché evidentemente ci sono situazioni e apparati che non possono essere svelati. Nell'ambito della direttiva Renzi ultimamente ho chiesto i nomi degli appartenenti ai Nuclei Armati di Difesa dello Stato, la cosiddetta Gladio Nera, che molto probabilmente è implicata in questi attentati e non solo. Mi è stato risposto che non me li potevano dare per ragioni di privacy».
A marzo la Procura di Bologna ha archiviato l’indagine su Licio Gelli come mandante e finanziatore della strage. Non avete risparmiato critiche ai procuratori bolognesi.
«La procura deve ricordarsi che anche le vittime hanno il diritto di critica, non parliamo solo in tribunale. L'archiviazione è stata fatta su una serie di “non indagini” che lasciano perplessi. Sul finanziamento di Gelli agli stragisti si sono basati su una relazione del 1984, non su elementi più recenti o sulle acquisizioni che noi abbiamo presentato, che non sono stati neanche guardate. C'è anche una perla nella richiesta di archiviazione: i pm scrivono che Mambro e Fioravanti erano degli “spontaneisti”. Questo vuol dire non tenere nemmeno conto della sentenza del 1995 con cui i due membri dei Nar sono stati condannati. Questa cosa ci lascia molto perplessi. Noi abbiamo presentato un dossier di mille pagine, la procura ha chiesto l'archiviazione a cui ci siamo opposti e a ottobre vedremo cosa deciderà il Gip. Poi se il fascicolo verrà archiviato vedremo quali parti si potranno sviluppare per far riaprire il processo».
Dopo tutte questi attacchi a governo e procura, in che clima si svolgeranno le manifestazioni per l’anniversario della strage?
«Bologna è una città estremamente democratica, i cittadini hanno avuto sempre un comportamento esemplare nei confronti di chiunque abbia partecipato alla commemorazione. Non c'è stato nessun ministro, neanche nei momenti più delicati, che sia stato contestato durante il corteo o le manifestazioni. Può darsi che qualche volta, mentre parlavano dal palco, siano stati fischiati. Ma questo per altre ragioni, come per le promesse non mantenute».
Nonostante si siano individuati i responsabili della strage, periodicamente si torna a parlare della “pista palestinese” (secondo cui la bomba è stata una ritorsione dell’Olp per la rottura del Lodo Moro, ndr). Per quale motivo?
«La “pista palestinese” non porta da nessuna parte. Riportarla agli onore della cronaca fa parte di operazioni per confondere le idee alla gente, per fargli uscire dalla testa personaggi come Francesca Mambro e Giusva Fioravanti. I due responsabili della strage, condannati a 8 ergastoli per i loro 98 omicidi, hanno già finito di scontare la pena. Sembra una grande barzelletta, ma è quello che ha fatto lo Stato italiano. È una sorta di do ut des».
Può spiegarsi meglio?
«C’è un silenzio eccezionale da parte dello Stato nei confronti di questi personaggi. Non dico che dovrebbero essere in galera, ma almeno non dovrebbero aver finito di scontare la pena dopo tutto il sangue che hanno versato. Inoltre è appurato come abbiano continuato ad avere frequentazioni poco limpide. Mambro e Fioravanti, durante il periodo di liberà condizionale, avevano contatti con Gennaro Mokbel, uomo della Banda della Magliana e grande riciclatore di soldi sporchi. Addirittura c'è un’intercettazione telefonica di Mokbel in cui dice che “liberare quei due dalla galera” gli è costato un milione e duecentomila euro. È incredibile che nessuno abbia indagato su queste situazioni. Mambro e Fioravanti erano in libertà condizionale e doveva essere sospesa immediatamente: per evitare, come poi è successo, che avessero contatti con malavitosi. Per Mambro e Fioravanti si è mosso il mondo della Banda della Magliana, non so che si vuole di più: probabilmente avrebbero dovuto fare un’altra strage affinché lo Stato li rispedisse in galera».
Giovanni Lindo Ferretti e la stage di Bologna: furono o no i fascisti?, scrive il 2/08/2017 Chiara Comini. Avvenne il 2 agosto del 1980 alle 10.25 l’esplosione, causata da una bomba, che provocò la morte di 85 persone e 200 i feriti. Oggi, dopo 37 anni dalla strage, Giovanni Lindo Ferretti lancia una provocazione. Ferretti, noto per essere stato il cantate del gruppo musicale CCCP Fedeli alla linea, nato nell’Emilia degli anni Ottanta, in un intervista rilasciata a Repubblica dichiara: “Non concordo con il pensiero della maggioranza dei bolognesi, non credo che l’attentato del 2 agosto sia opera di fascisti italiani. Mi dispiace non essere in sintonia con la mia città, quella in cui ho vissuto di più. Quando è successo il 2 agosto io ero ancora un bolognese di adozione, ma io non ci ho mai creduto”. Continua affermando: “In quel momento i palestinesi avevano dei problemi con lo Stato italiano e il fatto che non siano state fatte indagini su tre o quattro personaggi in quei giorni a Bologna mi convince oltremisura. Se almeno si fossero fatte le indagini…”. Secondo Ferretti sarebbe più plausibile la pista, allora archiviata, definita “Lodo Moro”, o “Lodo Palestinese”: il patto tra servizi segreti italiani e la dirigenza palestinese per evitare attentati in Italia. Solo negli ultimi anni si sono iniziate a scoprire le carte, ammettendo l’effettiva esistenza dell’accordo, allora considerato una tesi complottista. Un documento segreto, emerso anni fa grazie a Enzo Raisi, datato 17/02/1978 e pubblicato nel 2015 dal Quotidiano nazionale, prova l’esistenza del Lodo Moro. Raisi il 2 agosto 1980 era nei pressi della stazione, in procinto di partire per il servizio militare. Da quel giorno si è assiduamente dedicato alla ricerca della verità. La sua convinzione è che la strage sia stata opera dei palestinesi in combutta con Carlos, un terrorista internazionale famoso anche con il nome di “Sciacallo”. Non è da sottovalutare che tra la fine del 1979 e l’inizio del 1980, fosse stato arrestato e condannato il responsabile del Fronte per la liberazione della Palestina in Italia. Nel libro “Ustica storia e controstoria”, scritto dall’on. Eugenio Baresi, possiamo leggere: “Fra il sette e otto novembre 1979, in un casuale controllo – ricorda Baresi – vengono sequestrati missili antiaerei a membri dell’Autonomia romana e ad un palestinese, Abu Anzeh Saleh, […], rappresentante in Italia del Fronte per la liberazione della Palestina (FPLP). La Procura di Chieti con assoluta e inusuale velocità perviene ad un’immediata condanna il 25 gennaio del 1980. Il responsabile del FPLP in Italia, arrestato e condannato, è residente da anni a Bologna”. La strage della stazione di Bologna, pertanto, si collocherebbe in uno scenario intrecciato di fatti avvenuti in quegli anni che la collegherebbero dall’omicidio di Aldo moro e all’aereo di Ustica, che Baresi considera un “avvertimento non capito”. L’ordigno a Bologna sarebbe stato il secondo avvertimento. Ferretti conclude la sua dichiarazione a La Repubblica dicendo: “Tutte le persone che conosco e a cui voglio bene non lo vogliono nemmeno sentire. Questa città si è fatta un punto di onore nel rivendicare una necessità di antifascismo militante 50 anni dopo l’epopea fascista e ha avuto un’occasione meravigliosa”. Resta il fatto che questa ipotesi, dopo quasi quarant’anni dalla tragedia, grazie a documenti allora secretati, ha iniziato a prendere sempre più forma.
La provocazione di Giovanni Lindo Ferretti: "La strage di Bologna? Non furono i fascisti". Le parole del musicista sull'attentato del 2 agosto in stazione, che provocò 85 morti e 200 feriti: "Mi spiace ma la penso diversamente dai bolognesi, credo alla pista palestinese", scrive Emanuela Giampaoli l'1 agosto 2017 su “La Repubblica”. "Non concordo con il pensiero della maggioranza dei bolognesi, non credo che l’attentato del 2 agosto sia opera di fascisti italiani". Lo dice Giovanni Lindo Ferretti, ex CCCP ed ex CSI, da anni ormai ritiratosi sull’Appennino tosco emiliano, sceso sotto le Torri per inaugurare al Museo della Musica la mostra della fotografa Federica Troisi "Illumina le tenebre", dedicata agli abitanti dell'enclave serba di Velika Hoca in Kosovo, alla quale il musicista partecipa con una serie di testi e di brani musicali. Parole che suonano come una provocazione alla vigilia dell’anniversario della strage, quando la città è pronta a ricordare ancora una volta la sua ferita più profonda e a raccogliersi intorno ai suoi morti. "Mi dispiace non essere in sintonia con la mia città, quella in cui ho vissuto di più. Quando è successo il 2 agosto io ero ancora un bolognese di adozione, ma io non ci ho mai creduto". A convincere il cantante e scrittore è il cosiddetto lodo palestinese, una pista archiviata che in ambito giudiziario contrasta con le sentenze, la matrice neofascista e le condanne definitive di Mambro e Fioravanti. "In quel momento i palestinesi avevano dei problemi con lo Stato italiano e il fatto che non siano state fatte indagini su tre o quattro personaggi in quei giorni a Bologna mi convince oltremisura. Se almeno si fossero fatte le indagini…". Confessa che sono anni che ha smesso di parlare di queste cose. "Tutte le persone che conosco e a cui voglio bene non lo vogliono nemmeno sentire. Questa città si è fatta un punto di onore nel rivendicare una necessità di antifascismo militante 50 anni dopo l’epopea fascista e ha avuto un’occasione meravigliosa".
IL MISTERO DELLE STRAGI MAFIOSE. PALERMO, MILANO, FIRENZE, ROMA.
MISTERI E DEPISTAGGI DI STATO.
Via D'Amelio, la relazione dell'Antimafia regionale: "Dietro il depistaggio i complici di Cosa nostra". La commissione denuncia "omissioni e reticenze" di magistrati, esponenti dei servizi segreti e vertici della polizia. Fiammetta Borsellino: Inaccettabile che alcuni pm si siano sottratti alle audizioni". Di Matteo: "Altri dovrebbero vergognarsi, non io", scrive Salvo Palazzolo il 19 dicembre 2018 su "La Repubblica". "Mai una sola investigazione giudiziaria e processuale ha raccolto tante anomalie, irritualità e forzature, sul piano procedurale e sostanziale, come l'indagine sulla morte di Paolo Borsellino e dei cinque agenti della sua scorta". È pesante l'atto d'accusa della commissione regionale Antimafia, presieduta da Claudio Fava. "Mai alla realizzazione di un depistaggio concorsero tante volontà, tante azioni, tante omissioni come in questo caso. Mai gli indizi seminati, in corso di depistaggio, furono così numerosi e così ignorati al tempo stesso come nell'indagine su via D'Amelio". Per l'Antimafia, "la stessa mano non mafiosa che accompagnò Cosa nostra nell'organizzazione della strage potrebbe essersi mossa, subito dopo, per determinare il depistaggio". Nel presentare la relazione, il presidente Fava parla di "concorso di responsabilità che va oltre l'ex procuratore di Caltanissetta Tinebra e l'ex capo della squadra mobile La Barbera e chiama in causa magistrati, vertici dei servizi segreti e della polizia di Stato". La relazione parte dalle domande di Fiammetta Borsellino, che era presente alla conferenza stampa di Fava. "Non è accettabile che magistrati come Ilda Boccassini, Nino Di Matteo e la signora Palma, si siano sottratti alle audizioni della commissione regionale antimafia. E' una vergogna". Così dice la figlia del giudice Paolo: "Lo trovo moralmente inaccettabile e non giustificabile". Di Matteo aveva chiesto di essere sentito dalla commissione nazionale antimafia. E oggi dice: "Gran parte della mia vita è stata ed è dedicata alla ricerca della verità. Dovrebbero vergognarsi altri, non io". Poi spiega: "Non ho ritenuto di accettare l’invito per l’audizione innanzi a una commissione regionale antimafia che non ha i poteri e le competenze per potersi occupare di un argomento così delicato e complesso". Interviene Fava: "Vorrei tranquillizzare il pm Di Matteo. Le competenze ci sono". Per il presidente Fava, "è certo il ruolo che il Sisde ebbe nell'immediata manomissione del luogo dell'esplosione e nell'altrettanto immediata incursione nelle indagini della Procura di Caltanissetta, procurando le prime note investigative che contribuiranno a orientare le ricerche della verità in una direzione sbagliata. E' certa la consapevolezza (ma anche l'inerzia) che si ebbe nell'intera procura di Caltanissetta (il procuratore capo, il suo aggiunto, i suoi sostituti) sull'irritualità di quella collaborazione fra inquirenti e servizi segreti, assolutamente vietata dalla legge". "Certa è anche l'irritualità dei modi ("predatori", ci ha detto efficacemente un pm audito in Commissione) attraverso cui il cosiddetto gruppo Falcone-Borsellino condizionò le indagini, omise atti e informazioni, fabbricò e gestì la presunta collaborazione di Vincenzo Scarantino e degli altri cosiddetti pentiti. Certo, infine, ripetiamo - prosegue Fava - il contributo di reticenza che offrirono a garanzia del depistaggio - consapevolmente o inconsapevolmente - non pochi soggetti tra i ranghi della magistratura, delle forze di polizia e delle istituzioni nelle loro funzioni apicali. Ben oltre i nomi noti dei tre poliziotti, imputati nel processo in corso a Caltanissetta, e dei due domini dell'indagine (oggi scomparsi), e cioè il procuratore capo Tinebra e il capo del gruppo d'indagine Falcone-Borsellino, Arnaldo La Barbera".
Fava: “Depistaggio Borsellino opera anche dei magistrati”. La relazione choc sulla strage di via D’Amelio, scrive Damiano Aliprandi il 20 Dicembre 2018 su "Il Dubbio". «La sensazione è che il depistaggio sulla strage di via D’Amelio sia il concerto di contributi di reticenza offerti – consapevolmente o inconsapevolmente – a tutti i livelli istituzionali, che hanno attraversato la magistratura e le forze dell’ordine». A dirlo è il Presidente della Commissione Regionale Antimafia Claudio Fava, che ha presentato in conferenza stampa i risultati della commissione d’inchiesta sulla strage di via D’Amelio. All’incontro con la stampa era presente, seduta nell’ultima fila, anche Fiammetta Borsellino, figlia del giudice ucciso in via D’Amelio. Claudio Fava ha quindi presentato il rapporto che trasmetterà per conoscenza alle Procure di Caltanissetta e Messina, quest’ultima competente per quanto riguarda possibili indagini nei confronti dei magistrati, protagonisti dei primi due processi ai quali – secondo le motivazioni del Borsellino Quater – «le numerose oscillazioni e ritrattazioni» di Scarantino avrebbero dovuto consigliare «un atteggiamento di particolare cautela e rigore nella valutazione delle sue dichiarazioni, e una minuziosa ricerca di tutti gli elementi di riscontro, positivi o negativi che fossero, secondo le migliori esperienza maturate nel contrasto alla criminalità organizzata, e incentrate su quello che veniva giustamente definito il metodo Falcone». Claudio Fava, durante la conferenza, non solo ha ricalcato le motivazioni del Borsellino Quater, ma è entrato nei dettagli. «Si decise di credere in modo quasi apodittico – ha affermato il Presidente della Commissione Antimafia Fava – che fosse la mafia a costringere Scarantino a ritrattare. Per cui si sceglie di credere alla ritrattazione della ritrattazione». Due sono le conclusioni raggiunte. «La prima – ha spiegato Fava è il dubbio forte che la stessa mano che ha lavorato per condurre questo depistaggio possa avere accompagnato anche gli esecutori della strage del 19 luglio 1992. Se vi è stata una continuità, non è riferibile solo alla costruzione e all’esecuzione della strage ma anche nel depistaggio». Poi c’è la seconda conclusione. «Questo depistaggio – prosegue Fava – è stato possibile per un concorso di responsabilità che va oltre i tre imputati al dibattimento di Caltanissetta e i due ‘ domini’ dell’inchiesta il procuratore di Caltanissetta, Gianni Tinebra e il capo della Mobile, Arnaldo La Barbera, che non ci sono più. La sensazione è che oggettivamente alcune forzature processuali e investigative hanno favorito il depistaggio. Una luce su questo avviene soltanto nel 2008, con le dichiarazioni del pentito Spatuzza». Claudio Fava, però, non si ferma qui. In sostanza afferma che il depistaggio proviene da lontano. Afferma che Paolo Borsellino, nonostante lo chiedesse in più occasioni, non fu convocato dalla Procura di Caltanissetta, in merito a ciò che aveva scoperto sulla motivazione dell’uccisione di Giovanni Falcone. Quindi “menti raffinatissime” che hanno adoperato fin da subito. Va da sé pensare, dunque, che tali menti avrebbero operato ben prima della presunta trattativa Stato – mafia, che secondo la Procura di Palermo sarebbe avvenuta a cavallo tra la strage di Capaci e Via D’Amelio. Fava ricorda, riferendo dettagli dell’audizione del maresciallo Canale, che non sia affatto vero che Borsellino fu convocato da Caltanissetta per il 20 luglio 1992. Sappiamo che Borsellino aveva molto a cuore l’indagine su mafia- appalti e – come ha anche ricordato recentemente Antonio Di Pietro – riteneva che fosse una probabile causa che portò alla strage di Capaci. «Se non ci fossero state alcune di queste sottovalutazioni, omissioni, forzature – un giudice ha definito l’attività di La Barbera predatoria -, la conclusione è che di questo depistaggio si sarebbe potuto sapere ben prima che parlasse Spatuzza», ha detto Fava. «Forse per la prima volta ha concluso – alcune domande sono state formulate a chi non le aveva mai ricevute. A questi magistrati per esempio è stato chiesto com’è che nessuno si sia stupito della pervasività dei servizi segreti nelle prime ore delle indagini, sapendo che erano contrarie alla legge». Nelle conclusioni della relazione si parla espressamente del ‘ contributo di reticenza’ offerto – consapevolmente o inconsapevolmente – da magistrati e figure apicali delle istituzioni e delle forze dell’ordine. L’inchiesta svolta dalla commissione presieduta da Fava scaturisce dalle domande di Fiammetta Borsellino. Troveranno finalmente risposta?
La Strategia dell'Inganno - 1992-93. Le bombe. I tentati golpe. La guerra psicologica in Italia. Libro di Stefania Limiti. Un racconto appassionante e documentato sui tre aspetti chiave che hanno contraddistinto la stagione delle bombe e delle stragi in Italia:
Un inquietante pericolo golpista: il golpe Nardi, una vicenda solo in apparenza boccaccesca – ne parlò la moglie e amante di due stimati ufficiali, ma non si trattò solo di un gioco a sfondo erotico; l’assalto alla Rai di un gruppo di mercenari su ordine della Cia, alcuni dei quali per la prima volta hanno dato all’autrice testimonianze inedite sui fatti.
Gli scandali del Sismi e del Sisde che resero le strutture dei servizi segreti in Italia più instabili di quanto lo fossero ai tempi della P2: uomini che entravano in stanze riservate senza nessuna documentazione, personaggi che si muovevano nell’ombra come Gianmario Ferramonti.
Lo stragismo, ovvero la manipolazione di gruppi criminali mafiosi come metodo utile alla destabilizzazione del potere.
Documentazione e testimonianze inedite su fatti meno conosciuti degli anni delle bombe in Italia: l’assalto alla sede Rai di Saxa Rubra, il Golpe Nardi e altre vicende dimenticate che lasciarono con il fiato sospeso l’Italia. Una nuova lettura delle stragi in Italia (via Fauro a Roma, Palestro a Milano, Georgofili a Firenze) che nella ricorrenza dei 25 anni solleverà curiosità e interesse. Una nuova e originale lettura del potere in Italia, orchestrato attraverso una costante opera di destabilizzazione, una successione di inganni, una vera guerra psicologica.
L'AUTRICE – Stefania Limiti è nata a Roma ed è laureata in Scienze politiche. Giornalista professionista, ha collaborato con varie testate, in particolare con il settimanale «Gente», su temi di attualità e di politica internazionale. Inoltre ha lavorato per «l'Espresso», «Left», «La Rinascita della Sinistra» e «Aprile». Si è dedicata negli ultimi due anni alla ricostruzione di pezzi ancora oscuri della nostra storia attraverso la lettura delle sentenze giudiziarie e interviste ai protagonisti: il risultato di questo lavoro giornalistico viene presentato nelle pagine seguenti. Segue con molta attenzione la questione palestinese e ha scritto "I fantasmi di Sharon" (Sinnos, 2002), nel quale ricostruisce la strage nei campi profughi di Sabra e Shatila e le responsabilità libanesi e israeliane, e «Mi hanno rapito a Roma» (Edizioni L'Unità, 2006) sulla vicenda del sequestro da parte del Mossad di Mordechai Vanunu, che mise l'Italia sotto i riflettori del mondo intero nel 1986. Inoltre ha realizzato un'inchiesta sul dossier di Bob Kennedy sull'assassinio del presidente degli Stati Uniti dal titolo "Il complotto. La controinchiesta segreta dei Kennedy sull'omicidio di JFK" (Nutrimenti, 2012). Con Chiarelettere ha pubblicato "L'Anello della Repubblica" (2009), più volte ristampato.
«La strategia dell'inganno», storia della guerra non convenzionale in Italia, scrive Ciro Manzolillo Martedì 16 Maggio 2017 su “Il Mattino”. Il periodo più nero della nostra Repubblica. La grande crisi di sistema che colpì l'Italia tra il 1992 e il 1993 e che trovò soluzione nella nascita della cosiddetta Seconda Repubblica, è segnata da eventi tragici dai risvolti ancora non chiari e chiariti.
Il cosiddetto golpe Nardi, l'assalto alla sede Rai di Saxa Rubra, le stragi di Milano, Firenze, Roma quelle mafiose di Palermo, il blackout a Palazzo Chigi e, in mezzo, Tangentopoli, gli scandali del Sismi e del Sisde, la fine dei partiti storici, la crisi economica.
La sequenza degli avvenimenti di questo biennio viene ricostruita su documenti e con dovizia di dettagli nel volume appena uscito per Chiarelettere «La strategia dell'inganno» della giornalista Stefania Limiti. Secondo l’autrice: «Tutti questi fatti portano il segno di una grande opera di destabilizzazione messa in pratica anche con la collaborazione delle mafie e con l'intento di causare un effetto shock sulla popolazione, creando un clima di incertezza e di paura e disgregando le nostre strutture di intelligence».
Stefania Limiti dalle sue pagine cerca di dimostrare come centinaia di testimonianze, processi hanno offerto le prove che in Italia è stata combattuta una guerra non convenzionale a tutto campo e sotterranea. Furono azioni coordinate? E se sì da chi? Non lo sappiamo. Di certo tutte insieme, in un contesto di destabilizzazione permanente, provocarono un ribaltamento politico generale. Un golpe ideologico a tutti gli effetti.
DAL TESTO – "Le stragi sul continente, quindi, sono concepite e realizzate per diffondere una campagna di terrore. Cosa nostra deve aver ritenuto che la capitolazione dello Stato sarebbe stata più facile colpendo indistintamente la popolazione e le opere d'arte. Gli attentati sono programmati fuori dalla Sicilia e non prendono di mira uomini rappresentativi dello Stato: l'Italia era fin troppo abituata a quello schema, s'indignava, è vero, ma non ne era più spaventata. Il nuovo piano punta a seminare il panico, gli obiettivi sono anonimi e hanno un messaggio eloquente per chi possiede la giusta chiave di lettura."
La strategia dell’inganno – Stefania Limiti. Scrive il 6 luglio 2017 Giuseppe Licandro su Excursus.org". Tra il marzo 1992 e l’aprile 1994, l’Italia fu sconvolta da una lunga serie di attentati di matrice mafiosa che, terrorizzando la gente, accentuò la crisi dei partiti della Prima Repubblica iniziata con Tangentopoli. La stagione terroristica cominciò con l’assassinio di Salvo Lima (12 marzo ’92) e continuò col tentato omicidio di Maurizio Costanzo (14 maggio ’92) e gli attentati che uccisero Giovanni Falcone (23 maggio ’92) e Paolo Borsellino (19 luglio ’92). Seguirono poi la strage di Firenze (27 maggio ’93), l’esplosione di varie bombe a Milano e a Roma (27-28 luglio ’93), l’omicidio di Don Pino Puglisi a Palermo (15 settembre ’93) e due falliti attentati, uno allo stadio Olimpico di Roma (31 ottobre ’93), l’altro a Formello contro Salvatore Contorno, mafioso pentito (14 aprile ’94). Gli attacchi cessarono a metà del 1994, poiché Cosa Nostra trovò nuovi referenti politici, ma fu anche indebolita dall’arresto dei boss più violenti (Leoluca Bagarella, Filippo e Giuseppe Graviano, Salvatore Riina). Nello stesso periodo si svolse la controversa trattativa tra Stato e mafia, con i Corleonesi che pretesero la revisione del maxiprocesso, l’abolizione dell’ergastolo e del II comma dell’articolo 41-bis del Codice Penale (che ha introdotto il carcere duro per i capimafia), ma alla fine ottennero solo concessioni minori (nel novembre 1993 il governo Ciampi revocò il 41-bis a 143 mafiosi). Dietro le quinte operarono probabilmente “menti raffinatissime” che, sfruttando scandali e stragi, affrettarono il passaggio alla Seconda Repubblica, come sostiene la giornalista Stefania Limiti nell’interessante saggio La strategia dell’inganno. 1992-93. Le bombe, i tentati golpe, la guerra psicologica in Italia (Chiarelettere, pp. 256, € 16,90).
Nella prima parte del libro l’autrice parla della deception, la tecnica usata per ingannare l’opinione pubblica e influenzare le classi dirigenti, raccontando due strane storie avvenute proprio nel tragico 1993: il colpo di stato organizzato dal pilota aeronautico calabrese Giovanni Marra; le trame eversive denunciate da Donatella Di Rosa. Su input forse di “amici americani”, Marra cercò di allestire un piccolo esercito per occupare la sede romana Rai di Saxa Rubra, ma il golpe abortì sul nascere, poiché il Servizio di Informazione per la Sicurezza Democratica (Sisde) sventò il complotto e ne arrestò l’ideatore, che patteggiò una pena minima, dichiarando di aver orchestrato un bluff come «strategia di conquista amorosa» della fidanzata, mentre gli altri complici furono scagionati. La Limiti, però, ritiene che il finto golpe di Saxa Rubra servisse «a far credere all’imminenza di colpo di Stato e alla sua concreta possibilità di realizzarsi», per screditare le istituzioni. L’altra grottesca vicenda riguardò un ipotetico golpe «programmato per la fine del 1993 e gli inizi del 1994», nel quale sarebbero stati coinvolti – tra gli altri − i generali Goffredo Canino, Luigi Cantone e Franco Monticone, il tenente colonnello Aldo Michittu, il terrorista tedesco Friedrich Schaudinn, il neofascista Gianni Nardi: quest’ultimo, tuttavia, risultava morto in un incidente stradale avvenuto in Spagna nel 1976. A denunciare la trama eversiva, nell’ottobre 1992, fu Donatella Di Rosa – moglie di Michittu, che confermò le accuse – la quale, secondo l’autrice, era «un agente destabilizzatore […] invischiata negli ambienti eversivi». La donna confessò (ma poi smentì) di essere stata l’amante di Monticone e parlò di un grosso giro di denaro servito per comprare armi e addestrare i mercenari. Nell’ottobre 1993, la Procura di Firenze fece riesumare il corpo di Nardi, sepolto nel cimitero di Palma di Majorca, ma la perizia stabilì che si trattava proprio del cadavere del neofascista. La bizzarra vicenda si sgonfiò e i due coniugi furono arrestati e condannati con l’accusa di calunnia e autocalunnia con finalità eversive. L’autrice è convinta che «le denunce dei Michittu erano fatte ad arte», perché le rivelazioni contenevano insieme «fatti veri, informazioni poco credibili e notizie totalmente false». Lo scandalo servì forse per impaurire e distrarre l’opinione pubblica, mentre «altri ambienti erano molto impegnati a ricostituire un tessuto politico adatto all’Italia nel nuovo ordine mondiale».
La seconda parte de La strategia dell’inganno è dedicata alle pratiche poco ortodosse messe in atto dai cosiddetti “servizi segreti deviati” per depistare le indagini, spiare, intimidire o sopprimere personaggi scomodi. Viene, innanzi tutto, tracciata una breve cronistoria dell’intelligence nostrana a partire dal 1949, quando fu costituito il Servizio Informazioni Forze Armate (Sifar). Nello stesso periodo fu creato anche l’Ufficio Affari Riservati del Ministero degli Interni, che in seguito divenne Servizio di Sicurezza. Dopo il colpo di stato minacciato nel 1964 dal comandante dell’Arma dei Carabinieri Giovanni De Lorenzo (il “Piano Solo” che coinvolse anche il presidente della Repubblica Antonio Segni, costretto a dimettersi), il Sifar fu sciolto e nel 1966 nacque il Servizio Informazioni Difesa (Sid), operativo fino al 1977, che fu implicato nella “strategia della tensione”. Proprio nel 1977 ci fu la prima riforma dei servizi segreti italiani, con la costituzione del Servizio Informazioni e Sicurezza Militare (Sismi) e del già citato Sisde. Le due agenzie investigative furono subito infiltrate dalla loggia massonica Propaganda 2, diretta da Licio Gelli: s’iscrissero, infatti, alla P2 sia il primo direttore del Sismi Giuseppe Santovito, sia quello del Sisde Giulio Grassini. Forse non fu casuale il fatto che, nel marzo 1978, le Brigate Rosse rapirono Aldo Moro e lo tennero in ostaggio per 55 giorni prima di ucciderlo, senza che l’intelligence nostrana riuscisse a liberarlo, nonostante fosse stata probabilmente individuata la prigione di via Montalcini a Roma. Agli inizi degli anni Novanta, sebbene fosse stato costituito il Comitato Esecutivo per i Servizi di Informazione e Sicurezza (Cesis) per vigilare su Sismi e Sisde, l’intelligence italiana si trovò impreparata di fronte alle stragi mafiose. Si prospettò, dunque, una nuova riforma dei servizi, che però fu completata solo nel 2007, con la creazione dell’Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna (Aisi) e dell’Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna (Aise). Nel 1990, Giulio Andreotti − presidente del Consiglio − iniziò la ristrutturazione dei servizi di sicurezza, cercando di «buttare giù i vecchi apparati», che furono poi coinvolti anche nello scandalo dei fondi neri, grazie ai quali vari funzionari del Sisde erano riusciti a «procurarsi cospicui e improvvisi arricchimenti». La parte più retriva dell’intelligence reagì e fece trapelare notizie riservate in merito all’esistenza di un grande quantità di denaro, accumulata «attraverso accantonamenti di somme erogate al servizio». Antonio Galati, funzionario del Sisde, dichiarò che «dal 1982 al 1992 ogni ministro dell’Interno (con l’eccezione di Amintore Fanfani) aveva ricevuto 100 milioni al mese, soldi presi tra quelli accantonati dal servizio». Nell’inchiesta giudiziaria furono coinvolti noti esponenti della Democrazia Cristiana come Antonio Gava, Nicola Mancino, Oscar Luigi Scalfaro e Vincenzo Scotti. Il 3 novembre 1993, Scalfaro − presidente della Repubblica − tenne un discorso televisivo nel quale denunciò un complotto contro le istituzioni democratiche. In seguito, la Procura di Roma archiviò le accuse «ipotizzando la liceità delle donazioni di denaro». Nei servizi di sicurezza erano allora attivi molti “agenti di influenza”, esperti in “operazioni coperte” che erano finalizzate «ad “aggredire” il paese d’interesse, carpendone i segreti […] o influenzandone il processo decisionale». In questa tipologia di persone la Limiti fa rientrare, oltre a Gelli, due nomi di minore importanza: Aldo Anghessa e Gianmario Ferramonti. Il primo, funzionario del Cesis, divenne celebre per il mancato arresto e la successiva fuga dall’Italia del terrorista Schauddin nel 1992. Il secondo, imprenditore informatico, nel 1991 affiancò Umberto Bossi alla guida della Lega Nord (di cui fu anche tesoriere), pilotando la conversione a destra del movimento leghista che determinò nel 1994 la nascita del Polo delle Libertà.
La terza parte del saggio è dedicata alla “strategia della tensione” che ancora una volta sconvolse l’Italia tra il 1992 e il 1994 e che, secondo l’autrice, rientrava nelle tecniche di “guerra non convenzionale” largamente usate durante la Guerra Fredda «per contrastare l’avanzata delle forze comuniste e progressiste». Stefania Limiti denuncia, in particolare, le cosiddette covert actions, cioè le operazioni coperte della Cia, consentite dal National Security Act, un documento del 1947 che riconosce agli Usa il diritto «di influenzare politicamente, economicamente e militarmente Stati esteri». Un esempio di “operazione coperta” si ebbe negli anni Sessanta in Laos, dove fu combattuta una guerra segreta contro i comunisti locali, attraverso l’«uso dei mercenari, omicidi mirati e, soprattutto, addestramento di eserciti locali». Le covert actions sono continuate anche dopo la caduta del Muro di Berlino, come dimostra l’omicidio, avvenuto a Bad Homburg nel novembre 1990, del banchiere tedesco Alfred Herrhausen, che intendeva costruire un’Europa unita senza interferenze da parte della Banca Mondiale. L’attentato fu rivendicato dalla Rote Armee Fraktion (Raf), ma in seguito le dichiarazioni di un terrorista pentito – Siegfrid Nonne – e di un ex agente della Cia – Fletcher Prouty – misero in dubbio l’autenticità della rivendicazione, lasciando trasparire l’ennesima covert action.
Nel 1987, cambiandole proprie simpatie politiche, Cosa Nostra decise «di abbandonare la Dc e dirottare i consensi verso il Psi». I Corleonesi divennero sempre più aggressivi, attaccando apertamente le istituzioni, soprattutto dopo la costituzione della Direzione Investigativa e della Procura Nazionale Antimafia. Dietro gli attentati dei primi anni Novanta, tuttavia, non ci furono solo gli uomini di Riina: nelle stragi di Capaci e di via D’Amelio, infatti, emersero «anomalie rispetto agli schemi comportamentali tradizionali di Cosa Nostra». Proprio questi attentati determinarono l’approvazione da parte del Parlamento del II comma dell’articolo 41-bis del Codice Penale, che andava contro gli interessi dei mafiosi. Secondo le dichiarazioni fornite da vari pentiti e collaboratori (Filippo Barreca, Giovanni Brusca, Salvatore Cangemi, Pietro Carra, Francesco Di Carlo, Antonino Giuffrè, Luigi Ilardo, Nino Lo Giudice, Gaspare Spatuzza), nelle stragi mafiose ci sarebbero state numerose interferenze da parte dei servizi segreti deviati. Alcuni testimoni hanno parlato della partecipazione a vari delitti di mafia di Giovanni Aiello, un ex poliziotto (noto anche come “Faccia di mostro” a causa di una grossa cicatrice che gli deturpava il volto), indicato da Lo Giudice come colui che avrebbe «fatto saltare in aria Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta». Un ruolo importante lo avrebbe svolto anche Paolo Bellini, «un estremista di destra che ha passato la vita a fare l’agente provocatore», il cui apporto fu determinante nell’attentato contro la Galleria degli Uffizi a Firenze. Alla strategia terroristica fornì il proprio contributo anche la ‘ndrangheta, coinvolta «nel progetto politico che puntava alla separazione delle regioni meridionali dal resto del Paese». Non mancarono, del resto, i misteri e le stranezze: alcune della azioni criminali furono rivendicate da una fantomatica organizzazione, la Falange Armata; nel luogo dal quale i killer avevano fatto saltare in aria la macchina di Falcone, fu ritrovato il biglietto da visita dell’agente del Sisde Lorenzo Narracci; l’autobomba esplosa contro l’automobile di Costanzo in via Fauro fu parcheggiata davanti a una sede del Sisde; vari testimoni indicarono la presenza di una enigmatica donna negli attentati di via Fauro, Firenze e Milano. Riguardo alla mancata esplosione dell’autobomba allo stadio Olimpico di Roma, il procuratore antimafia Pietro Grasso ritenne plausibile «l’ipotesi che la strage dell’Olimpico fosse stata fatta fallire di proposito da qualcuno all’interno di Cosa Nostra», perché stavano emergendo nuove forze politiche (come Forza Italia) che avevano stabilito «un rapporto privilegiato con l’ala moderata di Cosa Nostra».
La Procura di Firenze, in verità, indagò sui possibili mandanti politici delle stragi, in particolare su Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, considerati come i nuovi interlocutori di Cosa Nostra, ma l’inchiesta si chiuse nel 1998 con l’archiviazione perché non c’erano elementi sufficienti per suffragare le ipotesi investigative. Stefania Limiti, concludendo la sua attenta disamina del traumatico passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, ritiene che a trarre vantaggio dal terrorismo mafioso furono proprio le forze più conservatrici: «Le stragi intimidiscono le istituzioni, disorientano le forze politiche, generano uno spazio pubblico di caos. E creano gli uomini d’ordine ai quali la massa si affida, invocando la ghigliottina».
La strage di Milano, Firenze, Roma, 27 luglio 1993: tre bombe, dieci morti e il dubbio che non sia stata solo mafia. Un anno dopo l'uccisione di Falcone e Borsellino e due mesi dopo la strage di via dei Georgofili, quello del 27 luglio è il momento più buio della Repubblica. E dalle nuove carte emergono molti nuovi dettagli, scrive Lirio Abbate il 18 luglio 2018 su "L'Espresso". Una ragazza bionda e un uomo scendono da una Fiat Uno parcheggiata vicino al Padiglione d’arte contemporanea a Milano. È il 27 luglio del 1993. Manca meno di un’ora a mezzanotte. Dall’automobile da cui si stanno allontanando a piedi esce del fumo. I due non hanno paura per quello che si lasciano alle spalle, ma di una pattuglia di vigili urbani che va loro incontro in via Palestro. Temono di essere scoperti. E così giocano d’anticipo: richiamano l’attenzione di uno dei due vigili, Alessandro Ferrari, a cui danno l’allarme per il pennacchio di fumo. Poi la bionda e il suo compagno si allontanano in fretta, facendo cadere in trappola l’agente della polizia municipale e mandandolo così a morire. Il fumo arriva infatti da una miccia accesa che innesca quasi cento chili di tritolo sistemati sul sedile posteriore della Uno. Che esplode, provocando una strage. Sono cinque i morti. È il primo botto della serata. Sì, perché in quella sera di venticinque anni fa, pochi minuti dopo una notte in cui esplodono altre due bombe, quasi in contemporanea, non solo a Milano ma anche a Roma, in punti diversi: a piazza San Giovanni in Laterano (danneggiando la Basilica e il Palazzo Lateranense) e pochi minuti dopo all’esterno della chiesa di San Giorgio al Velabro. Si pensò anche a un tentativo di golpe. Fu questa almeno la sensazione dell’allora presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi, a capo di un governo tecnico di transizione. Ciampi temeva che stesse per accadere qualcosa di oscuro per la tenuta democratica del Paese. Per Ciampi si poteva concretizzare il pericolo di un colpo di Stato che nasceva dall’eccezionalità di quegli avvenimenti, compresa l’interruzione delle linee telefoniche di Palazzo Chigi nella notte tra il 27 ed il 28 luglio 1993: un evento che mai prima di allora si era verificato, tanto che l’allora presidente del Consiglio non riuscì a comunicare con i suoi collaboratori o con gli apparati di sicurezza. Un black-out che ancora oggi nessuno ha spiegato. Fu una notte convulsa. Ciampi, parlando poi con i magistrati che hanno indagato sulle stragi, spiegò di «ricordare perfettamente che convocai, in via straordinaria, il Consiglio Supremo di Difesa. Di questa convocazione venne informato anche il Presidente della Repubblica (Oscar Luigi Scalfaro, ndr). Ricordo che, in un clima di smarrimento generale, nel corso di quella riunione qualcuno avanzò l’ipotesi dell’attentato terroristico di origine islamica. Altri, tra cui certamente il Capo della Polizia Vincenzo Parisi, escludevano la fondatezza di quella pista avanzando l’ipotesi della matrice mafiosa». Sì, era stata la mafia. I boss di Cosa nostra dell’area corleonese continuavano ad alzare il tiro contro lo Stato, piazzando bombe davanti ai simboli dell’arte, del patrimonio culturale e della Chiesa, nel tentativo di sovvertire l’ordine costituzionale del Paese. E uccidendo chi si trovava nei paraggi. Le testimonianze raccolte all’epoca dagli investigatori e le indagini avviate anche con il contributo di collaboratori di giustizia, alcuni dei quali si sono autoaccusati di quelle stragi, portano però a considerare l’ipotesi che non sia stata solo la mafia. Che in quegli attacchi di Cosa nostra vi fossero anche elementi esterni all’organizzazione. Uno dei misteri riguarda proprio la donna bionda uscita dall’auto piena di esplosivo in via Palestro, il 27 luglio. Anche i testimoni di via dei Georgofili a Firenze (27 maggio dello stesso anno) parlano della presenza di una donna bionda; e lo stesso è riferito dai testimoni dell’attentato di via Fauro a Roma, quello contro Maurizio Costanzo (14 maggio). Questa signora bionda all’epoca ha meno di trent’anni e di lei esiste un identikit. Tra i numerosi testimoni di via Palestro ce n’è uno che ricorda molto bene la donna, vestita di scuro, accanto alla pattuglia di vigili. L’ha vista parlare con loro. I collaboratori di giustizia invece non hanno mai confermato il coinvolgimento di donne in queste stragi. L’attacco allo Stato aveva una doppia finalità. La prima era orientare la politica in Sicilia verso una prospettiva indipendentista, coltivata come una forma di ricatto nei confronti dei partiti a Roma, che avevano tradito le aspettative della Cupola, prima la Dc e poi il Psi. Il quasi analfabeta Leoluca Bagarella si era dato da fare per formare un nuovo partito politico, “Sicilia Libera”, che avrebbe dovuto far eleggere candidati appartenenti a Cosa nostra. Il secondo obiettivo era una dimostrazione di forza attraverso azioni eclatanti che avrebbero avuto risalto internazionale. In un Paese già scosso, sul piano politico e istituzionale, dalle indagini su Tangentopoli, quelle bombe erano un tentativo di destabilizzare ulteriormente le strutture democratiche. Il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, a conferma del messaggio terroristico che si doveva diffondere con le bombe, ha detto ai pm di essere stato incaricato di imbucare a Roma, subito prima degli attentati del 27 luglio, alcune buste indirizzate al Corriere della Sera e al Messaggero contenenti una lettera anonima, in cui era scritto: «Tutto quello che è accaduto è soltanto il prologo, dopo queste ultime bombe, informiamo la Nazione che le prossime a venire verranno collocate soltanto di giorno ed in luoghi pubblici, poiché saranno esclusivamente alla ricerca di vite umane. P.S. Garantiamo che saranno a centinaia». Restano quindi, anche 25 anni dopo, molte domande. Ci fu un contributo di soggetti esterni a Cosa nostra, ci furono mandanti esterni alla mafia? I clan, attraverso quel programma di azioni criminali dirette a sconvolgere dalle fondamenta l’ordine pubblico, hanno voluto in qualche modo intervenire in un vuoto della politica nazionale per agevolare l’ascesa o la permanenza al potere di soggetti con cui poter interagire in modo proficuo, ristabilendo un rapporto a difesa e protezione degli interessi mafiosi? E quel rapporto era riconducibile a uno scambio che avrebbe dovuto prevedere da una parte un appoggio elettorale e dall’altra qualche intervento abrogativo delle norme contro la criminalità organizzata, come il 41bis per i boss in carcere? Sì, guardando a venticinque anni fa restano ancora tanti gli interrogativi. E tra questi c’è il mistero della mancata strage dello stadio Olimpico a Roma nel gennaio 1994, quando i fratelli Graviano volevano massacrare centinaia di carabinieri impegnati nel servizio d’ordine di una partita di calcio. Il telecomando non funzionò e l’attentato per fortuna fallì. L’episodio può essere letto come l’atto conclusivo di una campagna stragista, che, per le modalità e gli obiettivi avrebbe raggiunto un effetto terroristico-eversivo eccezionale. La decisione di non mettere più bombe dopo quel fallimento era forse una conseguenza dell’evoluzione della politica nazionale? Oppure è legato all’arresto dei fratelli Graviano avvenuto a Milano poche settimane dopo il fallito attentato? Che rapporto c’era tra l’originaria pianificazione di questa strage e il progetto politico, in qualche modo concretamente attuato alla fine del 1993, di dar vita al partito di Cosa nostra, “Sicilia Libera”, con caratteristiche autonomiste e indipendentiste? E perché poi si abbandonò questo progetto per concentrare i voti su vecchie conoscenze, magari transitate verso nuove formazioni politiche come Forza Italia? Il giudice per le indagini preliminari di Firenze che aveva archiviato l’indagine sui mandanti esterni alle stragi in cui erano indagati Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri (riaperta nei mesi scorsi dalla procura) ha scritto: «Le indagini svolte hanno consentito l’acquisizione di risultati significativi solo in ordine all’avere Cosa nostra agito a seguito di input esterni». Chi diede questi input? E perché? Le sentenze, fondate sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, hanno suggerito una parola chiave: “trattativa”. Questa “trattativa” emerge per la prima volta in una sentenza della corte d’assise di Firenze che ha condannato nel giugno del 1998 i boss, mettendo un punto fermo sull’interpretazione da dare a quella tragica stagione di bombe. I 10 morti e 95 feriti complessivi (e i danni al patrimonio artistico) costituiscono l’altissimo prezzo che il Paese ha dovuto pagare ad una strategia messa in atto dagli “specialisti” di Cosa nostra, ma forse pianificata in ambienti collocati al di sopra del sottoscala dove si riuniva la “cupola” composta da Provenzano, Riina, Bagarella e soci. Certo è che dopo il 1994 la campagna terrorista di Cosa nostra finisce. Una campagna che la mafia aveva portato avanti nel tentativo di sovvertire l’ordine costituzionale del Paese, come ha detto il pubblico ministero Gabriele Chelazzi nel processo ai responsabili di quegli attentati del ’93. Resta ancora il dubbio sui veri fini delle azioni, sui veri mandanti. Purtroppo, in molti casi le rivelazioni dei collaboratori di giustizia, le inchieste e i processi hanno chiarito solo in parte i fatti. Un quarto di secolo non è ancora bastato per riempire le caselle ancora vuote e ricostruire la verità che non può essere solo giudiziaria ma anche politica.
Il mistero mai risolto della Falange Armata dietro le bombe del '93. 25 anni fa, con la strage di via dei Georgofili, e gli attentati a Roma e Milano, iniziava la seconda fase terroristica di Cosa Nostra. La storia mai chiarita della sigla oscura che la rivendicava, scrive Federico Marconi il 25 maggio 2018 su "L'Espresso". Sono passati 25 anni da quando duecento chili di esplosivo devastarono il centro di Firenze. Era da poco passata l’una di notte del 27 maggio 1993 quando esplose la bomba posizionata all’interno di un Fiorino bianco parcheggiato in una piccola e stretta stradina chiusa al traffico, via dei Georgofili. L’esplosione costò la vita a cinque persone, 48 rimasero ferite. Crollò la Torre dei Pulci, la Galleria degli Uffizi e il Corridoio Vasariano furono gravemente danneggiati insieme a decine di opere d’arte. Nei concitati minuti successivi all’esplosione, mentre i soccorritori cercavano di salvare le persone residenti nella via, si pensò che la tragedia fosse dovuta ad una fuga di gas. Ma bastò poco per capire che si trattava di un attentato, simile a quello di due settimane prima nel centro di Roma, a via Fauro, dove un’autobomba era scoppiata al passaggio della macchina di Maurizio Costanzo. «Qui a Firenze vedo gli stessi segni. La deformazione delle lamiere, le condizioni delle pareti, tutto uguale» affermava ai cronisti presenti il direttore della Protezione Civile Elveno Pastorelli. «È terrorismo indiscriminato» tuonavano i procuratori fiorentini Pier Luigi Vigna e Gabriele Chelazzi. Poco dopo mezzogiorno la prima rivendicazione con una telefonata alle redazioni Ansa di Firenze e Cagliari: «Qui Falange Armata. Gravissimo errore continuare a negare, confondere e mistificare da parte degli organi investigativi e inquirenti le nostre potenzialità politiche e militari. Eccovene un’altra testimonianza». Oggi sappiamo chi sono i responsabili delle bombe sul continente. Da Totò Riina in poi, tutta la cupola mafiosa è stata condannata come responsabile di quella strategia della tensione che sconvolse l’Italia all’inizio degli anni ’90. Stava finendo un’epoca, il potere di Cosa Nostra era fiaccato non solo dalle inchieste giudiziarie della procura di Palermo, ma anche dalla fine del mondo della Guerra Fredda e dalla scomparsa dei referenti politici che avevano permesso e protetto l’ascesa criminale della mafia siciliana. E mentre i boss trattavano con pezzi dello Stato, com’è stato appurato dalla sentenza del tribunale di Palermo del 20 aprile, seminavano sangue, paura, terrore, per alzare la posta in gioco. Sono ancora molti i misteri che avvolgono quella drammatica stagione della storia del nostro Paese. E uno di questi riguarda la Falange Armata: una sigla terroristica che ha rivendicato tutte le bombe mafiose del ’92-’93, ma anche omicidi, rapine, attentati in tutto il Paese. Di tutto e di più. Tanto che, contando le sole rivendicazioni, avremmo di fronte una tra le più temibili organizzazioni terroristiche della storia italiana.
25 ANNI DI RIVENDICAZIONI. La prima rivendicazione della Falange Armata è datata 27 ottobre 1990. Alle 12.20 la redazione bolognese dell’Ansa riceve la telefonata di un uomo con un forte accento straniero: intesta alla “Falange Armata Carceraria” la responsabilità dell’omicidio di Umberto Mormile. L’educatore carcerario del carcere di Opera era stato ucciso l’11 aprile 1990 a Carpiano, nel milanese, freddato da sei colpi di pistola sparati da due sicari della ndrangheta. La sua condanna a morte era stata firmata dai boss della potente cosca calabro-lombarda Domenico e Rocco Papalia. Mormile fu ucciso per aver negato un permesso al boss, che all’epoca era solito tenere colloqui con uomini dei servizi segreti. E furono proprio questi a indicare a Papalia la sigla con cui rivendicare l’attentato: «Antonio Papalia, parlò con i servizi che, dando il nulla osta all’omicidio Mormile, si raccomandarono di rivendicarlo con una ben precisa sigla terroristica che loro stesso indicarono. Ecco la risposta alla domanda che mi avete fatto con riferimento alla rivendicazione “Falange Armata” dell’omicidio Mormile» ha dichiarato il collaboratore di giustizia Vittorio Foschini il 26 aprile 2015. Dopo la prima telefonata ne seguirono decine e decine. Il 5 novembre 1990, la Falange rivendica l’omicidio a Catania degli industriali Francesco Vecchio e Alessandro Rovetta. Nel corso della chiamata all’Ansa di Torino, il telefonista anonimo fa riferimento anche all’operazione del 10 ottobre a via Monte Nevoso a Milano, in cui furono ritrovate – 11 anni dopo la prima perquisizione – nuove pagine del memoriale e delle lettere di Aldo Moro: «Moretti e Gallinari sanno molto di più e così pure i servizi segreti». All’inizio del 1991 viene rivendicata la strage del Pilastro, a Bologna, in cui persero la vita tre carabinieri. L’attentato fu uno dei tanti per cui furono condannati i membri della banda della Uno bianca e che insanguinarono l’Emilia a cavallo tra anni ’80 e ’90. Vengono minacciati poi nuovi attentati al presidente della Repubblica Francesco Cossiga, al direttore generale degli Istituti di pena Nicolò Amato, al giornalista Giuseppe D’Avanzo, alle redazioni de la Repubblica e l’Espresso. Sono annunciate nuove scottanti rivelazioni sulla strage di Bologna del 2 agosto 1980: ma non verranno mai diffuse. Il 14 agosto viene rivendicato l’omicidio del giudice Scopelliti, il 6 ottobre quello dell’avvocato Fabrizio Fabrizi a Pescara, il 22 l’uccisione del maresciallo dei vigili urbani di Nuoro Francesco Garau. Il 3 novembre Falange Armata si intesta anche la responsabilità dell’attentato alla villa di Pippo Baudo: ««Il significato politico che abbiamo inteso conferire all’azione condotta ai danni della villa del signor Baudo a Santa Tecla, ritenevamo che almeno lui, uomo di spettacolo, ma anche di politica, non sarebbe dovuto risultare del tutto incomprensibile, così com’è apparso» afferma all’Ansa il solito telefonista anonimo. Tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992 Falange Armata fa propri gli attentati dinamitardi presso il commissario di Polizia di Bitonto, in Puglia, presso la sede del Comune di Taranto e una bomba sulle ferrovie salentine. La sigla rivendica poi tutti gli attentati eccellenti del ’92 - l’omicidio di Salvo Lima e del maresciallo Giuliano Guazzelli, le bombe di Capaci e via D’Amelio - e le stragi di Firenze, Roma e Milano del 1993. Tra gennaio e dicembre del 1994 viene rivendicato il duplice omicidio vicino Reggio Calabria degli appuntati dei carabinieri Antonino Fava e Giuseppe Garofalo, e altri due attentati a pattuglie di militari che riescono fortunatamente a salvarsi. Aumentano nel tempo le minacce: al neo presidente della Repubblica Scalfaro a quello del Senato Spadolini, al capo della Polizia Parisi e ai giudici Di Pietro e Casson. E poi tanti politici: Mario Segni, Claudio Martelli, Achille Occhetto e Massimo D’Alema, Silvio Berlusconi, Alessandra Mussolini e Umberto Bossi, definito nelle telefonate «utilissimo buffone [...] pagliaccio finto, ma provvidenziale». Il 20 dicembre del 1994 il segretario del Carroccio riceve anche una lettera minatoria: «Se il governo che tutti noi – tu compreso – abbiamo voluto salterà, la nostra rappresaglia non avrà limiti». Il governo è quello eletto in primavera, con premier Silvio Berlusconi. Le telefonate continuano anche nella seconda metà degli anni ’90, dopo la fine della strategia stragista di Cosa Nostra. Sempre minacce e rivendicazioni: come il furto di due Van Gogh e un Cezanne dalla Galleria di Arte Moderna di Roma o il ritrovamento di un’autobomba davanti al Palazzo di Giustizia di Milano nel 1998. O ancora l’omicidio di Massimo D’Antona nel 1999. Con il nuovo millennio le chiamate si diradano fino a terminare: nemmeno una tra il 2003 e il 2014. L’ultima minaccia è del 24 febbraio di quell’anno in una lettera arrivata al carcere milanese di Opera e indirizzata al capo dei capi, Totò Riina: «Chiudi quella maledetta bocca. Ricorda che i tuoi familiari sono liberi. Per il resto stai tranquillo, ci pensiamo noi».
LE DUE MAPPE CHE COINCIDONO. Ma chi erano i falangisti? Il fascicolo aperto dalla Procura di Roma dopo le prime telefonate, seguito dal pm Pietro Saviotti, è stato archiviato, mentre l’unica persona accusata di essere uno dei telefonisti anonimi, l’operatore carcerario Carmelo Scalone, è stato protagonista di una controversa vicenda giudiziaria. Dopo l’arresto del 1993, Scalone fu condannato nel 1999 in primo grado a tre anni di reclusione, prima di essere scagionato da tutte le accuse in Appello e Cassazione: ricevette anche un indennizzo di 35 mila euro dallo Stato per ingiusta detenzione. Calò poi il silenzio sulla Falange Armata. Fino al 2015, quando è stato chiamato a testimoniare al processo sulla trattativa Stato-Mafia Francesco Paolo Fulci. Diplomatico di lunga data, Fulci è stato il capo del Cesis, l’organismo di coordinamento tra il servizio segreto civile e militare, dal maggio 1991 all’aprile 1993. L’ambasciatore era stato fortemente voluto dall’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti per gestire una fase delicata della vita dei Servizi, travolti dagli scandali dei fondi neri del Sisde e dalla comunicazione dell’esistenza di Gladio. Fulci stesso finì nel mirino della Falange Armata, da cui fu ripetutamente minacciato. Per questo fece condurre alcuni accertamenti: «Chiesi a Davide De Luca (analista del Cesis, ndr) di verificare da dove partivano questi messaggi della Falange Armata» ha dichiarato Fulci di fronte ai giudici di Palermo, «lui venne da me con l’aria preoccupata portando due mappe: da dove partivano le telefonate e dove erano le sedi periferiche del Sismi. Le due mappe erano sovrapponibili». Subito dopo la strage di via Palestro del 27 luglio 1993, Fulci consegnò al comandante generale dei Carabinieri Federici, una lista di quindici ufficiali e sottoufficiali del servizio segreto militare, «per scagionare i servizi da ogni accusa». I quindici nomi erano di alcuni appartenenti alla VII divisione del Sismi, quella incaricata di gestire i rapporti con quella Gladio di cui a inizio degli anni ’90 era stata svelata l’esistenza. La VII divisione era composta da un gruppo di super agenti, gli Ossi (Operatori Speciali Servizio Italiano), addestrati ad operazioni di guerra non ortodossa e all’uso di esplosivi. Per questo, sempre ai giudici di Palermo, Fulci dirà: «Mi sono convinto che tutta questa storia della Falange Armata faceva parte di quelle operazioni psicologiche previste dai manuali di “Stay Behind” (nome di Gladio, ndr)» Gladio però era stata smantellata nel 1990, come è possibile che fosse dietro la Falange Armata? «Sarà stato qualche nostalgico», l’opinione dell’ex ambasciatore.
COSA NOSTRA, NDRANGHETA E SERVIZI SEGRETI. La scorsa estate si sono di nuovo accesi i riflettori su questa organizzazione misteriosa grazie alla Procura di Reggio Calabria e all’inchiesta “Ndrangheta stragista”, con la quale sono stati individuati come mandanti degli attentati contro i carabinieri del 1994 i boss calabresi Antonio e Rocco Santo Filippone e il siciliano Giuseppe Graviano. La vicenda era stata riportata al centro delle investigazioni da un atto di impulso della procura nazionale antimafia firmato dal magistrato Gianfranco Donadio. Sono proprio i Graviano, legati alle ndrine tirreniche, a chiedere ai Filippone di partecipare alla strategia stragista voluta da Totò Riina per garantire gli interessi mafiosi in quel periodo di passaggio della vita politica italiana che si sarebbe concluso con le elezioni del 28 marzo 1994. I tre attentati, che costeranno la vita a due carabinieri, furono rivendicati dalla Falange Armata. E nelle pagine dell’ordinanza di custodia, firmata dai procuratori Federico Cafiero De Raho e Roberto Lombardo, è scritto che dietro alla sigla si celava «un gruppo – o forse più di un gruppo – di soggetti che aveva pianificato, fin dagli albori, in modo attento e meticoloso, una utilizzazione strumentale ai propri fini della sigla terroristica in esame che aveva inventato e dato (anche, ma per nulla esclusivamente) in “sub-appalto” ad entità criminali e mafiose»: «La Falange Armata utilizzava le stragi e i gravissimi delitti commessi da altri per rivendicarli (o farli rivendicare con tale sigla), per circonfondersi di un alone di misterioso terrorismo, in grado di atterrire, intimidire, condizionare e perseguire, per questa via, proprie finalità». Finalità che non erano né economiche, né ideologiche, ma politiche, «espressione di una sordida lotta per il potere». E i soggetti che stavano dietro Falange Armata erano «inseriti in delicati apparati dei gangli statali». Cosa Nostra decise di utilizzare la sigla Falange Armata nell’estate del 1991, durante le riunioni di Enna, in cui si pianificò la strategia del terrore per dare uno scossone allo Stato. Uno dei testimoni, Filippo Malvagna, ricorda: «Furono i corleonesi – ed in particolare Totò Riina – a dire, ad Enna, che tutti gli attacchi allo Stato dovessero essere rivendicati “Falange Armata”». Ma come nel caso dell’omicidio Mormile, anche in questo caso fu un entità esterna a suggerire a Cosa Nostra di utilizzare la Falange Armata per rivendicare le stragi. «L’idea di rivendicare minacce, attentati, delitti contro figure istituzionali con la sigla Falange Armata» scrivono i magistrati reggini «è stata il parto di alcuni appartenenti a strutture deviate dello Stato». Le stesse strutture già citate dall’ambasciatore Fulci: «Il loro nucleo era costituito da una frangia del Sismi e segnatamente, da alcuni esponenti del VII reparto [...] che avevano operato per anni agli ordini di Licio Gelli». Lo stesso Gelli che in quegli anni tramava con mafiosi ed estremisti di destra al progetto delle leghe meridionali, sul modello del Carroccio padano, per chiedere l’indipendenza del Sud dal resto del Paese. Mafiosi, ndranghetisti, agenti speciali dei servizi segreti: il mistero ancora avvolge la Falange Armata, l’organizzazione senza appartenenti che rivendicava gli attentati di tutti.
Lo Stato “contro natura”. L’indagine della Dda di Reggio Calabria (ri)svela il matrimonio tra apparati statali marci e mafie, scrive il 31 luglio 2017 Roberto Galullo su "Il Sole 24 ore". La natura del genere umano è progredire, sperimentare e inventare ciò che può migliorare la vita stessa, aiutato in ciò, oltre che dall’intelligenza, il dialogo ed il confronto, anche dalla scienza e, per chi crede, dalla fede. E’ così da sempre in tutti i campi e in ogni settore della vita. A volte lo Stato si comporta contro natura. A volte la magistratura si comporta contro natura. E, contro natura, si comporta anche la libera informazione il cui compito dovrebbe (lo è sempre meno) condire la crescita della società, inseguendone i difetti ed esaltandone i pregi. Inutile girarci attorno: mi riferisco – da ultimo ma solo da ultimo – all’indagine della Procura di Reggio Calabria che ha ripreso, ampliandola e dandole rinnovata forza la precedente indagine Mammasantissima (ma sarebbe più corretto dire tutto ciò che è confluito nel procedimento Gotha) e Sistemi criminali del 1998 in quel di Palermo avviata da Roberto Scarpinato e proseguita da Antonio Ingroia che il 21 marzo 2001 dovette chiederne l’archiviazione giocoforza. Ebbene, cosa ci dicono in estrema sintesi queste indagini: che le mafie non sono più (per quel che mi riguarda non sono mai state) coppola e lupara ma evoluti sistemi criminali che trovano ed offrono una sponda alle parti spurie e marcie dello Stato. Un matrimonio di interessi – non certo di amore – che può essere sublimato e far raggiungere un intenso orgasmo ai copulatori, quando le mafie diventano un sol corpo ed una sola anima con lo Stato deviato. Ora, senza allontanarci tanto da questo esempio terra-terra, le indagini a cui ho fatto riferimento ci raccontano in maniera plastica che lo Stato va contro natura quando, anziché progredire, migliorare, evolvere, ha delle componenti marce che lo ancorano allo status quo.
Volete un esempio? Ve lo faccio subito. A pagina 19 dell’ordinanza firmata dal Gip Adriana Trapani, che ha accolto e valorizzato la tesi della Dda reggina – capo della Procura Federico Cafiero De Raho, procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e, dalla Dna, il sostituto procuratore nazionale Francesco Curcio, che hanno ricostruito la “Cosa unica”, che entra in azione quando lo Stato deve essere prima destabilizzato e poi stabilizzato – si legge una cosa molto ma molto interessante. «Così come per Cosa Nostra il procedere del maxi processo verso le condanne definitive era stato il preoccupante annuncio dell’inizio di un declino inarrestabile – si legge testualmente nel provvedimento – così per alcuni settori di tali apparati, lo smantellamento di Gladio (autunno 1990) era stato, per alcuni esponenti degli apparati di sicurezza e i loro sodali, ma sarebbe meglio parlare dei manovratori di costoro (vedremo come si giungerà ad individuare in non identificati appartenenti della 7 Divisione del Sismi e nel residuo, ma pervicace, piduismo gelliano il nucleo di tali forze), il segnale di un intollerabile ridimensionamento del proprio potere. Insomma, le mafie e le descritte schegge infedeli di apparati statali, sembravano accomunati, in quegli anni, ad uno stesso destino: i nuovi equilibri geo-politici stavano mutando i meccanismi di un sistema in cui erano prosperate. La loro sopravvivenza era quindi legata alla necessità di impedire che quei cambiamenti travolgessero quel sistema. Insomma, entrambe, cercavano il mantenimento dello status quo. Inteso, però, non attraverso la conservazione, al posto di comando, degli stessi uomini e delle stesse formazioni politiche (che, anzi si intendeva liquidare perché non più utili e spendibili), ma al contrario, attraverso l’ennesima applicazione dell’eterno adagio gattopardesco, “per cui si deve cambiare tutto affinché nulla cambi”. Si dovevano rinnovare del tutto le rappresentanze politiche, affinché, quelle oramai logore della prima Repubblica, fossero sostituite da nuovi partiti e nuovi uomini che continuassero a garantire l’egemonia mafiosa nelle regioni meridionali. E mentre le stragi e la strategia della tensione sarebbero stati un perfetto acceleratore di questo finto ricambio, le mafie, non senza il contributo di altre e diverse forze occulte (come si vedrà in dettaglio, sia paramassoniche piduiste che della destra eversiva) preparavano, attraverso il leghismo meridionale (che si saldava a quello settentrionale) la finta-nuova classe politica etero diretta, che aveva la precipua mission di garantire ‘ndrangheta, Cosa Nostra e le altre mafie». Che le mafie abbiamo come solo e unico obiettivo “sociale” quello di cristallizzare e conservare lo status quo è ovvio quanto lo è la genialità del calcio dipinto per 25 anni da Francesco Totti. Le mafie vivono e prosperano in un perimetro di regole che non cambiano o, se cambiano, è solo per agevolarne il cammino di corruzione e sopraffazione. Che una parte dello Stato, invece, ancori le proprie radici a quelle delle mafie per mantenere quello status quo che legittima gli uni e gli altri in un nodo mortale per la democrazia, lo trovo contro natura. Chi la pensa diversamente alzi la mano ma sappia che domani (e per tutta la settimana) aggiungerò nuovi elementi e riflessioni.
Stato “contro natura”. La Dda di Reggio Calabria svela la piaga purulenta all’interno dei servizi segreti: la Falange Armata, scrive l'1 agosto 2017 Roberto Galullo su "Il Sole 24 ore". Cari lettori di questo umile e umido blog, da ieri vi sto raccontando quando e come lo Stato, la magistratura e l’informazione vanno contro la propria natura che è quella di far evolvere una società, garantirne la giustizia e assicurare la conoscenza dei fatti. Lo faccio prendendo spunto dall’ultima e fondamentale indagine della Procura di Reggio Calabria (capo della Procura Federico Cafiero De Raho, procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e, dalla Dna, il sostituto procuratore nazionale Francesco Curcio), che hanno ricostruito la “Cosa unica”, che entra in azione quando lo Stato deve essere prima destabilizzato e poi stabilizzato. Tutto deve cambiare affinché nulla cambi, scrive testualmente la Gip Adriana Trapani che ha firmato l’ordinanza contro Rocco Santo Filippone (‘ndrangheta) e Giuseppe Graviano (Cosa nostra). Ieri ci siamo fermati al matrimonio tra mafie e apparati dello Stato marcio per garantire lo status quo. Nulla di più logico per le mafie. Nulla di più aberrante e contro natura per lo Stato. Ci siamo (sof)fermati sulla 7ma Divisione del Sismi che, secondo le indagini reggine, era avvinto come l’edera ai residui del piduismo “gelliano”. Ma cos’era ‘sta 7ma Divisione del Sismi? Si trattava della Divisione dell’ex servizio di sicurezza che manteneva i collegamenti operativi con Gladio, il gruppo che aveva creato la sedicente Falange Armata. Breve inciso: Gladio era un’organizzazione paramilitare clandestina italiana di tipo stay-behind (“stare dietro”, “stare in retroscena”) promossa dalla Nato e organizzata dalla Cia per contrastare un’ipotetica invasione dell’Europa da parte della ex Unione Sovietica e dei paesi aderenti al Patto di Varsavia. Venne svelata bel ’90 ufficialmente da Giulio Andreotti che parlò di una struttura di informazione, risposta e salvaguardia. La Falange Armata, invece, ve la descrivo con le conclusioni alle quali giunge il Gip Trapani: «… la Procura condensa le proprie conclusioni in merito alla ideazione e all’utilizzo della sigla Falange Armata, inizialmente adottata da Cosa Nostra per nascondere la sua presenza dietro le azioni stragiste. Le ragioni dell’utilizzo di tale sigla miravano ad impedire che gli attentati fossero immediatamente ricondotti alle mafie. Se così fosse stato, le condizioni per ricattare lo Stato non ci sarebbero più state, in quanto si sarebbe trattato di un ricatto palesemente firmato. Attraverso un mirato approfondimento e richiamando i dati sopra esposti, la Procura conclude collegando tale sigla ai servizi deviati, in quanto ideata ed utilizzata da appartenenti infedeli ai Servizi di Sicurezza, sia per regolare conti interni ai servizi stessi, sia per essere messa a disposizione, inizialmente in funzione di depistaggio, delle azioni criminali eseguite delle organizzazioni mafiose. Significativa, in tal senso, è la vicenda sopra esaminata di Paolo Fulci. Filoni d’indagine — autonomi e distinti — su Cosa Nostra, sulla ‘ndrangheta e sul Sismi consentono, pertanto, di giungere a tale conclusione». Quindi qui abbiamo già uno Stato “contro natura” sviscerato da alcuni magistrati e avallato da un giudice terzo ma torniamo alla 7ma Divisione del Sismi, dalla quale eravamo partiti. Per farlo torniamo a quel nome appena accennato sopra, quello di Paolo Fulci, ex ambasciatore che era stato, dopo una lunga e brillante carriera in diplomazia, Segretario generale del Cesis – organismo di controllo e coordinamento dei due servizi d’informazione “operativi” dell’epoca (il Sisde ed il Sismi) – fra il maggio 1991 e aprile 1993 e poi, della Dna. La Procura di Reggio Calabria ha dapprima acquisito la lunga deposizione, che aveva ad oggetto proprio la Falange Armata, resa da Fulci alla Dda di Palermo il 4 aprile 2014 e poi ha acquisito un articolato carteggio, composto da informative della Digos e documenti forniti all’aurorità giudiziaria dai servizi d’informazione e dal Cesis sul medesimo oggetto. La deposizione di Fulci alla Dda di Palermo fu particolarmente lunga. Fulci, poco dopo avere informato (in modo non dettagliato) il Comandante dell’Arma dei carabinieri dell’epoca e, ben più sommariamente, i suoi referenti politici – vale a dire i Presidenti del Consiglio in carica e quelli che gli avevano dato il mandato (il Presidente Giulio Andreotti con l’avallo dell’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga) – dopo che nell’aprile 1993 lasciò l’incarico si recò a svolgere funzioni diplomatiche oltreoceano. Vennero poi sentiti, il suo capo-gabinetto – generale Nicola Russo – e altri collaboratori, dalla Digos di Roma su delega della locale Procura. In buona sostanza, emerse che Fulci, dopo accertamenti interni fatti svolgere da personale di sua fiducia, avesse richiesto, al comandante generale dei Carabinieri di dare impulso ad attività d’indagine su circa 15 funzionari del Sismi, che prestavano servizio presso il nucleo Ossi, una sorta di gruppo di elite della Divisione del Sismi, in quanto a suo giudizio probabili o possibili appartenenti alla sedicente Falange armata (che pure aveva minacciato Fulci), una sorta di struttura occulta dei servizi deviati che svolgeva una campagna di “intossicazione”, disinformazione e aggressione ad esponenti istituzionali, che si poneva in continuità con la politica piduista dei vecchi apparati Sid/Sifar. Il generale Russo, in particolare — che non aveva partecipato alle attività di accertamento in questione, promosse da Fulci, si legge testualmente nel provvedimento firmato dal Gip Trapani — in via generale, nel corso della escussione del 3 luglio 1993 alla Digos di Roma, ribadì che Fulci legava le attività di minaccia, rivendicazione ed intimidazione della Falange, al tentativo di infangare e intimorire tutti i soggetti di rilievo istituzionale o pubblico che avevano evidenziato perplessità sulla cd Operazione Gladio individuando, anche legami fra, questa e la P2. Nel corso delle successive indagini, venivano approfonditi ulteriori aspetti e profili dei collegamenti Falange/7ma Divisione derivanti da quelle che erano state le dichiarazioni di Fulci. Ma questo lo leggeremo domani.
Stato “contro natura”. Nella stagione stragista Licio Gelli aveva in mano le mafie e i servizi deviati. Potevano vivere Falcone e Borsellino? Scrive il 2 agosto 2017 Roberto Galullo su "Il Sole 24 ore". Cari lettori di questo umile e umido blog, da ieri vi sto raccontando quando e come lo Stato, la magistratura e l’informazione vanno contro la propria natura che è quella di far evolvere una società, garantirne la giustizia e assicurare la conoscenza dei fatti. Lo faccio prendendo spunto dall’ultima e fondamentale indagine della Procura di Reggio Calabria (capo della Procura Federico Cafiero De Raho, procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e, dalla Dna, il sostituto procuratore nazionale Francesco Curcio), che hanno ricostruito la “Cosa unica”, che entra in azione quando lo Stato deve essere prima destabilizzato e poi stabilizzato. Tutto deve cambiare affinché nulla cambi, scrive testualmente la Gip Adriana Trapani che ha firmato l’ordinanza contro Rocco Santo Filippone (‘ndrangheta) e Giuseppe Graviano (Cosa nostra). Abbiamo fin qui analizzato il matrimonio tra mafie e apparati dello Stato marcio per garantire lo status quo. Va ora segnalato un dato di eccezionale rilievo che va ben al di là delle stesse coraggiose dichiarazioni dell’ex ambasciatore Fulci in quanto acquisito in epoca successiva alla cessazione dalla carica al Cesis dello stesso. Come evidenziato in una informativa del Servizio Antiterrorismo, non solo – e non tanto – vi era coincidenza fra le sedi periferiche del Sismi e le celle da cui provenivano le telefonate della Falange Armata ma addirittura da una attenta e scrupolosa ricognizione dei pernottamenti in albergo dei soggetti segnalati da Fulci stesso (appartenenti, come detto, alla 7ma Divisione – Ossi -) risultava che anche da un punto di vista temporale vi era coincidenza fra i soggiorni di molti di costoro e il giorno in cui dalla cella della località ove si trovavano, erano partite le minacce falangiste. Lo stesso servizio Antiterrorismo, infine, nella nota segnalava come fosse evidente, con riferimento alle minacce subite da Fulci della Falange Armata, ancora prima che prendesse servizio al Cesis e ancora prima che fosse nota la sua nomina, la riconducibilità delle minacce in questione ad appartenenti ai servizi. Secondo la Procura di Reggio Calabria e il giudice Trapani che ha firmato l’ordinanza, c’è un altissimo grado di probabilità che la Falange Armata fosse una sigla riconducibile ai cosiddetti servizi deviati. Tre filoni d’indagine – autonomi e distinti – su Cosa Nostra, sulla ‘ndrangheta e sul Sismi consentono di giungere alla stessa conclusione. Il filone investigativo sul Sismi consente di precisare che la struttura deviata si annidava all’interno della 7ma Divisione (scolta nel 1993) del Sismi. Si trattava della Divisione che si occupava di Gladio e che, non diversamente dalle mafie, vedeva messa in discussione la sua mission nel nuovo periodo storico che si andava ad aprine nei primi anni Novanta. «Non sappiamo chi, all’interno di tale divisione abbia in concreto operato a tale fine, ma le tracce processuali che si aveva il dovere di seguire portano fino a quella porta», si legge nel provvedimento. Questi soggetti, legati alle vecchie strutture dei servizi in mano a Licio Gelli, che non a caso tutelavano, concordarono – fra il 1990 ed il 1991 – con le principali mafie, Cosa Nostra, ‘ndrangheta, l’utilizzo della sigla Falange Armata nella rivendicazione di efferati delitti e stragi. Come sappiamo, negli anni successivi, ci sarebbero state sia le stragi che le rivendicazioni. Il contatto e l’accordo in questione era parallelo a quello storico che vedeva, ancora una volta, protagonisti Gelli e le mafie, nel lancio delle cosiddette liste autonomiste e andava oltre. Gli elementi indiziari convergenti consentano infatti di tracciare un legame fra Gelli e la strategia stragista nel suo complesso. Per ora mi fermo ma domani si prosegue.
Parla l’avvocato dei boss: «Ecco i misteri di via D’Amelio che non conoscete». La guerra intestina tra Riina e Provenzano, il depistaggio di Vincenzo Scarantino, le lacune delle inchieste. E la domanda più inquietante: fu davvero una 126 ad esplodere in via D’Amelio? Il racconto dell’avvocato Rosalba Di Gregorio a Manuel Montero su “Fronte del Blog” il 30 agosto 2014. Dal suo ufficio i boss sono passati in massa. Il primo fu Giovanni Bontate, fratello di Stefano, alias il Principe di Villagrazia e gran capo di Cosa Nostra prima che i Corleonesi lo ammazzassero dando vita alla seconda guerra di mafia. Poi ci furono i Vernengo e Francesco Marino Mannoia. E ancora Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore, Michele Greco detto il Papa della mafia. E ora Bernardo Provenzano, Binnu u tratturi. Dallo speciale osservatorio che si è costruita, l’avvocato Rosalba Di Gregorio ha potuto raccontare così l’ “altra faccia” delle stragi. E lo ha fatto con Dina Lauricella nel libro non a caso intitolato “Dalla parte sbagliata” (Castelvecchi), un volume che rappresenta un pugno nello stomaco per chi (quasi tutti, in verità) ritiene il 41bis un regime di detenzione degno di una società civile: ne narra gli orrori da Guantanamo, le inutili crudeltà, le indescrivibili pressioni fisiche e psicologiche. Fatte anche su chi, come abbiamo scoperto di recente, ci è finito dentro per quasi vent’anni da innocente: i sette malcapitati trascinati al 41bis dal falso pentito di via D’Amelio, Vincenzo Scarantino. Ma il libro fa molto di più: mette a nudo le pecche dei pentiti, chi tra loro confessa a rate lunghissime, chi di volta in volta aggiunge, sottrae e corregge le versioni senza mai pagarne il conto. Col rischio che raccontino storie molto lontane dalla realtà. Ma è proprio sulla vicenda di Scarantino che il legale può illuminarci, dato che, alcuni di quei malcapitati innocenti, li difendeva lei.
Lei dice che si vedeva subito che le dichiarazioni di Scarantino erano una farsa.
«L’unico riscontro che esisteva alle sue parole era la 126 esplosiva che uccise Paolo Borsellino e la sua scorta. Tutto il resto erano cose surreali. Spiegò che la decisione di uccidere il magistrato era avvenuta in casa di un uomo, tale Giuseppe Calascibetta, intorno al 25 giugno 1992, a cui parteciparono capi di Cosa Nostra di qualsiasi grado, cosa già di per sé impossibile. Ma incredibile è il fatto che fu creduto quando disse di averlo sentito perché lui, che doveva aspettare fuori, ad un certo punto, avendo sete, entrò a prendere in frigorifero una bottiglia d’acqua. Anziché fermarsi o cacciarlo o qualsiasi altra iniziativa, proprio allora tutti avrebbero parlato dell’attentato da fare in via D’Amelio. Ci sarebbe da ridere se non fosse una tragedia. E il guaio è che è il meno».
Cioè?
«Scarantino raccontò le modalità con cui era stato affiliato, una specie di rimpatriata tra amici, finita al ristorante. Non era incredibile solo la narrazione, ma proprio lui, che aveva rapporti con una transessuale, cosa che un uomo d’onore non avrebbe fatto mai. Non riuscivo a credere che i magistrati lo ritenessero attendibile. E infatti non lo era. Ma quando raccontò delle torture subite per farlo confessare nessuno gli diede retta, anzi…»
Lei scrive che voi avvocati foste accusati dai giudici di cambiare le carte in tavola, per usare un eufemismo…
«Fosse solo questo. I pm Anna Palma e Nino Di Matteo ci denunciarono due volte per il caso Scarantino. La prima volta quando scoprimmo l’esistenza di tre confronti che altri pentiti avevano avuto con lui, confronti a lungo negati dai pm. Quando ne chiedemmo l’acquisizione da un altro procedimento, dissero che non servivano. Noi li denunciammo per falso, loro per calunnia. Tutto archiviato. La seconda volta accadde, quando Scarantino ritrattò la sua confessione in aula: due legali furono accusati di essere le menti occulte a disposizione di Cosa Nostra che lo avevano convinto a cambiare idea. Un’altra fesseria, archiviata per buona sorte. Oggi sappiamo che Scarantino davvero era un poveraccio, uno che di mafia non sapeva nulla, neurolabile riformato dal servizio di leva, le cui confessioni erano studiate a tavolino e per arrivare alle quali subì un trattamento orrendo nel carcere di Pianosa».
Cosa sappiamo della strage di via D’Amelio?
«Praticamente dopo tre processi non sappiamo granchè. Non si sa quando avvenne, se avvenne, una riunione deliberativa per deciderne la morte. Non sappiamo il movente. Non sappiamo da dove fu azionato il telecomando esplosivo. Non sappiamo quanti parteciparono, perché ognuno conosceva un segmento delle azioni. Non sappiamo neppure come faceva Cosa Nostra a sapere dell’arrivo di Borsellino proprio quella domenica. Le nuove indagini stanno cercando di far luce, ma sono penalizzate di ventidue anni. E da vari elementi che agli atti non si trovano».
E quelli che hanno partecipato?
«Dicono tutti di aver preso ordini da Salvatore Biondino, di solito definito l’autista di Riina, in realtà il reggente del mandamento di S.Lorenzo, il cui capomandamento Giuseppe Giacomo Gambino, era stato arrestato».
La 126 esplosiva. Nel libro lei esprime dubbi sul fatto che sia stata davvero quella l’arma usata in via D’Amelio.
«Guardi, sulla copertina del libro c’è una foto un po’ ridotta rispetto a quella che ho qui nel mio ufficio, scattata dal palazzo di fronte a quello della sorella del giudice Borsellino. È stata fatta la mattina del 20 luglio 1992. La strada è deserta. Eppure dopo le 13,30 venne recuperato lì, di fianco alla Croma che c’è sulla foto senza nulla intorno, il motore della 126, una cosa da 80 kg, non roba piccola, mi spiego? Ho chiesto di acquisire tutti i filmati e le foto del 19 luglio, il blocco motore non appare da nessuna parte. Nessuno lo vede questo motore, 80 kg che regge in tre processi. Noi sappiamo però quattro cose. La prima è che un pentito, Giovan Battista Ferrante, disse che loro l’esplosivo l’avevano piazzato in un fusto ricoperto da 200 litri di calce e non nella 126. La seconda è che il consulente di parte Ugolini chiese in aula come mai non fosse stato repertato un grosso frammento “stampato” sul cratere dell’esplosione. La terza è che la scientifica di Palermo riempì 60 sacchi della pattumiera con tutto ciò che era stato trovato a terra, ma senza mettere a verbale reperto per reperto inviandole a Roma, a disposizione solo dell’Fbi. La quarta la raccontò Scarantino in aula al momento di ritrattare la confessione. Disse che, quando era sotto protezione, godeva della compagnia sostanziale e inspiegabile dei poliziotti del gruppo d’indagine Falcone-Borsellino. E ricordò che uno di loro gli aveva spiegato come in realtà la 126 fosse stata fatta esplodere in una discarica e i pezzi poi portati lì per incolpare gli imputati. Naturalmente fu giudicata “ridicola” la sua affermazione. Però…».
Però?
«Ci sarebbe una quinta cosa, un’agenzia Ansa scomparsa».
Prego?
«Un’ora dopo la strage uscì un’agenzia nella quale si diceva che grazie ad una felice intuizione investigativa si era scoperto che la causa dell’esplosione era stata un’autobomba 126. Un’ora dopo! Ne feci copia, una per me e una da depositare. La mattina successiva entrai in ufficio ed entrambe erano sparite. L’agenzia sull’archivio Ansa oggi non c’è. D’altra parte c’era confusione. Il pm di turno fu avvisato della strage alle 18,40, quando sulla scena del crimine era entrato l’universo mondo. Solo un quarto d’ora dopo l’area fu recintata. Nel frattempo, mentre in via D’Amelio si addensavano centinaia e centinaia di persone, la polizia aveva capito che l’autobomba era una 126. Non me lo spiegherò mai».
Lei non crede dunque alla ricostruzione di Spatuzza?
«Certo, ma Spatuzza racconta solo del furto della 126. Ciò che accadde una volta consegnata l’auto non può saperlo e infatti non lo dice, perché fu fatto allontanare da Palermo».
Non ritiene valido neppure il teorema Buscetta sull’unitarietà e l’aspetto verticistico di Cosa Nostra.
«Con queste ultime sentenze su via D’Amelio sappiamo che il mandamento della Guadagna, quello di Pietro Aglieri, con le stragi del ’92 e ‘93 non c’entrava nulla. E non poteva che essere così, perché ad Aglieri Riina aveva chiesto di ammazzare uno dei parenti di Totuccio Contorno, condannato a morte dai Corleonesi. Ma Aglieri, quando aveva visto la vittima con il bimbo in braccio si era rifiutato di ucciderlo. Lo riferì a Provenzano e lui fu d’accordo. Ma Aglieri non entrò più nelle grazie di Riina. Fu Borsellino a dire che Riina e Provenzano erano due pugili che si guardavano in cagnesco. Si trattava di un gruppo non più unitario nelle idee e nel metodo. Io l’ho constatato in diverse sentenze, con assoluzioni del gruppo di Provenzano rispetto a fatti in cui quelli di Riina erano stati condannati. Con Riina c’erano Brusca, Graviano e Spatuzza, non Provenzano. D’altra parte il pentito Giuffrè disse che già nel 1989 Riina gli aveva chiesto a che ora Binnu uscisse di casa. Evidentemente perché lo voleva ammazzare».
L’agenda rossa di Borsellino che fine può aver fatto?
«Guardi, intanto Arnaldo La Barbera, il capo della mobile di Palermo e poi del gruppo Falcone-Borsellino, qualche giorno dopo la strage disse che l’ “agenda telefonica” di Borsellino molto probabilmente era andata distrutta nell’esplosione e che non era stata ritrovata. Un’agenda che il sostituto procuratore Ignazio De Francisci diceva essere importantissima. Poi sappiamo che l’agenda marrone era stata ritrovata e, dalla testimonianza del pm dell’epoca Fausto Cardella al Borsellino quater sappiamo che anche l’ “agenda telefonica” è stata infine trovata. Ed era nella borsa di Borsellino apparsa, non si sa come, proprio nell’ufficio di La Barbera. Ecco, intanto sappiamo questo, che La Barbera fosse o meno il collaboratore dei servizi segreti col nome di Rutilius. Ma se per via D’Amelio i misteri sono ancora moltissimi, non è che per la strage di Capaci noi si sappia poi moltissimo».
Cioè?
«Neppure lì sappiamo molto sulla riunione deliberativa per ammazzarlo. Nel senso che una sentenza di Catania che riuniva stralci delle stragi di Capaci e di via D’Amelio colloca la riunione tra il novembre e il dicembre del 1991, basandosi sulle dichiarazioni del pentito Nino Giuffrè. Giuffrè raccontò che nell’occasione si erano ritrovati tutti i capi. E Riina, avendo avuto notizie che il maxiprocesso non sarebbe stato cassato, disse che era arrivata l’ora della resa dei conti. E che era venuto il tempo di ammazzare Lima, Falcone e Borsellino. A marzo, aveva dunque mandato a Roma Gaspare Spatuzza e altri per pedinare Falcone e poi ammazzarlo per vendetta. Senonchè, alla fine, il gruppo era stato chiamato indietro da Biondino perché bisognava fare la strage di Capaci. Come si passa dalla vendetta con un colpo di pistola alla strage di Capaci? Chi, quando, dove, come e perché lo ha deciso? Non si sa».
Riina: mi fece arrestare Provenzano. Avrebbe confidato queste parole al poliziotto Bonafede nel 2013. E sul bacio di Andreotti: «Lei mi vede a baciare quell’uomo? Però sono sempre stato andreottiano», scrive “Il Corriere del Mezzogiorno” il 30 giugno 2016. La cattura, la presunta trattativa e il leggendario bacio ad Andreotti. Al processo Stato-Mafia piombano, e sono sempre macigni, le parole di Totò Riina. Utili per una serie di riscontri. In particolare, vengono riportate le confidenze che Riina avrebbe fatto al poliziotto Michele Bonafede nel carcere milanese di Opera. «A me mi hanno fatto arrestare Bernardo Provenzano e Ciancimino e non come dicono i carabinieri» avrebbe detto l’ex Capo dei capi all’agente il 21 maggio 2013. L’episodio, ricordato oggi dal poliziotto durante il processo Stato-mafia, confermerebbe quanto detto dal figlio di Ciancimino, Massimo, che per primo ha parlato del ruolo del padre e del capomafia di Corleone nella cattura di Riina. Al boss i carabinieri sarebbero arrivati grazie all’indicazione del covo segnata da Provenzano nelle mappe catastali fattegli avere dal Ros attraverso Vito Ciancimino. L’udienza si sta svolgendo nell’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo. «Ma è vera la storia del bacio ad Andreotti?» gli chiese poi l’agente. «Appuntato, lei mi vede a baciare Andreotti? - rispose il boss - Le posso solo dire che era un galantuomo e che io sono stato dell’area andreottiana da sempre». Su un’altra frase del boss, raccolta da Bonafede e da un altro agente, Francesco Milano, il 31 maggio 2013 mentre si recavano nell’aula per le videoconferenze del carcere («Io non ho cercato nessuno, erano loro che cercavano me»), in aula sono emerse due versioni discordanti. Bonafede ricorda che il boss avrebbe aggiunto «per trattare», mentre Milano ha riferito che il capomafia disse in siciliano stretto: «Il non cercai a nuddu (nessuno,ndr), furono iddi (loro, ndr) a cercare a mia (a me, ndr)». Senza aggiungere altro, né spiegare il contesto. «Io sono stato 25 anni latitante in campagna - avrebbe riferito a Bonafede, come scritto dall’agente nella relazione di servizio - senza che nessuno mi cercasse, come è che sono responsabile di tutte queste cose? Nella strage di Capaci mi hanno condannato con la motivazione che essendo il capo di Cosa Nostra non potevo non sapere. Lei mi ci vede a confezionare la bomba di Falcone?». Poi il padrino avrebbe aggiunto: «Brusca non ha fatto tutto da solo. Lì c’era la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l’agenda del giudice Paolo Borsellino. Perché non vanno da quello che aveva in mano la borsa e non si fanno dire a chi ha consegnato l’agenda? In via D’Amelio c’entrano i servizi che si trovano a Castello Utveggio e che dopo cinque minuti dall’attentato sono scomparsi, ma subito si sono andati a prendere la borsa».
Massacri e pizzini, muore Provenzano il padrino dei misteri. Latitante per 43 anni, guidò i corleonesi e trattò con la politica, scrive Francesco La Licata il 13/07/2016 su "La Stampa". Con Bernardo Provenzano scompare l’ultimo padrino «Old style»: il capo, cioè, che preferisce comandare più con la persuasione che col pugno di ferro. Non che non fosse in grado di fare male a chi «deviava», anzi. Solo che lui amava accreditarsi come persona ragionevole. E allora potrebbe trovare una spiegazione la sfilza di nomignoli, anche contraddittori, che il boss si è meritato durante la sua lunga carriera. Il nome che gli rimarrà per sempre è Binnu, diminutivo di Bernardo usato nel Corleonese. Gli amici, i familiari lo hanno sempre chiamato così. Per i sudditi era obbligatorio il don e perciò «don Binnu». Da giovane aveva un temperamento forte e, dunque, non era famoso per le doti di saggezza che gli verranno riconosciute nella maturità. No, lui era famoso come «Binnu ‘u tratturi», per la straordinaria determinazione con cui spianava gli avversari. Nel 1958 aveva 25 anni e, ricordano alcuni pentiti, «sparava come un Dio». Allora, appena tornato dal servizio militare con una lettera di esenzione per inadeguatezza fisica, preferì imbracciare le armi per combattere la guerra privata contro l’esercito del vecchio Michele Navarra, medico, segretario politico della dc e capomafia. Il suo comandante era Luciano Liggio, l’amico del cuore Totò Riina. Il sangue scorreva tra i vicoli di Corleone, Binnu compì veri «atti di valore» e durante un’azione pericolosa rimase ferito alla testa. In ospedale disse che non capiva: «Stavo camminando e ho sentito qualcosa che mi ha colpito al capo». Finì sotto processo con tutti gli altri, Riina compreso, ma al dibattimento di Bari arrivò il «liberi tutti». Ci furono altri morti, ma Binnu si era fatto ancora più furbo e quando lo cercarono era già uccel di bosco. Primavera 1963: ebbe inizio in quella data la lunga latitanza di Provenzano, conclusa a Montagna dei cavalli (Corleone, naturalmente) l’11 aprile del 2006, 43 anni dopo. Clandestinità dorata, attenzione. Perché Binnu si è sempre mosso a suo piacimento: andava a Cinisi, regno di don Tano Badalamenti, perché lì «filava» con Saveria, l’amore della sua vita e la madre dei suoi due figli, Angelo e Francesco. In clandestinità si sono sposati, Binnu e Saveria: rito religioso celebrato da preti compiacenti, matrimonio non registrato, situazione regolarizzata dopo la sua cattura. Una volta preso, gli venne chiesto se fosse coniugato e lui rispose: «Col cuore sì, per la legge no. Ma presto regolarizzerò questa situazione». E così fu: la «messa a posto» avvenne in carcere. Binnu è un maestro della clandestinità: ha abitato a Palermo, a Bagheria, a Corleone; ha girato la Sicilia in lungo e largo, è riuscito a farsi operare alla prostata in una clinica specializzata di Marsiglia, ottenendo persino il rimborso delle spese mediche dalla Asl. Ha viaggiato in barca, dentro un’auto nascosta all’interno di un furgone e nessuno lo ha mai scoperto. Teneva riunioni della cupola nei casolari di campagna e selezionava attentamente gli amici che chiedevano udienza. Con la maturità è cambiato il carattere. L’ultima volta che viene visto in azione come «’u tratturi» era il dicembre del 1969, anno della strage di viale Lazio. Lui, Totò Riina e un gruppo di «corleonesi» massacrano l’odiato Michele Cavataio e i suoi amici: quattro morti, ma muore anche Calogero Bagarella, fratello di Leoluca, luogotenente e cognato di Totò Riina. Quella volta Provenzano finisce Cavataio colpendolo alla testa col calcio della pistola che gli si era inceppata e poi tenta di dargli fuoco. Eccesso di ferocia? Anche di calcolo, visto che si sapeva che Cavataio teneva una lista scritta delle famiglie di Cosa nostra e i relativi adepti. Ecco, quel biglietto andava distrutto. Un lungo periodo di anonimato, poi si saprà agevolato, in qualche modo, dai carabinieri, precede la comparsa dell’«altro» Binnu: l’uomo riflessivo, il principe della mediazione, l’esecutore della «volontà di Dio». Il freddo calcolatore, l’uomo d’affari e, quindi, «’u ragiuniere», affidabile anche per certe istituzioni tolleranti. Il dispensatore di appalti e affari che - al chiuso degli uffici della Icre di Bagheria, un’impresa di proprietà del boss Nardo Greco - pianificava la spartizione dei lavori pubblici ottenuti tramite le sue amicizie politiche. Già, la politica. A differenza di Riina (che non vantava grandi amici), Provenzano un buon protettore, e addirittura complice, lo aveva. Era Vito Ciancimino, democristiano, sindaco e assessore al Comune di Palermo. Erano amici d’infanzia, i due. Racconterà poi Massimo Ciancimino, figlio del sindaco mafioso, che Binnu aveva una vera e propria adorazione per Vito. Si erano conosciuti da piccoli, a Corleone, quando Provenzano (terzo di sette figli) pativa la fame e Vito non gli negava biscotti e una tazza di latte. Da grandi erano rimasti amici: Binnu gli dava del lei e lo chiamava «ingegnere» anche se era soltanto geometra, l’altro gli dava del tu, imponeva la via politica e garantiva l’arricchimento dell’intera consorteria mafiosa attraverso i soldi pubblici. Ma quando Binnu e Vito «correvano» insieme, già una rete di complicità girava intorno a loro. Racconterà Massimo che il padre finì per diventare una specie di anello di congiunzione fra rappresentanti delle Istituzioni (che ambivano di stare a contatto con mafiosi e affaristi) e il vertice di Cosa nostra. Siamo nel periodo delle stragi e della svolta terroristica imposta da Totò Riina. Binnu non l’ha mai condivisa perché convinto, saggiamente, che «non si può fare la guerra allo Stato». Ma poteva esprimere soltanto pareri, visto che il momento delle decisioni spettava al capo, a Totò Riina. Raccontava il pentito Nino Giuffrè che «Provenzano a Riina spesso discutevano e non erano d’accordo, ma non si alzavano dal tavolo se non avevano raggiunto un accomodo». Chissà, forse alla vigilia delle stragi di Falcone e Borsellino, nel 1992, Binnu era riuscito ad ottenere dal capo la possibilità di tirar fuori i familiari. Sarà per questo che donna Saveria, nella primavera di quell’anno, improvvisamente torna a Corleone, riapre la casa degli avi ed esce ufficialmente dalla clandestinità, insieme coi figli che, così, assumono una vera forma. Finiscono di essere dei fantasmi per entrare nell’anagrafe del comune di Corleone, seppure offrendo pochi scampoli di verità sulla loro trascorsa latitanza. È il momento più difficile di Cosa nostra. Riina deve affrontare il suo popolo e convincerlo che non tutto è perduto con quella maledetta sentenza del maxiprocesso voluto da Falcone e Borsellino. Promette che sarà posto rimedio a quella batosta e che i «traditori politici» avranno quello che si meritano. Scatta la rappresaglia: la mafia uccide Ignazio Salvo, il deputato dc Salvo Lima, uccide Giovanni Falcone in quel modo eclatante e, soltanto 57 giorni dopo, mette in scena il bis con l’attentato a Paolo Borsellino. Questo, a sentire i collaboratori di giustizia e le risultanze di importanti indagini, è quanto imposto dalla «linea Riina», con la prudente astensione di Provenzano. Anzi, con l’opposizione sotterranea di Binnu. Così raccontano primattori e comparse dell’indagine che è già sfociata nel processo sulla «trattativa Stato-mafia». Una sceneggiatura che consegna addirittura l’immagine di un Binnu collaboratore dei carabinieri (e quindi risparmiato e tenuto libero), nel tentativo di garantire una pax mafiosa e fermare la follia stragista di Totò Riina, che avrebbe portato anche all’eliminazione fisica di alcuni politici considerati «traditori» rispetto alle promesse fatte e non mantenute. Ma questo è un capitolo ancora aperto e foriero di grandi attriti politico-istituzionali. Ha già provocato feroci discussioni e divisioni un dibattimento che annovera tra gli imputati mafiosi del calibro di Provenzano e Riina, politici come Mannino, poi assolto, Dell’Utri e gli alti ufficiali dei carabinieri Mori e Subranni. Tutti accusati di aver condotto una vera e propria trattativa sulla base anche di richieste ufficiali della mafia, ufficializzate nel cosiddetto «papello», cioè un elenco di benefici (tra l’altro l’alleggerimento del carcere duro, l’abolizione dell’ergastolo, della legge sui pentiti e sul sequestro dei beni ai mafiosi) consegnato allo Stato italiano (attraverso i carabinieri) da Vito Ciancimino, con la «benedizione» di don Binnu. Tutto ciò, ovviamente, ha appannato il prestigio di Provenzano. I suoi amici (in particolare il boss Matteo Messina Denaro) gli hanno addirittura rimproverato poca cautela nella gestione della comunicazione attraverso i suoi famigerati «pizzini». E non si può negare che qualche problema l’ha creato la scoperta dei duecento e più bigliettini trovati nel suo covo di Montagna dei cavalli. Ma quando è stato preso, don Binnu, era già votato alla «pensione». Non era più «u tratturi» e neppure «u ragiunieri»: forse si ritrovava ancora nei panni del vecchio mediatore, nell’intento di poterla sfangare e tramontare senza l’onta e il marchio del collaboratore. I pizzini, infatti, ci lasciano l’immagine che gli è più congeniale. L’eterno «moderato» che proprio se deve ordinare l’esecuzione di qualcuno lo fa congiungendo le mani sul petto e sussurrando: «Sia fatta la volontà di Dio».
Le Iene Show. Puntata del 22 novembre 2016. Matteo Viviani ha intervistato l’ex agente dei servizi segreti noto come Agente Kasper. L’uomo ha ripercorso con la Iena la sua carriera nell’intelligence, le sue esperienze da infiltrato e le operazioni internazionali a cui ha preso parte nel corso della sua vita.
IL MISTERO DI ILARIA ALPI.
Ilaria Alpi. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Ilaria Alpi (Roma, 24 maggio 1961 – Mogadiscio, 20 marzo 1994) è stata una giornalista e fotoreporter italiana del TG3, assassinata a Mogadiscio insieme al suo cineoperatore Miran Hrovatin. Si diplomò al Liceo Tito Lucrezio Caro di Roma. Grazie anche all'ottima conoscenza delle lingue (arabo, francese e inglese) ottenne le prime collaborazioni giornalistiche dal Cairo per conto di Paese Sera e de l'Unità. Successivamente vinse una borsa di studio per essere assunta alla Rai.
L'inchiesta sul traffico di rifiuti in Somalia e la morte. Ilaria Alpi giunse per la prima volta in Somalia nel dicembre 1992 per seguire, come inviata del TG3, la missione di pace Restore Hope, coordinata e promossa dalle Nazioni Unite per porre fine alla guerra civile scoppiata nel 1991, dopo la caduta di Siad Barre. Alla missione prese parte anche l'Italia, superando in tal modo le riserve dell'inviato speciale per la Somalia, Robert B. Oakley, legate agli ambigui rapporti che il governo italiano aveva intrattenuto con Barre nel corso degli anni ottanta. Le inchieste della giornalista si sarebbero poi soffermate su un possibile traffico di armi e di rifiuti tossici che avrebbe visto, tra l'altro, la complicità dei servizi segreti italiani e di alte istituzioni italiane: Alpi avrebbe infatti scoperto un traffico internazionale di rifiuti tossici prodotti nei Paesi industrializzati e dislocati in alcuni paesi africani in cambio di tangenti e di armi scambiate coi gruppi politici locali. Nel novembre precedente l'assassinio della giornalista era stato ucciso, sempre in Somalia ed in circostanze misteriose, il sottufficiale del SISMI Vincenzo Li Causi, informatore della stessa Alpi sul traffico illecito di scorie tossiche nel paese africano. Alpi e Hrovatin furono uccisi in prossimità dell'ambasciata italiana a Mogadiscio, a pochi metri dall'hotel Hamana, nel quartiere Shibis. La giornalista e il suo operatore erano di ritorno da Bosaso, città del nord della Somalia: qui Ilaria Alpi aveva avuto modo di intervistare il cosiddetto sultano di Bosaso, Abdullahi Moussa Bogor, che riferì di stretti rapporti intrattenuti da alcuni funzionari italiani con il governo di Siad Barre, verso la fine degli anni ottanta. La giornalista salì poi a bordo di alcuni pescherecci, ormeggiati presso la banchina del porto di Bosaso, sospettati di essere al centro di traffici illeciti di rifiuti e di armi: si trattava di navi che inizialmente facevano capo ad una società di diritto pubblico somalo e che, dopo la caduta di Barre, erano illegittimamente divenute di proprietà personale di un imprenditore italo-somalo. Tornati a Mogadiscio, Alpi e Hrovatin non trovarono il loro autista personale, mentre si presentò Ali Abdi, che li accompagnò all'hotel Sahafi, vicino all'aeroporto, e poi all'hotel Hamana, dinanzi al quale avvenne il duplice delitto. Sulla scena del crimine arrivarono subito dopo gli unici altri due giornalisti italiani presenti a Mogadiscio, Giovanni Porzio e Gabriella Simoni. Una troupe americana (un freelance che lavorava per un network americano) arrivò mentre i colleghi italiani spostavano i corpi dall'auto in cui erano stati uccisi a quella di un imprenditore italiano con cui successivamente vennero portati al Porto vecchio. Una troupe della Svizzera italiana si trovava invece all'Hotel Sahafi (dall'altra parte della linea verde) e filmò su richiesta di Gabriella Simoni - perché ci fosse un documento video - le stanze di Miran e Ilaria e gli oggetti che vennero raccolti. Ilaria Alpi venne sepolta nel Cimitero Flaminio di Roma.
Il procedimento penale. Il 18 luglio 1998 il sostituto procuratore di Roma Franco Ionta formulò la richiesta di rinvio a giudizio a carico del cittadino somalo Omar Hashi Hassan, accusato di concorso in omicidio volontario aggravato: secondo l'accusa, egli sarebbe stato alla guida della Land Rover con a bordo i componenti del commando che uccise i due giornalisti italiani. Hassan era giunto in Italia l'11 gennaio per essere ascoltato dalla Commissione Gallo in merito alle violenze asseritamente inferte da parte di alcuni militari italiani a diversi civili somali nel corso della Missione Ibis coordinata dall'ONU (UNOSOM I e II); arrivato in Italia, un altro cittadino somalo, Ahmed Ali Rage, detto Gelle, anch'egli convocato dalla procura di Roma per rendere dichiarazioni, riconobbe lo stesso Hassan come uno degli autori dell'omicidio. A seguito delle successive indagini Hassan fu rinviato a giudizio dal giudice per l'udienza preliminare Alberto Macchia. La prima udienza dibattimentale si tenne il 18 gennaio 1999 presso la Corte d'Assise di Roma; il collegio era presieduto da Gianvittore Fabbri. Nel corso del processo, alcuni dei testimoni auditi lasciarono intravedere particolari inquietanti intorno ai possibili legami tra l'assassinio della giornalista e i presunti traffici illeciti di armi e di rifiuti tossici che sarebbero intercorsi tra Italia e Somalia. Il 10 maggio, il presidente del Comitato parlamentare per i servizi di informazione e sicurezza e per il segreto di Stato, Franco Frattini, intervenendo ad una trasmissione televisiva, rilevò come la questione dei traffici illeciti come possibile movente del duplice omicidio fosse "un elemento importante che sta emergendo". Ad accusare Hassan comparve tuttavia un altro testimone chiave: Ali Abdi, l'autista che aveva accompagnato Alpi e Hrovatin dall'aeroporto di Mogadiscio all'hotel Hamana, in prossimità del quale avvenne il brutale delitto. La difesa, da parte sua, chiamò a testimoniare due cittadini somali, i quali asserirono che il giorno dell'agguato l'imputato si trovava presso Haji Ali, a duecento chilometri da Mogadiscio, per visitare un familiare gravemente malato. La perizia della Polizia Scientifica, nel ricostruire la dinamica dell'azione criminale, stabilì che i colpi sparati dai Kalašnikov erano indirizzati alle vittime, poiché sparati a bruciapelo, a distanza ravvicinata; secondo una successiva perizia balistica, invece, i colpi sarebbero stati sparati da lontano, senza che l'omicida potesse avere consapevolezza dell'identità delle vittime. Il 20 luglio 1999 Hassan fu assolto per non aver commesso il fatto: secondo il collegio, Hassan sarebbe stato offerto alla giustizia italiana dal presidente somalo Ali Mahdi "come capro espiatorio" per riallacciare i rapporti tra Italia e Somalia. Hassan, tuttavia, non vene immediatamente scarcerato poiché, nel frattempo, si era aperto a suo carico un processo per violenza carnale, reato asseritamente commesso a danno di una sua connazionale in Somalia. Da tale capo d'accusa sarà assolto il 26 luglio 1999. Rispetto al duplice omicidio, invece, il processo d'appello ebbe inizio il 24 ottobre 2000, presso la Corte d'assise d'appello di Roma; il collegio era presieduto da Franco Plotino. Il secondo grado di giudizio ribaltò le conclusioni del collegio di prime cure: secondo i giudici dell'impugnazione, infatti, sia Gelle che Ali Abdi "sono da considerare attendibili ed entrambi hanno visto l'imputato a bordo della Land Rover prima della sparatoria"; Hassan, ritenuto responsabile del duplice omicidio volontario, con l'aggravante della premeditazione, fu condannato all'ergastolo. Venne inoltre disposta la misura della custodia cautelare in carcere, motivata sulla base del pericolo di fuga. Nel frattempo, tuttavia, Gelle, testimone chiave del processo, si era reso irreperibile, cosicché le sue dichiarazioni furono ritenute irripetibili e fu in tal modo precluso l'esame incrociato. Ali Abdi, da parte sua, tornò in Somalia e fu ucciso nel giro di un breve periodo di tempo. La sentenza fu confermata dalla Corte di cassazione, salvo nella parte in cui riconosceva l'aggravante della premeditazione; la Cassazione dispone dunque il rinvio al giudice di merito per la nuova commisurazione della pena. Il processo d'appello bis si aprì il 10 maggio 2002 davanti alla corte d'Assise d'Appello di Roma, presieduta da Enzo Rivellese: il collegio concluse per la pena di 26 anni di reclusione, senza la premeditazione e riconoscendo le attenuanti generiche come equivalenti all'aggravante del numero dei partecipanti all'agguato (essendo 7 i componenti dell'agguato). Il 19 ottobre del 2016 la svolta. Secondo il sostituto procuratore generale analizzando le prove emerse nei confronti di Omar Hassan "ne deriva un quadro bianco senza immagini, senza niente". "E quindi - ha detto Razzi - la mia conclusione non può che essere una richiesta di assoluzione per non aver commesso il fatto". Il magistrato ha parlato di "inattendibilità" del teste Gelle. "Non esiste" ha sottolineato. Ashi Omar Hassan viene assolto dopo aver scontato 17 dei 26 anni che avrebbe dovuto scontare secondo la pena inflittagli. Il 3 Luglio 2017, la procura di Roma chiede di archiviare l'inchiesta in quanto risulta impossibile accertare l'identità dei killer e il movente del duplice omicidio.
I lavori della Commissione parlamentare d'inchiesta. Il 23 febbraio 2006 un'apposita Commissione parlamentare d'inchiesta, dopo due anni, concluse i suoi lavori con tre relazioni contrapposte, una approvata a maggioranza e due di minoranza. Durante le audizioni vennero sentiti numerosi testi a vario titolo coinvolti o a conoscenza delle dinamiche e dei fatti. Tra essi Mario Scialoja, ex ambasciatore italiano, che escluse o ritenne minima la possibilità di matrice fondamentalista islamica, e vari appartenenti ai servizi informativi SISMI e SISDE che invece contemplarono una forte possibilità di questa matrice. La commissione, tuttavia, non avrebbe condotto i necessari approfondimenti per escludere che l'omicidio potesse essere stato commesso per le informazioni raccolte dalla Alpi sui traffici di armi e di rifiuti tossici. La commissione, sempre nella relazione di maggioranza, cercò di riscontrare l'ipotesi che l'omicidio fosse avvenuto "nell'ambito di un tentativo di rapina o di sequestro di persona conclusosi solo fortuitamente con la morte delle vittime, e questa tesi veniva accreditata anche in base ad un rapporto riservato di UNOSOM del 3 aprile 1994, da cui citava "è probabile che i banditi intendessero non appropriarsi del veicolo, ma rapinare due cittadini occidentali...". Contestualmente veniva citato come fonte il somalo Ahmed Ali Rage, detto "Gelle", che accusava un altro somalo, Hashi Omar Hassan, di avergli raccontato che l'intenzione iniziale fosse di rapire i due giornalisti e che la situazione fosse poi degenerata nella sparatoria; Hassan venne arrestato anche sulla base di queste dichiarazioni quando arrivò in Italia per testimoniare ad un altro processo, quello sulle presunte violenze a carico di soldati del contingente italiano appartenenti alla brigata paracadutisti "Folgore". Altro movente che venne preso in considerazione fu il rancore verso gli italiani a causa di un arresto subito dallo stesso Hassan da parte proprio di un contingente della Folgore intervenuto a separare una rissa, durante il cui intervento Hassan colpì un ufficiale italiano. Ancora ad avvalorare questa ipotesi, nella relazione lunga 687 pagine, Valentino Casamenti dichiara che "i banditi liberati (dopo l'arresto da parte italiana) versavano in gravi condizioni economiche. Dovevano ripagare i loro avvocati ed avevano comunque urgente bisogno di soldi. Avevano deciso allora di sequestrare degli italiani per vendicarsi del trattamento subito dalla Folgore...", anche se la giornalista Giuliana Sgrena, amica della Alpi ed arrivata a Mogadiscio subito dopo l'uccisione, nella sua audizione il 20 luglio 2005 dichiarò che "si è detto che potesse essere un sequestro, ma allora sembrava abbastanza inverosimile. La stessa Sgrena fu ascoltata in merito all'ipotesi di una "ritorsione di natura economica, ovvero vendetta anti italiana o anti occidentale" insieme al giornalista di Repubblica Vladimiro Odinzoff, che intervistò un suo contatto somalo, che aveva a suo dire partecipato alla battaglia del Pastificio e che raccontò di una banda di quindici criminali somali arrestati da un gruppo misto del Col Moschin e della polizia somala, brutalmente picchiati all'arresto e dalla polizia somala anche in carcere tanto che uno avrebbe perso l'uso delle gambe, da cui la ragione della vendetta; questa fonte, sebbene ritenuta credibile da Odinzoff e dalla Sgrena, tanto che il primo ne ricavò un articolo pubblicato su La Repubblica il 5 aprile 1994 con titolo Ilaria e Miran uccisi dalla malavita somala, sebbene nessun riscontro fosse stato trovato a supporto. Nell'opposizione parlamentare ci si soffermò, invece, su alcune anomalie del modo di procedere della Commissione d'inchiesta, che potrebbero averne falsato le risultanze. Quella che nella XIV legislatura da uno dei suoi componenti (l'onorevole Enzo Fragalà) fu definita “l'unica Commissione parlamentare della storia della Repubblica che svolge sul serio l'attività di inchiesta (le altre hanno sempre fatto salotto)”, nel suo regolamento interno, il 3 marzo 2005 introdusse un articolo 10-bis riguardante le deliberazioni incidenti sulle libertà costituzionalmente garantite. Ciò fu presentato dal Presidente, Taormina, come la risposta ad un quesito posto da tempo in importanti scritti di costituzionalisti: quello di assicurare che la ricerca di un'azione investigativa fosse condivisa da tutte le forze politiche. In realtà, la ricchissima disamina della materia dell'articolo 82 della Costituzione riscontra un'esigenza di utilizzazione dello strumento numerico essenzialmente ad altro fine (quello dei maggiori o minori quorum da raggiungere per istituire una Commissione di inchiesta). Poco o nulla si rinviene, invece, sulla questione delle deliberazioni della Commissione d'inchiesta, che in tempi di consensualismo antico decidevano all'unanimità le modalità di esercizio dei loro poteri istruttori. Nella relazione conclusiva della Commissione di cui era presidente, Taormina sostenne che la norma regolamentare in questione opera “da un punto di vista dei rapporti con i terzi, il rafforzamento delle garanzie del cittadino attinto da un provvedimento, il quale sarà posto in essere solo in quanto risultato positivo al giudizio di legittimità, di merito nonché di opportunità politica effettuato da tutti i membri dell'organismo parlamentare presenti in seduta”. Ma l'unica, vera garanzia è l'esistenza di un organo terzo cui affidare il controllo, in ordine alla riconducibilità della fattispecie al parametro di riferimento offerto dalla Costituzione. Nella successiva legislatura una norma che seguiva la medesima struttura e finalità - anche se prevedeva non l'unanimità dei presenti ma la maggioranza dei due terzi dei componenti - fu proposta all'interno della legge istitutiva di una Commissione di inchiesta, quella antimafia. Infine, il presidente Taormina sosteneva che “la brutalità dei numeri è certamente qualcosa che cozza con l'esigenza dell'accertamento dei fatti”. In data 11 febbraio 2008 la Corte Costituzionale, adita in sede di conflitto di attribuzione, stabilì che: « [...]non spettava alla Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin adottare la nota del 21 settembre 2005 (prot. n. 2005/0001389/SG-CIV), con la quale è stato opposto il rifiuto alla richiesta, avanzata dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Roma, di acconsentire allo svolgimento di accertamenti tecnici congiunti sull'autovettura corpo di reato, ed annulla, per l'effetto, tale atto.» Nel gennaio 2011 la Commissione parlamentare annuncia la riapertura delle indagini sul caso. Il 5 settembre 2012, come già su un articolo de l'Unità del 7 febbraio 2006, Carlo Taormina ha dichiarato: «Ilaria Alpi è morta a causa di una rapina. Era in vacanza non stava facendo nessuna inchiesta, la commissione che presiedevo lo ha accertato. Ho un documento che manterrò privato per rispetto alla sua memoria che racconta tutta un'altra storia».
Ilaria Alpi, cronaca di 23 anni senza verità. 20 marzo 1994: Ilaria Alpi e Miran Hrovatin vengono uccisi in un agguato a Mogadiscio. Un colpevole di comodo, depistaggi e tante bugie: dopo due decenni ancora non sappiamo chi ha voluto la morte dei due giornalisti. Ma conosciamo il movente: le loro ricerche sui traffici di armi e rifiuti, scrive Federico Marconi il 7 luglio 2017 su "L'Espresso". “Non cerco giustizia, voglio solo conoscere la verità”. Luciana Alpi non vede la fine della lunga battaglia iniziata 23 anni fa. Vuole sapere chi sono i mandanti dell’omicidio della figlia Ilaria, inviata del Tg3 in Somalia, che il 20 marzo 1994 venne freddata da una scarica di Kalashnikov insieme all’operatore Miran Hrovatin a pochi passi dall’ambasciata italiana di Mogadiscio. Da allora processi, commissioni parlamentari e inchieste giornalistiche non sono riuscite a fare definitiva chiarezza sulla vicenda. Non si sa chi faceva parte del commando di sette uomini che sparò sull’auto che trasportava i due giornalisti, né chi sia il mandante del duplice omicidio. A pagare è stato un innocente: Omar Hassan Hashi, condannato nel 2003 a 26 anni di carcere. Giustizia è stata fatta, almeno per lui. Nel 2015, il programma televisivo “Chi l’ha visto?” aveva rintracciato il suo principale accusatore, Ahmed Ali Rage detto “Gelle”. Alle telecamere dichiarò di essere stato pagato per mentire. Così nel gennaio di quest’anno il tribunale di Perugia ha ridato la libertà ad Hashi. Nelle motivazioni della sentenza, i giudici perugini parlano chiaramente di “attività di depistaggio” che hanno portato alla condanna di un innocente. La procura di Roma ha aperto dunque un nuovo fascicolo, ma il 4 luglio 2017 ne ha chiesta l’archiviazione: “Dopo 23 anni è impossibile accertare killer e movente - scrive nella richiesta il pubblico ministero Elisabetta Ceniccola - e non c’è nessuna prova di depistaggi”. “Non sarà un’archiviazione a mettere fine alla ricerca della verità”, dichiara Domenico D’Amato, avvocato della famiglia Alpi. Una ricerca durata 23 anni, che ha scavato le radici nel lavoro di inchiesta di Ilaria, che cercava le prove di un traffico di armi e rifiuti tossici tra Italia e Somalia.
L'inchiesta e l'agguato. 20 marzo 1994. Mogadiscio, un commando di sette uomini ferma la jeep con a bordo Ilaria Alpi e Miran Hrovatin a pochi metri dall’ambasciata italiana. Una raffica di kalashnikov toglie la vita ai due giornalisti del Tg3, in Somalia per seguire il ritorno in Italia del contingente italiano inviato in missione di pace nel Corno d’Africa. Ma Ilaria stava seguendo anche un’altra pista, un traffico di armi e rifiuti tossici che coinvolgeva sia i signori della guerra locali sia delle navi provenienti dall’Italia. Per questo la settimana prima Ilaria e Miran erano andati a Bosaso, una città portuale nel nord del Paese, per intervistarne il “sultano” Abdullahi Moussa Bogor, riguardo una nave sequestrata dai pirati, forse utilizzata per i traffici illeciti. “Non è stata una rapina” dirà subito Giancarlo Marocchino, imprenditore italiano con affari in Somalia, “si vede che erano andati in posti in cui non dovevano andare”. E forse avevano scoperto qualcosa che non dovevano scoprire. I corpi dei due giornalisti vengono riportati in Italia. Ma nel viaggio di ritorno succede qualcosa: i sigilli dei bagagli vengono aperti, spariscono gli appunti di Ilaria e i nastri di Miran.
Un colpevole di comodo. Gennaio 1998. Dopo tre anni di indagini, la svolta. L’ambasciatore in Somalia Giuseppe Cassini, incaricato dal Governo Prodi di cercare i responsabili dell’omicidio Alpi, torna in Italia con tre somali. Con lui sull’aereo c’è Omar Hassan Hashi, fatto venire in Italia per testimoniare alla Commissione d’inchiesta “Gallo” sulle violenze perpetrate in Somalia dal contingente italiano durante la missione di pace. Ci sono anche Sid Abdi, l’autista di Ilaria e Miran; e Ali Ahmed Ragi, detto “Gelle”, testimone oculare dell’agguato. Abdi e Gelle dichiarano alla magistratura che Hashi era uno dei sette uomini del commando che ha fatto fuoco su Ilaria: viene subito arrestato.
Assoluzione e condanna. Luglio 1999. Omar Hassan Hashi viene assolto dal Tribunale di Roma. I giudici considerano poco attendibili le testimonianze dell’autista di Ilaria e Miran, Sid Abdi, e quella di Gelle. Nelle motivazioni, i giudici scrivono che Gelle ha cambiato versione più volte ed è sparito prima di poter testimoniare al processo. Inoltre l’altro testimone chiave, Sid Abdi, dichiara di non aver visto Gelle tra le persone presenti il giorno dell’assassinio. Più credibili i tre somali che si sono presentati davanti ai giudici confermando l’alibi di Hashi: il 20 marzo 1994 non si trovava a Mogadiscio, ma ad Adale, a 200km dalla capitale. Il pubblico ministero, che aveva chiesto l’ergastolo per Hashi, fa ricorso. Nel novembre del 2000, i giudici della Corte di Appello di Roma ribaltano la prima sentenza, condannando Hashi al fine pena mai. Tre anni dopo, la Corte di Cassazione rende definitiva la condanna: la pena per il somalo è di 26 anni di carcere.
La Commissione: "Ma quale inchiesta, erano in vacanza". Gennaio 2004. Il Parlamento istituisce una Commissione d’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. È presieduta dall’avvocato e deputato di Forza Italia Carlo Taormina. Il suo compito è quello di approfondire le indagini sull’omicidio e le ricerche sui traffici che Ilaria Alpi stava conducendo. La Commissione desta molte critiche. Taormina si scaglia contro i giornalisti Rai che continuano a lavorare sul Caso Alpi: accusati di essere “depistatori”, subiscono la perquisizione delle proprie abitazioni e delle redazioni in cui lavorano. Dopo due anni di lavori, la Commissione fece emergere forti dubbi sulla veridicità delle testimonianze che indicavano Hashi come membro del commando che uccise Ilaria. Ma non fece luce sui mandanti, né sui traffici illeciti. Il presidente Taormina dichiarò che i due giornalisti uccisi “erano in vacanza in Somalia, non stavano conducendo nessuna inchiesta: la Commissione lo ha accertato”. La procura acquisisce gli atti della Commissione e riapre le indagini sul Caso.
Il giudice: "Omicidio su commissione". Dicembre 2007. La procura di Roma chiede l’archiviazione del nuovo fascicolo sul Caso Alpi. Viene respinta dal Gip Emanuele Cersosimo che dispone nuovi accertamenti. “Fu un omicidio su commissione” viene scritto nel testo con cui si respinge l’archiviazione “con l’intento di far tacere i due reporter ed evitare che le loro scoperte sui traffici di armi e rifiuti venissero resi noti”.
Il Sismi: "Uccisi per il loro lavoro sui traffici". Dicembre 2013. La presidente della Camera Laura Bordini avvia la procedura di desecretazione degli atti della Commissione d’inchiesta sull’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Le note del Sismi del 1994 confermano i risultati delle tante inchieste giornalistiche svolte negli anni: “Ilaria Alpi è stata uccisa perché indagava su un traffico di rifiuti e armi. I mandanti vanno ricercati tra militari somali e cooperazione”. In un’informativa riservata dei giorni successivi all’omicidio il Servizio segreto militare fa quattro nomi: il colonnello Mohamed Sheikh Osman (trafficante d’armi del clan Murasade), Said Omar Mugne (amministratore della Somalfish), Mohamed Ali Abukar e Mohmaed Samatar. In un’altra nota del 1994 il Sismi indica come “mandanti o mediatori” due imprenditori italiani: Ennio Sommavilla e Giancarlo Marocchino, tra i primi ad accorrere sul luogo dell’agguato. In una nota del 1996 viene infine indicato come possibile mandante il generale Aidid, signore della guerra somalo, utilizzatore finale del traffico d’armi che Ilaria avrebbe scoperto.
Il testimone ritratta. Marzo 2015. Una nuova svolta. ll programma ‘Chi l’ha visto?’ manda in onda l’intervista di Chiara Cazzaniga a Ali Ahmed Ragi “Gelle”, il testimone chiave nel processo contro Omar Hashi. Rintracciato a Birmingham dopo un’inchiesta lunga un anno, il somalo racconta dell’accordo propostogli dall’ambasciatore Cassini: una falsa testimonianza in cambio di un visto per lasciare la Somalia. “Non ero presente sul luogo dell’omicidio, il nome di Hashi mi è stato fatto dall’ambasciatore” ha dichiarato Gelle che, per evitare che con le sue false accuse venisse condannato un innocente, decise di scomparire dopo la testimonianza resa agli inquirenti. Gli avvocati di Hashi chiedono subito la revisione del processo.
"Fu depistaggio". Gennaio 2017. La Corte d’Assise di Perugia rimette in libertà Omar Hassan Hashi. Nelle motivazioni della sentenza, i giudici di Perugia parlano di “attività di depistaggio che possono essere avvalorate dalle modalità della ‘fuga’ del teste e dalle sue mancate concrete ricerche”. Non bastasse la facilità con cui la giornalista di Chi l’ha visto? ha rintracciato Gelle, a sostegno di tale tesi vi è anche l’attività di sorveglianza della Polizia sull’ex “testimone chiave”: negli spostamenti durante la sua permanenza nella Capitale, Gelle era sempre accompagnato dalla Polizia. Poi da un giorno all’altro sparì. La Procura di Roma apre nuovamente le indagini ma con scarsi risultati: il 4 luglio il Pm Ceniccola chiede l’archiviazione del procedimento. “Ero ottimista e certa che avrei avuto giustizia dalla Procura di Roma sul duplice omicidio di Mogadiscio” ha dichiarato Luciana Alpi il 6 luglio nel corso di una conferenza alla Federazione Nazionale della Stampa. “Non è vero che non ci sono i moventi e le prove dei depistaggi” afferma Domenico D’Amati, legale della famiglia Alpi “ce ne sono in abbondanza, non si vogliono leggere”. La famiglia ha dichiarato che si opporrà alla richiesta di archiviazione della Procura. Dopo 23 anni di indagini, processi, inchieste e depistaggi, non può essere solo un giudice a decidere se si possono accertare fatti e responsabilità: la verità storica non può essere ostaggio della verità giudiziaria.
Caso Ilaria Alpi e quel dossier segreto consegnato a Gianni De Gennaro. Un rapporto riservato sulla fuga del testimone chiave Gelle finì nelle mani dell'ex capo della polizia, violando il regolamento della Commissione parlamentare d'inchiesta, scrive Andrea Palladino il 9 aprile 2015 su "L'Espresso". Sono i documenti meglio custoditi del Parlamento. Blindati, conservati con cura quasi maniacale. Ogni occhio che si posa sulle pagine con il timbro “segreto” viene annotato: data, ora d’inizio e di fine della lettura. C’è di più. “Non è consentito ad alcuno estrarre copia”, recitava l’articolo 18 del regolamento interno della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin per i documenti classificati. Relazioni, atti d’indagine o informative dei servizi. Niente fotocopie. Una regola che, però, ha avuto le sue curiose eccezioni, con un rapporto riservatissimo su un testimone gestito dalla Digos che finisce nella mani dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro. Siamo tra la fine del 2004 e il novembre del 2005, quando i lavori della commissione guidata da Carlo Taormina entrano in un fase delicatissima. Testimoni somali ascoltati secretando tutto, nome compreso, ufficiali di collegamento alle prese con intercettazioni telefoniche e incontri riservati, e una pista rilevante apparsa quasi per caso. Un capitano della Guardia di finanza, Gianluca Trezza, inizia ad approfondire quello che appariva come un clamoroso depistaggio, il caso del testimone chiave Ahmed Ali Rage, detto Gelle. Un somalo portato in Italia dall’ambasciatore Giuseppe Cassini nell’ottobre del 1997, che accuserà - prima di sparire - il connazionale Hashi Omar Assan, il capro espiatorio condannato poi a 26 anni carcere con l’accusa di aver fatto parte del gruppo di fuoco entrato in azione il 20 marzo 1994. Gelle, tre mesi dopo aver deposto davanti al funzionario della Digos romana Lamberto Giannini e al pm Franco Ionta, era sparito. Il 13 ottobre 2004 il capitano Trezza ascolta insieme al presidente Carlo Taormina - unico parlamentare presente - il racconto del giornalista somalo Mohamed Sabrie Aden: “Gelle mi ha raccontato nel 2002 per telefono di aver mentito, perché pagato”, spiegò in un verbale subito secretato. Dopo quindici anni lo stesso Gelle ripeterà il suo racconto - questa volta in video - alla redazione di Chi l’ha visto. Chi lo aveva convinto a dire il falso? E, soprattutto, chi aveva aiutato Gelle a sparire, evitando così di deporre in aula? Il capitano Trezza si mette all’opera. Ricostruisce con attenzione quello che avviene prima del Natale 1997, data della scomparsa del testimone chiave. Il suo rapporto finale arriva nelle mani di Carlo Taormina il 25 ottobre del 2005. “Segreto”, utilizzabile solo all’interno della commissione. Riporta la testimonianza di Giuseppe Scomparin, titolare di un’officina meccanica dove il Ministero dell’Interno aveva piazzato Gelle nei tre mesi della sua permanenza in Italia. “Ricordo che (i funzionari del ministero dell’interno) mi dissero che il ragazzo non sarebbe venuto per tre, quattro giorni. Alla scadenza di tale lasso di tempo una nuova conversazione telefonica mi preannunciò che il ragazzo non sarebbe più venuto al lavoro”. Parole pesanti, tanto che il capitano Trezza annota: “Se ne trarrebbe che l’allontanamento dall’Italia di Gelle fosse avvenuto quantomeno con la consapevolezza degli uomini delle istituzioni”. Meno di due settimane dopo inizia la curiosa movimentazione di quel rapporto segreto, che esce dalle stanze della commissione: “Consegnata fotocopia senza omissis a capo della Polizia dott. De Gennaro”, è l’annotazione sul fascicolo, desecretato solo nel 2006, dopo la chiusura dell'inchiesta parlamentare. Un salto a piè pari del regolamento della stessa commissione. “Io non ricordo assolutamente di aver dato quel documento all’allora capo della Polizia - spiega oggi l’avvocato Carlo Taormina - e sicuramente non diedi nessuna delega d’indagine a Gianni De Gennaro”. Dunque, il tutto sarebbe avvenuto all'insaputa della stessa presidenza della commissione. Che accadrà dopo? Giuseppe Scomparin, ascoltato in audizione il 23 novembre 2005, cercherà goffamente di rivedere la sua testimonianza, mentre Gelle - nonostante la Digos abbia sempre assicurato di cercarlo attivamente - rimarrà a Birmingham, lontano dai tribunali italiani. E il povero Hashi Omar Assan continuerà a scontare 26 anni di galera. Grazie ad un testimone falso.
Caso Alpi, il supertestimone ha mentito. Vent'anni dopo l'omicidio la verità è più vicina. Il somalo che aveva accusato Hashi Omar Assan è stato scovato da “Chi l’ha visto”: gli italiani avevano fretta di chiudere il caso e gli hanno promesso denaro in cambio di una sua testimonianza, si legge in una nota del programma. Scoprire chi ha depistato è la via maestra per arrivare ai mandanti, scrive Andrea Palladino il 16 febbraio 2015 su "L'Espresso". Era uccel di bosco dal dicembre del 1997, quando lasciò l’Italia diretto verso il Regno Unito. Il supertestimone del caso Alpi, il somalo che aveva accusato Hashi Omar Assan- unico condannato per l’agguato costato la vita alla giovane giornalista del Tg 3 il 20 marzo 1994, a Mogadiscio - si era reso irreperibile dopo aver deposto davanti alla Digos e alla Procura di Roma. Mai apparso in Tribunale, lasciando dietro di sé il sospetto di una testimonianza in qualche maniera pilotata. Alla fine sono stati i colleghi di Ilaria Alpi a scovarlo. Ai giornalisti del programma di Rai 3 “Chi l’ha visto” Ahmed Ali Rage, detto Gelle, il supertestimone sparito nel nulla, ha confermato di aver mentito: “Gli italiani avevano fretta di chiudere il caso - riferisce una nota del programma - e gli hanno promesso denaro in cambio di una sua testimonianza al processo: doveva accusare un somalo del duplice omicidio”. Un capro espiatorio, dunque, un nome da dare in pasto all’opinione pubblica e alla famiglia, cercando di chiudere un caso complesso e politicamente delicato. La lunga fuga di Ahmed Ali Rage è la chiave di volta del caso Alpi. Già nel 2006 le autorità italiane conoscevano tutto sul testimone sparito. Una nota dell’Interpol diretta alla commissione d’inchiesta sulla morte dei due giornalisti Rai indicava con precisione molti elementi per trovare e ascoltare Gelle: l’indirizzo della sua casa a Birmingham, dove andava a ritirare il sussidio da rifugiato politico, i suoi contatti nel Regno Unito. E il nome della moglie, Kadro Arale. Nel frattempo il Tribunale di Roma aveva aperto un processo contro il supertestimone per calunnia, dopo la rivelazione di una telefonata tra il testimone e un giornalista collaboratore di Rai International, dove Gelle, sosteneva di essere stato pagato per raccontare il falso. Nulla, però, è accaduto. Ahmed Ali Rage non è stato mai trovato dalle autorità italiane e il processo si è concluso con un’assoluzione, basata sulla impossibilità di verificare l’autenticità della telefonata e della voce di Gelle. Per trovare il testimone somalo in fondo bastava poco. La moglie Kadro Arale lo scorso anno era regolarmente registrata sulle liste degli elettori di Birmingham. Documenti pubblici, consultabili facilmente sul web. All’indirizzo indicato abitava la famiglia di Gelle, strettamente protetta dalla comunità somala. “Cosa volete da lui?”, aveva risposto un anno fa la moglie, mentre vicini e altre famiglie somale creavano un muro invalicabile. Gelle in quei giorni era assente, ma bastava insistere con le domande per avere la conferma di essere nel posto giusto. Se il vecchio indirizzo indicato dall’Interpol nel 2006 era ormai “bruciato”, le tracce lasciate dalla moglie e dai figli erano chiari e inequivocabili. Ora le sue parole registrate da Rai 3 riaprono con forza il caso. La Procura di Roma - che ha ancora aperto il fascicolo sull’agguato del 1994 - dovrà capire chi ha pagato Gelle per mentire. Scoprire chi ha depistato è la via maestra per arrivare ai mandanti. Vent’anni dopo l’agguato di Mogadiscio forse la verità è più vicina.
Caso Ilaria Alpi, la Camera mette online i documenti. Sono passati vent'anni dall'omicidio della giornalista e dell'operatore Miran Hrovatin in Somalia. Tra misteri e depistaggi ancora tanti punti da chiarire, scrive Giovanni Tizian il 17 marzo 2016 su "L'Espresso". 20 marzo del 1994. Un agguato mette fine alla vita di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. A pochi giorni dall'anniversario, la Camera dei deputati mette online l’Archivio digitale che contiene tutta la documentazione raccolta dal Parlamento sul caso. Un fascicolo denso di misteri, personaggi torbidi, affaristi e presenza inquietanti degli apparati di sicurezza. Il governo e la presidente di Montecitorio l'hanno definito un nuovo capitolo dell’operazione-trasparenza. Dopo la rimozione del segreto su materiali riguardanti la Terra dei Fuochi, le navi dei veleni e il cosiddetto “armadio della vergogna” sulle stragi nazifasciste, ecco la parte riguardante i l'uccisione dei due giornalisti. All'indirizzo archivioalpihrovatin.camera.it si troveranno i documenti depositati presso l’Archivio storico della Camera: sia quelli già “liberi”, finora consultabili solo andando di persona alla sede di Roma (2009 documenti, per 104.943 pagine), sia quelli declassificati per iniziativa della Presidenza della Camera nel corso di questa legislatura (208 documenti, per un totale di 13.614 pagine; una prima tranche di 17 documenti era stata declassificata alcuni mesi fa). I materiali però non sono consultabili direttamente. Possono essere consultati solo dopo aver compilato una domanda online. E grazie alla collaborazione della Rai sono pubblicati materiali video, anche non montati, realizzati fra il 1992 e il 1994 da Ilaria Alpi, Miran Hrovatin ed altri telecineoperatori Rai in Somalia, a Belgrado e in Marocco. «Questi documenti ci fanno entrare nel mondo di Ilaria - ha dichiarato la Presidente Boldrini - ci fanno scoprire com’era e come lavorava; fanno emergere il profilo di una donna appassionata e insieme di una giornalista di talento. La sua voce era diventata, nei primi anni ‘90, la voce della Somalia, così come le immagini di Miran Hrovatin ci avevano fatto conoscere un Paese messo in ginocchio dalla guerra fratricida, dalla fame e dalla povertà. Possa questa azione di trasparenza contribuire alla ricerca della verità e alla conservazione della memoria». Verità che è ancora tarda ad arrivare. E che speriamo, con il venire meno di alcuni segreti di Stato, possa avvicinarsi. Così da chiudere uno dei capitoli più neri della nostra storia e rendere giustizia a due colleghi, morti per dovere.
ILARIA ALPI, NATALE DE GRAZIA E LE NAVI DEI VELENI.
Aspettando il 20 Marzo 2013, Rai Tre presenta Toxic Somalia. Il punto sul caso Ilaria Alpi di Mariangela Gritta Grainer. Alpi-Hrovatin, il caso, Associazione Ilaria Alpi. Il 20 marzo 2013 saranno passati 19 anni dalla tragica esecuzione di Mogadiscio in cui Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sono stati uccisi con un solo colpo ciascuno sparato alla nuca. Sappiamo che si è trattato di un’esecuzione. Un’esecuzione su commissione. Ilaria è stata uccisa perché era brava, il suo modo di fare giornalismo di cercare sempre la verità e di comunicarla ha fatto paura e fa ancora paura. Per questo la verità sulla sua uccisione ancora non si conosce per intero. Sappiamo che è stata uccisa, insieme a Miran, perché aveva rintracciato, nel suo lavoro d’inchiesta, un gigantesco traffico internazionale di rifiuti tossici e di armi che aveva nella Somalia (martoriata da un sanguinario dittatore come Siad Barre prima e dalla guerra civile poi) un crocevia importante per traffici illeciti di ogni tipo che solamente organizzazioni criminali, mafia, ’ndrangheta e camorra possono gestire (come indagini di procure, dichiarazioni di pentiti e collaboratori di giustizia hanno fatto emergere anche di recente). Lunedì 4 marzo alle ore 23.05 Rai Tre presenta un reportage – Premio Speciale alla 18^ edizione del Premio Ilaria Alpi – scritto e diretto da Paul Moreira, firma di prestigio del giornalismo d’inchiesta in Europa: una iniziativa forte in apertura di un mese di marzo ricco di incontri per non dimenticare Ilaria e Miran, il loro lavoro, le loro vite e soprattutto per dare impulso alla ricerca delle prove e dei responsabili (esecutori e mandanti) di questa esecuzione. In “Toxic Somalia” Moreira documenta gli effetti sulla popolazione dei rifiuti tossici scaricati dall’occidente in terra somala, seguendo la strada aperta da Ilaria Alpi e Miran Hrovatin e ricostruendo i rapporti segreti tra il mondo degli affari e quello della criminalità. L’inchiesta valorizza il lavoro intrapreso dalla giovane inviata del TG3 e dal suo operatore mostrando con efficacia come ne abbia segnato la tragica fine perché gli affari sporchi, l’illegalità potesse e possa continuare. In programma diversi incontri che ci aiuteranno a rimettere sotto i riflettori il duplice delitto di Mogadiscio nel contesto delle stragi di mafia, di tangentopoli, la fine della prima Repubblica. Due i fatti che l’anno appena trascorso ci ha consegnato.. Il processo che vedeva imputato per il reato di calunnia Ahmed Ali Rage detto Jelle (testimone d’accusa chiave nei confronti di Hashi Omar Hassan in carcere da oltre dieci anni dopo la condanna definitiva a 26 anni) si è chiuso con una assoluzione le cui motivazioni sono incredibili (“…appare evidente l’impossibilità di pervenire ad un giudizio di colpevolezza…”). Assoluzione in contumacia avendo di fatto accertato che la testimonianza potrebbe essere falsa mentre un cittadino somalo è in carcere forse innocente e di certo due cittadini italiani, Ilaria e Miran, sono stati assassinati quasi vent’anni fa e ancora non hanno avuto giustizia. La relazione conclusiva della commissione bicamerale d’inchiesta sulle ecomafie sostiene che il capitano Nicola De Grazia è stato avvelenato (riesumata la salma, “la consulenza del professor Arcudi arriva ad una conclusione inequivoca: …..la morte è la conseguenza di una “causa tossica”). Il capitano Natale De Grazia (morto in circostanze misteriose il 13 dicembre 1995 mentre si recava a La Spezia per indagini importanti) è stata figura chiave del pool investigativo coordinato dal procuratore di Reggio Calabria Francesco Neri che indagava sulle “navi dei veleni”. Fu De Grazia a trovare il certificato di morte e/o l’annuncio “di morte avvenuta di Ilaria” nelle perquisizioni effettuate a casa di Giorgio Comerio, noto trafficante di armi, e coinvolto secondo gli investigatori nel piano per smaltire illecitamente rifiuti tossico nocivi che prevedeva la messa in custodia di rifiuti radioattivi delle centrali nucleari in appositi contenitori e il loro ammarramento. “La morte del capitano De Grazia si inscrive tra i misteri irrisolti del nostro Paese”, con queste parole si conclude la relazione della commissione. In contrasto e dunque ancora più incomprensibile la decisione assunta dal Procuratore della Repubblica di Nocera Inferiore di chiedere l’archiviazione dell’inchiesta sul caso della morte del capitano Natale De Grazia. Due fatti che confermano quanto è avvenuto in questi anni dolenti: depistaggi occultamenti, carte false, testimoni e/o persone informate dei fatti che hanno mentito …: il tutto spesso confezionato direttamente e/o con la complicità di parti e strutture dello Stato. “Menti raffinatissime” sono state e sono in azione fin dai primi giorni dopo l’uccisione premeditata: l’omissione di soccorso, la sparizione dei blok notes e di alcune cassette video, la non effettuazione dell’autopsia, la violazione dei sigilli dei bagagli, la costruzione “persistente” della tesi della casualità (tentativo di sequestro finito male, il proiettile vagante …)…….Il corso della giustizia è stato compromesso, gli assassini e chi li copre hanno potuto contare sul fatto che le tracce si possono dissolvere, che alcuni reperti sono scomparsi o non sono più utilizzabili, che molti testimoni sono morti in circostanze misteriose, che anche pezzi di Stato hanno lavorato all’accreditamento ufficiale di una falsa versione manipolando fatti reali. Nonostante infiniti tentativi che avrebbero voluto chiudere questo caso da anni l’impegno incessante di Giorgio e Luciana Alpi lo hanno tenuto aperto e grazie a loro all’associazione Ilaria Alpi al premio e alle moltissime scuole, istituzioni, migliaia di cittadine e cittadini che sono impegnati il caso è ancora apertissimo. Siamo ancora qui non ci arrendiamo vogliamo e avremo verità, tutta la verità e giustizia. Può essere una buona medicina anche per questa nuova fase politica che di certo esige aria pulita ripartire dal “senso della verità” e della giustizia. Mariangela Gritta Grainer,Presidente Associazione Ilaria Alpi.
SIAMO ALLE SOLITE: VOGLIONO INSABBIARE TUTTO. IL CAPITANO DE GRAZIA E' MORTO INUTILMENTE?
Perché non è arrivato vivo alla Spezia? Il dossier: "La Spezia crocevia dei veleni", scrive “Città Della Spezia”.
Legambiente si prepara per l'udienza
sull'archiviazione dell'inchiesta sulle navi dei veleni.
Poco più di un mese per riuscire a mettere insieme una quantità
di notizie di rilievo tale da convincere il gip del Tribunale della Spezia a
rifiutare la richiesta di archiviazione dell'indagine sulle navi dei veleni
avanzata dalla procura. E' la missione che sta compiendo Legambiente, tanto a
livello nazionale, quanto localmente, con l'appoggio legale dell'avvocato
Valentina Antonini.
"La procura spezzina - ha spiegato Paolo Varrella - ha avanzato la richiesta per
indizi insufficienti, ma riteniamo di poter contribuire nel fornire dati da
'sgranare' e poter così far procedere le indagini. Se ci fosse stata maggiore
attenzione sulle problematiche che riguardano casi come Pitelli o le navi dei
veleni, probabilmente non avremmo dovuto stendere un dossier e intervenire in
soccorso della magistratura. Invece non abbiamo a disposizione nessuna indagine
epidemiologica seria, che avrebbe potuto fornire dati incontrovertibili, e la
politica si disinteressa completamente di queste vicende". A ribadire come il
problema sia prima di tutto una questione politica è stato Marco Grondacci,
esperto di diritto ambientale, che ha contribuito alla stesura del dossier e che
continuerà a guardare da vicino le questioni che riguardano le navi dei veleni,
una vicenda resa ben nota anche per l'assassinio rimasto senza colpevoli di
Natale Di Grazia, il capitano della Capitaneria di porto che si stava recando
proprio alla Spezia per indagare sui traffici illeciti di rifiuti pericolosi e
sugli affondamenti delle navi cariche di veleni. Non a caso il dossier è stato
intitolato 'La Spezia, crocevia dei veleni - Vent'anni di misteri, di colpevoli
silenzi e di nessuna verità'. "Viviamo in un regime di opacità amministrativa,
senza alcuna attenzione per la prevenzione, da parte di quasi nessuno degli enti
che dovrebbero occuparsene. Invece - ha detto Grondacci - non è mai stata fatta
una mappatura seria della situazione ambientale e degli effetti che questa ha
sulle persone". Matteo Bellegoni, segretario provinciale Fiom Cgil, ha parlato
della necessità di avviare una 'bonifica culturale', mentre Daniela Patrucco,
intervenuta a nome del comitato 'Spezia via dal carbone', ha definito la città
della Spezia come una "nave scuola nel campo del lasciar andare le cose in un
certo modo, per la prassi di piegare le normativa a ragioni differenti. Finché
poi non interviene la magistratura. C'è un filo rosso di omertà che lega le
vicende degli ultimi 20 anni, con il disinteresse a intervenire che è di fatto
una sorta di favoreggiamento delle attività criminali". "Un filo rosso - ha
aggiunto Enrico Adami, per l'associazione Murati vivi di Marola - che si estende
anche sul Campo in ferro e sullo stoccaggio dell'amianto rimosso dalle navi
militari, che a quanto ci risulta è avvenuto senza rispettare le normative. E le
istituzioni, che ben sanno come stanno le cose, non fanno niente". Il vice
presidente di Legambiente, Stefano Ciafani, venuto alla Spezia per appoggiare
l'iniziativa della sezione locale presieduta da Stefano Sarti, ha ricordato come
l'associazione sia impegnata anche sul fronte di Pitelli, con il ricorso al Tar
che chiede che ritorni ad essere un sito di bonifica di interesse nazionale.
"Non ci possiamo rassegnare al fatto che Pitelli e le navi dei veleni finiscano
come tanti altri casi in Italia, dove la presenza di figure 'grige', che
lavorano per rendere tutto estremamente complicato, hanno impedito che si
arrivasse a punire i colpevoli, anche se le verità storiche sono ben note".
"Bisogna evitare la parcellizzazione delle tematiche - ha concluso l'avvocato
Antonini - lavorare affinché i collegamenti tra i diversi casi vengano alla
luce".
Navi dei veleni, De Grazia avvelenato durante il viaggio per La Spezia, scrive ancora scrive “Città Della Spezia”.
La commissione parlamentare ha stabilito che il capitano, che indagava su un enorme traffico di rifiuti tossici, sia morto per 'causa tossica'. Un piccolo squarcio nel velo del mistero che avvolge insieme le morti del capitano Natale De Grazia, Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, con la città della Spezia e un traffico internazionale di rifiuti tossici. Quindici anni dopo la notte in cui il capitano De Grazia morì inspiegabilmente sul sedile dell'auto che lo stava portando da Reggio Calabria alla volta del golfo spezzino, il presidente della commissione parlamentare d'inchiesta Gaetano Pecorella ha anticipato le conclusioni alle quali sono giunti deputati e senatori, affiancati da specialisti di prim'ordine: De Grazia, che stava indagando su 180 inabissamenti dolosi, non è morto per cause naturali, ma per una 'causa tossica'. In pratica: è stato avvelenato. E a suffragio di questa ipotesi (sostenuta da tempo dai familiari) ci sono alcuni avvenimenti rimarcati dallo stesso Pecorella. "Tutti gli elementi di sospetto - ha dichiarato il presidente della commissione parlamentare - hanno acquisito una luce particolare ed inquietante. Mettendo insieme più elementi erano venuti alla luce una serie di fatti che inducevano a sospettare della morte del capitano". La prima è che De Grazia svolgeva indagini di grande importanza sul traffico di rifiuti radioattivi e pericolosi e che c'erano interessi significativi, anche di Stati esteri. Il secondo punto è che c'era stato "un tentativo di spostare De Grazia ad altri uffici; tentativo poi bloccato dagli stessi magistrati". Ancora: parte del "materiale di indagine su De Grazia, contenuto nei fascicoli processuali, è stato sottratto". E inoltre, "si sono perse le tracce del certificato di morte di Ilaria Alpi che De Grazia aveva trovato" nel corso di una perquisizione. Infine, tra gli elementi di sospetto, secondo Pecorella c'è il fatto che "poco prima della morte di De Grazia si sciolse il gruppo investigativo che aveva in carico inchieste di grande importanza". Se tre indizi fanno una prova, ce n'era abbastanza per pensare che un 41enne, sottoposto a visite mediche periodiche dalla Marina militare, giunto all'acme di una attività di indagine pericolosa e che pestava i piedi di molti potentati, potesse non essere morto per un arresto cardiaco. Eppure la prima autopsia svolta stabilì proprio questo. Purtroppo, trascorsi tanti anni, per il professore Giovanni Arcudi, perito interpellato dalla commissione, non è stato possibile stabilire possa essere stata la causa tossica. E nemmeno se questa effettivamente ci sia stata. La conclusione è stata ottenuta per esclusione della possibilità che la morte sia stata naturale. Il decesso dovuto ad una tossina, secondo il perito, "appare analiticamente motivata, e scientificamente inattaccabile. Ciò che risulta è che il capitano De Grazia ha ingerito gli stessi cibi di chi lo accompagnava nel viaggio, salvo un dolce: queste almeno sono state le dichiarazioni dei testimoni (i due carabinieri che erano in viaggio con De Grazia). Se così è, appare difficile ricondurre la tossicità ad una causa naturale, anche se non lo si può escludere in forma assoluta". Il presidente Pecorella, ha concluso dicendo che "non è compito della commissione pronunciare sentenze, né sciogliere nodi di competenza dell'autorità giudiziaria, ma non si può non segnalare che la morte del capitano De Grazia si inscrive tra i misteri irrisolti del nostro Paese". E i nuovi risultati impongono di valutare la situazione in una chiave nuova e non poco allarmante.
Il capitano De Grazia avvelenato mentre indagava sulla nave del Kgb, scrive Giuseppe Baldessarro su “La Repubblica”. Le conclusioni della commissione parlamentare sui rifiuti tossici: Non si crede alla incidente e ci sono gli elementi per riaprire il caso dell'ufficiale morto come torna a chiedere anche Legambiente. Nuovi informazioni sullo strano caso della nave Latvia. La morte del capitano Natale De Grazia non ha mai convinto nessuno. Oggi però ci sono anche gli elementi concreti per chiedere la riapertura del caso. Legambiente, che per prima lanciò l'allarme sulle navi dei veleni all'inizio degli anni 90 ha organizzato a Reggio Calabria un incontro a cui prende parte anche Alessandro Bratti, componente Pd della Commissione parlamentare d'inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti. Un dibattito per dire che il "Caso De Grazia", non è chiuso. Una richiesta sostenuta dalle conclusioni cui è giunta la stessa Commissione, per la quale l'ufficiale che indagava sui traffici illegali di scorie non morì "di morte naturale", come stabilito da due perizie mediche fatte immediatamente dopo il decesso, ma che si trattò di una morte dovuta ad una sorta di intossicamento. Veleno insomma. De Grazia era sulle tracce delle navi dei veleni che venivano utilizzate per inabissare sostanze tossiche. Ed era arrivato a scoprire storie pericolose. Il mistero dei cargo affondati nel Mediterraneo poteva essere risolto. Natale De Grazia la notte in cui morì si stava recando a La Spezia, porto nel quale doveva fare una serie di approfondimenti, incontrando anche alcune fonti "riservate". A La Spezia, sapeva, essere in porto anche una strana imbarcazione la Latvia, una motonave dell'ex Unione Sovietica, che era stata dei servizi segreti russi. Scrive la Commissione: "Dell'esistenza di questa nave si dà conto per la prima volta nell'annotazione di polizia giudiziaria redatta dal Corpo forestale dello Stato di Brescia in data 26 ottobre 1995, nella quale si evidenzia che la nave, venduta ad un prezzo superiore al valore reale, avrebbe potuto essere destinata al trasporto di rifiuti nucleari e/o tossico-nocivi". E ancora: "Nell'area portuale di La Spezia è presente la motonave Latvia. adibita al trasporto passeggeri, ex-sovietica, giunta nei cantieri Oram prima della caduta del blocco orientale. Nave ritenuta come appartenente ai servizi segreti sovietici (Kgb) (...). Attualmente è ormeggiata alla diga di La Spezia, è stata messa in vendita (forse dal tribunale) ed acquistata da una società Liberiana con sede in Monrovia, tramite un ufficio legale di La Spezia. Da fonte attendibile risulta che il prezzo pagato è superiore di quello del valore reale, e questo fa supporre che potrebbe essere utilizzata come "bagnarola" per traffici illegali di varia natura, in particolare di rifiuti nucleari e o tossico-nocivi (...)". La misteriosa Latvia viene menzionata in un'altra annotazione di polizia giudiziaria che porta la data 10 novembre 1995. Nell'informativa "il brigadiere Gianni De Podestà comunicò alle procure di Reggio Calabria e di Napoli che fonte confidenziale attendibile aveva di recente riferito in merito al coinvolgimento di famiglie camorristiche e logge massoniche deviate nei traffici di rifiuti radioattivi e tossico nocivi interessanti la zona di La Spezia e l'hinterland napoletano. Si dava atto che la Latvia, così come già era stato fatto per la Rigel e la Jolly Rosso, avrebbe dovuto essere preparata per salpare nell'arco di 4 giorni con un carico non ben definito (rifiuti tossico-nocivi e/o radioattivi) per poi seguire la rotta La Spezia-Napoli (per un ulteriore carico, come accertato per la Rosso) - Stretto di Messina-Malta - ritorno sulle coste joniche (per affondamento)". Fantasie di un informatore pazzo? No, secondo gli investigatori è molto attendibile. La fonte denominata "Pinocchio", ritenuto uomo in odore di servizi segreti italiani, indica fatti precisi. Rimane anonima per ragioni di sicurezza personale, familiare e per la polizia giudiziaria che lavora all'indagine. Sembrerebbe quasi un infiltrato. Di fronte a un'informazione dettagliata di questo tipo, il pm reggino Francesco Neri e il pool di cui De Grazia faceva parte, iniziò ad indagare anche sulla Latvia. Spiega la Commissione: "Si trattava, infatti, di una nave che era possibile monitorare per così dire 'in diretta' e che consentiva, quindi, di superare i vuoti conoscitivi attinenti alle altre navi delle quali si erano perse le tracce". Appare, quindi, del tutto credibile la circostanza emersa nell'ambito dell'inchiesta svolta dalla Commissione, secondo la quale il capitano De Grazia si sarebbe dovuto recare a La Spezia anche per effettuare indagini con riferimento alla predetta nave e per avere un contatto diretto con la fonte confidenziale che aveva già riferito informazioni in merito alla Latvia. Tale circostanza, invero, non risulta da alcun documento, ma è stata rappresentata alla Commissione da un soggetto il cui nome è rimasto segretato". Il 13 dicembre a La Spezia sarebbe arrivato De Grazia. Non fece in tempo, morì misteriosamente nel viaggio di andata. Una morte resa ancora più sospetta da un fatto: "data 15 dicembre 1995, due giorni dopo il decesso del capitano De Grazia, l'ispettore Tassi trasmise un fax alla procura circondariale di Reggio Calabria nel quale testualmente riferiva che "In data odierna è stata accertata la partenza della Motonave Latvia, avvenuta all'incirca verso la terza decina del Novembre per raggiungere il porto di Ariga (Turchia)". La Commissione trae le conclusioni: "Non può non sottolinearsi la peculiarità della vicenda, tenuto conto dei seguenti dati: nel pieno di indagini concernenti l'utilizzo di navi per lo smaltimento illecito di rifiuti tossici, vi era la possibilità di monitorare una nave, la Latvia, rispetto alla quale vi erano concreti indizi in merito al suo utilizzo per le predette finalità illecite; ebbene, nonostante la preziosissima fonte di informazioni, rappresentata dalla motonave in questione, non solo non risultano effettuate verifiche approfondite da parte degli ufficiali di polizia giudiziaria della zona, ma neppure risultano essere stati mai sentiti gli occupanti della nave; paradossale è poi che non sia stato predisposto un servizio di osservazione in merito agli spostamenti della nave".
Dalle carte spuntano il nome di Gelli e i magistrati spiati dai servizi segreti, continua Giuseppe Baldessarro. La commissione ha anche desecretato delle informazioni arrivate dal Copasir da cui emergono cinquecento milioni di spese sostenute dagli 007. Per fare cosa? "Un giorno mi presento al Sismi e sequestro un documento, con tanto di provvedimento del magistrato. Ho trovato grande collaborazione nel generale Sturchio, il capo di gabinetto. Mi chiese se volessi il tale documento e me lo dettero tranquillamente. (...) Chiedevamo se avevano qualcosa su Giorgio Comerio. Il primo documento che emerse mostrava che Giorgio Comerio era colui il quale aveva ospitato in un appartamento, non so se di sua proprietà, a Montecarlo l'evaso Licio Gelli". A raccontarlo davanto ai deputati della Commissione d'inchiesta sui rifiuti è Nicolò Moschitta, maresciallo dei Carabinieri e componente di punta del pool di investigatori che con De Grazia, si occupava delle navi dei veleni. "In modo particolare, (nel documento) si trattava della fuga di Licio Gelli da Lugano fino al suo rifugio segreto nel principato di Monaco. Ci risulta che la casa in cui era ospitato Licio Gelli era di Giorgio Comerio. In seguito, i servizi segreti sono entrati ufficialmente con noi nell'indagine perché esaminavano la documentazione, d'accordo con la magistratura. In effetti, è stata una collaborazione corretta, leale e senza problemi". La collaborazione tra procura e Sismi proseguì anche dopo che il fascicolo fu trasmesso alla direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria. La conferma è nel provvedimento con il quale il sostituto procuratore Alberto Cisterna, divenuto poi titolare dell'indagine, autorizzò la polizia giudiziaria "ad avvalersi dell'ausilio informativo del Sismi per il tramite di persone nominativamente indicate appartenenti all'ottava divisione". Se quello descritto "fu il rapporto 'formale' tra procura e servizi segreti, in merito alle indagini sulle "navi a perdere", Secondo la Commissione, si tratterebbe di "un ulteriore profilo di intervento dei servizi segreti nella materia riguardante il traffico dei rifiuti radioattivi e tossico nocivi e il traffico di armi". "In particolare il documento proveniente dal Copasir, riguarda una comunicazione del Sismi al Cesis in merito alle spese sostenute nell'anno 1994 per i servizi di intelligence connessi al problema del traffico illecito di rifiuti radioattivi e di armi, indicati nella misura di 500 milioni di lire. Si tratta di un documento desecretato dalla Commissione particolarmente interessata a comprendere in che modo fossero stati utilizzati i 500 milioni di lire nelle operazioni di intelligence relative al traffico di rifiuti e di armi. Per farne cosa? "Non è stato però possibile, nonostante le numerose audizioni effettuate sul punto, sapere in che modo sia stata spesa la somma di cui sopra, per lo svolgimento di quali attività e, ancor prima, per quali ragioni i servizi, all'epoca, fossero interessati al tema dei rifiuti radioattivi". Che i servizi fossero stati coinvolti ufficialmente nell'inchiesta delle navi è un fatto accertato. Ora però la commissione si pone anche qualche altra domanda, visto che gli stessi servizi controllavano i movimenti del pool di magistrati e investigatori che lavoravano al caso. E infatti: "È stato, inoltre, prospettato alla Commissione, ma non è stato acquisito alcun riscontro al riguardo, un ulteriore ipotetico interessamento dei servizi all'indagine svolta da Neri attraverso il controllo delle attività poste in essere dalla procura e dagli ufficiali di polizia giudiziaria". Le indicazioni in questo senso le fornisce il Colonello della Forestale Rino Martini (anch'esso coinvolto nelle indagini) alla Commissione quando dice: "In quel periodo, si verificarono due episodi, uno dei quali ricordato dal procuratore Pace. Per una settimana siamo stati filmati da un camper parcheggiato di fronte alla caserma in cui operavo. Una sera in cui erano stati invitati anche altri magistrati, avevamo deciso di recarci in una bettola sul Maddalena, che non è frequentata da nessuno durante la cena perché è aperta solo di giorno, e dieci minuti dopo il nostro arrivo attraverso una strada nel bosco è arrivata un'altra autovettura e si sono presentati a cena due ragazzi di trentanni, che hanno lasciato la macchina nel parcheggio. Siamo usciti per primi e, attraverso due sottufficiali dei Carabinieri di Reggio Calabria presenti, dalla targa dell'autovettura siamo risaliti al proprietario: il Sisde di Milano. (...) Certamente, c'era un controllo telefonico e attività ambientali di verifica su come ci muovevamo".
'Rigel', è al largo di Capo Spartivento la nave perduta carica di veleni, continua “La Repubblica”. Il cargo, che batteva bandiera maltese, venne fatto affondare il 21 settembre 1987. Prima di morire, il comandante De Grazia aveva trovato abbondanti prove sul fatto che il naufragio era servito per nascondere in fondo al mare un inconfessabile carico di scorie nucleari. Truffe, corruzione, cemento e polvere di marmo per nascondere l'evidenza. Motonave Rigel, battente bandiera maltese, stazza 3852 tonnellate. Affondata 20 miglia a largo di Capo Spartivento alla latitudine di 37 gradi e 58' nord e longitudine di 16 gradi e 49' est, almeno ufficialmente. È una carretta del mare, molto voluminosa certo, ma pur sempre una carretta. È colata a picco, con il suo carico "generico", il 21 settembre del 1987. E' una nave dei veleni, o meglio è l'unica delle navi cercate dal capitano Natale De Grazia su cui affiorano indizi precisi, sostenuti da un'inchiesta precedente. Dell'affondamento della Rigel, infatti, si viene a sapere per un dettaglio particolare. L'armatore greco Papanicolau chiede ai Lloyd's il risarcimento dei danni. La nave era assicurata e, dopo il naufragio, il proprietario vuole passare all'incasso. Scrive a Londra, senza prevedere che le assicurazioni, prima di pagare, avrebbero condotto le loro indagini, acquisendo elementi quantomeno singolari. E scoprendo che l'affondamento era una truffa. Che era stato provocato per mettere le mani su qualche miliardo della compagnia. Circostanza costata ai protagonisti della vicenda una condanna penale definitiva. La storia della Rigel è emblematica. È la copia conforme di altre vicende e, forse, è anche rappresentativa dell'intera storia del traffico dei veleni. C'è del marcio. È chiaro. Basta leggere le carte dell'inchiesta della procura della Repubblica di La Spezia. Dell'affondamento non c'è traccia nei registri delle Autorità marittime locali e nazionali. Non una parola. Da nessuna parte. Se non ci fosse stata la denuncia di Papanicolau, di questa nave, affondata durante il suo viaggio da Marina di Carrara a Limassol (Cipro), non sarebbe rimasta neanche l'ombra. L'equipaggio quel 21 settembre non lancia neppure l'SOS. Non chiede aiuto alle Capitanerie di Porto calabresi o siciliane, che in poche ore avrebbero potuto essere sul posto. Niente di tutto questo. Comandante e marinai vengono salvati "per caso" dalla Krpan, una nave jugoslava che non li sbarca in uno dei tanti approdi italiani che ha sulla rotta. Se ne va invece in giro per il Mediterraneo per un po' e poi scarica tutti a Tunisi. Strano. E non è il solo elemento anomalo. Il processo per truffa stabilisce che c'è qualcosa che non va anche sul carico denunciato. Secondo i registri, nella stiva della Rigel c'erano "macchine riutilizzate" e "polvere di marmo". In realtà quel carico non era stato mai controllato dalla dogana, i funzionari dell'ufficio si erano fatti corrompere per 900 mila lire a container. Alcuni dei soggetti coinvolti nell'inchiesta di La Spezia, pur ammettendo di non sapere cosa in realtà trasportasse la nave, ammisero che il carico non era quello dichiarato e che era stata commessa una truffa ai danni dell'assicurazione. C'è di certo che almeno 60 container erano stati riempiti di blocchi di cemento, "appositamente realizzati nell'arco di tre mesi". Perché? Qualcuno potrebbe rilevare che i blocchi servissero per far affondare prima la nave. Sbagliato. O quantomeno illogico. Il cargo era pieno di mille e 700 tonnellate di polvere di marmo, oltre alle presunte "macchine". Sufficienti a far inabissare qualsiasi nave. E, se proprio ci fosse stato un problema, perché non usare altra polvere di marmo? È più pesante del cemento e persino meno costosa. Invece no. Invece si decide per i blocchi. La spiegazione del magistrato Francesco Neri nelle carte dell'indagine che si stava svolgendo a Reggio Calabria è netta: "Appare ipotizzabile che la presenza a bordo dei blocchi fosse utile alla cementificazione di rifiuti radioattivi". Non è finita. Ci sono tre persone, lavoratori del porto coinvolti nelle indagini, che parlano con il pm. Sono Paolo Lantean, Nedo Picchi e Riccardo Baronti, e confermano che "i container, una volta caricati dei blocchi di cemento, di notte, erano stati tenuti d'occhio da alcuni sconosciuti". Personaggi strani, che avevano montato la guardia ai contenitori d'acciaio e che ci avevano girato attorno per diverse ore. Cosa sorvegliavano? C'è poi dell'altro. La Rigel è già pronta a salpare il 2 settembre. Ma non si muove da Marina di Carrara. La ragione è semplice: Papanicolau vuole i soldi che gli spettano dai caricatori. Un miliardo e mezzo, come stabilito tramite l'avvocato genovese Teresa Gatto. Si legge nella sentenza che lo condanna per la truffa: "Una parte doveva essere versata entro due giorni dalla partenza della Rigel da Marina di Massa e l'altra metà prima del naufragio". Si è accertato che ci furono dei ritardi nei pagamenti e che la Rigel dopo la partenza si fermò per qualche tempo a Palermo, poi gironzolò davanti a Capo Spartivento per almeno una settimana prima di essere affondata. Aspettava, insomma, il segnale dell'avvenuto incasso. E, infatti, i soldi arrivano estere su estero la sera del 18 settembre. E la nave cola a picco il 21. "Lost the ship". La storia riaffiora quando il comandante Natale De Grazia, durante una perquisizione nel maggio del '95, trova un'agenda che viene poi sequestrata. Alla pagina del 14 settembre c'è un appunto in inglese: "Se noi non abbiamo il denaro disponibile prima del 19 settembre non possiamo comprare la nave per la produzione al pubblico". E, sul foglio dell'agenda relativo al 21 settembre, la frase "Lost the ship". Che tradotto significa "Perduta la nave". Coincidenze? I riferimenti alla Rigel sembrano chiari. L'agenda era in un cassetto dell'ufficio di Giorgio Comerio, il faccendiere implicato in mille traffici di rifiuti ed in altrettanti di armi. Uno che è pappa e ciccia con i servizi segreti di mezzo mondo. Prima di partire per il suo ultimo viaggi De Grazia aveva telefonato all'allora procuratore di Matera Nicola Maria Pace che conduceva indagini parallele a quelle di Reggio Calabria sul traffico di rifiuti radioattivi: "Procuratore quando torno deve venire a Reggio Calabria. La porto nel punto preciso in cui è affondata la Rigel". Non è mai più tornato.
Commissione di inchiesta sul ciclo dei rifiuti. RELAZIONE SULLA MORTE DEL CAPITANO DI FREGATA NATALE DE GRAZIA. Segue il testo della ”Relazione sulla morte del capitano di fregata Natale De Grazia” così come è stata pubblicata sul sito del relatore on. Alessandro Bratti. (Relatori: On. Gaetano PECORELLA e On. Alessandro BRATTI) Approvata dalla Commissione nella seduta del 5 febbraio 2013- Comunicata alle Presidenze l’11 febbraio 2013 ai sensi dell’articolo 1, comma 2, della legge 6 febbraio 2009, n. 6.
RELAZIONE SULLA MORTE DEL CAPITANO DI FREGATA NATALE DE GRAZIA
PREMESSA
Il capitano Natale De Grazia. Il dodici dicembre
1995 è stato l’ultimo giorno di vita del capitano Natale De Grazia. Alle prime
ore del 13 dicembre 1995, qualche giorno prima del suo trentanovesimo
compleanno, il capitano De Grazia è deceduto per cause che a molti apparvero
quanto meno sospette e che ancora oggi, a distanza di anni, continuano ad essere
considerate tali. Il capitano di fregata Natale De Grazia era un ufficiale della
Marina militare, in servizio presso la Capitaneria di porto di Reggio Calabria.
Al momento della sua morte era applicato alla sezione di polizia giudiziaria
presso la procura circondariale di Reggio Calabria e faceva parte di un pool
investigativo, coordinato dal sostituto procuratore Francesco Neri, costituito
per effettuare le indagini avviate a seguito di un esposto presentato da
Legambiente, concernente presunti interramenti di rifiuti tossici in Aspromonte.
Nel corso dell’inchiesta si aprirono subito scenari inquietanti legati al
fenomeno delle “navi a perdere”, indicandosi con tale espressione le navi
affondate dolosamente con carichi di rifiuti radioattivi o comunque tossici,
smaltiti illegalmente nelle profondità marine. Secondo un dossier di Legambiente
trasmesso alla Commissione gli affondamenti sospetti di navi, tra il 1979 ed il
2000, sarebbero stati 88 (doc. 117/30). Del gruppo investigativo facevano parte,
oltre al capitano De Grazia, il maresciallo capo Scimone Domenico, appartenente
alla sezione di polizia giudiziaria dei Carabinieri presso la procura di Reggio
Calabria, il maresciallo Moschitta e il carabiniere Rosario Francaviglia, questi
ultimi due appartenenti al nucleo operativo del reparto operativo CC di Reggio
Calabria. In un momento successivo parteciparono attivamente alle indagini anche
ufficiali di polizia giudiziaria appartenenti al Corpo forestale dello Stato di
Brescia e di La Spezia.
Nelle indagini il capitano De Grazia profuse una dedizione ed un impegno fuori
dal comune, tali da farlo considerare, anche dai sui stessi colleghi, il
“motore” dell’inchiesta. Non a caso, dopo la sua morte, le attività
investigative (giunte a risultati importanti e, da un certo punto di vista, ad
una vera e propria fase di svolta) subirono un rallentamento significativo:
alcune delle attività che il capitano stava personalmente compiendo non furono
proseguite e si disperse, in parte, quel bagaglio di conoscenze e di
professionalità che il capitano aveva acquisito nel corso dell’inchiesta e aveva
messo a servizio dei magistrati e dei colleghi. Per dare un’idea di quanto fosse
considerato fondamentale l’apporto professionale del capitano De Grazia, basti
leggere le note che il procuratore capo della procura circondariale di Reggio
Calabria, dottor Scuderi, inviò al comandante della Capitaneria di porto e al
procuratore generale presso la Corte d’appello di Reggio Calabria: la prima, del
13 novembre 1995, finalizzata a far dispensare il capitano dalle ordinarie
attività svolte presso la Capitaneria di porto onde consentirgli di dedicarsi
all’indagine della procura; la seconda, di ringraziamento, del 27 novembre 1995
(doc. 681/7). Entrambe si riportano integralmente.
Nota del 13 novembre 1995: “Oggetto: Proc. penale n. 2114/94 R.G.N.R. – Indagini relative ad un traffico di rifuti tossici e/o radioattivi. Com’è noto alla S.V., anche per aver partecipato ad una delle riunioni promosse dal procuratore generale per il coordinamento tra le varie procure interessate, da parte di quest’ufficio sono in corso le indagini di cui in oggetto, le quali hanno già conseguito i primi risultati anche grazie al prezioso contributo, in termini di professionalità, intuito investigativo e spirito di sacrificio, del C.C. Natale De Grazia, in servizio presso codesto Comando. Da circa tre mesi, però, detto ufficiale si trova nell’impossibilità di svolgere tale attività in quanto impegnato, come dalla S.V. personalmente significatomi in via informale, nell’espletamento dei suoi compiti di Istituto. La conseguenza immediata di ciò, purtroppo, è stata una situazione di stallo dell’attività investigativa, che ha gravemente risentito, per la sua specificità (pare che i rifiuti vengano smaltiti col sistema delle “navi a perdere”), del venir meno delle conoscenze tecniche del succitato ufficiale (oltre che della sua elevata professionalità). In considerazione di quanto sopra, vorrà esaminare la possibilità di disporre che il capitano De Grazia sia temporaneamente, e per due mesi almeno, dispensato dai compiti attinenti a codesto ufficio, onde consentirgli di riprendere a collaborare con lo scrivente nello svolgimento delle delicate e complesse indagini di cui sopra”.
Nota del 27 novembre 1995: “La presente per darLe
atto della grande sensibilità dimostrata in relazione ai problemi che ebbi a
prospettarle con la mia del 13 u. s. ringraziarla vivamente della sollecitudine
con cui ha consentito al capitano De Grazia di continuare a collaborare con
quest’ ufficio nelle indagini di cui in oggetto”. Rientrato a tempo pieno nel
gruppo investigativo, il capitano De Grazia si dedicò nuovamente alle indagini
con la consueta determinazione.
Nel tardo pomeriggio del 12 dicembre 1995 partì, unitamente al maresciallo
Moschitta e al Carabiniere Francaviglia, con autovettura di servizio, alla volta
di La Spezia per dare esecuzione alle deleghe di indagine, firmate dal
procuratore Scuderi e dal sostituto Neri, finalizzate ad acquisire maggiori
elementi di conoscenza in merito all’affondamento di alcune navi. Durante il
viaggio, sul tratto autostradale di Salerno, alle prime ore del 13 dicembre
1995, il capitano venne colto da malore e, quindi, trasportato dall’ambulanza,
nel frattempo intervenuta, presso il pronto soccorso dell’ospedale di Nocera
Inferiore, ove però giunse cadavere.
Con nota del 22 dicembre 1995 il capitano Antonino Greco, comandante del nucleo operativo del reparto operativo CC di Reggio Calabria, rimise al procuratore Scuderi le sei deleghe di indagine datate 11 dicembre 1995 “non potute evadere a causa del decesso del capitano di corvetta De Grazia Natale” (doc. 321/2). Il Comitato civico “Natale De Grazia” ha trasmesso alla Commissione una serie di documenti dai quali si rileva che nel giugno 2004 l’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi conferì al capitano De Grazia la Medaglia d’oro alla Memoria con le seguenti motivazioni: “Il capitano di Fregata (CP) Spe r.n. Natale DE GRAZIA ha saputo coniugare la professionalità, l’esperienza e la competenza marinaresca con l’acume investigativo e le conoscenze giuridiche dell’Ufficiale di Polizia Giudiziaria, contribuendo all’acquisizione di elementi e riscontri probatori di elevato valore investigativo e scientifico per conto della procura di Reggio Calabria. La sua opera di Ufficiale di Marina è stata contraddistinta da un altissimo senso del dovere che lo ha portato, a prezzo di un costante sacrificio personale e nonostante pressioni ed atteggiamenti ostili, a svolgere complesse investigazioni che, nel tempo, hanno avuto rilevanza a dimensione nazionale nel settore dei traffici clandestini ed illeciti operati da navi mercantili. Il comandante De Grazia è deceduto in data 13.12.1995 a Nocera Inferiore per “Arresto cardio-circolatorio”, mentre si trasferiva da Reggio Calabria a La Spezia, nell’ambito delle citate indagini di “Polizia Giudiziaria”. Figura di spicco per le preclare qualità professionali, intellettuali e morali, ha contribuito con la sua opera ad accrescere e rafforzare il prestigio della Marina militare Italiana” (doc. 191/2).
L’APPROFONDIMENTO SULLA MORTE DEL CAPITANO DE GRAZIA
L’approfondimento sulle cause del decesso del capitano De Grazia si inserisce nel contesto dei più ampi accertamenti chela Commissione ha effettuato sul fenomeno delle “navi a perdere”. Si tratta di un tema tornato di attualità a seguito del rinvenimento nell’anno 2009, sui fondali antistanti la costa di Cetraro, del relitto di una nave, inizialmente (ed erroneamente) ritenuta essere la Cunsky ossia una delle navi che l’ex collaboratore di giustizia Francesco Fonti aveva indicato essere state affondate dolosamente insieme al loro carico di rifiuti altamente tossici. In relazione a questa vicenda, la procura di Paola ha aperto un procedimento penale, poi proseguito dalla procura di Catanzaro e conclusosi con un provvedimento di archiviazione. Nell’ambito di questa più ampia inchiesta, invero, sono emerse talune peculiarità relative alle circostanze che hanno accompagnato il decesso del capitano ritenute meritevoli di ulteriori approfondimenti sia perché le indagini effettuate all’epoca furono carenti sotto molteplici aspetti, lasciando insoluti interrogativi in ordine alle cause del decesso sia perché tale tragico evento si inserisce in un contesto investigativo del tutto particolare in ragione degli interessi in gioco e dei personaggi coinvolti (dalle indagini sulle navi a perdere condotte dalle procure di Reggio Calabria e Matera emersero, infatti, per la prima volta indizi di un disegno criminoso di respiro sovranazionale, nel quale apparivano coinvolti diversi Stati, riguardante il presunto inabissamento in mare di rifiuti tossici). La Commissione, oltre ad aver acquisito copia degli atti del procedimento aperto presso la procura della Repubblica di Nocera Inferiore relativo al decesso del capitano nonché degli atti riguardanti le indagini alle quali lo stesso capitano De Grazia aveva preso parte, ha svolto direttamente una serie di attività mirate a far luce sugli aspetti poco chiari della vicenda. In primo luogo, si è cercato di comprendere come mai, dopo la morte del capitano, il gruppo investigativo si fosse progressivamente sfaldato, come se, ad un certo momento, tutti coloro che ne avevano preso parte non fossero più interessati a proseguire, nonostante si trattasse di un’indagine particolarmente rilevante sia per l’oggetto trattato (smaltimento illecito di rifiuti radioattivi) sia per le dimensioni sovranazionali del traffico illecito sia, ancora, per la collaborazione prestata non solo da diverse forze di polizia operanti sul territorio nazionale, ma anche dai servizi segreti, in particolare dal Sismi. Contestualmente, si è cercato di comprendere se effettivamente, all’epoca, vi fosse un clima di intimidazione che gli stessi inquirenti hanno dichiarato di aver percepito durante lo svolgimento del loro lavoro. Ancora, sono stati oggetto di approfondimento da parte della Commissione alcuni aspetti emergenti proprio dall’indagine avviata dalla magistratura in ordine al decesso del capitano e conclusasi con provvedimento di archiviazione.
L’ATTIVITÀ DELLA COMMISSIONE
Gli approfondimenti della Commissione sono stati effettuati attraverso: - l’acquisizione dei documenti afferenti le indagini dell’autorità giudiziaria (tra i più rilevanti si segnalano gli atti delle indagini svolte dalle procure circondariali di Reggio Calabria e di Matera in merito allo smaltimento di rifiuti radioattivi; gli atti dei procedimenti relativi al decesso del capitano De Grazia; gli atti dei procedimenti iscritti dalla procura presso il tribunale di Reggio Calabria e dalla procura presso il tribunale di Paola);
- l’acquisizione di documenti utilizzati da precedenti Commissioni parlamentari di inchiesta (Commissione di inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, Commissioni parlamentari di inchiesta sul ciclo dei rifiuti presediute dall’On. Russo e dall’On. Scalia);
- audizione dei persone in grado di riferire
elementi utili ai fini dell’inchiesta.
E’ stato, inoltre, conferito un incarico di consulenza tecnica al prof. dottor
Giovanni Arcudi (direttore dell’Istituto di medicina legale nella facoltà medica
dell’Università di Roma “Tor Vergata” nonchè consulente della Commissione) al
fine di operare una rivalutazione delle attività medico legali svolte dai
consulenti nominati dal pubblico ministero e dalle parti civili nell’ambito del
procedimento aperto presso la procura della Repubblica di Nocera Inferiore,
volto ad accertare le cause del decesso del capitano De Grazia.
Tra gli auditi si segnalano:
- i magistrati Francesco Neri, Nicola Maria Pace, Francesco Greco, Giancarlo Russo, Felicia Genovese, Francesco Basentini, Alberto Cisterna;
- Postorino Francesco, cognato del capitano di fregata Natale De Grazia;
- il maresciallo Niccolò Moschitta, già appartenente al nucleo oeprativo dei Carabinieri di Reggio Calabria;
- il maresciallo Domenico Scimone, già appartenente al nucleo oeprativo dei Carabinieri di Reggio Calabria;
- il carabiniere Rosario Francaviglia, appartenente al nucleo oeprativo dei Carabinieri di Reggio Calabria;
- il carabiniere Angelantonio Caiazza;
- il carabiniere Sandro Totaro;
- l’ex colonnello del Corpo forestale dello Stato di Brescia, Rino Martini;
- il brigadiere del Corpo dello Stato Gianni De Podestà;
- il vice ispettore del Corpo forestale dello Stato dello stato Claudio Tassi;
- Francesco Fonti, ex collaboratore di giustizia;
- il medico legale, dottoressa Del Vecchio;
- il medico legale, dottor Asmundo;
- il comandante in seconda, ufficiale presso la Capitaneria di porto di Vibo Valentia, Giuseppe Bellantone;
- rappresentanti della società di navigazione Ignazio Messina.
La relazione è strutturata in due parti: La prima dedicata all’indagine avviata dalla procura circondariale di Reggio Calabria, nella quale ebbe un ruolo determinante il capitano De Grazia. Ed infatti, non è possibile trattare adeguatamente il tema del decesso del capitano, senza avere prima analizzato nel dettaglio l’indagine nella quale lo stesso era impegnato; in questa parte si è affrontato anche il tema relativo allo sfaldamento del gruppo investigativo nel quale operava il capitano De Grazia. La seconda parte è dedicata alle cause della morte del capitano e all’inchiesta aperta sul punto dalla magistratura. Sono poi riportati gli accertamenti e le attività che la Commissione ha ritenuto di svolgere al fine di approfondire tutti gli aspetti ritenuti poco chiari. Infine, vi sono le conclusioni, nelle quali la Commissione – pur nella consapevolezza della difficoltà di scrivere una parola definitiva sulla vicenda in questione, tenuto conto del lasso di tempo trascorso dagli accadimenti – riesamina criticamente tutti gli elementi acquisiti.
PARTE PRIMA – LE INDAGINI GIUDIZIARIE
1 – L’INDAGINE AVVIATA DALLA PROCURA CIRCONDARIALE DI REGGIO CALABRIA
1.1 – La denuncia di Legambiente del 2 marzo 1994
e l’apertura del procedimento. La Commissione ha accertato che il primo
procedimento penale aperto in relazione alla vicenda delle “navi a perdere” fu
quello recante il n. 2114/94 mod. 21 R.G.N.R., iscritto presso la procura
circondariale di Reggio Calabria, assegnato al sostituto procuratore della
Repubblica, dottor Francesco Neri. Il procedimento venne aperto inizialmente a
carico di ignoti a seguito di un esposto di Legambiente del 2 marzo 1994 nel
quale si denunciava l’esistenza, in Aspromonte, di discariche abusive contenenti
materiale tossico-nocivo e/o radioattivo, trasportato con navi presso porti
della Calabria e, successivamente, in montagna con automezzi pesanti. Nella
denuncia si evidenziava come il territorio calabrese si prestasse
particolarmente alla realizzazione di discariche abusive sia perché i porti
erano scarsamente controllati, sia perché l’Aspromonte, con le sue caverne
naturali, appariva il luogo ideale in cui nascondere questo tipo di materiale.
Vennero, pertanto, disposti dal pubblico ministero accertamenti tecnici – per il
tramite dell’istituto geografico militare – finalizzati a verificare se il
territorio calabrese fosse effettivamente adatto per un simile illecito
smaltimento di rifiuti. La risposta fu affermativa in quanto realmente
l’Aspromonte, per la sua geomorfologia, accessibilità e vicinanza a porti
incontrollati si prestava ad essere utilizzato per occultare rifiuti pericolosi.
Contestualmente, vennero delegate indagini ai ROS, alla Guardia di finanza e
alla squadra mobile di Reggio Calabria, finalizzate ad accertare quali veicoli
pesanti avessero potuto trasportare rifiuti in Aspromonte. Occorre subito
evidenziare che – in poco meno di un anno – le indagini ebbero sviluppi
inimmaginabili, tanto che nel giugno 1995 il sostituto procuratore Francesco
Neri sentì l’esigenza di trasmettere al procuratore capo una relazione nella
quale evidenziava le tappe investigative ed i sorprendenti scenari che si erano
aperti, per i quali riteneva necessario procedere con rogatorie internazionali,
collaborazioni con altre procure, non solo calabresi, e scambio di informazioni
con i servizi segreti (cfr. doc. 362/3 allegato).
1.2 – Approfondimenti relativi alla nave Korabi e
costituzione del primo gruppo investigativo. Il tema investigativo ben preso si
ampliò. Ed infatti, contemporaneamente allo svolgimento degli accertamenti sulle
caratteristiche del territorio calabrese, giunse alla procura di Reggio Calabria
la notizia che la nave Koraby, battente bandiera albanese e salpata dal porto di
Durazzo con destinazione Palermo, era stata perquisita nella rada antistante
“Pentimele” perché sospettata di trasportare materiale radioattivo (scorie di
rame di altoforno). La nave, giunta a Palermo, era stata respinta per
radioattività del carico. Tuttavia, al successivo controllo presso il porto di
Reggio Calabria, ove si era ormeggiata, detta radioattività non era stata
riscontrata. La nave aveva, perciò, ripreso la sua navigazione con destinazione
Durazzo. Questo dato è stato rappresentato dal dottor Neri come particolarmente
inquietante perché poteva far presumere che la nave si fosse disfatta del carico
radioattivo nel percorso tra Palermo e Reggio Calabria.
Nel corso dei controlli effettuati presso il porto di Reggio Calabria dalla
Guardia di finanza venne trovato a bordo della nave un motore fuoribordo, del
quale il comandante non seppe fornire alcuna giustificazione. I successivi
controlli effettuati consentirono di accertarne la provenienza furtiva. Venne
disposto, dunque, il fermo di polizia giudiziaria del comandante per
ricettazione ed il sequestro della nave, nel frattempo ormeggiata presso il
porto di Pescara. Gli accertamenti disposti successivamente sulla radioattività
della motonave Koraby ebbero esito negativo e la nave venne, pertanto,
dissequestrata. Fu disposta, in seguito, consulenza collegiale per accertare se
le “presunte” scorie di rame contenessero “plutonio” o altre sostanze
radioattive o fungessero da “scudo” ad altra fonte radioattiva di cui il
comandante si era potuto disfare nel tragitto tra Palermo e Reggio Calabria.
Invero, lo stesso, nel corso dell’interrogatorio reso innanzi all’autorità
giudiziaria di Pescara, aveva dichiarato che il carico ritirato a Durazzo era
stato scaricato a Rieka (Fiume) Slovenia per essere poi caricato su vagoni
ferroviari con destinazione ignota (cfr. doc. 362/3 allegato). Si iniziò,
dunque, a profilare l’ipotesi che rifiuti tossici potessero essere smaltiti
illecitamente in mare.
La denuncia di Legambiente fu trasmessa anche alle procure di Locri, Palmi, Vibo
Valentia e Crotone. Fu disposta una consulenza collegiale da parte di tutte le
procure interessate al fine di ottenere una mappa aggiornata di tutti i
possibili siti (discariche, cave, ecc.) di stoccaggio abusivo di rifiuti
radioattivi e tossico/nocivi. Sempre nello stesso periodo venne acquisita dalla
procura della Repubblica di Savona (pubblico ministero dottor Landolfi)
documentazione circa il ritrovamento di 6.000 fusti contenenti materiale tossico
in una cava di Borghetto Santo Spirito, gestita da personaggi legati alle cosche
calabresi. L’ipotesi, poi approfondita dalla procura di Locri, competente per
territorio, era che il materiale tossico potesse essere destinato al sud, nei
territori gestiti dalle cosche predette. Anche dalle procure di Vibo Valentia,
Crotone e Palmi pervennero notizie in merito a presunti interramenti di rifiuti
tossici.
Quello sopra descritto è lo scenario nel quale si sviluppò l’indagine condotta
dal dottor Francesco Neri. Proprio per la complessità delle situazioni emerse
venne creato un apposito gruppo investigativo costituito dal maresciallo capo
Scimone Domenico, appartenente alla sezione di polizia giudiziaria dei
Carabinieri presso la procura di Reggio Calabria, dal capitano di fregata De
Grazia Natale, dal maresciallo M. Moschitta e dal carabiniere Rosario
Francaviglia, questi ultimi due appartenenti al nucleo operativo del reparto
operativo CC di Reggio Calabria. Tale gruppo ebbe modo di interfacciarsi sia con
la procura di Matera (che indagava sul centro ricerche Trisaia Enea di
Rotondella) sia con il Corpo forestale dello Stato di Brescia (che aveva da
tempo avviato indagini mirate su Giorgio Comerio, presunto trafficante di
rifiuti tossici e, più in generale, mirate sul traffico di rifiuti radioattivi).
1.3 – Audizione del teste “Billy” e coordinamento investigativo con la procura di Matera. Nel marzo 1995 l’indagine si arricchì di elementi importanti, riguardanti il traffico e la gestione delle scorie nucleari in Italia, lasciando intravedere anche il coinvolgimento dell’Enea. Un funzionario di questo ente, ingegner Carlo Giglio, chiese espressamente alla polizia giudiziaria di essere sentito, dopo aver appreso dalla stampa che la procura di Reggio Calabria si stava occupando di traffici illegali di rifiuti radioattivi in Calabria. Il teste venne sentito a Roma, ove risiedeva, il 17 marzo 1995(doc. 681/44 allegato), dal dottor Neri e dai marescialli Scimone e Moschitta. Riferì di essere riuscito a scoprire, nell’ambito della sua attività istituzionale, che la registrazione degli scarti nucleari era truccata per rendere incontrollabile il movimento in entrata e in uscita di tutto il materiale radioattivo che doveva essere gestito presso tutti gli impianti nucleari. Dichiarò che le sue relazioni ispettive effettuate presso i centri Enea di Rotondella (MT) e di Saluggia (Vercelli) scatenarono all’interno dell’ente azioni di ritorsione che sfociarono in denunce per diffamazione e calunnia. Parlò, poi, di una presunta attività clandestina dell’Enea finalizzata a fornire tecnologia e materiale nucleare all’Iraq (12.000 kg di uranio), delle reazioni del governo americano e dei servizi segreti israeliani. Riferì, ancora, in ordine allo smaltimento dei rifiuti radioattivi prodotti dall’Enel, sotto la supervisione dell’Enea, la cui destinazione sarebbe stata ignota. L’ingegner Giglio, in quell’occasione, rese una serie di dichiarazioni attinenti ad una presunta attività di fornitura da parte dell’Italia all’Iraq di armi da guerra (comprese navi) e di tecnologie nucleari. Particolarmente significative si rivelarono le dichiarazioni relative al traffico clandestino di materiale nucleare: “(…) la scelta di Palermo come punto di riferimento per il traffico clandestino di materiale nucleare non è occasionale, ma mirato, in quanto è logico ritenere che solo la Mafia o le altre organizzazioni criminali operanti al sud potevano garantire quella attività di copertura necessaria per detti traffici. (…). Altro aspetto inquietante del traffico illecito di materiale radioattivo concerne lo smaltimento effettuato, con la supervisione dell’Enea, da parte dell’Enel di rifiuti radioattivi la cui destinazione è a tutt’oggi ignota. Mentre la conferma che la Calabria è stata utilizzata come deposito illecito di materiale radioattivo è data dalla scoperta di una discarica abusiva di un tale Pizzimenti. L’ing. Giglio fa inoltre presente come la persecuzione subita nell’ambito del suo ente sia dipesa essenzialmente dall’avere adempiuto ai suoi doveri denunciando alla magistratura, al suo ente ed alle varie Commissioni di inchiesta i fatti sin qui narrati (…)”.
In seguito, l’ingegner Giglio, per la delicatezza delle dichiarazioni rilasciate, fu chiamato dagli investigatori con lo pseudonimo “Billy”. Nacque, quindi, l’esigenza di coordinare le indagini con quelle svolte dalla procura circondariale di Matera, in particolare dal procuratore Nicola Maria Pace, dal momento che questi, sin dai primi anni ‘90, stava svolgendo indagini in merito ad un presunto traffico di rifiuti radioattivi provenienti dal Centro Trisaia Enea di Rotondella (procedimento penale n. 254/93 R.G.N.R.). Secondo quanto riferito dal dottor Pace alla Commissione era stato ipotizzato un interesse dell’Enea nell’attività di smaltimento in mare attraverso le navi. Questa ipotesi aveva portato al coordinamento investigativo con le attività svolte sul territorio limitrofo dagli investigatori operanti in Calabria, guidati dal dottor Neri. Ed, in effetti, Carlo Giglio venne successivamente sentito, in data 10 maggio 1995, dal dottor Neri e dal dottor Pace, questa volta presso gli uffici del Corpo forestale dello Stato di Brescia (alla presenza dei marescialli Moschitta e Scimone). In tale occasione fornì talune precisazioni in merito a quanto già riferito in precedenza: “i controlli da me effettuati in presenza dei rappresentanti Enea presso i centri sono stati sempre oggetto di verbali di sopralluogo firmati dal sottoscritto e dalla stessa direzione Enea (…) tali verbali sono stati sempre trasmessi all’autorità giudiziaria competente per le gravissime deficienze riscontrate nei sistemi di monitoraggio e di misura della radioattività e per quanto riguarda specificatamente il Centro di Rotondella”. Precisò, poi, che il processo avviato in merito a tali fatti si era concluso con una sentenza emessa dal tribunale di Matera in data 28 maggio 1984 con la quale furono assolti sia gli ispettori dell’Enea sia il direttore dell’impianto. In sintesi, le dichiarazioni di Carlo Giglio hanno fatto riferimento a presunti fatti di particolari gravità, quali:
- la non corretta tenuta della contabilità all’interno del centro Enea di Rotondella tale da consentire l’uscita di rifiuti radioattivi erroneamente definiti “scarti”;
- l’esistenza di un traffico illecito di rifiuti radioattivi (negli anni ‘80/’90) destinati ai paesi del terzo mondo, in particolare Irak, Pakistan e Libia, ove sarebbero stati utilizzati per la produzione di ordigni atomici;
- l’insussistenza di un’effettiva ed efficace attività di controllo tra Enea ed Enel, nonchè la totale inefficienza della Nucleco, società costituita tra Enea ed Agip, per il trattamento dei rifiuti radioattivi. Il successivo 16 giugno 1995, sempre innanzi ai pubblici ministeri Neri e Pace e alla presenza del colonnello Martini e del maresciallo Scimone, Carlo Giglio rese ulteriori dichiarazioni (questa volta presso la sede di Roma del Corpo forestale dello Stato). In sostanza, secondo quanto affermato dal Giglio, sarebbero state violate numerose norme penali (ma non sono specificate né le norme violate né le modalità attraverso le quali sarebbero state violate). Le ultime dichiarazioni rese da Carlo Giglio agli inquirenti, presso la procura della Repubblica di Reggio Calabria, risalgono al 5 dicembre 1995. In quella occasione il teste, in sostanza, evidenziò che:
- da quando aveva iniziato a collaborare con l’autorità giudiziaria, lui e i suoi familiari avevano vissuto strani episodi riconducibili a velate intimidazioni (così come era accaduto nel corso di precedenti indagini riguardanti l’Enea);
- Giorgio Comerio aveva avuto rapporti con l’Enea: “Non vi è dubbio che il Comerio ha avuto rapporti diretti con l’Enea se intendeva smaltire rifiuti radioattivi in mare (…) Addirittura nella strategia dell’ente si sta cercando di eliminare ogni prova o traccia di rapporti tra il Comerio ed altri dirigenti dell’Ente. Il Comerio infatti ha offerto all’ente i suoi servigi circa lo smaltimento in mare dei rifiuti radioattivi”;
- anche l’Italia aveva disperso in mare le scorie radioattive: “è noto che anche l’Italia ha disperso in mare scorie radioattive quindi l’Ente (Enea) è in grado di riferire dove, come e quando”;
- l’Enea sarebbe stata infiltrata dalla massoneria: “proprio per il tramite della massoneria deviata i traffici illeciti del materiale nucleare e strategico o quelli relativi allo smaltimento in mare possono essere attuati nell’ambito dell’Ente ai massimi livelli e con la copertura più ferrea compresa quella con i servizi deviati, da sempre e notoriamente coinvolti in detti traffici”. Sui fatti riguardanti il centro Enea di Rotondella la Commissione ha audito il dottor Pace. Lo stesso era stato, peraltro, già ascoltato sia dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti presieduta dall’On. Russo (in data 10 marzo 2005) sia dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin (quest’ultima audizione è segretata). Secondo quanto dichiarato nel corso dell’audizione del 10 marzo 2005:
- nel centro Enea di Rotondella era stata riscontrata una situazione di grave pericolo, in quanto giacevano rifiuti radioattivi liquidi ad alta attività all’interno di contenitori che, già all’epoca, avevano esaurito il tempo massimo previsto dal progetto;
- una delle principali anomalie dell’Enea era relativa alla mancanza di controlli esterni. La conservazione di materiali pericolosi all’interno di contenitori inidonei era una regola avallata, attraverso proroghe continue, da parte di due ingegneri i quali, dopo un incidente verificatosi il 14 aprile del 1994, furono costretti a redigere un documento di estremo allarme in merito alla situazione della centrale (documento che il dottor Pace inviò al Presidente della Repubblica dell’epoca);
- nel prosieguo delle indagini il dottor Pace aveva acquisito documenti da cui risultava che l’Italia, nel 1978, aveva ceduto all’Iraq due reattori plutonigeni Cirene; aveva, poi, accertato che presso la centrale Enea di Rotondella vi era la presenza continuativa di personale iracheno (tale ultima circostanza è stata riferita alla Commissione anche dalla dottoressa Genovese, nel corso dell’audizione del 21 ottobre 2009, allorquando ha dichiarato che nel corso delle indagini era emerso da fonti dichiarative che tecnici iracheni e pachistani “andavano e venivano” dall’Enea);
- il dottor Pace cercò di individuare i cosiddetti siroi(cavità, risalenti al IV secolo a.C., scavate nella roccia) che da un manuale dell’Enea risultavano impiegati per il deposito di scorie radioattive. Si rivolse per questo sia al prof. Quilici dell’Università di Bologna – il quale però gli disse che i siroi non erano più localizzabili -, sia ad un professore rumeno, tale Amasteadu, che aveva condotto studi archeologici in Basilicata. Anche quest’ultimo professore disse di non potere localizzare i siroi; aggiunse, però, che era stato pubblicato un testo, ormai introvabile, contenente le mappe dei siroi, testo che lui stesso aveva posseduto in passato, ma che gli era stato trafugato dopo avere ricevuto una strana visita da parte di non meglio identificati cittadini iracheni che gli avevano fatto numerose domande. Nel corso dell’audizione resa avanti a questa Commissione, avvenuta in data 20 gennaio 2010, il dottor Pace ha, sostanzialmente, confermato le dichiarazioni precedentemente rese, aggiungendo ulteriori particolari. Alla domanda posta dal Presidente, on. Gaetano Pecorella: “vorrei sapere se al centro Enea giungessero anche materiali radioattivi esterni, cioè provenienti da altri paesi o da altre fonti di produzione. Vorrei chiederle inoltre se il sistema di controllo dell’entrata e dell’uscita di questi materiali fosse in grado di garantire almeno che ciò che usciva fosse verificato, cioè risultasse in modo documentale. Uno dei punti sostenuti da Fonti, che stiamo verificando, è che questo materiale radioattivo provenisse dall’Enea di Rotondella attraverso camion che uscivano durante la notte. Vorremmo quindi capire se la situazione contabile potesse offrire una qualche garanzia di ciò che entrava e di ciò che usciva”, il dottor Pace ha risposto di avere attentamente valutato la contabilità dell’Enea, che presentava delle anomalie, ma non tali da indurre a ritenere che camion di materiali potessero uscire in modo incontrollato. E, tuttavia, secondo il confronto tra i dati di contabilità e il magazzino nucleare mancava il plutonio: “la contabilità risultava inveritiera soltanto per quanto riguarda il plutonio, fatto di non poco conto, tanto che su questo tema c’è stata una notevole dialettica con i massimi esponenti dell’Enea”. Con riferimento, invece, alla contabilità concernente i materiali esterni (quelli provenienti dagli ospedali e che dovevano avere la caratterizzazione, il registro di carico e scarico) tutta la documentazione dei rifiuti trasportati avrebbe dovuto essere custodita in un armadio, che invece fu trovato vuoto. Sul coordinamento investigativo tra la procura di Reggio Calabria e quella di Matera ha riferito alla Commissione anche il maresciallo Moschitta, in data 11 maggio 2010: “ (..) l’attenzione cadde sull’Enea nel momento in cui il dottor Pace di Matera ci telefonò e ci chiese se stavamo indagando sui materiali radioattivi. Alla nostra risposta affermativa, ci propose di lavorare insieme, dal momento che lui aveva una centrale – così disse – che stava esplodendo. Ci disse che era solo, che non aveva le strutture e che quindi aveva paura a procedere nell’attività. Invece, unendosi a noi e lavorando sullo stesso terreno, avremmo potuto raggiungere qualche risultato. A seguito di questa collaborazione, il dottor Pace ci disse che Matera viveva una situazione molto pericolosa, perché nella centrale nucleare della città, dentro una piscina, vi erano 64 barre di uranio, acquistate prima della moratoria dalle centrali Elk River degli Stati Uniti. La piscina era stata realizzata nel 1960, quando ancora la normativa antisismica non esisteva. Matera è una zona sismica. Quindi, ci mostrò la gravità della situazione e ci chiese come avremmo potuto prenderla in mano. Ci disse che il personale dell’Enea gli faceva muro davanti, che avrebbe voluto fare degli accertamenti e proseguire le operazioni, che lo invitavano a fare delle verifiche personalmente, ma che lui non sapeva dove andare a controllare. La situazione era incresciosa, se pensiamo – queste sono le parole che sono state pronunciate allora – che il problema di Chernobyl è nato da mezza barra di uranio e che a Matera ve ne erano 64. Apprese queste notizie, acquisita da Giglio l’informazione che dalla centrale di Saluggia non erano stati vetrificati i liquidi radioattivi e tante altre notizie che già erano a conoscenza del dottor Pace, si rese necessario fare una relazione al capo del Governo dell’epoca. Vi si recò il dottor Cordova personalmente”. In sostanza, le indagini avviate a Reggio Calabria sugli interramenti di rifiuti in Aspromonte si estesero rapidamente ai traffici di rifiuti radioattivi e agli smaltimenti illeciti degli stessi effettuati in mare o destinati verso paesi esteri. Inevitabile fu, quindi, il coordinamento investigativo con la procura di Matera che già indagava in merito a presunte irregolarità concernenti il centro di ricerche Enea Trisaia di Rotondella.
1.4 – L’inserimento nelle indagini del Corpo forestale dello Stato di Brescia. Giorgio Comerio e il progetto O.D.M.
I procuratori Neri e Pace, dunque, unirono le loro risorse e conoscenze investigative per proseguire le indagini. Queste, peraltro, ebbero una svolta decisiva in conseguenza del contributo fornito dai militari appartenenti al Corpo forestale dello Stato di Brescia, coordinati dal colonnello Rino Martini, il quale si rivelò da subito un elemento chiave, sia per la sua specifica competenza nella materia del traffico illecito di rifiuti radioattivi, sia per le indagini che da tempo stava svolgendo sull’argomento. Nella primavera del 1995 gli accertamenti svolti dal Comando di Brescia avevano, infatti, consentito di acquisire notizie di estrema rilevanza in relazione ad un imponente traffico di rifiuti radioattivi destinati ad essere smaltiti in mare. In particolare, con nota informativa del 3 aprile 1995 (doc. 277/2), il colonnello Rino Martini informò il dottor Neri circa l’esistenza di una holding, denominata O.D.M. (Oceanic Disposal Management inc.), che si occupava dell’inabissamento in mare di rifiuti radioattivi. A capo dell’organizzazione vi era tale Manfred Convalexius, titolare della Convalexius trading con sede a Vienna (personaggio definito nella nota come conosciuto in Austria ed in altri Paesi nord-europei per il traffico di rifiuti e di rottami ferrosi), mentre il referente italiano era un certo Giorgio Comerio, nato il 3 febbraio 1945 a Busto Arsizio (VA), titolare della Comerio industry ltd., con sede legale a La Valletta(Malta). La scoperta della società O.D.M. era scaturita dal controllo – effettuato il 23.5.94 dal Corpo forestale dello Stato di Brescia – nei confronti di tale Ripamonti Elio alla frontiera di Chiasso, all’esito del quale erano stati sequestrati una serie di documenti che il Ripamonti portava con sé, riguardanti il progetto della O.D.M. di smaltimento in mare di rifiuti radioattivi (cosiddetto progetto DODOS), corredato dalle relazioni tecniche e da documentazione dalla quale si ricavava che il progetto interessava nazioni come l’Italia, l’Austria, la Cecoslovacchia, la Germania e la Lettonia (doc. 362/3 allegato). In realtà risulta che, già nell’anno 1993, Ripamonti era stato controllato al confine dalla Guardia di finanza di Vigevano e trovato in possesso di documentazione relativa a traffici illeciti riguardanti lo smaltimento di rifiuti radioattivi. L’analisi dei documenti (in particolare di una proposta di contratto trasmessa via fax dall’abitazione di Garlasco di Giorgio Comerio) portò a ritenere che quest’ultimo, con la O.D.M., avesse proposto lo smaltimento di rifiuti radioattivi tramite i cosiddetti penetratori, da effettuarsi in paesi baltici, come l’ex Urss. Da ciò era scaturita una perquisizione, ordinata dalla procura della Repubblica di Lecco, che aveva aperto un procedimento nei confronti del Ripamonti e di Comerio (doc. 1180/1 e 1180/2). DODOS è l’acronimo di Deep Ocean Data Operative. Si trattava di un progetto studiato ad Ispra sul lago Maggiore, presso il centro di ricerca della Comunità europea, al quale avevano lavorato soggetti appartenenti a diversi Stati compreso Giorgio Comerio nella sua qualità di ingegnere e di responsabile di una società che originariamente avrebbe dovuto partecipare al progetto. Il progetto riguardava le modalità di smaltimento dei rifiuti radioattivi attraverso il loro inabissamento in mare. In sostanza, i rifiuti radioattivi avrebbero dovuto essere inseriti in contenitori di acciaio e carbonio chiamati cannister, a loro volta inseriti in un cilindro di 25 metri a forma di siluro (cosiddetto penetratore). Infine, il siluro avrebbe dovuto essere buttato in mare su un fondale marino adeguato, alla profondità di qualche migliaio di metri, piantandosi in tal modo nel fondale stesso. Il progetto non fu, però, portato avanti in ragione della opposizione manifestata da taluni Paesi che avevano aderito a trattati internazionali che vietavano lo smaltimento in mare dei rifiuti radioattivi. Dalla documentazione sequestrata al Ripamonti emerse che questi avrebbe dovuto individuare clienti svizzeri per lo smaltimento in mare di rifiuti radioattivi per il tramite dell’avvocato Forni di Lugano. Emerse, altresì, che un primo ordine da parte di qualche governo estero era stato già emesso (verosimilmente l’Austria per il tramite del Convalexius). Ripamonti Elio venne sentito dal dottor Neri e dal colonnello Martini in data 11 maggio 1995 (doc. 277/12). In tale occasione confermò le circostanze emerse dalla documentazione sequestratagli, precisando:
- di essere stato incaricato da Giorgio Comerio di portare la documentazione relativa al progetto DODOS all’Avv. Forni di Lugano per siglare un contratto in esclusiva conla Svizzera;
- che nel caso fosse stato concluso il contratto, sarebbe stata versata la somma di 200.000 franchi svizzeri su un conto corrente intestato a Giunta Giuliana (legata sentimentalmente a Comerio);
- che i rifiuti radioattivi svizzeri avrebbero dovuto essere depositati su fondali marini del nord Europa;
- che il Comerio gli aveva confidato di avere conoscenze all’interno dell’Enea e che si era riservato l’esclusiva per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi italiani;
- che il progetto di smaltimento in mare adottato dal Comerio (penetratori) era stato elaborato anche dall’Enea in collaborazione con altri Stati esteri.
Sempre le indagini svolte dal Corpo forestale dello Stato di Brescia, riportate nell’informativa del 3 aprile 1995 (doc. 277/2), permisero di individuare un’altra figura di rilievo, tale Renato Pent, rappresentate della società Jelly Wax con sede in Opera, definito nell’informativa come un personaggio noto nell’ambiente degli smaltitori per avere organizzato nel 1986-1987 le navi dei veleni insieme allo svizzero Ambrosini. Tali affermazioni, successivamente, non sono state supportate da elementi concreti di riscontro. Come risulta dalla successiva annotazione dell’8 maggio 1995del Corpo forestale dello Stato di Brescia (doc. 277/3), da una fonte confidenziale si apprese che:
- Giorgio Comerio aveva il domicilio in Malta;
- manteneva, in ogni caso, un ufficio della Comerio Industry ltd. in via Colonna 9 a Milano;
- la sede legale della Comerio Industry ltd.. era a La Valletta (Malta);
- il porto di Reggio Calabria era il luogo di transito per l’imbarco di containers di materiale radioattivo diretto a Malta e negli stati del Medio Oriente. Si ipotizzò, pertanto, che il domicilio in Malta potesse servire al Comerio per seguire direttamente i suoi affari attinenti al traffico di rifiuti nonché per evitare controlli quali quello subìto precedentemente (in data 1993) ad opera della Guardia di finanza di Vigevano (PV) su delega della procura di Lecco (nell’ambito del procedimento penale n. 6356/93). Venne precisato, infine, nell’annotazione che Giorgio Comerio intratteneva rapporti commerciali con la Nucleco (Enea-Agip Nucelare) di Roma per la gestione e/o smaltimento di rifiuti radioattivi. Particolarmente importante è apparsa alla Commissione l’annotazione – redatta dal colonnello Rino Martini, dal brigadiere Gianni De Podesta’ e dal brigadiere Claudio Tassi – del 13 maggio 1995, trasmessa al procuratore F. Neri, nella quale vennero riportate le dichiarazioni rese da una fonte confidenziale di sesso maschile chiamata “Pinocchio”. Tali dichiarazioni riguardavano vari personaggi coinvolti nel traffico di rifiuti pericolosi nonché l’affondamento di una nave carica di rifiuti (doc. 118/7 e 277/5).
In sintesi, la fonte dichiarò agli investigatori che:
1) tale Noè, funzionario Enea a La Spezia, aveva la supervisione (non ufficiale) all’interno dell’Enea delle boe elettroniche per la segnalazione, localizzazione e guida sottomarina spaziale e navigazione in superficie. Si trattava, pertanto, di un soggetto che conosceva perfettamente i fondali antistanti la rada di La Spezia, figurando per tale motivo quale possibile uomo chiave per la criminalità organizzata. In sostanza, veniva indicato come un personaggio che aveva la possibilità di far entrare e uscire dal porto imbarcazioni di media grandezza, eludendo i controlli;
2) era a conoscenza di un caso specifico di affondamento di nave con carico di materiale radioattivo. Testualmente: “La nave affondata a Capo Spartivento, luogo della regione Calabria-provincia di Reggio Calabria, di una portata di tonnellate 4-6000 caricata con materiale nucleare (uranio additivato), altri rifiuti e carico vario, prima di giungere in Calabria, dove viene affondata volontariamente per riscuotere il premio assicurativo e nel contempo gettare a mare ogni sorta di rifiuti, ha come luogo di provenienza la Grecia, successivamente tocca altri porti in Albania e nel nord Africa e poi entra definitivamente nel mar Ionio. Qui viene affondata al largo di capo Spartivento su un fondale di circa 400 metri. Tale punto d’affondamento viene scelto per condizioni climatiche che, quasi sempre avverse, non permetterebbero un futuro recupero”;
3) altri personaggi erano legati al traffico di rifiuti radioattivi e tossico-nocivi nel tratto La Spezia/Napoli/Reggio Calabria e oltremare, quali Duvia Orazio, Di Francia Giorgio, Conte Angelo, Mastropasqua Domenico, Bini Renzo, Monducci Eros e Messina Ignazio, quest’ultimo titolare dell’omonima compagnia di navigazione. Indicava, poi, tale Motta Giancarlo (amministratore della Sistemi Ambientali) descritto come una persona a conoscenza (per interesse diretto) dei vari passaggi di materiale di scarto nucleare (possibile uranio) avvenuti via mare fra il Nord Africa, i paesi meridionali balcanici e le coste Ioniche, passaggi che sarebbero avvenuti tramite una compagnia di navigazione il cui titolare era Ignazio Messina di La Spezia. Sin d’ora si deve precisare che gli spunti investigativi forniti dalla fonte confidenziale non sono stati supportati da elementi di prova. Dunque, il panorama investigativo, originariamente circoscritto a verificare se in Calabria fossero state costituite abusive discariche di rifiuti radioattivi o pericolosi (all’interno delle caverne naturali presenti in Aspromonte), si estese notevolmente, profilandosi l’ipotesi che l’occultamento illecito di rifiuti radioattivi venisse attuato anche mediante l’affondamento in mare degli stessi, attraverso organizzazioni di respiro internazionale che agivano anche sulla base di contatti con organi istituzionali e in accordo con gli stessi.
1.5 – La perquisizione presso l’abitazione di Giorgio Comerio e le indagini conseguenti. Giovandosi delle attività investigative avviate dal colonnello Martini sul traffico illecito di rifiuti radioattivi, le indagini dei magistrati di Matera e Reggio Calabria si incentrarono su Giorgio Comerio. Venne, pertanto, emesso un decreto di perquisizione della sua abitazione sita in Garlasco e dei luoghi nella disponibilità dello stesso. I documenti acquisiti all’esito della perquisizione fornirono agli investigatori dell’epoca uno spaccato decisamente inquietante in merito all’attività svolta dal Comerio, a suoi interessi nello smaltimento dei rifiuti radioattivi, alle connessioni tra il traffico di armi e il traffico di rifiuti. All’esito della perquisizione, eseguita il 12 e il 13 maggio 1995dalla sezione polizia giudiziaria CC procura circondariale di Reggio Calabria, dal reparto operativo CC Reggio Calabria, dal reparto operativo CC Matera e dal Corpo forestale dello Stato-settore di polizia regionale di Brescia, venne sequestrata una mole imponente di documentazione che permise agli inquirenti di far luce sull’esistenza di progetti finalizzati allo smaltimento in mare di rifiuti radioattivi. Secondo quanto riferito dal dottor Neri al suo procuratore, con la nota sopra citata, l’importanza della documentazione sequestrata “consentiva di incaricare le forze di polizia giudiziaria impegnate nell’indagine di avvalersi dell’ausilio del Sismi che peraltro ha fornito ben 277 documenti sul Comerio a conferma della pericolosità di detto soggetto e a riprova della bontà della ipotesi investigativa seguita” (doc. 362/3 allegato). Sempre nella medesima nota a firma del dottor Neri si legge che nell’abitazione di Comerio furono trovati: “Agende, video-tape, dischetti magnetici, fascicoli relativi alla commercializzazione del progetto Euratom (DODOS) trafugato a detto ente (centro Euratom di Ispra) clandestinamente dal Comerio stesso (…) Veniva sequestrata anche numerosa corrispondenza (e fotografie) di incontri con rappresentanti governativi della Sierra Leone per ottenere l’autorizzazione a smaltire in mare rifiuti radioattivi. Si accertava così che soci nell’affare erano tale Paleologo Mastrogiovanni (presunto principe dell’Impero di Bisanzio) e tale Dino Viccica, uomo ricchissimo che avrebbe dovuto finanziare l’operazione “Sierra Leone” (…) Al riguardo il Console Onorario della Sierra Leone sentito in merito ha confermato che il Comerio ha concluso l’affare con i governanti di detti Stati corrompendo un ministro. (…)” (doc. 362/3 allegato). E’ proprio in questa fase che emerge chiaramente la partecipazione del capitano De Grazia alle indagini, avendo lo stesso contribuito ad analizzare i documenti con riferimento a tutti gli aspetti di sua specifica competenza nonchè a redigere l’informativa sugli esiti della perquisizione e sulle attività investigative conseguenti. Gli elementi raccolti sulla base della documentazione sequestrata e della successiva attività di indagine, infatti, vennero riportati nell’informativa del 25 maggio 1995 n. 399/41 di prot. (a cura del capitano di fregata Natale De Grazia e del maresciallo Moschitta) trasmessa alla procura di Reggio Calabria (doc. 118/5). Vennero deferiti all’autorità giudiziaria procedente ed iscritti nel registro indagati, per i reati previsti dal decreto del presidente della Repubblica n. 185 del 1964, dal decreto del presidente della Repubblica n. 915 del 1982, oltre che per il reato di ricettazione:
- Giorgio Comerio
- la compagna Giuliana Giunta
- il socio Gabriele Molaschi
- altri personaggi, quali Gerardo Viccica (aliasDino), Pietro Pagliariccio (alias Giampiero), Jack Mazreku, Giuseppe Barattini, Mastrogiovanni Paleologo e Ezio Piero Toppino.
I principali elementi evidenziati nell’informativa in questione e posti all’attenzione dei magistrati inquirenti furono:
- all’interno dell’abitazione di Comerio, sita in Garlasco, era stata rivenuta documentazione attinente al progettoDODOS (Deep Ocean Data Operating System) che prevedeva il lancio sui fondali marini, attraverso i cosiddetti penetratori, di scorie radioattive, progetto in parte già realizzato in zone africane e del nord Europa in violazione della Convenzione di Londra;
- erano stati, poi, sequestrati un progetto relativo alla costruzione ed alla vendita di telemine, strumento bellico subacqueo, nonché documenti dai quali emergevano contatti con paesi arabi e indiani e transazioni bancarie in dollari su banche svizzere che rendevano concretamente ipotizzabile l’avvenuta vendita delle telemine;
- da alcuni disegni di navi sequestrati era evidente che il Comerio avesse intenzione di modificare una nave Ro-Ro per la costruzione delle telemine. I disegni si riferivano alla Jolly Rosso (spiaggiatasi il 14 dicembre 1990 ad Amantea) ed alla nave Acrux, poi denominata Queen Sea (all’epoca sotto sequestro presso il porto di Ravenna);
- erano stati sequestrati, inoltre, atti relativi a navi aventi scarso valore commerciale e in degrado strutturale, sulle quali erano stati abbozzati preventivi di spesa per la riparazione e per la documentazione di cambio di bandiera;
- tutta la documentazione sequestrata a Comerio portava a ritenere che lo stesso si occupasse dell’acquisto delle navi per il loro successivo utilizzo a fini illeciti;
- conseguentemente, era stato effettuato un accertamento presso i Lloyds di Londra – sede di Genova – ed erano state acquisite le copie dei sinistri marittimi intervenuti dall’anno 1987 al 1993, al fine di verificare quelli di natura eventualmente dolosa avvenuti nelle acque territoriali calabresi;
- da tale attività era emerso che ben 23 navi erano affondate nel mare antistante le coste calabresi;
- le risultanze delle indagini trasmesse dal Corpo forestale dello Stato di Brescia relative al possibile affondamento di una nave a capo Spartivento trovavano un primo riscontro nella documentazione acquisita, dalla quale risultava l’affondamento della nave da carico Rigel di bandiera Maltese, inabissatasi il 21 settembre 1987, a20 miglia Sud-Est da capo Spartivento. La citata nave proveniva da Marina di Carrara ed era diretta a Limassol e, prima della partenza, risultava avere avuto problemi giudiziari per il carico a bordo;
- i punti di affondamento delle navi Anni ed Euroriver, entrambe battenti bandiera maltese, trovavano riscontro con i punti di dispersione delle scorie pericolose previste dal progetto O.D.M. di Comerio, nella parte indicata dal punto C. Aree Nazionali Italiane, sequestrato nel corso della perquisizione;
- era stato accertato che la Capitaneria di porto di Vibo Valentia aveva richiesto ai locali Vigili del Fuoco accertamenti radiometrici sulla motonave Jolly Rosso e sulla spiaggia circostante;
- il comandante Bellantone, della Capitaneria di porto di Vibo Valentia, aveva riferito di avere richiesto lui stesso gli accertamenti in quanto a bordo della nave erano stati reperiti sia documenti con strani cenni a materiale radioattivo, sia documenti che lo stesso non aveva saputo interpretare (gli erano sembrati un “piano di battaglia navale”) e che poi riconosceva nei progetti O.D.M. sequestrati presso l’abitazione di Comerio. Il comandante, in quell’occasione, aveva fornito copia del verbale di consegna della citata documentazione al comandante della Rosso nonché copia dell’istanza con la quale il capitano Bert M. Kleywegt – in rappresentanza della società olandese Smit Tak – aveva chiesto l’autorizzazione al recupero della nave;
- il Comerio, per la realizzazione dei suoi programmi, aveva creato una serie di società quali: Oceanic Disposal Management Inc. (O.D.M.); Acquavision s.r.l.;Comerio Industry Ltd.; Georadar Ltd.; Mei ltd Ltd., tutte società strumentali alla realizzazione di telemine, di boe di rilevamento nonché al reperimento e alla modifica di navi destinate ad utilizzi illeciti. Nell’informativa citata vennero riportate le dichiarazioni rese, rispettivamente l’11 e il 12 maggio 1995, da Maria Luigia Nitti (legata sentimentalmente a Giorgio Comerio dal 1986 al 1993) e da Renato Pent: La prima dichiarò: “ho sentito parlare il Comerio di un altro suo progetto ossia quello di creare dei depositi marini di rifiuti radioattivi e ricordo che voleva coinvolgermi in questo suo affare e per ovvi motivi io non accettai avendo avuto perdite in altre società. Preciso che il Comerio ha diverse società sparse in varie citta’ del mondo e ricordo in particolare la Mei ltd (Marine Electronic Industryes) che operava nella costruzione di boe di rilevamento marino o boe di segnalazione. Detta società dovrebbe avere sede in Inghilterra. (…) io sapevo che il suo progetto O.D.M. era ufficiale tant’e’ che aveva accordi con diversi governi anche dell’est tra cui sicuramente quello russo. Preciso che non erano accordi conclusi ma di trattative avviate. La mia collaborazione secondo la richiesta fattami dal Comerio doveva consistere nella elaborazione al computer di dati relativi al trasferimento dei materiali nella struttura da immergere in mare. Difatti le operazioni prevedevano l’inabissamento di materiali radioattivi di varia provenienza mediante l’impiego di un natante. Preciso che nel 1993 il Comerio mi chiari’ che il progetto Euratom prevedeva l’affondamento in mare di contenitori con scorie radioattive e che la O.D.M. era una sua società. Ricordo di avere sentito il nome di tale Convalexius Manfred anche se non l’ho mai conosciuto. (…) Le uniche volte che sentii parlare il Comerio di materiale nucleare o radioattivo, riguardava il progetto O.D.M.. Ne parlava in termini tali da far intendere che l’operazione doveva essere fatta in maniera legale, tant’è che nell’affare era coinvolto anche l’avv. Gaspari-Vaccari. Tale progetto di deposito del materiale radioattivo nelle profondità marine faceva seguito ad attività di ricerca fatte presso il centro Euratom di Ispra, attività nella quale aveva preso parte anche Comerio richiesto dal centro di fornire un apporto esterno con la costruzione della BOA di rilevamento”. La Nitti riferì, inoltre, che Comerio le aveva confidato di far parte dei servizi segreti (“il Comerio mi esterno’ di appartenere ai servizi segreti tant’e’ che era ossessionato dall’idea di avere i telefoni sotto controllo al punto che effettuava le sue telefonate da cabine telefoniche. A seguito di attentati terroristici avvenuti in quel periodo il Comerio si assento’ dicendo che era stato convocato per collaborare nelle indagini….preciso che si trattava di attentati dinamitardi primavera del 1993. Mi pare si trattasse del’attentato all’accademia dei Georgofili di Firenze.”). Renato Pent, confermando quanto dichiarato dalla Nitti, affermò (doc. 277/17):
- di avere conosciuto Giorgio Comerio il quale nel 1989/1990 gli aveva proposto di entrare in affari con lui nell’ambito di un progetto finalizzato allo smaltimento in mare di sostanze radioattive (si tratta del noto progetto elaborato presso il centro Euratom di Ispra). La collaborazione richiestagli da Comerio riguardava la messa a disposizione da parte sua di automezzi idonei per la fase relativa al prelievo del materiale presso il produttore e al successivo trasporto su imbarcazioni del tipo RO-RO, che avrebbero poi operato nella fase di affondamento del siluro (l’impiego di imbarcazioni del tipo RO-RO si spiegava con l’esigenza di permettere agli automezzi di entrare direttamente nella stiva evitando la fase di trasbordo e la pubblicità che ne sarebbe derivata col rendere l’operazione visibile agli estranei);
- di avere visto il filmato relativo alla sperimentazione della fase di lancio in mare;
- di avere appreso da Comerio che il progetto non era ancora operativo, ma che avrebbe potuto partire non appena avesse ricevuto l’acconto da parte di un committente;
- Comerio non gli aveva mai parlato del mare Mediterraneo, ma del mare prospiciente uno dei paesi dell’Unione sovietica, sul quale avrebbe iniziato ad operare non appena avesse avuto tutte le autorizzazioni governative;
- che l’operazione che il Comerio diceva di essere pronto ad effettuare era relativa al Mar Baltico e sarebbe stata portata avanti in società con Convalexius;
- di essersi recato a Vienna unitamente a Comerio e di aver incontrato, per il tramite di Convalexius, alcuni ministri austriaci, ai quali venne esposto il progetto di Comerio. Comerio aveva preso contatti anche con il governo svizzero. Entrambi i paesi, pur essendo interessati all’operazione subordinarono la loro adesione alla preliminare adesione di altri paesi;
- che, verso la fine del 1994, Comerio gli aveva riferito che un primo ordine era stato effettuato, ma non gli disse da parte di quale paese;
- di non conoscere le navi che Comerio aveva acquistato per effettuare lo smaltimento dei rifiuti radioattivi;
- che Comerio aveva dei referenti molto importanti presso il centro Enea, e ciò lo desumeva dalla gran massa di materiale progettuale non solo cartaceo, ma anche magnetico proveniente dall’Enea o comunque da strutture con le quali aveva collaborato l’Enea. Secondo quanto riferito dal dottor Neri al procuratore capo Scuderi, con la nota più volte citata (doc. 362/3 allegato), Comerio, subito dopo la perquisizione, trasmise alla procura una lettera con la quale, dichiarandosi disponibile per ogni chiarimento, riferiva che:
a) non erano stati acquisiti elementi utili alle indagini;
b) i progetti e i documenti sequestrati erano proposte di carattere commerciale;
c) non era stato concluso alcun contratto;
d) si era sempre impegnato per conto della giustizia nel settore ambientale;
e) quale consulente navale nell’ambito della difesa aveva sempre lavorato per società estere e solo “per la promozione di attività fra governo e governo”.
Qualche tempo dopo, precisamente in data 12 luglio 1995, Giorgio Comerio si presentò spontaneamente in procura. In quella occasione ebbe a dichiarare:
- quanto al progetto O.D.M., che si trattava di un progetto legale che aveva propagandato presso vari governi per lo smaltimento di rifiuti radioattivi;
- quanto alla Jolly Rosso, che le carte rinvenute presso la sua abitazione e relative alla nave si giustificavano con pregresse trattative finalizzate all’acquisto che lui aveva cercato di concludere per conto del governo iraniano;
- di avere conosciuto Convalexius perché gli era stato presentato da Renato Pent;
- di avere conosciuto Marino Ganzerla che aveva acquistato, attraverso la società Soleana, quote della società O.D.M., e di non avere avuto con lui proficui rapporti di lavoro, in quanto Ganzerla riteneva che i penetratori dovessero essere realizzati in cemento. Alla perquisizione dell’abitazione di Giorgio Comerio seguì quella a casa di Molaschi Gabriele, conclusasi positivamente con il sequestro di copiosa documentazione che venne attentamente esaminata dalla polizia giudiziaria procedente. L’esame portò a ritenere che il Molaschi, così come il Comerio, fosse coinvolto in un complesso traffico internazionale di armi nonché in attività di smaltimento dei rifiuti radioattivi. Ritennero gli investigatori che Molaschi avesse contatti con personaggi di alto livello politico all’estero e riuscisse a a muovere ingenti flussi di danaro per il continuo rifinanziamento delle sue attività illecite. Così si legge nell’informativa del 9 giugno 1995, a firma del maresciallo Moschitta e del carabiniere Francaviglia (doc. 681/15). Si riportano di seguito alcuni stralci tratti dalla predetta informativa, utili a comprendere in quante e, soprattutto, in quali delicate direzioni stesse volgendo l’indagine nata dalla denuncia di Legambiente: “con riferimento al progetto O.D.M., vale a dire il programma di smaltimento dei rifiuti radioattivi, emerge dalla documentazione del Molaschi che uno dei siti e’ stato localizzato in una zona africana per come risulta da un fax che Giorgio Comerio trasmette a Giannantonio Gaspari-Vaccari e allo stessoMolaschi, in data 30.12.1994, dal seguente tenore (testuale): “AUGURI DI BUON 1995 – SITO LOCALIZZATO – FIRMA ACCORDI DAL 5 AL 10 GENNAIO A S. BIAGIO (Comune di Garlasco, n.d.r.) RATIFICA FRA IL 15 ED IL 20 GENNAIO IN AFRICA (DATE PREVISTE E CONFERMABILI ENTRO IL5.01.1995) CONTRATTI CON CLIENTI NEGOZIABILI DA 1 FEBBRAIO SALUTI ” segue firma. La stessa documentazione consente di appurare che la O.D.M. e’ in fase di trattative, collocabili agli inizi del 1994, con l’Ucraina, e precisamente con 4 suoi ministri, in quanto quest’ultimo paese e’ alla ricerca disperata di smaltire un ingente quantitativo di rifiuti radioattivi. Nel contesto O.D.M. non vanno dimenticate le vicende delle navi utilizzate come veicoli per l’inabissamento dei rifiuti radioattivi in mare e anche il Molaschi sembra essere coinvolto (…) presso la sua abitazione questo Comando ha rinvenuto fotocopia della documentazione della motonave “Jolly Rosso” (…) La “Jolly Rosso” è così importante anche per MOLASCHI che di essa se ne trova traccia anche nella sua agenda del 1992 e precisamente nel giorno indicante il 31 marzo. Il nominativo di detta nave era accomunato a quello della “ZANUBIA” e “CAREN B” ed a fianco ad ognuno di essi, rispettivamente, vi era indicata una società’: per la”Jolly Rosso”, Acqua; per la “Zanubia”, Castalia e per la “Caren B”, Eco-Servizi. (…) Ma, per ritornare al Molaschi, le sue “carte” aprono, o confermano, altri scenari interessanti quali, per esempio, i depositi abusivi in Italia di rifiuti radioattivi, di cui vi sono in corso altre indagini della procura della Repubblica presso la pretura circondariale di Matera, collegate con le presenti. Il documento, che in sostanza è un appunto manoscritto datato24.04.1994, fa riferimento alla società’ Nucleco, costituita dall’Agip e dall’Enea per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi, che avrebbe del materiale accumulato in magazzino. Evidentemente si riferisce al fatto che detta società ha problemi di smaltimento di rifiuti radioattivi e ciò interessa l’organizzazione del Comerio.
Tale assunto trova conferma in uno scambio epistolare tra la Nucleco e la O.D.M., una delle quali datata 20.12.1993, con la quale la Nucleco, in risposta ad un fax del 23.08.1993 della O.D.M., trasmette i propri depliants illustrativi sul tipo di attività che svolge. Appare evidente che alla O.D.M. serviva (alla data odierna non si è a conoscenza dell’esito dei contatti) la struttura tecnica della Nucleco per coinvolgerla nello smaltimento a mare dei rifiuti radioattivi (…)”.
Deve tenersi presente che già nel 1985 l’Enea aveva pubblicato un opuscolo nel quale (alle pagine 8 e 9) si rappresentava la possibilità di smaltimento di rifiuti radioattivi nei siti marini. Con nota del 4 novembre 1995 il comandante del nucleo oeprativo dei CC, A. Greco, trasmise tale opuscolo ai magistrati titolari delle indagini (dottor Neri e dottor Pace) evidenziando che il metodo di inabissamento dei rifiuti illustrato era identico a quello previsto dal noto progetto O.D.M. di Comerio (doc. 681/31). Nel corso delle indagini venne sentito un altro socio di Giorgio Comerio, Marino Ganzerla; anche Ganzerla si presentò spontaneamente, in data 14 luglio 1995, a seguito della perquisizione che aveva subito il giorno precedente (doc. 277/13). Ganzerla dichiarò in quella occasione:
- di avere acquistato, quale procuratore della società Soleana autorità giudiziaria di Vaduz, per la somma di lire 20 milioni, il 3% di azioni della O.D.M. (società di Comerio), nonché’ il 50% della società NTM (società di trasporto di rifiuti radioattivi) con sede in Ticino (Svizzera) al prezzo di 29.000 dollari consegnati a Comerio in Lugano;
- che Comerio gli aveva parlato del suo progetto di effettuare lo smaltimento dei rifiuti radioattivi in mare attraverso i penetratori, ma lui si era subito reso conto dell’inattuabilità del progetto sia perché non sarebbero riusciti a trovare siti idonei, sia perché i penetratori in acciaio-cemento non sarebbero stati mai omologati perché non erano idonei a resistere per migliaia di anni in fondo al mare;
- che Comerio non gli aveva mai comunicato punti di affondamento dei penetratori nel Mediterraneo;
- che con la società O.D.M. non erano mai stati effettuati smaltimenti di rifiuti radioattivi con i penetratori;
- “per quanto riguarda l’affondamento delle navi devo dire che circa 10 anni fa venni a conoscenza di progetti di affondamenti di navi cariche di rifiuti chimici, il cosiddetto sistema delle navi “a perdere,” truffando così anche le assicurazioni. Se ricordo bene il porto più sospetto era quello di La Spezia. E ricordo che anche che si diceva che le coste dello Ionio erano preferite non solo perché gestite dalla ‘ndrangheta ma anche perché i marinai una volta arrivati a terra con le scialuppe affidavano detti mezzi di salvataggio a soggetti del luogo e provvedevano ad affondarle o comunque ad occultarle in maniera definitiva per far sparire ogni traccia dell’affondamento ed evitare così l’indagine giudiziaria. Mi risulta anche che dette navi facevano capo ad armatori del Pireo. Nessuna rilevanza hanno le bandiere perché possono essere cambiate con facilità. Aggiungo che i marinai potevano essere recuperati anche da altre navi amiche che transitavano appositamente vicino al punto di affondamento e trasportavano gli stessi in paesi esteri anche perché trattavasi di marinai stranieri, anche se a volte il comandante o il direttore di macchine erano italiani o comunque gente fidata degli spedizionieri. Ciò mi fu riferito se ben ricordo da un greco nel corso di una cena avvenuta circa 10 anni fa a Genova. Era preferito lo Ionio perché molto profondo. Mi risulta che il Comerio trattava compravendita di navi”. E’ evidente che le testimonianze acquisite in quella fase e i documenti sequestrati dagli investigatori fossero estremamente preziosi al fine di ricostruire, al di là di quanto riferito dalle fonti confidenziali, la figura e l’attività di Giorgio Comerio nonché di verificare l’esistenza e – soprattutto – la concreta attuazione dei progetti di smaltimento in mare di rifiuti radioattivi. La Commissione, nell’ambito degli approfondimenti svolti nel corso della missione effettuata a Bologna nel febbraio 2010, ha audito Renato Pent e Marino Ganzerla. Il Pent ha, innanzi tutto, dichiarato di essere amministratore della Jelly Wax, che produce paraffine, con sede in Opera, società attiva già nel 1987. Parte dei rifiuti prodotti nell’ambito dell’attività venivano smaltiti attraverso l’esportazione degli stessi a mezzo di navi. In particolare, ha riferito in merito all’esportazione di rifiuti avvenuta a mezzo della nave Links (citata dall’ex collaboratore Francesco Fonti in un memoriale pubblicato sul settimanale l’Espresso nel mese di giugno 2005), nonchè della trattativa con il Governo venezuelano per la realizzazione di una discarica di rifiuti industriali in Venezuela (per il dettaglio si rimanda al resoconto stenografico relativo all’audizione del 17 febbraio 2010). Riguardo al tema dell’affondamento di navi e di rifiuti, il Pent ha dichiarato: “Conosco Comerio, ma non mi risulta che abbia partecipato. Delle navi affondate ho appreso dai giornali (…). Mi chiedo perché sia necessario affondare una nave con i rifiuti. (…)”. Il Pent ha proseguito parlando dei rapporti intrattenuti con l’armatore della motonave Zanoobia. Alla domanda circa il luogo ove fossero stati depositati i rifiuti della Zanoobia, il Pent ha risposto che: “I rifiuti sono stati sbarcati a Genova, dove la nave era stata portata da Marina di Carrara, e smaltiti dalla Castalia (…) Come sono stati smaltiti non mi è dato di sapere.(…)”. Con riferimento alle vicende che hanno interessato le motonavi Links e Zanoobia, il Pent ha fatto riferimento al procedimento penale avviato dalla procura della Repubblica presso il tribunale di Massa Carrara, conclusosi in primo grado con sentenza di condanna, acquisita in copia dalla Commissione. I fatti oggetto del processo attengono all’estorsione denunciata da Renato Pent ed imputata, tra gli altri, all’armatore della motonave Zanoobia. A prescindere dalla specifica fattispecie estorsiva, peraltro riconosciuta esistente, la sentenza è importante perché ricostruisce le vicende originate dall’invio in Venezuela di 2.000 tonnellate di rifiuti industriali caricati sulla motonave Links (doc. 289/2). Se ne riportano i passaggi fondamentali: “La Jelly Wax s.p.a. di cui Pent Renato era il legale rappresentante, aveva stipulato in data 21/1/87 con la società Ambrosini e con la Intercontract un contratto di smaltimento di 2.000 tonnellate di residui industriali. I rifiuti erano stati caricati sulla nave Lynx nel porto di Marina di Carrara e dovevano essere trasportati a Gibuti ma, a causa di un inadempimento contrattuale da parte della Ambrosini, non vi erano mai arrivati.La Jelly Wax, preso atto dell’inadempimento (per il quale aveva sporto querela per truffa), aveva stipulato in data 18/3/87 un nuovo contratto di smaltimento con la società Mercanti Lemport in esecuzione del quale i rifiuti erano stati sbarcati in Venezuela. Tuttavia, dopo circa sei mesi, a seguito di una campagna di stampa contraria allo smaltimento di quei rifiuti in Venezuela, la Jelly Wax era stata di fatto costretta a riprendersi i rifiuti ed a provvedere in altro modo al loro smaltimento. Il carico di rifiuti era stato allora imbarcato sulla nave Makiri, che aveva fatto rotta verso il Mediterraneo. (…) la nave si era diretta a Tartous (Siria). In quella località, aveva tentato di sbarcare e smaltire il carico di rifiuti, ma non essendo riuscita l’operazione, i rifiuti erano stati imbarcati sulla nave Zanoobia, al comando dell’imputato Tabalo Ahmed. La Zanoobia si era quindi diretta in un primo momento a Salonicco, dove però non era riuscita a scaricare il carico di rifiuti, e successivamente aveva fatto rotta verso l’Italia, concludendo il suo viaggio a Marina di Carrara. (…) è emerso che, a seguito delle pressioni del governo venezuelano, (…) la Jelly Wax (…) aveva stipulato con la ditta Samin un (secondo) contratto di presa in consegna ed assunzione di proprietà dei rifiuti. L’accordo era stato concluso in data 10/11/87 tra la Jelly Wax e Tabalo Mohfimed (…) proprietario della Makiri e della Zanoobia. (…) Successivamente, dopo circa due mesi, l’imputato Tabalo Mohamed ed il suo legale avv. Rizzuto avevano comunicato alla Jelly Wax che, per ordine del governo siriano, la merce era stata caricata sulla nave Zanoobia e doveva essere trasportata fuori dal territorio siriano perché era stato accertato che il carico era radioattivo. Pertanto, il Tabalo ed il Rizzuto avevano chiesto al Pent (…) il pagamento di una somma di 2-300mila dollari per lo smaltimento dei rifiuti, facendo presente che, in caso di mancata accettazione della proposta, avrebbero rimesso forzatamente a disposizione della Jelly il carico di rifiuti riportandolo a Marina di Carrara, con le prevedibili ricadute a danno dell’immagine della Jelly Wax (…). Quest’ultima non aveva accettato e perciò la Zanoobia, guidata dal comandante Tabalo Ahmed (fratello di Tabalo Mohamcd), aveva riportato il carico di rifiuti a Marina di Carrara”. Sono stati riportati i passaggi della sentenza, depositata il 20 giugno 2003, in quanto le indagini effettuate dalla procura circondariale di Reggio Calabria avevano riguardato anche le vicende della nave Zanoobia e, più in generale, l’attività svolta dalla Jelly Wax nonché i rapporti intercorrenti tra Renato Pent e Giorgio Comerio. La Commissione, sempre in data 17 febbraio 2010, ha audito Marino Ganzerla, il quale ha di fatto negato quanto affermato innanzi al pubblico ministero Neri con riferimento al fenomeno delle navi a perdere. In riferimento a Comerio, Ganzerla ha ammesso di avere acquisito una partecipazione nella società O.D.M.. Ha, tuttavia, negato di aver acquistato, per conto della Soleana (società che a suo dire non avrebbe mai operato), il 50 per cento della NTM, società di trasporto dei rifiuti radioattivi con sede in Svizzera, nel Ticino, versando al Comerio 29.000 dollari USA. (Tale ultima circostanza, peraltro, era stata dallo stesso Ganzerla riferita al dottor Neri, come risulta dal verbale di spontanee dichiarazioni del 14 luglio 1995, acquisito in copia dalla Commissione – cfr. doc. 277/13). Con specifico riferimento alla possibilità di smaltire rifiuti radioattivi tramite penetratori, il Ganzerla ha precisato di avere sempre nutrito dubbi sulla legittimità dell’operazione e di essersi rivolto ad un esperto di diritto internazionale per capire se i rifiuti radioattivi potessero essere scaricati sotto il fondo marino. L’esperto gli comunicò che, in base alla normativa del tempo si sarebbe potuto fare, ma che la normativa stessa, di lì a poco sarebbe cambiata, rendendo illegittime le operazioni in parola. Conseguentemente, a cavallo tra il 1995 e il 1996, Ganzerla contattò Comerio per comunicargli di non voler più proseguire l’affare. Ha aggiunto alla Commissione: “Da quanto so, la società non ha mai operato. Non so se sia andato avanti per conto suo. Non ha mai fatto niente. Io ho rinunciato a tutto, non gli ho fatto causa per truffa, mi sono tenuto la perdita e non l’ho più visto”. Con riferimento all’affondamento di navi finalizzato allo smaltimento di rifiuti, Ganzerla ha dichiarato di averne sentito parlare solo perché qualcuno (il cui nome non è stato rivelato) venne a proporgli un affare su questo tipo di attività.
La Commissione ha tuttavia contestato al Ganzerla di aver reso al dottor Neri dichiarazioni parzialmente diverse. Allorquando poi la Commissione ha chiesto al Ganzerla il nominativo del personaggio greco dal quale avrebbe avuto notizia dell’affondamento doloso di navi cariche di rifiuti tossici nel mediterraneo, il Ganzerla non ha saputo o voluto fornire elementi utili alla sua identificazione. In generale, può affermarsi che, nel corso dell’audizione, il Ganzerla si è limitato a rendere informazioni alquanto generiche e comunque già in possesso della Commissione, ripetendo, in risposta alle insistenti domande dei commissari, di non ricordare. Dunque le indagini svolte all’epoca dalla procura di Reggio Calabria, proprio sulla base degli elementi acquisiti nel corso della perquisizione a carico di Giorgio Comerio, si incentrarono su tale figura e sui personaggi che gravitavano intorno a lui.
1.6 – Gli affondamenti sospetti di navi nel Mediterraneo. Gli approfondimenti investigativi svolti dal capitano Natale De Grazia. L’interesse investigativo si concentrò via via sempre più sugli affondamenti sospetti di navi avvenuti nel mare Mediterraneo, avendo preso concretamente piede l’ipotesi che navi cariche di rifiuti radioattivi, o comunque pericolosi, venissero inabissate dolosamente in modo tale da potere ricavare il duplice vantaggio rappresentato, da un lato, dall’indebito risarcimento ottenuto dalla compagnia assicurativa, dall’altro, dal guadagno derivante dall’attività di illecito smaltimento. Come si è già sottolineato, all’interno del gruppo investigativo creato dal sostituto procuratore dottor Neri, un ruolo fondamentale ebbe il capitano di fregata Natale De Grazia, il quale, a detta di tutti quelli che lavorarono con lui, profuse in questa indagine un impegno straordinario. Il 30 maggio 1995 il capitano trasmise al magistrato un appunto, riassuntivo degli elementi fino a quel momento acquisiti. Se ne riporta il testo (doc. 681/32):
“Appunto per il dottor F. Neri del 30 maggio 1995: A riepilogo dell’attività investigativa svolta, relativamente allo smaltimento di rifiuti tossico nocivi e/o radioattivi in mare, si riferisce che da informazioni confidenziali acquisite dal coordinamento regionale di Brescia del Corpo forestale dello Stato, si è avuta notizia che era stata affondata al largo di capo Spartivento una nave carica di materiale nucleare (uranio additivato). Successivamente durante la perquisizione effettuata presso il signor Giorgio Comerio si è acquisita documentazione relativa al progetto O.D.M che prevedeva l’affondamento di rifiuti radioattivi nel sottofondo marino con penetratori lanciati da navi. Nella documentazione sequestrata, inoltre, vi erano dei progetti relativi a siluri a lenta corsa denominati “telemine”. Tra gli altri documenti rinvenuti in casa del Comerio vi erano anche degli appunti/ progetti preventivi relativi a navi che dovevano essere attrezzate per la realizzazione e il trasporto delle citate telemine, nonché per l’affondamento dei penetratori del progetto O.D.M.; inoltre vi erano alcuni appunti con documentazione tecnica fotografica relativi a navi generalmente vecchie ed in disuso. Tra questi vi erano gli appunti per l’acquisto del mototraghetto Guglielmo Mazzola, della motonave SAIS, del f/b Transcontainer I , della motonave Acrux e della motonave Jolly Rosso. Gli appunti in questione contenevano anche dei progetti di modifica di una nave RO-RO per la costruzione degli ordigni, riferiti in particolare alle navi Jolly Rosso e Acrux ora denominata Queen Sea I. Gli atti sequestrati ed informazioni di polizia giudiziaria hanno fatto nascere il sospetto che il Comerio avesse individuato le navi in questione per l’acquisto ed il successivo utilizzo per attività illecite quali la costruzione e posa delle telemine nonché il traffico e l’affondamento con a bordo rifiuti radioattivi. Onde effettuare riscontro dei sospetti e delle informazioni confidenziali si è acquisita copia dei registri Lloyd’s relativi agli incidenti accorsi alle navi in genere, nelle varie parti del mondo. La documentazione è stata acquisita presso l’ufficio Lloyd’s Register di Genova. Da un esame di detti registri si ha avuto riscontro in prima analisi dell’affondamento di una nave a venti miglia a Sud-Est da capo Spartivento il 21 settembre1997. Il sinistro non risulta dai registri delle Autorità Marittime e le caratteristiche della nave e la tipologia dell’evento davano una prima conferma delle informazioni confidenziali. La nave affondata, denominata “Rigel”, di bandiera Maltese è andata perduta durante il viaggio da Marina di Carrara a Limassol e l’equipaggio fu tratto in salvo da una nave Jugoslava denominata “Kral” che sbarcò i naufraghi in un porto della Tunisia. Da ulteriori informazioni si accertava che la procura della Repubblica di La Spezia aveva in corso un procedimento a carico di numerosi imputati per l’affondamento doloso della nave, per truffa all’assicurazione. Per gli imputati di quel processo è stato richiesto dal tribunale di La Spezia il rinvio a giudizio con ordinanza in data 20 novembre 1992. Dagli atti dell’ordinanza stessa emerge che non si ha conoscenza dei carico effettivo della motonave “Rigel” tanto che viene richiesto il rinvio a giudizio della funzionaria doganale di Marina di Carrara per aver ricevuto una somma di danaro affinché omettesse di controllare il carico destinato alla nave. La situazione poco chiara circa la tipologia del carico è inoltre confermata da una richiesta di compenso all’assicurazione esosa rispetto al valore della merce dichiarata dai caricatori. La tesi accusatoria e gli accertamenti successivi dell’autorità giudiziaria. di La Speziafanno perno su una telefonata tra il signor Gino ed il signor Vito Fuiano, ambedue imputati, nel corso della quale veniva annunciata la mattina del 21 settembre 1987 la nascita di un bambino, poi chiarito come allusione all’affondamento della nave. Nelle agende del Giorgio Comerio sequestrate presso i propri uffici il giorno 21 settembre 1987 si rileva un’annotazione in lingua inglese relativa alla “perdita della nave” come indicato nell’informativa del 25 maggio 1995; si è proceduto ad estrarre dai registri Lloyd’s'citati in precedenza numero 23 navi che nei vari anni sono affondate nel Mediterraneo e delle quali per la maggior parte non si ha certezza degli eventi. Di questi potrebbero ritenersi dubbiosi, oltre alla Rigel i seguenti affondamenti:
-M/N “ASO” affondata il 16.05.1979 al largo di Locri carica con 900 Tonn. di solfato ammonico e da considerarsi un affondamento a rischio per il tipo di carico e per le circostanze poco chiare emerse nell’inchiesta sommaria;
- M/N “MIKIGAN” affondata il 31 ottobre 1986 nel Tirreno in posizione 38:35′ N / 15° 42′ E con un carico di granulato di marmo era partita dal porto di Marina di Massa lo stesso porto di origine della “Rigel” dove i controlli sul carico potrebbero essere stati non effettuati;
- M/NA ‘FOUR STAR I” di bandiera Sry Lanka con carico generale affondata il 9 dicembre1988 in, un punto non noto dello Jonio Meridionale durante il viaggio da Barcellona ad Antolya (Turchia). Da una ricostruzione stimata del punto di affondamento la nave in questione potrebbe essere affondata al ‘largo di capo Spartivento, nei pressi del punto di affondamento della”Rigel”.La nave potrebbe essere ritenuta sospetta in quanto non risultano chiamate di soccorso alle Autorità Marittime né denunce di Sinistro nonostante questo sia avvenuto nella ZEE italiana. La tecnica quindi potrebbe collegarsi a quella della nave ‘”Rigel”, più volte citata, che non emesse nessuna richiesta sulle frequenze di soccorso;
- M/N Anni di bandiera Maltese affondata il 01 agosto1989 in alto Adriatico;
- M/N Euroriver di bandiera Maltese affondata anch’essa in Adriatico il 12 novembre 1991. Queste due navi. di bandiera Maltese sono affondale in due punti dell’Adriatico che nel progetto O.D.M. reperito tra i documenti di Comerio sono indicati quali punti previsti nel programma di dispersione delle scorie nelle aree nazionali italiane e degli affondamenti si ha notizia dai registri Lloyd’s;
- M/N “ROSSO” di bandiera Italiana arenatasi a capo Suvero di Vibo Valentia il 14 dicembre 1990 durante il viaggio da Malta a La Spezia. In merito al sinistro occorso a questa motonave si è riferito ‘nell’informativa del 25 maggio 1995 dove appunto si faceva rilevare la richiesta di misurazione della radioattività fatta eseguire dalla Capitaneria di porto di Vibo Valentia Marina per il ritrovamento di documenti che come riferito dal Comandate di quell’Ufficio Marittimo sarebbero i progetti O.D.M.. Inoltre dell’unità in questione furono trovati presso il Comerio i progetti di trasformazione per la costruzione delle ‘telemine”. Circa le navi affondate elencate nell’informativa inizialmente citata sospetti sul carico sono basati sulla bandiera delle navi, quasi sempre di comodo e dal fatto che non si é a conoscenza degli sviluppi del sinistro. Si fa riserva di comunicare tutte le ulteriori informazioni necessarie qualora scaturissero ulteriori elementi dalle indagini in corso. Reggio Calabria, li 30 maggio 1995 capitano De Grazia”. Gli elementi riassunti nell’appunto del capitano De Grazia spinsero gli investigatori a concentrarsi sull’ipotesi investigativa relativa all’affondamento doloso di navi partendo dall’individuazione di tutti gli affondamenti che parevano “sospetti” o per le circostanze dell’affondamento o per la natura del carico. Il gruppo di lavoro si dedicò, innanzitutto, all’affondamento della motonave Rigel, avvenuto il 21 settembre 1987 di fronte a capo Spartivento, nonchè allo spiaggiamento della motonave Rosso, avvenuto di fronte alle coste di Amantea il 14 dicembre 1990. Altri accertamenti furono delegati in ordine ad altri sospetti affondamenti, come si evince dalla delega, del 17 luglio 1995, emessa dal sostituto procuratore F. Neri ed indirizzata al capitano De Grazia ed al maresciallo Moschitta, i quali avrebbero dovuto accertare:
“a) i motivi del trasporto del materiale radioattivo da parte della nave Acrux e quindi acquisire in copia tutta la documentazione utile alle indagini;
b) richiedere alla Capitaneria di porto di Genova quali siano le navi che normalmente caricano o scaricano materiale tossico nocivo o radioattivo dalle banchine del Ponte Libia di Genova;
c) accertare in La Spezia presso gli uffici competenti quali merci pericolosi siano transitate (tossico nocive o radiattive) dalle banchine della Cont Ship italia;
d) vorranno contattare le forze di polizia giudiziaria di La Spezia che possano fornire elementi utili di indagine sul procedimento in corso. dato in Brescia 13.07.95”. Gli approfondimenti relativi alla Rigel e alla Rosso verranno di seguito trattati in paragrafi separati in quanto, in riferimento a ciascuna delle due vicende, gli investigatori svolsero attività consistite nel ricostruire – partendo dagli atti di indagine già svolti dalla procura di La Spezia e dalla Capitaneria di porto di Vibo Valentia – tutte le circostanze relative all’affondamento, al carico delle navi, alla formazione dell’equipaggio. Le due vicende, apparentemente separate, avevano in realtà dei punti di connessione che furono individuati proprio nel corso delle indagini.
1.7 – L’affondamento della motonave Rigel: l’indagine della procura della Repubblica presso il tribunale di La Spezia e le successive attività investigative della procura di Reggio Calabria. La motonave Rigel, di proprietà della Mayfair Shipping Company Limited di Malta, affondò, secondo la versione ufficiale, a 20 miglia al largo di capo Spartivento – promontorio situato nel Comune di Brancaleone (RC) – in acque internazionali, il 21 settembre 1987, dopo essere partita dal porto di Marina di Carrara il 2 settembre 1987, diretta a Limassol, Cipro. Secondo le indagini svolte dalla procura della Repubblica di La Spezia nell’ambito del procedimento penale n. 814/1986RGNR, la Rigel fu affondata dolosamente. I responsabili, rinviati a giudizio il 20 novembre 1992 per aver cagionato il naufragio della nave al fine di truffare la società di assicurazioni, furono condannati con sentenza confermata nei successivi gradi di giudizio. Appare opportuno ripercorre i passaggi fondamentali della sentenza-ordinanza del 20 novembre 1992 in quanto furono poi ripresi dal procuratore Neri e dal capitano De Grazia al fine di approfondire il tema concernente il carico della nave e l’eventuale utilizzo della stessa per lo smaltimento illecito di rifiuti radioattivi, aspetto questo non affrontato nell’inchiesta di La Spezia. Secondo quanto si legge nel provvedimento giudiziario citato, l’accordo per l’affondamento della nave intervenne tra Luigi Divano (titolare della Trade Centre s.r.l.), Vito Bellacosa (di professione agente marittimo, titolare dell’agenzia marittima “Spediamar” corrente in la Spezia), Fuiano Gennaro (di professione funzionario doganale), Cappa Giuseppe e Figliè Carlo, quest’ultimo titolare di un’agenzia marittima in Marina di Carrara (quali organizzatori in Italia e ricercatori delle persone da indurre ad effettuare un fittizio trasporto di merce destinata all’affondamento), Khoury e Papanicolau (il primo quale fittizio acquirente della merce caricata sulla Rigel, e il secondo quale fornitore del mezzo da far naufragare), il capitano Vassiliadis come esecutore materiale nonché capitano della Rigel. Nel corso dell’indagine erano state intercettate le utenze in uso a Gennaro Fuiano, funzionario di dogana già sospeso, e a Luigi Divano, intermediatore di affari di Rapallo. Particolarmente interessante per gli investigatori calabresi si rivelò la conversazione telefonica del 24 marzo 1987 tra Gennaro Fujano e Vito Bellacosa (il quale si trovava a Limassol, Cipro, presso la sede della società di Khoury) nella quale si parlava di un carico da spedire “colà”, con un “carico buono e meno buono” (definito testualmente “merda” da Bellacosa). Poiché in quel periodo i soggetti erano impegnati nell’organizzazione della truffa assicurativa, il riferimento al carico della nave apparve di sicuro interesse investigativo, tenuto conto del fatto che il carico “buono” non poteva essere inteso come la parte del carico da far arrivare a destinazione (atteso che tutta la nave era destinata ad affondare). Dunque, gli investigatori interpretarono le espressioni utilizzate come riferite ai rifiuti, in parte definiti buoni (cioè non pericolosi) e in parte non buoni (quindi tossici). L’altra conversazione di interesse fu quella del 21 settembre 1987, sempre tra Gennaro Fujano e Vito Bellacosa, nella quale venne pronunciata l’espressione: “il bambino è nato”, con ciò indicandosi, secondo l’ipotesi investigativa, con una metafora, il buon esito della operazione di affondamento, che infatti avvenne proprio in quella data. Gli atti del processo di La Spezia offrirono agli investigatori coordinati dal dottor Neri elementi di conferma di estrema importanza alle ipotesi investigative formulate, spingendoli ad approfondire sempre di più l’aspetto che invece non era stato oggetto delle indagini dell’autorità giudiziaria di La Spezia, ossia quello della natura del carico della nave.
Nel processo di La Spezia, infatti, venne definitivamente accertata la natura dolosa dell’affondamento della Rigel e la truffa ai danni dell’assicurazione. Gli imputati vennero giudicati in relazione ai reati di associazione a delinquere, truffa ai danni della società assicurativa, corruzione ed altri reati connessi e finalizzati a conseguire il premio assicurativo, ma nulla venne accertato in merito all’effettivo carico della nave. In sostanza, nel processo di La Spezia non venne neppure ipotizzato che la nave Rigel fosse stata caricata con rifiuti tossici e pericolosi: ed, infatti, nessun elemento era emerso in questo senso né dalle testimonianze né dai documenti, appositamente falsificati per far risultare un carico diverso da quello effettivo. Gli atti del procedimento furono, pertanto, riesaminati dal capitano De Grazia, al fine verificare quale fosse il carico della motonave affondata, sospettandosi che unitamente alla stessa fossero stati inabissati rifiuti radioattivi. Indicazioni precise in questo senso erano state fornite dalla fonte confidenziale denominata “Pinocchio” (di cui all’informativa citata del 13 maggio 1995 del Corpo forestale dello Stato, doc. 118/7), che aveva fatto riferimento ad una nave affondata in Calabria, a largo di capo Spartivento, a venti miglia circa dalla costa, nave che – secondo gli investigatori – poteva appunto identificarsi con la Rigel (cfr. par. 1.4). Due importanti elementi di riscontro, considerati unitariamente, convinsero gli investigatori a ritenere più che fondate le dichiarazioni della fonte confidenziale anzidetta e li spinsero a ricercare ulteriori prove. Posto che la motonave Rigel era affondata il 21 settembre 1987 a largo di capo Spartivento, come accertato dal processo di La Spezia, il primo elemento di riscontro fu ricavato dall’annotazione “lost the ship” rinvenuta sull’agenda sequestrata a Giorgio Comerio proprio sulla pagina corrispondente alla data 21 settembre 1987. Il secondo elemento proveniva direttamente dalle informazioni acquisite dal capitano De Grazia presso i registri Lloyds di Londra, che coprono il 90% della situazione mondiale di tutte le navi affondate, e presso l’IMO, secondo cui l’unica nave affondata il 21 settembre 1987 era la motonave Rigel. Dunque, secondo gli investigatori, l’annotazione di Comerio non poteva che riferirsi alla Rigel e, tenuto conto della documentazione trovata in possesso del Comerio attinente al progetto Dodos e alla società O.D.M., era legittimo ritenere che l’interesse del Comerio alle sorti della Rigel potesse essere legato al carico di rifiuti tossici. Gli investigatori cercarono – tra gli atti del processo di La Spezia – altri elementi utili a rafforzare il quadro che velocemente si andava delineando. Da subito si comprese che fondamentale era il ritrovamento della nave e del suo carico. In particolare, il capitano De Grazia si concentrò in tale direzione, cercando di individuare il punto esatto di affondamento della motonave Rigel. Significative in merito sono alcune informative che il capitano De Grazia trasmise al sostituto dottor Francesco Neri nel mese di giugno 1995, riportate di seguito, nelle quali vengono riassunti gli elementi fino a quel momento acquisiti, evidenziandosi che (cfr. inf. del 16, del 22 e del 26 giugno 1995 – doc. 681/32, 681/18, 681/21):
- la procura della Repubblica di La Spezia aveva accertato l’affondamento doloso della Rigel, finalizzato a truffare la compagnia assicuratrice;
- nell’ambito del procedimento di La Spezia era emerso che due degli indagati – in una telefonata del 21 settembre 1987 – avevano fatto riferimento alla nascita di un bambino, poi chiarita dagli stessi come allusione all’affondamento della nave;
- Giorgio Comerio aveva annotato sulla sua agenda l’evento dell’affondamento, scrivendo alla data del 21 settembre 1987: “lost the ship”;
- una copia dei progetti O.D.M. di Giorgio Comerio era stata trovata sulla plancia della motonave Jolly Rosso, spiaggiatasi ad Amantea il 14 dicembre 1990, dal comandante della Capitaneria di porto di Vibo Valentia, Bellantone;
- per individuare il relitto della nave al largo di capo Spartivento, stante la disponibilità dei mezzi offerta dal Comando generale delle Capitanerie di porto, occorreva individuare la tipologia del mezzo nautico da impiegare, quindi, acquisire notizie tecniche circa le apparecchiature e le modalità d’impiego di sonar per l’individuazione dei relitti, nonché di strumenti idonei alla misurazione della radioattività;
- per tale attività si chiedeva all’autorità giudiziaria l’autorizzazione a recarsi a Roma per prendere contatti diretti con l’ingegner Bertone del centro ricerche nucleari di Roma e con il reparto pperazioni del comando generale delle Capitanerie di porto per la pianificazione delle attività da porre in essere. Conclusivamente, con riferimento alla Rigel, le attività del capitano De Grazia si concentrarono essenzialmente nell’esame della documentazione sequestrata a Comerio, nell’individuazione di elementi di collegamento con l’affondamento della Rigel e nella ricerca del punto esatto di affondamento della motonave, condizione questa indispensabile per avviare proficue attività di ricerca del relitto. Sebbene fosse stato ritenuto necessario procedere ad una nuova escussione dei soggetti coinvolti nell’inchiesta di La Spezia, con particolare riferimento alla natura del carico e alle relative operazioni, tuttavia, il capitano De Grazia non ebbe la possibilità di parteciparvi personalmente in quanto deceduto prima che venissero svolte queste attività.
Successivamente, fu il maresciallo Scimone ad effettuare le attività predette, di cui si renderà conto nel prosieguo della relazione. Va detto, fin da subito, che – secondo la testimonianza del magistrato Nicola Maria Pace – il capitano De Grazia sarebbe riuscito ad individuare le coordinate relative al punto di affondamento, tanto che insistette, proprio la mattina della sua partenza per La Spezia, per portarvi lo stesso magistrato. Si riporta il passo dell’audizione del dottor Pace, avvenuta avanti alla Commissione in data 12 gennaio 2010: “Quando è giunta la notizia della morte di De Grazia io, Neri ed altri non abbiamo avuto dubbi sul fatto che quella morte non fosse dovuta a un evento naturale. Avevo sentito De Grazia alle 10,30 di quella mattina, mi aveva detto che con una delega di Neri si sarebbe recato prima a Massa Marittima e poi a la Spezia, mi avrebbe aspettato a Reggio Calabria per portarmi con una nave sul punto esatto in cui è affondata la Rigel. Alle 10,30 del 13 dicembre, giorno in cui è morto, ricevetti questa sua telefonata in ufficio, ma non sono in grado di fornire elementi obiettivi”.
1.8 – Lo spiaggiamento della Jolly Rosso e Giorgio Comerio. Gli approfondimenti svolti dal capitano De Grazia. Particolare attenzione suscitò la vicenda della motonave Rosso, della compagnia di Ignazio Messina. Tale nave naufragò al largo di capo Suvero, in Calabria, in data 14 dicembre 1990 (con immediato abbandono della stessa da parte di tutto l’equipaggio), per arenarsi sulla costa di Amantea (CS) nella stessa giornata (doc. 695/1). Sullo spiaggiamento, inzialmente, non venne avviata alcuna indagine di carattere penale, ma solo un’indagine amministrativa da parte della compagnia di assicurazione e un’inchiesta da parte della Capitaneria di porto di Vibo Valentia di cui si dà atto nel rapporto riassuntivo a firma del comandante Giuseppe Bellantone (doc. 695/19). Nel 1994 la vicenda della Rosso fu oggetto di ulteriore approfondimento nell’ambito dell’indagine condotta da dottor Francesco Neri. Il motivo dell’approfondimento era da collegarsi ad una serie di circostanze sospette, prima fra tutte quella relativa al rinvenimento presso l’abitazione di Comerio, in Garlasco, di documentazione attinente alla motonave Jolly Rosso.
Particolarmente importanti furono le dichiarazioni rese dal comandante Bellantone al capitano De Grazia, assunte da quest’ultimo informalmente, delle quali si dà conto nell’informativa del 30 maggio 1995 (doc. 681/32): “(…) dall’indagine sommarla esperita dalla Capitaneria di porto di Vibo Valentia Marina emerge che il comandante di quella Capitaneria ha richiesto, a seguito dell’incaglio, degli accertamenti radiometrici sulla nave semi sommersa. Data l’inusualità dell’accertamento si è contattato il comandante di quella Capitaneria di porto Bellantoni il quale riferiva di avere lui stesso richiesto detti accertamenti in quanto in alcuni documenti reperiti a bordo della nave vi erano strani cenni a materiale radioattivo. Successivamente, il preddetto comandante riferiva oralmente che sulla nave aveva rinvenuto della documentazione che non aveva saputo interpretare ma che comunque gli sembravano dei piani di “battaglia navale” che poi riconosceva nei progetti O.D.M. sequestrati presso l’abitazione-laboratorio del Comerio.
Il citato Ufficiale in quella occasione forniva copia del verbale di consegna della succitata documentazione al comandante della “Rosso”, nonché copia dell’istanza con la quale il Capitano Bert M. Kleywegt in rappresentanza della società Smit Tak, olandese, aveva chiesto- l’autorizzazione al recupero della suddetta nave. Viene riferito ciò in quanto la ditta, pur avendo operato per circa 30 giorni, non ha effettuato alcuna attività di recupero nonostante abbia operato con dei subaquei, alcuni gommoni e un grosso Tir”. Successivamente il comandante Bellantone fu sentito a sommarie informazioni dai procuratori Scuderi e Neri (in data29 febbraio 1996) ed anche in tale circostanza confermò quanto dichiarato informalmente al capitano De Grazia sulla presenza – a bordo della Rosso – di documenti con strani cenni a materiale radioattivo. Precisò ancora che, all’epoca, il capitano De Grazia gli mostrò un opuscolo con uno stemma triangolare della società O.D.M. uguale a quello dallo stesso notato a bordo della nave (doc. 695/7). Al verbale di sommarie informazioni vi è il documento citato, di cui si riporta il frontespizio: E’ importante sottolineare che il comandante Bellantone è stato successivamente sentito sia dal pubblico ministero di Paola, Francesco Greco, nell’anno 2004, sia dalla Commissione in data 8 marzo 2011. Le dichiarazioni fornite in tale occasioni sono risultate contrastanti tra di loro nonché con quanto precedentemente dichiarato ai magistrati e al capitano De Grazia. In particolare, nel verbale di sit del 15 luglio 2004 (doc. 695/7), il comandante ha dichiarato, quanto ai documenti rinvenuti sulla Rosso, di avere visto su qualche documento uno stemma a forma di triangolo con la scritta O.D.M. nonché di non conoscere all’epoca dello spiaggiamento il significato della scritta O.D.M.. Tuttavia il comandante ha in qualche modo modificato le dichiarazioni già rese ai magistrati di Reggio Calabria affermando: “Non ricordo di aver visto sulla nave una cartografia raffigurante i siti di affondamento di navi che possa raffigurare una battaglia navale. Ricordo però che la stessa mi fu mostrata dal magistrato Neri di Reggio Calabria e o dal suo collaboratore Natale De Grazia.” Nel corso dell’audizione dinnanzi alla Commissione il comandante Bellantone ha oscillato tra smentite, parziali conferme e dichiarazioni di non ricordare, palesando finanche la possibilità che le sue dichiarazioni avanti ai magistrati di Reggio Calabria non fossero state fedelmente riportate. Risulta, quindi, allo stato incerto quello che effettivamente fu rinvenuto a bordo della motonave Rosso, in mancanza di verbali di sequestro redatti in quell’occasione. Non può essere ignorato il fatto che le iniziali dichiarazioni rese dal comandante Bellantone al Capitanto De Grazia, riportate nell’annotazione citata e successivamente confermate ai magistrati di Reggio Calabria, sono quelle rese in epoca più prossima ai fatti e, quindi, da ritenere, secondo criteri di comune esperienza, più attendibili. Come si avrà modo di evidenziare, il capitano De Grazia, pur incaricato di sviluppare questi aspetti, non ebbe la possibilità di portare a termine l’attività per le ragioni che di seguito si andranno ad esporre. 1.9 – Le verifiche effettuate dal capitano De Grazia in merito agli ulteriori affondamenti sospetti. Come già evidenziato, il capitano De Grazia, in ragione delle sue specifiche competenze, operò una verifica – presso la compagnia di assicurazione Lloyd di Londra – in ordine agli affondamenti sospetti di navi, stilando un elenco che avrebbe dovuto costituire la base di ulteriori approfondimenti. E, pertanto, si può sostenere, senza timore di smentita, che il capitano approfondì proprio l’aspetto attinente all’utilizzo di navi per lo smaltimento illecito dei rifiuti radioattivi sia attraverso il loro affondamento sia, più in generale, attraverso il loro utilizzo per il trasporto verso paesi esteri. Ed è proprio in questo ampio contesto investigativo che va esaminata la vicenda, dai contorni poco chiari, relativa alla motonave Latvia, ormeggiata presso il porto di La Spezia, di cui si ha traccia in due informative del Corpo forestale dello Stato di Brescia indirizzate al procuratore Neri. Dell’esistenza di questa nave si dà conto per la prima volta nell’annotazione di polizia giudiziaria redatta dal Corpo forestale dello Stato di Brescia in data 26 ottobre 1995 (doc. 277/8), nella quale si evidenzia che la nave, venduta ad un prezzo superiore al valore reale, avrebbe potuto essere destinata al trasporto di rifiuti nucleari e/o tossico-nocivi. Si riportano i passi di interesse dell’informativa, redatta previaassunzione di informazioni di cui all’articolo 203 del codice di procedura penale:
“(…) Motonave Latvia. Nell’area portuale di La Spezia è presente la motonave Latvia. adibita al trasporto passeggeri, ex-sovietica, giunta nei cantieri ORAM prima della caduta del blocco orientale. Nave ritenuta come appartenente ai servizi segreti sovietici (KGB) (…). Attualmente è ormeggiata alla diga di La Spezia, è stata messa in vendita (forse dal tribunale) ed acquistata da una società Liberiana con sede in Monrovia, tramite un ufficio legale di La Spezia. Da fonte attendibile risulta che il prezzo pagato è superiore di quello del valore reale, e questo fa supporre che potrebbe essere utilizzata come “bagnarola“ per traffici illegali di varia natura, in particolare di rifiuti nucleari e o tossico-nocivi, (esempi pratici sono le cosiddette navi dei veleni) (…)”. Ancora, la Latvia viene menzionata nell’annotazione di polizia giudiziaria redatta, in data 10 novembre 1995, con la quale il brigadiere Gianni De Podestà comunicò alle procure di Reggio Calabria e di Napoli che fonte confidenziale attendibile aveva di recente riferito in merito al coinvolgimento di famiglie camorristiche e logge massoniche deviate nei traffici di rifiuti radioattivi e tossico nocivi interessanti la zona di La Spezia e l’interland napoletano. Nell’annotazione si dava atto che la Latvia, così come già era stato fatto per la Rigel e la Jolly Rosso, avrebbe dovuto essere preparata per salpare nell’arco di 4 giorni con un carico non ben definito (rifiuti tossico-nocivi e/o radioattivi) per poi seguire la rotta La Spezia-Napoli (per un ulteriore carico, come accertato per la Rosso) – Stretto di Messina-Malta – ritorno sulle coste joniche (per affondamento). Dall’annotazione in parola si evince che la fonte confidenziale cui si fa riferimento è la stessa di cui all’informativa del 13 maggio 1995 richiamata espressamente, e dunque la fonte denominata “Pinocchio”. Si riporta parte del testo dell’annotazione del 10 novembre 1995 (doc. 681/32): “Fonte confidenziale attendibile ha qui riferito, in epoca recente, del traffico di rifiuti radioattivi e tossico-nocivi che interessano in particolar modo la zona di La Spezia e l’interland napoletano e quindi il coinvoglimerito di famiglie camorristiche e logge massoniche deviate. Nella prima annotazione di p.g. redatta in data 13.5.95 in questo ufficio, l’informatore riferiva di personaggi legati al traffico La Spezia~Napoli-Reggio Calabria e oltremare (…). In merito all’annotazione di p.g. prot. 1045 del. 26 ottobre u.s., ove la fonte confidenziale (rimane tale per ragioni disicurezza personale, familiare e per la p.g.. che lavora all’indagine) ha riferito che nell’area portuale di La Spezia vi è presente la motonave Latvia (ex KGB russo) e che tale imbarcazione dovrebbe essere preparata come è stato fatto per la Rigel e la Jolly Rosso e quindi destinata sui fondali marini come quest’ultime. Ancora la Latvia, se vengono rispettati i tempi di allestimento e caricamento della Jolly Rosso (dal 4.12.90all’8.12.1990) nell’arco di 4 giorni, risulterà pronta a salpare daLa Spezia, con un carico non ben definito (rifiuti tossico-nocivi e/o radioattivi) per poi seguire la seguente rotta marittima : — La Spezia >Napoli- (porto) —>Stretto di Messina >Malta >ritorno sulle Coste Joniche (per affondamento). Risulta tappa importante il porto di Napoli, dove al carico di La Spezia dovrebbe essere aggiunto dell’altro (come accertato per la Jolly Rosso poi Rosso) e seguito in via strettamente riservata da persone di fiducia (uomini di fiducia del camorra napoletana legata al Di Francia e alla mafia sici1iana, che ha una ramificazione in La Spezia con un certo Giarusso)”. Dunque, si iniziò ad indagare anche sulla Latvia, per le ragioni che emergono nelle informative appena riportate. In particolare, oggetto di attenzione fu il carico, la provenienza della nave, la sua destinazione nonché le ragioni della lunga permanenza presso il porto di La Spezia. E’ di tutta evidenza l’importanza che gli approfondimenti sulla Latvia avevano nell’ambito dell’inchiesta. Si trattava, infatti, di una nave che era possibile monitorare per così dire “in diretta” e che consentiva, quindi, di superare i vuoti conoscitivi attinenti alle altre navi delle quali si erano perse le tracce. Appare, quindi, del tutto credibile la circostanza emersa nell’ambito dell’inchiesta svolta dalla Commissione, secondo la quale il capitano De Grazia si sarebbe dovuto recare a La Spezia anche per effettuare indagini con riferimento alla predetta nave e per avere un contatto diretto con la fonte confidenziale che aveva già riferito informazioni in merito alla Latvia (cfr. informative appena riportate nonché paragrafo 1.10 nel quale si tratta delle indagini che a La Spezia avrebbe dovuto effettuare il capitano De Grazia). Tale circostanza, invero, non risulta da alcun documento, ma è stata rappresentata alla Commissione da un soggetto il cui nome è rimasto segretato e che – all’epoca dei fatti – aveva collaborato con il Corpo forestale dello Stato di Brescia. (verificare con il Presidente se si può inserire il racconto fatto da questo soggetto in merito alle indagini fatte sulla Latvia, parte tutta segretata). In data 15 dicembre 1995, due giorni dopo il decesso del capitano De Grazia, l’ispettore Tassi trasmise un fax alla procura circondariale di Reggio Calabria nel quale testualmente riferiva (doc. 634/1): “In data odierna è stata accertata la partenza della Motonave Latvia, avvenuta all’incirca verso la terza decina del Novembre u.s. per raggiungere il porto di ARIGA (Turchia). La Motonaveè stata acquistata tramite il tribunale di La Spezia, da una Soc. Ciberiana la “DIDO STEEL Corporation S.A.” con sede in Brod Street Monrovia Liberia, Il trasporto è avvenuto o sta avvenendo a traino di un rimorchiatore denominato Kerveros di nazionalità greca. Le pratiche sono state curate da una Agenzia Marittima Spezzina”. Lo stesso ispettore Tassi, nel marzo 1996, trasmise, sempre al sostituto procuratore dottor Neri, sette fotografie della motonave in questione (doc. 681/71): Nell’ambito dell’indagine condotta dal dottor Neri gli approfondimenti relativi alla motonave Latvia furono esclusivamente quelli contenuti nelle due informative dell’ispettore De Podestà, sopra riportate, nonché la comunicazione dell’ispettore Tassi relativa all’avvenuta partenza della nave, collocata temporalmente alla fine di novembre (dopo il decesso del capitano De Grazia). Non può non sottolinearsi la peculiarità della vicenda, tenuto conto dei seguenti dati:
- nel pieno di indagini concernenti l’utilizzo di navi per lo smaltimento illecito di rifiuti tossici, vi era la possibilità di monitorare una nave, la Latvia, rispetto alla quale vi erano concreti indizi in merito al suo utilizzo per le predette finalità illecite;
- ebbene, nonostante la preziosissima fonte di informazioni, rappresentata dalla motonave in questione, non solo non risultano effettuate verifiche approfondite da parte degli ufficiali di polizia giudiziaria della zona, ma neppure risultano essere stati mai sentiti gli occupanti della nave;
- paradossale è poi che non sia stato predisposto un servizio di osservazione in merito agli spostamenti della nave.
1.10 – Le indagini che il capitano De Grazia avrebbe dovuto compiere a La Spezia. La Commissione ha ritenuto di fondamentale importanza comprendere quale fosse l’oggetto specifico delle indagini che il capitano De Grazia, unitamente al maresciallo Moschitta e al maresciallo Francaviglia, avrebbe dovuto effettuare recandosi a La Spezia dal 12 dicembre 1995. Deve sin d’ora sottolinearsi come questo approfondimento, teoricamente agevole in quanto erano state predisposte deleghe di indagine da parte del pubblico ministero procedente, si è rivelato nei fatti difficoltoso.
La documentazione acquisita, costituita da ben sei deleghe, alcune delle quali conferite specificatamente ai militari in missione, non si è rivelata risolutiva in quanto le deleghe in questione sono state formulate in modo alquanto generico. Non è noto se per ragioni precauzionali e di riservatezza o per lasciare ampio margine di manovra agli ufficiali di polizia giudiziaria. Neppure chiarificatrici sono state le dichiarazioni rese sul punto da quegli stessi ufficiali che parteciparono alla missione in questione. Contraddittorie, infine, sono state le informazioni acquisite dagli altri investigatori impegnati nell’indagine. Poco chiara è stata anche la vicenda attinente alla valigetta che il capitano De Grazia portava con sé, valigetta che non è stata mai sequestrata, ma solo affidata in custodia al maresciallo Moschitta e restituita, successivamente, al dottor Neri. Il contenuto della valigetta in questione non risulta mai inventariato essendo stata solo riportata genericamente (in un’annotazione di polizia giudiziaria) la presenza al suo interno di documenti attinenti all’indagine di cui al procedimento penale n. 2114/94 RGNR. La Commissione ha acquisito le copie delle sei deleghe di indagine emesse in data 11 dicembre 1995 dai magistrati di Reggio Calabria (sostituto F. Neri e procuratore F. Scuderi). Dall’analisi delle stesse si ricava che la prima era finalizzata all’escussione di Cesare Granchi e all’acquisizione in copia conforme di tutta la documentazione attinente ai rapporti commerciali e societari con Giorgio Comerio, con particolare riferimento a quelli concernenti la realizzazione del progetto O.D.M. (doc. 681/87); la seconda era indirizzata al presidente del tribunale di La Spezia, affinché il capitano di fregata Natale De Grazia e il maresciallo Nicolò M. Moschitta fossero autorizzati a visionare e estrarre copia degli atti del procedimento penale nr. 814/1986 (a carico Fuiano Gennaro + altri – Affondamento M/n Rigel) (doc. 681/87); la terza era indirizzata al procuratore della Repubblica presso il tribunale di La Spezia, affinché il “vice ispettore Claudio Tassi della sezione di polizia giudiziaria del Corpo forestale dello Stato della procura della Repubblica di La Spezia fosse autorizzato a svolgere le indagini delegategli nell’ambito del procedimento penale 2114/94”. (doc. 681/87); con la quarta si chiedeva al vice ispettore Tassi di voler svolgere tutte le indagini già concordate nell’ambito del procedimento penale 2114/94 anche fuori sede (doc. 695/16). Con le ultime due, indirizzate ai procuratori della Repubblica presso la pretura circondariale e presso il tribunale di Salerno, si richiedeva di consegnare al maresciallo Moschitta copia di tutti gli atti relativi agli accertamenti effettuati in merito allo spiaggiamento di un container, avvenuto a Positano nell’aprile del 1994, avente tracce di radioattività (Torio) e riferibile all’affondamento della motonave Marco Polo (doc. 681/87). Dunque, le attività delegate sarebbero dovute consistere in parte nell’esame di atti processuali, in parte nel compimento di attività concordate precedentemente e non esplicitate nelle deleghe. Come già evidenziato, la Commissione ha ritenuto di audire tutti coloro in grado di fornire precisazioni in merito alle indagini da compiersi a La Spezia.
In particolare, sono stati sentiti il maresciallo Moschitta, il carabiniere Francaviglia, il maresciallo Scimone, l’ispettore Tassi e un soggetto del quale non possono essere fornite le generalità per ragioni di segretezza. A fronte dell’importanza della missione, così come rappresentata dai magistrati e dagli stessi ufficiali di polizia giudiziaria, nessuno di essi è stato in grado di specificare in modo puntuale quali fossero effettivamente le attività da svolgere e per quale motivo il capitano De Grazia fosse diretto a La Spezia. Peraltro, a bene esaminare le dichiarazioni, le stesse risultano non solo generiche, ma anche in alcuni punti contraddittorie tra di loro. Formalmente, dalla delega acquisita il capitano De Grazia avrebbe dovuto esaminare gli atti processuali attinenti all’affondamento della motonave Rigel. Stando però le dichiarazioni rese alla Commissione dalle persone sopra indicate, il capitano De Grazia avrebbe dovuto:
- sentire a sommarie informazioni alcuni componenti dell’equipaggio della Rosso;
- effettuare ulteriori approfondimenti in merito agli affondamenti sospetti di navi rilevati dai registri Lloyd’s Adriatico;
- incontrare una fonte confidenziale già utilizzata dall’ispettore Tassi al fine di apprendere notizie in merito alla motonave Latvia, ormeggiata presso il porto di La Spezia.
Anche il pubblico ministero Neri, nel verbale di sommarie informazioni rese al pubblico ministero Russo in data 9 aprile 1997 nell’ambito dell’indagine avviata in ordine al decesso del capitano De Grazia, ha affermato genericamente che “la missione a La Spezia aveva lo scopo di sentire testi presenti sulle navi affondate”. In particolare: ”il capitano era partito per La Spezia e Massa Carrara per sentire testi delle navi oggetto delle indagini. Lui stesso ci spiegò che vi era l’urgenza di fare questi accertamenti per evitare anche inquinamenti probatori e che completata questa fase investigativa fuori sede nel corso delle vacanze di Natale avrebbe avuto tutto il tempo di studiarsi le carte ed arrivare a punti conclusivi dell’indagine. I carabinieri che lo accompagnavano, Moschitta e Francaviglia, lo coadiuvavano in modo assiduo e costante essendo a conoscenza di ogni aspetto della indagine, trattandosi di un nucleo investigativo interforze appositamente da me costituito”. In relazione alla missione a La Spezia, il maresciallo Scimone è stato l’unico a dichiarare che originariamente alla missione avrebbe dovuto partecipare lui e non il capitano De Grazia. Nessun’altro tra gli inquirenti ha, infatti, accennato a tale circostanza. In particolare, nel corso dell’audizione del 18 gennaio 2011, in merito alla suddivisione dei compiti ha dichiarato: “Sul viaggio a La Spezia c’erano due programmi: il mio di acquisire documentazione presso la dogana e quello di Moschitta, che avrebbe dovuto svolgere un’attività che stava seguendo lui e che in questo momento non ricordo di preciso. Doveva sentire forse qualcuno…(…) Se non ricordo male, doveva sentire delle persone in merito a un aspetto della vicenda che stava curando lui come Nucleo operativo. Io mi ero occupato invece della ricostruzione della Jolly Rosso e di un’altra nave, per cui era necessario acquisire queste bolle di carico, tra cui anche quelle della Rigel, come è stato fatto successivamente, perché dopo la morte di De Grazia sono andato a prendere questa documentazione”. Secondo la versione del maresciallo Scimone fu lo stesso De Grazia a chiedere di recarsi a La Spezia al posto del maresciallo Scimone per l’esame della documentazione marittima presso la dogana, in quanto munito di competenze specifiche che avrebbero agevolato l’esecuzione della delega. In realtà, dopo la morte del capitano fu proprio il maresciallo Scimone ad acquisire la documentazione in questione presso la dogana di La Spezia, il che, evidentemente, dimostra che lo stesso disponeva delle competenze adeguate per svolgere questo tipo di attività. Il maresciallo non ha fatto alcun riferimento ad indagini interessanti la motonave Latvia. Partendo proprio da quest’ultimo dato si deve evidenziare come anche il procuratore di Paola, Francesco Greco, nel 2004 abbia cercato di comprendere quale fosse l’oggetto delle indagini che avrebbero dovuto essere compiute in quel periodo a La Spezia, senza riuscirvi compiutamente. In primo luogo va esaminata la posizione dell’ispettore Tassi, appartenente al Corpo forestale dello Stato ed applicato presso la sezione di polizia giudiziaria della procura di La Spezia. Il pubblico ministero Greco aveva convocato l’ispettore Tassi proprio per sapere se avesse portato a compimento la delega sopra indicata e l’oggetto della stessa. Sul punto l’ispettore Tassi ha risposto in primo luogo precisando di avere avuto la delega via fax in data 15 dicembre 1995 (dunque successivamente al decesso del capitano De Grazia) e, in secondo luogo, dichiarando di aver effettuato alcuni accertamenti, poi riassunti nell’annotazione del 29 febbraio 1996 (doc. 695/22). L’annotazione fu prodotta al pubblico ministero Greco in occasione dell’escussione dell’ispettore. Dalla lettura dell’annotazione, si evince che le attività richieste all’ispettore Tassi erano relative all’accertamento di utenze telefoniche riferibili alla compagnia di navigazione Ignazio Messina. Tuttavia nell’annotazione si fa riferimento espresso alla delega della procura di Reggio Calabria nella quale era stati disposti accertamenti in Livorno, Arezzo e Casale Monferrato. Di talchè l’annotazione prodotta al dottor Greco non sembra riconducibile alla delega dell’11 dicembre 1995, bensì ad altra delega contenente richieste di accertamenti specifici relative ad utenze telefoniche da eseguirsi anche nelle città menzionate. Peraltro, lo stesso Tassi, nel verbale di sommarie informazioni reso davanti al pubblico ministero Greco il 24 maggio 2005(doc. 695/22), nel produrre l’annotazione in parola, ha specificato di “ritenere” che quella annotazione contenesse la risposta alla delega dell’11 dicembre 1995, senza esprimersi in termini di certezza. Pare strano, in ogni caso, (laddove la delega dell’11 dicembre si fosse riferita effettivamente ad accertamenti su utenze telefoniche in vista di eventuali operazioni di intercettazione) che le attività siano state compiute in un lasso di tempo così ampio (due mesi e mezzo). L’ispettore Tassi, a differenza di quanto ha voluto far credere nel corso delle audizioni in Commissione, era pienamente coinvolto nelle indagini, tanto che il procuratore Neri aveva richiesto per iscritto l’11 dicembre 1995 al procuratore della Repubblica presso il tribunale di La Spezia che fosse autorizzato a svolgere le indagini delegategli nell’ambito del procedimento penale 2114/94. (doc. 681/87). La richiesta di autorizzazione, come sopra evidenziato, rientra fra le sei deleghe che Neri aveva consegnato al capitano De Grazia, il giorno prima della sua partenza per La Spezia. Ad ulteriore sostegno di quanto esposto, vi è l’altra delega, tra le sei consegnate a De Grazia, indirizzata specificatamente al vice ispettore Tassi nella quale gli si chiedeva espressamente “di voler svolgere tutte le indagini già concordate nell’ambito del procedimento penale 2114/94 anche fuori sede” (doc. 695/16). Il riferimento alle indagini già concordate sul procedimento penale presuppone inequivocabilmente l’esistenza di pregressi rapporti investigativi nonché l’esigenza di non rendere esplicito l’oggetto della delega per ragioni di riservatezza e anche di tutela delle persone che si occupavano delle indagini (cfr. capitolo due). Nel corso dell’inchiesta la Commissione ha verificato che il Corpo forestale dello Stato di Brescia si avvaleva di fonti confidenziali, una delle quali aveva come immediato riferente – secondo quanto dichiarato dagli stessi ufficiali del Corpo forestale dello Stato di Brescia – l’ispettore Tassi. Nel corso delle audizioni in Commissione quest’ultimo ha riferito che le indagini che avrebbero dovuto compiere il capitano De Grazia a La Spezia erano costituite dall’assunzione di informazione di alcuni componenti dell’equipaggio della motonave Rosso, in particolare gli ufficiali Zanello e Zembo, che lo stesso tassi avrebbe dovuto escutere unitamente al capitano. Nessun riferimento è stato fatto dal Tassi alla vicenda della motonave Latvia della quale ha parlato in Commissione una fonte confidenziale affermando: “(…) sulla nave di capo Spartivento il capitano De Grazia doveva venire a La Spezia a conferire con me e con Tassi con riferimento ad un’altra nave, la Latvia, ex nave del KGB sovietico che era ormeggiata a fianco di una struttura della marina militare nell’area del San Bartolomeo. Poi, questa nave è stata monitorata. (…) Questa nave era stata poi acquistata da una società fatta a La Spezia, non ricordo il nome ma non è difficile recuperarlo, (…) E’ stata ormeggiata alcuni mesi sulla diga foranea a La Spezia. (…) questa nave era rimasta ormeggiata prima ad un molo prospiciente il comando NATO dell’Alto Tirreno a La Spezia, quindi nell’area del San Bartolomeo proprio sotto la discarica Pitelli ed era stata acquistata da una società costituita da alcuni industriali e altri di La Spezia (…). Non poteva prendere il mare, era smantellata e priva di equipaggio. Poi, improvvisamente, questa nave dopo la costituzione di questa società che aveva recuperato questa nave come rottame, ha preso il largo trainata da un rimorchiatore che credo fosse turco ed è arrivata in Turchia. Voci dicevano che fosse stata riempita, non riempita, ma che fosse stato immesso del materiale particolare sulla nave prima della sua fuoriuscita dalla rada di La Spezia. Questo era uno dei lavori che abbiamo fatto io e l’ispettore Tassi del Corpo forestale dello Stato”. La nave probabilmente era stata caricata con del mercurio rosso radioattivo e il sospetto era che i rifiuti fossero stati buttati in mare. La nave pare l’abbiano poi demolita ad Ariga. Il Presidente nel corso dell’audizione ha richiesto insistentemente all’audito da chi avesse appreso quelle notizie. L’audito ha risposto che si trattava di “voci” acquisite nell’ambiente dei trasportatori e di tutti coloro che ruotano nel mondo dei rifiuti. si è trattato evidentemente di una risposta evasiva soprattutto alla luce di quanto successivamente riferito dall’audito in merito all’attività che lui personalmente svolse con riferimento alla Latvia. In particolare ha dichiarato di essere salito sulla nave, di averla visionata, di avere pagato per questo un membro dell’equipaggio. Ha poi affermato che il capitano De Grazia avrebbe dovuto visionare la Latvia ma l’incontro non è avvenuto per la prematura morte del capitano De Grazia. Testualmente ha dichiarato: “Questo è un periodo che mi ricordo abbastanza bene in quanto eravamo rimasti piuttosto allibiti sul fatto che il capitano – che era anche uno sportivo da quello che mi veniva detto, perché io non l’ho mai conosciuto il personaggio- fosse morto e la cosa non mi era piaciuta assolutamente. Già questo aveva dato un forte rallentamento a quello che si poteva fare, parlo dei rapporti fra me e Tassi: Poi credo che Tassi abbia avuto dei problemi con Brescia, con la struttura del Corpo forestale dello Stato di Brescia, per questioni loro sulle quali non sono mai andato ad indagare perché non erano fatti che riguardavno me. Io ho continuato a sentire De Podestà (…) ho rivisto Tassi, mi aveva detto lui, questo credo lo possa confermare, che la nave era arrivata ad Ariga in Turchia e addirittura c’era il gruppo sommergibili di La Spezia – due sommergibili della classe costiera che dovevano seguire la nave per un certo percorso per vedere se aveva contatti con l’esterno con mezzi di superficie o se buttasse qualcosa a mare. Tuttavia per un disguido, che non ho mai capito quale fosse stato, non ero io che tenevo i rapporti tra gruppo di sommergibili e tutta la struttura di intercettazione ma era evidentemente il corpo forestale. La nave è praticamente scappata, il rimorchiatore è arrivato ed in sei ore ha agganciato…. Ha ancorato la nave con i cavi, la nave miracolosamente si è raddrizzata dallo sbandamento ed è uscita”. Evidenti sono le discrepanze tra quanto dichiarato da Tassi e quanto riferito invece dalla fonte confidenziale. Deve, infatti, sottolinearsi che la motonave Latvia era effettivamente oggetto di indagini da parte della procura circondariale di Reggio Calabria, tenuto conto delle informative già redatte dagli ufficiali del Corpo forestale dello Stato di Brescia nelle quali si dava conto di una serie di evidenti anomalie che suscitavano l’interesse investigativo sulla motonave. Di sicuro rilievo è che la fonte audita abbia avuto la possibilità, secondo quanto dichiarato, di salire sulla motonave versando denaro a membri dell’equipaggio non meglio identificati. Non è stato chiarito in alcun modo quali soldi fossero stati impiegati per questa operazione e dunque se sia stato utilizzato denaro personale della fonte o denaro messo a disposizione dagli investigatori. Nessun riferimento ad accertamenti riguardanti la motonave Latvia è stato fatto dal maresciallo Moschitta nel corso delle due audizioni del 2010 avanti alla Commissione. Lo stesso, infatti, ha riferito: “Stavamo andando a La Spezia ad acquisire la documentazione in merito alla Rigel, la nave affondata a capo Spartivento. Tale documentazione era di interesse perché il processo di La Spezia aveva sancito che sul trasporto di quella nave erano state pagate dazioni ed era stato coinvolto personale della dogana e della Rigel circa il carico. Era necessario e importante avere con noi questi documenti per poi proseguire, se non erro, per Como o per un’altra destinazione per sentire altri eventuali testimoni, con tanto di delega del magistrato”. Ancora più generiche sono state le dichiarazioni sul punto da parte del carabiniere Rosario Francaviglia, rese in data 1 agosto 2012: “In data 12 dicembre 1995, insieme al maresciallo Moschitta e al capitano di corvetta Natale De Grazia, alle ore 18.50 siamo partiti a bordo di un’autocivetta per portarci a La Spezia, dove dovevano essere sentite delle persone per l’indagine. (…) Ricordo che si trattava di persone che facevano parte dell’equipaggio di una nave che era stata affondata, della Rigel se non ricordo male. (…) Quello che veniva deciso era condiviso soltanto da noi del pool; nessuno veniva informato. In quel periodo, avevamo anche la delega nominativa con divieto di riferire, anche gerarchicamente, sulle indagini e su ciò che facevamo, tanto che sui fogli di viaggio mettevamo varie regioni d’Italia, come destinazione, non dichiaravamo che stavamo andando a La Spezia o altrove”.
1.11 – Gli sviluppi investigativi in relazione alla Somalia. Il mese di novembre 1995 fu denso di attività investigative in quanto:
- erano in corso gli accertamenti sulla Rigel e sulla Jolly Rosso. In particolare, per quanto riguarda la Rigel, è stato riferito che il capitano De Grazia avesse individuato le coordinate precise del luogo di affondamento della nave (cfr. quanto dichiarato dal magistrato Nicola Maria Pace nel corso dell’audizione del 20 gennaio 2011);
- con riferimento alla Jolly Rosso erano state programmate attività finalizzate ad identificare e a sentire a sommarie informazioni componenti dell’equipaggio nonché a ricostruire le varie fasi dello spiaggiamento e dello smantellamento del relitto;
- con riferimento alla motonave Latvia erano state acquisite informazioni di notevole rilevanza nel contesto investigativo tanto che (secondo quanto emerso nel corso dell’inchiesta svolta alla Commissione) il capitano De Grazia, una volta giunto a La Spezia, avrebbe dovuto acquisire direttamente informazioni;
- sempre nello stesso periodo gli investigatori iniziarono a trovare sempre più riscontri agli elementi ricavati dalla documentazione sequestrata a Giorgio Comerio nel maggio 1995, con riferimento anche alla Somalia, che già da tempo figurava quale luogo di destinazione di rifiuti tossici provenienti da diversi paesi. Il raccordo tra lo smaltimento di rifiuti tossici e la Somaliaemerse ufficialmente, per quanto risulta alla Commissione, in data 2 dicembre 1995, allorquando il Corpo forestale di Brescia informò la procura circondariale di Reggio Calabria che, in data 11 novembre 1995, Ali Islam Haji Yusuf, membro dell’Autorità’ del servizio mondiale per i diritti umani di Bosaaso aveva segnalato che “al largo della citta’ di Tohin, del distretto di Alula, nella Regione del Bari, due navi sconosciute stavano effettuando una operazione insolita, vale a dire che mentre una scavava sui fondali del mare, l’altra seppelliva in dette buche dei containers dal contenuto sconosciuto. Tale operazione stava creando tensione fra la popolazione locale”. Tale documento era pervenuto al Corpo forestale dello Stato da Greenpeace. La comunicazione del Corpo forestale dello Stato era di sicuro rilievo in quanto tra i documenti sequestrati a Comerio ve ne erano alcuni attinenti in modo specifico alla Somalia, contenuti in apposita cartellina recante la scritta “Somalia”. Tali dati risultano compendiati nell’informativa 22 gennaio 1996 (cui si rimanda), redatta dal comandante provinciale – R.O.N.O. di Reggio Calabria, Antonino Greco (doc. 681/62), nella quale si fa riferimento a documentazione sequestrata a Comerio dalla quale si desumeva l’esistenza di trattative avviate per operazioni di smaltimento di rifiuti da realizzarsi in zone coincidenti con quelle in cui stavano operando le navi segnalate da Ali Islam Haji Yusuf. L’informativa, sebbene trasmessa dopo la morte del capitano De Grazia, dà conto di informazioni già acquisite precedentemente e, quindi, va intesa come riferita ad attività di indagine effettuate prima del decesso del capitano De Grazia. Pare doveroso evidenziare anche in questa sede che gli elementi complessivamente raccolti in ordine ai singoli indagati ed in particolare a Giorgio Comerio evidentemente non sono stati ritenuti sufficienti a formulare precise accuse né nei confronti di Comerio né nei confronti degli altri indagati, tanto che il procedimento si è concluso con una richiesta di archiviazione accolta dal Gip. Il tema relativo alla Somalia, come è noto, è stato ed è ancora oggi oggetto di numerosi approfondimenti in quanto le regioni del nord Africa – sulla base di dati investigativi anche recenti – sembrano essere la sede privilegiata di destinazione di rifiuti altamente tossici. Tuttavia, l’ipotesi secondo la quale in Somalia sarebbero giunti in quegli anni navi cariche di rifiuti radioattivi ed interrati in loco non ha avuto sinora un riscontro probatorio in ambito giudiziario. Con riferimento alla documentazione sequestrata a Comerio, occorre evidenziare un altro dato emerso nel corso dell’inchiesta: nella cartellina riportante la scritta “Somalia” erano contenuti una serie di documenti tra cui anche uno concernente la morte di Ilaria Alpi. Il procuratore Neri, nel corso dell’audizione avanti alla Commissione ha ribadito di aver visto – tra gli atti sequestrati a Comerio – il certificato di morte di Ilaria Alpi. Tale certificato, peraltro, non è stato mai ritrovato all’interno del fascicolo e quindi – secondo quanto dichiarato dal magistrato – sarebbe stato verosimilmente trafugato.
Questa specifica vicenda ha avuto già sviluppi processuali, non essendo stata confermata la notizia che effettivamente nel fascicolo vi fosse tale documento (vi è stato un procedimento penale a carico dello stesso magistrato per falsa testimonianza). Il dato incontroverso è che all’interno della cartellina in questione, dedicata alla Somalia, vi fosse un documento in qualche modo attinente alla morte di Ilaria Alpi, documento che secondo il maresciallo Scimone sarebbe consistito in una notizia Ansa. Resta in ogni caso significativo che all’interno di una cartella intitolata “Somalia”, nella quale erano contenuti documenti concernenti lo smaltimento di rifiuti tossici e contatti con esponenti somali, vi fosse un atto riguardante la morte della giornalista, in un’epoca in cui ancora nessun potenziale collegamento era stato ipotizzato tra la morte della stessa e il traffico di rifiuti. Si riportano le dichiarazioni del maresciallo Scimone sul punto: “Ho anche sentito dire una cosa stranissima: che il comandante De Grazia avrebbe trovato tra gli atti di Comerio il certificato di morte di Ilaria Alpi. Non mi risulta. (…) Non era il certificato di morte di Ilaria Alpi perché sapete bene che il certificato di morte non è stato redatto in Somalia: Ilaria Alpi fu portata su una nave italiana e il primo certificato di decesso è stato fatto dal medico della nave. Credo che poi il comune di Roma abbia redatto l’ultimo certificato. Comerio aveva una «fascetta», la notizia Ansa della morte di Ilaria Alpi, che De Grazia aveva trovato mentre cercavamo nelle carte e che mi aveva fatto vedere. Era una notizia Ansa, non un certificato di morte. (…) Era un fascicolo della Somalia. Lui aveva dei fascicoli tra cui questo, Somalia, in cui c’erano tutte le proposte di smaltimento dei rifiuti, i suoi progetti, i contatti con i vari ministri, roba di questo genere e c’era questa striscia”. Va sottolineato che, man mano che l’indagine acquisiva maggiore consistenza, sarebbe stata naturale un’intensificazione ed accelerazione delle attività investigative, che, peraltro, fino a quel momento, si erano svolte regolarmente. Viceversa, deve prendersi atto che fu proprio quello il momento in cui si assistette, non solo ad un rallentamento dell’attività di indagine, ma anche al disfacimento del gruppo investigativo costituito dagli ufficiali di polizia giudiziaria appartenenti a diverse forze dell’ordine, che fino a quel momento avevano collaborato con il dottor Neri. Il decesso del capitano De Grazia deve essere inserito in questo preciso contesto investigativo ed analizzato unitamente agli eventi immediatamente precedenti e successivi al decesso. Prima di approfondire la fase regressiva dell’indagine occorre necessariamente soffermarsi sul rapporto di collaborazione tra la procura di Reggio Calabria e i servizi segreti, di cui il dottor Neri ha dato ampiamente conto anche nel corso delle audizioni.
1.12 La collaborazione tra la procura di Reggio Calabria e i servizi segreti. Una delle peculiarità dell’indagine condotta dal dottor Neri fu certamente quella della costante interlocuzione con il Sismi al quale vennero richieste informazioni e documenti sia su Comerio sia, più in generale, su tutti i temi oggetto di inchiesta (traffico di rifiuti radioattivi, traffico di armi, affondamenti di navi). Come si legge nella relazione sullo stato delle indagini inviata dal dottor Neri al procuratore capo in data 26 giugno 1995(doc. 362/3 allegato), l’importanza della documentazione sequestrata a Giorgio Comerio (nella quale figuravano soggetti come Galli, Pazienza e Kassoggi) consentì alla procura di autorizzare la polizia giudiziaria impegnata nell’indagine ad avvalersi dell’ausilio del Sismi, che fornì “ben 277 documenti sul Comerio a conferma della pericolosità di detto soggetto e a riprova della bontà della ipotesi investigativa seguita”.
La documentazione acquisita venne studiata sia dalle forze di polizia giudiziaria che dal Sismi. Riguardo l’inizio della collaborazione, il dottor Neri riferì al pubblico ministero Russo, nell’aprile 1997: “Ricordo che unitamente al collega Pace della procura circondariale di Matera comunicammo al capo dello Stato che le indagini potevano coinvolgere la sicurezza nazionale, inoltre poiché fatti di questo tipo potevano essere a conoscenza del Sismi ancor prima dell’ingresso del capitano De Grazia nelle indagini chiese al direttore del servizio di trasmettermi copia di tutti gli atti che potevano riguardare il traffico clandestino di rifiuti radioattivi con navi. A dire il vero il Servizio molto correttamente mi trasmise degli atti tramite la polizia giudiziaria. In particolare il passaggio degli atti avvenne tramite il maresciallo Scimone appositamente delegato a ciò da me. Il maresciallo Scimone faceva parte del gruppo investigativo da me diretto e teneva i contatti con il Sismi. Il capitano De Grazia era a conoscenza di ciò, cioè sapeva dei contatti istituzionali di Scimone con il Sismi per la acquisizione delle notizie che chiedevamo. Ogni attività di rapporto con il Sismi è formalizzata in specifici atti reperibili nel processo.” Sui rapporti con il Sismi ha riferito anche il maresciallo Moschitta nel corso delle due audizioni rese avanti alla Commissione (l’11 marzo e l’11 maggio 2010): “Un giorno mi presento al Sismi e sequestro un documento, con tanto di provvedimento del magistrato. Ho trovato grande collaborazione nel generale Sturchio, il capo di gabinetto. Mi chiese se volessi il tale documento e me lo dettero tranquillamente. (…) Chiedevamo se avevano qualcosa su Giorgio Comerio. Il primo documento che emerse mostrava che Giorgio Comerio era colui il quale aveva ospitato in un appartamento, non so se di sua proprietà, a Montecarlo l’evaso Licio Gelli. Da lì comincia il nostro rapporto con i servizi segreti, i quali ci hanno veramente fornito molto materiale. Si è sempre collaborato benissimo, apertamente e senza problemi, tanto che nell’edificio della procura distrettuale di Reggio Calabria avevano approntato per loro anche un piccolo ufficio per esaminare documentazioni nostre ed eventualmente integrarle (…) i servizi segreti, il Sismi, hanno lavorato con noi. Il primo impatto che ho avuto con i servizi segreti è stato a seguito di un decreto di acquisizione di documenti presso il Sismi. Sono andato personalmente ad acquisire un documento a carico di Giorgio Comerio, titolare della O.D.M., oramai noto nell’inchiesta. In modo particolare, si trattava della fuga di Licio Gelli da Lugano fino al suo rifugio segreto nel principato di Monaco. Ci risulta che la casa in cui era ospitato Licio Gelli era di Giorgio Comerio. In seguito, i servizi segreti sono entrati ufficialmente con noi nell’indagine perché esaminavano la documentazione, d’accordo con la magistratura. In effetti, è stata una collaborazione corretta, leale e senza problemi”.
La collaborazione tra procura e Sismi proseguì anche dopo che il fascicolo fu trasmesso alla direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, come si evince dal provvedimento con il quale il sostituto procuratore dottor Alberto Cisterna, divenuto titolare dell’indagine, autorizzò la polizia giudiziaria “ad avvalersi dell’ausilio informativo del Sismi” per il tramite di persone nominativamente indicate appartenti all’ottava divisione (doc. 681/39). Quello sopra descritto fu il rapporto “formale” tra procura e servizi segreti, in merito alle indagini sulle “navi a perdere”. E’ emerso, però, un ulteriore profilo di intervento dei servizi segreti nella materia riguardante il traffico dei rifiuti radioattivi e tossico nocivi e il traffico di armi, come emerge dalla documentazione acquisita dalla Commissione riferita al medesimo periodo in cui erano in corso le indagini del dottor Neri. In particolare il documento proveniente dal Copasir, archiviato dalla Commissione con il n. 294/55, riguarda una comunicazione del Sismi al Cesis in merito alle spese sostenute nell’anno 1994 per i servizi di intelligence connessi al problema del traffico illecito di rifiuti radioattivi e di armi, indicati nella misura di 500 milioni di lire. Si tratta di un documento desecretato dalla Commissione particolarmente interessata a comprendere in che modo fossero stati utilizzati i 500 milioni di lire nelle operazioni di intelligence relative al traffico di rifiuti e di armi. Non è stato però possibile, nonostante le numerose audizioni effettuate sul punto, sapere in che modo sia stata spesa la somma di cui sopra, per lo svolgimento di quali attività e, ancor prima, per quali ragioni i servizi, all’epoca, fossero interessati al tema dei rifiuti radioattivi. E’ stato, inoltre, prospettato alla Commissione, ma non è stato acquisito alcun riscontro al riguardo, un ulteriore ipotetico interessamento dei servizi all’indagine svolta dal dottor Neri attraverso il controllo delle attività poste in essere dalla procura e dagli ufficiali di polizia giudiziaria. Proprio con riferimento a quest’ultimo punto si evidenziano le dichiarazioni rese da Rino Martini alla Commissione, in data 17 febbraio 2010, allorquando ha dichiarato: “In quel periodo, si verificarono due episodi, uno dei quali ricordato dal procuratore Pace. Per una settimana siamo stati filmati da un camper parcheggiato di fronte alla caserma in cui operavo. Una sera in cui erano stati invitati anche altri magistrati, avevamo deciso di recarci in una bettola sul Maddalena, che non è frequentata da nessuno durante la cena perché è aperta solo di giorno, e dieci minuti dopo il nostro arrivo attraverso una strada nel bosco è arrivata un’altra autovettura e si sono presentati a cena due ragazzi di trent’anni, che hanno lasciato la macchina nel parcheggio. Siamo usciti per primi e, attraverso due sottufficiali dei Carabinieri di Reggio Calabria presenti, dalla targa dell’autovettura siamo risaliti al proprietario: il SISDE di Milano. Non ho altri episodi da raccontare. Certamente, c’era un controllo telefonico e attività ambientali di verifica su come ci muovevamo.” Come specificato dall’ex colonnello, su domanda della Commissione, riguardo a questa presunta attività di controllo, lo stesso aveva semplicemente formulato un’ipotesi, senza avere alcun riscontro.
Riguardo poi alla vicenda del camper, il colonnello ha specificato che le verifiche effettuate non hanno portato a risultati di alcun tipo: “Dal pubblico registro automobilistico non abbiamo trovato nulla di interessante e abbiamo preferito mantenere un basso profilo per cercare di capire come avvenissero questi controlli. Sicuramente, non apparteneva a nessuno degli abitanti del posto, perché di fronte ci sono ville residenziali. All’interno comunque non c’era nessun operatore, ma era piazzata una telecamera.(…) puntata verso l’ingresso”. Circa 20 giorni dopo la sua audizione, il colonnello Martini ha trasmesso alla Commissione un appunto relativo al secondo dei due episodi sopra riferiti, aggiungendo ulteriori dettagli. Si riporta il contenuto del documento trasmesso (doc. 304/1): “Con riferimento alla lettera sopracitata riguardante l’episodio della presenza delle due persone come riferito nell’audizione, preciso quanto segue. Il punto di ritrovo serale per un certo periodo è stato l’Antica Birreria alla Bornata di V.le Bornata, 46 Brescia (ex Wurer), ma per la presenza di soggetti che frequentavano la trattoria alla stessa ora (mai la stessa) avevamo deciso di individuare un altro punto di ritrovo. A questo posto si arriva attraverso una strada sterrata di qualche centinaio di metri all’interno del bosco della Maddalena (collina adiacente alla città di Brescia) e dopo aver lasciato l’autovettura in un parcheggio si percorrono a piedi 200-300 metri. A quel tempo l’Osteria era denominata Briscola (Via Costalunga 18/4) ed alla sera era aperta su prenotazione. Dopo circa 30 minuti sono arrivate due persone ben vestite e di età sui 35 anni. Naturalmente io e gli altri presenti siamo usciti dopo pochi minuti ed abbiamo così potuto prendere la targa della seconda autovettura parcheggiata. Per poter ricostruire l’episodio ho chiesto al Coordinamento del Corpo forestale dello Stato di Brescia di verificare se i fogli di viaggio di quel periodo erano ancora in loro possesso per determinare la data del fatto. Ho poi contattato il Dr. Nicola Pace, procuratore della procura di Brescia, che mi ha riferito che probabilmente non era presente in quel periodo quindi mi sono messo in contatto col Dr. Francesco Neri, consigliere della procura generale di Reggio Calabria. Il contatto è avvenuto il 1/03/2010 in tarda mattinata. II Dr. Neri invece ricorda perfettamente l’episodio e lui stesso all’epoca aveva chiesto ai suoi collaboratori, sottoufficiali dei Carabinieri di verificare l’appartenenza dell’autovettura. Dopo due giorni mi è stato riferito che l’autovettura era in carico ai Servizi Civili di Milano. Alla fine dell’anno 1995 tutta la documentazione riguardante l’indagine è stata trasferita alla procura della Repubblica di Reggio Calabria ed a Brescia presso il Nucleo sono rimaste le pure annotazioni senza allegati”.
2. IL CLIMA DI INTIMIDAZIONE NEL CORSO DELLE INDAGINI. Nel corso dell’inchiesta alla Commissione sono state rappresentate – sia dai magistrati che dagli ufficiali di polizia giudiziaria impegnati nell’indagine – talune difficoltà operative legate, in taluni casi, a problemi burocratici e organizzativi, in altri, all’esistenza di un clima di intimidazione percepito nitidamente dagli investigatori in più di un’occasione. Sotto il primo profilo, si segnala che il capitano De Grazia, dopo essere stato applicato presso la procura di Reggio Calabria per collaborare con il dottor Neri nelle indagini sulle navi a perdere, era andato incontro a difficoltà operative, non essendo stato dispensato dallo svolgimento delle ordinarie incombenze del suo ufficio e ciò nonostante l’impegno particolarmente intenso che l’indagine giudiziaria richiedeva. Risulta inoltre che, ad un certo momento, il capitano De Grazia fu richiamato dall’ufficio di appartenenza e che i magistrati dovettero reiterare per iscritto la richiesta di applicazione dell’ufficiale in procura, definendo non solo importante il suo apporto, ma indispensabile. Sul punto si è espresso il maresciallo Moschitta, audito dalla Commissione in data 11 marzo 2010: “(…) quando le indagini arrivavano a un picco, e quindi stavamo mettendo le mani su fatti veramente gravi, coinvolgenti anche il livello della sicurezza nazionale…(…) A un certo punto De Grazia non venne più a effettuare le indagini con noi, perché il suo comandante l’aveva bloccato.(…) Se non erro, era il colonnello Maio o De Maio, non ricordo bene. Era il comandante della Capitaneria di porto di Reggio Calabria. De Grazia mi chiamò e mi riferì che non poteva più venire, perché il suo comandante gli aveva mostrato un foglio matricolare… (…) Mi chiese se potevo parlare col giudice in modo che scrivesse un’altra lettera per poterlo reinserire nelle indagini. Accettai e promisi di parlarne col dottor Neri. Quest’ultimo scrisse un’altra lettera di incarico di indagini affermando che De Grazia non era solo necessario, ma indispensabile per la prosecuzione delle indagini. Solo così è ritornato con noi a lavorare. (…) Una volta morto lui, ci siamo un po’ fermati. Io sono stato male e anche il giudice Neri ha avuto problemi pressori”. A parte questo, devono essere richiamati altri episodi percepiti dagli inquirenti quali presunte forme di controllo e di intimidazione nel’ambito delle indagini.
2.1 – Le dichiarazioni rese dagli ufficiali di polizia giudiziaria del gruppo investigativo coordinato dal dottor Neri e dal dottor Pace. E’ stato riferito alla Commissione che nel corso delle indagini si sarebbero verificati diversi episodi (in particolare pedinamenti) che avevano destato preoccupazione e che erano stati interpretati dagli inquirenti come tentativi di intimidazione diretti sia nei confronti dei magistrati titolari delle indagini sia nei confronti della polizia giudiziaria delegata. In proposito, sono state raccolte le testimonianze dei diretti interessati nonché le annotazioni di servizio redatte dall’epoca dei fatti. Sia il maresciallo Moschitta che il Carabiniere Francaviglia, sentiti il 9 aprile 1997 dal pubblico ministero Russo (titolare dell’indagine avviata in riferimento al decesso del capitano De Grazia), hanno riferito in merito al clima che si respirava nel corso delle indagini ed al fatto che, nel corso di alcune missioni alle quali avevano partecipato, erano stati seguiti. Il maresciallo Moschitta, in particolare, ha dichiarato: “confermo le relazioni di servizio anche a mia firma in merito a pedinamenti effettuati da ignoti nei nostri confronti in particolare durante il viaggio a Savona, a Firenze e a Roma nel mese di febbraio 1995, all’inizio delle indagini. Oltre a questi episodi ci sono state anche altre circostanze che ci hanno fatto credere seriamente di essere sotto controllo da parte di qualcuno per le indagini che stavamo svolgendo. In particolare, ricordo che vi fu uno strano episodio relativo alla forzatura della porta dell’ufficio del dottor Neri e vi sono altresì state delle occasioni nelle quali il personale della scorta e della tutela ha avuto l’impressione che alcune persone ci seguissero”. Negli stessi termini si è espresso il carabiniere Francaviglia nel verbale di sommarie informazioni testimoniali effettuato il medesimo giorno. Il maresciallo Moschitta ha poi riferito a questa Commissione, nel corso delle audizioni dell’11 marzo e dell’11 maggio 2010, ulteriori episodi che avevano destato preoccupazione, verificatisi fin dall’inizio delle indagini. Si riportano alcuni passi delle dichiarazioni rese:
“il muro di gomma su cui inevitabilmente andava a cozzare l’attività degli inquirenti e della polizia giudiziaria ha rappresentato il principale ostacolo da abbattere per poter entrare nei meandri del fenomeno in esame. È sembrato che forze occulte di non facile identificazione controllassero passo passo gli investigatori nel corso delle diverse attività svolte. In effetti, sentivamo che c’era qualcosa. Qualcuno ci pedinava, però nessuno si manifestava. L’unico dato certo è emerso a Roma (…)”. “Dopo aver interrogato un funzionario dell’Enea, che in quel momento avevamo chiamato Billy per evitare la divulgazione del suo nome, siamo andati ad alloggiare presso l’albergo Ivanhoe di Roma. Ebbene, stranamente le nostre schede – la mia, quella del giudice Neri, dell’autista e di altri colleghi, eravamo in cinque – non erano ritornate, come accadeva di solito, dal visto del commissariato. Io stesso sono stato chiamato dall’allora addetto alla reception che mi chiese ragione di questa circostanza. Risposi che non ne sapevo nulla e chiesi se fosse normale. L’addetto disse che non era normale, ma che poteva esserlo data l’occasione. A quel punto, noi che avevamo svolto quell’attività ci siamo preoccupati, intanto di preservare il magistrato che era con noi (Francesco Neri) (…) ad un certo punto lo abbiamo accompagnato di peso, perché lui non voleva andarsene, presso l’aeroporto di Ciampino e lo abbiamo fatto imbarcare alla volta di Reggio Calabria. Il dottor Neri non ci voleva lasciare. Mi ha fatto promettere che nel viaggio di ritorno – avevamo altre attività da svolgere, ma considerata la situazione abbiamo interrotto le operazioni e ce ne siamo andati – avremmo seguito un itinerario diverso da quello di andata. (…). In quel momento eravamo molto preoccupati (…). In seguito, non abbiamo avuto più notizie di questa vicenda. A Savona o a Firenze abbiamo avuto la sensazione che delle persone con degli automezzi ci stessero sempre vicino. Una volta me ne accorgevo io, una volta se ne accorgeva la tutela del dottor Neri, una volta se ne accorgeva l’autista. In pratica, ci sembrava di essere all’attenzione di persone che non conoscevamo. In quei casi, cercavamo di sottrarci alla loro vista, al loro controllo e adottavamo le misure più elementari possibili per sfuggire. A parte l’episodio di Roma, le altre situazioni sono derivate da nostre impressioni. Tuttavia – attenzione – parlo di impressioni di investigatori, non di falegnami o baristi. Capivamo che qualcosa attorno a noi non quadrava. Infatti, appena arrivati a Savona, che è stata la nostra prima meta, il dottor Landolfi, sostituto procuratore della procura della Repubblica, ci disse che i telefoni già riferivano che il dottor Neri era in Liguria. In pratica, egli aveva dei telefoni di mafiosi calabresi sotto controllo, dunque sapeva che questi signori parlavano della presenza del dottor Neri a Savona. Nel corso del tempo, al dottor Neri è stato assegnato un ufficio alla procura circondariale, la cui porta venne forzata, anche se non fu sottratto nulla. Inoltre, sono successi tanti altri avvenimenti, di cui la sua tutela, l’agente Luigi Bellantone, può riferire. Vi riporto l’esempio più recente. Ad un certo punto, siamo stati convocati dal GIP di Roma per la querela sporta nei nostri confronti da parte di Ali Mahdi, il signore della guerra ed ex presidente della Somalia. Egli affermava che non era vero quanto da noi riferito alla I Commissione circa i rapporti tra Comerio ed Ali Mahdi. Invece, vi era una gran quantità di documentazioni ufficiali in merito che abbiamo sequestrato a Comerio e prodotto in tutte le sedi. In occasione di questo viaggio, all’aeroporto di Ciampino, all’uscita del volo per Reggio Calabria, abbiamo notato due persone. Io ero già in pensione, non avevo nulla in mano, solo un portavaligie e ho pensato che all’occorrenza sarei potuto intervenire servendomi di quello. Come ho detto, abbiamo notato la presenza di due persone che fissavano sia il dottore Neri che il suo legale di fiducia, l’avvocato Gatto Lorenzo. Abbiamo segnalato alla tutela data da Roma al dottor Neri la presenza di questi due soggetti che non ci piacevano in modo particolare e abbiamo fatto intervenire la polizia dell’aeroporto, che li ha identificati. Erano due marocchini che stranamente si trovavano all’uscita per Reggio Calabria, mentre avrebbero dovuto prendere l’aereo per Ancona che era nella parte di fronte, ma distante dalla nostra uscita. Peraltro, era quasi l’ora di partenza dell’aereo per Ancona, tant’è vero che i due soggetti sono partiti qualche minuto prima di noi. La situazione ci ha insospettito. Successivamente, sono venuto a sapere che le Marche sono un punto di concentramento di persone sospette provenienti dall’est europeo. Non voglio dire altro perché non ho elementi su cui basarmi. Mi sembra, tuttavia, che la questura abbia accertato che la zona di provenienza di questi due soggetti era molto frequentata da personaggi poco raccomandabili, provenienti dall’Europa dell’est”. Il maresciallo Moschitta, ha specificato che – in occasione dell’esame del dipendente Enea – erano in cinque ossia il magistrato Neri, due autisti, la tutela e lui stesso. Richiesto di far conoscere il nome del soggetto audito, ha così risposto: “Era l’ingegnere Carlo Giglio, il quale ha rilasciato delle dichiarazioni, con riferimento alla situazione delle centrali nucleari in Italia. A detta dell’ingegnere, si trattava di una circostanza molto delicata, critica, per non dire esplosiva. Queste sono state le sue parole. Basta leggere il suo verbale, per capire effettivamente quello che si nascondeva dietro l’affare nucleare. Avevamo un verbale molto importante e nel momento in cui non sono ritornate le schede ci siamo molto preoccupati”. Riguardo gli eventuali accertamenti sui motivi per i quali le schede non fossero rientrate, il maresciallo ha dichiarato: “Non ho saputo più nulla di questa storia. In tutto eravamo in cinque a svolgere le indagini e abbiamo scardinato tutta questa storia. Era stata segnalata alla questura di Roma. La sera stessa in cui siamo partiti è stato inviato un fax per la questura di Reggio. Quindi, la questura era interessata a questo tipo di discorso. Com’è andata a finire non lo so”.
2.2 – Le dichiarazioni rese dal dottor Neri e dal dottor Pace. Le circostanze rappresentate nel 1997 dai militari menzionati sono state confermate e specificate ulteriormente dal dottor Neri, sentito dal pubblico ministero Russo sempre in data 9 aprile 1997. Testualmente, lo stesso ha dichiarato: “sin dall’inizio delle indagini e in particolar modo allorché fui costretto col nucleo investigativo da me coordinato a recarmi fuori sede sono stato oggetto di intimidazioni di varia natura ed in particolare con autovetture e persone munite di radiotrasmittenti che, a mio giudizio, avevano l’evidente scopo di scoraggiare la mia attività di indagine (…)”. Nel corso della testimonianza il dottor Neri ha riferito di alcune preoccupazioni del capitano De Grazia in merito alla sua carriera, in quanto, successivamente all’esecuzione di un decreto di perquisizione a carico di un indagato, tale Gerardo Viccica, erano emersi elementi circa un presunto coinvolgimento dei vertici militari della Marina in fatti di corruzione legati alla realizzazione di Boe. Il Viccica avrebbe detto a De Grazia in modo minaccioso che conosceva molte persone nell’ambito della Marina, e che, quindi, in qualche modo, avrebbe potuto danneggiarlo. Il De Grazia, inoltre, in qualche occasione aveva espresso al dottor Neri le preoccupazioni che aveva per la sua incolumità e per l’incolumità del magistrato. Nel corso dell’audizione del dottor Nicola Maria Pace, tenutasi il 20 gennaio 2010 avanti a questa Commissione, lo stesso, richiesto di riferire in merito ad eventuali episodi di intimidazione subìti all’epoca in cui era titolare di indagini collegate con quelle condotte dal sostituto Neri, ha dichiarato: “ …vi espongo alcuni fatti oggettivi. Gli episodi più gravi si sono verificati nell’ambito di 15 giorni: nell’arco di due settimane muore De Grazia, si dimette il colonnello Martini, regista delle indagini e delle attività strettamente investigative. Per sviare gli antagonisti con Neri decidiamo di vederci non a Matera o a Reggio Calabria, ma a Catanzaro e durante la trasferta, mentre personalmente non mi accorsi di niente perché nella mia macchina non avevo scorta e durante il viaggio sonnecchiavo, Neri che aveva una scorta si accorse con i suoi e verificò con i computer di bordo di essere seguito da una macchina della ‘ndrangheta. Fece scattare l’allarme, mi telefonò, prendemmo direzioni diverse e riuscimmo a tornare. Riferisco il fatto nella sua oggettività, senza averlo mai interpretato in chiave di paura. Per quanto riguarda l’essere filmati, sono invece testimone diretto, perché fui proprio io a Brescia, mentre fervevano le attività, a scoprire che qualcuno ci stava filmando da un camper parcheggiato a poca distanza dalla sede del Corpo forestale dello Stato di Brescia. Proposi al team investigativo di perquisire il camper, ma si considerò più opportuno far finta di niente. Proprio il colonnello Martini, uomo di poche parole, al quale ho sempre riconosciuto una grande capacità di strategie, disse di non preoccuparsi. Lavoravamo giorno e notte nel periodo in cui effettuammo le 16 perquisizioni a Comerio e agli altri, fatto che poi ha portato alla definitiva scoperta del progetto O.D.M. e al suo collegamento con il progetto di partenza DODOS, che credo sia ancora negli scaffali della procura di Matera, perché ho disposto l’acquisizione di questi otto volumi del progetto DODOS, che, impressionante per lo spessore scientifico, aveva tutta la dignità per rappresentare una validissima alternativa al sistema dell’interramento dei rifiuti in cavità geologiche. Questi sono gli episodi che posso riportare”.
2.3 – Annotazioni di servizio della scorta del dottor Neri. Nelle relazioni di servizio redatte dall’agente scelto Giovanni Bellantone, addetto alla tutela del magistrato titolare delle indagini, dottor Neri, si fa riferimento, oltre che a pedinamenti subìti ad opera di ignoti in diverse città d’Italia ove gli inquirenti si erano recati per ragioni investigative, anche ad intercettazioni telefoniche tra ignoti interlocutori nelle quali si parlava della necessità di far “saltare” anche la scorta del magistrato. Si riporta un estratto della relazione di servizio del 20 marzo 1995: “durante il nostro soggiorno nella città di Savona, ci accorgevamo della presenza insistente di alcuni individui nei vari percorsi che facevamo nelle vie della città. Le persone di cui sopra si contattavano tra di loro tramite cellulare, e indicavano come “cellule” gli uomini che erano di “scorta”. Venivamo comunque notiziati che vi era stata un’intercettazione telefonica dove si parlava di far saltare pure la “scorta” e un’altra dove si parlava della presenza del giudice (dottor Neri) in città: inoltre la stampa locale pubblicava e veniva a conoscenza di cose che nessuno di noi aveva comunicato loro. Stesso controllo nei nostri confronti veniva notato nella città di Firenze, ed ancora più insistentemente nella città di Roma dove persone non identificate prendevano posto anche in ristoranti dove noi eravamo intenti a consumare i pasti”. Si riporta poi un estratto della relazione di servizio del 18 maggio 1995: “in data odierna unitamente al dottor Neri ci recavamo alla procura circondariale di Catanzaro, durante il tragitto sull’autostrada A3 SA-RC corsia nord ci accorgevamo della presenza insistente di una BMW 520 nei pressi dello svincolo di Vibo-Pizzo, rallentavamo la corsa e l’autovettura di cui sopra era costretta a superarci cosicchè per motivi di sicurezza decidevamo di uscire allo svincolo e di proseguire dalla statale per Catanzaro. Dopo qualche chilometro venivamo agganciati da un’altra autovettura: trattasi di una Fiat Croma che con fare sospetto ci ha dapprima superato e successivamente si è posizionata dietro la nostra autovettura. Anche in questo caso eravamo costretti a rallentare la corsa per cercare di farci superare, e facevamo una sosta di qualche minuto presso un’area di servizio. Arrivati sul posto cui eravamo diretti e preoccupati per queste vicende, decidevo di telefonare al mio ufficio di appartenenza per effettuare accertamenti, ed il collega Bosco, in maniera tempestiva, mi faceva pervenire i dati qui sotto riportati:
- Bmw 520 tg. RC 476645 intestata ad Alvaro Antonio, nato a Siderno il 15 dicembre 1947 ivi res. in via Palermo, pregiudicato per reati finanziari;
- Fiat Croma tg. SV 413337 risultata rubata il 26 marzo 1993. Faccio inoltre presente che la persona sul sedile posteriore della bmw era munita di una radio portatile e di queste situazioni ci siamo resi conto immediatamente tutti gli abitanti dell’autovettura blindata (dottor Neri, comandante De Grazia della Capitaneria di porto di Reggio Calabria, autista Barberi)”.
2.4 – Le dichiarazioni dell’ex colonnello Rino Martini. Il colonnello del Corpo forestale dello Stato Rino Martini, è stato audito dalla Commissione in data 17 febbraio 2010. In tale occasione ha reso dichiarazioni anche in merito agli episodi di intimidazione di cui sopra. Tali dichiarazioni sono state riportate già nel paragrafo relativo ai rapporti con i servizi (cfr. cap. 1, par. 1.12).
2.5 – Le dichiarazioni dell’Ispettore De Podestà. In data 17 febbraio 2010 è stato audito dalla Commissione l’ispettore De Podestà, appartenente al Corpo forestale dello Stato di Brescia. Alla domanda, posta dalla Commissione se lo “smantellamento” del gruppo investigativo fosse stato determinato anche dal fatto “che stavate pestando piedi importanti” , lo stesso ha risposto in questi termini: “Come sensazione sì, come riferimenti precisi no. I rapporti, finché c’è stato il colonnello Martini, li teneva lui con gli uffici superiori, sia con il comando regionale sia con il comando centrale di Roma. Quanto al fatto che, mentre si svolgeva attività investigativa, sorgevano incombenze ingiustificate a livello amministrativo, se n’é occupata anche la stampa e se ne occupò addirittura la magistratura, specificando che stavamo svolgendo delle indagini in campo nazionale e internazionale, quindi sembrava improprio che l’ufficio fosse smembrato per occuparsi anche dei compiti di carattere amministrativo”.
2.6 – Accertamenti svolti in conseguenza degli episodi denunciati. A fronte degli episodi sopra descritti non pare che siano state avviate specifiche indagini finalizzate ad accertare se gli episodi medesimi fossero effettivamente intimidatori nei confronti degli inquirenti né risultano svolti accertamenti finalizzati ad individuarne gli autori. Peraltro deve evidenziarsi che gli inquirenti hanno più volte dichiarato di sentirsi controllati e seguiti nel corso delle attività investigative fuori sede. Ebbene, data l’importanza delle indagini e la gravità dei fatti esposti, sfugge la ragione per la quale non siano state avviate immediatamente indagini mirate. Quando è stato chiesto al dottor Pace (nel corso dell’audizione avanti alla Commissione) per quale motivo non furono immediatamente effettuate verifiche sul camioncino che ritenevano li seguisse e costituisse una sorta di postazione di controllo della loro attività, lo stesso ha risposto che non si intervenne immediatamente onde evitare che ciò potesse pregiudicare l’esito di ulteriori successivi accertamenti. Tuttavia, deve osservarsi come, per quanto risulta alla Commissione, neanche in seguito sia stata avviata alcuna indagine sul punto. Ad oggi, in mancanza di elementi di supporto, non è possibile sostenere nulla di più di quanto già all’epoca affermato dai magistrati e dai soggetti coinvolti nella vicenda in esame.
3. LO SFALDAMENTO DEL GRUPPO INVESTIGATIVO E L’ESITO DELLE INDAGINI. Come evidenziato, la morte del capitano De Grazia segnò, obiettivamente, un forte rallentamento nelle indagini. Nello stesso periodo di tempo, il colonnello Rino Martini assunse altro incarico presso un’azienda municipalizzata, il maresciallo Moschitta andò in pensione, il carabiniere Francaviglia fu trasferito, l’ispettore Tassi cessò di prestare la sua collaborazione.
Lo stesso magistrato che aveva fin dall’inizio assunto la direzione delle indagini, il dottor Neri, appena sei mesi dopo la morte di De Grazia si spogliò del procedimento, trasmettendolo per competenza alla procura presso il tribunale di Reggio Calabria, avvendo ipotizzato reati di competenza del tribunale. In merito agli avvenimenti successivi alla morte del capitano De Grazia, il maresciallo Scimone, nel corso dell’audizione del18 gennaio 2011 avanti alla Commissione, ha dichiarato: “In seguito alla morte di De Grazia c’è stato praticamente un terremoto (…) C’è stato un momento di sbandamento e sei o sette mesi dopo la morte di De Grazia fu diffusa questa notizia dei Morabito e a quel punto abbiamo dovuto alzare le mani. Io mi sono offerto anche di collaborare con la DDA in qualità di polizia giudiziaria per conoscere il fascicolo, che ho catalogato e consegnato personalmente”.
3.1 – L’incarico assunto dal colonnello Rino Martini presso la società municipalizzata di Milano per lo smaltimento rifiuti. Il 1° dicembre 1995, pochi giorni prima della morte del capitano De Grazia, il colonnello Martini lasciò l’incarico di colonnello del Corpo forestale dello Stato per assumere il ruolo di direttore operativo della società municipalizzata di Milano impegnata a fronteggiare l’emergenza rifiuti. In merito alle ragioni che determinarono tale scelta, l’ex colonnello ha dichiarato alla Commissione in data 17 febbraio 2010: “Era un salto di qualità dal punto di vista professionale e anche uno stimolo, quindi ho deciso di accettare (…) Mi sono dimesso il 16 ottobre 1995, e il 17 ottobre avevo già il decreto del Ministero dell’agricoltura firmato che accettava le mie dimissioni, quindi era già passato all’Ufficio regionale, era già andato al Ministero dell’agricoltura, ove era già stato accettato (…) È stata una scelta consapevole. Se avessi ricevuto pressioni esterne tali da portarmi ad accettare un posto migliore, non avrei mai dato le dimissioni. Alcune componenti ambientali quell’anno mi hanno un fatto capire che stavamo toccando interessi che andavano ben oltre le nostre possibilità, in particolare quelle di un Corpo forestale che non gode di protezioni di servizi o di altri apparati dello Stato, perché fra le cinque Forze di polizia è la struttura più debole da questo punto di vista.
Si sono verificate situazioni delicate come i controlli cui siamo stati oggetto durante l’attività investigativa, ma si percepiva tutti i giorni un’atmosfera molto difficile e delicata.” Deve, peraltro, essere sottolineata una circostanza che suscita qualche perplessità in ordine alle risposte fornite dal colonnello Martini. Lo stesso, invero, venne sentito a sommarie informazioni dal magistrato dottor Neri in data 7 marzo 1996, sempre nell’ambito del procedimento 2114/94 RGNR. Alla domanda – subito posta dal magistrato – circa le ragioni che lo avevano indotto a lasciare l’incarico all’interno del Corpo forestale dello Stato, il colonnello Martini rispose di averlo fatto per motivi personali e “per altri motivi che al momento mi riservo di comunicare in seguito (…) Non appena mi sarà possibile chiarirò eventualmente ed in dettaglio i motivi che mi hanno indotto a lasciare il mio Corpo. Non escludo di poter rientrare nuovamente in servizio” (doc. 681/33). E’ evidente, allora, che vi fossero motivazioni di ordine non personale che – né all’epoca né successivamente – il colonnello Martini ha voluto riferire.
3.2 – Il decesso del capitano De Grazia. Nel tardo pomeriggio del 12 dicembre 1995 il capitano De Grazia partì, unitamente al maresciallo Moschitta e al Carabiniere Francaviglia, con autovettura di servizio, alla volta di La Spezia per dare esecuzione alle deleghe di indagine, firmate dal procuratore Scuderi e dal sostituto Neri, finalizzate ad acquisire maggiori elementi di conoscenza in merito all’affondamento di alcune navi. Durante il viaggio, sul tratto autostradale di Salerno, alle prime ore del 13 dicembre 1995, il capitano De Grazia venne colto da malore e, quindi, trasportato, dall’ambulanza nel frattempo intervenuta, presso il pronto soccorso dell’ospedale di Nocera Inferiore, ove giungeva cadavere. In data 22 dicembre 1995 il capitano Antonino Greco, comandante del nucleo operativo del reparto operativo CC di Reggio Calabria, rimise al procuratore della Repubblica presso la pretura di Reggio Calabria, dott. Scuderi, le sei deleghe di indagine datate 11 dicembre 1995 “non potute evadere a causa del decesso del capitano di corvetta Natale De Grazia”.
3.3 – Il pensionamento del maresciallo Moschitta e il trasferimento del carabiniere Francaviglia. Il 14 ottobre 1996 (all’età di 44 anni), il maresciallo Moschitta andò in pensione, su sua domanda avanzata nel giugno 1996, come dallo stesso dichiarato al pubblico ministero Russo, in data 9.4.97. Nel corso dell’audizione dell’11 marzo 2010 avanti alla Commissione, il maresciallo ha spiegato le ragioni della sua scelta: “Dopo aver depositato l’ultimo atto in merito alle indagini sui radioattivi, sono andato in pensione. Era il 14 ottobre 1996, due giorni dopo aver depositato l’informativa che avevo promesso alla buonanima di Natale De Grazia. Anche se lui in quel momento non c’era più, gli avevo promesso che, anche se fosse stato l’ultimo atto della mia carriera, avrei portato avanti le sue indagini fino a quando avessi potuto. Dopo la sua morte mi sono sentito male, i miei valori si sono sballati, tanto che successivamente ho avuto un infarto e mi sono stati applicati due by-pass” . Nella successiva audizione del 10 maggio 2010 il maresciallo Moschitta ha precisato di essere stato collocato in pensione con la dicitura «per massimo periodo previsto» in quanto all’epoca, la normativa prevedeva, quale periodo massimo per il pensionamento, venticinque anni di servizio effettivi, più cinque di abbuono. Il maresciallo si è così espresso: “Sarei potuto rimanere, ma mi sentivo stanco. Dopo la morte di De Grazia, i miei valori sono sballati. Non mi sentivo bene, tanto che, a distanza di un anno, ho avuto un infarto e, a distanza di un altro anno, ho dovuto fare un’operazione per impiantare due bypass al cuore. Questa indagine mi ha effettivamente stressato oltre il consentito”. L’altro compagno di viaggio del capitano De Grazia, il carabiniere Rosario Francaviglia, ha dichiarato, in sede di audizione avanti alla Commissione, di aver chiesto il trasferimento a Catania, vicino casa, subito dopo la morte del capitano. Ha specificato che già in precedenza aveva avanzato diverse richieste di trasferimento, ma tutte avevano avuto esito negativo. Secondo quanto riferito, per l’ultima domanda “stavano ritardando il trasferimento proprio perché avevamo l’indagine in corso. Mi era già arrivato esito negativo, dopodiché ho ripresentato domanda e il trasferimento è avvenuto nel 1996”. La Commissione ha domandato al carabiniere Francaviglia cosa avesse fatto successivamente e lui ha risposto: “ Ho smesso, anzitutto perché l’indagine era passata al dottor Cisterna, se non erro, in procura. Ero stato interpellato per continuare a partecipare all’indagine e ho rifiutato, perché non ne avevo più intenzione, non ero più interessato. Avevo perso interesse per quell’indagine, non so se a causa di quell’episodio ”.
3.4 – La cessata collaborazione da parte dell’ispettore superiore del Corpo forestale dello Stato Claudio Tassi. Nel corso dell’audizione avanti alla Commissione avvenuta in data 24 febbraio 2010, l’isp. Tassi (il quale aveva avuto un ruolo importante nelle indagini, soprattutto per i suoi contatti con la fonte confidenziale “Pinocchio”) ha confermato la circostanza di non essersi più occupato delle indagini dopo qualche mese dal decesso del capitano De Grazia. Alla domanda se si fosse trattato di una sua iniziativa, l’ispettore ha risposto negativamente. Testualmente, ha dichiarato (pag. 6): “non posso dire di essere stato escluso dall’attività investigativa, ma era un filone di Brescia, quindi può anche darsi che chi seguiva quel filone abbia deciso di proseguire da solo”.
3.5 – La trasmissione del procedimento n. 2114/94 per competenza alla procura della Repubblica presso il tribunale di Reggio Calabria. In data 27 giugno 1996 il dott. Francesco Neri trasmise alla procura della Repubblica presso il tribunale di Reggio Calabria il procedimento penale n. 2114/94 iscritto a carico di Giorgio Comerio + altri, ipotizzando la sussistenza dei reati di competenza del tribunale di cui agli articoli 110, 428 e 110, 434 del codice penale. Dal procedimento trasmesso nacquero, presso la procura presso il tribunale di Reggio Calabria, i seguenti procedimenti, affidati entrambi al dottor Alberto Cisterna:
- il primo, recante il n. 100/1995 R.G.N.R., volto a verificare l’ipotesi di traffico di armi;
- il secondo, recante il n. 1680/96 R.G.N.R., volto a verificare l’ipotesi del traffico di rifiuti radioattivi tramite affondamenti di navi (in particolare la Rigel e la Rosso) nonché la riconducibilità di tali azioni a Giorgio Comerio ed altri indagati. In data 9 ottobre 1996 venne depositata l’informativa riassuntiva delle indagini sino a quel momento svolte dalla procura circondariale di Reggio Calabria, informativa firmata dal comandante Greco, ma redatta dal maresciallo Nicolò Moschitta pochi giorni prima del suo pensionamento (doc. 319/1). Entrambi i procedimenti menzionati furono definiti con decreto di archiviazione. Nel procedimento n. 1680/96, peraltro, alcune ipotesi di reato non furono archiviate ed i relativi atti vennero trasmessi alle procure di La Spezia e di Lamezia Terme, ritenute competenti territorialmente.
PARTE SECONDA – LE CAUSE DELLA MORTE DEL CAPITANO DE GRAZIA E L’INCHIESTA DELLA MAGISTRATURA
1.
1.1 – Il decesso del capitano De Grazia. Il 13 dicembre 1995, a soli 39 anni, il capitano De Grazia è deceduto per cause che a molti, compresi i pubblici ministeri titolari dell’indagine allora in corso, apparvero quanto meno sospette e che ancora oggi, a distanza di anni, continuano ad essere considerate tali (in questi termini si sono espressi sia il dottor Neri che il dottor Pace nel corso dell’audizione innanzi a questa Commissione parlamentare). Il dottor Pace, in particolare, nell’audizione del giorno 20.1.10, ha dichiarato: “Quando è giunta la notizia della morte di De Grazia io, Neri ed altri non abbiamo avuto dubbi sul fatto che quella morte non fosse dovuta a un evento naturale. Avevo sentito De Grazia alle 10,30 di quella mattina, mi aveva detto che con una delega di Neri si sarebbe recato prima a Massa Marittima e poi a la Spezia, mi avrebbe aspettato a Reggio Calabria per portarmi con una nave sul punto esatto in cui è affondata la Rigel. Alle 10,30 del 13 dicembre, giorno in cui è morto, ricevetti questa sua telefonata in ufficio, ma non sono in grado di fornire elementi obiettivi”. Cosa accadde quel giorno? Ciò che accadde è stato ricostruito dagli inquirenti esclusivamente sulla base della relazione di servizio e delle testimonianze rese dal maresciallo Nicolò Moschitta e dal carabiniere Rosario Francaviglia, i quali il 12 dicembre 1995 si trovavano con il capitano De Grazia, diretti al porto di La Spezia, ove avrebbero dovuto dare esecuzione ad alcune deleghe dell’autorità giudiziaria cui si è fatto riferimento nei paragrafi precedenti. Si trattava di un’attività alla quale avrebbe dovuto necessariamente partecipare il capitano De Grazia, in ragione di una competenza specifica nella materia marittima, tale da renderlo elemento insostituibile nello svolgimento delle indagini. Sono state acquisite dalla Commissione le copie delle deleghe di indagini emesse dal magistrati di Reggio Calabria in data 11 dicembre 1995 (di cui si è trattato nella parte prima, capitolo 1, paragrafo 1.10).
Dunque, il capitano De Grazia partì, unitamente al maresciallo Moschitta e al carabiniere Francaviglia, alla volta di La Spezia, in data 12 dicembre 1995, nel tardo pomeriggio. Secondo quanto emerso dalle indagini, durante il viaggio, sul tratto autostradale di Salerno, alle prime ore del 13 dicembre 1995 il capitano venne colto da malore e, quindi, trasportato in ambulanza presso l’ospedale civile di Nocera Inferiore, ove giunse cadavere. Come già evidenziato, il decesso del capitano De Grazia ha coinciso con una fase di rallentamento (e successivamente) di vero e proprio arresto delle indagini che lo stesso stava portando avanti. Dal momento della sua morte in poi vi è stato un progressivo sfaldamento dell’attività investigativa concomitante a quello del pool che fino ad allora aveva profuso impegno ed energie negli accertamenti connessi al traffico di rifiuti radioattivi.
1.2 – Il procedimento aperto presso la procura della Repubblica di Nocera Inferiore. A seguito del decesso del capitano De Grazia venne aperto un procedimento dalla procura della Repubblica di Nocera Inferiore, territorialmente competente in relazione al luogo del decesso. Gli atti del procedimento sono stati acquisiti in copia dalla Commissione (doc. 321/1 e 321/2). E’ importante seguire la scansione temporale degli atti procedimentali compiuti nell’ambito della suddetta indagine, per poi entrare nel merito delle risultanze processuali. In sostanza, le indagini si sono articolate in due fasi: 1) la prima fase è consistita essenzialmente nell’espletamento dell’autopsia sul corpo del capitano De Grazia (effettuata per rogatoria dalla procura di Reggio Calabria) nonché nell’acquisizione dell’annotazione redatta dai carabinieri di Nocera Inferiore intervenuti sul posto e della relazione di servizio redatta dal maresciallo Moschitta e dal carabiniere Francavilla nei giorni successivi al decesso. In questa fase non sono stati svolti ulteriori accertamenti né presso il ristorante “Da Mario”, ove il capitano De Grazia cenò per l’ultima volta unitamente ai suoi compagni di viaggio, né presso altri luoghi. E neppure sono state sentite a sommarie informazioni le persone che avevano assistito ai fatti, come il maresciallo Moschitta, il carabiniere Francaviglia, i medici del pronto soccorso, il personale dell’ambulanza e gli appartenenti al nucleo mobile della stazione Carabinieri intervenuti sul posto. Nessuna informazione dettagliata è stata, poi, acquisita formalmente in merito alle indagini che il capitano De Grazia si accingeva a svolgere a La Spezia. Sulla base, dunque, dei risultati dell’autopsia contenuti nella relazione depositata nel marzo 1996 dal medico legale nominato dal pubblico ministero è stata richiesta ed ottenuta l’archiviazione del procedimento. La seconda fase del procedimento è stata avviata un anno dopo, a seguito della istanza di riapertura delle indagini presentata dai congiunti del capitano De Grazia. Seguendo in parte le indicazioni contenute in detta istanza, il pubblico ministero titolare del procedimento (sostituto procuratore Giancarlo Russo) si recò a Reggio Calabria per sentire personalmente a sommarie informazioni il sostituto Francesco Neri, i carabinieri Moschitta e Francaviglia, la signora Vespia e il signor Pontorino (rispettivamente moglie e cognato del capitano De Grazia) ed, infine, il dottor Asmundo (consulente medico legale di parte) e la dottoressa Del Vecchio. Dispose, quindi, una nuova consulenza medico legale, affidandosi allo stesso consulente che aveva espletato la prima, ossia alla dottoressa Simona Del Vecchio, successivamente risentita a sommarie informazioni dal magistrato. Delegò, infine, i Carabinieri per effettuare accertamenti presso il ristorante “Da Mario”. Anche in questa seconda fase delle indagini si è rivelata dirimente, ai fini della successiva archiviazione, la relazione di consulenza tecnica medico legale con la quale si è ribadito che il decesso era riconducibile a cause naturali, non essendo state riscontrate anomalie neanche a seguito degli ulteriori esami tossicologici e istologici effettuati sui tessuti prelevati.
1.3 – Gli atti del procedimento. Si riporta, di seguito, la cronologia degli atti contenuti nel fascicolo aperto dalla procura di Nocera inferiore, utili alla ricostruzione degli eventi e delle indagini che furono compiute:
- alle ore 00:15 del 13 dicembre 1995 la centrale operativa dei Carabinieri ordinò all’aliquota radiomobile della Compagnia di Nocera Inferiore di recarsi presso l’autostrada A/30, un chilometro prima della barriera autostradale di Mercato San Severino (SA), in quanto all’uscita di una galleria vi era un’autovettura con a bordo persona colta da malore. Contestualmente venne allertata l’autoambulanza;
- dall’annotazione di servizio redatta in data 13 dicembre 1995 alle ore 6:30 dai Carabinieri dell’aliquota radiomobile risulta che i Carabinieri e l’autoambulanza arrivarono contemporaneamente sul posto ove trovarono sulla corsia di emergenza, di fianco allo sportello posteriore destro di una Fiat Tipo, un uomo (poi identificato con il capitano De Grazia) posto sul manto stradale, in posizione supina, subito soccorso e trasportato presso l’ospedale di Nocera Inferiore. Giunti presso il nosocomio, i militari appurarono, tramite il sanitario di guardia, dottor Amodio, che il capitano era deceduto durante il tragitto verso l’ospedale (come da referto 2618 del 13 dicembre 1995). Vennero avvisati i familiari. La borsa e gli effetti personali del capitano De Grazia vennero consegnati ad un militare in caserma, mentre la valigetta 24 ore contenente gli atti di cui al procedimento n. 2114/94 R.G.N.R. venne consegnata al maresciallo Moschitta;
- alle ore 11.40 del 13 dicembre 1995, i carabinieri della stazione CC Nocera Inferiore trasmisero un fax alla locale procura della Repubblica, comunicando che alle ore 0.50 era giunto, presso il Pronto soccorso dell’ospedale civile di Nocera Inferiore, il corpo del cap. De Grazia e che il medico di guardia aveva accertato come causa della morte “infarto del miocardio” con conseguente arresto cardio-circolatorio;
- il referto 2618 del 13 dicembre 1995, sottoscritto dal medico di guardia dottor Amodio, risulta acquisito dai CC di Nocera Inferiore: in esso si attesta che il Capitanto giunse cadavere al pronto soccorso (doc. 1245/3);
- venne iscritto, presso la procura circondariale di Reggio Calabria, il procedimento modello 45 (da riferire ad atti non costituenti notizia di reato) avente n. 1611/95;
- sempre in data 13 dicembre 1995 venne rilasciato dal pubblico ministero titolare del procedimento, dottor Giancarlo Russo, il nulla osta al seppellimento, ove venne indicata, quale causa della morte, “infarto miocardico – arresto cardiocircolatorio” e, quale medico legale intervenuto, il dottor Contaldo;
- il giorno seguente, il procuratore capo della procura circondariale di Reggio Calabria, dottor Scuderi, segnalò, con una nota scritta alla procura di Nocera Inferiore, l’opportunità di disporre l’esame autoptico sulla salma del capitano De Grazia;
- a seguito di tale nota, il 15 dicembre 1995 il pubblico ministero di Nocera Inferiore delegò la procura della Repubblica di Reggio Calabria ad effettuare per rogatoria il disseppellimento del cadavere, nel frattempo trasportato a Reggio Calabria, e l’esame autoptico; nella medesima delega, il pubblico ministero Russo segnalò, inoltre, l’opportunità di escutere a sommarie informazioni testimoniali i carabinieri che avevano viaggiato con il capitano e ogni altra persona (familiari, investigatori) in grado di riferire circostanze utili alle indagini “volte a chiarire con certezza la causalità del decesso”;
- nella stessa data il pubblico ministero della procura di Reggio Calabria (dottoressa Apicella) dispose il disseppellimento del cadavere del Cap. De Grazia;
- il 18 dicembre 1995 Anna Maria Vespia (moglie del capitano De Grazia) nominò consulente tecnico di parte il dottor Asmundo, primario presso l’Istituto di medicina legale dell’Università di Messina.
- il 19 dicembre 1995 venne conferito l’incarico alla dottoressa Del Vecchio per effettuare l’autopsia nonché l’esame istologico e chimico tossicologico dei tessuti;
- il 22 dicembre 1995 il comandante del reparto operativo – nucleo oeprativo dei Carabinieri di Reggio Calabria, Antonino Greco, trasmise al procuratore capo della procura circondariale di Reggio Calabria, dottor Scuderi, una nota con la quale restituiva le sei deleghe ricevute e non potute evadere in ragione del decesso del capitano De Grazia, allegando la relazione redatta dal maresciallo Moschitta e dal carabiniere Francaviglia in merito ai fatti occorsi in data 12 e 13 dicembre 1995, nonché la relazione di servizio redatta dal nucleo radiomobile dei carabinieri di Nocera Inferiore intervenuti sull’autostrada su richiesta del maresciallo Moschitta. Nella nota di trasmissione il comandante Greco specificò che la valigetta che De Grazia aveva a con sé il giorno del decesso, consegnata al maresciallo Moschitta dai carabinieri di Nocera Inferiore intervenuti, era stata riconsegnata al dottor Neri il giorno 21 dicembre 1995;
- in data 8 gennaio 1996 la nota e le relazioni allegate furono trasmesse via fax dal procuratore Scuderi al sostituto procuratore Giancarlo Russo;
- il 12 marzo 1996 il medico legale, dottoressa Del Vecchio, depositò la relazione di consulenza tecnica: il decesso del capitano venne ricondotto “ad una morte di tipo naturale, conseguente ad una insufficienza cardiaca acuta, inquadrabile più specificatamente nella fattispecie della morte improvvisa”;
- vennero, quindi, trasmessi gli atti alla procura della Repubblica di Nocera Inferiore;
- il 9 luglio 1996 il sostituto procuratore dottor Russo richiese l’archiviazione, accolta dal Gip il successivo 28 settembre 1996;
- nessuna altra indagine venne svolta in questa fase: in sostanza, l’archiviazione venne chiesta e disposta sulla base della relazione redatta dai carabinieri Moschitta e Francaviglia e dei risultati dell’autopsia, mentre non ebbero seguito le ulteriori (e pur generiche) attività investigative di cui alla delega del pubblico ministero Russo del 15 dicembre 1995;
- In data 8 marzo 1997 i prossimi congiunti del capitano De Grazia chiesero la riapertura delle indagini (allegando la consulenza tecnica di parte, redatta dal dottor Asmundo, che fino a quel momento non risultava essere stata depositata) sulla base di una serie di considerazioni: la necessità di chiarire per quale motivo i due consulenti (quello d’ufficio e quello di parte) fossero giunti a conclusioni diverse; la necessità di sentire altre persone informate sui fatti (parenti, ufficiali di polizia giudiziaria, magistrati) nonché di identificare gli ufficiali del S.I.O.S. della Marina militare con cui De Grazia avrebbe avuto contatti prima a Messina e poi a Roma;
- negli atti trasmessi alla Commissione non vi è traccia del provvedimento di riapertura delle indagini; in ogni caso, dagli stessi si ricava che venne iscritto un procedimento a carico di ignoti (procedimento penale n. 251/97, mod. 44) per il reato di cui all’articolo 575 del codice penale (omicidio);
- in data 1° aprile 1997 il pubblico ministero conferì una delega ai CC per accertamenti in merito al ristorante “da Mario”, ove si fermarono a cenare De Grazia, Moschitta e Francaviglia;
- l’esito delle indagini, per la verità poco produttive perchè disposte a distanza di tempo dai fatti, venne trasmesso in data 8 aprile 1997;
- in data 8 e 9 aprile 1997 vennero sentiti personalmente dal pubblico ministero di Nocera Inferiore le seguenti persone: il maresciallo Moschitta e il maresciallo Rosario Francaviglia, il dottor Neri, Francesco Postorino (cognato di De Grazia), il dottor Asmundo, Anna Maria Vespia (moglie del capitano De Grazia);
- il 23 aprile 1997 il pubblico ministero dottor Russo sentì a chiarimenti la dottoressa Del Vecchio in merito alle osservazioni formulate dal consulente tecnico di parte dottor Asmundo nonché in merito agli ulteriori possibili accertamenti tossicologici;
- in data 12 giugno 1997 il pubblico ministero dispose il disseppellimento del cadavere del capitano De Grazia;
- il 18 giugno 1997 venne conferito nuovo incarico alla dottoressa Del Vecchio al fine di effettuare ulteriori accertamenti chimico-tossicologici;
- in data 11 dicembre 1997 venne depositata la consulenza medico legale e, nello stesso giorno, fu sentita a chiarimenti la dottoressa Del Vecchio;
- in data 28 luglio 1998 venne nuovamente formulata richiesta di archiviazione, accolta dal Gip a quattro anni di distanza con provvedimento consistente nell’apposizione, in calce alla richiesta di archiviazione, di un timbro recante, in luogo della parte motiva del provvedimento, la dicitura prestampata “letti gli atti, condivisa la richiesta del pubblico ministero”. Il timbro reca la sottoscrizione del Gip, dottoressa Raffaella Caccavela e la data di deposito 26 novembre 2002 (doc. 1276/3).
1.4 – Gli elementi emersi nel corso delle indagini. 1.4.1 – La relazione di servizio e le dichiarazioni del maresciallo Moschitta e del carabiniere Francaviglia. I militari che si trovavano con il capitano De Grazia al momento dell’evento redassero una relazione di servizio il 22 dicembre successivo, descrivendo analiticamente il viaggio, le tappe effettuate e le circostanze che accompagnarono il decesso del loro collega. Nell’aprile 1997 gli stessi vennero sentiti a sommarie informazioni dal pubblico ministero Russo. Dalla relazione e dalle loro dichiarazioni risulta quanto segue: i militari partirono da Reggio Calabria alle ore 18.50 del 12 dicembre 1995 a bordo di autovettura di servizio, una Fiat Tipo con targa di copertura, appartenente al reparto operativo del Comando provinciale dei Carabinieri di Reggio Calabria e nel corso del viaggio vennero effettuate quattro soste:
- la prima, presso l’autogrill di Villa San Giovanni, ove scese dal mezzo solo il capitano De Grazia per acquistare delle sigarette;
- la seconda, presso l’autogrill di Cosenza, ove scesero il maresciallo Moschitta e il carabiniere Francaviglia;
- la terza, presso l’autogrill di Lauria, ove venne effettuato rifornimento di carburante (nessuno scese dall’auto);
- la quarta, in località Campagna, dove i militari decisero di fermarsi intorno alle ore 22.30 per recarsi presso il ristorante “Da Mario”. A detta dei militari, quest’ultima tappa non era stata programmata. Dalla relazione di servizio risulta che i tre militari non furono avvicinati da alcuno durante le soste. Nel ristorante, a parte il cameriere e il titolare, c’erano solo altre due persone che stavano per ultimare la loro cena e che, dopo poco, andarono via salutando il titolare del ristorante amichevolmente (in modo tale da potersi dedurre che ci fosse tra loro un rapporto di pregressa conoscenza o familiarità). Secondo il racconto conforme dei due Carabinieri, presso il ristorante mangiarono tutti le stesse cose, a parte una fetta di torta che fu ordinata solo dal capitano De Grazia, bevvero tutti un po’ di vino e del limoncello e intorno alle 23.30 ripresero il viaggio. Alla guida dell’autovettura si pose il Carabiniere Francaviglia, sul sedile lato passeggero si sedette il capitano De Grazia e sui sedili posteriori il maresciallo Moschitta. Il capitano si addormentò e iniziò a russare rumorosamente. Quando giunsero nei pressi del casello autostradale Caserta-Roma, il capitano chinò la testa in modo anomalo (erano le ore 24:00 circa), tanto che gli altri occupanti dell’autovettura cercarono di svegliarlo; quando gli toccarono il volto si resero conto che era freddo e sudato; quindi, superata la galleria in cui si trovavano, si fermarono nella corsia di emergenza. Il maresciallo Moschitta, resosi conto della gravità della situazione, chiamò il 112 affinché venisse inviata un’ambulanza. Rispose un operatore del 112 di Napoli che allertò – alle 00:15- i Carabinieri di Nocera Inferiore (come risulta dall’annotazione di servizio da questi ultimi redatta). Nel frattempo il Carabiniere Francaviglia provò ad effettuare una serie di massaggi cardiaci e la respirazione bocca a bocca, ciò che determinò una parziale fuoriuscita di cibo dallo stomaco del capitano De Grazia. Dopo circa venti minuti dalla chiamata giunse un’autoradio dei carabinieri del nucleo radiomobile di Nocera Inferiore unitamente ad un’ambulanza che trasportò il capitano presso il pronto soccorso dell’ospedale civile di Nocera Inferiore. Dall’annotazione di servizio redatta dai CC di Nocera Inferiore intervenuti sul posto risulta che, non appena giunsero presso il pronto soccorso (circa alle 00:50), vennero informati dal sanitario di guardia, dottor Amodio, che il capitano era deceduto durante il trasporto verso l’ospedale. I militari riferirono tale notizia ai loro superiori. Nell’annotazione si dà atto che vennero informati i familiari del capitano e che la valigetta “24 ore” appartenente al capitano De Grazia fu consegnata al maresciallo Moschitta.
Solo il mattino seguente il corpo venne esaminato tramite visita esterna dal medico legale dell’ospedale, dottor Contaldo, il quale diagnosticò la morte del capitano De Grazia per “infarto miocardico”. Il maresciallo Moschitta ha riferito di aver sottolineato subito l’opportunità di sottoporre il cadavere ad esame autoptico, circostanza che indusse il medico legale ad interpellare il magistrato di turno, dottor Russo. Questi, peraltro, sentito il parere del medico circa la causa naturale della morte, decise di non disporre l’autopsia, concedendo, poche ore più tardi, il nulla osta al seppellimento. In proposito va evidenziato che – secondo quanto invece riferito al pubblico ministero Russo da Francesco Postorino (cognato del capitano De Grazia, intervenuto presso l’ospedale) – né il maresciallo Moschitta né i congiunti stessi del capitano avanzarono richieste affinché fosse disposto l’esame autoptico. Va rilevato che non c’è nessuna testimonianza in ordine a ciò che accadde dal momento dell’arrivo al pronto soccorso fino al mattino successivo, allorquando giunse il medico legale. Si riporta, di seguito, la relazione di servizio citata, redatta il 22 dicembre 1995, firmata dal maresciallo Moschitta e dal carabiniere Francaviglia e vistata dal comandante del Nucleo operativo A. Greco (doc. 319/1).
1.4.2 – La decisione di procedere all’accertamento autoptico. L’incarico al medico legale dottoressa Del Vecchio
Come detto, della morte del capitano fu informato anche il procuratore capo della procura circondariale di Reggio Calabria, dottor Scuderi, il quale, venuto a conoscenza del fatto che il pubblico ministero di Nocera Inferiore aveva dato il nulla osta al seppellimento, inviò, in data 14 dicembre 1995, una nota alla procura della Repubblica di Nocera Inferiore sottolineando l’opportunità di far eseguire l’esame autoptico sulla salma, al fine di sgomberare il campo da ogni sospetto circa le cause della morte. Il procuratore Scuderi motivava la richiesta in ragione delle delicate e complesse indagini che stava seguendo il capitano De Grazia tendenti ad accertare se dietro il naufragio di vecchie navi si celassero episodi di illecito smaltimento di rifiuti radioattivi. Sottolineava, in particolare, “l’enorme rilevanza degli interessi in gioco, l’accertato coinvolgimento di governi, istituzioni, personalità influenti nel campo politico ed economico, il fatto che in passato le attività degli inquirenti hanno registrato inquietanti presenze (pedinamenti) sulle quali ai distanza di mesi, per quanto a conoscenza di questo ufficio, non si è fatta luce, la circostanza che l’attività di indagine che il cap. De Grazia si accingeva a svolgere poteva essere decisiva per l’individuazione di fatti–reato e responsabilità, le gravi conseguenze che sul piano investigativo provocherà il venir meno del contributo della elevatissima professionalità del succitato ufficiale” (doc. 681/87). Dunque, i primi sospetti circa un eventuale collegamento tra la morte del capitano e le indagini che lo stesso stava portando avanti furono sollevati proprio dai titolari dell’indagine sulle “navi a perdere”. La richiesta del procuratore Scuderi venne recepita dal pubblico ministero Russo il quale, il giorno successivo, delegò la procura della Repubblica di Reggio Calabria affinché venisse disposto il disseppellimento del cadavere (nel frattempo trasportato a Reggio Calabria) ed espletato l’esame autoptico; nella delega il pubblico ministero segnalò, inoltre, l’opportunità di escutere a sommarie informazioni testimoniali i carabinieri che accompagnavano il capitano e ogni altra persona (familiari, investigatori) in grado di riferire circostanze utili alle indagini “volte a chiarire con certezza la causalità del decesso”. L’autorità giudiziaria delegata (nella persona del pubblico ministero presso il tribunale di Reggio Calabria, dottoressa Apicella) dispose, quindi, il disseppellimento del cadavere che avvenne lo stesso 15 dicembre 1995, alla presenza del sanitario di polizia mortuaria dell’USL 11, nonché del maresciallo Domenico Scimone atteso che la dottoressa Apicella aveva delegato per il controllo della regolarità delle operazioni proprio gli Ufficiali della sezione di polizia giudiziaria dei CC della procura presso il tribunale di Reggio Calabria, sezione alla quale apparteneva appunto il maresciallo Scimone. L’incarico di eseguire l’autopsia e gli esami tossicologici venne affidato alla dottoressa Simona Del Vecchio (in proposito, il dottor Russo, sentito da questa Commissione in data 22 febbraio 2011, ha precisato che era stata la dottoressa Apicella, pubblico ministero presso il tribunale di Reggio Calabria, a scegliere la dottoressa Del Vecchio quale consulente). Anche i familiari del capitano nominarono un consulente medico legale (il dottor Alessio Asmundo). La scelta del dottor Asmundo avvenne su indicazione del dottor Neri, al quale la famiglia di De Grazia aveva chiesto consiglio. Il dottor Neri, sentito su questa circostanza nell’aprile 1997 dal PM Russo, ha dichiarato: “Effettivamente i familiari del capitano De Grazia mi chiesero a chi avrebbero potuto rivolgersi per una consulenza medico-legale di parte ed io indicai che noi di solito ci rivolgevamo all’Istituto di medicina legale di Messina presso il prof. Aragona o il professor Asmundo, periti di ottima preparazione”. Va evidenziato che le indagini preliminari si sostanziarono, in questa fase, esclusivamente nel conferimento dell’incarico di consulenza tecnica per l’espletamento dell’autopsia e nell’acquisizione della relazione di servizio redatta dai carabinieri Moschitta e Francaviglia. Il 19 dicembre 1995 la dottoressa Apicella, pubblico ministero presso la procura di Reggio Calabria, conferì incarico di consulenza tecnica alla dottoressa Del Vecchio in merito ai seguenti quesiti:
- accerti il consulente, previo esame autoptico della salma del capitano De Grazia la natura, le modalità e i mezzi che ne hanno cagionato il decesso;
- accerti, mediante esame istologico e chimico-tossicologico, l’eventuale presenza di sostanze tossiche o con analoghe caratteristiche, che abbiano cagionato il decesso di cui sopra. Le operazioni di consulenza si svolsero presso la camera mortuaria dell’ospedale di Reggio Calabria, alla presenza del dottor Asmundo. La dottoressa Del Vecchio, nella sua relazione depositata il 12 marzo 1996, concluse nel senso che la morte del capitano De Grazia doveva ricondursi alla cosiddetta “morte improvvisa dell’adulto, che trova origine per lo più in un’ischemia del miocardio con successive gravi turbe del ritmo cardiaco, che si manifestano anche in assenza di segni premonitori e che, dal punto di vista anatomopatologico, addirittura nella metà dei casi circa, sono caratterizzati dall’assenza di segni specifici, non solo macroscopici, ma anche microscopici e ultramicroscopici”. La morte improvvisa viene definita nella relazione come un evento repentino e inatteso caratterizzato dal fatto che il soggetto passa da una condizione di completo benessere o, almeno, di assenza di sintomi, alla morte in un arco di tempo inferiore alle 24 ore. La causa scatenante può essere determinata (oltre che da uno sforzo fisico) anche da una condizione di permanente tensione emotiva e di allarme conseguente all’espletamento di attività professionali particolarmente impegnative, delicate e rischiose, fonte di enormi responsabilità (come nel caso del capitano De Grazia) che possono determinare una condizione di stress continuo che alla fine precipita la situazione cardiaca.
1.4.3 – La relazione del consulente di parte. Differenze rispetto alla relazione del consulente del pubblico ministero
La consulenza tecnica del 18 giugno 1996 redatta dal dottor Alessio Asmundo contiene conclusioni analoghe a quelle della dottoressa De Vecchio per quanto concerne l’individuazione della natura cardiaca della morte. Se ne differenzia, invece, quanto alla descrizione dei reperti obiettivi:
- il consulente d’ufficio aveva descritto “un cuore di forma normale e volume diminuito”, mentre il consulente tecnico di parte lo descrive come un cuore leggermente globoso, con punta formata dal ventricolo sinistro e maggiore prevalenza del destro rispetto alla norma;
- il consulente d’ufficio aveva descritto “il tessuto adiposo sottoepicardico molto rappresentato con colorito grigiastro ed aspetto translucido…… il tessuto adiposo si approfondisce a tratti financo nei piani muscolari; il consulente tecnico di parte definisce, invece, il tessuto adiposo subepicardico quantitativamente e qualitativamente normo-rappresentato;
- il consulente d’ufficio aveva evidenziato un’evidente sofferenza delle arterie di piccolo e medio calibro, che presentano ispessimento sia avventiziale che intimale, con lumi ristretti; mentre il consulente tecnico di parte afferma che le coronarie sono apparse esenti da alterazioni di natura aterosclerotica. In merito poi alle cause della morte, il consulente tecnico di parte conclude nel senso che “la morte di De Grazia Natale rappresenta caratteristico accidente cardiaco improvviso per insufficienza miocardica acuta da miocitosi coagulativa da superlavoro in soggetto affetto da cardiomiopatia dilatativa”. Il dottor Asmundo è stato sentito a sommarie informazioni dal pubblico ministero dottor Russo al fine di fornire chiarimenti in merito alla sua relazione ed, in tale occasione, ha sostenuto che:
- il capitano De Grazia era morto per una causa patologica naturale essendo affetto da cardiomiopatia dilatativa da catecolamine;
- non condivideva quanto sostenuto dalla dottoressa Del Vecchio in merito al volume del cuore ed all’eccesso di grasso, non avendo riscontrato tali anomalie;
- si era trattato, quindi, di una morte improvvisa da causa cardiaca, che però il consulente tecnico d’ufficio ricollegava ad un meccanismo patogenetico diverso, connesso a problemi di trasmissione dell’impulso cardiaco. Il dottor Asmundo, pur non avendo partecipato agli esami tossicologici per non essere stato avvisato, a suo dire, dalla collega, ha però affermato che erano stati effettuati tutti gli accertamenti tossicologici in merito all’eventuale ingestione di sostanze venefiche.
1.4.4 – Gli ulteriori accertamenti disposti su richiesta dei familiari del capitano De Grazia. A seguito del deposito della relazione da parte del consulente tecnico di parte, i familiari della vittima depositarono – nel marzo 1997 – una richiesta di riapertura indagini. In sostanza, lamentavano le carenze investigative dell’inchiesta svolta, non essendo state ascoltate le persone che avrebbero potuto fornire maggiori informazioni sulle circostanze particolari del decesso (ad esempio i carabinieri che viaggiavano con il capitano De Grazia, il dottor Neri, il maresciallo Scimone) e non essendo stato effettuato alcun accertamento in merito al ristorante ove il capitano aveva presumibilmente mangiato il 12 gennaio 1995. Vennero, quindi, effettuati gli ulteriori approfondimenti richiesti a distanza di un anno e mezzo dai fatti. Si accertò che effettivamente in località Campagna era attivo (anche all’epoca dei fatti) il ristorante “Da Mario”, gestito dal titolare Desiderio D’Ambrosio, dalla madre Antonina Adelizzi e dalla convivente Antonina D’Elia, tutti esenti da pregiudizi penali. Si accertò che la conduzione era di tipo familiare e che i titolari si avvalevano di personale esterno solo in occasione di banchetti o cerimonie. Deve, peraltro, rilevarsi che non furono mai sentiti i gestori del ristorante né fu mai effettuato un sopralluogo. Vennero, invece, sentiti a sommarie informazioni i congiunti del capitano De Grazia, il consulente tecnico di parte dottor Asmundo, il sostituto procuratore dottor Neri e i carabinieri Moschitta e Francaviglia, ma non il maresciallo Scimone. Per primo, in data 8 aprile 1997 venne sentito Postorino Francesco, cognato del capitano De Grazia, il quale, oltre a riferire in merito alle preoccupazioni che il capitano aveva per la sua incolumità in relazione alle indagini che stava svolgendo (preoccupazioni che aveva confidato al cognato), parlò dei sospetti che il capitano nutriva sul maresciallo Scimone. Il signor Postorino si espresse in questi termini: “Posso dirle che mio cognato mi ha riferito in qualche occasione di un comportamento strano del maresciallo Scimone del nucleo operativo dei carabinieri di Reggio il quale faceva parte dello stesso gruppo investigativo coordinato dal dottor Neri. In particolare si riferì ad una strana condotta del maresciallo Scimone durante una certa perquisizione o un sopralluogo in Roma o nelle vicinanze senza però chiarirmi altro. Mi disse che in quella occasione la persona che si trovava in casa gli riferiva di essere amico di ammiragli e persone influenti, senza però chiarirmi altro. Qualche giorno prima della morte, sicuramente tra il giorno dell’Immacolata ed il 12 dicembre mi confessò in modo esplicito di essersi accorto che un suo collaboratore nelle indagini passava informazioni riservate ai servizi segreti deviati. Quando sulla base di quei sospetti da lui esplicitati in precedenza io gli feci il nome del maresciallo Scimone lui mi confermò facendo un cenno di assenso. Oltre questo non mi ha mai detto nient’altro che possa essere utile alle indagini. ADR: mio cognato mi ha anche ritento in più di una occasione di aver subito pressioni ma non ha specificato da parte di chi, so soltanto che una volta mi disse che se voleva poteva essere già ammiraglio. Presumo pertanto che lui facesse riferimento a pressioni che in qualche modo riceveva per le indagini che andava svolgendo da ambienti interni alla Marina o ad altri organismi statali (…) ricordo che mio cognato mi riferì, dopo l’inizio della sua partecipazione alle indagini, che era stato chiamato presso lo Stato maggiore della Marina a Roma per riferire sulle indagini. All’inizio delle indagini mi disse che doveva andare a Messina per incontrarsi con una persona dei servizi segreti della Marina, come da sua richiesta, proprio in relazione alle indagini che avrebbe compiuto”. In data 8 aprile 1997 venne sentita anche la moglie del capitano De Grazia, Anna Maria Vespia. La stessa riferì, in sintesi:
- che era a conoscenza delle delicate indagini condotte dal marito sui rifiuti radioattivi, per le quali lo stesso appariva pensieroso e preoccupato;
- che il marito non le aveva mai riferito di aver ricevuto minacce, seppur le aveva fatto capire la delicatezza delle indagini;
- che le sembrava strano il fatto che i carabinieri che accompagnavano il marito, invece di portarlo subito in ospedale, si fossero fermati sulla strada in attesa dei soccorsi;
- che il marito aveva posticipato la partenza per La Spezia di un giorno in quanto lei aveva la febbre;
- che nutriva dei dubbi sulla “causa naturale” della morte del marito, il quale aveva sempre goduto di ottima salute e si sottoponeva, come membro della Marina, ad analisi periodiche (ogni due anni);
- che il maresciallo Moschitta si era contraddetto in quanto da un lato le aveva parlato dei rapporti informali ed amichevoli che lo legavano a suo marito, dall’altro aveva scritto nella relazione di aver fatto accomodare suo marito sul sedile anteriore dell’autovettura per una questione di rispetto;
- che il marito era solito addormentarsi dopo i pasti ed amava mangiare con tranquillità. Il 9 aprile 1997 venne sentito dal pubblico ministero Russo il maresciallo Moschitta. Dal verbale risulta che l’escussione si svolse presso la procura di Reggio Calabria alla sola presenza del magistrato. Moschitta confermò la relazione fatta a suo tempo. Aggiunse che la cena presso il ristorante “Da Mario” non era stata programmata e che era stato proprio il capitano De Grazia a proporre di mangiare con calma e non fugacemente presso un autogrill. Per questo Moschitta aveva proposto di cenare in quel ristorante, presso il quale aveva pranzato già altre volte. Il ristoratore, al termine della cena, aveva rilasciato regolare ricevuta fiscale. Il maresciallo Moschitta precisò che “L’unico cibo che fu ingerito dal capitano De Grazia e non da noi fu un pezzettino di torta, una specie di crostata, che era su un carrello esposto nella sala e che lui stesso richiese e scelse spontaneamente.” Con riferimento al momento in cui lui e il carabiniere Francaviglia si accorsero che il capitano russava in modo insolito e che era freddo e sudato, il maresciallo Moschitta disse al dottor Russo: “All’altezza del casello, credo di Mercato San Severino, la testa si è di nuovo abbassata sulla sinistra, io gli ho dato la solita pacca ma mi sono accorto che era freddo e sudato, mentre Francaviglia trovava lo scontrino. Mi sono allarmato dicendo al Francaviglia che non mi rispondeva. Abbiamo subito capito a quel punto che avesse avuto un malore ed ho detto a Francaviglia di superare la galleria fermarsi subito dopo per prestare i soccorsi del caso, anche perché non conoscevamo i luoghi. Telefonai subito col mio cellullare al 112 e chiesi soccorso immediatamente. Lo abbiamo tirato fuori dall’auto e lo abbiamo disteso per terra prima col dorso a terra, allorché Francaviglia ha tentato di rianimarlo con una respirazione bocca a bocca. Per effetto di questa operazione vedevamo ritornare fuori l’aria e notavamo per ciò un movimento delle labbra che a noi profani sembrò un sintomo di vitalità, il che ci spinse a continuare nella respirazione, notando tra l’altro un rigurgito del cibo ingerito in precedenza. A quel punto lo abbiamo preso e curvato sul guardrail cercando di farlo vomitare pensando che vi fosse una ostruzione alle vie respiratorie a causa del cibo rigurgitato ma il capitano non ha dato segni di vita. Nel frattempo infuriava un temporale con una forte pioggia. E’ arrivata dopo circa 20 minuti l’autoambulanza e l’abbiamo seguita all’ospedale. Ricordo che all’ospedale un infermiere uscendo dalla sala di rianimazione disse che era morto sul colpo per un infarto fulminante. Credo che le escoriazioni sul petto siano state causate dal fatto che lo avevamo messo riverso sul guardarail cercando di trattenerlo ovviamente”. Riguardo alle indagini che stava svolgendo insieme al capitano De Grazia, il maresciallo Moschitta asserì che, pur non avendo (né lui né il capitano) mai ricevuto minacce, tuttavia, sin dall’inizio delle indagini, avevano avuto la sensazione di essere controllati; in particolare avevano notato pedinamenti o strani episodi che li avevano allarmati, spingendoli ad adottare sempre maggiori cautele (su questo si è ampiamente trattato nel capitolo 2 della parte prima). Aggiunse che il capitano gli aveva fatto capire di avere incontrato “difficoltà di movimento all’interno della Capitaneria di Reggio”, in quanto “i superiori non vedevano di buon occhio questa indagine, capiva dunque di non essere appoggiato dalla gerarchia e di dover in sostanza lottare su due fronti”. Immediatamente dopo l’escussione del maresciallo Moschitta (il 9.4.97 alle ore 12:22), il pubblico ministero Russo sentì il Carabiniere Francaviglia. Le dichiarazioni di quest’ultimo combaciano con quella rese dal collega. Lo stesso giorno venne sentito dal pubblico ministero Russo anche il sostituto procuratore Francesco Neri. Il dottor Neri espose in breve l’oggetto delle indagini di cui al procedimento penale n. 2114/94 RGNR, nelle quali era impegnato il De Grazia. Ha, poi, dichiarato: “Unitamente al collega Pace della procura circondariale di Matera comunicammo al capo dello Stato che le indagini potevano coinvolgere la sicurezza nazionale, inoltre poiché fatti di questo tipo potevano essere a conoscenza del Sismi ancor prima dell’ingresso del capitano De Grazia nelle indagini chiese al direttore del servizio di trasmettermi copia di tutti gli atti che potevano riguardare il traffico clandestino di rifiuti radioattivi con navi. A dire il vero il Servizio molto correttamente mi trasmise degli atti tramite la polizia giudiziaria. In particolare il passaggio degli atti avvenne tramite il maresciallo Scimone appositamente delegato a ciò da me. Il maresciallo Scimone faceva parte del gruppo investigativo da me diretto e teneva i contatti con il Sismi. Il capitano De Grazia era a conoscenza di ciò, cioè sapeva dei contatti istituzionali di Scimone con il Sismi per la acquisizione delle notizie che chiedevamo. Ogni attività di rapporto con il Sismi è formalizzata in specifici atti reperibili nel processo. (…) II capitano De Grazia era ovviamente molto preoccupato per le indagini come tutti noi, in considerazione della enormità e particolarità delle vicende che emergevano e per le persone ed istituzioni coinvolti a livello internazionale. A parte gli episodi a cui ho fatto cenno in precedenza e di cui alle relazioni predette il capitano non mi ha mai parlato di altre minacce esplicite o intimidazioni fatte personalmente a lui. Lui era preoccupato molto dell’episodio accaduto a Roma nel corso della perquisizione al Viccica. A volte per scherzare e sdrammatizzare mi diceva che comunque prima avrebbero ammazzato me e poi forse lui, senza con ciò smorzare il suo ammirevole ed encomiabile sforzo per le indagini che lo ha distinto fino alla fine.” Questa è stata, dunque, l’attività integrativa svolta dal pubblico ministero con riferimento all’acquisizione di informazioni. Con riferimento, poi, all’aspetto medico legale, le differenze tra le due relazioni depositate, poste in luce dai familiari del capitano De Grazia nella richiesta di riapertura delle indagini, spinsero il pubblico ministero Russo, dapprima, a sentire li consulenti tecnici a chiarimenti e, successivamente, a conferire alla dottoressa Del Vecchio ulteriore incarico, previa riesumazione del cadavere. Dunque, il 23 aprile 1997, la dottoressa Del Vecchio precisò al pubblico ministero che le sue valutazioni conclusive finali coincidevano con quelle espresse dal consulente di parte dottor Asmundo e che, in ogni caso, le valutazioni parzialmente diverse su aspetti anatomoistopatologici non avevano influito minimamente sulla diagnosi causale della morte. La dottoressa chiarì, poi, che gli accertamenti tossicologici già effettuati avevano escluso la presenza di sostanze tossiche e stupefacenti, in particolare l’alcool, gli oppiacei, la cocaina, i barbiturici, le benzodiazepine, le anfetamine, i cannabinoidi e tutte le altre T.L.C, evidenziando che il materiale prelevato per tali accertamenti (bile e sangue) non era in quantitativo tale da rendere possibile una ripetizione di queste analisi, mentre avrebbero potuto essere effettuate analisi tossicologiche più mirate mediante prelievo di capelli, ossa, quote parte di organi di accumulo “per verificare fino in fondo per quanto possibile l’esistenza di eventuali sostanza tossiche e velenose diverse, in particolare la ricerca potrebbe riguardare i veleni metallici”. Le illustrate nuove indagini medico legali furono, pertanto, oggetto del secondo incarico affidato alla dottoressa del Vecchio da parte del pubblico ministero Russo, il quale, in data18 giugno 1997, le pose i seguenti quesiti: “ad integrazione ed approfondimento della consulenza medico-legale già espletata con riferimento al decesso del cap. De Grazia Natale, esegua il CT ulteriori accertamenti chimico-tossicologici per la ricerca di sostanze tossiche e velenose, nonché approfondisca, con l’allestimento di ulteriori preparati, l’aspetto istologico. Accerti ed approfondisca altresì quant’altro utile ai fini delle indagini volte a verificare la causa del decesso, anche tenendo conto di quanto emerge dagli atti e dalla consulenza di parte depositata”. La dottoressa Del Vecchio, in questa occasione, si avvalse della collaborazione di consulenti tecnici chimici nelle persone del prof. Enrico Cardarelli, della facoltà di Scienze matematiche fisiche e nucleari dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, e della dottoressa Luisa Costamagna, dell’Istituto di medicina legale e delle assicurazioni della medesima Università. Gli ulteriori accertamenti svolti non portarono, peraltro, a risultati diversi da quelli già acquisiti. Nella seconda relazione depositata il consulente ha evidenziato che gli ulteriori esami chimici hanno escluso la presenza di sostanze tossiche di natura esogena nei campioni esaminati. La ricerca era stata condotta con particolare riferimento alle sostanze che possono portare alla morte in tempi brevi con sintomatologie quali quelle descritte (ipnotici, farmaci cardiaci, depressori del sistema nervoso centrale, cianuri). E’ stata inoltre effettuata una ricerca di arsenico nei capelli e nel fegato e la ricerca è risultata negativa. Il mancato rilevamento di tracce di alcool etilico nel sangue (sebbene, secondo quanto dichiarato dai testi, il capitano avesse bevuto un bicchiere di vino e del limoncello) era giustificabile, a detta del consulente, per il fatto che il decesso era avvenuto a poco più di un’ora dall’ingestione dei cibi, e quindi l’alcool non aveva avuto il tempo sufficiente per entrare in circolo e, peraltro, risulta che il capitano De Grazia avesse rigurgitato parte del cibo durante le manovre di rianimazione messe in atto dal maresciallo Moschitta e dal carabiniere Francaviglia. La dottoressa Del Vecchio, in data 11 dicembre 1997, venne nuovamente sentita a chiarimenti dal dottor Russo, in occasione del deposito della relazione relativa al secondo esame autoptico effettuato (cfr. il prossimo par. 3.2).
1.4.5 – I provvedimenti di archiviazione. Il procedimento avviato in merito alla morte del capitano De Grazia si è concluso, nella prima fase, con un provvedimento di archiviazione emesso il 28 settembre 1996, su richiesta del pubblico ministero del 9 marzo 1996, e basato sui risultati della prima autopsia che riconduceva il decesso ad un evento naturale. (doc. 1276/2). La seconda fase si è conclusa un provvedimento di archiviazione emesso il 26 novembre 2002 dal Gip dottoressa Raffaella Caccavela su richiesta del pubblico ministero formulata nel luglio 1998 sulla base delle seguenti considerazioni (doc. 1276/3):
- il decesso del capitano De Grazia era da ricondurre, secondo quanto accertato dalla consulenza medico legale e autoptica, ad un evento naturale del tipo “morte improvvisa dell’adulto”;
- gli ulteriori esami chimici disposti a seguito della riesumazione della salma avevano escluso la presenza di sostanze tossiche di natura esogena;
- la presunta incompatibilità tra il dato laboratoristico relativo alla negatività per la presenza di alcool etilico nel sangue e la circostanza (acquisita sulla base delle testimonianze assunte) della assunzione di vino e limoncello, appariva spiegata dalle considerazioni medico-legali evidenziate nel verbale di sit dell’undici dicembre 1997.
2 – GLI ELEMENTI ACQUISITI DALLA COMMISSIONE. La Commissione ha approfondito la vicenda relativa alla morte del capitano De Grazia sia attraverso l’acquisizione di copia degli atti del procedimento aperto presso la procura della Repubblica di Nocera Inferiore sia attraverso numerose audizioni. Sono stati, in particolare, ascoltati:
- i magistrati Francesco Neri, Nicola Maria Pace, Francesco Greco che si occuparono delle inchieste sulle navi a perdere;
- il magistrato che condusse le indagini sulla morte del capitano, Giancarlo Russo;
- il cognato del capitano, signor Postorino Francesco;
- il maresciallo Niccolò Moschitta, il carabiniere Rosario Francaviglia, il maresciallo Domenico Scimone, facenti parte, unitamente al capitano, del gruppo investigativo creato dal dottor Neri;
- i carabinieri Angelantonio Caiazza e Sandro Totaro, appartenenti al nucelo mobile della Stazione CC di Nocera inferiore, intervenuti al momento del decesso del capitano.
Sono stati anche ascoltati:
- l’ex colonnello del Corpo forestale dello Stato di Brescia, Rino Martini;
- il brigadiere del Corpo forestale dello Stato di Brescia, Gianni De Podestà;
- il vice ispettore del Corpo forestale dello Stato, Claudio Tassi;
- l’ex collaboratore di giustizia, Francesco Fonti
- il comandante in seconda, ufficiale presso la Capitaneria di porto di Vibo Valentia, Giuseppe Bellantone.
Si è, poi, ritenuto, di approfondire anche l’aspetto medico legale, sia attraverso l’audizione dei medici che, all’epoca delle indagini, eseguirono gli accertamenti autoptici (dottoressa Del Vecchio e dottor Asmundo) sia affidando al prof. dottor Giovanni Arcudi (direttore dell’Istituto di medicina legale nella facoltà medica dell’Università di Roma “Tor Vergata” nonchè consulente della Commissione), l’incarico di valutare gli accertamenti medico legali compiuti dai predetti consulenti, al fine di acquisire un parere tecnico anche sotto questo profilo.
2.1 – Le dichiarazioni rese alla Commissione dal maresciallo Domenico Scimone. In data 18 gennaio 2011 è stato audito dalla Commissione il maresciallo Domenico Scimone. Lo stesso, dopo aver specificato di aver preso parte attivamente alle indagini condotte dal sostituto Neri, fin dal loro inizio, insieme al capitano De Grazia, ha parlato anche dei rapporti con quest’ultimo, definendolo amico d’infanzia e compagno di regate. In merito al giorno della morte del capitano, ha dichiarato: “Il giorno della morte di De Grazia che è la cosa più grave ci eravamo visti di mattina, alle 9.00, con De Grazia e Moschitta. Il programma era il seguente: io dovevo andare a La Spezia con Moschitta per acquisire documentazione presso la dogana, De Grazia con la mia macchina della sezione della polizia giudiziaria insieme al mio autista avrebbe dovuto recarsi a Crotone per sentire il signor Cannavale, quello che ha demolito la nave Jolly Rosso. Si doveva quindi occupare della ricostruzione della Jolly Rosso, mettendo a verbale le dichiarazioni di questo signore.
Alle 10.30-11.00 mi telefona De Grazia dicendomi che visto che si trattava di un atto di polizia giudiziaria in cui non era ferrato come me che ne facevo tutti i giorni, preferiva andare con Moschitta perché avendo navigato per tanti anni sapeva dove mettere le mani nelle dogane e leggere le polizze di carico. Ho risposto che non c’erano problemi: lui sarebbe andato a La Spezia mentre io mi sarei recato a Crotone. Intendevo partire verso le cinque del mattino per andare verso Crotone, mentre non so per quale motivo De Grazia decise di partire quella sera, nonostante avessi consigliato loro di partire presto la mattina seguente, arrivando con calma, senza partire di notte. Avevano però ribattuto che tanto avrebbe guidato l’autista, che si sarebbe riposato dopo mentre loro visionavano gli atti. Alle 19.00 ho sentito Moschitta: mi ha detto che stavano partendo e che era tutto a posto. La mattina alle 5.00 sono partito per Crotone. Mentre stavo mettendo a verbale, verso le 8.30-9.00, mi ha chiamato un collega della sezione di polizia giudiziaria di cui facevo parte, che mi chiede: «che è successo a De Grazia, è morto?». Ho pensato a un incidente stradale e ho subito chiamato al telefono. Quando mi ha risposto Moschitta ho sperato che fosse un’invenzione. Ho chiesto se De Grazia fosse morto e lui mi ha chiesto chi me lo avesse detto e mi raccomandò di non preoccuparmi. Continuai quel verbale nonostante ciò e, finito il verbale verso le 19.00, partimmo con la macchina e scoppiò una gomma, per cui alle 19.30 feci aprire un garage per aggiustarla. Partiti da Crotone e arrivati all’autostrada di Lamezia Terme, mi vidi passare davanti il carro funebre e dietro l’autovettura Ritmo del reparto operativo. Avendo riconosciuto la macchina, mi sono messo dietro e siamo andati ad accompagnarlo fino a casa. Questa è la realtà dei fatti. Nessuno poteva conoscere il programma di De Grazia: ha deciso lui quando partire, dove fermarsi a mangiare, per cui non c’è un mistero: è morto, su questo ci sono dubbi, quale sia la causa della morte non lo so perché ho assistito anche all’autopsia effettuata a Reggio Calabria e per un attimo quando hanno aperto la bara non era lui, poi mi sono reso conto che era lui. Questa è la realtà dei fatti.”
Riguardo alla partecipazione del maresciallo Scimone alle operazioni autoptiche, è stato già evidenziato che lo stesso era stato autorizzato a presenziare alle operazioni di disseppellimento dal pubblico ministero dottoressa Apicella.
Tuttavia il maresciallo Scimone ha dichiarato alla Commissione di aver partecipato proprio all’autopsia, che sarebbe stata effettuata dal dottor Aldo Barbaro: “l’autopsia non è stata in grado di stabilire nemmeno la causa della morte. (…) è stata fatta a Reggio Calabria dal dottor Aldo Barbaro. (…) Quando poi la salma è arrivata a Reggio Calabria l’ho portata io in camera mortuaria e ho assistito all’autopsia del dottor Aldo Barbaro”. Tuttavia, da nessun atto processuale emerge che il dottor Barbaro abbia partecipato alle operazioni autoptiche, effettuate solo dalla dottoressa Del Vecchio e dal consulente di parte dottor Asmundo. Le dichiarazioni del maresciallo Scimone destano qualche perplessità sotto vari profili. In primo luogo, come detto, il maresciallo Scimone è l’unico che ha riferito in merito al cambio di programma, avvenuto – a suo dire – all’ultimo minuto, per cui il capitano De Grazia decise solo la mattina del 12 dicembre di non andare più a Crotone, ma di recarsi a La Spezia. Nessun’altro tra gli inquirenti ha, infatti, accennato a tale circostanza, che peraltro sembrerebbe smentita dalle dichiarazioni della moglie del capitano, Anna Maria Vespia. Ulteriore motivo di perplessità riguarda l’indicazione del dottor Barbaro quale medico legale che avrebbe effettuato l’autopsia, dato che contrasta con le emergenze processuali e con gli esiti degli ulteriori approfondimenti effettuati dalla Commissione.
2.2 – Le dichiarazioni del maresciallo Moschitta. Il maresciallo Niccolò Moschitta è stato audito dalla Commissione in due diverse occasioni. La prima, in data 11 marzo 2010 e la seconda in data 2010. Nel corso della prima audizione, lo stesso Moschitta ha fornito indicazioni in merito al motivo della missione a La Spezia, affermando: “Stavamo andando a La Spezia ad acquisire la documentazione in merito alla Rigel, la nave affondata a capo Spartivento. Tale documentazione era di interesse perché il processo di La Spezia aveva sancito che sul trasporto di quella nave erano state pagate dazioni ed era stato coinvolto personale della dogana e della Rigel circa il carico. Era necessario e importante avere con noi questi documenti per poi proseguire, se non erro, per Como o per un’altra destinazione per sentire altri eventuali testimoni, con tanto di delega del magistrato”. Quanto alle circostanze specifiche del decesso del capitano De Grazia, il maresciallo Moschitta, ha rappresentato quanto segue: “Partiamo poco dopo le 19 con la macchina di servizio, con alla guida il carabiniere. Io ero seduto davanti e il capitano dietro. Ci siamo fermati 2 o 3 volte per fare benzina, per prenderci qualcosa, neanche il caffè. Erano soste di servizio senza alcun problema, fino ad arrivare nella zona prima di Salerno. Ormai era tardi, intorno alle 22.30, quando Natale ci propose di fermarci per mangiare. Gli dissi che più avanti c’era l’autogrill di Salerno; avremmo potuto fermarci là, eventualmente mangiare un pasto leggero e proseguire. De Grazia insistette che voleva mangiare, che aveva fame. Eravamo proprio presso lo svincolo di Campagna. In passato, insieme a molti altri colleghi, mi sono occupato anche di Tangentopoli a Reggio Calabria, quindi mi è capitato di recarmi spesso a Roma presso i differenti ministeri ad acquisire documenti. Arrivati verso Campagna, gli indicai che c’era un ristorante a due passi (…) Lui si è seduto davanti in macchina. Erano più o meno le 23.30 e abbiamo cominciato a dirigerci verso Salerno. Volle sedersi davanti perché voleva distendere le gambe e cercare di dormire un po’. Allora io mi misi dietro. Cercavo di dare da parlare il più possibile all’autista perché con lo stomaco pieno temevo potesse venirgli un colpo di sonno. A un certo punto, il capitano cominciò a russare, almeno a me sembrò che russasse. Invece poi scoprii che erano rantoli. Gli sistemai la testa e ripresi a parlare con l’autista. Quando siamo arrivati al casello di Salerno, il capitano abbassò di nuovo la testa, ma siamo andati avanti. Alla prima galleria illuminata, lo toccai ed era sudato freddo. Dissi al collega di guardarlo in faccia, visto che era davanti, perché era sudato freddo e non mi rispondeva; lo volevo svegliare. Lui mi rispose che aveva gli occhi storti. Gli dissi di fermarsi alla prima piazzola non appena usciti dalla galleria; poi, in realtà, ci fermammo sulla corsia di emergenza perché non c’era piazzola. Nel frattempo, si scatenò un temporale incredibile e si mise a piovere”. Le altre dichiarazioni rese dal Moschitta alla Commissione hanno riguardato prevalentemente gli elementi raccolti nel corso dell’indagine sulle navi a perdere, compediati nell’informativa finale dallo stesso redatta e depositata nell’ottobre 1996 (v. allegato). 2.3 – Le dichiarazioni del carabiniere Rosario Francaviglia. La Commissione ha ritenuto di dover ascoltare anche il carabiniere Francaviglia, il quale, pur avendo preso parte alle indagini e alla missione durante la quale perse la vita il capitano De Grazia, fu ascoltato in un’unica occasione dal dottor Russo, rendendo dichiarazioni sostanzialmente identiche a quelle del suo collega Moschitta e verbalizzate nello stesso modo. Nel corso dell’audizione avanti alla Commissione, avvenuta in data 1° agosto 2012, il carabiniere Francaviglia ha aggiunto alcuni elementi utili a ricostruire più nel dettaglio i drammatici momenti in cui si accorse, unitamente al maresciallo Moschitta, che il capitano De Grazia non stava bene. Si riportano i passaggi dell’audizione di maggiore interesse: “Quando sono arrivato nei pressi dell’autostrada, al casello autostradale per Salerno, forse nei pressi di Nocera (ma non ricordo bene), il maresciallo Moschitta si è accorto che il capitano aveva fatto un movimento strano con la testa e lo ha chiamato; non ha ottenuto risposta e lo ha toccato in viso per cercare di svegliarlo mentre io, nel frattempo, ripartivo. A quel punto il maresciallo mi ha detto che qualcosa non andava perché il capitano non rispondeva; mi sono girato, l’ho guardato negli occhi e ho visto che aveva lo sguardo assente. Spento (…) Lo sguardo non c’era, non era vivo (…) Si era addormentato prima, quando siamo partiti. Durante il tragitto, ogni tanto si sentiva brontolare, cioè russare, a seconda di com’era seduto. Poco prima di fermarci, ho notato che si era come aggiustato nel sedile, ma non abbiamo notato nulla di strano; quando sono ripartito dai caselli ed ero arrivato quasi sotto la galleria, il maresciallo mi ha avvertito che Natale non stava bene ed era sudato. Mi sono girato per guardarlo in viso e siccome era rivolto verso di me, ho visto che aveva gli occhi semichiusi, ma lo sguardo non era quello di una persona viva; non so come altro spiegarlo. L’ho guardato e c’era qualcosa che non andava; chiaramente, siamo usciti dalla galleria e ci siamo fermati; abbiamo cercato di fare qualcosa, convinti che stesse male ma che la situazione non fosse così drammatica. Lo abbiamo tirato fuori dalla macchina e gli ho praticato massaggio cardiaco e respirazione.(…) La cosa strana, però, è che gli veniva fuori il cibo da solo e mi arrivava in bocca mentre, nella disperazione, continuavo a praticargli la respirazione. Nel frattempo si era messo pure a piovere e pensando che fosse un problema dovuto a qualcosa lo abbiamo piegato sul guardrail per cercare di fargli liberare l’esofago. Nel frattempo, il maresciallo Moschitta aveva chiamato soccorso ed è arrivata l’autoambulanza, ma era già…” Il carabiniere Francaviglia ha fornito, poi, una serie di precisazioni, affermando che:
- verso le 23:30, al termine della cena, tutti e tre ripartirono e che il capitano De Grazia non disse alcunchè, addormentandosi immediatamente;
- sentirono il capitano brontolare o russare;
- ad un certo punto il carabiniere Francaviglia notò che il capitano si era raddrizzato sul sedile, come a volersi sistemare meglio. Contemporaneamente, il russare apparì diverso, strano. Ciò accadeva qualche minuto prima del momento in cui il maresciallo Moschitta si accorse che De Grazia stava male;
- quando il maresciallo Moschitta lo toccò, lo trovò freddo e sudato;
- tra l’uscita dal ristorante ed il momento in cui si accorsero dello stato del capitano passò circa mezz’ora;
- appena notarono lo stato del capitano, accostarono l’auto sul ciglio della strada;
- il maresciallo Moschitta chiamò i soccorsi, che arrivarono in circa 10 minuti, (sia ambulanza che auto dei carabinieri);
- il personale dell’ambulanza che visitò il capitano fece un cenno, come a dire che non c’era più niente da fare;
- giunti in ospedale, dopo che il medico comunicò il decesso del capitano, il maresciallo Moschitta insistette affinché venisse eseguito l’esame autoptico;
- venne chiamato al telefono anche il magistrato di turno, che parlò con il medico e convenne con questo che non era necessario eseguire alcuna autopsia.
2.4 – Le dichiarazioni dei carabinieri intervenuti sul posto, Angelantonio Caiazza e Sandro Totaro. Al fine di acquisire ogni notizia di specifica relativa a quanto accadde la notte in cui il capitano De Grazia perse la vita, la Commissione ha audito i componenti dell’equipaggio dell’aliquota radiomobile dei CC della stazione di Nocera Inferiore intervenuti sul posto, peraltro mai ascoltati dai magistrati che indagarono sui fatti. Entrambi sono stati auditi nel luglio 2012. Per primo è stato audito il carabiniere Caiazza, il quale ha dichiarato: “Quella notte avevamo appena intrapreso il servizio di un turno 00.00-06.00, un turno notturno, e fummo informati dalla centrale operativa che sull’autostrada, a bordo di un’autovettura – una Tipo o una Punto – una persona era stata colta da malore. Ci recammo sul posto unitamente a un’unità sanitaria e trovammo una persona riversa supina tra lo sportello posteriore dell’auto e l’asfalto. Intervennero i sanitari, mentre noi provvedemmo a identificare gli altri militari presenti, che gli praticarono un massaggio cardiaco e lo portarono in ospedale, dove ci consegnarono una borsa contenente gli effetti del povero De Grazia, che fu identificato pure da noi. (…) Abbiamo ritirato anche un borsone contenente una valigia ventiquattrore, che fu consegnata al maresciallo Moschitta su sua richiesta (….) L’unità sanitaria intervenne mentre noi provvedemmo a identificare gli altri due militari. In ogni caso, credo fosse ancora vivo perché gli stavano praticando un messaggio cardiaco. (…) Lì (in ospedale) abbiamo ritirato il referto stilato dal medico. Sembra che fosse morto per arresto cardiaco. Poi abbiamo ritirato gli effetti personali.(….) Il borsone ci è stato consegnato dai colleghi del nucleo operativo. Della destinazione sapevamo solo che stavano transitando sulla A30, direzione nord, la Caserta-Roma. (…) Una volta ritirato il referto, siamo tornati in caserma e abbiamo stilato gli atti”. Il Carabiniere Caiazza ha poi specificato di non essere stato mai sentito da alcun magistrato in merito ai fatti. Le dichiarazioni dell’appuntato scelto Sergio Totaro combaciano sostanzialmente con quelle del suo collega. Si riportano i passaggi più significativi: “ La vettura in questione l’abbiamo trovata all’uscita della prima galleria dell’autostrada A30, barriera Salerno-Mercato San Severino, direzione nord. (…) C’erano una persona supina sull’asfalto e due persone in abiti civili accanto, che poi abbiamo identificato come un maresciallo e un appuntato dell’Arma. (…) È stata chiamata, contestualmente, anche l’ambulanza. Dal momento che il comando dei carabinieri si trova 100 metri prima dell’ospedale siamo intervenuti contemporaneamente. (…) C’era una persona supina, sdraiata sull’asfalto, e due persone in abiti civili accanto, che si sono poi presentati per un maresciallo e un collega dell’Arma. Mentre li stavamo identificando i signori dell’ambulanza prestavano soccorso alla persona in terra. (…) Penso che abbiano tentato i primi interventi per rianimarlo. Quella in cui siamo arrivati era una fase un po’ concitata, tanto è vero che subito dopo l’hanno messo in ambulanza e siamo andati direttamente all’ospedale Umberto I, loro davanti e noi dietro, che era a circa due chilometri di distanza. (…). Con riferimento alla valigetta “24 ore” che il capitano De Grazia portava con sé, il carabiniere Totaro ha riferito che: “Gli effetti personali del capitano De Grazia furono consegnati al militare di servizio alla caserma in quanto andavano consegnati ai parenti. Inoltre, c’era la classica busta di colore nero in cui l’ospedale mette gli ambiti che la persona indossa al momento. C’era anche un borsone di colore blu del capitano De Grazia che mi pare contenesse una valigetta e una macchina fotografica. Mi pare che il tutto fu consegnato, su sua richiesta, al maresciallo Moschitta con ricevuta”. Il carabiniere ha specificato di non avere controllato il contenuto della valigetta e che la stessa fu restituita, senza essere stata aperta, al maresciallo Moschitta, il quale la richiese espressamente: “No, ci fu chiesta. Ci dissero che conteneva materiale che dovevano portare via, con cui dovevano continuare. Ci fu chiesta proprio, se non erro, dal maresciallo Moschitta. Ci disse cortesemente che c’erano dei fascicoli. Abbiamo menzionato di proposito nell’annotazione «che veniva consegnata, previa richiesta, a Tizio e Caio per il prosieguo dell’operazione». Il carabiniere ha poi specificato la tempistica della restituzione degli effetti personali e della valigetta: dopo essere stati in ospedale, i militari andarono in caserma per formalizzare gli atti, unitamente al maresciallo Moschitta e al carabiniere Francaviglia, “ il maresciallo disse che a loro occorreva la valigetta con gli atti perché dovevano proseguire per il loro viaggio. A quel punto consegnammo a lui quel materiale (…) Presumo che il tutto sia avvenuto in ufficio davanti a noi o che il maresciallo abbia detto che conteneva fascicoli processuali. Se l’abbiamo scritto, qualcuno ce lo avrà detto o l’ha aperta davanti a noi. Si tratta di tanti anni fa, ricordo la sera, ma non tutti i dettagli. Fu una fase concitata, in mezz’ora una semplice richiesta d’aiuto diventò una morte. Il nostro intervento è terminato proprio in ospedale”. La Commissione ha formulato numerose domande volte a comprendere quale fosse il contenuto della valigetta e se questo fosse stato in qualche modo verificato, anche per capire le ragioni della restituzione della valigetta al maresciallo Moschitta. In particolare, alla domanda della Commissione sul motivo per il quale, nonostante la valigetta non fosse stata aperta, fosse stato redatto un verbale nel quale si dava conto del numero di procedimento penale cui si riferivano gli atti contenuti nella valigetta stessa, il Carabiniere ha risposto:
“Personalmente, non ricordo. Eravamo in due e forse l’avrà letto il brigadiere, poi abbiamo firmato in due. Materialmente, però, non ho visto il fascicolo. In genere, uno di noi scrive e alla fine sottoscriviamo, ma io non ho visto quel fascicolo e, se l’avessi visto, non lo ricordo”. Sul punto è stato interpellato anche il carabiniere Caiazza, il quale ha riferito, che se era stato riportata a verbale che nella valigetta era contenuto un fascicolo riferito al procedimento penale n. 2114/94 RGNR, evidentemente doveva aver visionato il fascicolo stesso, pur non potendo confermare la circostanza non ricordando più tale particolare.
2.5 – Le dichiarazioni di Francesco Fonti in merito alla morte del capitano De Grazia. Per completezza di trattazione si ritiene di dover dare conto anche delle informazioni acquisite nel corso dell’inchiesta dall’ex collaboratore di giustizia Francesco Fonti, già appartenente alla ‘ndrangheta calabrese, audito dalla Commissione in data 5 novembre 2009 nel corso della missione effettuata a Bologna. Deve essere subito chiarito che la Commissione non ha trovato riscontri obiettivi alla quasi totalità delle dichiarazioni che Francesco Fonti ha reso nella varie sedi sul tema del traffico di rifiuti radioattivi o comunque tossici da parte della ‘ndrangeta calabrese. Si tratta di un’inattendibilità intrinseca in quanto più volte Fonti si è contradetto e ha fornito versioni diverse rispetto ad elementi essenziali della narrazione nonché di un’inattendibilità estrinseca in quanto non sono stati fornite indicazioni adeguate per riscontrare le dichiarazioni da lui rese. Fonti è stato interpellato anche con riferimento al decesso del capitano De Grazia. Sul punto, ha dichiarato di avere sentito dire, all’interno dell’organizzazione criminale cui era legato, che il capitano Natale De Grazia era stato ucciso.
Ha aggiunto, poi, che i servizi segreti facevano sparire sia i rifiuti sia le persone che potevano rappresentare un concreto ostacolo alla prosecuzione dei traffici illeciti: l’ipotesi era, quindi, quella che il capitano fosse stato eliminato perché stava scoprendo cose che avrebbero dovuto restare segrete. In realtà, Fonti ha precisato che si trattava di notizie non certe ed acquisite da altre persone. La Commissione ha chiesto al Fonti chiarimenti in merito alle dichiarazioni dallo stesso rese nel corso di una trasmissione radiofonica sull’emittente “Radio anch’io”, andata in onda nella seconda metà del 2009. In tale trasmissione il Fonti aveva dichiarato che il comandante De Grazia sarebbe stato ucciso dai Servizi.
Alla domanda se tale affermazione fosse supportata da elementi di riscontro o meno il Fonti ha risposto: “Sono chiacchiere, cose che ho sentito dire. Sicuramente sono considerazioni svolte da altre persone come me. (…) Le chiacchiere si facevano anche fra di noi. Quando ci si trovava per riunioni ufficiali, concordate, oppure anche per caso, fra le famiglie c’era sempre un certo antagonismo: io so di più, faccio di più, ho fatto questo traffico, tu non l’hai fatto, io ho preso questi miliardi, tu li hai presi. Vi era la megalomania di poter fare di più di un’altra famiglia”. Il Fonti ha poi specificato di aver sentito tali chiacchiere all’interno della sua organizzazione. Data la delicatezza delle affermazioni effettuate, si ritiene di riportare il passaggio dell’audizione sul punto:
“PRESIDENTE. Sulla base di che cosa davano queste notizie?
FRANCESCO FONTI. Con i rifiuti si trattava con i servizi segreti, e, se qualcosa non va, questi decidevano di far sparire anche le persone. L’ipotesi era quella che anche il capitano fosse stato eliminato, perché stava andando a scoprire qualcosa che non doveva emergere.
PRESIDENTE. Lei non parlò mai con Pino (soggetto non meglio identificato, già indicato da Fonti come appartenente ai servizi segreti ed elemento di collegamento con il Fonti e con la ‘ndrangheta) di questa vicenda?
FRANCESCO FONTI. No.
PRESIDENTE. Poiché nella trasmissione, che anch’io ho sentito, lei dava come una notizia importante, quasi certa, il fatto che fosse stato ucciso.
FRANCESCO FONTI. Non penso, non era questa la mia intenzione, anche perché è una vicenda che non ho vissuto”.
Con riferimento alle dichiarazioni di Fonti, indipendentemente dall’attendibilità di base o meno del personaggio, è evidente che, in questo caso, la loro assoluta genericità unita al fatto di essere dichiarazioni cosiddette “de relato”, apprese direttamente, ma riferite da altre persone, tra l’altro mai indicate nominativamente, impedisce di prenderle seriamente in considerazione. Tanto più che lo stesso Fonti, richiesto sul punto, le ha definite “chiacchiere”.
2.6 Le dichiarazioni fornite dal magistrato dottor Francesco Neri. In data 23 settembre 2009 la Commissione ha audito il dottor Francesco Neri, il quale ha reso corpose e importanti dichiarazioni in merito a tutte le fasi dell’indagine nonché in merito anche alle fasi successive alla trasmissione del fascicolo alla procura presso il tribunale di Reggio Calabria. Su sua espressa richiesta le dichiarazioni sono state segretate. La Commissione ha tuttavia ritenuto di disporre la desegretazione almeno con riferimento alle parti delle audizioni concernenti i riferimenti al capitano di fregata Natale De Grazia. In particolare, significative ai fini della presente inchiesta sono le dichiarazioni che il magistrato ha reso con riferimento a talune attività svolte dal capitano De Grazia e alla documentazione dallo stesso raccolta ed esaminata.
Si riportano testualmente i passaggi dell’audizione: «A questo (Rigel, Jolly Rosso, tutte collegate a Comerio) aggiungiamo le dichiarazioni e i documenti che accertammo sulla Somalia, che vi ho portato, i fax di Ali Mahdi che autorizzava il Comerio ad affondare in Somalia i suoi penetratori, il certificato di morte che il comandante Di Grazia trovò tre, quattro giorni prima di partire e mi disse nella mia stanza che aveva bisogno del tempo per verificarne la provenienza, in quanto si trattava di una fotocopia sulla quale era trascritto un numero di fax. Egli voleva accertare i collegamenti con Comerio. Poi, come ben sapete, il capitano De Grazia morì. Rimangono tuttora in me sospetti sulla sua morte, ma non ho prove certe perché vi ho portato tutte le minacce che subivamo, tutte le relazioni di servizio. Eravamo pedinati, minacciati spiati, vi erano microspie anche da Porcelli, il procuratore di Catanzaro. Chiedo che il procuratore Pace venga sentito perché è importante. Addirittura si presentò un agente del Mossad. Intorno a questa indagine c’erano molta attenzione e molta pressione, io ero un procuratore circondariale, non ero la DDA». «(…) Intorno all’indagine si era creata una pressione non indifferente che credo abbia comportato anche la morte di De Grazia per cause naturali o – come ho scritto in una relazione mandata al Presidente della Repubblica che vi consegno – nell’ipotesi più funesta, ucciso. In questo caso si tratterebbe di un’operazione chirurgica perché De Grazia era veramente il motore dell’indagine, colui che era riuscito a trovare gli elementi investigativi che collegavano le navi agli affondamenti delle carrette, soprattutto la Rigel e la Jolly Rosso, a Comerio».
«(…) PAOLO RUSSO. Vorrei partire proprio dal 1996 e capire meglio come lei “passa la mano”: sulla base di quale sollecitazione inevasa o di quale richiesta diretta alla quale vi è una risposta non funzionale al suo obiettivo. Probabilmente vi è anche una mia scarsa conoscenza delle procedure. Insomma, per quale motivo lei, nel giugno del 1996, “passa la mano”?
FRANCESCO NERI, Sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Reggio Calabria. Il 27 giugno. Vi è una mia nota di trasmissione che spiega tutto. A prescindere da questo, il primo motivo è stato la morte di De Grazia, che aveva depotenziato il mio pool investigativo. Investigavo con il comandante De Grazia, con un maresciallo e un brigadiere dei carabinieri, e con un carabiniere: questo era il mio pool investigativo. In procura ci sono 47 scatoloni sigillati di documenti derivati dai sequestri e dalle perquisizioni compiute nei confronti dei vari indagati, che mi pare siano stati esaminati e studiati per il 30 per cento. Il resto è rimasto ancora inevaso, non studiato: l’indagine è troppo vasta. Il secondo motivo riguardava la competenza. Potevamo continuare a cercare i siti dove erano stati affondati rifiuti, perché la discarica abusiva in mare poteva essere di nostra competenza; però se ormai eravamo dell’idea che il sistema di smaltimento non consistesse nel prendere dei fusti e gettarli in mare, bensì nell’affondare navi, allora vi era anche il reato di affondamento doloso, che non è di competenza pretorile, bensì della procura della Repubblica. Quindi, dovevamo per forza spogliarci del processo». «(…)Per quanto mi riguarda, tuttavia, molto dipese dalla morte di De Grazia, e anche da una certa resistenza istituzionale a volerci dare credito. Capisco che potevo non essere creduto, poiché quello che accertavamo superava l’immaginario collettivo. Abbiamo trovato filmati sulle prove in mare dell’affondamento dei penetratori (o siluri, o canister), che sembravano film di fantascienza. Basta connettersi al sito de L’Espresso, nella sezione di Riccardo Bocca, e si può vedere l’intero filmato.
ALESSANDRO BRATTI. Sulla morte di De Grazia sono state aperte indagini e sono stati svolti approfondimenti?
FRANCESCO NERI, Sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Reggio Calabria. Sì, io e il procuratore Scuderi chiedemmo immediatamente l’autopsia. Eravamo minacciati – ora lascerò anche tutte le denunce che abbiamo fatto – e c’era un clima di tensione intorno a noi, quindi la morte ci sembrò improvvisa e sospetta. Chiedemmo l’autopsia anche perché la famiglia non si rassegnava a questa morte di un ufficiale di 38 anni. E’ morto il13 dicembre 1995. Non ci spiegavamo la sua morte e abbiamo pensato di chiedere l’autopsia, che fu disposta a Reggio Calabria a distanza di 12-13 giorni. Il cuore era intatto, nessun infarto. Non è vero che ebbe un infarto. Non risultò alcuna traccia tossicologica, alcun elemento patologico che potesse spiegare la morte; infatti il perito necroscopico ha dichiarato che si era trattato di morte improvvisa. Tuttavia, morte improvvisa significa tutto e niente. So che la famiglia ha chiesto una nuova autopsia, che è stata fatta dallo stesso medico che aveva eseguito la prima. La famiglia nutre dubbi sul risultato della prima autopsia e la nuova autopsia viene affidata allo stesso medico che ha fatto la prima… La famiglia non si è mai rassegnata (e neanche io) ad una morte di cui ancora si sa molto poco».
« (…) FRANCESCO NERI, Sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Reggio Calabria. Da quello che so, partirono la sera – c’era brutto tempo – per La Spezia, perché avevo dato una delega. Bisognava acquisire i piani di carico di 180 navi che erano partite da La Spezia, da Marina di Massa e da Livorno, ufficialmente con carichi di sostanze radioattive, ma sulle quali non avevamo alcun dato riguardo ai porti di arrivo. Partivano navi cariche di torio, di uranio, di plutonio; russi, tedeschi, francesi, però non si sapeva il porto di arrivo. De Grazia perciò volle verificare dove andavano a finire queste navi e aveva questo importante compito. Inoltre, doveva sentire alcuni marinai della Rigel che era riuscito a rintracciare. Queste, almeno, erano le ultime attività che doveva compiere. Attività delicate, indubbiamente; soprattutto i piani di carico delle navi erano molto importanti ai fini delle nostre indagini. Dopo la sua morte, rimandai gli ufficiali a prendere quelle carte, ma la capitaneria di porto di Massa Carrara si allagò e tutti i documenti andarono distrutti.
PRESIDENTE. In che anno questo?
FRANCESCO NERI, Sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Reggio Calabria. Nel 1996 o a fine 1995, l’alluvione; comunque dopo il 13 dicembre 1995.
GERARDO D’AMBROSIO. Il presidente aveva fatto una domanda precisa: non solo quando morì, ma come, in che luogo, in che contesto (a casa sua, in viaggio)?
FRANCESCO NERI, Sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Reggio Calabria. Erano in viaggio e si fermarono per mangiare; De Grazia fu l’unico a mangiare il dolce, secondo quanto mi disse la moglie (e questo risulta). Successivamente risalirono in automobile e ad un casello autostradale i due carabinieri che erano con lui si accorsero che rantolava e non respirava più. Quindi morì. Questo è quello che so. Non c’ero.
GERARDO D’AMBROSIO. Si sa dove si erano fermati a mangiare?
FRANCESCO NERI, Sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Reggio Calabria. Sì, ora non ricordo esattamente, in un ristorante a Campagna. Ma non voglio dire cose di cui non sono certo, perché non ho svolto io le indagini sulla morte di De Grazia.
RESIDENTE. Restando ancora su questo argomento: De Grazia ha trovato – perché lei l’ha visto -il certificato di morte che si trovava nel fascicolo di Comerio.
FRANCESCO NERI, Sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte dì Appello di Reggio Calabria. Mi disse: “Ho trovato questo tra le carte di Comerio”.
PRESIDENTE. Lei lo ha visto?
FRANCESCO NERI, Sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Reggio Calabria. Sì, l’ho visto.
PRESIDENTE. Che fine ha fatto?
FRANCESCO NERI, Sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Reggio Calabria. De Grazia partì e mi disse: “Lo tengo io”. Il certificato era in fotocopia e conteneva un numero di fax di partenza; per lui era importante, dal punto di vista investigativo, accertare a chi appartenesse. II certificato poi non lo vidi più. Quando andai alla Commissione Alpi mi ricordai del certificato e dissi al presidente: “Sicuramente è agli atti; io non ho fatto in tempo a guardare perché occorrono decine di giorni per esaminare tutta la documentazione contenuta in 47 scatoloni sigillati”. Mi chiesero: “Ma allora questo documento lo troviamo?”. Risposi: “Presidente, per me esiste, lo aveva De Grazia”. Mandò i suoi esperti, che nel fascicolo non trovarono il certificato. Però la procura della Repubblica, che fece ricerche dirette cercando il certificato, aprì tutti gli scatoloni sigillati dell’indagine e accertò che il plico di De Grazia, che conteneva la documentazione investigativa sulla quale egli lavorava, era stato danneggiato da un lato. Fu il pubblico ministero dottoressa Cama, vi è un verbale».
« (…)PRESIDENTE. Di quale procura?
FRANCESCO NERI, Sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Reggio Calabria. La procura di Reggio Calabria. Se volete poi posso inviarlo, a corredo della documentazione. Questo plico era stato violato, danneggiato da un lato, e delle 21 carpette numerate rinvenute, 11 erano prive di documenti. De Grazia prendeva un elemento investigativo, faceva una carpetta, sviluppava le indagini e poi mi trasmetteva l’informativa; questo era il suo metodo. Queste ricerche avvennero nel 2005, dopo che il processo era stato archiviato. L’archiviazione del processo era avvenuta nel 2000».
3 – GLI APPROFONDIMENTI SVOLTI DALLA COMMISSIONE IN ORDINE ALLE CONSULENZE MEDICO LEGALI. Un capitolo a parte la Commissione ha inteso dedicarlo agli approfondimenti medico legali svolti nel procedimento aperto presso la procura di Nocera Inferiore e, quindi, in merito agli esami autoptici effettuati sulla salma del capitano De Grazia. Si tratta di uno snodo centrale della vicenda e delle indagini, in quanto di fatto le consulenze tecniche espletate hanno individuato quale causa del decesso un fenomeno definito nella letteratura scientifica come “morte improvvisa dell’adulto” che, secondo quanto precisato dal consulente della Commissione, professor Arcudi, può essere individuato solo allorquando siano state escluse tutte le possibili ipotesi alternative. Le consulenze hanno costituito poi l’elemento fondante sia delle richieste di archiviazione sia dei relativi conformi provvedimenti del Gip.
3.1 – Le conclusioni dei consulenti medico legali nominati nell’ambito del procedimento avviato dalla procura di Nocera Inferiore. Le prime consulenze. Come già evidenziato, la dottoressa Del Vecchio, consulente del pubblico ministero, effettuò due consulenze tecniche, la seconda delle quali finalizzata ad accertare mediante esame istologico e chimico-tossicologico l’eventuale presenza di sostanze tossiche o con analoghe caratteristiche, che avessero cagionato il decesso. Si riportano, di seguito, le conclusioni della dottoressa Del Vecchio, di cui alla prima relazione di consulenza, depositata il12 marzo 1996: “La morte di Natale De Grazia, constatata l’assenza di lesività traumatica con caratteristiche di vitalità e accertata la negatività degli esami chimico-tossicologici, considerati i dati macroscopici rilevati all’esame autoptico (cuore di volume diminuito, si acquatta sul tavolo anatomico; il tessuto adiposo sottoepicardico è molto rappresentato e mostra colorito grigiastro e aspetto translucido; miocardio torbido, grigiastro, assottigliato, diminuito di consistenza; coronarie serpiginose, specillagli, con intima interessata da diffuse deposizioni ateromasiche intimali) e quelli microscopici forniti dall’esame istologico (è presente miocitolisi coagulativa, ma i preparati sono abbastanza ben conservati. In alcuni campi si osserva aumento del grasso subepicardico; il tessuto adiposo si approfonda, a tratti, financo nei piani muscolari. E’ presente notevolissima frammentazione terminale delle miocellule che risultano rigonfie, torbide, con nuclei ipocromici ed acromici. Evidente sofferenza delle arterie di piccolo e medio calibro, che presentano ispessimento sia avventiziale che intimale, con lumi ristretti. Si nota, inoltre, incremento degli spazi fra le fibre muscolari, dove la quota connettivale presenta caratteri di fibrosi interstiziale che in qualche campo sostituisce la struttura -miocardioangiosclerosi-), può ricondursi per sua natura ad una morte di tipo naturale, conseguente ad una insufficienza cardiaca acuta, inquadrabile più specificatamente nella fattispecie della morte improvvisa. La morte improvvisa è un evento repentino ed inatteso caratterizzato dal fatto che il soggetto passa da una condizione di completo benessere o almeno di assenza di sintomi alla morte in un arco di tempo inferiore alle 24 ore. La definizione di morte improvvisa secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità è la seguente: “morte naturale avvenuta in presenza o in assenza di testimoni e dovuta ad arresto cardiaco improvviso, verificatosi inaspettatamente in un soggetto che fino a sei ore prima godeva di buona salute”. La classica impostazione medico legale del Borri prevede ai fini della classificazione di un evento letale come morte improvvisa, che questo soddisfi i seguenti requisiti: assenza di una eventuale azione violenta esteriore; rapidità del decesso; esistenza di uno stato di buona salute o di apparente buona salute, o comunque di una malattia che non minacci un’evoluzione letale. Molte sono le cause di questo tipo di decesso, ma tra quelle cardiache un posto preminente è occupato dalla patologia cardiaca (coronarica e miocardica) che costituisce la causa di gran lunga più frequente di questo genere di morti (Puccini C.. Istituzioni di medicina legale: Ambrosiana, Milano, 1995).L’exitus è provocato, solitamente, da gravi turbe del ritmo culminanti in fibrillazione ventricolare. L’evento scatenante è di natura ischemica ma solo in meno della metà dei casi si riscontra una trombosi coronarica occlusiva o ad esempio un infarto recente, perché negli altri casi le alterazioni elettriche sono precipitate da altre cause ischemiche. Il meccanismo di molte morti improvvise cardiache è costituito da uno stato di instabilità elettrica da ipossia cronica, cosicché un aumento delle richieste metaboliche del cuore, in conseguenza di uno sforzo fisico ovvero di un’intensa emozione, ma anche una condizione di permanente tensione emotiva e di allarme conseguente all’espletamento di attività professionali particolarmente impegnative, delicate e rischiose, fonte di enormi responsabilità, (come nel nostro caso) può determinare uno stato di stress continuo che alla fine precipita la situazione cardiaca. La fibrosi miocardica (presenta nel nostro caso), inoltre, determina un rischio aggiuntivo di interruzione della continuità del sistema di conduzione, che può determinare vari gradi di blocco o di difetto di propagazione del’impulso contrattile, rendendo il cuore più sensibile all’ischemia ed all’arresto (Umani Ronchi G., Botino G., Grande A., Mannelli E.: Patologia Forense. Giuffrè, Milano, 1995). Inoltre, come dalle risultanze dell’esame istologico da noi eseguito, l’infiltrazione di tessuto adiposo che dalla consueta sede subepicardica si insinua in profondità fino ad interessare la parete miocardica, dissociando i fasci muscolari, è tipica anche della cosidetta displasia aritmogena, condizione caratterizzata da aritmie e spesso da morte improvvisa. Pertanto, la morte del capitano Di Grazia, sembra possa riconoscere una dinamica di tipo naturale e più precisamente della cosidetta “morte improvvisa dell’adulto”, che trova origine per lo più in una ischemia del miocardio con successive gravi turbe del ritmo cardiaco, che si manifestano anche in assenza di segni premonitori e che, dal punto di vista anatomopatologico, addirittura nella metà dei casi circa, sono caratterizzati dall’assenza di segni specifici, non solo macroscopici, ma anche microscopici e ultramicroscopici”.
Parzialmente diverse, nella parte descrittiva degli organi e dei tessuti, appaiono le conclusioni del dottor Asmundo nella relazione depositata otto mesi dopo quella del consulente del PM. Il dottor Asmundo, pur riconoscendo la natura cardiaca della morte improvvisa del De Grazia, la riconduce a “accidente cardiaco improvviso per insufficienza miocardica acuta da miocitolisi coagulativa da superlavoro in soggetto affetto, appunto, da cardiomiopatia (dilatativa) da catecolamine”: A seguito della richiesta di riapertura indagini, vennero risentiti i due consulenti, del pubblico ministero e di parte. Entrambi convennero sulla possibilità di effettuare ulteriori accertamenti, in particolare per verificare la presenza di veleni. La dottoressa Del Vecchio chiarì al pubblico ministero Russo che gli accertamenti tossicologici già effettuati avevano escluso la presenza di sostanze tossiche e stupefacenti, in particolare l’alcool, gli oppiacei, la cocaina, i barbiturici, le benzodiazepine, le anfetamine, i cannabinoidi e tutte le altre T.L.C, evidenziando che il materiale prelevato per tali accertamenti (bile e sangue) non era in quantitativo tale da rendere possibile una ripetizione di queste analisi, mentre avrebbero potuto essere effettuate analisi tossicologiche più mirate mediante prelievo di capelli, ossa, quote parte di organi di accumulo “per verificare fino in fondo per quanto possibile l’esistenza di eventuali sostanza tossiche e velenose diverse, in particolare la ricerca potrebbe riguardare i veleni metallici”.
Si riportano, di seguito, i verbali delle dichiarazioni rese dai due consulenti.
3.2 – La seconda consulenza tecnica espletata su incarico del pubblico ministero. In data 18 giugno 1997, il pubblico ministero Giancarlo Russo affidò, quindi, un secondo incarico alla dottoressa del Vecchio sottoponendole ulteriori quesiti: “ad integrazione ed approfondimento della consulenza medico-legale già espletata con riferimento al decesso del cap. De Grazia Natale, esegua il CT ulteriori accertamenti chimico-tossicologici per la ricerca di sostanze tossiche e velenose, nonché approfondisca, con l’allestimento di ulteriori preparati, l’aspetto istologico. Accerti ed approfondisca altresì quant’altro utile ai fini delle indagini volte a verificare la causa del decesso, anche tenendo conto di quanto emerge dagli atti e dalla consulenza di parte depositata”. Venne dunque effettuato un secondo accertamento sul cadavere del capitano De Grazia, in esito al quale vennero rassegnate dalla dott.ssa De Vecchio le seguenti conclusioni :
“La riesumazione del cadavere del capitano Natale De Grazia, ci ha permesso di eseguire ulteriori prelievi da utilizzare per gli accertamenti chimico-tossicologici e per l’approfondimento delle indagini di consulenza tecnica. A tal fine gli ulteriori esami chimici eseguiti hanno escluso la presenza di sostanze. tossiche di natura esogena nei campioni esaminati. La ricerca è stata compiuta con particolare riferimento alle sostanze che possono portare a morte in tempi brevi, con sintomatologie quali quelle descritte (ipnotici, farmaci cardiaci, depressori del sistema nervoso centrale, cianuri). Per completezza è stata effettuata anche la ricerca dell’arsenico nei capelli (perla verifica di un’eventuale intossicazione cronica) e nel fegato (perla verifica di eventuale intossicazione acuta). La ricerca è risultata negativa. La negatività per la presenza di alcool etilico nel sangue ottenuta con il prelievo del medesimo eseguito in sede di autopsia (19 dicembre 1995) anche se sembra contrastare con le notizie di specifica (vien riferito nella relazione di servizio redatta da Moschitta Nicolo e carabiniere Francaviglia Rosario che il De Grazia si fermava durante il viaggio per la cena alle ore 22.30, consumava abbondanti quantitativi di carboidrati e proteine assumendo contemporaneamente quantitativi non riportati di vino e un bicchierino di liquore denominato limoncello), non desta perplessità, in quanto è noto che la curva di assorbimento dell’alcool etilico a stomaco pieno (soprattutto quando sono j stati assunti abbondanti quantitativi di carboidrati), si appiattisce determinando valori di alcoolemia non rilevabili nel tempo immediatamente successivo all’assunzione. Poiché il decesso si è verificato poco più di un’ora dall’ingestione dei cibi e delle bevande l’alcool presente nello stomaco non aveva avuto il tempo sufficiente per entrare in circolo. Era presente, infatti, in quantità non dosabile. Inoltre viene riferito sempre nella relazione di servizio che durante le manovre rianimatorie il De Grazia rigurgitava parte di quanto introdotto nello stomaco durante la cena. All’esame autoptico il materiale alimentare fu rinvenuto in quantità tale da sembrare in contrasto con l’abbondante pasto riferito, ma ciò è invece facilmente spiegabile se confrontato con le testimonianze acquisite agli atti. Per quanto attiene all’esame istologico, invece, la visione preliminare di organi già esaminati, conferma i reperti impressi, in particolare riguardo per l’aumento, in alcuni campi, del grasso subepicardico. Per le ulteriori colorazioni tricromiche allestite sul cuore, quella di Gomori da conferma della presenza di microaree di sostituzione connettivale non recenti, mentre il PTH, nei limiti di lettura a causa della cattiva conservazione dell’organo, non sembra mettere in evidenza alterazioni cromatiche riferibili a presenza di fibrina recentemente neoformatasi, nell’insieme, il diagnostico sembra dunque essere quello di una miocardioangiosclerosi diffusa senza apprezzabili fenomeni-di necrosi recentissima o recente di tipo focale anche se anche se l’ultima osservazione (su quote parte di cuore riesumato) deve prudenzialmente tenere conto dello stato di conservazione dell’organo (ormai preda di avanzati fenomeni putrefattivi). Pertanto si ritiene, anche alla luce delle ulteriori indagini di laboratorio eseguite, che la causa della morte del capitano De Grazia Natale sia da ricondurre ad un evento naturale tipo “morte improvvisa dell’adulto”, come già ci esprimemmo in merito nella precedente relazione di consulenza tecnica medico-legale affidataci”. La dottoressa Del Vecchio, allorquando depositò le conclusioni della seconda consulenza tecnica espletata, venne risentita dal pubblico ministero Russo a chiarimenti. In tale occasione confermò in pieno i risultati cui era pervenuta con la prima consulenza. Si riporta il verbale all’epoca redatto.
3.3 – Le audizioni in Commissione dei consulenti tecnici. La Commissione ha ritenuto di dover risentire entrambi i consulenti medico legali al fine di chiarire alcuni aspetti legati soprattutto al fatto che nel corso della prima autopsia non furono eseguiti tutti gli accertamenti possibili per la ricerca di sostanze tossiche o assimilate, tanto che fu disposta un’integrazione degli accertamenti stessi, limitata peraltro a quelli ancora possibili nonostante il tempo trascorso.
Il 12 gennaio 2011 sono stati, pertanto, auditi sia la dottoressa Del Vecchio che il dottor Asmundo. La dottoressa ha affermato che:
- non aveva esaminato le precedenti risultanze e cartelle cliniche del capitano De Grazia per verificare se vi fossero tracce di patologie pregresse, precisando che all’epoca si facevano comunque esami che non potevano essere rivelatori di uno stato così fine di patologia che invece adesso viene valutato, come è obbligo dal 31 dicembre scorso;
- in occasione della prima autopsia le analisi tossicologiche furono limitate alla ricerca di sostanze stupefacenti, alcooliche e psicotrope, mentre la ricerca non fu estesa ai veleni, per i quali generalmente vi è una richiesta specifica da parte del magistrato;
- il quesito riguardante la ricerca di sostanze tossicologiche o simili non comprende generalmente anche la ricerca dei veleni. Questo perché per i veleni, data anche la quantità e varietà delle sostanze velenose, occorrono indagini diverse e più ampie e, dunque, quesiti più specifici;
- la maggior parte delle sostanze velenose non è rilevabile a distanza di tempo, salvo alcune sostanze, come l’arsenico.
Si riportano i passaggi più significativi dell’audizione in parola: “L’autopsia è stata svolta in perfetta regola, come da circolare Fani, per cui non solo ho svolto l’autopsia, ma ho anche prelevato parte di tessuto e di organo e tutti i liquidi biologici che potevo prelevare, quindi sangue e bile (non l’urina perché la vescica era vuota) e una quota di visceri per fare l’esame chimico tossicologico (…) non ho dubbi e anzi forse potrei fare un’aggiunta per sviare altri dubbi: come ho potuto vedere perché avevamo colorato questi tessuti con colorazioni particolari che mettono in risalto aree di cicatrizzazione in cui il normale tessuto cardiaco viene sostituito quando ha degli insulti, purtroppo il cuore del capitano De Grazia era soggetto a ipossia cronica (…) a mio parere – più forte oggi di ieri – è morto per un arresto cardiocircolatorio o per insufficienza cardiaca acuta che è la stessa identica cosa per uno stress miocardico, un insulto di ipossia cronica. Lo si vedeva nel cuore, nei reni e addirittura in alcune aree del cervello in cui c’erano le cellule del famoso neurone rosso, che sono un segno di ipossia cronica. (…) Tutti noi possiamo andare incontro a questo e io stessa ho una cardiopatia ipertensiva perché il problema è quello dell’impegno lavorativo, che non fa dormire la notte e impone responsabilità, laddove quelle del capitano erano certamente maggiori delle mie e forse anche delle vostre.
Per quanto riguarda invece i veleni, quando facemmo la riesumazione l’unico veleno su cui potevamo indagare era l’arsenico perché è l’unico che rimane, e questo si è rivelato negativo, perché in chimica clinica abbiamo fatto lo spettrofotometro ad assorbimento atomico che ha dato esito negativo. In assenza di lesività traumatica si pensa al veleno, ma chiaramente tutti gli altri veleni come il cianuro, il bromuro, il potassio danno sintomatologie particolari. La stricnina provoca contrazioni, il bromuro provoca vomito, sintomatologie molto pesanti che non possono passare inosservate né essere confuse con un malore. Si tratta di qualcosa di cui ci si accorge e che qualcuno comunque deve somministrare. Non abbiamo trovato neppure l’anidride arseniosa, che forse ha minore sintomatologie e si può mescolare nei cibi ed essere ingerita senza essere percepita. Tutti gli esami per i derivati della morfina e degli oppiacei non come sostanza stupefacente a sé stante, ma anche per i derivati farmacologici della codeina, cocaina e così via, le benzodiazepine sono stati effettuati in prima battuta, quando fu effettuata l’autopsia, per cui posso affermare che purtroppo la morte del capitano De Grazia è stato un evento naturale stress …”. Nel corso della medesima audizione è intervenuto anche il dottor Asmundo il quale, richiesto di chiarire se vi fossero elementi di dissenso rispetto alle conclusioni cui era giunta la dottoressa De Vecchio, ha dichiarato: “No, dissenso rispetto alla definizione della causa di morte no, ma ci sono alcuni aspetti che riguardano comunque la morte improvvisa da causa patologica naturale cardiaca che dal punto di vista tecnico-scientifico mi sentirei di definire in altro modo. Non ho però dubbi che si sia trattato di una morte improvvisa da causa patologica naturale cardiaca da superlavoro rispetto alle analisi condotte, alle circostanze che ci furono riferite e all’esclusione di altre cause che non sono emerse nel corso delle indagini eseguite dalla dottoressa. (…) Elementi di dissenso soltanto dal punto di vista tecnico-scientifico. Ho partecipato all’indagine autoptica e ho esaminato i preparati istologici allestiti da frammenti di visceri di cadavere e segnatamente del cuore.
Più che presentare una patologia di tipo aterosclerotico, il cuore è danneggiato da un’iperincrezione catecolaminica cioè degli ormoni dello stress, che hanno cronicamente intossicato la cellula miocardica, producendo un quadro che non è del tutto sovrapponibile a quello da causa ischemica e quindi ipossica, ma che deriva proprio dall’azione diretta di questi ormoni sulla cellula cardiaca che la danneggia. Ci sono evidenti reperti, focolai e aree anche abbastanza estese della cosiddetta «miocitolisi coagulativa» nel 1995, che oggi definiamo «necrosi a bande di contrazione». È quindi sostanzialmente condivisibile il terminale fisiopatologico, ma non esattamente in senso eziologico, nel senso che le coronarie, che sono i vasi che portano il sangue ossigenato al cuore per farlo ben lavorare, erano pressoché integre e non presentavano i segni tipici del soggetto cardiopatico ischemico, dell’infartuato, che presenta placche che ostruiscono la circolazione arteriosa coronarica e quindi danneggiano le cellule miocardiche non essendo apportato ossigeno. Qui il discorso è ben diverso e deriva proprio dall’iperincrezione catecolaminica, che caratteristicamente produce questo danno della cellula miocardica a focolai, che nel tempo possono arrivare a produrre una cardiopatia dilatativa se non interviene una causa aritmogena, cioè se il disarrangiamento dell’architettura del tessuto muscolare cardiaco non produce una desincronizzazione dell’attività cardiaca stessa tanto in senso elettrico quanto in senso meccanico, producendo quanto è accaduto al capitano De Grazia, cioè la morte improvvisa probabilmente da causa elettrica su base miocitolitica coagulativa (…) Le fibrocellule cardiache sono interconnesse tra loro e subiscono effetti che derivano da un impulso sostanzialmente elettrico, che deriva da una differenza di potenziale a livello della membrana cellulare per il passaggio di ioni dall’interno all’esterno della cellula, che attivano un meccanismo biochimico che fa contrarre la cellula. Se gruppi di cellule muoiono, evidentemente le interconnessioni non funzionano più e quindi la continuità dell’impulso elettrico non è garantita. Se i focolai sono multipli a livello del tessuto miocardico come in questi soggetti soprattutto la parete ventricolare sinistra, che è la parte più nobile del cuore, quella che pompa il sangue nella circolazione sistemica, in quella cerebrale fondamentalmente, questo può comportare in un altro momento, indipendentemente da una causa scatenante, una desincronizzazione dell’attività elettrica e quindi meccanica di pompa del cuore. Questo comporta un improvviso arresto cardiaco che può essere chiamato sincope o arresto cardiaco elettrico, che può comportare una fibrillazione ventricolare non conducente alla contrazione per il pompaggio del sangue e, in definitiva, a uno stupore e quindi a uno stop dell’attività cardiaca, che determina la morte improvvisa (…) Sono stati effettuati studi molto particolari su soggetti per i quali è stato percepito il «clic» nel senso dell’accensione del momento emozionale, sui quali si è dimostrato un rapporto sostanzialmente diretto. Ci sono però soggetti che come il De Grazia muoiono nel sonno probabilmente perché hanno anche una predisposizione – è difficile dirlo oggi – su base genetica.
Negli ultimi 5-7 anni si è svolta una grande ricerca sulla genetica dei recettori cioè di quelle zone della cellula cardiaca che servono per l’attacco dell’adrenalina e della noradrenalina, gli ormoni dello stress, per l’attivazione della cellula. Alcuni soggetti hanno questi recettori alterati o comunque non perfetti e quindi in loro una situazione di stress può comportare molto facilmente una desincronizzazione dell’attività e quindi una morte elettrica”. La dottoressa Del Vecchio ha sottolineato, poi, che in assenza di lesività esterna “(De Grazia non aveva segni traumatici da arma da fuoco, armi bianche o colpi contusivi, non era politraumatizzato, non era caduto da una finestra)” il medico legale indaga sulle cause della morte (semplice ictus, attacco di cuore o qualsiasi altra cosa) cercando eventuali sostanze:
“In questo caso non avevamo neanche le urine, ma abbiamo attentamente indagato nel sangue, nella bile, nei visceri, come sempre facciamo per verificare se un soggetto abbia ingerito un farmaco, sia rimasto vittima di un’allergia o – non è il caso del capitano – abbia fatto uso di sostanze stupefacenti. Il caso dei veleni è più particolare, perché il pubblico ministero, il giudice che assegna l’incarico dovrebbe quantomeno indirizzare il perito verso una ricerca perché alla luce della gamma dei veleni possibili un’indagine del genere può avere per lo Stato un costo incredibile. Io sarei molto favorevole a effettuare un’indagine del genere su tutti i morti per morte naturale“. La dottoressa Del Vecchio ha, quindi, ribadito le sue conclusioni, dopo aver descritto gli effetti delle sostanze velenose: “Una delle sostanze con cui le persone vengono anche curate e che si possono assumere anche a piccole dosi fino a intossicazione è proprio l’arsenico, che infatti era negativo, perché alle altre sostanze si diventa assuefatti. Con il potassio, che deve essere iniettato, si muore immediatamente. (…) Con «immediatamente» s’intende che non si riesce a rientrare in macchina. Altre sostanze come la stricnina provocano convulsioni, particolari che qualcuno avrebbe dovuto riferire”. Allo stesso modo il dottor Asmundo ha confermato il suo giudizio, affermando: “Il reperto tossicologico non è mai lontano dal reperto anatomopatologico. Se infatti una sostanza altera l’organismo in modo tale da ucciderlo, evidentemente a livello polmonare, epatico e renale, organi deputati alla detossificazione dell’organismo, si rileva un’alterazione. Noi non abbiamo un reperto anatomopatologico che ci possa consentire tecnicamente di affermare una cosa simile. A fronte di un reperto patologico cardiaco di una consistenza più che discreta, l’orientamento nel senso dell’epicrisi non può che essere quello”. Riguardo alla prima autopsia effettuata, la dottoressa ha chiarito di aver eseguito alcuni esami tossicologici (“avevamo il sangue, i visceri, la bile, che sono indagini istologiche di tessuti. Abbiamo utilizzato il metodo RYE, metodica che si usa per analizzare questi reperti, abbiamo visto l’alcol (l’etanolo) che era negativo, tutti i derivati della morfina e degli oppiacei, della cocaina, codeina e quant’altro”), ma di non aver indagato sui veleni, affermando che ciascun veleno richiede uno studio a parte, per cui l’indagine in tal senso sarebbe stata eseguita se vi fosse stato il sospetto della presenza di un veleno. Alle richieste di chiarimenti avanzate dei componenti della Commissione, l’audita ha risposto, così come riportato nel resoconto stenografico:
“ALESSANDRO BRATTI. Si può escludere categoricamente che non sia stato avvelenato o, dato che per tutta una serie di motivi non si è ipotizzata la presenza di determinati veleni, si fa fatica ad andarli a cercare? Questa è una domanda importante, perché si può escludere totalmente qualsiasi tipo di veleno oppure ammettere questa eventualità.
SIMONA DEL VECCHIO. In base alla mia esperienza ritengo che l’unico veleno che potesse uccidere una persona così giovane e sana potesse essere appunto l’arsenico, che infatti dopo siamo andati a ricercare e non c’era. È l’unico che si può cercare e trovare anche dopo tranquillamente perché è l’unico che non senti: o viene iniettato, ma non c’erano segni di agopuntura.
ALESSANDRO BRATTI. Avendo bevuto e mangiato magari poteva anche sentire un sapore strano. Chiaramente, voi siete esperti e lo sapete.
SIMONA DEL VECCHIO. Le assicuro che le quantità dovrebbero essere minime, non in grado di far morire una persona.
PRESIDENTE. Per chiarire fino in fondo il nostro problema, noi abbiamo una serie di indizi esterni quali il fatto che sia stato completamente disfatto tutto il gruppo che stava svolgendo un’indagine particolarmente importante sulla presenza di sostanze tossiche (noi abbiamo anche accertato ulteriori elementi di particolare importanza di quello specifico viaggio). Se quindi voi ci dite che al cento per cento era assolutamente impossibile che nel momento in cui è morto ci fosse una causa o una concausa diversa dal fatto che il cuore non ha più funzionato perché non sono arrivati gli impulsi elettrici e ha avuto quello che comunemente si definisce un infarto, interpretiamo quegli indizi in un senso. È invece diverso se ci dite che a voi risulta questo, però ad esempio avete fatto un’indagine accuratissima sulla presenza di una possibile puntura.
SIMONA DEL VECCHIO. Posso assicurare che quello lo effettuo su tutti, anche su chi non fa il lavoro del capitano De Grazia, per cui glielo assicuro personalmente anche se non c’è nella relazione. Il collega era presente, abbiamo fatto le foto del corpo e addirittura, riscontrando un’escoriazione sul lato sinistro, ho prelevato quel pezzetto di cute perché preferivo analizzare anche questo tessuto. Non era nulla, perché evidentemente hanno tentato di rianimarlo e si trattava dei segni della rianimazione.
ALESSANDRO BRATTI. Escludete comunque l’avvelenamento per ingestione a meno che non sia quella sostanza.
SIMONA DEL VECCHIO. Sì, perché dovrebbe essere troppa la sostanza somministrata a una persona per ottenere quell’effetto.
PRESIDENTE. Vorrei sapere se sia stato analizzato il cibo che aveva ingerito, per sapere che tipo di cibo fosse e a che livello di digestione fosse.
SIMONA DEL VECCHIO. No, perché il cibo era già a uno stadio avanzato come l’alcol prima, perché non è morto subito: aveva già cominciato la sua digestione, c’era del liquame.
ALESSANDRO BRATTI. Nonostante avesse già cominciato la digestione, le tracce di alcol.
SIMONA DEL VECCHIO. Perché l’alcol si assorbe prima, ecco perché si raccomanda di aspettare mezz’ora dopo mangiato per evitare l’eventuale ritiro della patente, qualora si sia fermati. Il capitano non è morto subito, per cui oltre il liquame non potevamo vedere più nulla. Occorrono tre ore per svuotare uno stomaco.
PRESIDENTE. Quanto tempo occorre perché il cibo si trasformi in liquame?
SIMONA DEL VECCHIO. Al massimo tre ore, ma anche di meno: dipende da cosa e quanto abbiamo mangiato.
ALESSANDRO BRATTI. Uno shock anafilattico si vedrebbe chiaramente dall’autopsia?
SIMONA DEL VECCHIO. Sì, come diceva il collega prima il fegato e la milza, organi in cui passa tutto il circolo refluo, avrebbero subìto effetti allucinanti. Tutti i veleni che provocano l’atrofia giallo-acuta avrebbero dato quadri epatici disastrosi, mentre mi pare che il fegato fosse l’organo in assoluto più tranquillo perché si trattava di una persona giovane, attenta a quanto mangiava e beveva.
PRESIDENTE. Avrei ancora alcune cose da chiarire per arrivare sino in fondo. Per quanto riguarda i polmoni, qui si dichiara che «è presente intensissima congestione con abbondanti travasi emorragici endoalveolari». Vorrei sapere quale origine possa avere la congestione.
SIMONA DEL VECCHIO. La morte di tipo asfittico e cioè tutte le morti che avvengono per mancanza d’aria, quindi la morte cardiaca o per strangolamento.
PRESIDENTE. La morte cardiaca è contemporanea, cioè nel momento in cui il cuore si ferma.
SIMONA DEL VECCHIO. No, non è detto che si fermi subito: si può avere un malore che può avere un suo decorso.
PRESIDENTE. Se invece fosse una morte per asfissia?
SIMONA DEL VECCHIO. Ci sarebbero stati segni di asfissia, che in questo caso mancano. È il meccanismo della morte: in questo caso parlo della mancanza di aria negli organi interni, non della morte per asfissia.
Prima ho precisato che non c’erano segni di lesività traumatica di alcun genere.
PRESIDENTE. Parliamo dei polmoni.
SIMONA DEL VECCHIO. La congestione è tipica di una morte cardiaca.
PRESIDENTE. Ma può essere anche tipica di un soffocamento?
SIMONA DEL VECCHIO. Di tantissime altre morti, anche di un soffocamento, ma un uomo di 39 anni come il capitano De Grazia non si sarebbe fatto soffocare senza reagire. Questo è doveroso dirlo”.
3.4 – La consulenza del professor Giovanni Arcudi. Come già evidenziato, la Commissione ha ritenuto di voler approfondire l’aspetto medico legale legato alla morte del capitano De Grazia. A tal fine, dopo avere audito i consulenti medico legali che effettuarono le operazioni peritali nel corso dell’indagine condotta dalla procura della Repubblica di Nocera Inferiore, ha affidato, in data 16 maggio 2012, al professor dottor Giovanni Arcudi (direttore dell’Istituto di medicina legale nella facoltà medica dell’Università di Roma “Tor Vergata”, nonchè consulente della Commissione) l’incarico di esaminare gli atti acquisiti e le consulenze tecniche medico legali effettuate dalla dottoressa Del Vecchio e dal dottor Asmundo nonché di eseguire gli esami di natura ripetibile, ritenuti utili, sui preparati istologici e le relative inclusioni in paraffina eventualmente ancora custoditi presso il laboratorio di istologia dell’Istituto di medicina legale – Università La Sapienza di Roma. In data 10 dicembre 2012, il professor Arcudi ha depositato una relazione nella quale sono esposti i risultati della sua consulenza. Si ritiene di riportare integralmente il testo della relazione depositata in ragione del tecnicismo della materia e delle conclusioni, non coincidenti per diversi aspetti ripetto a quelle cui pervennero la dottoressa Del Vecchio e il dottor Asmundo: «Gli accertamenti medico legali sono stati effettuati da una parte sulla base della documentazione acquisita agli atti e, dall’altra, sulla revisione dei preparati istologici a suo tempo allestiti su frammenti di visceri prelevati in occasione della autopsia effettuata sul cadavere del De Grazia e della successiva esumazione. «Nulla è stato possibile fare sul versante delle indagini tossicologiche forensi poiché non risulta che siano state conservate parte dei prelievi di liquidi biologici e di visceri che sembrerebbe siano stati fatti nel corso degli accertamenti necroscopici e utilizzati, all’epoca, per esami chimico tossicologici forensi. «Quindi sulla scorta del predetto materiale che avevo a disposizione ho svolto gli accertamenti medico legali all’esito dei quali posso proporre le seguenti considerazioni. «Preliminarmente è opportuna una osservazione sugli accertamenti effettuati all’epoca della morte del capitano De Grazia, disposti dapprima dalla procura della Repubblica di Reggio Calabria in data 19 Dicembre 1995 e quindi dalla procura della Repubblica di Nocera Inferiore in data 23 Aprile 1997. «Come ho avuto modo di anticipare nella mia relazione preliminare (sostanzialmente ripresa in questa relazione definitiva, ndr), non posso che ribadire, ora, come gli accertamenti di natura medico legale, allora disposti, risultino condotti in maniera piuttosto superficiale con incomprensibili carenze e contraddizioni che rendono i risultati tutti incerti, poco affidabili e quindi non concretamente utilizzabili per gli scopi per i quali erano stati disposti. Scopi che erano stati indicati nella serie di quesiti posti al perito, sempre lo stesso nel primo e nel secondo accertamento, e che erano tutti finalizzati a chiarire, anche con l’ausilio della indagine tossicologica, la causa della morte del De Grazia. «Più in particolare deve essere evidenziata la piuttosto evidente difformità tra il verbale di autopsia del CT del PM e quello del consulente della parte: nel primo il contenuto gastrico è riferito come costituito da alcuni cc di liquame blunerastro mentre il CT della parte parla di un abbondante quantità di materiale alimentare parzialmente digerito, ed è evidente che sia più veritiera quest’ultima versione, essendo inconcludente l’affermazione della dottoressa Del Vecchio che lo stomaco era vuoto perché il Cap. De Grazia aveva vomitato poco prima della morte.; la CT del PM dice di un cuore con coronarie serpinginose, specillabili, con intima interessata da diffuse deposizioni ateromasiche intimali, mentre il CT della parte dice che nulla c’è alle coronarie, e probabilmente ha ragione lui visti gli esami istologici. «E poi c’è, nella descrizione della seconda autopsia su cadavere esumato, la non attendibilità di un dato relativo ai prelievi di parti di visceri che verosimilmente dovevano essere putrefatti e, più sorprendentemente, di sangue che non poteva più esserci dopo una prima autopsia e dopo che erano trascorsi circa sedici mesi da quest’ultima. E tante altre cose ancora. «Insomma si trae quasi l’impressione che in questa indagine medico legale si sia badato più alla forma di particolari processuali privi di valore che invece alla sostanza della indagine in patologia forense che sembra del tutto trascurata nel rigorismo obiettivo e nella valutazione del significato patologico dei quadri autoptici. «E questo per quanto riguarda gli accertamenti autoptici ed istologici. Altro capitolo è quello degli accertamenti tossicologici per i quali non posso che riproporre le stesse considerazioni, condivise dal tossicologo forense della medicina legale di “Tor Vergata”, già fatte pervenire con la relazione preliminare che ora possono essere ritenute definitive. «Sono state prese in esame le indagini chimico tossicologiche che, secondo l’allora CT del PM, dottoressa Del Vecchio, sono state eseguite in due riprese: una in occasione della prima autopsia eseguita in data 19.12.1995 con contestuali prelievi; un’altra quando è stata fatta la esumazione del cadavere del Di Grazia in data 23.04.1997. «Prima ancora di entrare nel merito, appare opportuno segnalare una macroscopica contraddizione tra quanto riportato nelle tre relazioni di consulenza, riguardo al contenuto dello stomaco.Nella prima relazione della dottoressa Del Vecchio, relativa all’esame autoptico da lei eseguito in data 19 dicembre 1995, si legge: “…Stomaco contenente alcuni cc di liquame brunastro…”, mentre nella relazione di consulenza di parte, il dottor Asmundo, presente all’esame autoptico, scrive: “….Nello stomaco abbondante quantità di materiale alimentare parzialmente digerito, d’aspetto cremoso e colorito giallastro-roseo nel quale sono riconoscibili frammenti di formaggio biancastro e carnei rosei-scuri…”. Nella seconda relazione, infine, relativa all’autopsia del 19 giugno 1997 (30 mesi dopo la prima !) la dottoressa Del Vecchio riporta che “, si poteva procedere al prelievo di quota parte di visceri (fegato, reni, polmoni, cuore milza, stomaco) di muscolo, di osso (vertebra, osso del bacino e costa) e di sangue per gli ulteriori esami di laboratorio”.
«Anche se le quantità di materiale biologico prelevato non vengono mai riportate, si deve ragionevolmente ritenere che il contenuto dello stomaco rinvenuto all’autopsia del 1997 non dovesse essere costituito solo da alcuni cc di liquame, come affermato nella relazione del 1995, perché su tale materiale sono state effettuati una serie di accertamenti chimico-tossicologici – ricerca dell’alcool etilico, ricerca dei cianuri, ricerca di altre sostanze ad azione farmacologica (barbiturici, benzodiazepine, antidepressivi, ipnotici e tranquillanti) – che necessitano di quantitativi di materiale non esigui.
«Anche se solo parzialmente compreso nelle competenze tossicologico-forensi appare doveroso ricordare qui l’importanza del dato della presenza di cibo nello stomaco, in funzione, non solo delle valutazioni tanato-cronologiche, ma anche nell’identificazione del materiale ingerito, per un possibile riscontro con quanto dichiarato da eventuali testimoni.
«In quest’ottica, purtroppo, nessun prelievo e nessun accertamento è stato effettuato nel corso della prima autopsia e quelli relativi alla seconda hanno sicuramente scarso rilievo tossicologico in quanto, dato il tempo trascorso (30 mesi) sicuramente il materiale era interessato da profonde trasformazioni putrefattive.
«Entrando nello specifico delle problematiche tossicologico-forensi, sul contenuto dello stomaco sono state effettuate analisi per la ricerca dell’alcol etilico, che, come è noto, è una sostanza particolarmente volatile. Appare pertanto sorprendente che, in un campione prelevato 30 mesi dopo il decesso, in uno stomaco che era stato aperto dopo la prima autopsia (il medico legale aveva visto pochi cc di liquame brunastro!) vi sia ancora la presenza, seppur in quantità esigua ma significativa (0,3 g/litro), di alcool etilico.
«E tale dato è ancora più sorprendente se viene paragonato all’esito dello stesso accertamento effettuato sul sangue, sia quello prelevato nel corso dell’autopsia del 1995, sia quello (!!) prelevato nel 1997: in entrambi i campioni l’analisi da esito negativo (anche se nel campione del 1997 viene utilizzata la dicitura “non dosabile”).
«Alla luce di tali risultati è verosimile che il consulente abbia confuso per alcol etilico il picco cromatografico di sostanze volatili di origine putrefattiva ovvero che l’alcol riscontrato sia esso stesso di origine putrefattiva. In questa seconda ipotesi, tuttavia, tracce di alcol sarebbero dovute essere presenti anche nel sangue.
«Nel contenuto dello stomaco è stato effettuato anche un saggio colorimetrico per la ricerca della eventuale presenza di cianuri. Anche per questa sostanza vale quanto già detto per l’alcol etilico. «Nello stomaco, in presenza di acido cloridrico, i cianuri si trasformano in acido cianidrico, sostanza particolarmente volatile e, come ricavabile dalla letteratura, se le analisi non vengono eseguite tempestivamente, è molto improbabile che possano essere rilevati.
«Focalizzando l’attenzione sulle indagini chimico-tossicologiche relative ai prelievi effettuati nel corso dell’autopsia del 1995, così come desunte dalla relazione si può osservare quanto segue.
«Le analisi descritte, ad eccezione della determinazione dell’alcol etilico, appaiono molto generiche e non in grado di determinare la presenza di eventuali sostanze tossiche, soprattutto se presenti in concentrazione non particolarmente elevate. L’unica tecnica impiegata dotata di qualche validità scientifica e quella RIA (radio immuno assay) impiegata per la ricerca di oppiacei e cocaina. «Avendo fornito esito negativo è possibile escludere la presenza nel sangue e nella bile di oppiacei (particolarmente morfina) e cocaina.
«Tutte le altre tecniche descritte – la spettrofotometria U.V., cromatografia su strato sottile (TLC), l’estrazione secondo la tecnica di Stass-Otto, il metodo di Felby per la ricerca degli oppiacei – sono (e lo erano anche nel 1995) tecniche obsolete, dotate di scarsa o nulla specificità e/o sensibilità e che nessun tossicologo applicherebbe per l’accertamento di una eventuale intossicazione o avvelenamento.
«Sui liquidi biologici prelevati nel corso della prima autopsia non sono stati effettuati accertamenti per la ricerca dei principali veleni metallici (arsenico, tallio, ecc.) né di altre possibili sostanze tossiche, soprattutto quelle che possano agire a piccole dosi (cianuri, esteri fosforici, digitale, ecc.).
«Sulla base di quanto sopra detto appare di tutta evidenza come le indagine sono state del tutto inappropriate dovendosi, per questo, concludere che, ai fini di chiarire se nel caso in discussione si è trattato di una intossicazione o un avvelenamento, le analisi allora effettuate sono del tutto inutilizzabili, restando insoluto l’interrogativo circa l’influenza di fatto tossico nel determinismo della morte.
«Per quanto concerne le analisi effettuate sui liquidi biologici prelevati nel corso della seconda autopsia (1997), preliminarmente è doveroso evidenziare che, a causa del tempo trascorso dal decesso, il materiale era sicuramente interessato da gravi fenomeni trasformativi dovuti allo stato di putrefazione. In tali condizioni, qualsiasi accertamento risulta sicuramente compromesso dallo stato del materiale biologico che rende assai difficile l’identificazione di eventuali sostanze tossiche esogene.
«Entrando nello specifico delle analisi eseguite, nonostante il quesito del Magistrato richiedesse “ulteriori” accertamenti chimico-tossicologici, in pratica i consulenti si sono limitati a ripetere analisi già effettuate, e non si comprende se sui prelievi della prima autopsia o su quelli, del tutto improbabili, della esumazione.
«Ancora una volta sono state utilizzate tecniche obsolete e generiche (spettrofotometria U.V., cromatografia su strato sottile, saggi colorimetrici); la gascromatografia con rivelatore di massa, indispensabile in un laboratorio di tossicologia forense, è stata utilizzata solo per l’analisi del contenuto dello stomaco e di un omogeneizzato di visceri, trascurando gli altri campioni biologici. I tracciati relativi alle analisi mediante gascromatografia con rivelatore di massa non sono stati allegati alle relazioni peritali e, pertanto, non possono essere commentati.
«In queste analisi, inoltre, le perplessità maggiori sono fornite dalle tecniche utilizzate per estrarre le eventuali sostanze tossiche dal materiale biologico: la tecnica è specifica e sensibile ma se l’estrazione non lo è altrettanto, l’analisi diventa inutile. Infine, l’abitudine ad analizzare omogenati di organi mescolati tra loro è assolutamente da censurare: un tossico presente in un solo organo viene “diluito” nella massa complessiva e può essere non più rilevabile (concentrazione inferiore al limite di rilevabilità del metodo).
«Anche sul materiale prelevato (?) dal cadavere esumato sono state eseguite indagini mediante tecniche immunochimiche (RIA) focalizzate sulle due principali sostanze stupefacenti (oppiacei e cocaina). Ma se i liquidi biologici sono stati prelevati in tempi diversi ma dallo stesso cadavere, perché ripetere le stesse analisi che avevano già dato esito negativo?
«L’analisi del materiale pilifero è superflua in quanto, nel caso in cui si fosse trattato di una intossicazione acuta (ad es. un avvelenamento), la morte sopravvenuta rapidamente avrebbe comunque impedito al tossico di raggiungere la matrice cheratinica. Affinché una sostanza dal sangue raggiunga il bulbo pilifero, venga inglobata nel capello nel momento in cui si sta formando, il capello fuoriesca dal cuoio capelluto e cresca quel tanto che basta per consentirne il taglio con forbici (in genere non si usa, se non per esperimenti scientifici, di rasare i capelli), è necessario un periodo temporale che può essere calcolato tra 15 e 30 giorni, periodo temporale incompatibile con l’ipotesi di una intossicazione acuta.
«Nelle analisi su materiale pilifero, l’identificazione delle sostanze è possibile solo in caso di assunzioni ripetute, abituali o croniche quando le quantità presenti sono compatibili con la sensibilità della strumentazione utilizzata.
«Anche per quanto attiene a questo secondo gruppo di analisi si deve ripetere quanto sopra detto a proposito delle prime, e cioè che sono del tutto inutilizzabili.
«Premesso quanto sopra, e preso atto della scarsa affidabilità degli accertamenti a suo tempo esperiti, ho ritenuto utile in questa sede un tentativo di approfondimento in ambito istopatologico essendo le inclusioni in paraffina e gli allestimenti dei vetrini l’unico reperto che è pervenuto utilizzabile dai precedenti accertamenti medico legali.
«Ho provveduto, pertanto, con l’assistenza della Anatomia ed Istologia Patologica dell’Università di Roma “Tor Vergata, alla revisione dei preparati istologici che ho acquisito nella sezione di Istologia dell’Istituto di medicina legale dell’Università di Roma “Sapienza” e ad un ulteriore allestimento di vetrini anche con nuove e più specifiche tecniche di colorazione.
«La lettura dei preparati così ottenuti ha permesso di obiettivare quanto segue:
«Cuore.
«Presenza di aspetti isolati in cui i miocardiociti assumono aspetto ondulato ed allungato (“a dune di sabbia”), talora con ipereosinofilia del citoplasma (miocitolisi coagulativa) come da processo coagulativo microfocale delle proteine e con quadri morfologici compatibili con bande da ipercontrazione, peraltro molto limitati e ristretti a piccoli segmenti.
«Presenza di aspetti non conclusivi ma suggestivi per edema interstiziale.
«Presenza di congestione acuta vascolare.
«Presenza di modificazioni morfologiche dei miocardiociti riconducibili a fenomeni postmortali.
«La valutazione immunofenotipica (LCA, CD3) non ha evidenziato un aumento dell’infiltrato infiammatorio intramiocardico, come segnalato in letteratura nelle condizioni di morte improvvisa di tipo cardiaco, nella maggior parte dei pazienti.
«Assenza di alterazioni significative dei vasi presenti nei vetrini esaminati.
«NON si osservano, nei vetrini in esame: frammentazione terminale delle miocellule, anomalie nucleari riconducibili ad un danno ischemico, fibrosi interstiziale significativa, miocardioagiosclerosi, (”evidente sofferenza delle arterie di piccolo e medio calibro”…), aumento del grasso periviscerale (che appare nella norma laddove valutabile in maniera adeguata) significativo per patologia cardiaca congenita.
«Si concorda con la valutazione istologica per gli altri organi, in particolare per l’intenso e diffuso edema polmonare e per l’altrettanto marcata congestione vascolare. La maggior parte delle alterazioni a livello dei vari organi sono peraltro di verosimile natura putrefattiva, fatta eccezione per la congestione vascolare.
«Dalla lettura di questi preparati istologici, in confronto con gli esami istologici fatti dal CT dottoressa Del Vecchio si possono trarre queste conclusioni: «Il quadro macroscopico descritto a livello del cuore esclude l’ipotesi di displasia aritmogena, tipica del ventricolo destro del cuore, non del sinistro.
«NON è presente fibrosi interstiziale nel cuore.
«NON è documentata in maniera certa una significativa coronarosclerosi che potrebbe giustificare una morte cardiaca improvvisa su base ischemica.
«La descrizione macroscopica del cuore sembra indicare una degenerazione bruna del miocardio di tipo terminale, la cui genesi è riconducibile a svariate cause, non ultima il cuore polmonare acuto.
«Conclusioni.
«Al termine delle indagine di consulenza tecnica che mi era stata affidata da Cotesta Commissione posso rilevare quanto segue.
«Innanzitutto i limiti della presente indagine sono apparsi subito evidenti al momento in cui ci si è resi conto che, ad eccezione del materiale istologico, nessun reperto dei precedenti accertamenti era più disponibile per poter ripetere le analisi e magari per approfondirle in un’ ottica più indirizzata ad individuare con sufficiente certezza la causa della morte del capitano Natale De Grazia.
«Allo stato non è possibile reperire nuovi reperti da utilizzare con profitto dovendosi escludere che una eventuale, rinnovata esumazione della salma possa dare la possibilità di indagare sui temi che qui interessano e cioè quelli della causa della morte con particolare riferimento alla presenza di sostanze tossiche.
«Non rimane che fare delle deduzioni sostenute dai pochi elementi di certa obiettività desunti dagli atti, tenendo anche conto di quanto acquisito nel corso delle audizioni delle persone che in qualche modo ebbero ad assistere nella circostanza della morte del capitano De Grazia.
«Bisogna subito sgombrare il campo da un equivoco che sembra essersi creato nel percorso investigativo sulle cause della morte.
«L’indagine medico legale condotta dalla dottoressa Del Vecchio si è conclusa con una diagnosi di morte improvvisa dell’adulto, facendo intendere che vi fossero in quel quadro anatomo ed istopatologico elementi concreti che potevano ben sostenere detta diagnosi. Questo non corrisponde alla verità scientifica.
«Ho poco sopra evidenziato come la lettura dei preparati istologici effettuata in questa sede smentisca quella della dottoressa Del Vecchio, la quale ha ritenuto di cogliere, nella sua indagine anatomo ed istopatologica, elementi deponenti per un preesistente danno miocardico di cui sarebbe stato portatore il capitano De Grazia; danno che poi è stato utilizzato per sostenere la morte improvvisa dell’adulto.
«Questo significa che, allo stato, non c’è nell’intera indagine alcun dato certo che possa supportare la morte improvvisa dell’adulto; diagnosi causale di morte, questa, che deve essere ritenuta non provata e nemmeno connotata da apprezzabili probabilità.
«Se noi qui dobbiamo fare una conclusione al termine di questa indagine dobbiamo dire che il capitano De Grazia non è morto di morte improvvisa mancando qualsivoglia elemento che possa in qualche modo rappresentare fattore di rischio per il verificarsi di tale evento. Si trattava infatti di soggetto in giovane età, in buona salute, senza precedenti anamnestici deponenti per patologie pregresse, che conduceva una vita attiva e, come militare in servizio, era sottoposto alle periodiche visite di controllo dalle quali non sembra siano emersi trascorsi patologici. E per altri versi l’esame necroscopico, al contrario di quanto è stato prospettato attraverso una analisi non attenta e piuttosto superficiale dei reperti anatomo ed istopatologici, non ha evidenziato nessuna situazione organo funzionale che potesse costituire potenziale elemento di rischio di morte improvvisa.
«E nemmeno quanto riferito dalle persone che erano presenti alla morte e che ne seguirono le fasi immediatamente precedenti, si accorda con una ipotesi di morte cardiaca improvvisa.
«Si sa infatti che il capitano De Grazia, subito dopo aver mangiato e messosi in macchina ha cominciato a dormire e quindi a russare in modo strano; ad un certo punto reclina la testa sulla spalla e per questo viene scosso dall’occupante il sedile posteriore dell’autovettura; a questa sollecitazione egli reagisce sollevando il capo ma non svegliandosi e senza dire alcunchè se non emettendo un suono indefinito; quindi poco dopo reclina definitivamente la testa e non risponde più alle sollecitazioni.
«Bene, mi risulta difficile avvalorare l’ipotesi di una morte cardiaca da ischemia miocardica su base aterosclerotica senza manifestazioni anginose, senza dolore che si sarebbe dovuto manifestare specie in quel momento in cui il capitano De Grazia è stato scosso ed ha avuto in momento di reazione seppure, come è stato riferito, in una specie di dormiveglia.
«Piuttosto, se si volesse proporre una ipotesi di causa di morte diversa da quella sopradetta, sembrerebbe più trattarsi di morte cardiaca secondaria a insufficienza respiratoria da depressione del sistema nervoso centrale, come suggestivamente depone il quadro di edema polmonare così massivo, incompatibile quasi con un arresto cardiaco improvviso del tutto asintomatico; come suggestivamente depongono le manifestazioni sintomatologiche riferite da chi ha potuto osservare il sonno precoce, il russare rumoroso, quasi un brontolo, la risposta allo stimolo come in dormiveglia, il vomito; tutte manifestazioni queste che, anche se non patognomoniche, ben si accordano con una progressiva depressione delle funzioni del sistema nervoso centrale.
«Quest’ultima, in carenza di incidenti cerebrovascolari, esclusi dall’autopsia, può riconoscere solo la causa tossica. Quale essa potrà essere stata, e se c’è stata, non lo si potrà più accertare.
«Purtroppo è stata irreversibilmente dispersa la possibilità di indagare seriamente sul versante tossicologico, da una parte per superficialità e forse inesperienza di chi aveva posto i quesiti con scarsa puntualità e poco finalizzati; dall’altra per l’insipienza della indagine medico legale che ha ritenuto trovarsi di fronte ad una banale morte naturale ed inopinatamente si è subito indirizzata, trascurando l’indagine globale, alla esclusiva ricerca di droghe di abuso in un caso nel quale, se c’era una ipotesi se non da scartare subito almeno da considerare per ultima, era proprio quella di una morte per abuso di sostanze stupefacenti; e pervicacemente ha insistito sulla stessa linea anche nella seconda indagine necroscopica.
«Oramai l’indagine tossicologica non è più ripetibile, neppure, come sopra accennato, con l’esumazione del cadavere, e quindi il caso, dal punto di vista medico legale deve essere, ad avviso del sottoscritto, considerato chiuso».
La Commissione, non avendo avuto la possibilità di audire nuovamente la dott.ssa Del Vecchio in ragione della cessazione delle attività d’inchiesta dovuta allo scioglimento anticipato delle Camere, ha comunque ritenuto opportuno inviare alla stessa una copia delle consulenza depositata dal professor Arcudi. La dott.ssa Del Vecchio ha fatto pervenire alla Commissione una nota di cui si ritiene doveroso dar conto perché in essa sono in qualche modo contenute le sue controdeduzioni rispetto ai rilievi effettuati dal Prof. Arcudi: Conclusioni. Le conclusioni della consulenza medico-legale del professor Arcudi impongono di valutare le risultanze dell’inchiesta precedentemente svolta in una chiave nuova e non poco allarmante. E’ vero che, come si ricorderà tra poco, già emergevano elementi di sospetto in relazione alla morte del capitano De Grazia, per tutto ciò che l’ha preceduta, e che non appare trasparente, e per ciò che è accaduto dopo la sua scomparsa. La consulenza del professor Arcudi, che appare analiticamente motivata, e scientificamente inattaccabile, arriva ad una conclusione inequivoca: escluse le altre cause, per l’assenza di elementi di riconoscimento, la morte è la conseguenza di una “causa tossica”. Aggiunge il professor Arcudi: “quale essa potrà essere stata, e se c’è stata, non lo si potrà accertare”. Ciò che risulta è che il capitano De Grazia ha ingerito gli stessi cibi di chi lo accompagnava nel viaggio, salvo un dolce: queste almeno sono state le dichiarazioni dei testimoni. Se così è, appare difficile ricondurre la tossicità ad una causa naturale, anche se non lo si può escludere in forma assoluta. Il capitano De Grazia, come risulta dalla ricostruzione dei fatti, stava conducendo indagini su tutte le vicende più oscure riguardanti il traffico illecito di rifiuti pericolosi e aveva costituito un gruppo di lavoro assai efficiente. Ciò nonostante, come ha riferito il maresciallo Moschitta “quando le indagini arrivarono a picco, e quindi stavamo mettendo le mani su fatti veramente gravi, coinvolgenti anche i livelli della sicurezza nazionale”, “De Grazia non venne più a effettuare le indagini con noi, perchè il suo comandante lo aveva bloccato”. Elementi di poca chiarezza sono stati riscontrati altresì in relazione alle ragioni del viaggio a La Spezia, essendo state fornite alla Commissione versioni del tutto diverse, tra le quali anche un contatto con un confidente. Fatto non meno significativo è che risulta violato il fascicolo giudiziario che conteneva la documentazione relativa alle indagini che aveva svolto il capitano De Grazia e che era stato esaminato dalla procura di Reggio Calabria alla ricerca vana del certificato di morte di Ilaria Alpi, che lo stesso capitano De Grazia aveva sequestrato a Comerio: stando alle dichiarazioni del dottor Neri, infatti, “delle 21 carpette numerate rinvenute, 11 erano prive di documenti”. Ma ciò che è parso inquietante alla Commissione è stato l’improvviso smembramento del gruppo investigativo che faveva capo a De Grazia, subito prima e subito dopo il suo decesso. Pochi giorni prima della morte del capitano De Grazia il colonnello Martini, che aveva avuto un ruolo di primo piano nell’attività investigativa, lasciò l’incarico di colonnello del Corpo forestale dello Stato per assumere il ruolo di direttore operativo della società municipalizzata di Milano impegnata nell’emergenza rifiuti. Le perplessità, in ordine alle ragioni di questa scelta, sono già state illustrate. Dopo la morte del capitano De Grazia il maresciallo Moschitta andò in pensione all’età di quarantaquattro anni. Il carabiniere Francaviglia chiese il trasferimento a Catania. L’ispettore superiore del Corpo forestale dello Stato, Claudio Tassi, dopo qualche mese dal decesso del capitano De Grazia, non si occupò più dell’indagine: a suo dire, non per sua iniziativa. Lo smembramento del nucleo investigativo, che stava operando in profondità sul riciclo illegale dei rifiuti, se si unisce alla causa della morte, identificata in un evento tossico, getta una luce inquietante sull’intera vicenda. Non è compito di questa Commissione pronunciare sentenze, né sciogliere nodi di competenza dell’autorità giudiziaria: tuttavia, non si può non segnalare che la morte del capitano De Grazia si inscrive tra i misteri irrisolti del nostro Paese.
Ecco il testo in cui Giorgio Comerio racconta la "sua" verità sul sistema per mandare in fondo al mare siluri pieni di rifiuti tossici. "Su di me dette e scritte solo fantasie". Il memoriale dell'affondatore di veleni, riportato da Anna Maria De Luca e Paolo Griseri su “La Repubblica”. Ecco il memoriale di Giorgio Comerio, l'uomo al centro delle inchieste delle procure italiane sul traffico di veleni di cui per anni è stato accusato di essere uno dei registi. Al punto che, intervenendo in Parlamento a nome del governo, Carlo Giovanardi lo ha definito "noto trafficante". Comerio ci ha inviato il testo per posta elettronica. Si tratta delle tesi difensive che lo stesso Comerio intende sostenere per replicare a quelle che lui definisce "fantasie" e che sono state invece oggetto delle inchieste dei pm. Il memoriale. Nel memoriale Comerio dà le sue spiegazioni sui punti più controversi della sua attività dalla Somalia connection alla scoperta del certificato di morte di Ilaria Alpi ritrovato tra le sue carte. E poi ancora: l'agenda con la scritta "lost ship" annotata proprio il giorno in cui affondò la "Rigel", al largo di Reggio Calabria, una delle presunte navi dei veleni. Comerio inizia spiegando i suoi progetti di affondamento dei rifiuti tossi sotto i fondali marini, portati avanti con i governi di mezzo mondo: "La tecnologia Free Fall penetror's - scrive - è stata sviluppata dagli Stati Membri della Comunità europea, congiuntamente con gli Stati Uniti, Svizzera e Canada per un investimento totale di circa 300.000.000 dollari USA. La tecnologia è una libera proprietà comune di tutti i cittadini delle nazioni che hanno investito su questo. I risultati sono pubblici e disponibili. E' possibile acquistare numerosi volumi a Parigi, in una libreria specializzata in tecnologia, che mostrano tutti gli studi e le analisi effettuate nell'Oceano Atlantico e dove si possono trovare anche le immagini delle testate penetratrici. Ma gli studi non sono stati continuati a causa della indisponibilità di fondi". In realtà il sistema di affondamento dei rifiuti con siluri sarebbe stato bloccato perché una convenzione internazionale vieta questa pratica. Comerio contesta questa versione spiegando che la rinuncia a utilizzare il sistema "non ha niente a che fare con la London Dumping Convention che in quel periodo non era in vigore e non era stata firmata da diverse nazioni come Stati Uniti, Australia, Russia, ecc". Addirittura, aggiunge, "la Federazione Russa per diversi anni (ma anche ora?) ha disperso rifiuti radioattivi incapsulati in elementi di cemento nel mare di Barents e Kara, vicino all'isola Novaja Zemija. Nessuno poteva fermare quella attività". Infatti, sostiene Comerio, "la London Dumping Convention riguardava solo lo smaltimento illegale dei rifiuti in mare e non un sistema ben realizzato e sicuro per depositare penetratori sotto il letto del mare in zone sicure, con una precisa mappatura subacquea e test di prova per la procedura". Comerio iniziò quindi in quegli anni la sua attività "ma solo dopo aver ricevuto una risposta positiva circa l'uso dei Free Fall Penetrators". La risposta veniva "da un consulente di diritto internazionale con sede a Locarno (Svizzera). Solo a quel punto iniziai l'attività di marketing offrendo la tecnologia (e non i servizi di dumping) agli enti governativi interessati". Comerio definisce l'uso della Free Fall Penetrators "un modo per risolvere il livello medio dello smaltimento dei rifiuti radioattivi (composto da elementi radiologici ospedalieri, tute di lavoro ecc ma non da elementi ad alta energia). Una soluzione capace di ridurre la dipendenza dall'uso del petrolio e dai signori del petrolio". E racconta come "la tecnologia sia stata presentata ufficialmente dall'European Joint Research Centre in numerosi eventi pubblici dedicati alla tecnologia, mostrando i modelli, immagini, video, diagrammi, per vendere l'uso di un certo numero di elementi hardware che compongono il sistema, sia ai privati che alle società". Niente di illegale quindi, secondo l'autore del memoriale, perché "è stata una strategia finanziaria della Comunità europea per provare a recuperare un minimo degli investimenti fatti, incassando royalties dallo sviluppo dei diversi elementi di tecnologia che compongono il sistema di smaltimento. Con nessun risultato.. Uno dei team leader di quel periodo, il prof. Dr. Avogadro, potrebbe confermarlo". In questo quadro Comerio si definisce "uno dei diversi fornitori di elementi che compongono il sistema: "Ho venduto al Jrc la boa in grado di raccogliere dati sott'acqua e di trasmettere tutte le informazioni da un satellite ad una stazione centrale di controllo che si trova in Germania". Anni dopo Giorgio Comerio fonda Odm, "come un provider che offre la sua tecnologia solo a organi di Governo o a società governative. Odm non è mai stato in contatto con soggetti privati, ma solo con le istituzioni nazionali tramite le ambasciate. Odm non è mai stato coinvolto in alcuna attività illegale. L'attività iniziale di marketing è stata fatta presso l'Ufficio del Lugano, illegalmente attaccato dagli attivisti di Greenpeace. Ogni tipo di documento è stato analizzato dalla polizia svizzera e dal Procuratore di Lugano e, dopo due settimane di dettagliate analisi, la Corte svizzera ha riconosciuto che l'attività Odm era solo un legal marketing preliminare senza connessioni con qualsiasi tipo di attività illegale o criminale. In seguito gli attivisti di Greenpeace tedeschi sono stati condannati dalla Corte di Lugano. L'attività di marketing è stata realizzata contattando solo le ambasciate delle possibili nazioni interessate. Senza alcun risultato (testualmente with no result at all). Dopo questi eventi l'ufficio Odm è stato chiuso e l'attività di marketing è stata stoppata". Questa versione dei fatti contrasta con il fatto che Comerio è stato accusato dalla magistratura italiana di aver partecipato, in realtà, a un vasto traffico di armi e veleni. Ecco le risposte che l'accusato ha voluto fornirci. Comerio inizia dicendo che "la fantasia italiana è uno sport nazionale" e che "copie dei documenti di Comerio sono stati presi in consegna, come 'corpo del reatò da parte della procura di Catanzaro e delle copie sono state "diffuse" da attivisti di Greenpeace su testate "specializzate" come "Cuore", "Il Manifesto", "L'Espresso", ecc ecc. Risultato: una serie di fantastiche "connessioni" riportate dalla stampa italiana". E le affronta una per una. Somalia connection. Comerio dice che la tecnologia Odm era pubblica e totalmente disponibile sul web in diverse lingue. Senza segreti, nessun modo di agire "sotto il tavolo". E spiega: "Odm è stato avvicinato da un gran numero di studenti, ricercatori e anche uomini d'affari. Uno di loro ha proposto di prendere contatto con il Governo somalo. Ma prima di prendere qualsiasi contatto con l'ambasciata somala, Odm ha chiesto all'Ufficio delle Nazioni Unite a Ginevra (Svizzera) un chiarimento sul governo della Somalia. La risposta è stata negativa. Al momento sembrava non ci fossero ufficiali in ricognizione per conto del Governo. Così Odm non ha proceduto in ulteriori contatti con l'uomo d'affari privato". Ilaria Alpi connection. Scrive Comerio: "Si tratta di una pura falsità. Sembra che in casa mia sia stato trovato un inesistente certificato di morte della signorina Alpi. L'unico certificato di morte che avevo era quello della signora Giuseppina Maglione, morta il 9 febbraio 1996, per il cancro, mia suocera". "Jolly Rosso". "Sulla stampa è stata pubblicata una storia divertente. A bordo della Jolly Rosso sarebbe stata trovata una mappa dei fondali del mare realizzata da Odm con possibili sedi di dumping nel mare Mediterraneo. Ma nessuna delle autorità ha mai mostrato questa mappa. Del tutto normale. Odm ha iniziato la sua attività anni dopo lo spiaggiamento della Jolly Rosso, e non sono stati individuati luoghi valutati da Odm come aree di smaltimento nel mare Mediterraneo". La connessione "Rigel" e la differenza tra "Lost" e "affondato". "Per Greenpeace e la Procura di Palermo c'è una connessione tra Comerio e una nave "Rigel" scomparsa presso l'isola di Ustica. Il motivo? Dentro una delle agende del signor Comerio è stata scritta la frase 'perso la navè nella settimana nella quale sembra scomparsa una nave nei pressi di Ustica .. In effetti il signor Comerio a quel tempo perso il traghetto dalla Gran Bretagna alla Francia. (Vela da St. Peter Port - Guernsey - a St. Malo - Francia). Era abbastanza difficile da spiegare che "perso" non significa "sommerso" .. Dopo mesi di indagini la connessione con Comerio è stata abbandonata". Affondamenti illegali nel Mediterraneo. È il capitolo più scottante nelle vicende che lo riguardano. Comerio risponde in modo articolato e parlando in terza persona. "Per un certo numero di giornalisti - scrive - lo scarico dei rifiuti illegali nel Mediterraneo era legato ai piani di ODM". Ma questo, dice, è falso per diverse ragioni: "Prima di tutto nelle mappe del ODM tra le possibili aree di smaltimento non c'era nessuno punto nel Mar Mediterraneo. Tutti i settori considerati erano solo in oceano aperto. In secondo luogo: il signor Comerio non è mai stato in contatto con elementi criminali: non vi è alcuna prova di un contatto del genere in tutta la sua vita. In terzo luogo, per un lungo periodo il signor Comerio ha lavorato con la sua società Georadar proprio per smascherare le discariche di rifiuti chimici pericolosi. Georarad ha goduto di importanti citazioni in letteratura scientifica. È stata citata su riviste e nei servizi della Rai3 Lombardia. La tecnologia Georadar è stata presentata dal dottor Comerio al Collegio degli ingegneri di Milano con positivi riscontri. Quella stessa tecnologia è stata utilizzata dalle Ferrovie, da Enel, Sirti, Agip e da importanti società in Italia, Svizzera e Germania. Le attività di Georadar sono iniziate nel 1988-89". Grazie a quella tecnologia (un sistema di indagine sotterranea), Comerio sostiene di "essere stato incaricato di collaborare con i giudici di Milano Antonio Di Pietro e Francesco Greco. Con il primo per scoprire alcuni fusti nascosti in diverse località del Nord Italia, con il secondo durante le indagini su un rapimento". Nel memoriale si aggiunge che "Comerio ha collaborato a diverse ricerche archeologiche in antiche chiese nel Nord Italia e ha collaborato alla scoperta a Roma dei resti del ponte di Muzio Scevola. All'epoca ha lavorato per il ministero dei Beni Culturali. Per un breve periodo è stato anche iscritto al Partito dei Verdi a Milano". Ecco dunque la conclusione: "La storia personale del signor Comerio mette in evidenza come egli abbia sempre lavorato a fianco della Legge e della difesa dell'ambiente e mai contro".
IL MISTERO DI GIANCARLO SIANI.
Giancarlo Siani, il mistero durato 15 anni. Testo e Video di Antonio Castaldo del 22 settembre 2016 su "Il Corriere della Sera/Tv. E quel sogno alla fine realizzato. Il fratello Paolo e l’amico e compagno d’avventura Antonio Irlando raccontano il cronista ucciso il 23 settembre 1985. Giancarlo Siani era un ragazzo. Aveva compiuto 26 anni quattro giorni prima di essere ucciso. Ed era un giornalista. Quella estate, la sua ultima estate, aveva fatto il suo ingresso nella redazione centrale de «Il Mattino». Non era ancora la fine della gavetta, «l’assunzione» tanto attesa, ma il primo passo concreto in quella direzione. Per il giornale di Napoli lavorava però già da qualche anno come corrispondente da Torre Annunziata. Lui, figlio della Napoli bene, spedito dal borghese Vomero al cuore vesuviano della guerra di camorra. A Torre, solo un anno prima, 8 persone sono state falciate dal fuoco di 14 killer giunti nel fortino del clan Gionta a bordo di un autobus turistico. «E a Torre Annunziata Giancarlo sfornava una notizia dopo l’altra, fino a scrivere quasi mille articoli in pochi anni», racconta Paolo Siani, che si è speso con grande energia per mantenere accesa la stessa fiamma di energia e impegno che animava suo fratello. «Pezzo dopo pezzo - racconta l’amico e compagno di mille avventure da cronisti sul campo, Antonio Irlando - Giancarlo stava raccontando una città. Non so se consapevolmente o meno, ma l’intero corpus di tutto il suo lavoro, le notizie che cercava, quelle che trovava mettendo insieme situazioni apparentemente slegate, costruivano un’unica narrazione, ma basata sui fatti». E siamo al 23 settembre 1985. Sono le 21 circa di un tranquillo lunedì di settembre. Siani ha appena terminato la sua giornata di lavoro in redazione. Sostituto estivo, abusivo come si dice in gergo. Sale a bordo della sua macchina, quella Mehari verde che annunciava il suo arrivo a decine di metri di distanza. Risale dal mare su in collina, saluta gli amici che lo aspettano in piazza, e va a parcheggiare al solito posto, sotto casa. Lì i killer lo stanno aspettando da almeno un paio di ore. Lo colpiscono alla schiena, otto proiettili. Una sentenza passata in giudicato nel 2000 ha stabilito che ad uccidere il giornalista napoletano sono stati gli affiliati del clan Nuvoletta. Nel giugno precedente Siani aveva alluso in un suo articolo alla possibilità che i boss di Marano avessero venduto ai carabinieri il capoclan di Torre Annunziata, Valentino Gionta, per compiacere i potentissimi Alfieri e Bardellino. Un’offesa a quanto pare insopportabile: «Come? Noi mica siamo infami? Noi mica facciamo arrestare le persone?», avrebbe urlato Lorenzo Nuvoletta, poi diventato famoso per aver sciolto nell’acido svariati nemici. E dal momento che il lavoro assiduo e coraggioso di Siani dava fastidio alla stessa famiglia Gionta, arrivò l’ordine: il giornalista doveva morire. Per giungere a questa verità processuale sono stati impiegati 15 anni. L’inchiesta partita con slancio si è imbattuta lungo la strada in alibi spuntati dal nulla che hanno vanificato arresti presentati come definitivi; cambi di direzione nelle indagini dopo anni spesi su false piste; identificazioni confuse in un valzer di sosia e figuranti. Eppure in tanti anni, nonostante i molti testimoni oculari, mai neppure un identikit. Decine di sigarette certamente fumate dal killer, ma non un Dna, al massimo il gruppo sanguigno di uno dei due assassini. «C’è stato qualche intoppo», sintetizza oggi Paolo Siani con una certa eleganza. I faldoni dei tanti processi Siani occupano un grosso armadio negli archivi del tribunale di Napoli. La vicenza giudiziaria ha avuto uno svolgimento tanto lungo e complesso da presentare più di una porosità. E i dubbi, quasi ricalcando l’andamento carsico del processo, ciclicamente si riaffacciano. «Il sangue di Giancarlo Siani è scorso in maniera diversa da quella di altre vittime di camorra». Lo scrive Roberto Paolo, giornalista del quotidiano «Il Roma», che in un libro apparso nel 2014, «Il caso non è chiuso», (edizione Castelvecchi), rianalizza l’interminabile sequenza di atti d’indagine e percorre nuove piste. O meglio, piste battute in un primo momento dagli inquirenti ma poi abbandonate. Spunti su cui anche la Procura di Napoli è tornata ad indagare, senza poter approdare, ad oggi, a nessuna altra verità possibile. Quel ragazzo che voleva fare il giornalista e che sul fondo della sua ultima estate stava per trovare il suo primo contratto, non è morto invano. Anzi, per Napoli, in un certo senso, Giancarlo Siani non è mai morto veramente: «Nei mesi successivi al delitto - racconta Paolo - incontravamo difficoltà a parlare di camorra nelle scuole. Gli insegnanti ci dicevano: che c’entra la scuola con la camorra, non è cosa nostra. Oggi io non riesco ad andare in tutte le scuole che mi chiamano». Col passare degli anni, e dell’inesausta attività dell’associazione che oggi porta il nome di Giancarlo, quella situazione è cambiata: «Giancarlo voleva cambiare il mondo», conclude Irlando. «Con i suoi articoli, i suoi dubbi, le sue continue domande. E chissà, alla fine in fondo ci è riuscito».
IL MISTERO DI WALTER TOBAGI.
Caso Tobagi: i giornalisti che furono condannati dicevano la verità, scrive Francesco Damato il 4 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". Le ombre sul delitto del 1980. L’articolo del magistrato Guido Salvini che il Corriere della Sera ha curiosamente pubblicato solo in edizione on line, e in Cronaca di Milano (e che pubblichiamo qui sotto), ha il merito di ribadire, in polemica tanto dettagliata quanto civile con i suoi colleghi Ferdinando Pomarici e Armando Spataro, gli inconvenienti in cui purtroppo incorsero, per sottovalutazione o altro, le indagini sul mortale attentato terroristico subìto nel 1980 dal povero Walter Tobagi. Del quale non riesco mai a scrivere senza commuovermi perché, oltre che un collega, Walter era un carissimo amico. Lo ricordo ancora quando veniva a Roma a fare le sue inchieste e trovava sempre il tempo per fare due chiacchiere con me in un ristorante vicino Piazza Navona. Ah, Walter, quanto mi manchi da quasi 37 anni. Eri un giornalista serio e generoso, oltre che coraggioso. I colleghi Renzo Magosso e Umberto Brindani, per quanto condannati pesantemente, hanno avuto la fortuna di incontrare alla fine nei loro percorsi giudiziari un magistrato come Guido Salvini. Che ha avuto la pazienza, la competenza e il coraggio di riabilitarli, almeno sul piano mediatico per ora, rispetto all’accusa di avere diffamato chi non accertò bene le responsabilità del delitto Tobagi. Walter, già scampato a un sequestro, sarebbe sfuggito anche alla morte se inquirenti, Carabinieri e quant’altri avessero saputo utilizzare le informazioni di cui pure disponevano su ciò che si stava preparando contro di lui. Grazie agli approfondimenti e alle rivelazioni del dottor Salvini, già occupatosi come magistrato del sequestro di Tobagi tentato due anni prima dell’assassinio, potranno forse ottenere giustizia con le nuove garanzie della giurisdizione internazionale. Temo che così non potranno fare per ragioni di tempo i parlamentari socialisti e i giornalisti dell’Avanti!, con l’allora direttore politico Ugo Intini in testa, che nel 1985 furono condannati per avere criticato la conduzione delle indagini sull’assassinio di Tobagi e il processo che seguì. L’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi, come è stato di recente già ricordato su questo giornale, rischiò di essere “processato” dal Consiglio Superiore della Magistratura per avere osato condividere le critiche dei suoi compagni di partito. A salvarlo fu l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che minacciò l’uso dei Carabinieri per impedire al Consiglio Superiore, peraltro da lui stesso presieduto per dettato costituzionale, di sostituirsi al Parlamento nei rapporti col capo del governo in carica. In quei tempi c’era ancora l’autorizzazione a procedere, per cui i deputati socialisti denunciati per diffamazione dall’allora pubblico ministero di Milano Giuseppe Spataro non avrebbero potuto essere processati senza il consenso della Camera. Che fu dato a scrutinio segreto, con un incrocio di sì dell’opposizione comunista e della sinistra democristiana. Alle condanne penali seguirono, con i soliti tempi della giustizia di rito italiano, quelle civili per un ammontare complessivo di circa trecento milioni di lire. Che i giornalisti dell’Avanti! pagarono di tasca loro per il sopraggiunto fallimento della storica testata del Psi. Tanto volevo ricordare solo per rinfrescare la memoria a quanti vorrebbero rimuoverla, fra magistrati, politici e giornalisti.
Dopo 30 anni si riapre il caso Tobagi. Intervista al giudice Guido Salvini: «Gli 007 sapevano», scrive Rocco Vazzana il 18 gennaio 2018 su "Il Dubbio". Walter Tobagi è morto a causa di una serie di leggerezze investigative. È la tesi del giudice Guido Salvini che riapre un capitolo dolorosissimo degli anni di piombo: l’assassinio dell’inviato del Corriere della Sera, avvenuto il 28 maggio del 1980 per mano del terrorismo rosso. E a distanza di tanti anni spunta un’informativa dei carabinieri che aveva messo in guarda sui pericoli che correva il giornalista. Ma gli investigatori non diedero peso a quell’avviso. «La Procura in un primo momento prova a negare persino l’esistenza di questa informativa, ma quando viene prodotta la copia del documento ne sminuiscono il contenuto, giudicandolo poco attendibile», spiega Guido Salvini, il giudice che ha ritrovato quel documento. Senza alcune leggerezze investigative Walter Tobagi si sarebbe potuto salvare. È questa la tesi del giudice Guido Salvini che riapre un capitolo buio degli anni di piombo: l’assassinio dell’inviato del Corriere della Sera, avvenuto il 28 maggio del 1980 per mano del terrorismo rosso.
Giudice, perché secondo lei Tobagi avrebbe potuto salvarsi?
«Per rispondere a questa domanda bisogna fare qualche passo indietro rispetto all’omicidio del giornalista per accorgersi che qualcosa non torna nelle indagini. Quando qualche mese dopo l’assassinio viene arrestato per reati minori Marco Barbone, leader della Brigata XXVIII marzo e tra gli esecutori dell’omicidio, il Nucleo antiterrorismo sostiene di aver scoperto da poco un volantino manoscritto in una sede delle Formazioni comuniste combattenti in cui era possibile riscontrare la grafia di Barbone. E questo dettaglio viene considerato un elemento di accusa importante. Ma da un punto di vista investigativo c’è qualcosa che non torna, è poco verosimile, non è mai successo che si trovi un testo scritto a mano e tra centinaia di persone, perché a Milano centinaia di persone appartenevano a formazioni terroristiche, si individui a colpo sicuro una persona».
E come arrivano allora a Barbone secondo lei?
«La storia è un’altra. Io sono riuscito a trovare una relazione dei Carabinieri datata 4 giugno 1980, appena una settimana dopo l’omicidio, in cui viene riportata un’attività di appostamento sotto casa di Barbone e della sua fidanzata, Caterina Rosenzweig, per conoscerne i movimenti. Significa che subito dopo la morte di Tobagi gli inquirenti sanno già qualcosa e, a colpo sicuro, capiscono in che direzione indagare, come racconta nella sua relazione il maresciallo che ha fatto l’appo- stamento. L’ 11 giugno scattano le intercettazioni a Barbone, Rosenzweig e Morandini (altro componente del gruppo)».
Cioè, Tobagi è morto da una settimana e la Procura sa già quale gruppo ha agito e chi ha sparato. Indagini superefficienti o c’è qualcosa di strano?
«Secondo me dopo la morte del giornalista gli investigatori si rendono conto di aver commesso un grave errore. Capiscono cioè di aver sottovalutato le notizie che di cui già erano in possesso da tempo sul gruppo, grazie all’attività di Ciondolo, il sottoufficiale che era riuscito a infiltrarsi tra i terroristi attraverso Rocco Ricciardi, il “postino” che conosceva alcuni della Brigata XXVIII marzo. Ma quando si accorgono dell’errore è troppo tardi, Tobagi è già morto. E per non ammettere pubblicamente il grave errore provano a costruire una sorta di percorso alternativo per giustificare il successo postumo dell’attività investigativa. Da qui la storia del volantino manoscritto».
Quindi gli inquirenti capiscono di aver sbagliato e dopo la tragedia riaprono una pista che avevano scartato?
«Il Nucleo antiterrorismo aveva un confidente già da un anno. E durante il processo di primo grado salta fuori un’informativa del dicembre del 1979 in cui Ricciardi, “il postino”, mette in guardia Ciondolo sull’intenzione di uccidere Tobagi da parte di un nuovo gruppo terroristico che ha ripreso in mano un vecchio progetto delle Formazioni comuniste combattenti contro il giornalista. La Procura in un primo momento prova a negare persino l’esistenza di questa informativa, ma quando viene prodotta la copia del documento ne sminuiscono il contenuto, giudicandolo poco attendibile. Aggiungono poi che la Brigata XXVIII marzo non esisteva neppure all’epoca delle confidenze di Ricciardi. Ma è una ricostruzione debole. Perché, come racconta Francesco Giordano, altro fondatore del gruppo, loro si costituiscono nel novembre del 1979 col nome Guerriglia Rossa e cambiano denominazione poco dopo – trasformandosi in Brigata XXVIII marzo, in onore alle Brigate Rosse che aveva avuto quattro militanti uccisi a Genova in quella data – ma si tratta sempre dello stesso identico gruppo, formato dalle stesse persone: sei, che nel dicembre ‘ 79 facevano già rapine insieme».
Quell’informativa è l’unica occasione in cui Ricciardi parla del “progetto Tobagi”?
«I Carabinieri sostengono di sì. Ma Ciondolo smentisce, dice che incontrava il suo confidente Ricciardi almeno una volta a settimana e di aver redatto almeno trenta informative. Sono scomparse. In ogni caso, quella prodotta durante il processo venne resa pubblica dall’allora ministro della Difesa socialista Lelio Lagorio, generando la reazione della Procura che, invece di mettersi alla ricerca delle altre mancanti, si scaglia contro chi ha tirato fuori il documento. Ma la versione di Ciondolo è confermata dal generale Nicolò Bozzo, uomo dall’altissimo profilo morale e professionale, che ha ricordato la presenza di un grosso pacchetto di informative. Io stesso ho ritrovato una di queste informative per sbaglio, mentre lavoravo a un altro processo».
Senza questa sottovalutazione Tobagi si sarebbe salvato?
«Prima di rispondere a questa domanda voglio sottolineare una cosa. Io non credo che ci siano complotti da scoprire dietro la morte di Tobagi, cioè sono convinto sia stato ucciso dai sei di quel gruppo senza suggeritori o mandanti, convinti con quell’omicidio di poter entrare nelle Br. La storia del delitto maturato in ambienti P2 o tra gli stessi giornalisti comunisti per me non ha senso. Ma quando si commette un errore investigativo e si perpetua questo errore nelle aule di Tribunale, facendo condannare delle persone, l’errore diventa una colpa. E contribuisce ad alimentare dietrologie sbagliate. Io capisco che erano anni bui, con gambizzazioni e morti ogni settimana, un errore di sottovalutazione poteva succedere. L’importante è però correggere in corsa gli sbagli. Se avessero ascoltato Ricciardi forse Tobagi avrebbe avuto una scorta».
Craxi arrivò a via Solferino e disse: «Il mandante dell’omicidio è qui…», scrive Paolo Delgado il 18 gennaio 2018 su "Il Dubbio". Il leader socialista era convinto che l’omicidio fosse nato tra le stanze del Corriere della Sera. Oggi le dichiarazioni del giudice Guido Salvini, secondo cui i carabinieri di Milano erano stati a più riprese avvertiti dei rischi che correva il giornalista del Corriere della Sera Walter Tobagi, ucciso a 33 anni il 28 maggio 1980 dalla Brigata XXVIII marzo, una neonata formazione terrorista rossa, sono una curiosità storica, la prova di una sottovalutazione costata la vita a un giovane e molto brillante cronista. C’è stato un tempo in cui avrebbero fatto tremare dalle fondamenta tutti i palazzi del potere. Proprio intorno all’omicidio Tobagi si accese, negli anni ‘ 80, il primo grande scontro tra il Psi di Bettino Craxi e la procura di Milano, con tanto di intervento dell’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Il 5 dicembre 1985, nelle sue vesti di presidente del Csm, Cossiga vietò al Csm di discutere una mozione di censura contro l’allora presidente del Consiglio Craxi in seguito ai suoi attacchi rivolti alla procura di Milano per il caso Tobagi. Cossiga minacciò di recarsi di persona alla riunione del plenum del Csm per impedire il dibattito e fece schierare un battaglione di carabinieri in assetto antisommossa nei pressi di palazzo dei Marescialli, la sede del Consiglio superiore della magistratura, avvertendo che, se i togati avessero occupato l’aula per proseguire il dibattito sulla mozione contro Craxi, avrebbe ordinato di intervenire e sgombrare con la forza il palazzo. Per protesta tutti i 20 membri togati del Csm rassegnarono le dimissioni. Nella redazione del Corrierone Walter Tobagi, cattolico, socialista e craxiano, autore di libri articoli e inchieste sul terrorismo, non era molto amato. Faceva parte del comitato di redazione, era presidente dell’Associazione lombarda dei giornalisti, ed era ai ferri corti con la stragrande maggioranza del sindacato, vicino alle posizioni del Pci o della sinistra Dc. Nelle assemblee delle Federazioni regionale e provinciale della stampa gli attacchi durissimi contro il craxiano erano pane quotidiano. Sulle bacheche di via Solferino campeggiavano scritte come Walter Tobagi= Craxi driver. Gli assassini di Tobagi venivano da un ambiente molto vicino a quello del Corriere. La Brigata XVIII marzo (data in cui, in quello stesso 1980, i Nuclei del generale Dalla Chiesa avevano ucciso quattro brigatisti in via Fracchia, a Genova) era composta da ragazzi delle Milano bene: Marco Barbone, il leader che tirò il colpo di grazia a Tobagi, era figlio di uno dei dirigenti della Sansoni. Paolo Morandini era figlio del celebre critico cinematografico Morando. Caterina Rosenzewig, la fidanzata di Barbone (assolta per l’omicidio Tobagi), veniva da una famiglia ricca e amica dei Tobagi. Prima di uccidere Tobagi il gruppo aveva ferito alle gambe un altro giornalista, Guido Passalacqua. Avevano deciso di alzare il tiro in vista di un arruolamento nelle Brigate Rosse con ruoli dirigenti. Franco Tommei, uno dei principali esponenti dell’Autonomia milanese, che li conosceva bene, li definiva beffardo come sempre: «Yuppies del terrorismo». Scelsero Tobagi proprio perché, come disse barbone al processo, «era l’uomo di Craxi all’interno del Corriere e il Psi era secondo noi la forza politica che poteva ricompattare il potere». I killer di Tobagi vennero arrestati nel settembre 1980. Si pentirono praticamente prima ancora di ritrovarsi con le manette serrate ai polsi e uscirono di galera già nel 1983. Craxi non credeva alla versione dei terroristi, fatta propria anche dall’accusa, che negavano l’esistenza di mandanti. Era convinto che l’attentato fosse stato organizzato per colpire il Psi, e non dagli esecutori materiali. Basava la sua accusa sul volantino di rivendicazione, scritto in uno stile e con una punteggiatura inusuali per i testi diramati all’epoca dalle formazioni armate e insisteva sull’esistenza di un’informativa dei carabinieri che avvertiva di un possibile attentato contro la Questura. Lo stesso volantino, inoltre, conteneva un’informazione di cui difficilmente i giovani terroristi potevano essere in possesso: un brevissimo passaggio di Tobagi nel Cdr del Corsera (iverso da quello del Corriere della Sera) già nel 1974. La procura negò di essere mai venuta a conoscenza dell’informativa. Il ministro degli Interni Scalfaro confermò che almeno i carabinieri ne erano invece certamente in possesso. Un altro elemento di frizione tra il partito del Garofano e la procura di Milano riguardava la ‘ spontaneità’ della confessione degli assassini. Secondo la Procura avevano deciso di confessare quando non erano ancora neppure sospettati, tanto che lo stesso Dalla Chiesa si era mostrato ‘ sorpreso’. Proprio la confessione spontanea spiegava secondo la procura la mitezza delle condanne. Il Psi riteneva invece che il commando avesse deciso di parlare solo dopo essersi visto scoperto di fatto ottenendo una rapida scarcerazione in cambio della disponibilità a collaborare contro l’Autonomia milanese, dalla quale provenivano i ragazzi della XXVIII marzo. Seguì una raffica di accuse e di querele da parte della procura e in particolare del sostituto Armando Spataro che portarono al braccio di ferro del dicembre 1985 tra Quirinale e l’organo di autogoverno della magistratura, probabilmente il più esasperato conflitto istituzionale nella storia della Repubblica. Salvini sembra oggi dare ragione a Craxi. Sostiene infatti che le indagini sulla XXVIII marzo erano state avviate da tempo e cita un «documento in cui si parla di un appostamento sotto casa di Barbone già il 4 giugno, appena sei giorni dopo il fatto». Il giudice difende quindi i giornalisti Renzo Magosso e Umberto Brindani, condannati nel 2004 per diffamazione dopo aver denunciato su Gente sia le informative disattese dai carabinieri sia una perquisizione in casa Barbone, in via Solferino, vicinissima alla redazione del Corriere, avvenuta già due giorni dopo il delitto. Craxi non dimenticò mai il caso Tobagi. Qualche storico redattore del Corrierone ricorda ancora una sua visita nella redazione di via Solferino nella seconda metà degli anni 80. Bokassa gelò tutti quando, dopo essersi informato con finta disinvoltura sulle macchine da scrivere in uso nella redazione commentò: «E’ proprio con una macchina come queste che è stata scritta la rivendicazione dell’omicidio Tobagi, vero?. In anni più recenti le accuse più feroci contro l’ex leader del Psi sono arrivate dalla figlia di Tobagi, Benedetta, che nel suo libro del 2009, “Come mi batte il cuore”, aveva accusato il leader socialista di aver speculato sulla morte de padre e di aver nascosto una ‘ pista P2’ nella ricerca dei mandanti per l’omicidio del giornalista. Risposta durissima di Stefania Craxi che si disse «offesa» dalle «farneticazioni e allucinazioni» di Benedetta Tobagi, che all’epoca dell’omicidio del padre aveva sei anni. La Pista P2 in effetti è del tutto incredibile ma anche il teorema di Craxi sul complotto contro il Psi non è più realistico. Ma per il resto, dunque sulla sottovalutazione degli avvertimenti e sulla spontaneità delle confessioni degli assassini di Tobagi, tutti i torti Bokassa probabilmente non li aveva.
IL MISTERO DI MINO PECORELLI.
L’omicidio dimenticato: Mino Pecorelli, scrive Valter Vecellio il 20 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Il giornalista viene ammazzato la sera del 20 marzo a Roma, il processo in cui sono imputati anche Andreotti e la banda della Magliana vede tutti assolti. La sera del 20 marzo di 39 anni fa, viene ucciso a Roma, in via Orazio, poco prima delle 20,40, Mino Pecorelli. È il direttore di un settimanale Osservatore Politico, da tutti conosciuto (e avidamente letto) come OP. Il lungo iter giudiziario si conclude con la piena assoluzione degli imputati, tra cui Andreotti. Il delitto Pecorelli resta senza colpevoli. Ne abbiamo scritte e dette di ogni tipo, in questi giorni, sull’Affaire Moro, profittando del 40 anniversario della strage a via Fani. In questo oceano di parole, dove tutti hanno ricordato, rievocato, raccontato, interpretato, si registrano anche dei vuoti. Uno, clamoroso – ma ci si potrà tornare, ne vale, letteralmente, la pena – la furibonda polemica che si accende in generale attorno al distorto slogan “Né con lo Stato, né con le Br”, malevolmente attribuito come paternità, a Leonardo Sciascia: che mai ha detto quelle cose e le ha pensate. Occasione- pretesto per una lacerante polemica: quel che si sostiene e scrive (e si fa) attorno alle lettere che Aldo Moro in quei 55 giorni del sequestro e prima d’essere ucciso, merita d’essere pensato e ripensato. Ma nessuno si è ricordato (e ha riconosciuto) che Sciascia con il suo L’Affaire Moro (da tanti criticato e contestato, senza neppure averlo letto, due per tutti: Eugenio Scalfari e Indro Montanelli), aveva visto giusto, e soprattutto ha avuto il torto di avere ragione. Quelle lettere erano Moro, con quello che ne consegue. Ma oggi c’è un altro clamoroso “vuoto” con cui in qualche modo occorre fare i conti. La sera del 20 marzo di 39 anni fa, viene ucciso a Roma, in via Orazio, poco prima delle 20,40, un giornalista. L’assassino, o gli assassini, lo sorprendono a bordo della sua automobile, e lo crivellano con quattro colpi di pistola. Quel giornalista si chiama Mino Pecorelli, ed è il direttore di un settimanale Osservatore Politico, da tutti conosciuto ( e avidamente letto) come OP. Chi è Pecorelli all’epoca lo sapevano tutti gli addetti ai lavori (oggi, magari un po’ meno; per dire: nelle rievocazioni dei giornalisti uccisi, il suo nome non figura mai, eppure il tesserino rosso in tasca l’aveva lui pure. E che il suo non sia stato un suicidio, è sicuro…). Negli atti processuali, Pecorelli viene così descritto: «… Era uno spregiudicato e scanzonato avventuriero della notizia. Le sue allusioni più o meno decifrabili, la sua ironia, il suo sarcasmo talvolta incisivo ed elegante, talvolta greve e becero, disegnano la traccia di una personalità complessa ma, tutto sommato, ben delineabile. La traccia di una passione civile affermata con troppo chiari accenti di sincerità per non essere autentica, anche se posta al servizio di valori e di scelte discutibili. Una passione civile nella quale sopravvive lo spirito di avventura che lo aveva portato, a sedici anni, a combattere con le truppe polacche inquadrate nell’esercito inglese. E poi, il gusto di infastidire i potenti, di svelarne le meschinità piccole e grandi, di incrinarne la facciata impeccabilmente virtuosa. Soprattutto, come abbiamo detto, una personalità ingovernabile». Per tanti, se no per tutti, Pecorelli s’era fatta fama di “ricattatore”. Il non lieve particolare, è che non è morto lasciando particolari proprietà e “beni”. Certamente avrà cercato finanziamenti e sostegni, finalizzati alla sopravvivenza della sua rivista, di cui era anche editore. Certamente avrà pubblicato documenti e “materiali” che a qualcuno conveniva fossero pubblicati e resi noti. Un do ut des che ben conosce, e quasi sempre pratica, chi per mestiere frequenta aule di tribunale e palazzi del potere. Certamente Pecorelli dispone di ottimi contatti ed “entrature” nel mondo non solo dei servizi segreti, ma di coloro che “sanno”; ha una quantità di materiali e li pubblica. Non è insomma persona “comoda” per tanti, prova ne sia che a forza di “incomodare”, finisce come è finito. Perché Pecorelli merita d’essere ricordato, e qualcuno ancora oggi si adopera perché non lo sia? In soccorso vengono ancora gli atti processuali: «La lettura della collezione di OP nel periodo marzo 1978- marzo 1979 rafforza il convincimento che grazie ai suoi collegamenti… fosse a conoscenza di inquietanti retroscena o accreditandosi dinanzi ai lettori – forse a qualcuno in particolare – quale depositario di “riservatissime” informazioni. Sta di fatto che OP è stato l’unico organo di stampa a pubblicare, nella fase del sequestro, alcune lettere di Moro ai propri familiari… Grazie alle sue indiscusse entrature negli ambienti del Viminale e della Questura di Roma era dunque riuscito a procurarsi copia di quel carteggio epistolare…». C’è tantissimo altro (e di altro interessante, e che merita di essere letto e riletto con gli occhi e il senno dell’oggi) nelle duecentomila pagine chiuse in 400 faldoni del processo Pecorelli celebrato a Perugia; un labirinto di carte meritoriamente conservato e digitalizzato nell’Archivio di Stato di Perugia: uno spaccato di Italia di “ieri” e la cui ombra ancora si profila sull’ “oggi”. Un filo d’Arianna in questo labirinto viene da un recente libro, Il Divo e il giornalista scritto a quattro mani da Alvaro Fiorucci e Raffaele Guadagno (Morlacchi editore, pp. 377, 15 euro). Fiorucci è forse il giornalista che più di ogni altro può citare a memoria quella babele di carte. Cronista prima di Paese Sera, poi di Repubblica, per anni ha retto la sede della Rai di Perugia, e in questa veste ha seguito tutte le udienze di quel tormentato processo che ha visto sul banco degli imputati Giulio Andreotti, e Claudio Vitalone “mescolati” a mafiosi del calibro di Gaetano Badalamenti e Giuseppe Calò, un Massimo Carminati all’epoca giovane militante della destra estrema, ed elementi della Banda della Magliana. Guadagno, impiegato al ministero della Giustizia, in virtù del suo lavoro ha preso parte alle attività processuali, raccolto e catalogato quel mare di carte e certamente le conosce e sa “leggerle” come pochi. Il lungo iter giudiziario, va ricordato, si conclude con la piena assoluzione degli imputati. Il delitto Pecorelli resta senza colpevoli. Assolti coloro che venivano indicati come esecutori, assolti coloro che venivano indicati come mandanti. Ma, ricorda il procuratore di allora Fausto Cardella, «le carte restano per chi voglia conoscere un pezzo della nostra storia, ancora da scrivere». Il valore del certosino lavoro dei due autori consiste in una puntuale ricostruzione di una sconcertante successione di episodi e di fatti che hanno “segnato” la nostra storia recente. Una zona oscura e buia nella quale le nostre istituzioni hanno rischiato di perdersi. Fiorucci e Guadagno le elencano, e ogni “capitolo” parla: “Il memoriale di Aldo Moro scomparso”, lo scandalo Italcasse, le banche e gli “affari” di Michele Sindona, la truffa dei petroli… Sono tutte vicende che vedono Pecorelli e la sua OP protagonista, nel senso che pubblicano e rendono note indicibili verità, che tanti avevano interesse a tenere nascoste. Sullo sfondo, la eterna strategia della tensione a fini stabilizzatrici, gli anni di piombo, la vicenda Gladio, il terrorismo rosso e lo stragismo nero, le stragi e gli attentati della Cosa Nostra, i servizi che sempre si definiscono “deviati”, ma che erano (e presumibilmente sono) appunto quelli che chiamati a svolgere lavori sporchi… Pecorelli e il suo delitto sono parte integrante, dicono i due autori, di «un melting-pot che ribolle per più di un ventennio. C’è tutto questo nella sintesi dei processi per l’omicidio di un giornalista scomodo». Il libro è stato presentato ad Assisi, nell’ambito della prima edizione di “Tra me Giallo Fest”, dicono gli osservatori che l’appuntamento è stato tra quelli che ha riscosso maggior successo. Indicativo, che a un evento dedicato al “giallo” abbia suscitato maggior interesse una storia vera che sembra inventata, rispetto a tante altre storie inventate che posson sembrare vere.
IL MISTERO DI GIORGIO AMBROSOLI.
Ambrosoli, l’eroe borghese che l’Italia non ha dimenticato. Testo e Video di Antonio Castaldo del 10 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera/Tv. Ucciso a Milano l’11 luglio 1979. Il ricordo del figlio Umberto: «Per lui Paese si scriveva con la maiuscola». Il mese di luglio a Milano è sempre uguale. L’aria brucia sotto un sole martellante, ma il traffico, la gente, il ciclo continuo della metropoli in movimento è lo stesso di sempre. È estate piena, ma non è ancora tempo di vacanze. Era così Milano anche l’11 luglio del 1979, la sera in cui Giorgio Ambrosoli venne ammazzato. Il 29 gennaio di quello stesso 1979 i militanti di Prima Linea avevano ucciso a Milano il giudice Emilio Alessandrini. Il 20 marzo, a Roma, il delitto di Mino Pecorelli, giornalista depositario di molti segreti. E poi agenti di polizia e carabinieri caduti per mano del terrore. Solo un anno prima, l’8 maggio del 1978, il sequestro Moro si chiudeva con il ritrovamento del corpo dello statista in via Caetani. Sono gli anni di piombo. Ogni giorno qualcuno spara, assalta sedi politiche, uccide, minaccia, lancia bombe o progetta attentati. Ed è per questo motivo che, sebbene più volte minacciato, anche Ambrosoli girava per Milano senza scorta. Quella sera si disputava un incontro di pugilato. Ambrosoli aveva invitato nella sua casa di via Morozzo della Rocca alcuni amici per vedere il match. Finito il quale li aveva accompagnati a casa. Sceso dall’auto si sentì chiamare: «Avvocato Ambrosoli?». Ebbe il tempo di rispondere «sì». Poi William J. Arico, noto negli ambienti della «comunità italo-americana» di New York come Bill lo sterminatore, disse solo: «Scusi avvocato». E gli esplose contro 4 colpi di 357 magnum. Il «Corriere della Sera» del 29 settembre 1974 titolava a pagina 6: «Da domani sportelli chiusi alla Banca Privata di Sindona». Il giorno prima Ambrosoli aveva ricevuto dal governatore della Banca d’Italia Guido Carli l’incarico di commissario liquidatore. Telefonando alla moglie Annalori per comunicarle la notizia, dirà: «Sono solo». Un solo commissario liquidatore per un fallimento da centinaia di miliardi. Non era raro a quei tempi, ma neppure comune. E soprattutto era anomalo considerando le forze in gioco. Per i cinque anni successivi Ambrosoli, che all’epoca aveva 41 anni e un’unica esperienza nel settore fallimentare, fronteggerà Michele Sindona, personaggio potente e spericolato, con alle spalle Giulio Andreotti e mezza Dc, con relazioni che spaziavano dalla finanza internazionale alla P2 di Licio Gelli, fino al gotha della mafia siciliana. «Per quattro anni e mezzo mio padre lavorò duro alla liquidazione della Banca Privata. I primi tempi, rimaneva in ufficio tutto il giorno. Lo vedevamo a casa solo i primi tempi», aggiunge Umberto Ambrosoli, avvocato a sua volta e da qualche anno anche consigliere regionale in Lombardia per il Pd. Nel 2009 ha scritto «Qualunque cosa succede», un libro che ricostruisce la vicenda del coraggioso genitore. Fin dai primi tempi tentarono di blandirlo, di convincerlo ad assumere un atteggiamento morbido nei confronti della proprietà, ovvero di Sindona. Che contro l’evidenza legale di un crac multimiliardario, tentò in ogni modo di ottenere un accordo con la Banca d’Italia. Voleva fare salva la sua banca e con questo obiettivo mobilitò tutti i suoi contatti: da Andreotti a Gelli, dal ministro Gaetano Stammati al sottosegretario Franco Evangelisti, fino ai vertici di Bankitalia ed a Enrico Cuccia, già all’epoca influente tessitore di trame finanziarie, che finì per minacciare nei modi più espliciti. «Poi un giorno papà viene in possesso fortuitamente di un telex inviato agli uffici della banca. Scopre così l’esistenza di alcune società estere. Erano le cassaforti di Sindona. In qualità di commissario liquidatore, ne assume la guida. Un’operazione che qualcuno definì avventata, ma che gli consentì di recuperare i denari frutto di operazioni illecite che il banchiere aveva occultato». Ponendosi a capo della Fasco, Ambrosoli entra nella cabina di regia del gruppo sindoniano, svelando l’intreccio di partecipazioni e il traffico di fondi che fluttuano per l’Europa, da una banca all’altra. Sono coinvolti lo Ior di Marcinkus e la Democrazia Cristiana, esposizioni con coperture scarse o nulle e interessi girati «a nero» ai diretti, potentissimi, investitori. Ambrosoli non si ferma, non ha paura dei nomi grossi che incontra lungo la strada, la sua è una marcia decisa, senza tentennamenti. E quando circa sei mesi dopo consegna alla Banca d’Italia il primo frutto del suo lavoro, lo stato passivo della Banca Privata (che tra l’altro taglia fuori lo Ior), acclude un biglietto per il governatore: «Con i migliori sentimenti di devozione per avermi dato modo di servire in qualche modo il Paese». La strategia adottata per fermare Ambrosoli è un crescendo rossiniano. Dagli ammiccamenti si passa ai messaggi intimidatori, alle visite in studio di strani personaggi, poi alle minacce a lui e ai suoi collaboratori, primo fra tutti Silvio Novembre, il maresciallo della Guardia di Finanza che gli fu vicino fino all’ultimo e che rischiò il trasferimento sul Monte Bianco a motivo della sua leale collaborazione. A maggio, due mesi prima dell’agguato, trova nel parcheggio della banca, proprio davanti alla sua Alfetta blu, una pistola rubata dalla cassaforte del suo ufficio. Ambrosoli va avanti. In contatto costante con i magistrati che indagano sul crac e protetto dalla sola Banca d’Italia, prosegue il suo lavoro. Non si ferma neppure quando la voce anonima dall’accento siculo che lui ormai amichevolmente chiama «il picciotto» per le continue chiamate, gli urla: «Lei è degno soltanto di morire come un cornuto e un bastardo». La mattinata del 11 luglio 1979, poche ore prima di spirare sulla barella di un’ambulanza con quattro proiettili in corpo, aveva terminato la lunga audizione per la rogatoria che di lì a cinque anni riporterà in Italia Sindona. L’uomo che tre gradi di giudizio riconosceranno come mandante materiale del suo omicidio. In Italia esistono 8 «vie Giorgio Ambrosoli», tre «piazza» o «largo Giorgio Ambrosoli», innumerevoli scuole, spazi universitari, biblioteche, aule di tribunali. Non si tratta dell’omaggio a un funzionario diligente. A un rispettoso servitore dello Stato. Non è solo questo. Con le targhe, le medaglie, le celebrazioni, l’Italia onora un uomo coraggioso, un uomo libero. Ambrosoli ha fatto molto più di quanto in realtà gli era umanamente chiesto. Se si fosse limitato all’ordinario, se avesse portato a termine la liquidazione senza infastidire i potenti, nessuno lo avrebbe biasimato. Anzi, per lui si sarebbero spalancate le porte di una luminosa carriera. Gherardo Colombo, il magistrato che con Giuliano Turone indagò sull’omicidio, confidò un giorno ad Umberto: «Gli sarebbe bastato un sì talmente piccolo che nessuno se ne sarebbe accorto. E se qualcuno lo avesse notato, non avrebbe potuto opporre argomenti al fatto che si era trattato di un atto dovuto». Ma come con condivisibile ammirazione ama ripetere suo figlio, Giorgio Ambrosoli era «un uomo libero, persino dalla preoccupazione per la sua stessa incolumità». «L’eroe borghese», lo aveva definito Corrado Stajano nel libro ancora oggi celebrato come esempio di giornalismo d’inchiesta. Borghese forse perché non indossava divise e non aveva bandiere se non il tricolore cui era devoto. O forse perché, in un momento di forte contrapposizione sociale, ha dimostrato di essere il migliore tra quelli come lui. Un giurista, un avvocato, un professionista «eroe». Ha fatto il suo dovere e non si è fermato neppure di fronte alla morte.
«Masse di denaro a ignoti». La prima relazione ai pm di Ambrosoli su Sindona. Le carte dell’eroe borghese: complesso liquidare una banca. La ricostruzione delle operazioni per trasferire all’estero «enormi masse di denaro», scrive Sergio Bocconi il 12 ottobre 2016 su "Il Corriere della Sera". «Il 22.10.1974 il sottoscritto ha reso alla S.V. deposizione sui fatti emersi da un primo esame (...) ed ora è in grado di offrire una prima relazione...». Così Giorgio Ambrosoli, che ha assunto il 29 settembre 1974 le funzioni di unico commissario liquidatore della Banca Privata italiana, il cuore dell’impero in dissesto di Michele Sindona, scrive in apertura delle 14 pagine che compongono la «Prima relazione» al Procuratore della Repubblica (il pm che segue la bancarotta è Guido Viola, e Ovidio Urbisci è giudice istruttore) datata 21 marzo 1975. Il documento, inedito e che precede il primo rapporto inviato a Banca d’Italia il 26 giugno (Governatore è Guido Carli fino all’agosto 1975, poi gli succede Paolo Baffi), fa parte dell’archivio della Banca Privata riordinato, reso ora consultabile e conservato dalla Camera di commercio di Milano per conto dell’Archivio di Stato. Un «tesoro» composto da 8.944 fascicoli, dei quali 6.300 riguardano l’attività degli istituti che nel 1974 sono diventati la Privata mentre gli altri sono relativi all’attività liquidatoria di Ambrosoli e di chi ne proseguirà il lavoro dopo che l’11 luglio l’«eroe borghese» verrà ucciso dal killer William Arico su mandato di Sindona, agli interrogatori e agli atti della «scatole» societarie costruite dal bancarottiere. Colpiscono nella relazione le righe che definiscono tratti caratteriali e professionali di Ambrosoli come il senso del dovere e di responsabilità. «Per quanto dal 27.9 siano decorsi quasi sei mesi, il sottoscritto ha potuto dedicare poco tempo alle indagini ai fini della relazione, occupato dalla gestione quotidiana dell’azienda: se invero chiudere un’azienda è relativamente facile, assai più complessa e lunga è la liquidazione di un’azienda di credito la cui “vita” continua anche dopo la messa di liquidazione per i molteplici rapporti in essere soprattutto con l’estero». Il commissario sottolinea «la convinzione» che la Procura, disponendo delle relazioni degli ispettori di Bankitalia, abbia già elementi «per procedere nei confronti dei responsabili». Perciò ha dedicato l’attenzione «ai problemi più urgenti per svolgere le operazioni di liquidazione»: dalla formazione dello stato passivo alla «sistemazione presso altri istituti del personale dell’azienda». L’entità del dissesto che emerge dalla contabilità raggiunge 531 miliardi di lire, ma Ambrosoli spiega di aver «contenuto» il passivo in 417 miliardi «contestando crediti ed effettuando compensazioni». Nella relazione il commissario già traccia i meccanismi fraudolenti messi in atto dal bancarottiere: «Operazioni di affidamento a società estere per il tramite di poche banche straniere tutte o quasi strettamente collegate al gruppo Sindona». Così «enormi masse di denaro sono trasmesse all’estero e buona parte di tali importi è stata trasferita a beneficiari sconosciuti». Dai primi mesi del 1974 il gruppo ha «operato nella prospettiva del dissesto». Ambrosoli descrive poi perdite da prestiti “diretti” a società estere «non previste dal consiglio», «distorsioni contabili di gravità tale da alterare la veridicità dei bilanci». E si sofferma sulle operazioni in cambi non contabilizzate che portano alla «falsificazione di documenti contabili, all’occultamento di costi e ricavi»: sono pervenute «domande di tre creditori» fra cui lo Ior, l’Istituto del Vaticano, per «ingenti depositi in dollari», contabilizzati «invece come depositi di una banca estera presso la Privata». Le responsabilità? Fanno carico «a chi amministrava la banca, o meglio, disponendo della maggioranza azionaria, era l’ispiratore di ogni attività». A Sindona dunque. Sebbene «non meno gravi» sono quelle di «amministratori, sindaci, dirigenti che hanno passivamente ordinato, disposto ed eseguito». Nelle 14 pagine c’è già dunque tutto, o quasi, ciò che porterà al sacrificio di Ambrosoli. Il quale, pochi giorni prima, aveva scritto alla moglie Annalori: «Pagherò a molto caro prezzo l’incarico. Qualunque cosa succeda tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo».
IL MISTERO DI LUIGI BISIGNANI.
E' nel 2014 quando Luigi Bisignani, uno degli uomini più influenti della storia italiana, decise insieme al giornalista Paolo Madron - ex firma de Il Foglio, Il Giornale, Panorama, Sole24ore e ora direttore di Lettera43 - di svelare le verità più occulte che per moltissimo tempo mossero l'Italia. Politici, industriali, papi, ministri protagonisti di un libro senza precedenti che assume i toni di un romanzo. Il titolo "L'uomo che sussurra ai potenti" è evocativo di un personaggio capo indiscusso del network che guida le nomine più importanti del Belpaese dai ministri a quelle della Rai, dalle banche all'esercito. Un capolavoro da decine di migliaia di copie, edito da Chiarelettere, "L' uomo che sussurra ai potenti. Trent'anni di potere in Italia tra miserie, splendori e trame mai confessate". Descrizione: Ministri, onorevoli e boiardi di Stato fanno la fila nel suo ufficio per chiedergli consigli, disegnare strategie e discutere di affari. Luigi Bisignani è unanimemente riconosciuto come il capo indiscusso di un network che condiziona la vita del paese. Non c'è operazione in cui non ci sia il suo zampino, dalle nomine dei ministri a quelle in Rai, nei giornali, nelle banche e nell'esercito. La sua influenza arriva persino in Vaticano. In questo libro, per la prima volta, Bisignani decide di raccontarsi attraverso aneddoti ed episodi inediti. Da Andreotti e la P2 a Berlusconi e Bergoglio. Lui che non appare mai in tv, non scrive sui giornali e disdegna la mondanità. La sua testimonianza da questo punto di vista è unica. Ecco come funziona il potere, quello vero, che non ha bisogno di parole e agisce nell'ombra.
Chi è veramente Luigi Bisignani, uomo del mistero? Un identikit dell'uomo che sussurra ai potenti, scrive "Wuz". Un libro Chiarelettere che va esaurito nel giorno stesso in cui arriva nelle librerie. Al centro della curiosità vorace dei lettori, la figura di Luigi Bisignani, affarista conosciuto e temuto da moltissimi politici. Di lui, Berlusconi ha avuto a dire che era "l'uomo più potente d'Italia"... ma quali sono le cose che sappiamo con certezza, su questo Richelieu in sedicesimo la cui discrezione è direttamente proporzionale al potere che è in grado di esercitare? Ecco un breve estratto dal libro-intervista pubblicato da Chiarelettere, e firmato dal giornalista Paolo Madron. Sono solo poche righe, per tratteggiare un carattere che vedremmo bene portato sul grande schermo da Sorrentino, magari sulla falsariga di quella grottesca commedia del potere ammirata ne Il divo (che raccontava dell'esempio cui massimamente Bisignani si è ispirato nella sua quarantennale carriera dietro le quinte, e cioè Giulio Andreotti). Quello di Bisignani è un libro la cui lettura consigliamo; ci permettiamo però di consigliare qualche cautela nel prendere per buono tutto ciò che in esso viene raccontato. Se è vero che l'uomo è arrivato dove è arrivato grazie alle sue capacità strategiche e alla sua grande cautela, infatti, è difficile pensare che all'improvviso Bisignani abbia deciso di mettere sul piatto i segreti di cui è geloso custode (e al cui mantenimento è probabilmente legato l'ascendente di cui gode presso i politici). Più facile invece che Mister B. abbia deciso, anche in seguito alle sue recenti, travagliate vicende giudiziarie, di offrire a (tutti) i suoi potenziali lettori l'assaggio di una cena che sarebbero in pochi ad aver voglia di gustare fino in fondo. Diciamo che in queste pagine si respira il fumo (saporito, non c'è che dire) di un arrosto che il nostro cuoco tiene ben caldo in forno, portata principale che immaginiamo non arriverà a tavola tanto presto. Sul libro: Ministri, onorevoli e boiardi di Stato fanno la fila nel suo ufficio per chiedergli consigli, disegnare strategie e discutere di affari. Luigi Bisignani è riconosciuto come il capo indiscusso di un network che condiziona la vita del paese. Non c’è operazione - si dice - in cui non ci sia il suo zampino, dalle nomine dei ministri a quelle in Rai, nei giornali, nelle banche e nell’esercito. La sua influenza arriva persino in Vaticano. In "L'uomo che sussurra ai potenti", per la prima volta, Bisignani "vuota il sacco" e decide di raccontarsi attraverso aneddoti ed episodi inediti: da Andreotti e la P2 a Berlusconi e Bergoglio. L'uomo che sussurra ai potenti non appare mai in tv, naturalmente. Non scrive sui giornali e disdegna la mondanità. La sua testimonianza - da questo punto di vista - è realmente unica. Quindi questo libro ci offre un cannocchiale privilegiato per gettare uno sguardo da vicino sul potere più forte e inossidabile: il potere vero, che fa economia di parole e si muove con assoluta efficacia fra le stanze di Palazzo.
IDENTIKIT – cosa il signor B. dice di sé stesso:
1. Inguaribile ottimista, amo il sole e il mare;
2. Le mie conversazioni sono rapide, in genere non superano i 15 minuti;
3. Il mio segreto è che resto sempre a disposizione dei miei amici;
4. Non cerco ritorni;
5. So come va il mondo;
6. Non mi piace apparire;
7. Non partecipo a cene con più di sei persone;
8. Gianni Barbacetto mi ha definito L’uomo dei collegamenti;
9. Maurizio Crozza dice che ho più amici di facebook;
10. Qualcuno dice che sono un battitore libero senza padroni né padrini;
11. Io direi che sono uno stimolatore d’intelligenze: quando una persona valida mi piace immagino quale ruolo potrebbe ricoprire.
L'uomo che sussurrava ai potenti. Alter ego di Letta. Regista di mezzo governo. Ispiratore dei manager pubblici. Bisignani è l'uomo ombra della seconda Repubblica. E ora fa tremare il sistema Berlusconi, scrive Marco Damilano su “L’Espresso” il 23 giugno 2011. Al suo successo avevano contribuito una congerie di potentati difficilmente collegabili tra loro, ma che lui era sempre riuscito a usare, manovrandoli come pedine su un'immaginaria scacchiera del potere...". Martedì 21 giugno, solstizio d'estate, il calendario segna san Luigi Gonzaga, ma il san Luigi di piazza di Spagna, confessore di ministre e di boiardi di Stato, non può più rispondere: è agli arresti domiciliari. E qualcuno nei palazzi romani rilegge l'incipit di un romanzo anni Ottanta denso di spioni, cardinali, belle donne, in cui l'autore sembrava volersi descrivere, consegnare la verità più profonda su di sé. "Il sigillo della porpora", si intitolava quella spy-story all'italiana che fu presentata al teatro Eliseo, e peccato che non ci fosse ancora "Cafonal" a immortalare la scena: il ministro degli Esteri Giulio Andreotti recensore entusiasta ("Il gelido protagonista si commuove solo quando gli uccidono la figlia: una pagina di toccante ed eloquente umanità"), il giovane e rampante Giuliano Ferrara, il re dei critici Enzo Siciliano, e in mezzo a loro lo scrittore, il 35enne Luigi Bisignani. Di quella serata indimenticabile resta qualche scatto, null'altro. Dalla condanna per la tangente Enimont a due anni e sei mesi (1994) Bisignani è scomparso dalle cronache: un'ombra che ha attraversato l'intera Seconda Repubblica. E ora l'Ombra torna alla luce, con l'inchiesta di Napoli dei pm Curcio e Woodcock, nel pieno di una nuova traumatica transizione politica. Spiega un notabile a Montecitorio: "Siamo come all'8 settembre: una corte in fuga, un governo che si dissolve, eserciti in rotta. Pezzi di Stato contro pezzi di Stato, apparati contro apparati. Una guerra di tutti contro tutti, che si può concludere solo con un ricambio di classe dirigente. O che soffocherà tutti nei suoi miasmi". Nei palazzi rileggono i verbali dell'inchiesta e riconoscono in controluce nella storia di Bisignani la parabola della politica di questi vent'anni. "Ai tempi di Andreotti, Bisignani era un piglia e porta. Stava in anticamera ed eseguiva. Su uno come Geronzi, Giulio ironizzava: "È come un taxi, anche se conserva la ricevuta"", spiega un ex democristiano di rango. "Dirigenti pubblici, banchieri, consiglieri di Stato, i De Lise, i Calabrò, i Catricalà, erano guidati dai politici. Svaniti i partiti con la bufera Tangentopoli hanno dovuto trovarsi altri referenti". Interessi senza volto. Comunanze e affinità che sostituiscono le sedi visibili. Filiere trasversali. Come quella, ad esempio, personificata da Cesare Previti: in apparenza dormiente e condannato, ma ancora abbastanza influente da far inserire nelle liste per la Camera del Pdl Alfonso Papa, il magistrato distaccato nel ministero di via Arenula e oggi deputato Pdl amante di Rolex e di Jaguar di cui i pm napoletani hanno richiesto l'arresto. La filiera che più si sente minacciata e desiderosa di protezione, però, è un'altra: bastava vedere il balletto improvvisato da Berlusconi nell'aula del Senato, un inconsueto giro di strette di mano tra i banchi del governo per arrivare a stringere davanti a tutti quella del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, il dottor Gianni Letta. A legare il sodalizio tra i due, un quarto di secolo fa, fu Bisignani. All'imprenditore di Arcore serviva un presidio a Roma. E Bisignani non ebbe esitazioni, indicò a Silvio l'uomo giusto: il dottor Letta, appunto. Letta da direttore del "Tempo" diventa il decoder di Berlusconi nella capitale, e poi il gran ciambellano di Palazzo Chigi, il governante che nessuno ha votato e di cui nessuno conosce le idee politiche e che pure viene candidato alle più alte cariche. L'inchiesta Bisignani lo fulmina alla vigilia della possibile consacrazione istituzionale, la nomina a senatore a vita e perfino il Quirinale. E se Letta risolve i problemi di Berlusconi, l'Ombra Bisignani è il personaggio che spiccia le faccende di mezzo governo, dei vertici degli enti pubblici, del Gotha dell'impresa privata e dei servizi segreti, da Cesare Geronzi a Fabrizio Palenzona. A lui si affidano i ministri e le ministre di Berlusconi: a Gigi si rivolge con familiarità il titolare della Farnesina Franco Frattini, a lui ricorre il trio rosa Stefania Prestigiacomo, Mara Carfagna, Mariastella Gelmini. Più confidenziale Stefania ("Se escono le intercettazioni sono rovinata"), più prudente Mara, più ambiziosa Mariastella. Ruota attorno all'ufficio di piazza Mignanelli lo stato maggiore della corrente del Pdl Liberamente ("Forse avrebbero dovuto chiamarsi Bisignanamente", maligna un deputato). Vicino a Bisignani è il titolare delle Infrastrutture Altero Matteoli, tramite il braccio destro Erasmo Cinque. Mentre tra i finiani di Futuro e libertà, capolavoro, si abbeverano ai consigli di Gigi entrambe le anime: il falco Italo Bocchino e la colomba Andrea Ronchi, ministro nel 2008 per grazia ricevuta, forse non solo di Gianfranco Fini. A Palazzo Grazioli l'Ombra può contare sulla vecchia conoscenza Daniela Santanchè: fu lui il regista dell'operazione Destra, quando la Sarah Palin di Cuneo si candidò premier con il partito di Francesco Storace, fu ancora lui a spingerla a fondare l'agenzia Visibilia, per raccogliere pubblicità per "Libero" degli Angelucci. E c'è il sindaco di Roma Gianni Alemanno, che a leggere la testimonianza del suo ex capo di gabinetto Maurizio Basile, usava cenare a casa della mamma di Bisignani, la signora Vincenzina, per discutere del Gran premio a Roma e chiedere a san Luigi di intercedere presso Flavio Briatore. L'aggancio giusto per la F1, manco a dirlo: il figlio di Bisignani lavora in Ferrari e con il presidente del Cavallino Rampante c'è una vecchia simpatia. "Di casa a New York come a Parigi, amante delle lunghe gita in bicicletta e della scultura moderna, Luca Cordero di Montezemolo è diventato un manager tenace con un notevole carisma che, a sentire i sondaggi, l'ha imposto come uno degli italiani più conosciuti", magnificava l'allora redattore ordinario dell'Ansa Bisignani in un sobrio lancio del 15 novembre 1991. Ma c'era da capirlo: emarginato nell'agenzia dopo lo scandalo P2, costretto a occuparsi di camionisti o di poco eccitanti convegni come quello su "Etica e professione" ("Il giornalista deve liberarsi dai cordoni ombelicali del potere economico e politico", tuonava), era stato salvato da Montezemolo: "Nell'89, in occasione dei Mondiali di calcio, noi dell'organizzazione ottenemmo il suo distacco dall'Ansa", ha dichiarato l'ex presidente di Confindustria interrogato dai pm sulle richieste di raccomandazione per l'amico Gianni Punzo e per l'ex compagna Edwige Fenech. Naturale un po' di gratitudine, anche se sono trascorsi vent'anni. Come appare del tutto normale, nel Bisi-mondo, la rete ai vertici di Eni, Enel, Finmeccanica, Poste, Ferrovie. E la pubblicità di 100 mila euro arrivata dall'Eni a Dagospia per interessamento di san Luigi. Più complicato da spiegare, perfino per un professionista del potere come Bisignani, perché il direttore generale della Rai Mauro Masi si rivolgesse a lui per farsi scrivere la lettera con cui puntava a licenziare Michele Santoro, lo chiamasse con l'assiduità del molestatore e con toni non certo da grand commis: "Je stamo a spaccà er culo". "Mi occupavo di Rai perché ero convinto che Masi non fosse all'altezza", ha provato a giustificarsi il povero Bisignani. E sì che Gigi ha fatto con Mauro coppia fissa: entrambi legati a Lamberto Dini e a Letta, senza trascurare la rive gauche. Tra il 2006 e il 2008 Masi è stato capo di gabinetto di Massimo D'Alema vice-premier del governo Prodi. E anche Bisignani poteva vantare ottima accoglienza dalle parti dell'ex leader Ds: fu lui a portare il direttore dell'Aise, il generale Adriano Santini, dal presidente del Copasir. "Il generale mi chiese una mano per la sua carriera e mi chiese di parlare bene di lui con Letta. Chiesi a D'Alema se potevo portargli Santini, lui mi disse di sì", ha raccontato a Curcio e Woodcock. Anche in questo caso, giurano i protagonisti, nulla di strano: "Conosco Bisignani da 35 anni", ha testimoniato D'Alema. "Lui conosceva mio padre, era presidente della commissione Finanze della Camera, Bisignani era il portavoce del ministro". Nel '77 D'Alema aveva 28 anni ed era il capo dei giovani comunisti, Bisignani ne aveva appena 23 ed era il più giovane piduista. Vite parallele, in un'Italia in cui tutti si conoscono. E in cui, nonostante l'alternanza dei diversi schieramenti al governo, certi nomi non tramontano mai. Ora siamo alla vigilia di un nuovo cambio. Se n'è discusso tre mesi fa, sussurra chi sa, in un incontro a porte chiuse all'Aspen sul tema della riforma dei servizi segreti. Pochi gli invitati, c'erano D'Alema e Giuliano Amato, c'era il prefetto Gianni De Gennaro, incrollabile punto di riferimento di questi anni travagliati anche oltre Atlantico, c'era il presidente dell'Istituto Giulio Tremonti, da molti indicato come il vero beneficiario di un terremoto che fa vacillare i suoi avversari nel governo. Assente il procuratore aggiunto di Milano Francesco Greco, che indagò su Bisignani ai tempi Enimont e alle cui analisi il ministro dell'Economia è molto attento. In questi ambienti c'è preoccupazione per le conseguenze dell'inchiesta e si discute già della fase successiva: un governo del Presidente. "Berlusconi doveva avere il coraggio di voltare pagina. All'Italia serve un governo forte e credibile e il Cavaliere non ha più carte da giocare", ripetono. Il premier non ci sente, prova a blindarsi nel bunker di Palazzo Chigi tra un voto di fiducia e l'altro, aggrappato a una maggioranza nel caos e a un Letta vistosamente indebolito. Tremonti al Senato per il dibattito sulla verifica non si è fatto neppure vedere. E l'Ombra, intanto, continuerà a far tremare con le sue rivelazioni. Il più consapevole che il game is over, la storia è finita, è proprio lui, Bisignani. "Ora che dalla cima si poteva guardare indietro, gli capitava spesso di chiedersi, rabbrividendo, se avrebbe sfidato ancora l'azzardo come gli era capitato tante volte durante l'ascesa", aveva scritto Bisignani nel suo primo romanzo. Ma adesso il suo azzardo coinvolge un intero Sistema.
IL MISTERO DI RINO GAETANO.
PERCHE’ RINO GAETANO E’ ATTUALE?
Molti scrittori sono astiosi, a torto od a ragione, contro la Massoneria. La rete riporta spesso articoli o libri che preludono a misteri dietro le più eclatanti note di cronaca. E' doveroso riportare nella storia anche l'altra faccia della cronaca.
"Leggete i suoi testi con me, Rino Gaetano era un massone: fatto fuori perché parlava". L'autore dell'inchiesta sulla morte del cantante ci illustra i presunti messaggi cifrati del cantautore: "Sapeva tutto sul caso Lockheed e sul delitto Montesi". Intervista di Roberto Procaccini su “Libero Quotidiano”.
"Rino Gaetano era vicino agli ambienti massonici, se non massone in prima persona. Dai suoi amici confratelli veniva a conoscenza della verità su alcuni misteri della storia italiana del '900, che poi inseriva nei testi delle sue canzoni dietro le mentite spoglie dell'umorismo o del non sense. Per questo è stato ucciso. Aveva raccontato troppe cose, pestando i calli a qualcuno negli Stati Uniti". Bruno Mautone, avvocato ed ex sindaco di Agropoli (Salerno), ha studiato per tre anni i testi delle canzoni di Rino Gaetano. Ha analizzato le parole e colto dei collegamenti, fino a disegnare uno scenario inedito: il cantautore calabrese, morto in un incidente stradale nel 1981 all'età di 30 anni, è stato vittima di un complotto. "Nel mio libro (Rino Gaetano: La tragica scomparsa di un eroe) metto in evidenza dati che mi sembrano oggettivi - spiega -. Poi le conclusioni possono essere condivisibili o meno, ma i fatti restano". Mautone fa riferimento ad Anna Gaetano, la sorella di Rino, che sul nostro sito aveva definito "sogni" le sue tesi. "Questo non lo posso accettare", replica Mautone.
Come è arrivato alla conclusione che Rino Gaetano sarebbe stato un massone?
«Le sue canzoni sono piene di riferimenti alla cultura e al simbolismo massonico. In Fiorivi, sfiorivano le viole cita il marchese La Fayette che ritorna dall'America importando la Rivoluzione e un cappello nuovo, Mameli che scrive una canzone tutt'ora in voga, e poi ancora Otto von Bismarck-Shonhausen».
E allora?
«Allora parla di tre personaggi chiave della massoneria europea del diciottesimo e diciannovesimo secolo in una canzone d'amore. La rivoluzione importata da Lafayette era quella americana, cioè quella massonica per eccellenza. La canzone tutt'ora in voga di Mameli è l'inno nazionale, Fratelli d'Italia, quando è noto che i massoni sono soliti chiamarsi tra di loro fratelli».
Basta a dire che Gaetano aderisse a una loggia?
«No, ma suoi amici strettissimi, che ho intervistato durante il lavoro di ricerca, mi hanno confermato il suo interesse per la materia. Leggeva molti libri sulla massoneria e sui suoi personaggi di spicco. E dirò di più: dai titoli dei dischi del cantautore si capisce anche il suo percorso di vicinanza prima, e allontanamento poi, dalla massoneria».
Cioè?
«Nel 1973 Gaetano pubblica I love you Marianna. La Marianna è il simbolo della rivoluzione francese, che è una rivoluzione massonica. Nel 1974 tocca a Ingresso Libero, intendendo l'apertura delle logge alle nuove affiliazioni. Poi Gaetano rompe con gli ambienti massonici e nel 1976 incide Mio fratello è figlio unico, dove l'immagine paradossale rappresenta l'isolamento nella loggia».
E così Rino avrebbe avuto agganci nella massoneria.
«Esatto. Anna Gaetano sostiene che il fratello fosse una persona preparata, che leggeva i giornali e arrivava a certe intuizioni grazie alla sua preveggenza. Non è così. Lui poteva anticipare le cose perché le conosceva».
Quanti riferimenti a casi occulti ha contato nella discografia di Rino Gaetano?
«A centinaia. Ce ne sono di grossi. In Berta filava, una canzone del '75-'76, spiega lo scandalo Lockheed (un caso di corruzione affinché l'aeronautica italiana adottasse veivoli della casa americana, ndr). Berta sarebbe Robert Gross, detto Bert, presidente della Lockheed. Rino cantava: "Berta filava con Mario e con Gino", che sarebbero Mario Tanassi e Gino Gui, due ex ministri della Difesa coinvolti nell'inchiesta. Ma dal rapporto, prosegue la canzone, nasce un bambino che non era di Mario e non era di Gino. Cioè Rino sottintendeva che la responsabilità non fosse di Gui e Tavassi, esattamente come si è scoperto dopo. I due ministri erano dei capri espiatorii messi lì per coprire responsabilità più alte. Ma non è il solo esempio».
Ne faccia un altro.
«In Nun te reggae più Rino Gaetano cita la spiaggia di Capocotta, cioè il delitto Montesi, e nella stessa canzone canta auto blu, sangue blu, ladri di Stato e stupratori».
E quindi?
«Per l'omicidio di Wilma Montesi furono incriminati Piero Piccioni, figlio del ministro degli Esteri Attilio, e Ugo Montagna, un marchese. Le auto blu, un riferimento ai palazzi romani del potere. Il sangue blu, la nobiltà. Ladri di stato, perché le hanno rubato la vita alla ragazza venendo poi clamorosamente assolti. Stupratori, perché avevano violentato la ragazza. Rino Gaetano tutte queste cose le sapeva».
Racconta la sorella Anna che Rino Gaetano avesse inserito un riferimento al caso Montesi anche in una poesiola infantile. Per dire che il caso di nera, semplicemente, l'aveva colpito profondamente nell'immaginario.
«Ma ciò non esclude che più di dieci anni dopo abbia scritto Nun te reggae più in possesso di elementi nuovi».
E perché le avrebbe nascoste dietro riferimenti così complessi?
«Perché le sue canzoni erano cavalli di troia. Se fosse stato più esplicito lo avrebbero bloccato. Invece nascondeva cose serissime dietro l'umorismo e lo stile non sense».
Chi è il responsabile della morte di Rino Gaetano, allora?
«La massoneria deviata. Direi settori in rapporti con gli Stati Uniti. L'Italia era diventata una colonia americana, Rino l'aveva scritto in molte canzoni, come in Ok papà, dove scrive Usa il pugnale. Anche il modo in cui l'hanno ucciso è un riferimento alla simbologia massonica».
Perché?
«E' morto il 2 giungo, data scelta dai padri costituenti, tra cui molti fratelli, per l'unica festa laica del Paese. E poi non mi spiego perché sul luogo dell'incidente sia arrivata per prima un'ambulanza dei pompieri. Per non parlare dell'agonia e delle insufficienze ospedaliere che ricalcano la canzone la Ballata di Renzo».
Mettere insieme stralci di canzoni non le sembra un po' poco per sostenere una teoria del genere?
«Lo so, se avessi il documento che testimonia l'associazione di Rino Gaetano alla massoneria sarebbe tutto più chiaro. Ma ho messo in fila elementi chiari, per me oggettivi».
Anna Gaetano lamenta che l'ha conosciuta, per telefono, solo a libro dato alle stampe.
«Non avrei potuto contattarla prima. Sapevo che non avrebbe condiviso il mio libro, che mi avrebbe messo il bastone tra le ruote. Non ho nulla contro di lei, ma se ha paura non è colpa mia. E capisco anche che non sia d'accordo con le mie conclusioni, ma non può dire che invento».
La tesi choc di un avvocato: "Rino Gaetano è stato ucciso dalla massoneria", scrive Fabio Frabetti su “Affari Italiani”. «Rino Gaetano fu ucciso dalla massoneria deviata». La dinamica della morte del geniale cantautore che continua a trascinare vecchie e nuove generazioni potrebbe non essere così scontata come si è pensato finora. L'avvocato Bruno Mautone, ex sindaco di Agropoli, sta per dare alle stampe un libro in cui è riuscito a decriptare nei testi delle canzoni di Gaetano tutti i misteri della sua morte. Affaritaliani.it lo ha incontrato. Si intitola “Rino Gaetano, assassinio di un cantautore” ed uscirà nelle prossime settimane per le edizioni Gli occhi di Argo.
Come è nata l'idea di scrivere un libro del genere?
«Da tanti anni per passatempo conduco programmi radiofonici e Rino Gaetano è uno dei miei autori preferiti. Ascoltando alcuni suoi brani poco conosciuti mi sono accorto che c'erano dei significati interpretabili in maniera non letterale. Non ritengo di avere il Vangelo in tasca ma penso di avere individuato, partendo dal lavoro in passato svolto da Gabriella Carlizzi e Paolo Franceschetti, una serie di canzoni in cui vengono lanciati degli importanti messaggi sulla storia italiana dal dopoguerra in poi. La morte di Rino Gaetano non è stata casuale, si trattò di una macchinazione per metterlo a tacere. In alcuni suoi testi ci sono messaggi inquietanti ed angoscianti. In altri, frasi di scherno che progressivamente vengono inseriti di disco in disco. Lui era un vero e proprio genio e la massoneria è da sempre interessata a fare entrare nuove leve di alto valore intellettivo. Così probabilmente lui fu fatto entrare molto giovane e così era venuto a conoscenze di segreti e verità apprese nell'ambito di specifiche consorterie massoniche. Nei primi dischi sembra esserci entusiasmo nei confronti di questo mondo, poi pian piano subentrò il disincanto e poi il distacco. Lo spirito di ideali e di giustizia lo spinse a rivelare con le sue canzoni alcuni di quei segreti. Messaggi che seppur criptici hanno indotto la massoneria deviata ad ucciderlo. Ha composto poco più di sessanta canzoni, nel 100% delle sue composizioni ha sempre messo qualche riferimento a fatti o situazioni collegabili alla massoneria. In altre ha individuato e rivelato segreti inquietanti della storia italiana».
«C'è qualcuno che vuole mettermi il bavaglio! Io non li temo! Non ci riusciranno! Sento che, in futuro, le mie canzoni saranno cantate dalle prossime generazioni! Che, grazie alla comunicazione di massa, capiranno cosa voglio dire questa sera! Capiranno e apriranno gli occhi, anziché averli pieni di sale! E si chiederanno cosa succedeva sulla spiaggia di Capocotta». Rino Gaetano pronuncia questa criptica frase in un concerto del 1979. Sta per eseguire uno dei suoi brani più celebri Nuntereggae più. Proprio nel testo di questa canzone salta di nuovo fuori la stessa spiaggia: «il pitrentotto sulla spiaggia di Capocotta». In quella spiaggia si era consumato nel 1953 il delitto di Wilma Montesi...
«Quando avvenne quell'omicidio, Rino aveva poco più di due anni. Quello che aveva raccontato di quel tragico evento nei concerti e nelle sue canzoni lo aveva quindi sicuramente conosciuto nelle frequentazioni di tipo massonico: tramite le sue parole si può quindi ricostruire cosa avvenne esattamente in quella spiaggia. I segreti che aveva appreso riguardavano però molti aspetti della cronaca e della politica italiana. L'aspetto inedito del libro è proprio questo: aver dimostrato che nelle sue canzoni insieme ad apparenti nonsense si raccontavano i retroscena di molti scandali: i casi Sindona, banco Ambrosiano, Franklin Bank, vicenda Mattei. Addirittura Rino Gaetano era arrivato a pronosticare come sarebbe finito il processo per la bomba a Piazza Fontana a Milano e ad annunciare i reali colpevoli dello scandalo Lockheed».
Rino Gaetano morì il 2 giugno 1981 dopo un incidente stradale sulla via Nomentana a Roma. La sua auto finì addosso ad un camion: perse la vita per le gravi ferite riportate dopo che ben tre ospedali di fatto rifiutarono il suo ricovero. La cosa incredibile è che lo stesso cantautore 11 anni prima aveva raccontato la morte di un uomo dopo essere stato rifiutato da tre ospedali e anche dal cimitero. Nel brano “La ballata di Renzo” si legge: Quando Renzo morì io ero al bar la strada era buia si andò al S.Camillo e lì non l'accettarono forse per l'orario si pregò tutti i Santi ma s'andò al S.Giovanni e li non lo vollero per lo sciopero. Quando Renzo morì io ero al bar era ormai l'alba e andarono al Policlinico ma lo si mandò via perché mancava il vicecapo c'era in alto il sole,si disse che Renzo era morto ma neanche al Verano c'era posto. Una somiglianza notevole con quello che sarebbe accaduto allo stesso Gaetano.
«I primi tre ospedali citati nel brano sono proprio quelli che non ebbero la capacità o la volontà di curarlo in maniera non professionale od idonea dopo l'incidente. Non abbiamo alcuna prova che il soccorso sia stato tempestivo. I telefonini non esistevano. Sarebbe interessante capire chi allertò i soccorsi, a che ora e con quale modalità. Tra le altre cose, lui non fu degente in tre ospedali diversi. Rimase al Policlinico Umberto I, con motivazioni mai veramente chiarite ed emerse. Non c'era il reparto di traumatologia cranica funzionante e gli ospedali disperatamente contattati dal medico di turno facevano quasi a gara a non prestare soccorso a Rino. Così morì agonizzante al Policlinico per il grave trauma cranico riportato. Lui aveva avuto un altro strano incidente nel 1979 a cui era miracolosamente sopravvissuto. Una jeep speronò la Volvo in cui viaggiava insieme ad un amico. La macchina si distrusse e chi aveva causato l'incidente riuscì a defilarsi e non si seppe mai chi fosse alla guida. Questo incidente avviene nello stesso anno in cui Rino Gaetano aveva fatto quelle rivelazioni su Capocotta. Nelle sue canzoni preconizzava una morte prematura, sapeva i rischi che stava correndo. Per questo probabilmente non aveva messo al corrente le persone a lui care delle frequentazioni che aveva avuto. Voleva preservarle da possibili rischi».
Un altro brano che fa pensare è “Al compleanno della zia Rosina” in cui si legge: “vedo già la mia salma portata a spalle da gente che bestemmia che ce l'ha con me”.
«In quella canzone c'è una emblematica citazione storica di Cleme, che sta per Clemente Rino Gaetano si voleva riferire ai tre papi (Clemente V, Clemente XII e Clemente XVI) che in momenti storici diversi emanarono provvedimenti religiosi nei confronti di movimenti legati alla massoneria. Uno di questi papi emanò il primo editto contro la massoneria, un altro aveva sciolto la Compagnia di Gesù ed il terzo sciolse i Templari. Lui in sostanza sta dicendo: me ne frego se verrò portato a spalla da gente che bestemmierà, evocando queste figure che avevano scomunicato per prime alcune diramazioni massoniche. Lui consultava enciclopedie, libri di storia e di cultura. Nel mio lavoro penso di avere colto dei significati che non era facile afferrare di primo acchito. Rino Gaetano era un generoso ed un idealista, non riusciva a trattenere nell'ambito dei propri pensieri le tante porcherie che erano state combinate in Italia dopo la seconda guerra mondiale. Nelle sue canzoni parla anche di storia, di Risorgimento, di Hitler e di una miriade di cose. Anche di numerologia. C'è di tutto celato nella sua musica. Anche il mistero della sua morte».
Rino Gaetano e i messaggi in bottiglia. Qualche appunto a margine del vergognoso film della RAI su Rino Gaetano, scrivono Paolo Franceschetti e Stefania Nicoletti. Come abbiamo descritto molte volte nel nostro blog, il nostro è un sistema che uccide e strangola tutti coloro che ne sono al di fuori e non vogliono essere coinvolti nei giochi illeciti del potere massonico. Il sistema, però, non penalizza solo chi ne è fuori, ma anche chi ne è dentro e ne riceve i vantaggi. Perché il problema è che una volta entrati nel sistema, tutto ciò che ti viene dato ti viene chiesto in restituzione sotto altre forme. Se fai carriera grazie al sistema, ad un certo punto arriverà qualcuno che ti chiederà il conto; ti chiederanno di fare uno sgarbo ad un vecchio amico che vogliono rovinare; ti chiederanno di falsificare un documento o farlo sparire, ti chiederanno di accollarti una responsabilità penale per salvare altri, di essere condannato ad un anno con la condizionale e di spendere la tua faccia su tutti i giornali per fare da capro espiatorio. Ribellarsi al sistema è quasi impossibile per la perfezione che esso ha. Tanti, troppi, sono caduti nella trappola. Le promesse che ti fanno sono allettanti: potere, denaro, conoscenza dei meccanismi reali del potere. Ma il conto è salato, perché non si è più liberi di fare ciò che si vuole, e si è in costante stato di ricatto. Ritengo, ad esempio, che molti esponenti della sinistra attuale, a suo tempo, abbiano fatto il cosiddetto “patto col diavolo”, pensando semplicemente di accettare un compromesso in più per fare carriera; e si sono poi trovati invischiati in un gioco di potere più grande di loro, perdendo ogni capacità decisionale reale; ed ecco il motivo per cui la sinistra di questi ultimi anni ha fatto delle cose senza alcuna logica, come se volesse realmente perdere le elezioni e consegnare – come hanno fatto di recente – il paese definitivamente alla destra. In realtà alcuni provano a ribellarsi. Ribellarsi in modo esplicito, in un attacco frontale, non è possibile altrimenti si muore (la lista dei morti è lunghissima; Falcone e Borsellino, Occorsio, Pecorelli, Tobagi, Mauro De Mauro, Cosco, Pasolini, Cecilia Gatto Trocchi, Ilaria Alapi, Graziella De Palo, e tutti coloro che hanno provato a testimoniare coraggiosamente in processi importanti, morti suicidi o in incidenti stradali). Molti però provano a ribellarsi non apertamente, lanciando una serie di messaggi in bottiglia. Come delle tracce, per chi le vorrà cogliere un giorno. Ricordo un'archiviazione vergognosa che aveva a che fare con un soggetto che si era suicidato con "una coltellata sulla schiena". Il magistrato archiviò dicendo delle cose che li per li mi parvero incomprensibili; mischiava citazioni di Dante a frasi demenziali del tipo "la prova che si sia trattato di un suicidio è nel fatto che sul coltello piantato nella schiena furono trovate le impronte digitali della vittima". Dopo anni di rabbia in cui non capivo l'assurdità di quel provvedimento, ho capito che la citazione di Dante era un chiaro riferimento alla legge del contrappasso, utilizzata dalla Rosa Rossa per i suoi omicidi. Mentre con la frase in cui parlava delle impronte digitali voleva dire esattamente il contrario.... Tra l'altro fu uno dei provvedimenti il cui studio e la cui lettura approfondita mi hanno permesso di arrivare alla regola del contrappasso da noi descritta negli articoli sull'omicidio massonico. A mio parere si trovano molti messaggi in bottiglia anche in molti libri, articoli di giornale, e opere attuali, ma evitiamo di indicarli per non mettere in pericolo le persone coinvolte. Rino Gaetano era una di queste persone che si erano ribellate al sistema in modo vistoso. Non poteva denunciare il sistema direttamente, perchè non gli avrebbe dato voce nessuno, allora lasciò una serie di tracce nelle sue canzoni, che sarebbero state raccolte dalle generazioni successive. Rino Gaetano ci parla della Rosa Rossa, dei crimini commessi dai potenti, dei meccanismi segreti di questa associazione e dei loro metodi. Vediamone qualcuna.
Le canzoni. C’è un album di Rino, in particolare, che pare dedicato proprio alla Rosa Rossa. Nello stesso album, infatti troviamo ben tre canzoni: Rosita, Cogli la mia Rosa d’amore, e Al compleanno della zia Rosina. Una trilogia a nostro parere non casuale. In Rosita ci dice che la Rosa Rossa, quanto te la presentano, sembra bellissima... onori, gloria, soldi, potere... poi però un giorno scopri la verità. E allora la tua vita cambia completamente perchè sei in trappola.
Ieri ho incontrato Rosita, perciò questa vita valore non ha,
Come era bella rosita di bianco vestita più bella che mai.
Nella canzone “Al compleanno della zia Rosina” ci spiega che nel linguaggio criptato della Rosa Rossa, Santa Rita è in realtà la Rosa Rossa; e ci spiega che un giorno capiranno che sta svelando questi messaggi, e quindi lo uccideranno.
La vita la vita, e Rita s'è sposata, al compleanno della zia Rosina.
Vedo già la mia salma portata a spalle da gente che bestemmia e che ce l'ha con me.
Questa frase apparentemente incomprensibile vuole dire probabilmente che gli appartenenti alla massoneria rosacrociana della Rosa Rossa al suo funerale porteranno a spalla la sua bara (ai funerali delle vittime i mandanti sono sempre presenti tra i partecipanti); ma bestemmieranno, perchè in realtà una caratteristica della massoneria della Rosa Rossa è di stravolgere i simboli e i riti Cristiani per interpretarli al contrario. Infine, in “Cogli la mia rosa d’amore” lancia un messaggio molto chiaro:
cogli la mia rosa d’amore,
regala il suo profumo alla gente;
cogli la mia
rosa di niente.
Non credo sia un caso anche il titolo del disco: "mio fratello è figlio unico",
perché sapeva che questo scherzetto gli sarebbe costato la vita. Nella canzone
“Nun Te Reggae più” parla della spiaggia di Capocotta. E, ad un concerto, disse:
"C'è qualcuno che vuole mettermi il bavaglio. Io non li temo. Non ci riusciranno. Sento che in futuro le mie canzoni saranno cantate dalle prossime generazioni. E che grazie alla comunicazione di massa, capiranno cosa voglio dire questa sera! Apriranno gli occhi e si chiederanno cosa succedeva sulla spiaggia di Capocotta".
NON VI REGGO PIU’.
Il testo più esplicito e diretto di Rino dà il titolo all'album uscito nel 1978.
"Nuntereggaepiù" è un brillante catalogo dei personaggi che invadono radio, televisioni e giornali. Clamorosa la coincidenza con quello che succederà nel 1981, quando la magistratura scopre la lista degli affiliati alla P2 di Licio Gelli, loggia massonica in cui compaiono alcuni nomi citati nella filastrocca di Rino.
A dispetto del titolo, nel brano non c'è un briciolo di reggae. Il titolo gioca sull'assonanza fra il genere musicale giamaicano e la coniugazione romanesca del verbo reggere. Come già era accaduto in "Mio fratello è figlio unico", il finale è dissonante rispetto al tema trattato, con l'introduzione di una frase d'amore:
" E allora amore mio ti amo
Che bella sei
Vali per sei
Ci giurerei. "
È uno sfottò come un altro per
dire: "Vabbè, visto che vi ho detto tutte 'ste cose, visto che tanto la canzone
non fa testo politico, la canzone non è un comizio, il cantautore non è
Berlinguer né Pannella, allora a questo punto hanno ragione quelli che fanno
solo canzoni d'amore..". Possiamo immaginare che, oggi, sarebbero entrati di
diritto nella filastrocca Umberto Bossi o Antonio Di Pietro per la politica,
Fabio Fazio e Maria De Filippi o il Grande Fratello per la tivvù, calciatori
super pagati come Totti, Vieri e Del Piero e chissà quante altre invadenti
presenze del nostro quotidiano destinate a ronzarci intorno per altri vent'anni.
Quando incide la versione spagnola, che in ottobre scala le classifiche
spagnole, "Corta el rollo ya" ("Dacci un taglio”), inserisce personaggi di
spicco dell'attualità iberica, come il politico Santiago Carrillo, il calciatore
Pirri (che più avanti sarà vittima di un rapimento), la soubrette Susana Estrada
e altri.
Qui sta la grandezza di Rino Gaetano, se leggete oggi il testo di "Nun te reggae
più" vi accorgerete che i personaggi citati sono quasi tutti ancora sulla
breccia e, se scomparsi o ritirati dalla vita pubblica, hanno lasciato un segno
indelebile nel loro campo, si pensi a Gianni Brera o all'avvocato Agnelli, o a
Enzo Bearzot che, un anno dopo la dipartita del cantautore calabrese, regalerà
con la sua nazionale (Causio, Tardelli, Antognoni) il terzo mondiale di calcio
dopo quarantaquattro anni.
Abbasso e Alè (nun te reggae più)
Abbasso e Alè (nun te reggae più)
Abbasso e Alè con le canzoni
senza patria o soluzioni
La castità (Nun te reggae più)
La verginità (Nun te reggae più)
La sposa in bianco, il maschio forte,
i ministri puliti, i buffoni di corte
..Ladri di polli
Super-pensioni (Nun te reggae più)
Ladri di stato e stupratori
il grasso ventre dei commendatori,
diete politicizzate,
Evasori legalizzati, (Nun te reggae più)
Auto blu, sangue blu,
cieli blu, amori blu,
Rock & blues (Nun te reggae più!)
Eja-eja alalà, (Nun te reggae più)
DC-PSI (Nun te reggae più)
DC-PCI (Nun te reggae più)
PCI-PSI, PLI-PRI
DC-PCI, DC DC DC DC
Cazzaniga, (nun te reggae più)
avvocato Agnelli,
Umberto Agnelli,
Susanna Agnelli, Monti Pirelli,
dribbla Causio che passa a Tardelli
Musiello, Antognoni, Zaccarelli.. (nun te reggae più)
..Gianni Brera,
Bearzot, (nun te reggae più)
Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio
Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno,
Villaggio, Raffà e Guccini..
Onorevole eccellenza
Cavaliere senatore
nobildonna, eminenza
monsignore, vossia
cheri, mon amour!.. (Nun te reggae più!)
Immunità parlamentare (Nun te reggae più!)
abbasso e alè!
Il numero cinque sta in panchina
si e' alzato male stamattina
– mi sia consentito dire: (nun te reggae più!)
Il nostro è un partito serio.. (certo!)
disponibile al confronto (..d'accordo)
nella misura in cui
alternativo
alieno a ogni compromess..
Ahi lo stress
Freud e il sess
è tutto un cess
si sarà la ress
Se quest'estate andremo al mare
soli soldi e tanto amore
e vivremo nel terrore
che ci rubino l'argenteria
è più prosa che poesia...
Dove sei tu? Non m'ami più?
Dove sei tu? Io voglio, tu
Soltanto tu, dove sei tu? (Nun te reggae più!)
Uè paisà (..Nun te reggae più)
il bricolage,
il '15-18, il prosciutto cotto,
il '48, il '68, le P38
sulla spiaggia di Capo Cotta
(Cardin Cartier Gucci)
Portobello, illusioni,
lotteria, trecento milioni,
mentre il popolo si gratta,
a dama c'è chi fa la patta
a sette e mezzo c'ho la matta..
mentre vedo tanta gente
che non ha l'acqua corrente
e nun c'ha niente
ma chi me sente? ma chi me sente?
E allora amore mio ti amo
che bella sei
vali per sei
ci giurerei
ma è meglio lei
che bella sei
che bella lei
vale per sei
ci giurerei
sei meglio tu
nun te reg più
che bella si
che bella no
nun te reg più!
NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ...
Vediamo cosa succedeva nella spiaggia di Capocotta, prendendo le notizie da Wikipedia.
“Avrei voluto un amico come lui” – David Gramiccioli omaggia Rino Gaetano, scrive il 14 settembre 2015 "lastella". Riceviamo & pubblichiamo da David Gramiccioli. Dagli anni 70 a oggi non è cambiato niente. Ieri il braccio armato di quel potere occulto e deviato (oggi sempre meno occulto e sempre più deviato) era Franco Giuseppucci detto Er Negro, primo, indiscusso capo della banda della Magliana. Oggi Massimo Carminati, forse non è un caso che il secondo rappresenti l’ideale contiguità con quell’esperienza criminale. Negli anni 70 il fronte criminale romano si arricchì con il commercio della droga, successivamente con il business immobiliare. Oggi, che la droga sembra non essere più il filone aureo di una volta e con la profonda crisi che sta vivendo l’edilizia, si “investe” sulla disperazione umana (immigrati e zingari). Tangentopoli produsse, colossale bluff, una nuova legge elettorale per l’elezione dei sindaci, in molti esultarono all’idea che finalmente sarebbero stati i cittadini, per la prima volta nella storia repubblicana e democratica del paese, a eleggere direttamente un sindaco. In realtà si rafforzò ancora di più il potere politico di alcuni leader che avevano a cuore tutto tranne che il bene e la ripresa del paese. La televisione, il riscontro mediatico fissavano sempre di più i parametri del successo in ogni campo della nostra società. Quando parliamo del nostro paese, della nostra amata Italia, non dobbiamo dimenticarci mai cosa è accaduto dall’8 di settembre 1943 a oggi. Legge truffa subito dopo la morte di Stalin, Capocotta. Tragedia del Vajont, Giorgiana Masi…i rapporti tra massoneria-politica-criminalità. Nessuno come lui ha cantato la nostra storia, nessuno come lui, cantava: “ma chi me sente”, era consapevole della solitudine artistica e umana alla quale è condannato il genio, ma nel profondo del suo animo Rino nutriva, lo disse pubblicamente una sera, una grande speranza; quella che un giorno grazie alla comunicazione di massa la gente potesse finalmente comprendere il significato dei testi delle sue canzoni.
Recensione di Giada Ferri dello spettacolo teatrale “Avrei voluto un amico come lui. Omaggio a Rino Gaetano” di David Gramiccioli. Finalmente uno spettacolo teatrale dai contenuti ben scelti e approfonditi che tocca con estrema professionalità e non meno stile una sequenza di vicissitudini italiane per lo più rimaste impunite. Spettacolo che dà il giusto lustro alla figura del diretto ispiratore, il cantautore Rino Gaetano, menzionato con intelligenza e garbo, non tentando di snaturarne la criptica essenza con convinzioni pregiudizievoli nei suoi confronti, ma evidenziando il suo genio nel trattare eventi, di diverse collocazioni spazio-temporali, che gli stanno a cuore. Ci si immerge infatti in un viaggio nella Memoria, condotto magistralmente da David Gramiccioli (giornalista e speaker radiofonico), attraverso alcuni dei più rilevanti fatti di cronaca nera e scandali della storia italiana, dal secondo dopoguerra agli anni ’70, per mezzo della chiave di lettura che il cantautore dà a quei fatti, trasformandoli in frasi cardine delle sue canzoni. Si pensi a “Spendi per opere assistenziali e per sciagure nazionali” (in Fabbricando case) e a “Il numero 5 sta in panchina, s’è alzato male stamattina” (in Nuntereggae più) riferite a personaggi coinvolti nella strage annunciata del Vajont oppure a “Il nostro è un partito serio” (sempre in Nuntereggae più) con tanto di imitazione dell’inflessione dell’allora dirigente del PCI Berlinguer, all’indomani del “Governo delle astensioni”, nel 1976. La stessa frase viene pronunciata anche da Cossiga, sardo pure lui e al tempo Ministro dell’Interno, quando è chiamato a rispondere degli incresciosi fatti dell’anno successivo, che vedono cadere Giorgiana Masi raggiunta da un misterioso proiettile durante una manifestazione. Ancora, ai nomi fatti in Standard, ricordandoci dello scandalo Lockheed e ai nomi censurati alla stessa Nuntereggae più, brano cardine della pièce poiché, come si vedrà, racchiude in sé allusioni anche al delitto Montesi nella sua frase ormai nota “…sulla spiaggia di Capocotta”. Ma questa non è che una modesta anticipazione di quelli che sono gli argomenti toccati dall’autore. David Gramiccioli ha conosciuto la grande forza di Rino Gaetano leggendo i suoi testi. Non ha preteso di interpretarlo ed etichettarlo, ma affronta le vicende contenute nelle sue parole senza preconcetti e infondati collegamenti, come a volte, pur di dare un senso alla sua prematura scomparsa, si sia spinti a fare, costruendone un lato oscuro invece di ammirare le sue doti straordinarie legate alla sua dedizione a tenere sempre gli occhi aperti, nella scelta coraggiosa di smascherare gli intrighi del Potere anziché farne parte. È così quindi che l’autore scrive questa sceneggiatura, con estrema lucidità e oggettività, senza attingere a dietrologie non provate e senza farcire di orpelli e convinzioni personali quegli intrecci nefasti tutti italiani, bensì lasciando lo spettatore alle proprie deduzioni, stimolandone tuttavia l’interesse a saperne di più e favorendone l’utile ragionamento circa i casi trattati. Gramiccioli, oltre ad aver creato uno spettacolo a scopo benefico, ha veramente reso “Omaggio a Rino Gaetano”. I contenuti della sceneggiatura sono fedeli al titolo. Giada Ferri.
“Avrei voluto un amico come lui”, tour itinerante della Compagnia Teatro Artistico d’Inchiesta guidata dal giornalista performer David Gramiccioli. «Nessuno come Rino Gaetano – si legge nelle note di regia – ha cantato la nostra storia, nessuno come lui, cantava “ma chi me sente”, consapevole della solitudine artistica e umana alla quale è condannato il genio. Ma nel profondo del suo animo Rino nutriva – e lo disse pubblicamente una sera – la speranza che un giorno, grazie alla comunicazione di massa, gli italiani potessero finalmente comprendere il significato vero dei testi delle sue canzoni».
Vediamo cosa succedeva nella spiaggia di Capocotta, prendendo le notizie da Wikipedia.
La spiaggia di Capocotta. OMICIDIO DI WILMA MONTESI (1953, vigilia di Pasqua). La vicenda coinvolse il musicista Piero Piccioni, figlio del vicepresidente del consiglio della DC, e altri noti esponenti della nobiltà, politici e personaggi famosi... Inizialmente fu presa in considerazione l'ipotesi di un banale incidente, ipotesi che fu considerata attendibile dalla polizia, e il caso venne chiuso. I giornali, L'Espresso su tutti, invece si mostravano scettici. Il Roma, quotidiano monarchico napoletano, il 4 maggio cominciò ad avanzare l'ipotesi di un complotto per coprire i veri assassini, che sarebbero stati alcuni potenti personaggi della politica; l'ipotesi presentata nell'articolo Perché la polizia tace sulla morte di Wilma Montesi? a firma Riccardo Giannini ebbe largo seguito. A capo di questa campagna stampa, vi erano prestigiose testate nazionali, quali Corriere della Sera e Paese Sera, e piccole testate scandalistiche, quali Attualità, ma la notizia si diffuse su quasi tutte le testate locali e nazionali. Il 24 maggio del 1953 un articolo di Marco Cesarini Sforza pubblicato sul giornale comunista Vie Nuove creò molto scalpore: uno dei personaggi apparsi nelle indagini e presumibilmente legati alla politica, sinora definito "il biondino", venne identificato con Piero Piccioni. Piccioni era un noto musicista jazz (col nome d'arte Piero Morgan), fidanzato di Alida Valli e figlio di Attilio Piccioni, il Vicepresidente del Consiglio, Ministro degli Esteri e massimo esponente della Democrazia Cristiana. Il nome di "biondino" era stato attribuito al giovane da Paese Sera, in un articolo del 5 maggio, in cui si raccontava di come il giovane avesse portato in questura gli indumenti mancanti alla ragazza assassinata. L'identificazione con Piero Piccioni era un fatto noto a tutti i giornalisti, ma nessuno ne aveva mai svelata l'identità al grande pubblico. Su Il merlo giallo, testata neofascista, era addirittura apparsa già ai primi di maggio una vignetta satirica in cui un reggicalze veniva portato in questura da un piccione, un chiaro riferimento al politico e al delitto. La notizia suscitò clamore perché venne pubblicata poco prima delle elezioni politiche del 1953. Piero Piccioni querelò per diffamazione il giornalista e il direttore del giornale, Fidia Gambetti. Cesarini Sforza venne sottoposto ad un duro interrogatorio. Lo stesso PCI, movimento di riferimento del giornale e unico beneficiario dello scandalo, disconobbe il giornalista, che venne accusato di "sensazionalismo" e minacciato di licenziamento. (QUINDI ANCHE LO STESSO PCI SEMBRA VOLER COPRIRE E INSABBIARE TUTTO... CHISSA' COME MAI?). Nemmeno sotto interrogatorio Cesarini Sforza citò mai direttamente il nome della fonte da cui ufficialmente veniva la notizia, limitandosi ad affermare che provenisse da "ambienti dei fedeli di De Gasperi". Anche il padre del giornalista, un influente docente di filosofia all'Università degli Studi di Roma "La Sapienza", suggerì al figlio di ritrattare, consiglio vivamente sostenuto anche dal celeberrimo "principe del foro" Francesco Carnelutti che aveva preso le parti dell'accusa per conto di Piccioni. L'avvocato di Sforza, Giuseppe Sotgiu (già presidente dell'Amministrazione provinciale di Roma ed esponente del PCI) si accordò col collega e il 31 maggio, Cesarini Sforza fu costretto a ritrattare le sue affermazioni. Come ammenda, versò 50 mila lire in beneficenza alla Casa di amicizia fraterna per i liberati dal carcere, ed in cambio Piccioni fece cadere l'accusa. Il 6 ottobre 1953, sul periodico scandalistico Attualità, il giornalista e direttore della testata Silvano Muto pubblicò un articolo, La verità sul caso Montesi. Muto aveva condotto un'indagine giornalistica nel "bel mondo" romano, basandosi sul racconto di una attricetta ventitreenne che sbarcava il lunario facendo la dattilografa, tal Adriana Concetta Bisaccia. La ragazza aveva raccontato al giornalista di aver partecipato con Wilma ad un'orgia, che si sarebbe tenuta a Capocotta, presso Castelporziano e non distante dal luogo del ritrovamento. In quell'occasione avevano avuto modo di incontrare alcuni personaggi famosi, principalmente nomi noti della nobiltà della capitale e figli di politici della giovane Repubblica Italiana. Continuano ad essere ritrovati corpi di donne su quella spiaggia. Forse è questo che voleva dire Rino. Non si riferiva solo al caso Montesi, ma a decine di altri casi che evidentemente continuano a verificarsi a Capocotta... O forse voleva dire che è una situazione "emblematica" di tutto quello che succede in Italia. Ma sono solo nostre deduzioni. Potremmo continuare perchè ci sono altre canzoni molto più significative e piene di messaggi, come Gianna. Ma terminiamo qui perchè per capire queste canzoni occorre avere una conoscenza specifica di determinati fatti e situazioni. Forse però non molti sanno che la canzone Nuntereggaepiù, che nomina molti personaggi della politica, dello spettacolo, dello sport, della televisione... è stata censurata. Inizialmente infatti l'elenco conteneva, tra gli altri, i nomi del finanziere Nino Rovelli, del banchiere Ferdinando Ventriglia, di Camillo Crociani (scandalo Lockheed e loggia P2), di Amintore Fanfani, di Guido Carli... e persino di Aldo Moro e Michele Sindona. Questi nomi vennero cancellati dal testo della canzone. Evidentemente perché ancora più scomodi di quelli che furono lasciati. Un personaggio come Rino non poteva vivere a lungo, e perse infatti la vita il 2 giugno del 1981 in un incidente d'auto. Poco tempo prima, come abbiamo già raccontato altrove, aveva avuto un incidente analogo, ma si era salvato. Aveva ricomprato un’ auto identica ed ebbe un incidente dello stesso tipo; morì non tanto per l'incidente in sè, quanto per il ritardo con cui fu curato perchè negli ospedali della zona nessuno volle accoglierlo. Ben 5 ospedali si rifiutarono di curarlo, così come lui aveva scritto in una sua canzone, La ballata di Renzo. Cioè, è stata applicata ,nel suo caso la regola del contrappasso di cui ci siamo occupati in altri articoli. La ballata di Renzo è un brano inedito, di cui peraltro si scoprì l'esistenza solo qualche anno fa. Dunque, all'epoca, solo gli "addetti ai lavori" (i produttori e le persone che lavoravano insieme al cantante) erano a conoscenza di quel brano. E solo chi conosceva la canzone poteva fare in modo che si realizzasse nella pratica, e in modo così dettagliato. Quando qualche anno fa uscì la notizia della scoperta del brano inedito, i media si affrettarono subito a definirla una "profezia". I giornali scrissero che ne La ballata di Renzo "Rino aveva previsto e messo in musica, dieci anni prima, la propria morte". Ma sarebbe invece più oppurtuno affermare il contrario: la morte del cantautore è avvenuta esattamente come nella sua canzone non perché quel brano fosse una profezia, ma perché qualcuno l'ha usata per applicare la regola del contrappasso.
Il film. Di recente la RAI ha prodotto un film su Rino Gaetano. Vediamo cosa dice la presentazione ufficiale del film sul sito Rai. "Ci sono film su personaggi della musica che riescono a descrivere compiutamente lo spirito di un'epoca. È questo l'obiettivo della fiction Rino Gaetano. Ma il cielo è sempre più blu, una produzione Rai Fiction realizzata da Claudia Mori per la Ciao Ragazzi. L'interesse per Rino Gaetano e per la sua musica si è riacceso negli ultimi anni, soprattutto tra i giovani, al punto di farne una figura di culto oltre la sua epoca. La fiction, che racconta in due puntate la sua biografia e la genesi delle canzoni più popolari, è uno spaccato della sua generazione, e trasmette un messaggio che può valicare i confini nazionali italiani, perché ancora oggi modernissimo". In realtà guardando il film si capisce che è stato scritto al solo scopo di infangare l’immagine del cantautore. La sorella di Rino e la ex fidanzata, intervistate, diranno che il film racconta qualcun altro rispetto al protagonista. Quello non era Rino, non era la storia d'amore tra lui e la fidanzata. Vediamo perchè. Anzitutto il film si apre con la scena di lui che sviene per aver bevuto troppo. E si chiude con le immagini di lui, ubriaco, che vaga senza meta alla ricerca di amici che oramai lo hanno abbandonato. Il messaggio è chiaro. Era un ubriacone. Altre scene salienti del film sono queste:
1) Dopo aver chiesto alla fidanzata di accompagnarlo a Stromboli per scrivere una canzone, dopo alcuni giorni in cui non combinava nulla tranne trattare male gli amici musicisti, e ubriacarsi continuamente, inveisce contro la fidanzata e la tratta male dicendo che non si sente capito
2) Geniale poi come presentano il suo rapporto con le donne. Si fidanza. Mette le corna alla ragazza (Irene) con un altra ragazza, stupenda e che lo adora, di nome Chiara. Irene li scopre a letto e lui che fa? Esce dalla stanza, parla con Irene e le dice “non preoccuparti, era solo una scopata”. Poi abbandona Chiara senza dirle una parola nè salutarla, dopo giorni di idillio romantico. Dopo qualche anno incontra nuovamente Chiara. Mette nuovamente le corna alla fidanzata e abbandona nuovamente Chiara, ancora una volta senza una spiegazione e senza una parola. Verso la fine del film, abbrutito dall’alcol e senza una meta, tenta di recuperare il rapporto con Chiara e con Irene (tutte e due in contemporanea), ma entrambe lo abbandonano. Per giunta tenta di baciare Chiara proprio un giorno che lei lo trova ubriaco già al mattino presto. Chiaro è il messaggio: Gaetano era un superficiale.
3) Altrettanto geniale poi come viene delineato il suo rapporto col padre. In una delle scene clou del film lui, all’apice del successo, mostra una casa al padre, ma il padre la rifiuta, perché non vuole la sua elemosina. E lui risponde arrabbiato “ma come, finalmente ora possiamo permetterci una casa come la gente normale e non uno schifoso sottoscala”. Il messaggio qui è molto sottile ed è duplice: la gente che vive in un sottoscala non è normale. Un sottoscala fa schifo. Ma dietro a questo messaggio ce n’è un altro, molto più sottile: Gaetano, come tutti, una volta che ha avuto un po’ di soldi e si è arricchito, non ha più rispetto per le condizioni della gente più povera che infatti viene definita “non normale”. E infatti rinfaccia al padre di essere un poveraccio: "io non volevo diventare come te e ci sono riuscito... non vi voglio più vedere in quel sottoscala schifoso.. e aggiunge: "sei orgoglioso come tutti gli ignoranti". Dopodichè al padre prende anche un infarto. Quando il padre uscirà dall'ospedale Rino ancora una volta lo tratterà malissimo e gli causerà un altro malore. In altre parole, lo descrivono come un pessimo personaggio, indelicato e ignorante che arriva a far ammalare il povero padre.
Altro aspetto curioso del film è che Rino ha una sorella, che nel film però non compare mai. Non compare mai neanche quando, nella parte finale del film, bussa alla porta di tutti gli amici, ubriaco e disperato, lasciato solo da tutti. Strano che Rino quel giorno non abbia pensato di telefonare anche alla sorella no? Come è strana un'altra circostanza. Rino morì pochi giorni prima del suo matrimonio. Doveva sposarsi. In questo indegno e vergognoso film, invece, l'ultima scena del film mostra lui disperato e abbandonato da tutti. Nessun cenno alla figura della sorella. Nessun cenno al matrimonio, ma anzi, viene presentata una fattispecie completamente opposta. Insomma, per essere un film che voleva valorizzare la figura del cantautore, la trama presenta tali e tanti inesattezze, buchi ed omissioni, che rimane una sola certezza: che il film è stato fatto unicamente per oscurare le ragioni della sua morte e il valore delle sue canzoni. Per infangarne la memoria quindi. Chi ha prodotto il film, inoltre, ha appositamente evitato di inserire la figura della sorella, forse perchè è l'unica della famiglia rimasta ancora viva, e che avrebbe potuto creare guai giudiziari agli autori del film se la sua immagine fosse apparsa troppo deformata dalla fiction. In conclusione, cosa rimane dopo la visione del film? L’idea che fosse un ubriacone, anche egoista, non troppo intelligente, che ha scritto canzoni superficiali e senza senso. Così non ci si stupisce se muore in un incidente. E se un giorno qualcuno dirà che è stato ucciso, la gente dirà: "ucciso? ma come? Era stato un incidente perchè beveva ed era ubriaco". Come succede per Pantani: "era un drogato, si è suicidato". Che poi le perizie abbiano dimostrato che il suo cuore era intatto non conta, per questo mondo dei mass media asservito ad una criminalità senza scrupoli. E che la sorella e la fidanzata di Rino dicano che quello non era Rino, che conta? L'obiettivo è riuscito. Milioni di italiani lo considerano un ubriacone che scriveva canzoni senza senso. Il film è stato confezionato ad arte probabilmente per screditare la figura di un artista, proprio in un periodo particolare, ovverosia gli anni in cui, a seguito dei delitti del mostro di Firenze, si comincia a parlare della Rosa Rossa e dei suoi delitti. D'altronde, una bella coincidenza che il film sia prodotto dalla Ciao Ragazzi, società che porta, guarda caso, l'acronimo dei RosaCroce e di Cristian Rosenkreutz (CR). Di recente poi è uscito un dvd "Figlio unico", uscito insieme alla raccolta il 02.11.2007. Giorno dei morti e data a somma 13. Un altro bello scherzetto combinato ai danni di Rino. Tanto per mettere di nuovo una firma, se ce ne fosse bisogno. Il dvd contiene molti filmati, tra cui quello con Morandi: Rino a un certo punto dice: "Io conosco anche il profumo dei ministri". Una frase senza senso per i più. Un non sense, appunto, di quelli tipici di Rino. E invece no. Infatti Morandi si guarda intorno impaurito e cambia subito discorso, spostandosi di nuovo sull'ironia. "Qui non possiamo parlare di ministri, parliamo solo di canzoni. No, ma parliamo della tua ironia". Ma noi che conosciamo il sistema, riteniamo che il film sia l’ulteriore vittoria di Rino Gaetano. Rino era così grande e così bello, che hanno cercato di distruggerlo anche da morto. Perché indubbiamente le sue canzoni, come del resto aveva predetto anche lui, fanno più paura ora che quando era vivo. Ora infatti le possiamo capire. E a Venditti che, in questi ultimi tempi, ha affermato che la causa della morte di Rino è stata la cocaina (se ne è ricordato dopo quasi trenta anni) possiamo rispondere una cosa. Strano, Antonello, che ti ricordi dopo tanti anni della cocaina. In realtà la sai bene quale è la verità: lui ha avuto quel coraggio che pochi hanno, di andare contro il sistema fino a farsi uccidere per non rinnegare i suoi ideali. Quel coraggio che molti di quelli che oggi hanno successo certamente non hanno avuto.
La ballata di Renzo
Quel giorno Renzo uscì,
andò lungo quella strada
quando un’auto veloce lo investì
quell'uomo lo aiutò
e Renzo allora partì
verso un ospedale che lo curasse per guarìr.
Quando Renzo morì io ero al bar
La strada era buia
si andò al San Camillo
e lì non l'accettarono
forse per l'orario
si pregò tutti i Santi
ma s'andò al San Giovanni
e lì non lo vollero per lo sciopero
Quando Renzo morì
io ero al bar era ormai l'alba andarono al policlinico
ma lo si mandò via perchè mancava il vicecapo
c'era in alto il sole
si disse che Renzo era morto
ma neanche al Verano c'era posto
Quando Renzo morì
io ero al bar,
al bar con gli amici bevevo un caffè.
Anche il delitto di Marco Pantani si è tinto di giallo.
Rino Gaetano: perché lo cantano ancora tutti. I segreti della longevità del geniale cantautore, nato a Crotone il 29 ottobre del 1950, scrive Gabriele Antonucci il 29 ottobre 2018 su "Panorama". “C’è qualcuno che vuole mettermi il bavaglio: io non li temo! Non ci riusciranno! Sento che, in futuro, le mie canzoni saranno cantate dalle prossime generazioni. Che, grazie alla comunicazione di massa, capiranno cosa voglio dire questa sera. Capiranno e apriranno gli occhi, anziché averli pieni di sale”. La profezia che fece Rino Gaetano in un concerto sulla spiaggia di Capocotta nel 1979 si rivelò esatta. Il geniale cantautore crotonese, nato il 29 ottobre del 1950, ci ha lasciato 37 anni fa, eppure le sue canzoni sono ancora oggi così amate e ascoltate, anche dai più giovani, che riesce difficile pensare a una sua scomparsa ormai lontana. Il 2 giugno del 1981 Rino Gaetano perse la vita in un incidente a via Nomentana, poco distante da casa sua, nel quartiere di Montesacro. La sua auto finì addosso ad un camion proveniente dall’altra corsia, ma il cantante non morì sul colpo. Dopo che tre ospedali rifiutarono il suo ricovero, morì per le gravi ferite riportate alla testa.
Le inquietanti coincidenze. È incredibile come lo stesso cantautore, 11 anni prima, aveva raccontato ne La ballata di Renzo la morte di un uomo dopo essere stato rifiutato da tre ospedali e perfino dal cimitero. Nel brano La ballata di Renzo cantava: «Quando Renzo morì io ero al bar la strada era buia si andò al S.Camillo e lì non l’accettarono forse per l’orario si pregò tutti i Santi ma s’andò al S.Giovanni e lì non lo vollero per lo sciopero. Quando Renzo morì io ero al bar era ormai l’alba e andarono al Policlinico ma lo si mandò via perché mancava il vicecapo c’era in alto il sole, si disse che Renzo era morto ma neanche al Verano c’era posto». Una somiglianza inquietante con quello che sarebbe accaduto davvero pochi anni dopo allo stesso Gaetano, arrivato al Policlinico Umberto I già in condizioni disperate. Sulle sue ultime ore di vita non sono mai stati fugati del tutto dubbi e sospetti, come conferma la pubblicazione di un saggio, Rino Gaetano, la tragica scomparsa di un eroe di Bruno Mautone, nel quale l’autore sostiene che l’artista sia stato ucciso dalla massoneria deviata. La notte dell’incidente un’ambulanza dei vigili del fuoco lo portò al San Camillo, dove venne però rifiutato il ricovero perchè non attrezzato a prestargli soccorso. Verrà poi rifiutato anche dall’ospedale San Giovanni e infine portato al Policlinico Umberto I nel quale, però, il reparto di traumatologia non era funzionante. Dopo alcune ore di agonia, senza aver ricevuto alcuna cura, il cantautore morirà verso le sei del mattino a soli 31 anni. In un primo momento gli verrà perfino rifiutata la sepoltura al cimitero del Verano, dove riposano numerosi personaggi del mondo dello spettacolo e della cultura, e soltanto dopo le pressioni di alcune personalità verrà trasferito definitivamente lì. Nel 2012 Comune di Roma ha dedicato al cantante una targa commemorativa sul palazzo di Via Nomentana Nuova 53, dove Rino ha abitato dal 1970 fino alla sua scomparsa.
Il segreto del successo di Rino Gaetano. Il segreto della longevità di Rino Gaetano è nella sua capacità unica di coniugare un’impareggiabile attitudine all’ironia e allo sberleffo con una graffiante satira politica e sociale. In un paese come il nostro, da sempre diviso tra Guelfi e Ghibellini, la sua musica ha messo d’accordo sia la destra che la sinistra proprio perché non ha risparmiato nessuna delle due parti, tanto meno il centro. Per questo non è mai stato catalogabile, a differenza di altri suoi colleghi degli anni Settanta, in uno schieramento politico. Rino non si limitò ad accenni generici all’attualità politica e ai suoi protagonisti, ma nelle sue canzoni fece i nomi e i cognomi e, anche per questo, i suoi testi e le sue esibizioni dal vivo sono stati più volte censurati. Il suo universo è affollato di santi vestiti d'amianto che salgono sul rogo, di donne immaginarie che filano la lana e fiutano tartufi, di cieli blu e di notti stellate, di amabili prostitute e di detestabili politici di ogni schieramento. Gaetano era accessibile e oscuro al tempo stesso, le sue canzoni venivano ballate in discoteca e facevano da colonna sonora delle manifestazioni politiche. Una canzone esemplare di questa sua attitudine allo sberleffo intelligente è Nuntereggae più nella quale, a ritmo di reggae, punta ironicamente il dito contro Gianni Agnelli, Enrico Berlinguer, le logge massoniche, il decano del giornalismo sportivo Gianni Brera e lo scandalo della spiaggia di Capocotta. Come non ricordare, poi, la sua fortunata partecipazione al Festival di Sanremo, dove nel 1978 si classificò terzo con la scanzonata Gianna, esibendosi in frac, camicia a righe rosse e scarpe da ginnastica?
Gli esordi. Eppure i suoi esordi discografici sono stati tutt’altro che esaltanti. Dopo alcune esperienze teatrali, tra i quali il ruolo della volpe nel Pinocchio di Carmelo Bene, Gaetano iniziò ad esibirsi nel leggendario Folkstudio, inesauribile fucina artistica dei cantautori romani, dividendo spesso il palco con gli allora sconosciuti Francesco De Gregori e Antonello Venditti. Si accorge del suo talento il produttore Vincenzo Micocci, che gli permette di pubblicare i suoi primi due singoli I love you Maryanna e Jaqueline, incisi dal cantante con lo pseudonimo di Kammamuri’s, e il primo album Ingresso libero, pubblicato dalla It nel 1974. Né pubblico né critica restano particolarmente colpiti dal cantautore crotonese, che si mette in luce un anno dopo con il 45 giri Il cielo è sempre più blu, un saggio della sua capacità di tenersi in perfetto equilibrio tra satira e nonsense. Nel 1976 il pubblico si accorge delle sue singolari qualità grazie al secondo album Mio fratello è figlio unico, trascinato dalla splendida title track, una struggente ballad in bilico tra affetti familiari e denuncia sociale. Nel disco spicca anche l’emozionante canzone d’amore Sfiorivano le viole, da molti considerato uno dei vertici della sua produzione artistica.
Il successo. Il terzo album Aida del 1977 è una piacevole conferma, ma è con il successivo Nuntereggae più e soprattutto grazie al terzo posto a Sanremo con l’orecchiabile e maliziosa Gianna che Rino entra ai piani alti delle classifiche. Il 1979 segna il suo passaggio dalla piccola etichetta It a una major come l’Rca, con la quale pubblica il suo quinto album Resta vile maschio, dove vai?. Nel 33 giri troviamo la divertente melodia spagnoleggiante di Ahi Maria, l’emozionante ritratto della amata Calabria in Anche questo è Sud e la sferzante satira politica di Nel letto di Lucia. Gaetano è ormai lanciatissimo, tanto che, dopo la pubblicazione nel 1980 del suo ultimo album in studio E io ci sto, viene chiamato da Riccardo Cocciante per alcune tappe di un tour fortunatissimo, che verrà ribattezzato Q Concert.
L'incidente mortale. Proprio nel periodo di massimo fulgore, nel quale stava prendendo forma un lavoro sperimentale intitolato provvisoriamente Alice, un tragico incidente stradale ha interrotto il 2 giugno del 1981 la sua parabola umana e artistica. Nel 2007 la fiction Rino Gaetano, Ma il cielo è sempre più blu, trasmessa in prima serata da Rai Uno, ha fatto scoprire a tanti giovani la musica di Rino Gaetano, grazie anche all’eccellente interpretazione di Claudio Santamaria. La miniserie ha avuto un grande successo di ascolti, dimostrando ancora una volta l’attaccamento del pubblico al cantautore calabrese, ma non è piaciuta alla sorella Anna, secondo la quale la figura di Rino è stata troppo romanzata. In effetti non deve essere stato semplice riassumere, in due sole puntate di una fiction, una personalità complessa e fuori dagli schemi come quella del cantautore. Quella personalità che rende ancora oggi le canzoni di Gaetano incredibilmente fresche e attuali.
L'omicidio massonico. La legge del contrappasso e le morti in auto, scrive Paolo Franceschetti. E due cosette che non sapete sulle stragi di Falcone e Borsellino. 1. Premessa. 2. Gli incidenti di auto e moto. 3. Le stragi di Capaci e di Via D'Amelio. 4 Ricapitoliamo. Il significato delle stragi e la trattativa tra stato e mafia. 5. Qualcuno telefona da Roma.
1. Premessa. Nei tre precedenti articoli sull’omicidio massonico abbiamo analizzato i caratteri comuni a tutti gli omicidi commessi dalla massoneria. Sinteticamente:
- la maggior parte degli omicidi massonici sono effettuati dai servizi segreti deviati; dal momento che tale struttura ha al suo vertice persone affiliate (o comunque dipendenti da) alla massoneria rosacrociana, e dal momento che i Rosacroce hanno come loro padre spirituale Dante Alighieri, viene utilizzata la cosiddetta tecnica del contrappasso. Ovverosia la persona da eliminare morirà secondo la logica di far patire alla vittima il peccato che questa ha commesso. Ad esempio molti dei testimoni di Ustica (vicenda che, come è noto, ha a che fare con un incidente aereo) moriranno in un incidente aereo. Fabio Piselli, testimone della tragedia del rogo del Moby Prince, viene caricato su un’auto a cui venne dato fuoco (doveva morire quindi in un rogo). Luciano Petrini, perito che stava facendo una perizia sulla morte del colonnello Ferraro (che muore impiccato all’asciugamani del bagno) morirà a colpi di portasciugamani. Oppure ricordiamo il caso dell’attore Bruce Lee e del figlio Brandon Lee: il primo (che pare morì avvelenato in una data il cui valore numerico complessivo è 11) aveva girato la scena di un film in cui moriva sul set, colpito da una pallottola che invece di essere caricata a salve spara un proiettile vero; il secondo morì proprio in questo modo, probabilmente perché cercava la verità sulla morte del padre. Ecc…
- Ogni omicidio è commesso in una data ben precisa, in cui il valore numerico è diverso a seconda dei casi (ricordiamo che il valore numerico si ottiene sommando tutti i numeri presenti nella data da calcolare): 7, come firma della Rosa Rossa, ma anche come simbolo di perfezione chiusura di un ciclo, ecc…
- 8 e 11 come simbolo di giustizia. E poi ci sono i multipli di 11 in particolare il 33, che indica anche il massimo grado (ufficiale) della massoneria.
- 13 come simbolo di morte.
Chi sale troppo in alto, chi osa troppo, viene gettato dall’alto, come Cecilia Gatto Trocchi. Come Adamo Bove, il responsabile della security della Telecom morto di recente. Qualcuno può morire fulminato dalla corrente elettrica come Giuseppe Gatì, morto in un giorno rituale la cui somma è 7 (la firma della RR), perché il fulmine simboleggia il fulmine di Zeus che punisce la persona che ha osato troppo. Insomma, come i dannati dell’inferno dantesco scontano una pena adeguata al peccato di cui si sono macchiati, chi si mette contro la Rosa Rossa e contro la massoneria rosacrociana, muore con una morte adeguata al tipo di peccato commesso contro questa organizzazione.
2. Gli incidenti d’auto e di moto. Per tanto tempo alcuni conti non mi tornavano. Tanti testimoni, o persone comunque da eliminare, avevano incidenti di auto o di moto. In realtà però qualcosa non mi quadrava. Anzitutto non riuscivo a capire dove fosse il contrappasso in alcuni fatti. Che ci fosse un intento di eliminare il soggetto era palese… ma i conti non mi tornavano. Vediamo alcuni dei casi di cui ci siamo occupati fin qua…Alcuni si sono salvati.
- La giudice Forleo.
- Placanica, il carabiniere implicato nei fatti del G8, accusato di aver sparato a Carlo Giuliani, la cui auto sbanda improvvisamente.
- Il mio amico Giovanni M, di Viterbo, che oltre ad avere ben 5 processi penali diversi, uno più falso dell’altro, ha anche avuto un incidente d’auto.
- La lettrice che ci ha scritto la lettera che abbiamo pubblicato (Laura Biker), scampata al sabotaggio della sua moto ai tempi del centro sociale Leoncavallo.
Poi ci sono quelli che non si sono salvati. Tanti. Una strage infinita, comprendente testimoni di processi importanti, cittadini che avevano curiosato troppo, giornalisti. Anche alcuni personaggi famosi, come Rino Gaetano, Fred Buscaglione, James Dean. La domanda è: posto che i servizi hanno mezzi immensi… posto che non c’è problema a far morire una persona con un mattone sulla testa, con una fuoriuscita di gas dalla cucina, con una caduta per terra, ecc…, perché scegliere un mezzo così insicuro? Perché l’auto o la moto? Me lo domandai per mesi dopo l’incidente di moto mio e di Solange, avvenuto lo stesso giorno. Due moto diverse sabotate nello stesso giorno. Perché volevano provocarmi una morte così assurda, con un mezzo così insicuro, e che avrebbe destato più di un sospetto? La domanda mi risuonò in mente per mesi. Con i mezzi che ci sono oggi la persona ha buone probabilità di salvarsi. Le auto sono infatti dotate di airbag e la cintura di sicurezza è obbligatoria su tutte le vetture. Per quanto riguarda la moto vale un discorso analogo. Oggi il casco è obbligatorio e spesso le giacche e i pantaloni da moto hanno delle protezioni che difendono molto in caso di caduta. Quindi la domanda che mi risuonava era: perché usare un mezzo così fallimentare dal punto di vista dell’efficacia? Un poliziotto tempo fa mi disse che ciò è dovuto al fatto che spesso i servizi adottano tecniche antiquate, e continuano ad eliminare le persone senza tenere conto dell’aggiornamento della tecnica. Lì per lì confesso che la spiegazione mi piacque tantissimo e mi dette soddisfazione. Dal momento che io mi sono salvato in due incidenti di moto, l’idea di essere scampato alla morte perché i servizi segreti sono così stupidi da usare tecniche antiquate era una cosa divertente… Per diverso tempo io e Solange scherzavamo su questo dicendo “hai visto… sono così stupidi che applicano meccanicamente a tutti le stesse tecniche e oggi tra i cittadini in circolazione abbiamo più scampati alla morte che persone normali…”. Ma la verità è che questa spiegazione non mi convinceva. Dentro di me sapevo che la massoneria rosacrociana è sofisticatissima; ai vertici ci sono persone intelligentissime che non lasciano nulla al caso. In ogni delitto nulla è lasciato al caso, né il nome della via, né il numero delle vittime. Nulla. Strano sarebbe che venga lasciato al caso proprio il mezzo per uccidere. Addirittura, una persona esperta di servizi ci disse, poco tempo fa, che i nostri servizi segreti sono considerati in assoluto i migliori al mondo per quanto riguarda proprio… la manomissione di auto e moto. Tanto che tra i servizi segreti di altri paesi gira voce che i nostri siano così bravi, che basta loro passare accanto ad un auto, farle una carezza, e questa si va schiantare dopo qualche chilometro. Purtroppo un giorno la risposta alla mia domanda (perché?) mi venne chiara. Stavo riflettendo su alcuni omicidi mettendo in fila questi dati:
Haider; ucciso in Rosenthalerstrasse, nella sua Volkswagen Phaeton, l’auto venne scelta per il mito di Fetonte che col suo carro cercò di raggiungere il sole e morì nel sole; Haider era salito troppo in alto e questo lo ha bruciato.
Mauro Brutto: indagava sulla morte di Fausto e Jaio del centro sociale Leoncavallo. Morto investito da una Simca 1100. Chiaro il significato di quell’11 nel numero dell’auto.
Aldo Moro. Trovato morto in un una Renault Rossa. RR. La firma della Rosa Rossa.
James Dean, morto in una Porsche 550, che portava il numero 130 (morto quindi per gli stessi motivi che hanno portato alla morte Rino Gaetano, De Andrè e Lucio Battisti).
Ogni auto ha una sua logica. Ovverosia anche il tipo di auto con cui uno muore ha una logica precisa, adatta alla situazione o alla persona. Leggendo un libro di esoterismo la risposta mi è stata chiara. Macchina… viene dal latino, deus ex machina. Nelle commedie greche, il Dio veniva a risolvere situazioni intrigate scendendo dal cielo, appeso ad un congegno di funi che si chiamava mechanè…La macchina quindi era il congegno da cui veniva il Dio a risolvere i problemi terreni. L’auto è quindi una punizione che viene dal cielo, dal Dio stesso. Per quanto riguarda la moto penso (ma potrei sbagliarmi… sto solo formulando ipotesi) che valga lo stesso discorso dell’auto con una particolarità. Che una moto vista dall’alto simboleggia una croce. Il soggetto che muore in moto viene quindi simbolicamente crocifisso. La cosa, che suona quasi ridicola tanto da avermi provocato non poche risate, non me la sono inventata, ma l’ho trovata su un libro dal titolo curioso: “Quel che si dice dei ciclisti rosacroce”. Vista dall’alto, infatti, la moto è una croce, ove le braccia laterali sono costituite dal manubrio. Un libro, nonostante il titolo dalla logica incomprensibile, scritto da una persona che di Rosacroce se ne intende.
3. Falcone e Borsellino. Mi sono per parecchio tempo domandato dove fosse il contrappasso per le stragi di Capaci e Via D’Amelio. A parte le date rituali (31 per Falcone e 11 per Borsellino: 19.7.1992 infatti è: 1+9+7+1+9+9+2 =38=3+8=11 ) la modalità della morte doveva senz’altro essere rituale. Falcone infatti poteva essere ucciso a Roma, dove girava tranquillamente senza scorta. Quindi perché ucciderlo proprio in Sicilia e proprio con quella modalità che, dal punto di vista logico, non sta né in cielo né in terra? Riina, per quanto possa dirsi male di lui, era ed è, una persona intelligente. Una persona che ha l’intelligenza di diventare il Capo dei Capi di tutta la Sicilia, può commettere una leggerezza del genere? No. Io credo che Falcone sia stato ucciso in quel modo per vari motivi. Anzitutto doveva morire in Sicilia perché era in Sicilia che le sue indagini si erano svolte. La regola del contrappasso esigeva quindi che lui morisse nella stessa terra ove aveva "peccato". Inoltre doveva saltare in aria in modo eclatante, perché voleva far saltare il sistema. Falcone aveva capito che il fulcro del sistema criminale in Italia non è la mafia. E’ lo stato. E sono le banche. Quindi doveva saltare in aria perchè l'esplosione con cui muore fa da contrappasso all'esplosione che lui voleva assestare al "sistema". Inoltre è morto a Capaci, a simboleggiare che chiunque sia capace, deve morire. La cosa suona terribilmente ridicola, ma prego chi legge di riflettere che stiamo parlando di un’associazione che non lascia nulla al caso, neanche i nomi delle persone che vengono messe in determinate posizioni di vertice politico, finanziario, o amministrativo. La scelta del luogo, nella strage di Capaci, è dovuta probabilmente anche ad un altro motivo, che risale alle origini del paese. Si narra che il bellissimo isolotto denominato "Isola delle Femmine" fosse stato un tempo una prigione occupata solo ed esclusivamente da donne. Tredici fanciulle turche, essendosi macchiate di gravi colpe, furono dai loro congiunti imbarcate su una nave priva di nocchiero e lasciate alla deriva. Vagarono per giorni e giorni in balia dei venti e delle onde finché una tempesta scaraventò l'imbarcazione su un isolotto della baia di Carini. Qui vissero sole per sette lunghi anni fin quando i parenti, pentitisi della loro azione, le ritrovarono dopo molte ricerche. Le famiglie così riunite decisero di non fare più ritorno in patria e di stabilirsi sulla terraferma. Fondarono quindi una cittadina che in ricordo della pace fatta, chiamarono Capaci (da "CCa-paci" ovvero: quì la pace) e battezzarono l'isolotto sul quale avevano dimorato le donne "Isola delle Femmine". Non a caso, come risulta dalla sentenza sulla strage di via dei Georgofili (che riuniva in un solo processo ben sette stragi, commesse a Firenze, Milano e Roma) e dalla sentenza sul Capitano Ultimo, dopo la strage di Capaci venne avviata la famosa trattativa tra stato e mafia, di cui si fece portavoce il generale Mori, per raggiungere… la pace. Probabilmente la morte così eclatante di Falcone segna anche, simbolicamente, uno spartiacque tra il vecchio metodo di eliminazione dei magistrati (ucciderli) e quello nuovo (delegittimarli). Non più guerra quindi, ma le cosiddette "armi silenziose per una guerra tranquilla" di cui abbiamo parlato altrove. La morte di Falcone simboleggia quindi la Pace. Infatti dopo le stragi di Capaci e via D'Amelio la mafia non esiste quasi più. Hanno preso Riina e Provenzano e dopo di loro quasi solo il silenzio. Addirittura il procuratore Antimafia Grasso qualche mese fa è andato al Maurizio Costanzo Show a declamare gli immensi successi dello stato sulla mafia, ridotta - secondo lui - oramai quasi al silenzio. Ricapitolando, il simbolismo della strage di Capaci è: auto, esplosione, isola delle femmine, Capaci. Il probabile significato: Falcone voleva far saltare il sistema (esplosione), quindi dal cielo (auto) arriva la punizione che lo fa saltare in aria; dopodichè dovrà scendere la pace, tra lo stato e la mafia (Capaci). Così muoiono le persone capaci di arrivare al cuore del sistema. Inoltre, a firmare la strage, ci sono due elementi: il gruppo di mafiosi si era posizionato sulla collina vicino Capaci; e la collina si chiama "Raffo rosso", ove raffo in ebraico significa "Dio che guarisce". RR, firma della Rosa rossa. Mentre la moglie di uno degli agenti di scorta, che fece il famoso discorso ai funerali, si chiama Rosaria Costa. RC quindi. Borsellino fu ucciso nello stesso modo. Anzitutto perché aveva seguito le orme dell’amico. Poi perché anche lui, col memoriale Calcara, aveva avuto notizie che erano in grado di far saltare il sistema. Credo che un aspetto della simbologia della sua morte vada trovata anche nella via dove avvenne l’esplosione: Via Mariano D’Amelio, un politico che fece leggi sulla magistratura. Chiaro il messaggio: la magistratura deve essere azzerata. Ora ricordiamo quel che successe dopo queste stragi. Inizialmente sembrò che la magistratura acquistasse più poteri, e che lo stato volesse realmente fare la guerra alla mafia. Nacque lo strumento del 41 bis (il carcere duro per i mafiosi). Ci furono alcuni ritocchi al codice di procedura penale. Ma dopo poco tempo iniziarono le leggi che, di fatto, azzerarono il potere della magistratura riducendolo ad un formalismo vuoto; cosicché oggi l’80 per cento dei reati cade in prescrizione, e per reati gravissimi vengano comminate pene ridicole: a titolo di esempio (vado a memoria) la riforma del falso in bilancio, un reato che oggi praticamente non esiste più; la legge che riforma il reato di attentato agli organi costituzionali, reato punito prima con l’ergastolo, e oggi praticamente impunito; l’abolizione dell’abuso di ufficio, e tante altre. Un’opera sistematica di demolizione dei poteri dei magistrati che è in atto tuttora (ad esempio con la legge di riforma delle intercettazioni e altre genialità del genere).
4. Ricapitoliamo. Il significato delle stragi e la trattativa tra stato e mafia. Leggiamo ora la successione di leggi nel tempo, dopo le due stragi del 92, alla luce della simbologia sottesa ad esse. Con Falcone arriva il segnale della pace tra stato e mafia. Da qui nascono le apparenti leggi contro la mafia, che in realtà servono a comminare il carcere duro ai mafiosi, probabilmente per togliere di mezzo Riina e altri capi mafia, che, grazie a questa legge, non potranno più comunicare con l’esterno. La legge cioè non serve per punire i mafiosi, ma per impedirgli di continuare a comandare e togliere di mezzo la vecchia guardia, sostituendola con una nuova, che sia d’accordo con la cosiddetta linea morbida. Cioè per sostituire i mafiosi che volevano la guerra allo stato, con altri che vogliano “la pace”. Con la strage di Via D’Amelio invece si dà il via alle leggi che azzerano i poteri della magistratura.
5. Qualcuno telefona da Roma. Per far capire che le stragi di Capaci e via D’Amelio sono stragi non di mafia è sufficiente un documento che Gabriella Pasquali Carlizzi ha citato in un suo libro. E’ la conversazione che si svolge tra due personaggi, uno romano e uno siciliano, un magistrato. Eccone la trascrizione.
Telefonata tra Roma e Sicilia.
- dottore c’è una telefonata da Roma
- Pronto con chi parlo?
- Oh Presidente mi dica.
- Dottore sarà lei a occuparsi della strage di Capaci naturalmente.
- Presidente lei sa bene che qui quando succedono certe cose noi diciamo è la mafia. Anche in questo caso noi diremo è la mafia.
- Bravo proprio questo volevo farle intendere caro dottore. D’ altra parte non a caso l’incidente è avvenuto lì, in quel preciso punto, altrimenti questa inchiesta poteva finire a Palermo.
- Meglio cosi presidente, è meglio così mi creda. La gente di Palermo pensa a fare giustizia ma al futuro della gente della Sicilia chi ci pensa? Piuttosto presidente bisogna togliere i sigilli da tutto quel materiale. Io lo conoscevo bene, era uno che annotava tutto e credo che sia meglio non alzare polveroni, meglio per tutti.
- Si lei ha ragione dottore. Ma qualcosa bisognerà pure trovare, quanto basta per dare all’indagine un’immagine di serietà. Lei mi capisce non è vero? L’Italia in questo momento è scossa. Non potrebbe sopportare le responsabilità di questo delitto meglio indagare su fatti avvenuti dal paese ormai sappiamo che il giudice era andato troppo oltre le sue competenze; aveva un piano da attuare. La amava troppo la sua terra. Merita di essere ricordato come un eroe.
- Sono d’accordo con lei presidente in fondo queste stragi di eroi ne hanno fatti molti in questi anni e la gloria dell’Italia aumenta.
- Domani andrò sul posto dottore. Ci incontreremo li per coordinare i lavori. Occorre molta prudenza e sintonia.
I due personaggi (facilmente riconoscibili) si incontrarono sul posto. Che le stragi di Capaci e Via D’Amelio non siano stragi di mafia lo ha detto lo stesso Riina, in un intervista ad Antimafia 2000. Non so se vi ricordate quello che scrissi nel mio articolo “La massoneria è una Harley Davidson…” infatti, Riina, alla fine, la verità te la dice. E non ho detto quelle frasi certamente per caso… Volevo dire esattamente le cose che ho detto.
IL MISTERO DI MARCO PANTANI.
Doping Schwazer, perché serve essere garantisti. Se si è dopato va radiato. Ma il test che lo inchioda è sospetto. E va chiarito, scrive Gabriele Lippi su “Lettera 43” il 22 Giugno 2016. Déjà vu. A pochi metri dal traguardo più ambito, il marciatore si ferma. A colpirlo non è una crisi di fame o la disidratazione dopo quasi 50 chilometri sotto il sole, ma un test antidoping che fa piombare su di lui la più infamante delle accuse che possano esistere per un atleta. Ad Alex Schwazer era già successo prima di Londra 2012, ed è ricapitato a 45 giorni dalla cerimonia di inaugurazione di Rio 2016. Epo, allora, anabolizzanti adesso. Sembra di vedere un film già visto, eppure le differenze tra le due situazioni sono più delle analogie. Allora, scoperto, Alex si presentò in conferenza stampa, da solo, senza un solo membro della Fidal a fargli compagnia. Pianse lacrime amare, ammise ogni responsabilità, raccontò di essere andato a spese proprie fino in Turchia per acquistare 1.500 euro di eritropoietina e assumerla poi a casa sua per mesi, ingannando anche la fidanzata Carolina Kostner, che per quel peccato di ingenuità/negligenza/amore avrebbe pagato con una squalifica di 16 mesi (poi ridotti a 12). Spiegò di averlo fatto perché «tutti lo facevano, e mi sentivo impotente». Apparì come un uomo solo, schiacciato dalla pressione, un atleta che si sentiva costretto a vincere e unico baluardo di un'atletica italiana con poco talento e un livello di programmazione inferiore agli altri. Qualcuno provò compassione, altri no, ma sulla sua colpevolezza non potevano esserci dubbi. Oggi è tutto diverso. La provetta che incastra Schwazer è stata prelevata a gennaio e, la prima volta, ha dato esito negativo. A maggio, poco dopo la sua vittoria nella 50 km del Mondiale a squadre di Roma, a pass olimpico strappato, un nuovo test sullo stesso campione. Positivo, stavolta, con valori di testosterone 11 volte superiori alla media. Non uno scarto minimo, ma qualcosa di enorme, passato inosservato al primo controllo e trovato solo con le contro-analisi. In mezzo, tra quei due esami, Schwazer ha ricevuto 15 visite degli ispettori Iaaf (la federazione internazionale di atletica leggera), Wada (l'agenzia mondiale antidoping) e Nado (l'agenzia italiana antidoping). Tutti rigorosamente negativi. In un anno, da quando nel maggio 2015 ha deciso di tornare a gareggiare, affidandosi alle cure di Sandro Donati, ha subito 47 controlli antidoping, senza risultare mai positivo. Ora è facile cadere nella tentazione della gogna mediatica e invocare la radiazione. Chi scrive ha sempre sostenuto la tesi della 'seconda chance', l'ideologia della redenzione. Eppure, la prima tentazione nella notte del 22 giugno, è stata quella di fare mea culpa, scagliarsi contro Schwazer, chiedere scusa a Gianmarco Tamberi e a chi, come lui, aveva espresso pareri durissimi sulla sua possibile partecipazione a Rio. Perché chi gli aveva concesso un'apertura di credito si sente ancora più tradito di chi, al contrario, non l'ha mai perdonato e mai lo perdonerà. Ci si sente persino un po' sciocchi ad averci creduto. Ma in un mondo giusto, Schwazer merita la sospensione di un giudizio che stavolta potrebbe essere quello finale. La merita non per le lacrime versate nel 2012, non per l'oro di Pechino 2008, non perché a lui ci si aggrappa per una medaglia in più in un'Olimpiade destinata a dare poche gioie all'Italia. La merita in quanto essere umano. La storia dello sport è tristemente piena di truffatori dopati, ma conta anche drammi umani legati a giudizi sommari e vittime innocenti di casi tuttora irrisolti. La fine di Marco Pantani, morto da solo in una camera d'albergo dopo esser stato trattato come un paria per un ematocrito sopra il limite che ancora oggi è velato dall'ombra del complotto, dovrebbe far riflettere. Così come quella, fortunatamente con esito diverso, di Andrea Baldini, fiorettista italiano costretto a fermarsi mentre si preparava all'Olimpiade di Pechino 2008 da favorito assoluto perché nelle sue urine fu trovato del furosemide, un diuretico non dopante ma usato anche come coprente di altri farmaci. Baldini sostenne di non aver mai assunto quella sostanza, gli esami approfonditi non trovarono traccia di doping, e pochi mesi dopo fu riabilitato. Tornò e si laureò campione del mondo, ma quei Giochi di Pechino, nessuno glieli ha mai potuti restituire. Schwazer, a differenza di Pantani e Baldini, ha già sbagliato una volta, è vero, ma quel conto l'ha già pagato. Ora va giudicato per questo nuovo caso, e la lezione migliore, in queste ore, nel mucchio di chi lo chiama «stupido» e invoca la sua radiazione, arriva dal silenzio di Tamberi, dal richiamo al garantismo di Filippo Magnini, o dalle parole dello spadista Paolo Pizzo, un altro che non è mai stato soft nei giudizi sul marciatore e su chiunque si dopi. «Se fosse vero, sarebbe molto molto grave». Se fosse vero, appunto. Occorre andarci piano, ascoltare le spiegazioni del marciatore, che ha convocato una conferenza stampa per le 18 del 22 giugno, e del suo avvocato Gerhard Brandstaetter, che parla di «accuse false e mostruose». In gioco non c'è solo la carriera di un atleta, ma la vita di un ragazzo di 31 anni e la credibilità di un allenatore come Sandro Donati, che su Schwazer si è giocato tutto. Se non volete farlo per Alex, fatelo almeno per lui. Aspettate. Poi, se tutto sarà confermato, radiazione a vita sia. Altrimenti chiederemo conto alla Iaaf di come un test negativo a gennaio possa risultare con valori 11 volte più alti della norma a maggio.
Alex Schwazer è innocente (ma non ho le prove). Dubbi, perplessità e qualche riflessione sulle accuse che hanno portato alla squalifica del marciatore italiano, scrive Gianluca Ferraris l'11 agosto 2016 su "Panorama".
Io so, ma non ho le prove.
Io so che Alex Schwazer è innocente.
Io so che Alex non prendeva più nemmeno un’aspirina, terrorizzato com’era da qualsiasi traccia di farmaci nel suo sangue.
Io so che Alex una notte ha urlato per un banale ascesso, perché l’oppiaceo con cui noi comuni mortali sediamo il nostro mal di denti lui non volle vederlo nemmeno da lontano.
Io so che Alex, dopo l’annuncio di voler tornare in attività, ha passato indenne oltre 40 controlli, la maggior parte dei quali a sorpresa.
Io so che non ha senso assumere «una lieve quantità» di testosterone il 31 dicembre senza esserti dopato né prima né dopo, e con il ritorno in pista lontano più di quattro mesi.
Io so che prelevare un campione di urina l’unico giorno in cui i laboratori dell’antidoping sono chiusi (permettendo così a mani ignote di trattenere la provetta con sé per 24 ore) è quantomeno strano.
Io so che mancano alcuni documenti di viaggio della fialetta. E che quando questa ricompare in un laboratorio di Colonia, invece di un codice numerico che dovrebbe rendere anonimo l’atleta, sopra c’è scritto Racines, Italia. Maschio che gareggia su lunghe distanze, superiori a 3 km. A Racines ci sono 400 abitanti. E un solo marciatore.
Io so che il primo controllo su quella fialetta fu negativo.
Io so che qualcuno, mesi dopo, suggerì al laboratorio una seconda analisi, che risultò lievemente positiva.
Io so che la Wada, l’agenzia mondiale antidoping che ha stanato Lance Armstrong e gli olimpionici russi, la più alta autorità del pianeta in materia, non ha partecipato ai controlli e alle analisi su Alex, interamente gestiti dalla Federazione internazionale di atletica.
Io so che i vertici vecchi e nuovi della Federazione internazionale di atletica sono stati a lungo chiacchierati per aver chiuso un occhio nei confronti dei tesserati russi, gli stessi che Alex e il suo coach Sandro Donati hanno contribuito a denunciare.
Io so che Donati è un mago delle tabelle di allenamento e un eroe della lotta al doping.
Io so che negli anni Novanta, quando Donati scoperchiò il cosiddetto sistema Epo, due degli atleti che allenava furono vittima di un caso di provette manipolate.
Io so che Alex, nonostante tre anni e mezzo di lontananza dalle piste, marciava ancora più veloce di tutti.
Io so che alla vigilia di una gara a La Coruna Donati ricevette pressioni perché Alex non infastidisse i marciatori cinesi candidati alla vittoria.
Io so che Alex in quella gara arrivò secondo, e che gli ispettori controllavano da vicino ogni suo passo per cogliere una qualsiasi irregolarità stilistica che lo avrebbe fatto squalificare.
Io so che l’allenatore dei cinesi è Sandro Damilano, fratello dell’ex marciatore Maurizio. E che prima della 50 chilometri di Roma, lo scorso maggio, qualcuno a lui vicino chiese a Donati di «lasciare vincere Tallent», l’atleta australiano che più aveva contestato il ritorno in pista di Alex.
Io so che Liu Hong, altra marciatrice cinese allenata da Damilano, dopo quella stessa gara fu trovata positiva all’higenamine, un vasodilatatore naturale, ma venne squalificata solo per un mese. Adesso lei è a Rio per gareggiare mentre Alex no.
Io so che subito dopo questa imbarazzante fila di coincidenze saltò fuori la presunta positività di Alex. Che però gli venne comunicata oltre un mese dopo, in piena preparazione preolimpica e con un margine davvero ristretto per organizzare una difesa tecnico-legale decente.
Io so che non assistevo a una simile solerzia investigativa, e a un simile tentativo di sobillare i media, dai tempi dell’incendio del Reichstag o dell’arresto di Lee Harvey Oswald. O per restare in ambito sportivo, da quel mattino cupo a Madonna di Campiglio che spezzò per sempre la carriera di Marco Pantani.
Io so che colpire Pantani e Schwazer, sportivi amati dal pubblico ma ragazzi fragili dentro, è facile. Troppo.
Io so che in molti avevano bisogno di punire in maniera esemplare chi ha avuto il coraggio di sfidare il sistema. Quello stesso sistema che poi si ripulisce la coscienza in favor di telecamera con il Refugee Team e i palloni regalati alle favelas.
Io so che Alex si è pagato da solo la preparazione, le divise, gli scarpini, il viaggio per Rio. Che ha finito i risparmi e che ha lavorato come cameriere per mantenersi gli allenamenti. Che dormiva in un tre stelle dietro al raccordo anulare e si faceva testare i tempi su una pista comunale, accanto a runner della domenica e anziani che portavano a passeggio il cane.
Io so che ha confessato i suoi errori del passato, e li ha pagati tutti.
Io so che si stava rialzando senza chiedere aiuti o riguardi, ma solo una seconda possibilità.
Io so che a Rio 2016 quella seconda possibilità è stata data ad atleti dal curriculum sportivo molto più «stupefacente» del suo.
Io so che nessuno di quelli che contano, dal Coni alla Fidal passando per i buonisti a gettone del mondo politico e degli editoriali qualunquisti, ha ancora speso una parola se non di difesa almeno di umana solidarietà per Alex.
Io so che Alex non ha la forza misurata per disperarsi restando saggio. Come non la ebbe Pantani.
Io so che a Rio 2016 Alex sarebbe arrivato sul podio nella 50 km e forse anche nella 20 km.
Io so che su quel podio Alex avrebbe pianto di gioia. Che sarebbe stato disposto a dimenticare.
Io so che invece oggi piange di rabbia in un bar fuori dal villaggio olimpico, come un emarginato. E che sarà condannato a ricordare.
Io so che qualcuno dovrebbe vergognarsi per aver rovinato una vita.
Le Iene show. Puntata del 3 ottobre 2018, ore 21,00 in diretta Alessia Marcuzzi e Nicola Savino, tra informazione ed intrattenimento, tornano con lo storico programma di Italia 1, scrive Simone Lucidi Mercoledì, 3 Ottobre 2018 su maridacaterini.it. Si parla della morte di Marco Pantani. Ci sono molte incongruenze nella ricostruzione della scomparsa del ciclista, prima tra tutte le pallina di cocaina presente per terra accanto al cadavere. La madre di Pantani sostiene che sia stato ucciso. Già prima di morire, Pantani aveva denunciato di essere stato incastrato e di non essersi mai dopato. Qualcuno avrebbe scambiato o modificato le fialette di sangue analizzate. La morte di Pantani fu archiviata come “overdose”, ma la stanza del campione era totalmente in subbuglio. Cosa è successo davvero? La pallina di cocaina e le varie dosi trovate nella stanza non erano presenti, secondo i testimoni ascoltati, ma sono visibili nel filmato della polizia. Le cose erano spostate, non lanciate. Persino il lavandino era stato smontato e posizionato all’ingresso, mentre nel video risulta integro ed al suo posto. Pantani quel giorno aveva telefonato alla reception dell’albergo per chiedere di chiamare i carabinieri perchè c’erano “alcune persone che gli davano fastidio”. La cocaina rilevata nel corpo di Pantani è 10-20 volte superiore rispetto alla dose letale. Marco avrebbe dovuto mangiare diversi boli di droga o berli. Si sospetta dunque che qualcuno gli abbia sciolto la cocaina nell’acqua senza che lui se ne accorgesse. Secondo il medico intervistato dalle Iene il corpo sarebbe stato spostato ed i segni e le ferite presenti in faccia, sulla schiena e sulle braccia sarebbero stati provocati da qualcun altro. L’inviato Alessandro De Giuseppe intervista Pietro Buccellato, usciere che aprì la porta della stanza di Pantani con la forza e trovò il corpo. Anche lui conferma di non aver trovato la pallina di cocaina e che il lavandino era stato divelto. C’era un secondo ingresso nell’albergo e qualcuno poteva essersi introdotto ed essere andato via da lì. Le telecamere non funzionavano e la porta era aperta ed agibile. L’Ispettore di polizia, Daniele Laghi, interrogato non risponde. La scomparsa di Pantani rimane avvolta nel mistero.
Marco Pantani, come è morto veramente? Video Iene, infermiere 118: “Non c'erano tracce di cocaina”. Nella puntata de Le Iene Show, Alessandro De Giuseppe si occupa della morte di Marco Pantani, avvenuta la sera del 14 febbraio 2004 in un residence di Rimini, scrive il 4 ottobre 2018 Morgan K. Barraco su "Il Sussidiario". A tredici anni dalla morte di Marco Pantani restano i dubbi sull'ipotesi di suicidio accreditata dai vari processi sul caso. Sono molti i punti oscuri della vicenda. A dare voce ai dubbi della famiglia del ciclista è stato il programma “Le Iene” che ha intervistato il titolare dell'albergo in cui Pantani è stato trovato morto, oltre a uno degli operatori del 118 che per primi hanno trovato il corpo del campione di ciclismo nella camera di albergo, Anselmo Torri. Quest'ultimo ad esempio ha smentito la presenza di una pallina di cocaina che è presente nei filmati della polizia. «Ero in servizio quella notte, ci hanno detto di un'urgenza. Abbiamo trovato tutto in disordine, siamo saliti sul soppalco e abbiamo trovato il corpo di Pantani riverso per terra. Abbiamo trovato dei farmaci, intorno al cadavere non c'era niente, neppure la pallina di coca. Mi sono confrontato anche con i miei colleghi». Nelle riprese della polizia ci sono tante tracce di cocaina, non trovate invece dagli infermieri. I sanitari del 118 presenti quando fu trovato il corpo affermano di non averla vista. Anche per questo la madre di Pantani sostiene: «Marco è stato ucciso». Clicca qui per visualizzare il video del servizio delle Iene sulla morte di Pantani. (agg. di Silvana Palazzo)
Marco Pantani e lo scandalo doping. Che cosa è davvero avvenuto al campione di ciclismo, che ancora oggi occupa un posto d'onore nel cuore degli italiani? Nel corso di questi numerosi anni di distanza dalla sua morte, ancora si indaga su quanto avvenuto davvero quel giorno. I familiari del Pirata non hanno mai creduto alla tesi di suicidio, individuata invece dalle autorità nazionali. Secondo la famiglia ed alcuni amici infatti ci sarebbero dei punti oscuri tutti ancora da chiarire. Lo scorso maggio infatti i Pantani si sono rivolti all'avvocato Sabrina Rondinelli per fare luce sul caso, per risalire a quanto avvenuto anche il 5 giugno del '99. Si tratta del penultimo giorno del Giro d'Italia, data in cui il sangue di Pantani avrebbe dimostrato la presenza di sostanze dopanti. Le Iene ripercorrono ancora una volta il caso di Marco Pantani nella puntata in onda questa sera, mercoledì 3 ottobre 2018. Non si tratta della prima volta che il programma di Italia 1 si fa carico della vicenda, dato che lo scorso maggio ha affrontato alcuni punti chiave legati alla presunta positività del ciclista. Secondo l'ex massaggiatore del campione, Roberto Pregnolato, la sera precedente alla tappa di Madonna di Campiglio il valore dell'ematocrito di Pantani sarebbe stato di 48, ovvero due punti al di sotto del valore massimo previsto dalla legge. "Uno che è primo in classifica e viene controllato in ogni momento, si prepara in tempo se è fuori norma, ma Marco non lo era", ha sottolineato infatti ai microfoni delle Iene. Alcune ore più tardi invece il valore è schizzato fino a 53, ma a danneggiare ulteriormente lo stato d'animo del Pirata è stato il processo in diretta subito all'istante dai giornalisti, che lo avrebbero aspettato all'esterno dell'hotel.
La battaglia legale della famiglia Pantani. Il sangue delle provette di Marco Pantani è stato alterato. Ne è convinta la famiglia del ciclista, che a vent'anni di distanza dalla sua morte cerca ancora di riabilitare il suo nome. Un'ipotesi confermata da Renato Vallanzasca, che ha riferito alle autorità come la camorra avrebbe minacciato un medico perché alterasse il test del sangue. L'avvocato Sabrina Rondinelli, incaricato quest'anno di svolgere le pratiche per la riapertura del caso, ha infatti sottolineato come in realtà la morte di Pantani risalga a Madonna di Campigno ed all'anno 1999. Si parla di un decesso morale, dato che la scomparsa del Pirata è avvenuta solo cinque anni più tardi. Secondo il legale tra l'altro all'epoca dei fatti non sarebbero stati fatti gli accertamenti utili per appurare l'omicidio volontario, mentre alcuni rilievi sulla scena del crimine escluderebbero l'ipotesi di suicidio. Al centro delle indagini anche quel viaggio misterioso proposto ai genitori di Marco Pantani, il giorno precedente al ritrovamento del corpo del ciclista. "La nostra famiglia non si è mai fermata", afferma Tonina, la mamma di Pantani, a Panorama. "Sono convinta che con l'avvocato Rondinelli riusciremo, finalmente, a portare all'attenzione della magistratura le troppe stranezze che circondano la morte di mio figlio", ha aggiunto.
GIALLO PANTANI: 200 ANOMALIE, IL J’ACCUSE DI DE RENSIS. Scrive il 31 luglio 2016 Andrea Cinquegrani su “La Voce delle Voci”. “Un caso che presenta almeno 200 anomalie, la morte di Marco Pantani. Un’archiviazione costruita su macroscopiche illogicità. Come credere alla storia dei poliziotti che mangiano un cono Algida durante il sopralluogo e inconsapevolmente gettano la carta nel cestino? O dei tre giubbotti che qualcuno ha a sua insaputa lasciato nel residence? Poi le analisi di Marco a Madonna di Campiglio: come può un gip non trasferire gli atti a Napoli quando ci sono le verbalizzazioni di camorristi che parlano espressamente di corruzione per taroccare quelle provette? Ma si sa, la camorra non corrompe, minaccia di morte…”. Un fiume in piena, l’avvocato Antonio De Rensis, ai microfoni di Colors Radio per puntare l’indice contro un mare – è il caso di dirlo – di anomalie nella tragica vicenda del campione, scippato di quel Giro già stravinto nel 1999, per via delle scommesse di camorra che avevano puntato una montagna di soldi sulla sua sconfitta (e quindi il Pirata “doveva perdere”, a tutti i costi); e poi “suicidato” nel residence “Le Rose” di Rimini, perchè, con ogni probabilità, dava fastidio, “non doveva parlare”, su quel mondo nel quale non dettano legge solo le scommesse della malavita organizzata (capace, a fine anni ’80, di “far perdere” uno scudetto già vinto al Napoli di Maradona), ma anche quella del doping, come dimostra il fresco “caso Schwazer”, con il suo manager, Sergio Donati, minacciato di morte per il timore che possa alzare il sipario su colossali traffici e affari innominabili che costellano il “dorato” mondo sportivo. E’ attesa in questi giorni – la previsione era per fine luglio, prima settimana di agosto – la decisione del gip di Forlì circa il destino dell’inchiesta sul giro d’Italia ’99 taroccato e la sconfitta del Pirata decisa “a tavolino” dalla camorra per via dell’enorme giro di scommesse, come hanno descritto prima Renato Vallanzasca, poi svariati “uomini di rispetto” dei clan campani, a cominciare dal collaboratore di giustizia Augusto La Torre, leader delle cosche di Mondragone abituate a grossi affari esteri (già ad inizio anni ’90 investivano in alberghi e ristoranti scozzesi, epicentro Aberdeen: i “deen don”, come scriveva già allora la stampa britannica) e in vena di riciclaggi spinti. Il legale del pentito La Torre – che ha raccontato per filo e per segno i colloqui con altri tre big boss – è Antonino Ingroia, l’ex magistrato di punta del pool di Palermo, poi passato, con poca fortuna, in politica (quindi avvocato e consulente per la Regione Sicilia targata Rosario Crocetta). Una decisione, quella del gip di Forlì, che a non pochi addetti ai lavori pare scontata: la trasmissione degli atti alla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli per competenza, visto che sono in ballo i clan di camorra, la regia del giro taroccato è made in Campania, non pochi boss hanno già verbalizzato su quelle storie e ancora possono farlo (insieme ad altri collaboratori). C’è tutto un bagaglio di conoscenze & competenze, quindi, alla Dda di Napoli, per poter agire al meglio e far luce sul giallo Pantani. Un’archiviazione “tombale”, a questo punto, suonerebbe non solo come una schiaffo alla famiglia Pantani, ma a tutti gli italiani e a quel minimo di Giustizia che – pur ridotta a brandelli – ancora esiste. E soprattutto affinchè non venga un’altra volta calpestata, come è già capitato e continua a capitare in tanti misteri e buchi neri della nostra “democrazia” altrettanto taroccata, proprio al pari di quel maledetto Giro. L’intervista con l’avvocato Antonio De Rensis, legale della famiglia Pantani, è stata rilasciata a Colors Radio, l’emittente romana diretta da David Gramiccioli, in vita da un anno ma già con indici d’ascolto molto elevati, con solo in Italia, ma anche all’estero. Impegnata soprattutto sul fronte dei diritti civili, dei diritti spesso e volentieri negati e calpestati nel nostro Paese, per dar voce a chi è in attesa di giustizia, o di quella salute portata via dagli interessi di baronie e case farmaceutiche. Uno stupendo spettacolo, diretto e interpretato da Gramiccioli, “Vorrei avere un amico come Rino Gaetano”, dedicato alla musica e all’arte civile di un artista al quale l’allora mainstream dichiarò guerra (in tutti i sensi, fino ad ammutolirlo nel senso letterale del termine), è appena andato in scena a Napoli, nella prestigiosa sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, altro avamposto che lotta non solo per la sua sopravvivenza, ma per fare cultura nel deserto partenopeo, sempre più cloroformizzato dal neomelodismo “arancione”. Uno spettacolo che seguendo il fil rouge di poteri, mafie & massonerie, legava storie e misteri d’Italia, dal caso Montesi al giallo Moro, passando per il Vajont, con una serie di rivelazioni da novanta, autentico regalo per la memoria collettiva: una risorsa da coltivare come pianta sempre più rara. Ecco, di seguito, l’intervista a De Rensis, che potete ascoltare direttamente dal sito di Colors Radio, cliccando fra i programmi sulla casella Voce on Air.
PARLA L’AVVOCATO DELLA FAMIGLIA PANTANI:
“Marco Pantani non era forse il più forte. Ma certo il più amato, mai uno più di lui nella storia del ciclismo. Ogni pomeriggio 10 milioni di italiani davanti alla tivvù a vedere il Giro o il Tour. Forse ha cominciato ad essere un problema anche allora. Il ciclismo forse non era abituato a digerire un fenomeno del genere. Paradossalmente anche questo può essere stato un problema…”.
“Stiamo aspettando le decisioni del gip di Forlì, per fine mese, primi di agosto. Ma è una vicenda che si descrive da sola, nel suo percorso giudiziario”.
“Qui ci sono dichiarazioni scritte, nero su bianco, in cui boss della camorra, come Augusto La Torre, citato da Roberto Saviano nel suo Gomorra, dice espressamente che i medici incaricati delle analisi, quella mattina, furono corrotti. Specifica, non minacciati, ma corrotti. Come se non ci fosse intimidazione, quindi estorsione. Lo sanno tutti, tu non puoi difenderti, dalle richieste della camorra, se non rischiando la vita. La camorra vive di intimidazioni: o lo fai o ti ammazzo”.
“Queste carte, queste verbalizzazioni non sono le uniche. C’erano anche quelle di Rosario Tolomelli, che fu intercettato, dichiarazioni riportate anche in tivvù, e poi quelle di Renato Vallanzasca. E adesso noi, di fronte a questi elementi così chiari, siamo in attesa di capire se il procedimento potrà essere trasmesso alla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli. Se il suo vicino di casa dice di lei appena un decimo di quello che è stato detto, lei viene ovviamente indagato. Qui abbiamo un capoclan che dice che chi ha fatto i controlli quella mattina a Madonna di Campiglio è stato corrotto, e noi stiamo ancora a chiederci se dobbiamo archiviare o andare avanti! Io mi chiedo, non tanto come avvocato quanto come cittadino: ma noi cittadini possiamo andare avanti così?”.
“Ci sono dei camorristi che dicono questa roba? Tu, Forlì, mandi le carte a Napoli e poi vediamo che cosa succede. Stiamo scherzando? Ma si può sapere in che Stato viviamo? E’ proprio qui che la vicenda di Pantani ci fa capire a che punto siamo arrivati. Fa capire che tutto ciò che dovrebbe essere normale, da noi diventa difficile, quasi impossibile”.
“Domanda. Perchè? Perchè io ho dovuto leggere nell’archiviazione per i fatti di Rimini (la “morte” di Marco nel residence “Le Rose” di Rimini, ndr), nero su bianco, che un gip della procura dice ‘può darsi che la carta del gelato Algida è stata gettata inconsapevolmente da un poliziotto nel corso del sopralluogo’? Ma è possibile pensare che quel 14 febbraio il poliziotto fosse impegnato a mangiare un cornetto durante il sopralluogo? Ecco, io mi chiedo: questa roba qui è normale?”.
“Possibile leggere, nell’archiviazione del gip, ‘può darsi che i tre giubbotti siano stati portati inconsapevolmente nel residence dal marito della manager di Pantani’, il quale ha negato di aver mai visto quei giubbotti in vita sua? E’ una roba normale? Siccome secondo me non lo è, la vicenda Pantani si descrive da sola”.
“Quello che posso dire è una sorta di promessa che ho fatto e che ora rinnovo. Io mi sento un uomo libero, non ho scheletri nell’armadio, quel poco che ho fatto come avvocato me lo sono sudato, per questo posso fare una promessa: che farò tutto quello che è umanamente possibile per raggiungere la verità. Non ho poteri speciali perchè non solo un avvocato, ma tutto quello che sarà possibile io lo farò. E sa perchè? Non perchè sono fanaticamente convinto di avere ragione io. Ma perchè se mi si dice che facendo l’ispezione il poliziotto ha buttato nel cestino la carta del gelato, allora vuol dire che ho ragione io!”.
“Se mi avessero confutato con ragioni logiche, io avrei detto a me stesso ‘amico mio, ti sei sbagliato'; ma se uno mi vuol confutare dicendo che uno ha portato i giubbotti inconsapevolmente – come quelli che pagavano le case a loro insaputa – che la carta gelato l’hanno buttata inconsapevolmente nel cestino mentre facevano il sopralluogo, allora vuol dire che ho ragione io! E vado avanti. Perchè quando una spiegazione non è logica, e tale spiegazione viene data da una persona che deve per forza usare la logica nel suo lavoro, vuol dire che le tue argomentazioni l’hanno messa in difficoltà. Se lei mi mette in difficoltà e io le rispondo fischi per fiaschi… La questione è tutta lì”.
“La gente è tutta con noi. Tutti ricordano Marco con enorme affetto. Il ciclismo forse non era preparato per un impatto così forte, una tale passione anche per chi non seguiva quello sport. E forse tutto ciò ha creato problemi collaterali. Ci sono tante sfaccettature, nella vicenda di Marco, che con ogni probabilità non lo hanno aiutato”.
“Ma chi lavora per la giustizia deve estraniarsi da tutti questi condizionamenti ed esaminare esclusivamente i fatti. I fatti ci dicono che verosimilmente quel giorno a Madonna di Campiglio le provette delle analisi vennero alterate. E che nella vicenda della morte di Marco a Rimini molti fatti devono ancora essere approfonditi”.
“Probabilmente quella mattina nel residence la situazione è sfuggita di mano a quelli che erano con Pantani. Non mi voglio addentrare ora in dettagli, ma può darsi che l’evento morte non fosse previsto. Ma l’intera vicenda giudiziaria è stracolma di anomalie. Una per tutte. Alle 10 e 30 Marco telefona alla reception e dice ‘in camera ci sono delle persone che mi danno fastidio, per favore chiamate i carabinieri’. Che poi arrivano alle 20 e 30. Mi chiedo: se io vado in un qualunque albergo a Roma, telefono alla reception e chiedo l’intervento dei carabinieri, scommetto che arrivano prima delle 20 e 30!”. “Questa è solo una delle oltre 200 anomalie del caso Pantani”. “Le risposte a tutti i quesiti? Sono solo e unicamente nei fatti”.
5 GIUGNO 1999. Pantani e il mistero di Campiglio. L’Antimafia sentirà i pm di Forlì. Una commissione d’inchiesta sul Giro 1999? Rosy Bindi, presidente della Commissione parlamentare: «Sentiremo i magistrati e faremo le nostre valutazioni». Il procuratore Sottani: al corridore «minacce credibili», scrive Alessandro Fulloni il 31 marzo 2016 su "Il Corriere della Sera". «Pantani è un simbolo dello sport italiano che merita verità e giustizia. Sentiremo i magistrati di Forlì e faremo le nostre valutazioni. Del resto si sa che le mafie hanno sempre avuto grande interesse per il mondo dello sport e la gran mole di denaro che ruota intorno alle scommesse clandestine». Non si sbilancia, la presidente della commissione parlamentare Antimafia Rosy Bindi: ma non è improbabile né lontano il via a una commissione d’inchiesta mirata a fare luce su ciò che accadde il 5 giugno 1999 a Madonna di Campiglio, quando Marco Pantani venne fermato prima del via della tappa del Giro perché trovato con un ematocrito più alto di quello consentito. Che la camorra lo abbia stoppato, con «reiterate condotte minacciose e intimidatorie» nei confronti «di svariati soggetti a vario titolo coinvolti nella vicenda del prelievo ematico» del corridore, è uno scenario che al procuratore di Forlì Sergio Sottani e al pm Lucia Spirito che hanno coordinato l’inchiesta -la seconda, avviata nel settembre 2014 dopo che una prima era stata archiviata a Trento nel 2001 - «appare credibile». Ma il movente di queste minacce resta «avvolto nel mistero, anche se qualche squarcio, nonostante il tempo trascorso, si intravede». «Tuttavia gli elementi acquisiti non sono idonei a identificare gli autori dei reati ipotizzati». Quelli di truffa ed estorsione e non la corruzione - di cui ha parlato un pentito - cancellata dalla mannaia della prescrizione che ha indotto la procura a chiedere l’archiviazione di un procedimento pur condotto con scrupolo dai due pm, dal loro nucleo di polizia giudiziaria e dai carabinieri della tutela della salute di Roma. A stabilire che destino avrà l’inchiesta - i cui atti sono stati trasmessi da Sottani alla Direzione distrettuale antimafia di Bologna - sarà la decisione, attesa a giorni, del gip di Forlì Monica Calassi. Che potrebbe percorrere tre strade: accogliere la richiesta d’archiviazione, fissare un’udienza per la raccolta di nuovi elementi, o chiedere un’indagine della Procura antimafia. Intervento, questo, rilanciato dalle novità investigative presenti nelle carte firmate da Sottani. Su tutte, le dichiarazioni di un pentito di camorra, Augusto La Torre, in passato braccio destro di «mammasantissima» campani come Antonio Bardellino, prima, e Francesco «Sandokan» Schiavone, poi. Agli inquirenti il collaboratore di giustizia racconta di una conversazione avuta nel carcere di Secondigliano con altri capi clan detenuti al 41 bis, vale a dire il carcere duro. Il pentito parla del caso Pantani - ma non ricorda se prima o dopo i fatti di Campiglio - con Francesco Bidognetti (al vertice dei Casalesi), Angelo Moccia (a capo dell’omonimo clan di Afragola) e Luigi Vollero (detto il Califfo, numero uno a Portici). Dal terzetto arriva la conferma che Pantani è stato fatto fuori dal Giro per volere dei clan operanti su Napoli. Punta il dito sui Mallardo di Giugliano: solo loro «possono averlo fatto. I tre mi dissero che il banco, se Pantani vinceva, saltava e la camorra avrebbe dovuto pagare diversi miliardi in scommesse clandestine. Come quando si verificò con Maradona e il Napoli degli anni Ottanta». La Torre ricorda quella sua delusione dopo la squalifica al Giro: ma come, pure lui «aveva preso la bumbazza»... E gli altri, di rimando: «Ma quale bumbazza e bumbazza... L’hanno fatto fuori sennò buttava in mezzo alla via quelli che gestivano le scommesse...». A verbale usa peraltro parole che avvicinano chirurgicamente la prescrizione: «Escludo nella maniera più assoluta che i medici siano stati minacciati: si tratta unicamente di corruzione». In quelle carte (leggi il documento della procura di Forlì) c’è pure quanto ribadito da Rosario Tomaselli, affiliato ai clan recluso nel 1999 a Novara con Renato Vallanzasca - il primo a parlare di interessi della camorra sul Giro - che al telefono con la figlia, senza sapere di essere intercettato nell’ambito di un’altra indagine dei carabinieri di Napoli, sostiene che «la camorra ha fatto perdere il Giro a Pantani, cambiando le provette e facendolo risultare dopato». E quando la ragazza insiste - «ma è vera questa cosa?» - lui ribadisce: «Sì, sì, sì, sì, sì». Un sì categorico, ripetuto cinque volte. Quanto al prelievo ematico vero e proprio, i carabinieri del Nas parlano, in un’informativa, di condotta «tutt’altro che trasparente e lineare» dei tre medici che fecero l’accertamento. Non ci sono solo quelle discrepanze sugli orari i cui tempi renderebbero possibile - sono le tesi degli ematologi ascoltati dagli investigatori - l’alterazione dei risultati. Piuttosto, quelle parole sono motivate dal fatto che gli investigatori hanno accertato la presenza, nella stanzetta in cui venne fatto il prelievo, di una quarta persona, il responsabile del team medico: l’olandese Wim Jeremiasse, commissario Uci e istituzione al Tour, alla Vuelta e alla corsa rosa. Che l’olandese facesse parte del gruppo - circostanza mai emersa nella prima indagine su Campiglio - lo rivela il suo autista, Simone Cantù, mai sentito prima del 2014. Ma i tre medici ascoltati dagli investigatori e direttamente coinvolti nel prelievo o non ricordano la sua presenza o addirittura non lo conoscono. Circostanza che insospettisce i carabinieri. Che chiedono al gip di intercettarli in vista dell’interrogatorio. Richiesta però bocciata dal gip che «non ravvisa la sussistenza dei gravi indizi» del reato su cui si indaga: appunto l’estorsione. Ma torniamo al 5 giugno. Ore 9 e 15. Cantù avvicina l’olandese nella hall dell’hotel in cui sonno stati fatti i prelievi per ricordargli l’imminente avvio della tappa. Jeremiasse si volta in lacrime: «... oggi il ciclismo è morto...». E poi prosegue: «Marco Pantani ha valori non regolari». Impossibile che il commissario Uci possa spiegare altro: sei mesi dopo morirà - «in circostanze non proprio chiare», scrivono i carabinieri - in un incidente in Austria. Dov’era andato per fare da giudice in una gara di pattinatori su ghiaccio. Sprofondò con l’auto in un lago ghiacciato, il Weissensee, su cui stava spostandosi alla testa di un piccolo corteo di macchine. La sua auto giù per 35 metri nell’acqua gelida, inghiottita dal cedimento improvviso della superficie: Wim venne trovato cadavere dai sommozzatori che lo recuperarono circa un’ora dopo. La donna che era con lui, Rommy van der Wal, sopravvisse miracolosamente dopo avere cercato invano di estrarlo dall’abitacolo. Nel frattempo sono le Camere a interessarsi di ciò che accadde a Madonna di Campiglio. Se l’approfondimento parlamentare dovesse decollare, avrebbe certo un passo differente da quello giudiziario. «È opportuno che venga chiarito se, effettivamente, le indagini devono fermarsi per la prescrizione oppure se ci sia modo di appurare i fatti anche a distanza di tanti anni. Se la magistratura non può andare avanti, è opportuno - riflette Ernesto Magorno, deputato Pd - che il parlamento verifichi l’esistenza di altri percorsi giudiziari da seguire». «Altrettanto inquietante è il ruolo della criminalità organizzata - osserva un altro parlamentare pd, Tiziano Arlotti - che emergerebbe nell’ambito delle scommesse sportive: un quadro già confermato in molte altre inchieste, che però merita di essere approfondito dalla commissione». Daniela Sbrollini, responsabile nazionale Sport del Pd, incalza: «bisogna fare di tutto perché emerga la verità». Non sono solo queste sollecitazioni ad aver indotto Bindi a chiedere l’audizione dei pm forlivesi: la presidente dell’Antimafia da tempo sta pensando ad approfondimenti su sport, criminalità organizzata e doping. Intrecci attorno ai quali ruota, appunto, «una gran mole di denaro». A opporsi all’archiviazione è Tonina Pantani, la mamma del Pirata. Che attraverso Antonio De Rensis, il battagliero legale della famiglia, ha depositato l’opposizione alla richiesta della procura di Forlì. Lo stesso atto che pende davanti al gip di Rimini, chiamato a decidere sul destino dell’indagine bis sulla morte del vincitore di Giro e Tour 1998: archiviazione o supplemento di indagini.
Pantani, il caso doping e il mistero dei valori del sangue. Al di là dell’ipotetico complotto, una certezza: per 10 anni i dati del corridore presentano anomalie, scrive Marco Bonarrigo il 29 marzo 2016 su "Il Corriere della Sera". La parola fine a quel romanzo tragico che è la vita di Marco Pantani è questione di giorni. I tribunali di Rimini e Forlì stanno per archiviare (su richiesta dei piemme) le inchieste sugli episodi chiave della vicenda del ciclista: la morte (14 febbraio 2004) e l’espulsione dal Giro d’Italia del 5 giugno 1999. E se il procuratore di Rimini Giovagnoli non ha dubbi (overdose di cocaina), quello di Forlì Sottani si arrende a un «movente avvolto nel mistero con elementi acquisiti non idonei a identificare eventuali colpevoli». Ma ritiene «credibile» che qualcuno abbia minacciato chi eseguì il controllo del sangue di Campiglio inducendolo a truccare le provette per incassare i soldi delle scommesse. Questo qualcuno sarebbe la Camorra. Nelle 30 pagine di motivazioni l’ipotesi è costruita da alcuni ex fedelissimi del Pirata (massaggiatore, fisioterapista), da due tifosi che avevano orecchiato minacce in una pizzeria, da Renato Vallanzasca e da quattro camorristi piuttosto confusi. Quanto basta però a risollevare l’eterna ipotesi del complotto. Intanto dagli archivi dei tribunali di Trento e Forlì escono i faldoni dei due processi penali subiti dal Pirata: per l’ematocrito alto alla Milano-Torino e per Madonna di Campiglio. In entrambi i casi Marco fu assolto in appello perché il reato ipotizzato (frode sportiva) non era sostenibile. Ma le carte dimostrano come il sangue di Pantani sia stato un profondo, costante mistero in 10 anni di carriera. Lo dicono i file dell’Università di Ferrara (dominus Francesco Conconi) dove Pantani si recò regolarmente dal 1992 al 1996. Conservati a suo nome o con curiosi pseudonimi (Panzani, Panti, Ponti, Padovani...) mostrano oscillazioni impressionanti: l’ematocrito passava dal 41-42% al 52-56% con una coincidenza perfetta tra qualità dei risultati ottenuti e valori alti. E quando Pantani viene ricoverato alle Molinette dopo lo spaventoso incidente alla Milano-Torino, il suo 60,1%, fisiologicamente inspiegabile per i periti, costringe i medici a somministrargli litri di diluente per scongiurare una trombosi. Del controllo di Campiglio ora a tutti vengono in mente dettagli inediti. Ma, interrogato dagli inquirenti, il medico di Pantani, Roberto Rempi, ammise che l’atleta si controllava da solo il sangue, che l’ematocrito la sera prima era altissimo (tra 48 e 49) e Marco totalmente fuori controllo dal punto di vista sanitario. Su Campiglio rispunta l’accurata e documentata perizia dell’Università di Parma: il Dna del sangue era di Pantani, il diluente nella provetta non ebbe effetto sul risultato mentre «l’assunzione esogena di eritropoietina artificiale» spiegava «virtualmente i parametri modificati nel campione di sangue 11.440». A completare il quadro, ecco la lettera «personale e non protocollata» che nel settembre 2000 Pasquale Bellotti, responsabile Commissione Scientifica Antidoping, inviò al segretario generale del Coni e alla Federciclismo alla vigilia dei Giochi di Sydney, dove Pantani fu convocato a dispetto di una salute non buona e di un percorso inadatto. Scriveva Bellotti: «Il quadro ematologico di Pantani, verificato ieri a Salice Terme, è estremamente preoccupante. Il regolamento attuale non ci consente di bloccarlo, ma 3 dei 5 parametri sono fortemente alterati e pongono a rischio la sua salute». Pantani aveva ematocrito al 49% e ferritina da malato: 1.019 ng/mL. La federazione rispose affermando che l’atleta aveva superato tutti i controlli antidoping. Il Coni, risentito, invitò Bellotti a occuparsi di altro. Marco Pantani, lui, mentalmente era forse già un ex atleta.
Campiglio 1999, la svolta. Il p.m.: “La camorra fermò Pantani? E’ credibile”, scrive Luca Gialanella il 14 marzo 2016 su “La Gazzetta.it" Confermate le anticipazioni, dalle parole di Vallanzasca in poi: fu un clan camorristico a intervenire per arrivare all’alterazione del controllo del sangue del Pirata la mattina del 5 giugno 1999. E’ tutto scritto nelle pagine dell’inchiesta della Procura di Forlì, che l’ha chiusa con la richiesta di archiviazione: gli autori dei reati non possono essere identificati. Ma la storia dello sport? Una “cimice” nell’abitazione di un camorrista, le indagini della polizia giudiziaria della Procura della Repubblica di Forlì, guidata dal procuratore Sergio Sottani. Le intercettazioni ambientali e finalmente i riscontri, nomi e cognomi, che svelano, secondo la ricostruzione degli inquirenti, quanto avvenne la mattina del 5 giugno 1999 nell’hotel Touring di Madonna di Campiglio, alla vigilia della penultima tappa con Gavia, Mortirolo e arrivo all’Aprica. Il controllo del livello di ematocrito di Marco Pantani in maglia rosa. L’esclusione del Pirata dal Giro d’Italia per ematocrito alto, 51,9% contro il 50% consentito allora dalle norme dell’Uci, la federciclismo mondiale. L’inizio della fine sportiva e umana dello scalatore di Cesenatico. “Un clan camorristico intervenne per far alterare il test e far risultare Pantani fuori norma”: è l’ipotesi che segue il pm di Forlì. Parole che in questi anni avevamo sentito più volte, dalla famosa frase del bandito Renato Vallanzasca in carcere (“Un membro di un clan camorristico in carcere mi consigliò fin dalle prime tappe di puntare tutti i soldi che avevo sulla vittoria dei rivali di Pantani. ‘Non so come, ma il pelatino non arriva a Milano. Fidati’) al lavoro di indagine della Procura di Forlì, che il 16 ottobre 2014 riaprì l’inchiesta sull’esclusione di Pantani da Campiglio con l’ipotesi di reato “associazione per delinquere finalizzata a frode e truffa sportiva”. Indagine già svolta nel 1999 a Trento dal pm Giardina, e archiviata. Scommesse contro Pantani, scommesse miliardarie (in lire) che la camorra non poteva perdere. Da qui il piano di alterare il controllo del sangue. La Procura di Forlì ha ricostruito tutti i passaggi, ha sentito decine di persone, in carcere e fuori. Ha avuto la prova-regina da cui partire, con l’intercettazione ambientale di un affiliato a un clan che per cinque volte ripete la parola “sì”, alla domanda se il test fosse stato alterato. Ma i magistrati sono andati oltre, hanno ricostruito la catena di comando, sono arrivati ai livelli più alti dell’associazione criminale. “Sono emersi elementi dai quali appare credibile che reiterate condotte minacciose ed intimidatorie siano state effettivamente poste in essere nel corso degli anni e nei confronti di svariati soggetti che, a vario titolo, sono stati coinvolti nella vicenda del prelievo ematico”, scrive il pm Sottani. “Tuttavia gli elementi acquisiti non sono idonei ad identificare gli autori dei reati ipotizzati”. Ecco la richiesta di archiviazione. Eppure forse uno dei più grandi misteri dello sport mondiale ha trovato una verità, almeno parziale. A distanza di 17 anni. E i legali della famiglia Pantani stanno lavorando per capire se possano esserci spiragli per qualche azione in campo civile e sportivo.
"Fu la Camorra a far perdere il Giro a Pantani". Esclusiva di Davide Dezan per Premium Sport del 14 Marzo 2016. Un detenuto vicino alla Camorra e a Vallanzasca, una telefonata intercettata e l'indiscrezione esclusiva raccolta per Premium Sport dal nostro Davide Dezan. Sono i nuovi ingredienti del "caso Pantani" e di quanto, mano a mano, sta uscendo sul Giro perso dal Pirata nel '99, quando fu fermato per doping a Madonna di Campiglio. Riportiamo qui sotto il testo dell'intercettazione. L’uomo intercettato è lo stesso che, secondo Renato Vallanzasca, confidò in prigione al criminale milanese quale sarebbe stato l’esito del Giro d’Italia del ’99, ovvero che Pantani, che fino a quel momento era stato dominatore assoluto, non avrebbe finito la corsa. Dopo le dichiarazioni di Vallanzasca, e grazie al lavoro della Procura di Forlì e di quella di Napoli, l’uomo è stato identificato e interrogato e subito dopo ha telefonato a un parente. Telefonata che la Procura ha intercettato e che Premium Sport diffonde oggi per la prima volta, in esclusiva assoluta.
Uomo: “Mi hanno interrogato sulla morte di Pantani.”
Parente: “Noooo!!! Va buò, e che c’entri tu?”
U: “E che c’azzecca. Allora, Vallanzasca ha fatto delle dichiarazioni.”
P: “Noooo.”
U: “All’epoca dei fatti, nel ’99, loro (i Carabinieri, ndr) sono andati a prendere la lista di tutti i napoletani che erano...”
P: “In galera.”
U: “Insieme a Vallanzasca. E mi hanno trovato pure a me. Io gli davo a mangià. Nel senso che, non è che gli davo da mangiare: io gli preparavo da mangiare tutti i giorni perché è una persona che merita. È da tanti anni in galera, mangiavamo assieme, facevamo società insieme.”
P: “E che c’entrava Vallanzasca con sto Pantani?”
U: “Vallanzasca poche sere fa ha fatto delle dichiarazioni.”
P: “Una dichiarazione...”
U: “Dicendo che un camorrista di grosso calibro gli avrebbe detto: ‘Guarda che il Giro d’Italia non lo vince Pantani, non arriva alla fine. Perché sbanca tutte ‘e cose perché si sono giocati tutti quanti a isso. E quindi praticamente la Camorra ha fatto perdere il Giro a Pantani. Cambiando le provette e facendolo risultare dopato. Questa cosa ci tiene a saperla anche la mamma.”
P: “Ma è vera questa cosa?”
U: “Sì, sì, sì… sì, sì.”
Tonina Pantani: «È stata ridata la dignità a Marco». La madre parla dell'intercettazione secondo la quale la Camorra avrebbe fatto risultare positivo il ciclista di Cesenatico al controllo antidoping: «Finalmente tutti sapranno che l’avevano fregato», scrive “Tutto Sport” lunedì 14 marzo 2016. «Non mi ridanno Marco, logicamente, ma penso gli ridiano la dignità, anche se per me non l’ha mai persa». Tonina Pantani parla dell'intercettazione di un detenuto che sostiene che la Camorra abbia fatto perdere il giro al figlio, Marco. «Le parole di questa intercettazione fanno male, è una conferma di quello che ha sempre detto Marco, cioè che l’avevano fregato. Io mio figlio lo conoscevo molto bene: Marco, se non era a posto quella mattina, faceva come tutti gli altri. Si sarebbe preso quei 15 giorni a casa e poi sarebbe rientrato, calmo. Però non l’ha mai accettato, non l’ha mai accettato perché non era vero. Finalmente la gente ora potrà dirlo, anche se tanta gente sapeva che l’avevano fregato. Io sono molto serena oggi: finalmente sono riuscita e sono riusciti a trovare queste cose».
Legale famiglia Pantani: «A Madonna di Campiglio non doveva essere fermato». Antonio De Rensis, legale della famiglia del ciclista di Cesenatico: «Noi speriamo anche che si giunga a delle responsabilità ma in ogni caso ritengo che la storia di quella mattina verrà ridisegnata». Scrive “Tutto Sport” martedì 26 gennaio 2016. Marco Pantani a Madonna di Campiglio, al Giro d'Italia, nel giugno del 1999, non doveva essere fermato. Lo ribadisce l'avvocato Antonio De Rensis, legale della famiglia del ciclista di Cesenatico, in una intervista andata in onda stamane durante la trasmissione Rai della Tgr Emilia-Romagna 'Buon Giorno Regione'. "Credo - sottolinea il legale - che siano emersi dei fatti che in ogni caso disegnano gli avvenimenti di quel giorno a Campiglio in maniera diversa. Ricordo che Marco nel pomeriggio tornando a casa si fermò all'Ospedale Civile di Imola. L'ematocrito era tornato a 48.2 ma soprattutto le piastrine che a Campiglio (dove il pirata venne sottoposto ad un controllo Uci, ndr) erano 100.000, all'Ospedale di Imola erano 170.000. I due esami sono totalmente incompatibili, dobbiamo solo capire se è più attendibile quello fatto in una stanzetta di un hotel a Campiglio o in un Ospedale Civile della Repubblica italiana". La Procura di Forlì sta ancora indagando su quello che è accaduto a Madonna di Campiglio, indagine della quale anche la Direzione distrettuale antimafia di Bologna si occupa per la presunta interferenza della Camorra e di un giro illegale di scommesse nell'esclusione di Marco Pantani nel Giro d'Italia. "Credo anche con grandissimo impegno - sottolinea De Rensis - lo dico da spettatore esterno. La sensazione che noi abbiamo sempre avuto quando abbiamo colloquiato con il Procuratore Capo e il Sostituto, è stata sempre quella di essere ascoltati, non siamo mai stati un elemento di fastidio per loro e questo ci ha dato una grande soddisfazione". Da questa indagine ribadisce l'avvocato della famiglia Pantani "noi ci aspettiamo che il Procuratore Capo e il Sostituto con il loro lavoro intenso e molto serio, ridisegnino i fatti. Noi speriamo anche che si giunga a delle responsabilità ma in ogni caso ritengo che la storia di quella mattina verrà ridisegnata perché Marco Pantani, noi sosteniamo e ne siamo fermamente convinti, non doveva essere fermato". Nel filone di indagini che riguarda la Procura di Rimini sulla morte di Marco Pantani, riaperto un anno e mezzo fa, il legale della famiglia Antonio De Rensis, nell'intervista Rai ribadisce che "l'indagine non è chiusa, anzi - aggiunge - devo dire che dopo la richiesta di archiviazione del Pubblico Ministero sulla quale deciderà il Giudice delle indagini preliminari, che dovrà fissare un'udienza, abbiamo avuto ancora più conforto, perché leggendo le carte di quell'indagine abbiamo capito che forse abbiamo ragione noi". Sul caso, il legale ha ricordato che "non soltanto qualche giorno dopo la riapertura, il Pubblico Ministero incaricato si è chiamato fuori (il 9 settembre ha chiesto di astenersi da quell'indagine) ma anche il Gip che era stato nominato per decidere sulla richiesta di archiviazione, ha chiesto di astenersi per cui adesso è stato nominato un altro Gip che mi risulta essere arrivato a Rimini da poco e che speriamo abbia la forza di fare chiarezza su questa indagine che ha decine di punti da chiarire: uno per tutti, ricordo che il consulente del Pubblico Ministero ha detto nella sua relazione, ma addirittura anche a un quotidiano nazionale, che le sue conclusioni potrebbero essere completamente smentite facendo ulteriori esami e dice anche quali, e che si può fare molto di più. Davanti a queste cose faccio fatica a pensare che si possa archiviare questa indagine". "Ho molta fiducia nelle indagini - ha concluso De Rensis riferendosi a entrambi i filoni di indagini - in particolar modo ho grande fiducia sul fatto che la Procura di Forlì possa ridisegnare gli avvenimenti di quella mattina".
Caso Pantani, il legale: «Ora assegnino a Marco il Giro d’Italia 1999». L’avvocato Antonio De Rensis: «Ci opporremo alla richiesta di archiviazione e cercheremo di agire anche in funzione di una riscrittura della storia di quel Giro», scrive “Tutto sport” martedì 15 marzo 2016. Come l'inchiesta riaperta sulla sua morte a dieci anni di distanza, anche quella sulla fine sportiva di Marco Pantani si è conclusa con una richiesta di archiviazione. Come i colleghi di Rimini, i Pm di Forlì hanno definito gli accertamenti ritenendo di non aver elementi per sostenere un processo. L'ombra di un intervento della camorra sul Giro d'Italia del 1999 è rimasta tale, un sospetto, forse anche credibile, ma non percorribile, né perseguibile penalmente. Come avvenuto a Rimini, anche a Forlì la famiglia potrà opporsi alla decisione, che spetterà infine ad un Gip. L'inchiesta bis sul complotto nella corsa rosa era nata dall'idea che Pantani il 5 giugno a Madonna di Campiglio fosse stato incastrato dalla criminalità organizzata: bisognava, secondo questa ipotesi, eliminare chi stava dominando il Giro e per farlo si sarebbe alterato il valore dell'ematocrito nel sangue del ciclista di Cesenatico, favorito nelle puntate degli scommettitori. E' su questo che ha insistito l'avvocato Antonio De Rensis, il legale della madre di Pantani, Tonina Belletti. Ha ottenuto prima la riapertura in Romagna dell'indagine archiviata dalla Procura di Trento, quindi che della vicenda si interessasse anche la Dda di Bologna con il Pm Enrico Cieri, tenuto informato periodicamente dai magistrati forlivesi, il capo Sergio Sottani e la sostituta Lucia Spirito, sugli sviluppi degli accertamenti. E' lo stesso legale a spiegare che i Pm hanno "sì ritenuto credibile" che ci sia stata un'alterazione dei test, "ma forse non si può andare oltre". Risultato, richiesta di archiviazione nel merito, conferma il legale. Sul punto la procura non ha fatto commenti. A quanto si è appreso, nell'atto si farebbe riferimento ai reati di estorsione e minacce a carico di ignoti e di questi però non è stato possibile individuare gli eventuali responsabili e pertanto se ne è chiesta l'archiviazione, nel merito. La procura nella richiesta aggiunge che, rispetto ad altri reati teoricamente ipotizzabili, essi sarebbero comunque prescritti. Nell'indagine sono state sentite varie persone, tra cui la mamma del Pirata, giornalisti e medici. Uno snodo poteva arrivare a ottobre 2014, quando fu convocato Renato Vallanzasca. Agli inquirenti l'ex 'bel René' riferì che nel 1999 fu avvicinato in carcere da un esponente della camorra che, visto il ruolo di prestigio di Vallanzasca all'interno della mala italiana, era desideroso di fargli un 'regalo', e cioè di non farlo scommettere, come stavano facendo tutti, sulla vittoria di Pantani, perché il Pirata quel Giro "non lo avrebbe finito". Anche questa persona è stata sentita dagli investigatori. E c'è, agli atti dell'inchiesta, una telefonata intercettata in cui il detenuto, dopo l'interrogatorio, parla con un parente. Racconta di Vallanzasca e di quando dichiarò che "un camorrista di grosso calibro gli avrebbe detto: guarda che il Giro d'Italia non lo vince Pantani, non arriva alla fine" e che "quindi praticamente la camorra ha fatto perdere il Giro a Pantani. Cambiando le provette e facendolo risultare dopato". E quando il parente domanda, "Ma è vera questa cosa?", la risposta è un sì, ripetuto cinque volte. Parole che "fanno male", a Tonina Pantani, secondo cui "è una conferma di quello che ha sempre detto Marco, cioè che l'avevano fregato. Io sono molto serena oggi: finalmente sono riuscita e sono riusciti a trovare queste cose". Ma non è bastato. L'uomo sarebbe stato riconvocato per chiarire, ma quel poco che ha detto non avrebbe convinto chi indagava sulla possibilità concreta di fare passi in avanti. Sulla richiesta di archiviazione, l'avvocato della famiglia Pantani Antonio De Rensis ha commentato: «È una grande sconfitta - spiega a Sportface.it - per chi all’epoca non è riuscito a capire che ci fosse qualcosa di strano, che i controlli antidoping fossero alterati. E poi questa seconda richiesta di archiviazione rappresenta comunque un atto di accusa, perché conferma la presenza dell’infiltrazione camorristica. Non ci sono più dubbi. Futuro? Ci opporremo alla richiesta di archiviazione. In secondo luogo cercheremo di agire anche in funzione di una riscrittura della storia di quel Giro d’Italia 1999, perché Marco Pantani non l’aveva vinto, l’aveva stravinto. Possibilità che a Marco venga assegnato quel Giro? Io penso di sì, o almeno noi combatteremo per avere almeno una co-assegnazione ad honorem postuma (dopo la squalifica di Pantani fu Ivan Gotti a vincere quell’edizione maledetta della Corsa Rosa, ndr). D’altronde, i fatti sono chiari. Non c’è solo l’intercettazione che sta girando in queste ore, ma una serie di dichiarazione univoche di altre persone informate sui fatti. Novità sull'indagine relativa alla morte di Pantani? Anche qui siamo in fiduciosa attesa: stiamo aspettando la decisione del Gip e anche su questa indagine attendiamo risposte che ad oggi non sono ancora arrivate».
Pantani: 17 anni per avere giustizia, è grama la vita degli avvoltoi. Onore ai giudici di Forlì e un abbraccio fortissimo a Tonina e Paolo Pantani: non hanno mai smesso di difendere Marco dalle palate di fango piovutegli addosso da chi non gli chiederà mai abbastanza scusa, scrive Xavier Jacobelli su “Tutto Sport” lunedì 14 marzo 2016. Ci sono voluti diciassette anni, perché la verità su quel giorno a Madonna di Campiglio venisse a galla ed è merito dei magistrati della Procura di Forlì se, finalmente, è venuta a galla. Così come le parole di Tonina Pantani non hanno bisogno di nessun commento, tanto ammirevoli sono stati la tenacia e il coraggio con i quali la mamma di Marco e Paolo, il papà, in tutto questo tempo, per tutto questo tempo, hanno gridato al mondo che Pantani non avesse mai barato in quel Giro che stava dominando. Diciassette anni aspettando giustizia. E, se riascoltate Marco parlare durante la conferenza-stampa susseguente l’esclusione dalla corsa, leggete nella sua voce tutto lo choc che ha provato, il dolore immenso che l’ha squassato, infilandolo nel tunnel della depressione che l’ha portato alla morte il 14 febbraio 2004, a Rimini, Hotel delle Rose. In attesa di avere giustizia anche per questa vicenda, il pensiero corre a tutti quelli che il giorno dopo Campiglio e nel tempo che è venuto dopo, hanno sputato fango su Marco. Quelli che il giorno prima Marco pedalava nella leggenda e il giorno dopo veniva scaricato come un pacco postale. Dovunque siano, non chiederanno mai abbastanza scusa. E’ grama, la vita degli avvoltoi.
Ciclismo. «Paga e corri», trema il mondo del pedale italiano. Rischiano la radiazione 3 team manager che chiedevano soldi agli atleti: Viviani testimone chiave, scrive Marco Bonarrigo il 16 settembre 2016. Il 6 novembre 2015 l’inchiesta del Corriere ha raccontato la realtà di ciclisti e calciatori che pagano per lavorare. Da qui parte il lavoro della Procura del Coni. Se lo stipendio te lo devi pagare da solo, che mestiere diventa il ciclista (o il calciatore)? Sono passati dieci mesi da quando un’inchiesta del Corriere della Sera ha dato alcune risposte inquietanti a questa domanda. Nel calcio l’omertà è ancora più forte di tutto, anche se i casi di giocatori di Lega Pro che accusano questa pratica non mancano. Il muro nel ciclismo è crollato grazie al lavoro della nuova Procura generale del Coni (potenziata dal presidente Malagò) che ha approfondito il tema, archiviato due volte dalla disciplinare della Fci. E il risultato di testimonianze e interrogatori fa tremare l’ambiente: sono arrivati i deferimenti ai team manager delle tre principali squadre Professional italiane, ovvero Bardiani (Bruno Reverberi), Androni (Gianni Savio) e Southeast (Angelo Citracca). Rischiano da un anno di squalifica fino alla radiazione. La picconata definitiva a un sistema vergognoso che dura da anni è d’autore: a darla è stato Elia Viviani, due mesi prima di diventare campione olimpico nell’Omnium a Rio. L’azzurro non ha certo dovuto pagare per correre, ma ha confermato con la sua testimonianza del 14 giugno che la Bardiani ha chiesto soldi a Marco Coledan, suo amico e da lui «scelto» per seguirlo alla Liquigas. Coledan, che di primo acchito aveva negato l’episodio (confermato anche dall’agente), è stato a sua volta deferito. Almeno altri 6 corridori invece hanno ammesso di aver pagato o di aver procurato sponsor che pagassero per il loro ingaggio. Se non è l’azienda di famiglia, a tirare fuori i soldi necessari è il nonno che sogna un nipote forte come Moser o magari il papà del compagno più debole, in una sorta di trattativa «2 al prezzo di 1», documentata per due atleti veneti. Nell’inchiesta «Paga e corri» spicca il ruolo anche di alcuni procuratori di ciclismo. O presunti tali, dato che percepire una percentuale sui soldi pagati dal proprio assistito per lavorare è solo uno dei risvolti grotteschi dell’intera vicenda, che dà un quadro sconfortante del movimento. Il capo d’accusa per i tre manager deferiti — violazione dell’articolo 1 del Regolamento della Giustizia sportiva della Federciclismo — è chiarissimo e in poche righe fa capire anche il risvolto tecnico, niente affatto secondario, della vicenda. Citracca, Savio e Reverberi rischiano grosso «per aver condizionato il passaggio al professionismo di atleti non sulla base di meriti sportivi acquisiti, bensì al reperimento di uno sponsor che garantisse un utile per la società ed in particolare per aver richiesto, per tramite del procuratore x al corridore y un importo in denaro a titolo di sponsorizzazione, quale condizione per il suo ingresso in squadra». «Ricordo — dice Viviani davanti al Procuratore del Coni — che per Coledan fu una sorpresa sapere che per svincolarsi dalla Bardiani si sarebbe dovuta versare una penale. Anche perché mi disse che percepiva il minimo dello stipendio e nessuno gli aveva detto che per svincolarsi avrebbe dovuto versare una somma di denaro. L’aspetto anomalo era che non risultava indicato in maniera certa e numericamente precisa l’importo di questa cosiddetta penale (…)». Così, nel discusso contratto 2+1, i soldi per liberarsi erano passati dai 10/15 mila euro iniziali, fino a 35/40 mila. Chi ci perde alla fine è soprattutto il ciclismo.
Ciclismo: scarsi, ma coi soldi di papà Così cala il livello e l’arrivo è miraggio. La difesa: abbiamo ingaggiato in passato corridori che portavano sponsor, ma l’Uci non ha mai contestato il valore sportivo dei nostri atleti, scrivono Marco Bonarrigo e Paolo Tomaselli il 15 settembre 2016 su "Il Corriere della Sera". «In passato abbiamo ingaggiato corridori che avevano lo sponsor e non mi vergogno a dirlo. Ramon Carretero? Certo che l’avevo preso per i soldi, c’era un progetto con Panama e la Cina che mi salvava la squadra. Ha fatto una str… si è dopato. Ma che c’entra col fatto che era sponsorizzato dal padre?». Così parlò al Corriere Angelo Citracca, team manager del Team Southeast, uno dei tre deferiti dalla Procura del Coni al Tribunale della Federciclismo. Carretero, figlio di un facoltoso imprenditore panamense, arrivò in Italia nel 2014 con palmares ciclistico nullo ma accompagnato dal cospicuo assegno di papà che lo voleva professionista a tutti i costi. Maglia nera fin dal primo metro al Giro 2015, si ritirò prima di farsi beccare dall’antidoping. Anche per arrivare ultimo aveva bisogno di Epo. Nella memoria difensiva depositata al Coni per difendersi dalle contestazioni, Angelo Citracca spiega: «Il valore sportivo di una squadra è condizione sine qua non per ottenere la licenza internazionale e fino ad oggi l’Uci non ha contestato alcuna carenza di valore ai nostri atleti». Ha ragione: per la Federazione internazionale quando ci sono i soldi il merito passa in secondo piano. Puoi ingaggiare chi credi e anche se perdi tutte le partite non retrocedi mai. Nel professionismo delle due ruote non c’è la serie C. E a fronte di un Carretero «pagante» capita che il toscano Matteo Mammini, dilettante di gran valore, non passi professionista perché, stando alle sue dichiarazioni, avrebbe respinto la richiesta del manager Androni Gianni Savio di raccogliere 50 mila euro per sponsorizzarsi da solo. Indebolito da atleti non all’altezza del compito, il ciclismo italiano di seconda fascia vince poco o nulla. Nel palmares 2016 dei quattro team Professional azzurri (75 corridori stipendiati, almeno formalmente) i terreni di conquista sono Albania, Romania, Turchia, Malesia. Da gennaio ad oggi — in oltre duemila giorni di gara individuali — totalizziamo la miseria di 40 vittorie, quasi tutte in Asia o Europa orientale. Battuti spesso da dilettanti però selezionati per meriti sportivi. Già, ma come si determina il valore atletico in uno sport dove tempi e misure hanno valore relativo? Uno degli indici è la percentuale di ritiri durante le corse che in alcuni team Professional italiani è la più alta del mondo: tolti i capitani (spesso gli unici pagati decorosamente) molti altri si fermano a metà strada in una corsa su tre: ritirati cronici. Appena la testa del gruppo apre un po’ il gas o la strada si impenna, salgono in ammiraglia e tornano a casa. Per poter fare bella figura vengono spediti a correre in Cina o Azerbaigian.
GIALLO PANTANI.
"Pantani è tornato", ecco il libro di De Zan. Da dieci anni, Davide De Zan, giornalista e grande amico di Marco Pantani, indaga per scoprire cosa si nasconde dietro alla morte del Pirata, avvenuta il 14 febbraio 2004 e troppo frettolosamente archiviata come overdose di cocaina, un altro modo per dire suicidio. Collaborando con la madre di Pantani, che da sempre sostiene la tesi dell’omicidio, e con i legali della famiglia, De Zan ha raccolto documenti e prove che accertano quanto sta emergendo ora e che hanno convinto la magistratura a riaprire il caso. In questo libro racconta non solo quello che ora tutti sanno, e che in buona parte nasce da sue scoperte, ma anche i retroscena di come si è arrivati a questo punto. Un’indagine nell’indagine che lascia senza parole. E che squarcia il velo su un secondo inquietante aspetto della vicenda: la cacciata di Pantani in maglia rosa per doping a Madonna di Campiglio. È lì che Marco ha cominciato a morire, ed è lì che iniziano i misteri. Ci sono molti elementi nuovi, raccolti dall’autore e qui presentati per la prima volta, che ridisegnano lo scenario di quel giorno e svelano i tratti di un complotto. Anche su quello incombe un’inchiesta giudiziaria.
"Un'indagine sconvolgente su un campione ucciso due volte": la storia raccontata dal nostro Davide. Tutti ricordano le immagini di Marco Pantani scortato dai carabinieri a Madonna di Campiglio il 5 giugno 1999. Un numero, 53, il valore del suo ematocrito al controllo, gli costa un Giro d’Italia condotto trionfalmente. Per qualcuno, quel giorno crolla un mito. Per Pantani è il mondo stesso a crollare. Insieme alla maglia rosa gli sfilano l’onore, e un gran pezzo di vita. È una discesa agli inferi, che il Pirata compie scalino dopo scalino e si consuma il 14 febbraio di cinque anni dopo nel residence di Rimini dove viene trovato morto. Overdose è il verdetto del giudice. Qualcosa di molto simile a un suicidio per il resto del mondo. Qualcuno continua a nutrire dubbi su quella conclusione ma servono nuovi elementi e molto coraggio per spingere la magistratura a riaprire il caso. Tre persone non hanno mai smesso di lottare per restituire l’onore a Marco Pantani e trovare finalmente la verità. Tonina, la mamma, che ha sempre rifiutato la versione ufficiale. Antonio De Rensis, l’avvocato della famiglia, che ha messo testa e cuore in questa battaglia. E Davide De Zan, un giornalista ostinato, che di Marco era amico. Grazie a un lavoro d’inchiesta puntiglioso e serrato, dettagli, fatti e clamorose dichiarazioni si accumulano sotto gli occhi dell’autore e qui vengono documentati e analizzati nella loro sconvolgente evidenza. È così che hanno preso corpo due parole: complotto e criminalità organizzata. Due parole che gettano la loro lunga ombra fino al tragico epilogo, e impongono di evocarne una terza, ancora più terribile: omicidio. A Campiglio hanno ucciso il campione, a Rimini l’uomo. Un solo uomo ucciso due volte. "Tutti i ragazzi che mi credevano devono parlare" esortava Marco Pantani in un messaggio ritrovato dopo la sua morte. Finalmente i ragazzi hanno parlato. Pantani è tornato. Adesso, fate giustizia.i Marco Pantani. Gli ultimi giorni del Pirata
Liti, fughe e sospetti incrociati. La ricostruzione degli ultimi 40 giorni di Marco secondo i racconti dei genitori, del medico, della manager e del "tutore". E la strana "eclissi" del soggiorno milanese, scrive Davide Di Santo su “Il Tempo”. Quello strano e fragile cerchio magico torna a riunirsi intorno a Marco Pantani qualche giorno dopo il primo dell’anno. È il gennaio del 2004, ultima salita della vita del Pirata. Unico assente è il padrone di casa Michael Mengozzi, gestore di discoteche della riviera, professionista della notte scelto come custode a tempo pieno di Pantani. Intorno al tavolo della casa di Predappio siedono Tonina e Paolo, genitori di Marco, il dottor Giovanni Greco del Sert di Ravenna, diventato nel tempo anche il medico personale del campione, e la manager Manuela Ronchi in compagnia del marito Paolo Tomola e del figlio piccolo. Secondo quanto raccontano i protagonisti prima e durante il processo agli spacciatori di Pantani, il campione non ne vuole sapere di essere ricoverato. «Sono adulto e ho il diritto di essere libero», ripete. Tutti i precedenti tentativi di metterlo in una struttura specializzata per la cura delle dipendenze erano andati in fumo. I rapporti tra Michael e la famiglia Pantani sono già erosi dai sospetti, così come quello tra Marco e l’uomo della notte di Predappio. Si tratta di una vecchia conoscenza della famiglia. Mengozzi era andato qualche volta a caccia con Paolo, il padre di Marco, e quando si era sparsa la voce dei problemi di droga del campione si era presentato al chiosco di piadine della signora Tonina. In passato, dicevano di lui, aveva aiutato un altro ragazzo della zona a sconfiggere la dipendenza con una ricetta semplice ed efficace che userà anche con Marco: aria buona, cibo genuino, battute di caccia e qualche ragazza. In quel periodo il Pirata non ha problemi a procurarsi la droga. Rotoli di banconote in tasca, milioni sul conto, basta sfuggire qualche ora al controllo per acquistare grandi quantità di polvere bianca. Quella sera alle suppliche dei genitori risponde minimizzando la gravità della sua dipendenza: bastano le cure del dottor Greco e magari cambiare aria per un po’, in Spagna o in Sud America. Ancora una volta niente di fatto. Arriva il compleanno di Marco, Michael la sera del 13 gennaio organizza una cena con amici vecchi e nuovi. Pantani si presenta in forte stato confusionale, alterato dalla droga. Pochi giorni prima aveva prelevato 10mila euro in contanti, usati per la coca e per Barbara, nome d’arte di Elena Korovina, escort russa. È lei cosiddetta Dama Nera. La serata è un fallimento, il festeggiato è stravolto e delira, il giorno successivo i genitori chiamano Greco che propone un trattamento sanitario obbligatorio. Paolo e Tonina, persone semplici, taciturno lui, sanguigna lei, si oppongono, ancora una volta. Il 15 il marito della Ronchi arriva in macchina a Predappio per prendere Pantani e portarlo nella loro casa di Milano. Passa giorni tranquilli, senza consumare la «sostanza», come la chiamava lui. Continua a rifiutare il ricovero ma si dice favorevole e una vecchia proposta della manager, un periodo in Norvegia accanto Renato Da Pozzo, atleta e motivatore. Allo stesso tempo, però, cerca in tutti i modi una scusa per tornare a Predappio o in riviera. L’occasione si presenta il 26 gennaio, prende l’auto della manager per andare a Cesenatico a prendere l’attrezzatura da montagna da usare per un’escursione col padre della Ronchi. Nella valigia preparata da mamma Tonina anche i famosi giubbotti da sci, poi spuntati misteriosamente a Rimini. Durante il viaggio preleva 22mila euro e fa il pieno di coca e di crack, che consuma di nascosto a casa della manager fino a quando i coniugi lo vedono parlare con la tv. Dice di essere in comunicazione subliminale con il presentatore Rai Massimo Giletti. Il marito di Manuela trova la droga e la getta nel water. La situazione è esplosiva, in casa c’è anche un bambino. Venerdì 30 gennaio c’è l’atteso incontro con il dottor Ravera in una clinica di Appiano Gentile. La data fissata per il ricovero è il lunedì successivo, il 2 febbraio. Marco dopo il colloquio ha una crisi nervosa, piange e si chiude nel mutismo. Il giorno successivo il “cerchio”, senza Greco e Mengozzi, si riunisce a Milano in casa della Ronchi. Quando arrivano Tonina e Paolo la tensione è già alta, con Marco e Manuela che discutono animatamente. Pantani è lucido, e determinato a fare di testa sua. I toni salgono ulteriormente, i genitori vogliono convincere Marco al ricovero immediato, senza aspettare il lunedì, oppure a partire subito per Cesenatico. La lite inizia nell’appartamento e continua sulle scale. Paolo alza le mani, il figlio lancia le valigie appena fatte per la scale, la madre ha un malore e si accascia al suolo. Marco indica la guancia e provoca il padre: «Picchia, picchia qua». Emergono vecchi rancori, il Pirata accusa i genitori di aver fatto di tutto per allontanare Christina, la sua ex fidanzata danese che non vuole più saperne di lui, e maledice il «complotto» di cui è stato vittima a Madonna di Campiglio, l’esclusione dal Giro d’Italia del ’99 per ematocrito fuori norma dopo la quale il campione non è stato più lui. Marco torna in casa, chiama il 118: «venitemi a prendere, mio padre mi ha picchiato». I medici arriveranno ma potranno assistere solo Tonina. Nelle mani del padre resta il cellulare Nokia di Marco, lui è già andato via, al Jolly Touring Hotel di Milano. Ci rimarrà, secondo le ricostruzioni ufficiali, dieci giorni, barricato nella propria stanza con le serrande chiuse, tra cartoni di pizza e lattine di Coca Cola. Eppure, come svelato da Il Tempo la ricevuta dell’albergo riporta ben quattro notti, quelle dal 2 al 5 febbraio, in cui Pantani ha pagato la doppia per intero e non uso singola. Forse c’era qualcuno con lui, o forse la stanza era occupata da qualcun altro mentre Marco era altrove. In quei quattro giorni, a differenza dei precedenti e dei successivi, non risultano telefonate dalla sua stanza. Un’eclissi inspiegabile. Il 6 febbraio Pantani lascia un messaggio nella segreteria di Manuela: «Sono nell’albergo che tu sai, i cagnolini tornano all’ovile». Il giorno successivo chiama Greco, dice di essere in un periodo terribile, costretto a centellinare i pochi farmaci rimasti. Il medico telefona alla Ronchi e le manda un fax con la prescrizione - che resterà nella disponibilità di Pantani – da portare a Marco insieme a qualche vestito pulito. Lei lo chiama: «Vengo ma devi farti ricoverare». Lui replica: «Sono adulto, decido io della mia vita». Si accordano che sarà il marito della Ronchi - sempre più esasperato dalla situazione - a lasciare al personale della reception la sportina con i medicinali appena acquistati, i cambi e la ricetta, lei resterà in auto per evitare ogni contatto. Così avviene. Marco richiama la Ronchi alle 8.30 di lunedì 9 febbraio. Chiede di raggiungerlo per organizzare un soggiorno nella sua casa di Saturnia. Lei risponde che sarà in hotel alle 14 ma Pantani fa retromarcia, replica che sta pagando il conto con l’intenzione di andare verso casa. «Da allora non l’ho più sentito e non riesco a spiegarmi le ragioni per cui si sia recato nell’hotel in cui poi è stato trovato senza vita», dirà la Ronchi. Quello che emerge dagli atti è che Marco sale su un taxi, a Milano, direzione Rimini. Con sé una bustina di plastica e pochi oggetti, e senza quei famosi giubbotti da sci inspiegabilmente trovati nell’appartamento D5 del residence Le Rose. Alle 21.30 del 14 febbraio lo studente trapanese Pietro Buccellato, che fa il turno alla reception, entra nella stanza con un passepartout, sale le scale del soppalco e vede riflesso sullo specchio il cadavere di Marco Pantani riverso sul pavimento. In mezzo a queste poche evidenze - alcune delle quali messe in discussione dall’esposto presentato dalla famiglia Pantani che ha permesso alla procura di Rimini di riaprire il caso - il mare di dubbi e incongruenze di cui abbiamo scritto da questa estate a oggi, oggetto della nuova inchiesta per omicidio volontario. Per coprire i tanti, troppi tasselli rimasti vuoti nel mosaico degli ultimi giorni di Marco Pantani.
Pantani, il mistero della fuga di Milano. Pochi giorni prima di morire isolato in hotel ma forse c’era qualcuno con lui Il giallo delle telefonate. Marco non aveva le sim: una ha contattato la madre, continua Davide Di Santo. Si allungano nuove ombre sugli ultimi giorni in vita di Marco Pantani. Alcuni documenti di cui Il Tempo è venuto in possesso fanno emergere uno scenario inedito: il Pirata potrebbe non essere stato solo durante una parte del suo soggiorno al Jolly Touring Hotel di Milano. Siamo tra il 31 gennaio e il 9 febbraio 2004, penultima tappa dell’esistenza di Pantani, trovato morto il giorno di San Valentino dello stesso anno nel residence Le Rose di Rimini. Ufficialmente per overdose, anche se dopo l’esposto presentato dall’avvocato della famiglia Pantani, Antonio De Rensis, la procura romagnola indaga per omicidio volontario. Secondo quanto ritenuto finora, Pantani si sarebbe volontariamente isolato con i suoi demoni per nove giorni dopo la «fuga» dalla casa milanese della manager Manuela Ronchi e dagli stessi genitori che da Cesenatico erano venuti a prenderlo. Una lite, vecchi rancori e qualche schiaffo, Pantani va via senza valigie e senza cellulare e prende una camera. Ma dalla fattura dell’albergo milanese, rinvenuta a Rimini dopo la morte, emerge che per il 31 gennaio e il primo febbraio sono stati messi in conto - solo per la camera - 132 euro a notte. Il pernotto sale a 180 euro per i quattro giorni successivi per poi tornare a quota 132 dal 6 all’8 febbraio, ultima notte passata al Jolly Touring. Da escludere che l’oscillazione sia dovuta a un cambio di tariffa per un periodo di alta stagione: non si spiegherebbe il ritorno alla cifra di partenza. È possibile che l’«appartamento», così viene chiamato nella ricevuta, sia stato preso come doppia a uso singola e che il prezzo sia salito, in quei quattro giorni, perché c’era un ospite in stanza. L’avvocato De Rensis dovrà capire cosa c’è dietro questa ennesima anomalia che non ha suscitato la curiosità degli inquirenti, prima e durante il processo ai pusher del Pirata. L’albergo, però, è passato alla catena Nh e scovare registrazioni e ingressi a dieci anni di distanza non sarà facile. Pantani, inoltre, era senza cellulare. Per comunicare usava il telefono dell’hotel, come si evince anche dal conto di 1.960,15 euro saldato a fine soggiorno e che comprende qualche centinaio di euro per pasti e frigo bar. Il 7 ad esempio chiama il suo medico, Giovanni Greco, perché rimasto a corto di farmaci, che gli saranno poi portati alla reception dalla Ronchi. Eppure c’è un buco di quattro giorni nel quale non risultano chiamate, un’«eclissi» che coincide con le date in cui si può ipotizzare la presenza di un’altra persona nella stanza. Con chi era Pantani? Per comunicare può aver utilizzato un altro cellulare? A questi interrogativi si aggiunge la possibilità che Marco, se la camera era in uso a due persone, in quei quattro giorni sarebbe potuto anche trovarsi altrove. La questione delle chiamate è centrale. Il campione romagnolo aveva in uso quattro numeri, quattro sim usate alternativamente con il suo Nokia Communicator, rimasto al padre Paolo. Da una delle sue utenze, non quella abituale ma usata ad esempio tra l’11 e il 12 gennaio per chiamare lo spacciatore Fabio Miradossa e l’amico Michael Mengozzi a Predappio, parte una chiamata la sera dell’8 febbraio, l’ultima passata a Milano. È una telefonata riportata dai tabulati alle 22.20 e 55 secondi. Il destinatario è la madre di Marco, Tonina Belletti, e la chiamata dura 0 secondi: il cellulare della donna è spento, lei e il marito sono in viaggio per la Grecia. Ebbene, quella sim non è mai state trovata, come le altre due che non erano nel cellulare. Non risultano tra gli oggetti repertati al Le Rose, come Il Tempo ha potuto verificare, e neanche tra gli oggetti personali riconsegnati alla famiglia. Chi aveva quelle schede? Chi ha chiamato quella sera la signora Pantani e perché? Domande, queste, che nessuno si è fatto in questi dieci anni. E che attendono risposta.
Mamma Pantani: "Ma perché i poliziotti vogliono querelarci?". L'avvocato della famiglia del Pirata sulle persone sentite nell'inchiesta di Rimini: "O gli credi o li indaghi. Non si va avanti facendo passare tutto", scrive Luca Gialanella su “La Gazzetta.it”. Il gioco si sta facendo duro. Antonio De Rensis, l'avvocato della famiglia Pantani che è stato decisivo nella riapertura delle inchieste a Rimini e Forlì, sbotta durante la presentazione del libro Pantani è tornato, scritto dal giornalista televisivo Davide De Zan: "Sto ultimando l'istanza per chiedere lo spostamento dell'inchiesta da Rimini a Bologna. La decisione spetta alla Procura Generale di Bologna. Il clima non è più sereno. E bisogna avere risposte, al più presto". De Rensis si riferisce alla decisione di cinque poliziotti, che indagarono nel 2004 sulla morte di Pantani, "di procedere in giudizio contro quanti diffondono notizie lesive della nostra reputazione". Mamma Tonina Pantani, presente con il marito Paolo, aggiunge decisa: "Perché questa decisione dei poliziotti? Se sono puliti, e lo sono, perché si comportano così? In questi dieci anni ho avuto tante difficoltà, ne ho passate di tutti i colori, ma non ho mai abbandonato la mia idea che Marco sia stato ucciso. Io voglio avere delle risposte che ancora non ho avuto. Abbiamo offeso la Polizia? Se la Polizia vuole, perché non unire le nostre forze? Perché vogliono querelarci? E comunque sappiano che io non ho paura". De Rensis sposta la discussione sul piano giuridico: "Due di quei poliziotti sono già stati chiamati a testimoniare e in futuro potrebbero essere chiamati tutti a farlo. È la prima volta, per quanto ne so io, che dei testimoni, appartenenti alla Polizia e che sono persone informate sui fatti, si ergono al ruolo dimostrato ieri con quel comunicato diffuso dall'Ansa, durante un'indagine in corso. I poliziotti hanno parlato di linciaggio mediatico. Se lo fai a indagine aperta, e l'inchiesta è svolta da altri poliziotti, posto che gli essere umani sono fatti di conscio e inconscio, questo non aiuta certo il clima. Sono veramente stupito. Il procuratore capo Giovagnoli è un galantuomo, ma l'indagine è fatta di tanti compartimenti. A Rimini non c'è serenità". Ci sono state testimonianze nuove, come quelle dei tre infermieri "i primi a intervenire nella stanza di Pantani", che hanno posto il problema della pallina di coca e pane davanti al corpo di Marco: i tre affermano di non averla mai vista, l'hanno detto nella testimonianza giurata all'avvocato De Rensis e poi l'hanno ripetuto in Procura. Loro lasciano la stanza alle 21.20, ma nel video della Polizia Scientifica, che inizia alle 22.45, la pallina c'è. "La pallina di cocaina è il grimaldello dell'indagine, essendo venuta fuori da testimoni che non erano mai stati sentiti dieci anni fa e che spontaneamente sono venuti a cercarmi per raccontare la loro verità - continua il legale -. La pallina è l'emblema dell'indagine: in uno spazio di 81 centimetri per 250 centimetri, gli infermieri hanno detto che non c'era. Servono risposte: o gli credi o li indaghi, ma non si va avanti lasciando passare tutto, e mettendoci una X sopra. Visto che ci sono orari e circostanze, e sappiamo quando sono andati via gli infermieri, o questi hanno detto una bugia, e allora devono essere indagati, o bisogna credergli. Esigo delle risposte. Andiamo a dare le risposte, il movente poi verrà da solo. La notte del 14 febbraio 2004, l'ambulanza che è intervenuta era partita da Riccione. Era San Valentino, era sabato sera, ci avrà messo almeno quindici minuti? Ebbene, la volante della Polizia che partiva da Rimini è arrivata dieci minuti dopo". Quindi il video della Scientifica: "Un girato di due ore e 56 minuti è diventato un video di 51 minuti, interrotto 35 volte, di cui una per 30 minuti, con gli investigatori che mettono anche una mano davanti all'obiettivo per non fare inquadrare. Io voglio una risposta. E se dirlo vuol dire essere querelato, allora io sono fiero di essere querelato. Il filmato parla, eccome. Uno che vede Marco Pantani nella stanza capisce tante cose, dalle ferite, dalle macchie di sangue, dalla posizione", conclude l'avvocato De Rensis.
"Sparirono 5 schede sim di Marco". Pantani, tutti i dubbi di mamma Tonina. L'intervista: "A Milano, e non solo, successero molte cose strane". Tonina Pantani svela tutti i dubbi sugli ultimi giorni di Marco ad Affaritaliani.it con Lorenzo Lamperti. Chiamate misteriose, sim scomparse, incomprensibili spese d'albergo, depistaggi e tanto altro. Gli ultimi giorni di Marco Pantani (ricostruiti cronologicamente in un articolo di Libero) nascondono molti misteri per ora insoluti. A partire da quel periodo trascorso a Milano, poco tempo prima di quel maledetto 14 febbraio del 2004. Ora Tonina Pantani, la mamma di Marco, ripercorre i dubbi su quell'ultimo oscuro periodo in un'intervista ad Affaritaliani.it.
Signora Pantani, partiamo dal 26 gennaio quando la manager di Marco, Manuela Ronchi, racconta che il marito andò a prenderlo perché non stava bene. Che cosa successe?
«Il 26 gennaio il marito della Ronchi venne a prenderlo a Predappio con me presente. Tutte le volte che Marco non stava bene arrivavano a prenderlo e se lo portavano a casa, non perché. Tanto lei come Mingozzi, l'amico dal quale Marco era andato spesso a stare. Il 26 gennaio comunque Marco arrivò a casa e mi disse che doveva fare la valigia».
Si ricorda che cosa si portò dietro?
«Sì, prese una valigia di quelle a righe, non era un trolley. Non era una valigia molto grande e dentro c'erano solo tre giubbotti e due maglioni. Io stupita gli chiesi se era tornato a casa solo per quelle poche cose, lui mi rispose che se gli sarebbero servite altre cose le avrebbe comprate».
Secondo le testimonianze il 30 gennaio Marco parlò con il professor Ravera e rifiutò di entrare in clinica per disintossicarsi.
«Io anche sta cosa qui l'ho saputa dalla Ronchi. Sono cose che dice lei, io non ho mai saputo nulla del professor Ravera».
Il 31 gennaio invece si racconta che ci fu una lite molto accesa, con lei presente, a casa della Ronchi. Che cosa successe?
«Al nostro arrivo a Milano nacque una grossa discussione al termine della quale io svenni. Quando tornai dall'ospedale Marco era sparito. Tra l'altro è stato detto che io e mio marito tornammo subito a casa quella sera ma non è assolutamente vero. Ho ancora la ricevuta dell'albergo dove abbiamo dormito».
Quella sera non riuscì più a entrare in contatto con Marco?
«No, la Ronchi ci disse che aveva telefonato a tutti gli alberghi e che non si trovava. Tra l'altro non aveva portato con sé il telefono quindi era irraggiungibile. Dopo anni poi sono tornata per capire dove Marco aveva alloggiato e ho visto che l'hotel si trovava vicino all'ufficio della Ronchi».
Vista la discrepanza nelle ricevute di pagamento dell'hotel (132 euro per i primi giorni, 180 per i successivi) crede che qualcuno possa aver alloggiato con lui?
«Non lo so, l'ho pensato subito anche io quando ho visto quelle ricevute e ho notato subito che il pagamento non era uguale per tutti i giorni».
Poi lei non sentì più Marco?
«No, non l'ho più sentito. Ci telefonò la sua manager mentre eravamo a pranzo per dirci di firmare un fax per mandare il dottore a comprargli delle medicine. La cosa mi stupì perché Marco non era uno che prendeva delle medicine. Invece qui hanno detto che aveva persino mandato uno che lavorava nell'hotel a comprargli le medicine, cosa che il portiere dell'albergo mi ha poi smentito».
L'8 febbraio però risulta che da una delle schede di Marco partì una chiamata verso di lei...
«La storia del telefonino mi ha messo molti, molti dubbi. A me Marco non mandò nessun messaggio, magari l'avesse fatto. Come faceva a chiamarmi se non aveva dietro il telefono? Nell'ultimo periodo Marco abitava a Predappio dall'amico che aveva chiesto a mio marito un telefono per tenerlo sotto controllo. L'amico poi fece intendere che Marco si era suicidato e non venne al funerale. Mi ricordo che mi chiese di guardare il telefono di Marco e dopo un po' me lo diede indietro. Un'altra cosa strana è che sparirono da casa non tre, ma cinque schede telefoniche che appartenevano a Marco. E penso che da una scheda telefonica si possano capire molte cose, anche perché Marco usava molto il telefono».
Le sembra che ora le indagini stiano andando nella direzione giusta?
«Guardi, non lo so. Purtroppo mio figlio non me lo dà indietro più nessuno, io spero solo si possa arrivare alla verità anche per evitare che altre cose brutte come quella successa a lui non succedano più a nessuno».
Tonina Pantani ad Affari: "Ci sono tante cose che non posso dire...". "Prima di uscire sui giornali penso che il procuratore che sta facendo le indagini doveva avvisare l'avvocato e me". Tonina Pantani, la mamma del Pirata, intervistata da Affaritaliani.it, commenta le parole del procuratore Paolo Giovagnoli, secondo il quale non ci sono elementi che facciano pensare all'omicidio per la morte di Marco Pantani. "Le cose non stanno così, ne sono convintissima. Anche perché ci sono tante cose che non posso neanche dire". E ancora: "Io so com'è mio figlio. So quali sono le sue abitudini, conosco tutta la sua storia. Ne hanno dette tante, ma non è così. Ne ho dovute mandar giù di cose brutte. Ma non ce l'ho con nessuno. Voglio solo delle risposte e voglio solo vivere in pace gli ultimi anni che mi sono rimasti".
Il procuratore Paolo Giovagnoli ha dichiarato che non ci sono elementi che facciano pensare all'omicidio per la morte di suo figlio Marco. Come ha accolto questa notizia?
"Di questo non so niente. L'ho letto sui giornali. Ma prima di uscire sui giornali penso che il procuratore che sta facendo le indagini doveva avvisare l'avvocato e me".
Lei non è stata avvisata?
"No".
Lo ha saputo dalla stampa...
"Sì".
Lei continua ad essere convinta che le cose non stanno così?
"Io sono convintissima, anche perché ci sono tante cose che non posso neanche dire. Se sono dieci anni che lotto per questa cosa e se ho speso un capitale è perché penso che qualcosa non funzioni e che non sia andata così. Altrimenti avrei lasciato perdere".
Allora perché i magistrati continuano a dire il contrario?
"Lo sapessi! Non lo so. Io non punto il dito su nessuno, non so se le indagini sono state fatte bene oppure no. Dico solamente che come mamma voglio sapere come è morto mio figlio. Ho diritto, io come cittadina italiana, di sapere come è morto mio figlio. Poi se le cose sono andate diversamente me ne farò una ragione però io ho diritto ha delle risposte alle domande che ho fatto da dieci anni".
E finora queste risposte non sono arrivate...
"Nemmeno una".
Lei ha ancora fiducia nella giustizia italiana?
"Io ho fiducia perché spero che qualcosa venga fuori. Io ho fiducia. Non dico che il procuratore di prima abbia lavorato male, dico solamente che io come mamma voglio delle risposte. Quando mi daranno queste risposte me ne farò una ragione e basta".
Lei non crede al fatto che non sia stato omicidio...
"Non ci ho mai creduto".
E forse non ci crederà mai...
"Io so com'è mio figlio. Mio figlio è mio figlio. So quali sono le sue abitudini, conosco tutta la sua storia. Ne hanno dette tante, ma non è così. Ne ho dovute mandar giù di cose brutte ma io mio figlio lo conosco bene".
Che cosa l'ha delusa maggiormente in questi anni?
"L'indifferenza".
Di chi?
"In generale. Non do colpe a nessuno io, voglio solo delle risposte. Non ce l'ho con nessuno. Voglio solo vivere in pace gli ultimi anni che mi sono rimasti".
Vallanzasca sentito in carcere sulla morte di Marco Pantani. In una lettera dal carcere alla madre del Pirata, la tesi del giro di scommesse truccate gestito dalla criminalità, scrive “Il Corriere della Sera”. Renato Vallanzasca, martedì, ha risposto ai carabinieri che lo hanno sentito in carcere sulla morte di Marco Pantani. A differenza del silenzio davanti al pm di Trento Bruno Giardina e alla mamma di Marco Pantani, il «bel René» — che fu capo della banda della Comasina — ha risposto ai carabinieri che lo hanno sentito su delega del pm di Forlì-Cesena, Sergio Sottani: sua la decisione di riaprire il caso, archiviato, sul presunto complotto ordito ai danni del Pirata per alterarne le analisi del sangue del 5 giugno ‘99 a Madonna di Campiglio ed escluderlo dal Giro d’Italia che stava dominando. Dal fitto riserbo che circonda l’indagine forlivese si è appreso solo che le indagini cercano i primi riscontri alle nuove dichiarazioni di Vallanzasca. Vallanzasca sostenne all’epoca di essere stato avvicinato in carcere a Opera (Milano) da uno sconosciuto sedicente membro di un clan di camorra. Il quale lo avrebbe invitato a puntare milioni sul Giro d’Italia ma non su Pantani. «Non mi permetterei mai di darti una storta. Non so come, ma il pelatino non finisce la gara». Suggerimento insistito, anche mentre il Pirata dominava il giro. Il 5 giugno 1999, l’affondo: «Visto? Il pelatino è stato fatto fuori. Squalificato». Secondo Vallanzasca, dunque, dietro la morte del ciclista ci sarebbe stato un complotto: è quanto scritto anche nella lettera spedita dal carcere alla signora Pantani: «Quattro o cinque giorni prima che fermassero Marco a Madonna di Campiglio — le parole del malavitoso contenute nella missiva — mi avvicinò un amico, anche se forse lo dovrei definire solo un conoscente, che mi disse: “Renato, so che sei un bravo ragazzo e che sei in galera da un sacco di tempo. Per questo mi sento di farti un favore”. Ero in vero un po’ sconcertato ma lo lasciai parlare. “‘Hai qualche milione da buttare? Se sì, puntalo sul vincitore del Giro! Non so chi vincerà, ma sicuramente non sarà Pantani”». La tesi di Vallanzasca è che le scommesse clandestine sulla vittoria finale del Pirata erano talmente tante da poter «sbancare» chi le gestiva. E poiché si trattava della criminalità, era stato più facile eliminare il campione dalla competizione. Esattamente la tesi sulla quale sta indagando la Procura di Forlì.
Il capitolo Pantani si arricchisce sempre più di nuovi capitoli. L'ultimo e forse più importante in ordine di tempo è l'ulteriore interrogatorio sostenuto da Renato Vallanzasca in carcere, nel quale l'ex malvivente avrebbe confessato di aver identificato il detenuto che nel 1999 gli consigliò di non puntare sulla vittoria del Pirata, scrive “TGCom 24”. All'interno del carcere di Bollate, infatti, a Vallanzasca sono state sottoposte dieci diverse fotografie di detenuti tra i quali, alla fine, si trovava il camorrista che gli annunciò l'esclusione di Pantani al Giro. Il "bel René" dunque, ha riconosciuto l'uomo, che ora si trova dentro il carcere di Novara. Anni fa invece, l'ex boss si rifiutò di fornire qualsiasi tipo di commento sulla vicenda, per poi spedire una recente lettera alla mamma di Marco, nella quale confidava di aver ricevuto la seguente soffiata: "Non posso dirti quello che non so, ma è certo che 4 o 5 giorni prima di Madonna di Campiglio sono stato consigliato vivamente di puntare contro il tuo ragazzo".
Pantani, si riapre il caso Giro ‘99: tra camorra, scommesse e Vallanzasca, scrive Francesco Ceniti su “La Gazzetta.it”. A inizio settembre, la Procura di Forlì ha aperto un fascicolo per “associazione per delinquere finalizzata a frode e truffa sportiva”. Il ruolo del famoso bandito milanese. Associazione per delinquere finalizzata alla truffa e alla frode sportiva. Dieci parole per riportare l’orologio indietro di oltre 15 anni. La Procura di Forlì ha aperto a inizio settembre un fascicolo a carico d’ignoti con questa ipotesi di reato in relazione all’esclusione subita da Marco Pantani il 5 giugno 1999 a Madonna di Campiglio, durante il Giro d’Italia. In poco più di un mese le inchieste sul Pirata si sono raddoppiate: a fine luglio c’è stata la riapertura del caso sulla morte (s’indaga per omicidio volontario) da parte della Procura di Rimini. Campiglio e Rimini. Rimini e Campiglio. Per anni la famiglia del Pirata, i tantissimi tifosi del campione rimpianto e molti sportivi hanno ripetuto come un mantra il nome delle due località: "È stato prima fregato e poi fatto fuori". Adesso gli interrogativi, i dubbi, i tanti sospetti saranno chiariti (si spera) dagli inquirenti. A Forlì l’indagine è condivisa dal Procuratore capo Carlo Sottani (da sostituto a Perugia si è occupato di vicende scottanti come le inchieste sulle Grandi opere e il G8) e dal pm Lucia Spirito. Già affidata la delega per gli interrogatori: il pool è coordinato dal maresciallo Diana dei carabinieri. Da loro bocche cucite, ma una cosa è filtrata da Forlì: ci sono tutti gli elementi per andare fino a fondo a uno dei punti più controversi della vita di Pantani. L’inizio della fine, per molti. Compresa mamma Tonina: "Senza Campiglio non ci sarebbe stato mai Rimini". Difficile sostenere il contrario. Ma perché Forlì ha deciso d’indagare 15 anni dopo? E perché l’ipotesi parte con una inquietante associazione per delinquere? Domande che hanno una risposta e rimandano a un cognome che ha segnato la cronaca nera della storia italiana: Renato Vallanzasca. Le indagini — Da settembre a oggi, gli inquirenti hanno già ascoltato diverse persone informate sui fatti. Quali fatti? Quelli legati all’esclusione dal Giro di Pantani: una vicenda che secondo l’accusa potrebbe avere dei mandanti pericolosi (clan della camorra) e degli esecutori sul posto. Di certo, chi è sfilato in Procura ha raccontato di un clima tesissimo durante la corsa rosa, con continue minacce anonime che arrivavano a chi stava intorno al Pirata. Minacce chiare: non doveva concludere la gara. E si arriva all’episodio di Cesenatico. Il Giro d’Italia arriva a casa del Pirata il 25 maggio 1999. La mattina dopo, i giornalisti sono allertati: "Pantani è fuori, ha saltato il controllo del sangue". Non sarà così, il capitano della Mercatone Uno passa quel test, ma i commissari dell’Uci lo vorrebbero lo stesso squalificare per un ritardo di circa 20’ sull’ora prevista per il prelievo. Alla fine tutto si risolve, ma l’ispettore dell’Unione ciclistica internazionale, Antonio Coccioni, lo ammonisce pubblicamente: "La prossima volta non te la caverai". Ecco, per Forlì l’ipotesi di reato inizia quel giorno. Nel senso che la criminalità organizzata aveva già deciso che Pantani non doveva giungere a Milano. Certo, è tutto da dimostrare che le parole di Coccioni siano legate a questa volontà. Possono essere solo una coincidenza, ma chi indaga ha le idee chiare: la storia è legata alle scommesse clandestine ed è stata già narrata da Vallanzasca.Pantani, nel film lo choc di Madonna di Campiglio Il banco a rischio sbanco — Nel 1999 in Italia le scommesse sul ciclismo non esistono. Meglio: sono clandestine, le gestisce la criminalità organizzata. Quando la camorra si rende conto di aver accettato troppe puntate su Pantani vincente, è troppo tardi. Lui si dimostra il più forte. Si parla di decine di miliardi di lire, il banco rischia di saltare. C’è un solo modo per evitare il flop, trasformandolo in un affare d’oro: non far trionfare Pantani. Ma il Pirata straccia gli avversari e la sfortuna sembra aver cambiato direzione. Sembra. In realtà per gli inquirenti la camorra pianifica per tempo la cacciata di Pantani. E qui arriviamo a Vallanzasca: il bel Renè nel 1999 si trova nel carcere di Opera (Milano) per scontare uno dei 4 ergastoli rimediati per le scorribande negli Anni Settanta. È avvicinato da un altro detenuto che non conosce. Dice di essere un affiliato a un importante clan della camorra e gli suggerisce di puntare tutti i risparmi sui rivali di Pantani. Vallanzasca strabuzza gli occhi: "Sai chi sono?". Risposta disarmante: "Certo, non mi permetterei mai di darti una storta. Non so come, ma il pelatino non finisce la gara". Il Giro è iniziato da poco: nelle tappe successive Pantani domina. Vallanzasca è scettico, ma l’altro insiste: "Fidati". E il 5 giugno il detenuto dalla dritta giusta va all’incasso: "Hai sentito? Il pelatino è stato fatto fuori, squalificato". Vallanzasca ha raccontato questo episodio nella sua autobiografia, uscita a fine 1999. E nei mesi successivi è stato sentito da Giardina, p.m. di Trento, titolare di un fascicolo dopo Campiglio. Fascicolo che all’inizio vedeva Pantani parte lesa (gli avvocati ipotizzavano lo scambio di provette), ma poi fu lui a finire indagato per frode sportiva. L’accusa finirà nel nulla, come quelle delle altre sei Procure che lo misero nel mirino per lo stesso motivo, inseguendo un reato che non esisteva (fu introdotto nel 2000). Vallanzasca non rispose a Giardina: troppo paura, il clan era pronto a vendicarsi. Vallanzasca 2014 — Adesso le cose potrebbero cambiare: nei prossimi giorni il procuratore Sottani andrà a Milano per interrogare Vallanzasca una seconda volta, ma questa volta gli investigatori hanno già un’idea sull’identità di quel detenuto e quindi del clan a cui era affiliato. Le deduzioni sono state fatte ricorrendo ai registri penitenziari del tempo e grazie ad alcune acquisizioni di filmati tv recenti, dove Vallanzasca a telecamere spente racconta dei particolari inediti. Non solo, tra le persone sentite anche giornalisti, gente vicina a Pantani e soprattutto medici che hanno spiegato come era possibile e semplice alterare l’ematocrito di quel 5 giugno (trovato a 51,9). Il sangue sarebbe stato deplasmato e la firma di questa operazione si troverebbe nel valore delle piastrine, piombate a livelli di un malato. Piastrine che invece erano normali (come l’ematocrito: sempre a 48) la sera del 4 giugno, quando il ciclista si fece l’esame del sangue nella sua stanza d’albergo per verificare se era nella norma (50 il valore consentito dall’Uci), e il 5 pomeriggio, quando si fermò a Imola per fare un test prima di arrivare a casa e iniziare la sua lenta discesa verso Rimini. Questa ipotesi ipotizza un complice in grado di operare sulla provetta (che non era sigillata). Ecco perché saranno interrogati anche i dottori che hanno effettuato il prelievo al Giro e l’ispettore Coccioni. L’inchiesta è all’inizio. Il procuratore Sottani ha informato da settimane il collega Giovagnoli che indaga sulla morte di Pantani, segno che nulla si può escludere: neppure una correlazione diretta tra i due fatti. Campiglio e Rimini sono distanti 414 chilometri e meno di 5 anni. Da ieri viaggiano fianco a fianco nel nome di Marco.
Marco Pantani con ematocrito alto nel ’98. Ma fu cacciato il gregario Forconi, scrive Paolo Ziliani su Il Fatto Quotidiano del 23 ottobre 2014. L'anno prima della squalifica di Madonna di Campiglio, al posto del Pirata fu spedito a casa il collega grazie a un presunto scambio di provette. Panorama parlò della vicenda nel '99, ma non ci furono reazioni. Il complotto contro Pantani? Certo che c’è stato. Ma la mala, la camorra e il mondo delle scommesse c’entrano poco; per rispetto della memoria di Marco – e con buona pace di Vallanzasca –i complottisti dovrebbero essere cercati altrove: nei palazzi del Coni, della Federciclismo, degli organizzatori del Giro, dell’Università di Ferrara. Ricordate il professor Conconi? Era il rettore dell’Università di Ferrara cui il Coni aveva affidato, a inizi anni ’80, l’assistenza medica degli atleti di ciclismo, sci di fondo, canottaggio, nuoto e altre discipline. Ingaggiato per combattere il doping, fece invece – per la gioia del Coni – esattamente il contrario: studiò nuove forme di doping e le fece mettere in pratica portando lo sport italiano a trionfi impensabili. Riconosciuto colpevole dei reati contestatigli dal Tribunale di Ferrara (sentenza del 16 febbraio 2004), ma salvato dalla prescrizione, Conconi fu il primo a somministrare Epo a Pantani negli anni dal ’93 al ’95. Il collega del Pirata raccontò tutto al suo ex ds, che rilasciò un’intervista. Non ci furono smentite né querele. Nel file DLAB sequestrato nel suo computer a Ferrara si vede come nel ’94 l’ematocrito di Pantani passa da 40,7 (prima del Giro) a 54,5 (durante il Giro). Pantani esplode, vince il 4 giugno a Merano, il 5 sul Mortirolo e il 13 giugno, all’indomani della conclusione, il suo ematocrito è da ricovero: 58%. Poi Marco va al Tour e finisce terzo. Al ritorno dalla Francia Conconi lo “testa” e l’ematocrito è assestato a 57,4. Gli sbalzi di valori di Pantani, dovuti al pompaggio di Epo, sono drammatici: come il ricovero al Cto di Torino, dopo la caduta alla Milano-Torino del ‘95, evidenzia (valori oltre il 60%). È triste dirlo, ma Pantani passa tutta la carriera con l’Epo nel sangue: parlare di complotto per il fattaccio di Madonna di Campiglio, il 5 giugno 1999, è quindi una presa in giro. Anche perché Marco, l’anno prima, ha vinto il Giro in modo strano. Come ci raccontò Ivano Fanini in un’intervista uscita su Panorama nel 1999, “nessuno sa che anche l’anno prima, al Giro del ’98, Pantani avrebbe dovuto essere mandato a casa. Invece al posto suo fu cacciato Riccardo Forconi, un gregario. Che il giorno dopo, visto che era un mio ex corridore – era stato con me 6 anni all’Amore & Vita – venne a trovarmi in ufficio e mi raccontò tutto: “Hanno fatto uno scambio di provette e hanno mandato a casa me, che alla Mercatone sono l’unico ad avere i valori bassi”. Riccardo era un modesto gregario, uno da 20-30 milioni di lire l’anno. Beh, dopo quell’episodio, e quella squalifica, si è costruito una villa sulle colline di Empoli: e si è fatto una posizione”. Per la cronaca: Pantani vinse quel Giro con 1’33” di vantaggio su Tonkov, russo della Mapei. La mattina della cronometro finale, che Pantani corre come una moto (lui scalatore finirà terzo), dopo un controllo a sorpresa di tutta la Mercatone Uno, il gregario Forconi, centesimo in classifica, viene mandato a casa con l’ematocrito oltre i 50: il tutto l’ultimo giorno e prima di una crono in cui non avrebbe nemmeno dovuto aiutare il suo capitano. Strano, non vi pare? Ma non è finita. Dopo l’intervista a Fanini, il giudice Guariniello apre un’inchiesta per fare luce sulla vicenda. Chiede di recuperare la provetta incriminata (di Forconi? Di Pantani?), all’ospedale Sant’Anna di Como dov’è depositata, per stabilire di chi effettivamente sia il Dna. Sorpresa: la provetta non c’è più, è sparita. Guariniello deve archiviare. Dopo due mesi dalla morte di Pantani, la sua ex fidanzata al settimanale Hebdo: “Si dopava e sniffava cocaina”. Domanda: se voi vincete un Giro d’Italia e qualcuno vi accusa di averlo fatto con l’inganno, fate finta di niente? Ebbene: dopo l’intervista a Fanini (che fece i nomi dei testimoni del racconto di Forconi, come il ds Salvestrini) non arrivò né a lui né a chi scrive non si dice una querela per diffamazione, ma nemmeno una richiesta di rettifica, di precisazione. Meglio far finta di niente: così magari l’anno dopo il teatrino si ripete nell’indifferenza dei più. Deve averlo pensato, Pantani. Anche la mattina del controllo a sorpresa (sic) all’hotel Touring a Madonna di Campiglio. Christine Jonsson, 37 anni, danese, fu la dama bionda di Pantani negli anni belli e negli anni bui: “Marco si dopava e prendeva la coca – raccontò la fidanzata, che oggi vive in Svizzera, a Hebdo, settimanale svizzero, due mesi dopo la morte di Pantani – stando con lui ho sempre avuto l’impressione che prendesse dei farmaci. Era la sua scelta, pagava di tasca sua i prodotti: diceva che bisognava prendere delle porcherie per avere successo. Aveva sempre dei prodotti in un contenitore di plastica nel frigorifero. Talvolta si faceva delle punture e io lo aiutavo tenendogli il braccio”. Ancora: “Dopo la cacciata dal Giro cominciò a prendere la cocaina: mi chiese di farlo con lui. Ero disperata perché io ho paura delle droghe. Marco ne assumeva delle quantità industriali. La famiglia se ne accorse e pensò che la colpa fosse mia”.
Giallo, la morte di Pantani e i misteri della Rosa Rossa. Strano suicidio, quello di Marco Pantani. Così strano da spingere la magistratura a riaprire l’inchiesta a dieci anni di distanza da quel 14 febbraio 2004. Più che un suicidio, scrive l’avvocato Paolo Franceschetti, sembra un omicidio “firmato”, con implacabile precisione, dall’ “Ordine della Rossa Rossa”. Fantomatica organizzazione segreta internazionale, secondo alcuni studiosi sarebbe una potentissima cupola eversiva di tipo esoterico, con fini di potere, dedita anche all’oscura pratica dell’omicidio rituale. «Un’ipotesi sempre scartata come irrealistica dagli inquirenti», scrive nel suo blog lo stesso Franceschetti, autore di studi sulla presunta relazione tra crimini e occultismo iniziatico, incluso il caso del cosiddetto “mostro di Firenze”. Di matrice rosacrociana, fondata sul simbolismo della Cabala e dell’ebraico antico come la londinese “Golden Dawn” rinverdita dal “mago” Aleister Crowley, secondo alcuni saggisti la “Rosa Rossa” sarebbe una sorta di super-massoneria deviata e criminale. Problema: non esiste una sola prova che questa organizzazione esista davvero. Solo indizi, benché numerosi. Chi esegue una sentenza rituale di morte, per “punire” in modo altamente simbolico un presunto “colpevole” o addirittura perché pensa – magicamente – di “acquisire potere” dall’uccisione “satanica” di un innocente, secondo Franceschetti ricorre sistematicamente a pratiche sempre identiche: in particolare la morte per impiccagione (la corda di Giuda, traditore di Cristo), con la vittima fatta ritrovare inginocchiata, e la morte per avvelenamento (o overdose di droga). Decine di casi di cronaca, tutti contrassegnati da circostanze ricorrenti: manca sempre un movente plausibile, non si trova l’arma del delitto, i nomi delle vittime hanno spesso origine biblica, la somma dei “numeri” (data di morte, data di nascita) riconduce a numeri speciali, per la Cabala, come l’11 e i suoi multipli. Oppure il 13, il numero della morte dei tarocchi. E poi, la “firma”: Pantani fu ritrovato morto a Rimini all’hotel “Le Rose”. Accanto al corpo, un biglietto in codice dal significato criptico: “Colori, uno su tutti rosa arancio come contenta, le rose sono rosa e la rosa rossa è la più contata”. Sul caso Pantani, sono stati scritti fiumi di parole, reportage, libri. Tra chi non ha mai creduto alla tesi del suicidio c’è un giornalista come Andrea Scanzi, che sul “Fatto Quotidiano” scrive: «Troppe incongruenze. La camera era mezza distrutta, c’era sangue sul divano, c’erano resti di cibo cinese (che Pantani odiava: perché avrebbe dovuto ordinarlo?)». Inoltre, il campione aveva chiamato per ben due volte la reception, parlando di «due persone che lo molestavano», ma l’aneddoto è stato catalogato come “semplici allucinazioni di un uomo ormai pazzo”. In più, Pantani «fu trovato blindato nella sua camera, i mobili che ne bloccavano la porta, riverso a terra, con un paio di jeans, il torso nudo, il Rolex fermo e qualche ferita sospetta (segni strani sul collo, come se fosse stato preso da dietro per immobilizzarlo, e un taglio sopra l’occhio)». Uniche tracce di cocaina, quelle ritrovate su palline di mollica di pane. Indagini superficiali: «Non esiste un verbale delle prime persone che sono entrate all’interno della camera, non è stato isolato il Dna delle troppe persone che entrarono nella stanza». Dettaglio macabro e particolarmente strano, il destino del cuore di Pantani: «Venne trafugato dopo l’autopsia dal medico, che lo portò a casa senza motivo (“Temevo un furto”) e lo mise nel frigo senza dirlo inizialmente a nessuno», scrive Scanzi. Prima di morire, a Rimini il ciclista aveva trascorso cinque giorni, «per nulla lucido, accompagnato da figure equivoche. Avrebbe anche festeggiato con una squadra di beach volley poco prima di morire: chi erano?». Altre domande: «Perché il cadavere aveva i suoi boxer un po’ fuori dai jeans, come se lo avessero trascinato?». Certo, aggiunge Scanzi, Pantani morì per overdose di cocaina, «ma troppi particolari lasciano pensare (anche) a una messa in scena». L’autopsia, peraltro, confermò che le tracce di Epo nel suo corpo erano minime, «segno evidente di come il ciclista non avesse mai fatto un uso costante di sostanze dopanti». E poi, tutte quelle “incongruenze”, reperibili in libri-denuncia come “Vie et mort de Marco Pantani” (Grasset, 2007) e “Era mio figlio” (Mondadori, 2008). E poi, soprattutto: «Che senso aveva quel messaggio in codice accanto al cadavere?». Colori e rose, “la rosa rossa è la più contata”. Anche i suoi amici, ricorda Franceschetti, dissero che la morte di Pantani in quell’hotel non può esser stata casuale: forse Marco voleva «lasciare un messaggio a qualcuno», perché «era un uomo che non faceva nulla a caso». Meglio ancora: «Non era lui che voleva lasciare un messaggio, ma chi l’ha ucciso», chiosa l’avvocato, sempre attento ai possibili “segni invisibili”: «Probabilmente c’è un significato anche nel fatto che sia morto a San Valentino, giorno in cui tradizionalmente si regalano rose alla fidanzata». Pantani “costretto” ad andare in quel preciso albergo affinchè poi il delitto fosse “firmato”? «Ovviamente, dire che dietro un delitto c’è la “Rosa Rossa” significa poco: essendo la “Rosa Rossa” un’organizzazione internazionale, e contando centinaia di affiliati in Italia, è come dire che si tratta di un delitto di mafia o di camorra». Un’affermazione «talmente generica da essere pressoché inutile a fini investigativi». Tuttavia, «dovrebbe essere un buon indizio perlomeno per non archiviare la cosa come suicidio». Franceschetti considera «evidente» l’origine «massonica» degli attacchi a Pantani, citando l’anomalo incidente che, anni prima, lo vide protagonista a Torino: fu travolto da un’auto che era penetrata in un’area interdetta al traffico, lungo la discesa della collina di Superga, quella dove si schiantò l’aereo del Grande Torino. La basilica di Superga, sull’altura che domina la città, fu costruita nel 1717, «anno in cui venne ufficialmente fondata la massoneria». Basta questo, all’avvocato, per concludere che si tratta di «una firma manifesta, specie alla luce delle stranezze di quell’incidente». Tra gli “incidenti non casuali”, Franceschetti inserisce pure quello ai danni del cantante Rino Gaetano: come anticipato in modo inquietante dal testo di una sua canzone, “La ballata di Renzo”, peraltro gremita di “rose rosse”, l’artista morì a Roma nella notte del 2 giugno 1981 dopo esser stato rifiutato da 5 diversi ospedali. «Statisticamente, le probabilità che un cantante descriva la morte di qualcuno perché viene rifiutato da 5 ospedali, e che poi muoia nello stesso identico modo sono… nulle». Molto strana, aggiunge Franceschetti, è anche la tragica fine del ciclista Valentino Fois, della stessa squadra di Pantani: anche lui muore per cause da accertare, ma alcuni giornali parlano subito di overdose, «e già questo fa venire qualche sospetto». Premessa: in Italia, muoiono per omicidio circa 2.500 persone all’anno. E altrettante finiscono suicide. Giornali e Tv si disinteressano della stragrande maggioranza di questi episodi. «Quando però su un fatto scatta l’attenzione dei media, in genere questo è un segnale che sotto c’è dell’altro. Quindi viene spontanea la domanda: perché i giornali si interessano alla morte di un ciclista poco conosciuto come Fois?». Premesso che nello sport professionistico il doping (entro certi limiti) è pressoché inevitabile, Franceschetti sospetta che Fois sia morto «per aver “tradito”, come Pantani». Ovvero, i due avrebbero «pagato con la vita la loro maggiore pulizia e onestà intellettuale rispetto al resto dell’ambiente in cui vivevano». Secondo Franceschetti, c’è anche «non il sospetto, ma la certezza» che la verità non verrà mai a galla. Del resto, «la maggior parte delle famiglie di queste vittime non saprà mai la verità, la maggior parte muore senza che i familiari sospettino un omicidio». E racconta: «Io stesso, dopo il primo incidente che mi capitò, pensai ad un caso. E dopo il secondo pensavo che ce l’avessero con la mia collega e che avessero manomesso contemporaneamente sia la mia moto che la sua per maggior sicurezza di fare danni a lei. In altre parole, potevo morire senza sapere neanche perché, e pochi avrebbero sospettato qualcosa». E aggiunge: «Ogni volta che prendo l’auto sono consapevole che lo sterzo potrà non funzionare, che un’auto che viene in senso inverso all’improvviso potrà sbandare e venire verso di me, o magari che potrò avere un malore nell’anticamera di una Procura come è successo al capo dei vigili testimone della Thyssen Krupp». La storia italiana, aggiunge l’avvocato, è troppo gremita di “coincidenze”, depistaggi e collusioni: le bombe nelle piazze, Ustica, Moby Prince. «In quei casi i familiari delle vittime ormai hanno capito, ma negli altri?». La storia infinita del “mostro di Firenze”, ad esempio, sembra il frutto di un “normale” serial killer solitario. Secondo Franceschetti, invece, tutti quegli omicidi non sono altro che precise esecuzioni rituali, settarie ed esoteriche, meticolosamente pianificate da un clan criminale protetto da amicizie potenti. «Ho telefonato ai genitori di Pantani prima di scrivere questo articolo», scriveva Franceschetti nel 2008. «Dal loro silenzio successivo al mio fax presumo che abbiano pensato che io sia un folle, magari un mitomane in cerca di pubblicità. E’ normale che lo pensino, come è normale che la maggior parte delle persone che leggeranno queste righe le prendano per un delirio». Continua Franceschetti: «Un mio amico medico legale, a cui ho raccontato le mie “scoperte”, mi ha lasciato di stucco quando mi ha detto: “Sì, Paolo, lo sapevo. Tutti quei suicidi in carcere per soffocamento con buste di plastica sono impossibili dal punto di vista di medico-legale”». L’esoterismo «è un linguaggio: se non lo conosci è come camminare per le strade di una nazione straniera, vedi le scritte ma non ti dicono nulla, sembrano segni innocui e invece sono messaggi precisi”». Difficile parlarne, «perché ti prendono per matto». E il guaio è che, «quando capisci il sistema», è problematico «continuare a fare la vita di sempre senza impazzire».
Strano suicidio, quello di Marco Pantani, scrive “Libreidee”. Così strano da spingere la magistratura a riaprire l’inchiesta a dieci anni di distanza da quel 14 febbraio 2004. Più che un suicidio, scrive l’avvocato Paolo Franceschetti, sembra un omicidio “firmato”, con implacabile precisione, dall’ “Ordine della Rossa Rossa”. Fantomatica organizzazione segreta internazionale, secondo alcuni studiosi sarebbe una potentissima cupola eversiva di tipo esoterico, con fini di potere, dedita anche all’oscura pratica dell’omicidio rituale. «Un’ipotesi sempre scartata come irrealistica dagli inquirenti», scrive nel suo blog lo stesso Franceschetti, autore di studi sulla presunta relazione tra crimini e occultismo iniziatico, incluso il caso del cosiddetto “mostro di Firenze”. Di matrice rosacrociana, fondata sul simbolismo della Cabala e dell’ebraico antico come la londinese “Golden Dawn” rinverdita dal “mago” Aleister Crowley, secondo alcuni saggisti la “Rosa Rossa” sarebbe una sorta di super-massoneria deviata e criminale. Problema: non esiste una sola prova che questa organizzazione esista davvero. Solo indizi, benché numerosi. Chi esegue una sentenza rituale di morte, per “punire” in modo altamente simbolico un presunto “colpevole” o addirittura perché pensa – magicamente – di “acquisire potere” dall’uccisione “satanica” di un innocente, secondo Franceschetti ricorre sistematicamente a pratiche sempre identiche: in particolare la morte per impiccagione (la corda di Giuda, traditore di Cristo), con la vittima fatta ritrovare inginocchiata, e la morte per avvelenamento (o overdose di droga). Decine di casi di cronaca, tutti contrassegnati da circostanze ricorrenti: manca sempre un movente plausibile, non si trova l’arma del delitto, i nomi delle vittime hanno spesso origine biblica, la somma dei “numeri” (data di morte, data di nascita) riconduce a numeri speciali, per la Cabala, come l’11 e i suoi multipli. Oppure il 13, il numero della morte dei tarocchi. E poi, la “firma”: Pantani fu ritrovato morto a Rimini all’hotel “Le Rose”. Accanto al corpo, un biglietto in codice dal significato criptico: “Colori, uno su tutti rosa arancio come contenta, le rose sono rosa e la rosa rossa è la più contata”.
Sul caso Pantani, sono stati scritti fiumi di parole, reportage, libri. Tra chi non ha mai creduto alla tesi del suicidio c’è un giornalista come Andrea Scanzi, che sul “Fatto Quotidiano” scrive: «Troppe incongruenze. La camera era mezza distrutta, c’era sangue sul divano, c’erano resti di cibo cinese (che Pantani odiava: perché avrebbe dovuto ordinarlo?)». Inoltre, il campione aveva chiamato per ben due volte la reception, parlando di «due persone che lo molestavano», ma l’aneddoto è stato catalogato come “semplici allucinazioni di un uomo ormai pazzo”. In più, Pantani «fu trovato blindato nella sua camera, i mobili che ne bloccavano la porta, riverso a terra, con un paio di jeans, il torso nudo, il Rolex fermo e qualche ferita sospetta (segni strani sul collo, come se fosse stato preso da dietro per immobilizzarlo, e un taglio sopra l’occhio)». Uniche tracce di cocaina, quelle ritrovate su palline di mollica di pane. Indagini superficiali: «Non esiste un verbale delle prime persone che sono entrate all’interno della camera, non è stato isolato il Dna delle troppe persone che entrarono nella stanza». Dettaglio macabro e particolarmente strano, il destino del cuore di Pantani: «Venne trafugato dopo l’autopsia dal medico, che lo portò a casa senza motivo (“Temevo un furto”) e lo mise nel frigo senza dirlo inizialmente a nessuno», scrive Scanzi. Prima di morire, a Rimini il ciclista aveva trascorso cinque giorni, «per nulla lucido, accompagnato da figure equivoche. Avrebbe anche festeggiato con una squadra di beach volley poco prima di morire: chi erano?». Altre domande: «Perché il cadavere aveva i suoi boxer un po’ fuori dai jeans, come se lo avessero trascinato?». Certo, aggiunge Scanzi, Pantani morì per overdose di cocaina, «ma troppi particolari lasciano pensare (anche) a una messa in scena». L’autopsia, peraltro, confermò che le tracce di Epo nel suo corpo erano minime, «segno evidente di come il ciclista non avesse mai fatto un uso costante di sostanze dopanti». E poi, tutte quelle “incongruenze”, reperibili in libri-denuncia come “Vie et mort de Marco Pantani” (Grasset, 2007) e “Era mio figlio” (Mondadori, 2008). E poi, soprattutto: «Che senso aveva quel messaggio in codice accanto al cadavere?». Colori e rose, “la rosa rossa è la più contata”. Anche i suoi amici, ricorda Franceschetti, dissero che la morte di Pantani in quell’hotel non poteva esser stata casuale: forse Marco voleva «lasciare un messaggio a qualcuno», perché «era un uomo che non faceva nulla a caso». Meglio ancora: «Non era lui che voleva lasciare un messaggio, ma chi l’ha ucciso», chiosa l’avvocato, sempre attento ai possibili “segni invisibili”: «Probabilmente c’è un significato anche nel fatto che sia morto a San Valentino, giorno in cui tradizionalmente si regalano rose alla fidanzata». Pantani “costretto” ad andare in quel preciso albergo affinchè poi il delitto fosse “firmato”? «Ovviamente, dire che dietro un delitto c’è la “Rosa Rossa” significa poco: essendo la “Rosa Rossa” un’organizzazione internazionale, e contando centinaia di affiliati in Italia, è come dire che si tratta di un delitto di mafia o di camorra». Un’affermazione «talmente generica da essere pressoché inutile a fini investigativi». Tuttavia, «dovrebbe essere un buon indizio perlomeno per non archiviare la cosa come suicidio». Franceschetti considera «evidente» l’origine «massonica» degli attacchi a Pantani, citando l’anomalo incidente che, anni prima, lo vide protagonista a Torino: fu travolto da un’auto che era penetrata in un’area interdetta al traffico, lungo la discesa della collina di Superga, quella dove si schiantò l’aereo del Grande Torino. La basilica di Superga, sull’altura che domina la città, fu costruita nel 1717, «anno in cui venne ufficialmente fondata la massoneria». Basta questo, all’avvocato, per concludere che si tratta di «una firma manifesta, specie alla luce delle stranezze di quell’incidente». Tra gli “incidenti non casuali”, Franceschetti inserisce pure quello ai danni del cantante Rino Gaetano: come anticipato in modo inquietante dal testo di una sua canzone, “La ballata di Renzo”, peraltro gremita di “rose rosse”, l’artista morì a Roma nella notte del 2 giugno 1981 dopo esser stato rifiutato da 5 diversi ospedali. «Statisticamente, le probabilità che un cantante descriva la morte di qualcuno perché viene rifiutato da 5 ospedali, e che poi muoia nello stesso identico modo sono… nulle». Molto strana, aggiunge Franceschetti, è anche la tragica fine del ciclista Valentino Fois, della stessa squadra di Pantani: anche lui muore per cause da accertare, ma alcuni giornali parlano subito di overdose, «e già questo fa venire qualche sospetto». Premessa: in Italia, muoiono per omicidio circa 2.500 persone all’anno. E altrettante finiscono suicide. Giornali e Tv si disinteressano della stragrande maggioranza di questi episodi. «Quando però su un fatto scatta l’attenzione dei media, in genere questo è un segnale che sotto c’è dell’altro. Quindi viene spontanea la domanda: perché i giornali si interessano alla morte di un ciclista poco conosciuto come Fois?». Premesso che nello sport professionistico il doping (entro certi limiti) è pressoché inevitabile, Franceschetti sospetta che Fois sia morto «per aver “tradito”, come Pantani». Ovvero, i due avrebbero «pagato con la vita la loro maggiore pulizia e onestà intellettuale rispetto al resto dell’ambiente in cui vivevano». Secondo Franceschetti, c’è anche «non il sospetto, ma la certezza» che la verità non verrà mai a galla. Del resto, «la maggior parte delle famiglie di queste vittime non saprà mai la verità, la maggior parte muore senza che i familiari sospettino un omicidio». E racconta: «Io stesso, dopo il primo incidente che mi capitò, pensai ad un caso. E dopo il secondo pensavo che ce l’avessero con la mia collega e che avessero manomesso contemporaneamente sia la mia moto che la sua per maggior sicurezza di fare danni a lei. In altre parole, potevo morire senza sapere neanche perché, e pochi avrebbero sospettato qualcosa». E aggiunge: «Ogni volta che prendo l’auto sono consapevole che lo sterzo potrà non funzionare, che un’auto che viene in senso inverso all’improvviso potrà sbandare e venire verso di me, o magari che potrò avere un malore nell’anticamera di una Procura come è successo al capo dei vigili testimone della Thyssen Krupp». La storia italiana, aggiunge l’avvocato, è troppo gremita di “coincidenze”, depistaggi e collusioni: le bombe nelle piazze, Ustica, Moby Prince. «In quei casi i familiari delle vittime ormai hanno capito, ma negli altri?».
La storia infinita del “mostro di Firenze”, ad esempio, sembra il frutto di un “normale” serial killer solitario. Secondo Franceschetti, invece, tutti quegli omicidi non sono altro che precise esecuzioni rituali, settarie ed esoteriche, meticolosamente pianificate da un clan criminale protetto da amicizie potenti. «Ho telefonato ai genitori di Pantani prima di scrivere questo articolo», scriveva Franceschetti nel 2008. «Dal loro silenzio successivo al mio fax presumo che abbiano pensato che io sia un folle, magari un mitomane in cerca di pubblicità. E’ normale che lo pensino, come è normale che la maggior parte delle persone che leggeranno queste righe le prendano per un delirio». Continua Franceschetti: «Un mio amico medico legale, a cui ho raccontato le mie “scoperte”, mi ha lasciato di stucco quando mi ha detto: “Sì, Paolo, lo sapevo. Tutti quei suicidi in carcere per soffocamento con buste di plastica sono impossibili dal punto di vista medico-legale”». L’esoterismo «è un linguaggio: se non lo conosci è come camminare per le strade di una nazione straniera, vedi le scritte ma non ti dicono nulla, sembrano segni innocui e invece sono messaggi precisi». Difficile parlarne, «perché ti prendono per matto». E il guaio è che, «quando capisci il sistema», è problematico «continuare a fare la vita di sempre senza impazzire».
Marco Pantani per Paolo Franceschetti fu ucciso da un complotto, scrive Sonia Paolin su “Delitti”. E’ la tesi di Paolo Franceschetti, esperto di massoneria ed esoterismo Marco Pantani aveva dato fastidio a molti poteri forti che si sono uniti per eliminarlo. La morte di Marco Pantani? Frutto di un complotto che pare da lontano e che mescola misteri ed esoterismo, medicina, poteri forti e massoneria. A sostenerlo è Paolo Franceschetti, noto esperto della materia che insieme a Fabio Frabetti e Stefania Nicoletti da qualche tempo ha anche aperto un blog specifico, "Indagine sulla morte di Marco Pantani". Diverse le colpe di cui si sarebbe macchiato il campione, tutte punite con la sua morte: parlava senza peli sulla lingua senza aver timore di nessuno, infangando il sistema del doping, delle case farmaceutiche e delle sponsorizzazioni; vinceva troppo, non voleva piegarsi alle regole del gioco, e non permetteva a nessuno di dirgli quando e come vincere; destabilizzava anche gli equilibri geopolitici internazionali. Ora, intervistato sul blog di Vice, la trasmissione di approfondimento e inchiesta di Sky Tg24, Franceschetti ha chiarito i suoi sospetti: “La stranezza di questo caso è sempre stata considerare la morte di Marco come un suicidio e non un omicidio. La morte di Marco è un stato un omicidio eccellente, con coperture e depistaggi eccellenti. È sempre stato chiaro, a chiunque, non solo a me. Credo proprio che in questo momento qualcuno stia tremando. Magari stanno pensando a un cambio di potere, ai vertici, qualcosa così. I gruppi di potere a cui dava fastidio Pantani. Basta vedere la sua storia per vederlo. Nella sua vita si è messo contro un sacco di gente. con battaglie, anche in tribunale. Pantani era scomodo, sosteneva verità che normalmente nel mondo dello sport non vengono portate avanti”. E cita fatti già noti, peraltro già accantonati da molti: “Il declino di Pantani iniziò quando rifiutò la sponsorizzazione della Fiat (divenne testimonial di Citroen, ndr). Quella decisione gli è costata cara. C’è la droga poi, il doping, ma anche altro. Tanto per dirtene una c’è anche la pista americana. Marco vinceva tutto, forse troppo. Gli americani tengono parecchio alla loro immagine nel mondo e in quel momento avrebbero voluto che Armstrong diventasse il loro nuovo numero uno. Pantani si era messo in mezzo”. E qui si arriva ai mandanti: “C’è la firma dell’organizzazione che ha commissionato il fatto, che è l’ordine della Rosa Rossa. E’ uno degli ordini più potenti nel mondo, e i suoi componenti di grado più elevato sono ai vertici di banche, multinazionali, istituzioni di alto livello. Non sono teppisti da quattro soldi. Sono ovunque. Pantani muore all’hotel Le Rose, di fianco al cadavere, sul comodino, la polizia trova un bigliettino su cui c’è scritta una sorta di poesia, di filastrocca. “Colori, uno su tutti rosa arancio come contenta, le rose sono rosa e la rosa rossa è la più contata.” Poi c’è la data del delitto. Marco muore il giorno di San Valentino. San Valentino è il santo dell’amore e quindi delle rose, e se fai la somma dei numeri che compongono la data, uno per uno, il numero finale è 13. Se guardi i tarocchi il tredici corrisponde alla morte, e i tarocchi sono ovviamente un’espressione dell’esoterismo”.
L’omicidio massonico. Tutti lo vedono, tranne gli inquirenti, scrive Paolo Franceschetti. Gli omicidi commessi dalla massoneria seguono tutti un preciso rituale e sono – per così dire - firmati. Dal momento che le associazioni massoniche sono anche associazioni esoteriche, in ogni omicidio si ritrovano le simbologie esoteriche proprie dell’associazione che l’ha commesso; simbologie che possono consistere in simboli sparsi sulla scena del delitto, o nella modalità dell’omicidio, o nella data di esso. Questo articolo è però necessariamente incompleto, nel senso che sono riuscito a capire la motivazione e la tecnica sottesa ad alcuni delitti solo per caso, con l’aiuto di alcuni amici, giornalisti, magistrati o semplici appassionati di esoterismo. Ma devo ancora capire molte cose. La mia intenzione è di fornire però uno spunto di approfondimento a chi vorrà farlo. Evitiamo di ripercorrere i principali omicidi, perché ne abbiamo accennato nei nostri precedenti articoli (specialmente ne“Il testimone è servito” e in quello sul mostro di Firenze). Facciamo invece delle considerazioni di ordine generale. I miei dubbi sul fatto che ogni omicidio nasconda una firma e una ritualità nacquero quando mi accorsi di una caratteristica che immediatamente balza agli occhi di qualsiasi osservatore: tutte le persone che vengono trovate impiccate si impiccano “in ginocchio”, ovverosia con una modalità compatibile con un suicidio solo in linea teorica; in pratica infatti, è la statistica che mi porta ad escludere che tutti si possano essere suicidati con le ginocchia per terra, in quanto si tratta di una modalità molto difficile da realizzare effettivamente. Così come è la statistica a dirci che gli incidenti in cui sono capitati i testimoni di Ustica non sono casuali; ben 4 testimoni moriranno in un incidente aereo, ad esempio, il che è numericamente impossibile se raffrontiamo questo numero morti con quello medio delle statistiche di questo settore. L’altra cosa che mi apparve subito evidente fu la spettacolarità di alcune morti che suscitavano in me alcune domande. Perché far precipitare un aereo, anziché provocare un semplice malore (cosa che con le sostanze che esistono oggi, nonché con i mezzi e le conoscenze dei nostri moderni servizi segreti, è un gioco da ragazzi)? Perché “suicidare” le persone mettendole in ginocchio, rendendo così evidente a chiunque che si tratta di un omicidio? (a chiunque tranne agli inquirenti, sempre pronti ad archiviare come suicidi anche i casi più eclatanti). Perché nei delitti del Mostro di Firenze una testimone muore con una coltellata sul pube? (anche questo caso archiviato come “suicidio”). Perché una modalità così afferrata, ma anche così plateale, tanto da far capire a chiunque il collegamento con la vicenda del mostro? Perché firmare i delitti con una rosa rossa, come nel caso dell’omicidio Pantani, in modo da rendere palese a tutti che quell’omicidio porta la firma di questa associazione? Ricordiamo infatti che Pantani morì all’hotel Le Rose e che accanto al suo letto venne trovata una poesia apparentemente senza senso che diceva: “Colori, uno su tutti rosa arancio come contenta, le rose sono rosa e la rosa rossa è la più contata”. Ricordiamo anche che Pantani ebbe un incidente (per il quale fece causa alla città di Torino) proprio nella salita di Superga, ovverosia la salita dove sorge la famosa cattedrale che fu eretta nel 1717, data in cui la massoneria moderna ebbe il suo inizio ufficiale. Se questi particolari non dicono nulla ad un osservatore qualsiasi, per un esperto di esoterismo dicono tutto. Tra l’altro la collina di Superga è quella ove si schiantò l’aereo del Torino Calcio, ove morì un’intera squadra di calcio con tutto il personale al seguito. Altra coincidenza inquietante, a cui pare che gli investigatori non abbiano mai fatto caso. Perché far morire due testimoni di Ustica in un incidente come quello delle frecce tricolori a Ramstein, in Germania, destando l’attenzione di tutto il mondo? La domanda mi venne ancora più forte il giorno in cui con la mia collega Solange abbiamo avuto un incidente di moto. Con due moto diverse, a me è partito lo sterzo e sono finito fuori strada; mi sono salvato per un miracolo, in quanto l’incidente è capitato nel momento in cui stavo rallentando per fermarmi e rispondere al telefono; Solange, che fortunatamente è stata avvertita in tempo da me, ha potuto fermarsi prima che perdesse la ruota posteriore. Ora, è ovvio che un simile incidente – se fossimo morti - avrebbe provocato più di qualche dubbio. Magari a qualcuno sarebbe tornato in mente il caso dei due fidanzati morti in un incidente analogo qualche anno fa: Simona Acciai e Mauro Manucci. I due fidanzati morirono infatti in due incidenti (lui in moto, lei in auto) contemporanei a Forlì. Nel caso nostro, due amici e colleghi di lavoro morti nello stesso modo avrebbero insospettito più di una persona e sarebbero stati un bel segnale per chi è in grado di capire: sono stati puniti. Per un po’ di tempo pensai che queste modalità servivano per dare un messaggio agli inquirenti: firmando il delitto tutti quelli che indagano, se appartenenti all’organizzazione, si accorgono subito che non devono procedere oltre. Inoltre ho pensato ci fosse anche un altro motivo. Lanciare un messaggio forte e chiaro di questo tipo: inutile che facciate denunce, tanto possiamo fare quello che vogliamo, e nessuno indagherà mai realmente. Senz’altro queste due motivazioni ci sono. Ma ero convinto che ci fosse anche dell’altro, specie nei casi in cui la firma è meno evidente. La risposta mi è arrivata un po’ più chiara quando ho scoperto che Dante era un Rosacroce (dico “scoperto” perché non sono e non sono mai stato un appassionato di esoterismo). Ora la massoneria più potente non è quella del GOI, ma è costituita dai Templari, dai Rosacroce e dai Cavalieri di Malta. E allora ecco qui la spiegazione dell’enigma: la regola del contrappasso. Nell’ottica dei Rosacroce, chi arriva al massimo grado di questa organizzazione, ha raggiunto la purezza della Rosa. Nella loro ottica denunciare uno di loro, o perseguirlo, è un peccato. E il peccato deve essere punito applicando la regola del contrappasso. Quindi: volevi testimoniare in una vicenda riguardante un aereo caduto? Morirai in un incidente aereo. Volevi testimoniare in un processo contro il Mostro di Firenze? Morirai con l’asportazione del pube, cioè la stessa tecnica usata dal Mostro sulle vittime. La regola del contrappasso è evidente anche ad un profano nel caso di Luciano Petrini, il consulente informatico che stava facendo una consulenza sull’omicidio di Ferraro, il testimone di Ustica trovato “impiccato” al portasciugamani del bagno. Petrini morirà infatti colpito ripetutamente da un portasciugamani. Nel mio caso e quello della mia collega il “peccato” consiste invece nell’aver denunciato determinate persone appartenenti alla massoneria (in particolare quella dei Rosacroce). Per colmo di sventura poi andai a fare l’esposto proprio da un magistrato appartenente all’organizzazione (cosa che ovviamente ho scoperto solo dopo gli incidenti, decriptando la lettera che costui mi inviò successivamente). Che è come andare a casa di Provenzano per denunciare Riina. Nel caso di Fabio Piselli, invece, il perito del Moby Prince che doveva testimoniare riguardo alla vicenda dell’incendio capitato al traghetto, costui è stato stordito e messo in un’auto a cui hanno dato fuoco, forse perché il rogo dell’auto simboleggiava il rogo della nave. Talvolta invece il simbolismo è più difficile da decodificare e si trova nelle date, o in collegamenti ancora più arditi, siano essi in casi eclatanti, o in banali fatti di cronaca. Nel caso del giudice Carlo Palermo che il 02 aprile del 1985 tentarono di uccidere con un’autobomba a Pizzolungo (Trapani). Il giudice Palermo era stato titolare di un’ampia indagine sul traffico di armi ed aveva indagato sulla fornitura di armi italiane all’Argentina durante la guerra per le isole Falkland, guerra scoppiata proprio il 02 aprile 1982 con l’invasione inglese delle isole. L’autobomba scoppiò quindi nella stessa data, e tre anni dopo (tre è un numero particolarmente simbolico). Ed ancora per quanto riguarda l’omicidio di Roberto Calvi. Come ricorda il giudice Carlo Palermo: “Nella inchiesta della magistratura di Trento un teste (Arrigo Molinari, iscritto alla P2), dichiarò che Calvi – attraverso le consociate latino-americane del Banco Ambrosiano – aveva finanziato l’acquisto, da parte dell’Argentina, dei missili Exocet e in definitiva l’intera operazione delle isole Falkland”. I primi missili Exocet affondarono due navi inglesi (la Hms Sheffield e Atlantic Conveyor). Il 18 giugno 1982 Roberto Calvi fu trovato morto impiccato a Londra sotto il ponte dei frati neri (nome di una loggia massonica inglese). Inoltre il ponte era dipinto di bianco ed azzurro che sono i colori della bandiera argentina. Nel caso del delitto Moro la scena del delitto è intrisa di simbologie, dal fatto che sia stato trovato a via Caetani (e Papa Caetani era Papa Bonifacio VIII, che simpatizzava per i Templari e a cui mossero le stesse accuse rivolte a quest’ordine) alla data del ritrovamento, al fatto che sia stato trovato proprio in una Renault 4 Rossa. Se Renault Rossa sta per Rosa Rossa, la cifra 4 farebbe riferimento al quatre de chiffre (ma forse anche al numero di lettere della parola “rosa”). Il mio articolo termina qui. Non voglio approfondire per vari motivi. In primo luogo perché non sono un appassionato di esoterismo e scendere ancora più a fondo richiederebbe uno studio approfondito e molto tempo a disposizione, che io non ho. Il mio articolo è dettato invece dalla voglia di indurre il lettore ad approfondire. E dalla voglia di dire a chiunque che molti misteri d’Italia, non sono in realtà dei misteri, se si sa leggere a fondo nelle pieghe del delitto. La conoscenza approfondita dell’esoterismo e del modo di procedere delle associazioni massoniche garantirebbe agli inquirenti, il giorno che prenderanno coscienza del fenomeno, un notevole miglioramento dal punto di vista dei risultati investigavi. Questo consentirebbe anche di capire alcuni meccanismi della politica italiana, che spesso nelle loro simbologie si rifanno a queste organizzazioni. La croce della democrazia Cristiana, ad esempio, probabilmente non è altro che la Croce templare; mentre la rosa presente nel simbolo di molti partiti è probabilmente nient’altro che la rosa dei RosaCroce. Quando dico queste cose mi viene risposto spesso che la rosa della “Rosa nel pugno” è in realtà il simbolo dei radicali francesi. E io rispondo: appunto, il simbolo dei RosaCroce, che non è un’organizzazione italiana, ma internazionale. E che non ricorre solo per i radicali ma anche per i socialisti e per altri partiti di destra. Questo consentirebbe di capire, ad esempio, il significato del cacofonico nome “Cosa Rossa” che si voleva dare alla Sinistra Arcobaleno; un nome così brutto probabilmente non è un caso. Secondo un mio amico inquirente potrebbe derivare da Cristian Rosenkreuz, il mitico fondatore dei RosaCroce. Mentre la Rosa Bianca potrebbe fare riferimento alla guerra delle due rose, in Inghilterra; guerra che terminò con un matrimonio tra Rosa bianca e Rosa Rossa. Al lettore appassionato di esoterismo il compito di capire il significato delle varie morti che qui abbiamo solo accennato. Non ho ancora capito, ad esempio, il perché dei cosiddetti “suicidi in ginocchio”. Secondo un mio amico le gambe piegate trovano un parallelismo con l’impiccato del mazzo dei tarocchi, che è sempre raffigurato con una gamba piegata. Era la punizione riservata un tempo al debitore, che veniva appeso in quel modo affinchè tutti potessero vedere la sua punizione e potessero deriderlo. E infatti, tutti quelli che vedono un suicidio in ginocchio capiscono che si trattava di un testimone scomodo e che si tratta di un omicidio. Tutti, tranne gli inquirenti. (Io speriamo che non mi suicido).
L’omicidio massonico - Il caso Pantani e il caso Fois, scrive ancora Paolo Franceschetti.
Premessa. In questo articolo approfondiamo alcuni degli argomenti trattati nel precedente articolo sull’omicidio massonico e chiariamo alcuni dubbi che l’articolo aveva suscitato specialmente in merito al caso Pantani. In primo luogo l’articolo precedente terminava con una domanda. Mi chiedevo cioè il motivo dell’immenso numero di persone “suicidate” (come si dice in gergo) mediante impiccagione, e facendo toccare alla maggioranza di essere le ginocchia per terra. Voglio poi rispondere alle molte domande che mi vengono spesso rivolte: come si distingue l’omicidio massonico? E perché dico che Pantani fu quasi sicuramente ucciso?
Impiccagioni e avvelenamenti, overdose. In primo luogo un lettore mi ha inviato la sua spiegazione. il "suicidio in ginocchio" rappresenta "l'omicidio consacrato" cioè la morte per "volere divino"... cosi come si viene investiti degli onori alla vita, cosi si viene investiti degli onori alla morte. Mi è pervenuto inoltre uno scritto, tratto dal libro di un esoterista che ha, appunto, trattato questo argomento che riportiamo. Il libro è di Lino Lista e si intitola: “Raimondo di Sangro. Il principe dei veli di pietra”. In forma romanzata vengono rivelati alcuni aspetti del ritualismo massonico che hanno quindi dato una risposta alla mia domanda sul motivo dei tanti impiccati. La corda e l’impiccagione sono i simboli di Giuda e del tradimento di Cristo. Ma il lavoro di Lino Lista svela anche un altro mistero. Un’altra modalità frequente di uccisione, tanto frequente da gettare più di un sospetto, ad esempio, è quella dell’avvelenamento da overdose, in cui sono incappati, per fare qualche nome, il ciclista Pantani, poi di recente un altro componente della sua squadra, il ciclista Valentino Fois, e a Viterbo il medico Manca, ovvero il medico che pare abbia curato il boss mafioso Bernardo Provenzano. Muoiono poi avvelenati anche molti testimoni di processi importanti. Morì avvelenato in carcere Sindona. E poi molti “malori” improvvisi, talvolta nell’anticamera di un giudice, in un tribunale, o nella buovette di Montecitorio come capitò al generale Giorgio Manes. Voglio citare integralmente il passo del libro di Lino Lista: La corda...(omissis)...è il segno dominante, che mai deve mancare, di una vendetta massonica. Con riferimento alla leggenda di Hiram, volendo spandere un maggior numero d’indizi, convenientemente si potrebbero lasciare accanto al cadavere del giustiziato, seppur di veleno: dell’acqua, in ricordo della fontana alla quale il Vendicatore smorzò la sete; un osso spezzato di cane, in onore dell’Incognito che si mutò in tal bestia; un abito nero, in memoria del lutto per Padre Hiram. Volendo eccedere, ma mai una società segreta dovrebbe eccedere perchè troppi indizi talvolta sono considerati alla stregua di una prova, si potrebbe collocare sulla salma del traditore un mattone, simbolo muratorio. Queste morti da overdose, quindi, non sono un caso. Anche l’avvelenamento è una modalità “massonica” perché simboleggia la morte per mano del serpente, simbolo dell’infedeltà e dell’inganno. Ecco quindi perché Pantani morirà dopo aver ingerito diverse dosi di coca. Perché sostengo che sia un omicidio? Perché ogni qualvolta l’incidente, o il malore, o il suicidio, sono provocati, e sono quindi un omicidio, immancabilmente partono, a seguito del fatto, i depistaggi e gli occultamenti che solo un potere come quello massonico è in grado di fornire: sparizione dei fascicoli dai tribunali, morte dei testimoni, la pervicace volontà degli inquirenti nell’ignorare determinate prove (per collusione, paura, o per la mancata conoscenza del problema), le irregolarità procedurali, ecc…
Il caso Pantani. Esaminiamo il caso Pantani, così come ce lo descrive un giornalista, Philippe Brunel, in un recente libro “Gli ultimi giorni di Marco Pantani” su cui ci basiamo per la nostra ricostruzione. E’ noto che Pantani morirà all’hotel Le rose di Rimini per una presunta overdose da cocaina. Anche qui troviamo tutti gli elementi di un omicidio massonico, ovverosia le firme, nonchè tutte le modalità procedurali investigative che gli inquirenti seguono quando il delitto è massonico.
Ad esempio troveremo:
- testimoni che cambieranno versione;
- gli inquirenti che ignorano particolari fondamentali nell’indagine: ad esempio nel cestino dei rifiuti della stanza dell’hotel verranno rivenuti resti di una cena presa da un ristorante cinese. Ma Pantani non mangiava cibo cinese. Allora chi c’era con lui quell’ultima notte?
- Sul corpo compaiono segni di colluttazione ma nessuno accerterà mai se, ad esempio, sotto le unghie compaiano o meno dei resti di DNA altrui per verificare se Pantani fu forzato a ingerire cocaina (v. pag. 278).
- Errori e omissioni varie nelle autopsie.
- Una volante della polizia, con due agenti, interverrà sul luogo dell’incidente, ma non redigerà mai il verbale relativo. Perché questa irregolarità nelle procedure?
- Le varie perizie medico legali fanno una gran confusione sull’ora della morte che collocano tra le 11,30 (la perizia del dottor Fortuni) e le 19 (il medico Toni).
Dire esattamente quanti siano i massoni a Bologna è difficile, per quanto si parli di circa 450 affiliati. Vicino alla massoneria viene indicato il medico legale Giuseppe Fortuni, che si occupò di alcune perizie sulla morte del ciclista Marco Pantani, stroncato da un’overdose di cocaina il 14 febbraio 2001 in un residence di Rimini, scrive Antonella Beccaria su “Il Fatto Quotidiano”. E lo stesso accade per l’imprenditore Vittorio Casale, uomo di Massimo D’Alema e che, tra le molte opere di cui si è occupato, ha partecipato a progetti di ristrutturazione del patrimonio di Propaganda Fides e di enti religiosi.
- Il medico legale che dopo l’autopsia si accorge di essere seguito.
- La camera fu trovata in disordine come se ci fosse stato un corpo a corpo.
Poi ci sono le domande irrisolte.
- Perché Pantani, volendosi suicidare, prende una stanza in un albergo a pochi chilometri dalla casa dove abitava?
- Perché prima di suicidarsi ci resta qualche giorno? Cosa lo fa rimanere in una stanza di albergo quando aveva la sua abitazione lì vicino?
- Uno degli inquirenti dichiara al giornalista di avere avuto pressioni dal Ministero dall’interno per concludere in fretta l’indagine. Ma il ministero non dovrebbe avere fretta di concludere; casomai dovrebbe avere la volontà di accertare la verità senza lasciare dubbi. Curioso poi che il Ministero si disinteressi del fatto che dopo decenni non sia mai venuta fuori la verità per stragi come Ustica, o per il sequestro Moro, e improvvisamente abbia fretta di concludere per un personaggio come Pantani. Difficile pensare che sotto ci sia una voglia di arrivare velocemente alla verità, dato che l’occultamento della verità è sistematico nella storia giudiziaria italiana. Mai abbiamo sentito un politico affermare che nel programma elettorale c’era la volontà di scoprire la verità sulle tante stragi impunite per dare giustizia alle migliaia di morti e alle decine di migliaia di famiglie delle vittime delle stragi. Mai. Anzi, in compenso alcuni degli autori di crimini assurdi, come l’ex terrorista D’Elia, hanno addirittura avuto incarichi istituzionali (sottosegretario alla camera nel governo Prodi). Personaggi che hanno avuto pesanti responsabilità in vicende come il sequestro Moro verranno addirittura fatti presidenti della Repubblica (Cossiga). Nessuna fretta di scoprire chi ha abbattuto l’aereo di Ustica, nessuna fretta di arrivare alla verità sul Moby Prince, nessuna fretta di scoprire chi c’è dietro ai delitti del Mostro di Firenze, dietro ai Georgofili, dietro a Piazza Fontana, dietro alla strage di Bologna. Ma una gran fretta di chiudere il caso Pantani. Curioso no? Tutte queste contraddizioni, depistaggi, ecc., sono sempre l’indizio sicuro della presenza della massoneria. In alternativa può ipotizzarsi che si tratti di incuria o superficialità nell’indagine. Ma si tratta di incuria e superficialità troppo ricorrenti per essere casuali. Poi ci sono le firme. Quelle firme che chi non si è mai occupato di massoneria non riesce a vedere. Ma immediatamente visibili per chi vive in mezzo a queste vicende. Anzitutto Pantani muore all’hotel Le Rose, il cui nome potrebbe non essere casuale ma essere la firma della Rosa Rossa. D’altronde anche i suoi amici diranno che la morte di Pantani in quell’hotel non deve essere un caso, ma forse voleva lasciare un messaggio a qualcuno perché lui era un uomo che non faceva nulla a caso (pag. 52). Forse, aggiungo io, non era lui che voleva lasciare un messaggio, ma chi l’ha ucciso. E poi viene trovato accanto al corpo un biglietto con una frase apparentemente senza senso: Colori, uno su tutti rosa arancio come contenta, le rose sono rosa e la rosa rossa è la più contata. Non sono in grado di capire il senso di questo biglietto; ci vorrebbe un esperto e pochi in Italia sono in grado di capire questi messaggi. Ma indubbiamente sembra un messaggio in codice. Probabilmente c’è un significato anche nel fatto che sia morto a San Valentino, giorno in cui tradizionalmente si regalano rose alla fidanzata. Qualcuno ipotizza che abbia un senso anche la data della sua morte: 14/02/2004, data la cui somma fa 13, che nelle carte dei tarocchi non a caso è la carta della morte. Nonostante non sia in grado di decodificare tutti i particolari è evidente però che Pantani fu in qualche modo costretto ad andare in quel preciso albergo affinchè poi il delitto fosse firmato. Ovviamente dire che dietro un delitto c’è la Rosa Rossa significa poco. Essendo la Rosa Rossa un’organizzazione internazionale, e contando centinaia di affiliati in Italia, è come dire che si tratta di un delitto di mafia o di camorra. Cioè significa affermare una cosa talmente generica da essere pressocchè inutile a fini investigativi, e tuttavia dovrebbe essere un buon indizio perlomeno per non archiviare la cosa come suicidio. D’altronde che gli attacchi a Pantani provenissero da ambienti massonici risulta evidente dal fatto che qualche anno prima ebbe un incidente anomalo nella discesa di Superga. Un auto entrò nella zona vietata al traffico e investì Pantani e altre due persone. Un incidente casuale? Difficile, da pensarsi, perché sulla collina di Superga sorge quella cattedrale omonima, che venne costruita nel 1717, anno in cui venne ufficialmente fondata la massoneria. Una basilica e una collina, insomma, che hanno un particolare significato per la massoneria. Per chi sa anche solo poche cose sulla massoneria si tratta di una firma manifesta, specie alla luce delle stranezze di quell’incidente (inspiegabile ad esempio è come avesse fatto la macchina a inserirsi nella zona vietata, tanto che Pantani fece causa alla città di Torino per questo fatto).
La parola ai testimoni. Per chi conosce le vicende delle stragi italiane gli incidenti stradali per rottura dei freni o dello sterzo, non sono una novità, I testimoni di queste stragi, i personaggi scomodi, muoiono sempre così: non solo impiccati e avvelenati, ma anche in incidenti banali in cui l’auto (o la moto) escono di strada all’improvviso per un malfunzionamento. Qualcuno ogni tanto si salva. Ricordo a memoria – tra gli scampati - il carabiniere Placanica (implicato nei fatti del G8), il giudice Forleo (ma non così fu per i genitori, che morirono in un incidente analogo senza ovviamente che gli inquirenti volessero indagare). Persino il famoso Enrico Berlinguer disse di aver avuto un incidente da cui si era salvato per miracolo, durante un suo viaggio in Bulgaria nel 1973, in cui morirono però altre due persone; disse che l’incidente era voluto, ma nessuno gli credette. Di recente Fabio Piselli, scampato al rogo della sua auto, più volte nominato nei miei articoli. Ma in tanti hanno avuto “incidenti anomali” e non si sono salvati. Ne abbiamo parlato in precedenti articoli e non voglio ripetermi. Voglio invece ricordare alcuni morti del mondo dello sport e dello spettacolo. Ayrton Senna, cui fu montato male lo sterzo della sua formula 1. Per non parlare del Torino Calcio; l’aereo ebbe un guasto imprecisato e si schiantò contro – guarda tu che caso - la collina di Superga. Il cantante Rino Gaetano che ebbe due incidenti identici, con la stessa auto; nel primo incidente si salvò; nel secondo morì, anche perché 5 ospedali si rifiutarono (misteriosamente) di prenderlo in cura. Il cantante morì il 2 giugno 1981 nello stesso identico modo in cui muore il protagonista di una sua canzone, La ballata di Renzo. Statisticamente le probabilità che un cantante descriva la morte di qualcuno perché viene rifiutato da 5 ospedali, e che poi muoia nello stesso identico modo sono…. nulle. E statisticamente, le probabilità che qualcuno svolga veramente delle indagini sono le stesse di questi incidenti: nulle.
Mass Media e delitti. Molta strana è anche la morte del ciclista Valentino Fois, della squadra di Pantani. Anche lui muore per cause da accertare, ma alcuni giornali parlano di overdose. E già questo fa venire qualche sospetto, in quanto probabilmente muore nello stesso modo del suo ex amico. Occorre a questo punto fare una considerazione di ordine generale sui mass media in Italia. In Italia muoiono per omicidio circa 2500 persone all'anno. E altrettante ne muoiono suicide. Giornali e Tv si disinteressano di questi fatti, selezionando accuratamente solo le notizie che piacciono e sono funzionali al sistema. Quando però su un fatto scatta l’attenzione dei media, in genere questo è un segnale che sotto c’è dell’altro. Quindi viene spontanea la domanda. Perché i giornali si interessano alla morte di un ciclista poco conosciuto come Fois? E perché poi, nei pochi secondi che i TG dedicano alla notizia, occorre precisare che era implicato in un furto di portatili? Quand’anche si voglia dar risalto alla morte di un uomo, non c’è alcuna necessità di informare il pubblico che costui – forse – aveva rubato dei PC. In primo luogo perché la notizia è generica e posta in forma dubitativa. In secondo luogo perché non si capisce quale collegamento possa sussistere tra un furto di PC e una morte per overdose. Il sospetto che sia un omicidio, e che la televisione abbia volutamente voluto riportare l’immagine di una persona drogata e dedita al furto, è molto forte. Il messaggio che si vuole trasmettere è questo: è morto un ladro e per giunta drogato e depresso. Ma chi invece ha capito come funziona l’informazione in Italia capisce chiaramente un altro messaggio: probabilmente si tratta di un omicidio e c’è sotto qualcosa. E allora il pensiero corre al fatto che qualche prima avesse rilasciato un intervista alle jene. Aggiungiamo poi una cosa. Chi frequenta a livello professionistico il mondo dello sport sa che il doping è un fenomeno assolutamente diffuso, nel senso che probabilmente non è possibile partecipare a qualsiasi tipo di sport senza doparsi. Nella mia esperienza del passato, per anni ho praticato Body Building e ho seguito corsi per diventare istruttore di questa disciplina. E il doping era una materia di studio assolutamente ufficiale, nel senso che nella preparazione atletica di uno sportivo professionista non si poteva prescindere dal doping. Il problema era solo come eludere i controlli, stare attenti ai tempi di eliminazione della sostanza ecc... C’è quindi il forte sospetto che Fois sia morto in questo modo per aver “tradito”, come Pantani, e che i due abbiano pagato con la vita la loro maggiore pulizia e onestà intellettuale rispetto al resto dell’ambiente in cui vivevano.
Considerazioni finali. C’è anche (non il sospetto ma) la certezza, che la verità non verrà mai a galla. Anzi, a dire queste cose, purtroppo, si rischia di passare per matti o visionari. La cosa che mi dà tristezza, in tutta questa vicenda, non è la gravità delle collusioni istituzionali a tutti i livelli, né la scarsa preparazione di molti inquirenti in materia che si traduce in una mancata tutela del cittadino. Questo ho imparato ad accettarlo, perché viviamo in una democrazia troppo giovane perché sia veramente una democrazia. Le mentalità e i costumi di secoli non possono cambiare in pochi anni. L’oligarchia mascherata in cui viviamo, in fondo, un giorno dovrà finire per dare spazio ad una nuova era. Ciò che mi dà tristezza è pensare che la maggior parte delle famiglie di queste vittime non saprà mai la verità. La maggior parte muore senza che i familiari sospettino un omicidio. Io stesso dopo il primo incidente che mi capitò pensai ad un caso. E dopo il secondo pensavo che ce l’avessero con la mia collega e che avessero manomesso contemporaneamente sia la mia moto che la sua per maggior sicurezza di fare danni a lei. In altre parole; potevo morire senza sapere neanche perché e pochi avrebbero sospettato qualcosa. Solo dopo qualche tempo mi spiegarono chi ce l’aveva come me e perché. Ora, perlomeno, so che mi potrebbe succedere qualcosa e so anche il perché. Ogni volta che prendo l’auto sono consapevole che lo sterzo potrà non funzionare, che un auto che viene in senso inverso all’improvviso potrà sbandare e venire verso di me, o magari che potrò avere un malore nell’anticamera di una procura come è successo al capo dei vigili testimone della Tyssen Krupp. Ma all’epoca dei primi incidenti, non avevo neanche il sospetto di essere stato “condannato a morte”. Perché non ero consapevole di quale colpa avessi commesso e di quale peccato mi fossi macchiato. Mi domando se Senna sapeva il destino che lo aspettava, se i familiari avranno capito. I familiari del Torino Calcio cosa penseranno di quell’incidente terribile? E i genitori di Fois? E la Forleo, cui scrissi “una lettera aperta” dalle pagine di questo blog… avrà capito esattamente cosa le è successo oppure penserà che il suo incidente d’auto sia stato casuale? I familiari delle vittime di via dei Goergofili, di Ustica, del Moby Prince, hanno capito. Lì sono troppo grosse le collusioni, troppo evidenti gli omicidi e i depistaggi perché qualcuno non capisca. Ma gli altri? I familiari dei testimoni di processi apparentemente normali, come quelli della Tyssen Krupp, o del Mostro di Firenze, che apparentemente sembra un normale caso di un serial Killer? E i familiari di tutte quelle persone che parevano condurre una vita normale, perché il delitto è maturato in un luogo ove nessuno sospetterebbe l’ingerenza così pesante dei cosiddetti poteri occulti, come il mondo sportivo? Ho telefonato ai genitori di Pantani prima di scrivere questo articolo. Dal loro silenzio successivo al mio fax presumo che abbiano pensato che io sia un folle, magari un mitomane in cerca di pubblicità. E’ normale che lo pensino, come è normale che la maggior parte delle persone che leggeranno queste righe le prendano per un delirio. Allora voglio ricordare le parole dell’onorevole Falco Accame, a proposito degli incidenti anomali (come quello capitato ai genitori del giudice Forleo) o dei suicidi dei vari testimoni di processi importanti. Parlavamo dell’incidente capitato al giudice Forleo, e mi disse “inizialmente, quando mi occupai di queste cose, credevo al caso. Non volevo credere che fosse una cosa voluta perché mi pareva fantascienza. Poi, quando mi accorsi che i testimoni morivano tutti, sistematicamente, ho capito… E’ una cosa che è difficile da accettare.” Questo articolo, come il precedente, è scritto per tutti i familiari di persone suicidate, impiccate, morte in incidenti inspiegabili che hanno sempre capito che la versione ufficiale data dagli inquirenti non quadrava, affinchè perlomeno loro sappiano la verità. Oramai sono troppe le vittime sparse per la penisola, perché non si cominci a sospettare. E sono troppi i sopravvissuti perché qualcosa prima o poi non venga fuori. Oramai parlo con tante persone esperte e mi confronto. Molti, tanti, hanno capito. Un mio amico medico legale, a cui ho raccontato le mie “scoperte” mi ha lasciato di stucco quando mi ha detto “si Paolo, lo sapevo. Lo sapevo perché da medico legale mi rendo conto quando ci prendono in giro in TV e sui giornali. Tutti quei suicidi in carcere per soffocamento con buste di plastica sono impossibili dal punto di vista di medico legale. Analizzando alcuni dei più importanti casi dal punto di vista medico legale mi sono accorto che ci prendono in giro. E poi sono un appassionato di esoterismo, e quindi i loro simboli e messaggi io li vedo. Vedi? L’esoterismo è un linguaggio. Se non lo conosci è come camminare per strade di una nazione straniera; vedi la gente, vedi le scritte, ma non ti dicono nulla; in certi casi potrebbero sembrarti innocui disegnini. Ma se invece lo conosci allora riesci a leggere oltre la superficie e capire i messaggi profondi che vengono lanciati e gli innocui disegnino diventano frasi precise. Capisci tutto, ma con la maggior parte delle persone non puoi parlare perché ti prendono per matto. E il problema principale, quando capisci il sistema, è continuare a fare la vita di sempre senza impazzire”. Questo, signori, è il sistema in cui viviamo ma con un po’ di studio e di intuito si può imparare a capirlo. Il paradosso è che non sono mai stato un appassionato né di gialli, né di spionaggio, né di esoterismo; ma credo che neanche la più fervida fantasia di qualsiasi scrittore abbia mai immaginato un sistema del genere. La realtà, per chi la vuole vedere, supera sempre di gran lunga la fantasia. Anche quella di Stephen king, che forse non a caso ha scritto una serie di telefilm che si intitola The Red Rose, e che forse per i suoi libri non si è ispirato alla sua sola fantasia (ad es. nei “Lupi del Calla”, occorre proteggere una sola rosa rossa che sta in una Torre nera; e se la Rosa venisse distrutta per qualche motivo la Torre cadrebbe insieme alla Rosa). Ps finale. Quando facevo il quarto ginnasio rubai tre biscotti (erano dei Ringo per la precisione) al mio miglior amico, Daniele. Voglio precisare, in caso di suicidio da parte mia, che i due fatti non sono collegati, al fine di evitare che i media mi facciano lo scherzo di Fois e che riportino la notizia facendomi passare per un ladro di biscotti. Peraltro confessai il mio crimine a Daniele, il quale dopo 25 anni non manca mai di ricordarmelo.
Pantani, un altro giallo. Un fax cambia l’ora della morte. Il medico legale refertò il decesso alle 11-12.30 Ma lo stesso perito indicò al pm anche le 17, scrive Marco Bonarrigo su “Il Corriere della Sera”. Un fax dimenticato tra carte investigative vecchie di dieci anni colora ancora più di giallo la morte di Marco Pantani, sulla quale la Procura di Rimini, lo scorso agosto, ha riaperto un’indagine con l’ipotesi di omicidio. È un fax partito alle 20.50 del 16 febbraio 2004, 48 ore dopo la scoperta del cadavere del corridore. Mittente il medico legale Giuseppe Fortuni, destinatario il magistrato di Rimini Paolo Gengarelli, che aveva incaricato Fortuni dell’autopsia. Il medico, con la dicitura «riservato e urgente», scrisse: «Al termine dell’esame autoptico sulla salma, la informo che il decesso può datare attorno alle ore 17 del 14 febbraio 2004... Allo stato attuale delle indagini medico-legali, la causa può essere indicata in un collasso cardiocircolatorio terminale». Ma nelle 240 pagine del rapporto definitivo, depositato un mese dopo, la collocazione del decesso cambiò radicalmente: secondo Fortuni, Pantani muore tra le 11.30 e le 12.30, come dimostrato dai dati raccolti da chi per primo ispezionò il cadavere al Residence Le Rose di Rimini (il dottor Francesco Toni) e dalle evidenze dell’autopsia. Orario confermato dalla recente perizia del professor Francesco Maria Avato, consulente della famiglia Pantani, che si limita a posticipare la morte di 15 minuti. Giuseppe Fortuni è un’autorità del settore: sul suo tavolo autoptico sono passati i corpi di Ayrton Senna e Meredith Kercher. Per quale motivo formalizzare un orario di morte incompatibile con le evidenze scientifiche? Ma su quell’orario c’è un altro aspetto inquietante. Quando la polizia scopre il cadavere, al polso di Pantani, ben visibile nel filmato della scientifica che il Corriere della Sera ha visionato per intero, c’è il Rolex Daytona cui Marco era legatissimo. L’orologio è fermo. Segna cinque meno cinque. Un dettaglio che (come le impronte digitali o la cocaina presente su un bicchiere e su una bottiglia a fianco del corpo) viene trascurato. Il Daytona fu restituito alla famiglia che l’ha conservato come un cimelio. Secondo i tecnici (ma adesso il cronografo, mai più utilizzato, è stato avviato a una perizia accurata) un modello così sofisticato, a carica automatica, si ferma solo quando resta immobile per almeno cinquanta ore o subisce un forte colpo. Il colpo l’orologio di Pantani l’ha subito alle 5 meno 5 del 14 febbraio. Alle cinque del mattino Pantani era certamente vivo. Alle 17 era morto da cinque ore secondo la perizia medica legale ufficiale oppure stava morendo secondo il primo rapporto inviato da Fortuni. E qui il giallo vira verso il nero, perché se Pantani è morto attorno alle 12 (come confermano dati oggettivi e incontestabili) bisogna spiegare perché l’orologio si ferma alle 17, la medesima ora indicata nel primo rapporto di Fortuni. Davanti al procuratore capo di Rimini, Paolo Giovagnoli, in questi giorni sfilano vecchi e nuovi testimoni dell’inchiesta. Tra loro almeno due, indicati da Antonio De Rensis, il legale dei Pantani, in grado di smontare uno degli assunti incrollabili degli investigatori: quello che nella stanza B5 del Residence Le Rose di Rimini non sia entrato nessuno da tre giorni prima della morte del Pirata al momento della scoperta del cadavere. In quella stanza entrò sicuramente qualcuno prima della morte e, probabilmente, anche qualcuno dopo. Qualcuno la cui azione potrebbe aver causato il blocco dell’orologio e provocato l’ormai palese messa in scena di una camera «messa a completamente soqquadro in un delirio da cocaina» dove però non venne trovato un solo oggetto danneggiato, compresi specchi e ceramiche, delicatamente appoggiati sul pavimento. Caos organizzato in una morte che di organizzato ormai comincia ad avere un po’ troppo.
Pantani: un video conferma l'inquinamento delle prove, scrive Mirko Nicolino su “Outdoorblog”. Su Marco Pantani, la verità sembra ancora molto lontana. La famiglia dell’ex ciclista non si è mai rassegnata, convinta com’è che loro figlio non si sia suicidato, bensì sia stato ucciso da qualcuno, che poi ha architettato una scena di follia all’interno della camera d’albergo presso la quale il ‘Pirata’ è stato trovato senza vita. Dopo il giallo sull’orario del decesso, con il fax del perito che indica un’ora diversa rispetto a quella assodata inizialmente, ora spunta anche un video inedito che confermerebbe la tesi della famiglia Pantani e del suo legale, secondo cui la scena del crimine sia stata contaminata e non tutte le prove siano state raccolte dagli esperti che sono stati chiamati a fare luce sull’accaduto. Oggi 14 ottobre 2014, l’edizione delle 13 di Sportmediaset ha mandato in onda uno spezzone di un video inedito: in tutto, il filmato consta di 51 minuti, su un totale di tre ore di sopralluogo nella stanza del Residence Le Rose in cui si trovava Pantani al momento del decesso. Già qui c’è qualcosa che non quadra e la Procura di Rimini, che ha aperto un fascicolo per fare luce sulla morte del Pirata, vuole vederci chiaro: se il sopralluogo è realmente stato di tre ore, il video dovrebbe avere la stessa durata, altrimenti si potrebbe pensare che sia stato "tagliato". Perché? Dallo spezzone del video mostrato dal biscione e commentato in studio da Davide De Zan e in collegamento dal generale Garofalo, capo dei Ris di Parma dal 1995 al 2009, emergono dettagli per certi versi inquietanti. Sono passati oltre 10 anni e chiaramente le tecniche per raccogliere le prove sulla scena di un crimine oggi sono più all’avanguardia, ma dal filmato emerge una sostanziale incuria da parte delle persone, dovrebbero essere quattro, che hanno effettuato il primo sopralluogo. Si vedono chiaramente persone che vagano per la stanza senza protezione e toccano un po’ di tutto. Addirittura, qualcuno fa cadere delle posate per terra, che poi non vengono raccolte, ma filmate esattamente così come sono, quasi a voler far sembrare che fossero parte del caos trovato in albergo. L’elemento che desta più scalpore, però, è una bottiglia d’acqua che potrebbe essere stata usata per far ingerire la cocaina a Pantani: il medico legale chiede di poterla toccare, ma gli dicono di lasciarla così dov’è. Fin qui tutto bene, meglio non contaminare anche quella. Peccato, però, che quella bottiglia non sia stata mai presa in esame per individuare oltre alle evidenti tracce di cocaina, eventuali impronte digitali. Incuria e approssimazione, in definitiva, che gettano nuove nubi sulle indagini effettuate a suo tempo.
Pantani e quei tagli nel video della polizia che mostra le ferite del Pirata. Girato dalla scientifica nel residence dove fu trovato il corpo. Il filmato dura 51 minuti, ma ci sono salti temporali. Da alcune immagini pare che il cadavere sia stato trascinato, scrive Marco Bonarrigo su “Il Corriere della Sera”. Sarà che siamo abituati alla gelida efficienza delle serie tv forensi americane, mentre queste immagini sono tremolanti e disordinate. Sarà che quel corpo martoriato riverso sul pavimento non è un attore o un manichino. Ma Marco Pantani. Sarà per questo che si esce sconvolti dalla visione del video girato dalla polizia scientifica nella stanza D5 del Residence Le Rose a Rimini, la sera del 14 febbraio 2004. 51 minuti registrati nell’arco di tre ore, con salti temporali e d’inquadratura che sorprendono il professor Francesco Donato, docente di Tecniche investigative applicate all’Università di Bologna: «Per avere valore - spiega Donato - un video girato sulla scena di un crimine deve essere un continuo d’inquadratura. Il video è stato tagliato? E perché?». Se lo chiede anche la parte civile che ha chiesto una perizia. Il filmato mostra, oltre al sangue e alle ferite sul corpo di Pantani, inspiegabilmente minimizzate dal perito del tribunale, anche le debolezze della tesi che ha orientato l’inchiesta fin da subito: morte da overdose. Il corpo di Pantani è costretto in uno spazio microscopio tra letto e parete, dove è quasi impossibile sia precipitato in seguito a un malore. Le striature allungate di sangue attorno al volto mostrano segni di trascinamento. La cintura dei jeans disegna un’ampia, innaturale asola sul lato destro del corpo, suggerendo in maniera immediata che questa sia servita per trascinarlo. Poi l’obbiettivo si sofferma sul Rolex bloccato sulle 5 meno 5, sul medico legale che indica della polvere bianca sul collo di una bottiglia, mai periziata. Nella stanza, al contrario di medico e operatore, girano senza indumenti di protezione cinque investigatori. E si sentono almeno due volte in sottofondo rumori di posate che cadono sul pavimento. E ci sono, ripresi in maniera incoerente, i dettagli di quel «caos ordinato» su cui punta forte Antonio De Rensis, l’avvocato della famiglia Pantani: si possono divellere uno specchio da un muro o un lavandino da terra, rovesciandoli sul pavimento, senza minimamente danneggiarli e, stando ai vicini di stanza, senza il minimo rumore? «Quando un investigatore entra in una scena del crimine - spiega il professor Donato - dovrebbe osservare e filmare con curiosità ed obiettività, sgombrando la mente da idee preconcette per individuare il maggior numero di elementi utili sia alla ricostruzione dell’evento, sia all’identificazione del suo autore. Altrimenti si rischiano errori enormi». Frammentario e incoerente, il filmato oggi resta prezioso: tra i testimoni che stanno sfilando questi giorni in Procura a Rimini c’è chi - mai ascoltato prima - forse è in grado di dare una motivazione a quel caos fornendo una chiave decisiva alla nuova inchiesta.
Pantani, via agli interrogatori, perizia su video Polizia, scrive Francesco Ceniti su “La Gazzetta dello Sport”. I dubbi sulla versione di Mengozzi, l'amico del Pirata. Adesso tocca alla manager Ronchi. Le immagini sono state tagliate? Entra nel vivo l'inchiesta Pantani. La Procura di Rimini ha iniziato gli interrogatori delle persone informate sui fatti: già sentito Michael Mengozzi, l'amico del Pirata che avrebbe dovuto tenerlo lontano dagli spacciatori, ma che nel dicembre 2003 gli presentò l'escort russa Elena Korovina diventata l'ultima "compagna" del Pirata in una relazione che poco aveva a che fare con l'amore. Ascoltato pure il dottore Giovanni Greco, entrato in scena nella vita di Pantani in modo prepotente nell'ultimo anno e spesso in contatto con Mengozzi. Tra oggi e domani toccherà a Manuela Ronchi, manager del ciclista dal 1999 al febbraio 2004, giorno della tragica scomparsa. Che cosa è emerso da questi primi interrogatori condotti dalla polizia giudiziaria delegata dal procuratore capo Paolo Giovagnoli? Dentro il residence — La presenza di Mengozzi a Rimini nella notte del mistero non era passata inosservata. L'amico (poi non tanto amico, secondo mamma Tonina) piomba al Residence le Rose intorno alle 22.15. Di certo la polizia lo fa passare, facendolo entrare nei luoghi delle indagini, mentre tiene lontano la sorella e la zia di Pantani. Mengozzi avrebbe confermato una certa confidenza con l'ispettore Laghi: è lui a sentirlo la mattina del 15. L'imprenditore di Predappio (gestore di una discoteca) avrebbe detto di essere andato a Rimini una volta appresa la notizia della morte da una amica (informata dalla tv), ma sugli orari forse è necessario un approfondimento. Mengozzi racconta di trovarsi a cena a Milano Marittima: "Ho corso più veloce che potevo", avrebbe riferito. Fatto sta che alle 22.15 è già a colloquio con la polizia, ma le prime agenzie (e quindi i primi rimbalzi in tv) arrivano 15 minuti dopo. Non solo, per raggiungere Rimini da Milano Marittima ci vuole almeno mezz'ora. Domanda: chi a quell'ora era già a conoscenza della morte di Pantani? I 3 giubbini da sci — Il dottor Greco, invece, avrebbe riconfermato quello messo a verbale 10 anni fa: "Pantani aveva un atteggiamento compulsivo nei confronti della cocaina: si isolava per giorni assumendone quantitativi impressionanti, fumandola e inalandola". Nulla di nuovo in sostanza, neppure sul fronte medicinali che lui stesso aveva prescritto al Pirata per evitargli crisi pericolose. Medicinali presi dal romagnolo con puntualità anche la mattina del 14 e che, secondo la perizia del professor Avato, sono incompatibili con i 20 grammi segnalati dall'autopsia. Attesa anche per la deposizione della Ronchi: dovrà spiegare i vari intrecci legati a Mengozzi e Greco, ma soprattutto ricordare a chi consegnò i tre giubbini da sci lasciati da Pantani nel suo appartamento di Milano e trovati misteriosamente dentro la stanza della tragedia. Altra novità: finisce sotto perizia il video girato dalla Polizia nell'hotel la notte del 14 febbraio. Le immagini durano 51', ma il lasso di tempo coperto è di circa 3 ore. Anomalia bella grossa: di solito non sono possibili black out. I periti nominati dall'avvocato Antonio De Rensis, legale della famiglia Pantani, cercheranno di stabilire se il video ha subito dei tagli oppure se la telecamera è stata spenta più volte.
Caso Pantani, il mistero del lavandino spostato, scrive Francesco Ceniti su “La Gazzetta dello Sport”. È una testimonianza raccolta all’inizio della settimana a raccontare lo stato dell’appartamento del Pirata. Ma negli atti giudiziari il lavandino è al suo posto. "La scena non potrò mai dimenticarla: appena entrato nell’appartamento occupato da Pantani c’era il lavandino al centro della stanza... Una cosa incredibile, poi ho visto tutto il resto e il povero Marco...". Tenete bene a mente questo verbale: rischia seriamente di portare ai primi indagati della nuova inchiesta sulla morte del Pirata. La scena raccontata non lascia molti margini di manovra. La testimonianza chiave è stata resa a inizio settimana da una persona informata sui fatti. Una delle prime a entrare nell’appartamento D5 del residence Le Rose a Rimini. Siamo intorno alle 20.30, molti minuti prima dell’arrivo di medici e polizia. La presenza del lavandino smontato dal bagno e posizionato in mezzo alla stanza potrebbe essere inquadrato come un’alterazione dei luoghi. Perché il lavandino in tutti gli atti ufficiali è al suo posto. Stessa cosa nel video girato dalla polizia scientifica a partire dalle 23 del 14 febbraio. Insomma, chi ha spostato il lavandino e soprattutto perché? le ipotesi — Certo, qualcuno potrebbe sostenere che il testimone racconti il falso o ricordi male. La prima ipotesi è alquanto poco credibile: quale motivo avrebbe avuto una persona che aveva un alibi di ferro e non è mai stato indagato a esporsi in questo modo? Quanto alla memoria, c’è da raccontare un particolare: nel 2004 questo stesso testimone era stato ascoltato, ma non aveva fatto menzione al lavandino. Come mai? E’ la stessa domanda posta nell’interrogatorio di lunedì (durato 30 minuti) dalla polizia giudiziaria delegata dal procuratore Giovagnoli. La risposta è stata disarmante: "Nessuno me lo aveva chiesto". A chiederlo per primo è stato l’avvocato Antonio De Rensis, legale della famiglia Pantani, nel corso delle indagini difensive svolte nei mesi scorsi. Lì il lavandino è uscito per la prima volta. Uno dei punti forti dell’esposto era proprio questa testimonianza. La Procura ha fatto il resto: chiedendo conferma. E la conferma è arrivata, senza esitazioni: "Il lavandino era al centro della stanza, come si fa a dimenticarlo". Già, come si fa? La stanza di Pantani è stata trovata a soqquadro, con molte cose messe fuori posto. "Un disordine ordinato" lo ha definito il professor Avato nella perizia contenuta nell’esposto. Come a dire: una messinscena per coprire quello che era realmente accaduto nella stanza. Per l’inchiesta del 2004 le cose andarono diversamente: quel caos era stato provocato da Pantani nel delirio da overdose di cocaina che lo avrebbe condotto alla morte. E quindi in preda a questo delirio se la sarebbe presa con qualunque cosa, fino a smontare un lavandino a mani nude senza farsi neppure un graffio! Perché per la versione ufficiale nessuno entra nella stanza del Pirata. E quindi alle 20.30, quando il testimone vede il lavandino, può essere stato solo Pantani a metterlo lì. Poi torna al suo posto, misteriosamente. Come mai? Forse chi è arrivato dopo si è reso conto che non poteva reggere la tesi di un lavandino smontato a mani nude? E allora si rimette in fretta al suo posto prima d’iniziare il sopralluogo ufficiale? La Procura dovrà interrogare varie persone e capire cosa è accaduto. E magari toccherà anche al nuovo perito, il professor Tagliaro, visionare foto e video per verificare il lavandino. Non solo, il testimone afferma un altro fatto: "È stata la polizia a tranciare i materassi". Anche questo negli atti ufficiali del 2004 non risulta. Il registro degli indagati forse è stato già aperto...
Pantani, l’omicidio svelato dall’orologio fermo? Continua Francesco Ceniti. Nuove rivelazioni: era al polso del Pirata e segnava le 17.05: un guasto possibile solo se battuto. Spostavano forse il corpo? E c’è quel fax del perito Fortuni che riporta la stessa ora... L’orologio. Quello al polso di Marco Pantani. Ha scandito le ultime ore del Pirata, come una cronometro. E adesso dopo oltre 10 anni potrebbe segnare una svolta nella nuova inchiesta riaperta a luglio dalla Procura di Rimini con ipotesi omicidio volontario. Tra le tante anomalie delle indagini di 10 anni fa, ne spunta un’altra clamorosa. Antonio De Rensis, legale della famiglia Pantani, presenterà un nuovo documento per evidenziare una serie di fatti inquietanti: il Rolex Daytona del Pirata potrebbe aver registrato l’ora nella quale qualcuno ha spostato il cadavere, entrando nella stanza e forse mettendola a soqquadro per la messinscena finale. E il mistero diventa sempre più fitto: c’è un documento ufficiale mandato dal professor Fortuni al pm di allora Gengarelli che collima alla perfezione con l’orario sospetto: 17.05. Quando la polizia consegna alla famiglia gli effetti personali di Pantani considerati non importanti per l’indagine, c’è pure il Rolex. E’ al polso di Marco ormai cadavere, ma nessuno prende le impronte o ordina una perizia (cosa che potrebbe accadere ora se il professor Tagliaro, incaricato da Rimini per una nuova consulenza, chiederà di esaminarlo). L’orologio è fermo alle 17.05 del 14 febbraio. Non è un problema di carica: si è rotto un meccanismo come scopre mamma Tonina quando lo porta in un negozio di Rimini. Può il Rolex aver continuato a camminare per ore, bloccandosi poi per fine carica? Non può, perché quel modello una volta indossato e mosso anche solo per pochi minuti va avanti per almeno 12 ore. Può essersi rotto parzialmente nella caduta del Pirata per poi fermarsi alle 17 e 5? Non può, perché qualunque guasto meccanico blocca le lancette quasi istantaneamente. E allora qual è l’ipotesi? Presto detta: qualcuno può aver fatto sbattere il polso di Pantani (contro il pavimento, un mobile o la scala) mentre spostava il cadavere. Tesi confortata da altri due aspetti. Il primo: il professor Avato dopo aver esaminato le foto dell’autopsia segnala una ferita al polso compatibile con una forte botta o una compressione. Il secondo: sempre Avato evidenzia tracce di trascinamento del cadavere osservando il sangue intorno al Pirata, tracce lasciate tra le 15 e le 18 del 14 febbraio. Dopo non sarebbe stato possibile: il liquido ematico era diventato cemento. E arriviamo al fax di Fortuni. Il 16 febbraio 2004 il professore dopo l’autopsia manda un fax urgente al pm Gengarelli: «La informo che il decesso di Pantani può datarsi intorno alle 17». Guarda caso proprio l’ora indicata dall’orologio. Magari è una coincidenza, ma resta l’errore (singolare, a quei livelli) di un professore universitario che sbaglia di parecchio l’ora della morte che lo stesso Fortuni correggerà nei giorni successivi, portandola tra le 11.30 e le 12.30. Nel frattempo l’orologio è già sparito dall’inchiesta. Anzi, non c’è mai entrato...
MARCO PANTANI. ASPETTANDO GIUSTIZIA.
La solitudine, il residence e la coca. Quegli ultimi giorni del Pirata, scrive Alessandra Nanni su “Quotidiano Nazionale”. La morte di Marco Pantani comincia il 9 febbraio del 2004, quando arriva a Rimini a bordo di un taxi. Sta scappando da Milano, dopo una lite furibonda con i genitori. Sarà l’ultima volta che vedranno quel figlio in fuga da se stesso, dal campione che era stato e di cui lui per primo non vede più che l’ombra. È l’inchiesta che ha portato al processo, a ricostruire i suoi ultimi giorni di vita. Il Pirata è sprofondato nella cocaina, e mentre il suo corpo tiene ancora il colpo di 15 grammi al giorno, il suo cuore batte di una rabbia smisurata. Come quando correva è di nuovo irraggiungibile, ma la sua ‘vetta’ ora è solo la coca, e in riviera c’è il suo fidato fornitore, Fabio Miradossa. Al processo riminese, testimoni, investigatori e imputati hanno messo insieme i pezzi di quei cinque giorni. Pantani si fa scaricare dall’autista lungo il viale, e va dritto a casa degli amici che ospitano lo spacciatore. Ma Miradossa non c’è, mamma Tonina ha minacciato di farlo arrestare se avesse continuato a vendere droga al figlio. Si è spaventato ed è tornato di corsa a Napoli. Per lui, per tutti, il campione è diventato un cliente che scotta. Ma Pantani non accetta un rifiuto, pianta una grana: devono trovare il napoletano. Capiscono che non mollerà, e fanno pressione su Miradossa: liberaci di Pantani. Lo spacciatore cede e incarica il suo galoppino di accontentare il campione. È Ciro Veneruso, quella stessa sera, a consegnare a Pantani i 30 grammi di cocaina che lo uccideranno il 14 febbraio. Appartamento 5D, al quinto piano del residence Le Rose. Il Pirata ci arriva a mezzogiorno di quel lunedì, e da allora lo vedranno di rado. Racconteranno di un uomo rinchiuso in un mondo immaginario, frasi sconnesse, insofferenza. Scende solo a fare colazione, qualche incursione al bar per una pizzetta. Non mangia altro e tollera a malapena la donna delle pulizie. Come un animale braccato che si lecca le ferite dell’ingiustizia, sceglie il buio. Le tapparelle della stanza sono abbassate come in una grotta, sta macinando migliaia di chilometri solo con se stesso. «Si lamentava del rumore — racconteranno i clienti — bastava un passo per fargli spalancare la porta». «Chiamate i carabinieri» urla in un delirio che riempie di pena chi è testimone di tutto quel dolore. Alle 11,30 di sabato, Pantani chiama la portineria e chiede di non essere disturbato più, non gli interessa che la camera venga rifatta. Sono le 19, quando il portiere suona alla porta del 5D. Nessuna risposta, scende in cortile per cercare una luce al quinto piano, ma non riesce a vedere e il telefono della stanza dà sempre occupato. È preoccupato, decide di entrare con una pila di asciugamani. Usa il passepartout, ma la porta si apre solo di uno spiraglio, il mobile della tv e del telefono sono rovesciati. Dentro l’appartamento il caos, come un uragano. «Poi sono salito nel soppalco, era a terra adagiato su un fianco, non respirava più». Fine della corsa.
CHI HA UCCISO PANTANI ? A DIECI ANNI DALLA SUA MORTE, IL CASO RIAPRE E SI INDAGA...........
PANTANI, CASO RIAPERTO DOPO 10 ANNI: “FU UCCISO? DOBBIAMO APPROFONDIRE”, scrive Guglielmo Buccheri per “la Stampa”. Cinquemila pagine fotocopiate, decine di testimonianze e immagini. L’esposto voluto dalla famiglia di Marco Pantani è finito sul tavolo del procuratore di Rimini Paolo Giovagnoli ed ora l’indagine è aperta come riporta la Gazzetta dello Sport. «Non fu suicidio volontario, ma Pantani fu ucciso...», sostengono i familiari del campione romagnolo e, da ieri, è l’ipotesi a cui lavoreranno gli inquirenti. «Nessun commento, dobbiamo approfondire. Bisognerà fare delle valutazioni anche alla luce del risultato del processo che ci fu a suo tempo. Quando - precisa il procuratore Giovagnoli - arriva un esposto-denuncia per omicidio volontario è sempre un atto dovuto aprire un’indagine...». La svolta, clamorosa, è sul tavolo. E, in un attimo, i fatti della notte del 14 febbraio di dieci anni fa tornano sotto i riflettori. La procura di Rimini si metterà al lavoro, lo farà dopo l’estate e l’indagine appena aperta durerà almeno un anno prima di arrivare alle sue conclusioni. La famiglia del Pirata, da sempre, ha sostenuto come non fossi possibile che il loro Marco avesse deciso di chiudersi nella stanza della pensione sul lungomare per dire basta. Ora, dopo un decennio di dubbi e perplessità, ecco il primo passo: l’esposto presentato in procura dall’avvocato Antonio De Rensis, e accompagnato da una perizia accurata, è stato giudicato fondato, ma dire oggi quale potrebbe essere il punto di arrivo è fin troppo prematuro. «Non fu suicidio, ma Pantani fu ucciso...», sostengono nella loro dettagliata ricostruzione i familiari del Pirata. «Ora esca la verità...», così gli ex colleghi, ma, soprattutto, amici del romagnolo, Claudio Chiappucci e Davide Cassani. «Non capisco perchè ci sia stato tutto questo ritardo, è giusto che si vada a fondo sulla tragica morte di Marco...», sottolinea Chiappucci. «Forse - così Cassani - si sono date per scontate troppe cose che non lo erano. Chi ha voluto bene a Marco vuole capire cosa realmente sia accaduto quella notte...». Il lavoro della procura di Rimini non sarà facile. Come detto dal procuratore Giovagnoli occorrerà ripartire nell’inchiesta tenendo conto degli sviluppi che hanno portato alle conclusioni del processo già celebrato. Da tempo la famiglia Pantani non perdeva occasione per chiedere la riapertura del caso che, adesso, riaccendere l’attenzione sugli attimi di vita del campione delle due ruote. Per presentare l’esposto c’è voluto un faticoso impegno, fra difficoltà nel reperire il materiale e riuscire nella visione di documenti e faldoni datati quasi dieci anni. Dopo l’estate, i pm si metteranno in azione.
AVEVA CHIESTO AIUTO E FORSE NON ERA SOLO NELLA STANZA MALEDETTA, scrive Giorgio Viberti per “la Stampa”.
Domande e risposte sui misteri di quella notte.
Perché Marco Pantani è uno dei campioni più amati e insieme discussi nella storia dello sport e non solo nel ciclismo?
«Perché si dimostrò pressoché imbattibile sulle montagne, dove fece entusiasmare i tifosi quasi come ai tempi di Bartali e Coppi, ma subì poi una sospensione dalle corse molto discussa e morì ancora giovane, a 34 anni, in circostanze quasi misteriose».
Per molti Pantani non fu soprattutto il simbolo di un ciclismo diventato ostaggio del doping?
«In quegli anni tanti corridori usarono farmaci vietati e alcuni in seguito lo confessarono, eppure Pantani in 12 anni di professionismo non risultò mai positivo all’antidoping».
Ma non morì per un eccesso di cocaina?
«È quanto asserì l’inchiesta dopo la sua morte, avvenuta il 14 febbraio 2004. E paradossalmente fu quella l’unica volta in cui Pantani risultò positivo a una sostanza dopante».
Pantani assumeva cocaina anche quando correva?
«Non venne mai rilevata nei tanti test ai quali si sottopose da corridore, ma è probabile che Pantani abbia cominciato ad assumere cocaina dopo lo choc per l’esclusione dal Giro d’Italia 1999, che aveva ormai quasi vinto, a due tappe dalla fine per ematocrito alto, cioè perché aveva il sangue troppo denso».
Perché si torna a indagare sulla morte del Pirata dopo dieci anni dalla sua morte?
«La mamma Tonina e il papà Paolo non hanno mai accettato la tesi del suicidio involontario per overdose di cocaina. Insieme con i loro legali hanno raccolto una serie di dati e testimonianze che hanno convinto i giudici a riaprire l’inchiesta».
Ma è lecito pensare che la prima inchiesta non sia riuscita a fare piena luce sulle cause della morte?
«Secondo molti ci sarebbero tante incongruenze e contraddizioni che quantomeno lascerebbero molti dubbi sulle conclusioni delle indagini di dieci anni fa. Di sicuro, se è stata riaperta l’inchiesta, devono essere emersi elementi nuovi e importanti di valutazione».
Per esempio?
«C’è l’ipotesi che Pantani non fosse solo nella stanza del residence in cui fu trovato senza vita. Lo farebbero pensare alcuni abiti che non dovevano essere lì, del cibo che il Pirata non amava e non avrebbe mai mangiato, il disordine troppo «ordinato» della stanza, una doppia ma vana richiesta di aiuto che il Pirata fece alla reception, l’enorme quantità di cocaina trovata nel suo organismo come se fosse stato costretto a ingerirla, le escoriazioni sul suo corpo, i segni sul pavimento come se il cadavere fosse stato trascinato... Incredibile poi che l’hotel nel quale morì Pantani sia stato ristrutturato pochissimo tempo dopo, come se fosse urgente cancellare ogni prova residua».
Chi è riuscito, dopo tanto tempo, a trovare tanti nuovi indizi?
«L’avvocato Antonio De Rensis, per conto dei signori Pantani, ha studiato i faldoni sia delle indagini di allora, sia quelli relativi al successivo processo. Ma non basta, perché sono stati sentiti di nuovo alcuni testimoni chiave di quella vicenda. È stata poi molto preziosa una perizia medico-legale eseguita dal professor Francesco Maria Avato, che ha aggiunto tantissimi elementi nuovi».
Ma perché queste cose non emersero subito?
«È quanto eventualmente stabilirà questa seconda inchiesta. Di sicuro la prima autopsia sul corpo di Pantani sbagliò a indicare l’ora presunta della morte e si rivelò molto superficiale anche nel valutare alcuni dati di medicina legale che avrebbero potuto aiutare a fare chiarezza sul caso».
Chi avrebbe avuto interesse a falsificare l’esito dell’inchiesta?
«Difficile dirlo, di sicuro Pantani era finito in un giro di droga che magari coinvolgeva anche persone molto importanti. Avrebbe potuto parlare e fare dei nomi».
Per questo potrebbe essere stato ucciso?
«È questa la tesi sostenuta dai legali dei genitori di Marco. Ed è quanto dovrà appurare questa seconda inchiesta. L’ipotesi di reato è addirittura di omicidio volontario a carico di ignoti e alterazione del cadavere e dei luoghi. Il procuratore capo di Rimini, Paolo Giovagnoli, ha affidato il fascicolo a Elisa Milocco, giovane sostituto procuratore. Toccherà a lei far luce su quanto avvenne quel giorno».
«LO SCRISSI GIÀ ALLORA: TROPPI PUNTI OSCURI», scrive ancora Giorgio Vibereti per “la Stampa”. Philippe Brunel, giornalista francese e inviato speciale del quotidiano parigino L’Équipe, l’aveva già scritto nel suo libro «Gli ultimi giorni di Marco Pantani»: la morte del Pirata ha molti lati oscuri.
Brunel, che ne pensa di questa nuova inchiesta?
«L’avevo già detto dieci anni fa. Nella morte di Pantani ci sono troppe incongruenze, troppi episodi inspiegabili per poter accreditare la tesi del suicidio involontario».
È quanto però emerse dalla prima inchiesta...
«Mi interesso da molti anni di ciclismo, soprattutto italiano, e fui incaricato da L’Équipe di indagare, cercare di capire, raccogliere testimonianze e prove sulla morte di Pantani. E le cose non quadravano».
Che cosa soprattutto la lasciò perplesso?
«Tante cose. Marco era una persona precisa, quadrata e amabile. Impossibile che si sia messo a urlare e spaccare tutto nella sua stanza d’albergo, come dissero invece gli inquirenti della prima inchiesta».
Tutto qui?
«No, certo. Nella camera del residence Le Rose era stato portato del cibo che Marco odiava e non avrebbe mai mangiato, e poi le escoriazioni sul suo corpo, la bottiglia d’acqua mai analizzata, certi indumenti che non avrebbero dovuto essere lì, quel disordine troppo ordinato, il mancato rilevamento delle impronte...».
Per lei Pantani non era solo in quella stanza, vero?
«Ne sono sicuro. In quel residence si poteva entrare anche dal parcheggio sul retro, di sicuro Marco è stato raggiunto dal suo pusher ma credo anche da altre persone. Incredibile poi che quell’albergo, cioè la scena della morte di Pantani, sia stato completamente ristrutturato dopo pochissimo tempo, cancellando di fatto anche le eventuali possibili prove rimaste».
Ma chi e perché avrebbe voluto la morte di Pantani?
«Temo ci fossero sotto interessi molto grossi, che magari coinvolgevano anche persone importanti. Una storia di droga e prostituzione. Pantani era diventato un tossicodipendente, che frequentava gente senza scrupoli. A un certo punto non ha più saputo controllare la situazione, e ci ha rimesso la vita. Una morte oscura e irrisolta, però, come quelle di Tenco o Pasolini».
Brunel, che cosa si augura ora dalla nuova inchiesta?
«Marco era una persona sensibile e generosa che spesso si spingeva fino agli estremi, come faceva in bici. Per lui il ciclismo era finito e si sentiva smarrito, perduto. Ma era un uomo sincero e molto intelligente, che diceva sempre ciò che pensava e che sarebbe potuto diventare scomodo. Non può essere morto come un disperato, per un’overdose, da solo in una stanza d’albergo. Non è andata così. Marco merita giustizia».
«Verità lontana dagli atti ufficiali». Da una parte gli atti di un processo che non ha mai convinto fino in fondo. Dall’altra le indagini fatte dall’avvocato Antonio De Rensis. Sono questi i tasselli utilizzati dal professor Francesco..., scrive “Il Tempo”. Da una parte gli atti di un processo che non ha mai convinto fino in fondo. Dall’altra le indagini fatte dall’avvocato Antonio De Rensis. Sono questi i tasselli utilizzati dal professor Francesco Maria Avato per la sua perizia, il cuore dell’esposto che ha fatto riaprire il caso Pantani con l’ipotesi di reato, per ora a carico di ignoti, di omicidio volontario. Il medico legale - perito, tra l’altro, del caso Bergamini - per definirsi usa lessico da ciclista: «Ho solo aggiunto un tassello da umile gregario al lavoro del legale», commenta. «La mia esperienza mi ha portato a conclusioni diverse sulla morte di Marco Pantani. Si è trattato di rivedere gli atti di causa e non solo, ma anche informazioni recuperate dalle indagini difensive mettendo insieme i frammenti come in un puzzle. È stato un lavoro di equipe con De Rensis». Il lavoro del professor Avato si è basato sull’autopsia del campione morto a Rimini il 14 febbraio 2004 e sull’analisi di foto e video delle indagini, giungendo a conclusioni differenti rispetto alla prima perizia e all’esame autoptico effettuato quasi 48 ore dopo il ritrovamento del cadavere di Marco Pantani. «Sono questioni di pertinenza dell’autorità giudiziaria - aggiunge il medico legale - non posso esprimermi al di là del fatto che il quantitativo di cocaina rinvenuta suggeriva modalità di assunzione diverse da quelle classiche. Sono indagini molto delicate e complesse. Non vogliamo creare confusione o disagio». La parola adesso è ai magistrati. «Il mio lavoro finito? - risponde Avato - Dipende dalle informazioni ulteriori che possono giungere, tutto è perfettibile nella vita».
«Pantani non è stato ucciso». Parla Fortuni, il medico della prima perizia sulla morte del campione. «Overdose al termine di un delirio da cocaina. Lo provano i suoi scritti», scrive Davide Di Santo su “Il Tempo”. «Non ci sono veri nuovi elementi oggettivi» che facciano pensare a «una overdose "omicidiaria"». A parlare è Giuseppe Fortuni, il medico legale nominato dalla Procura di Rimini per eseguire la perizia sul corpo di Marco Pantani ai tempi del processo ai suoi pusher. È l’uomo «famoso» per essersi portato il cuore del Pirata a casa, dopo l’autopsia terminata nella notte del 16 febbraio 2004. Pensava di essere seguito da auto sospette - più tardi si apprese che si trattava di giornalisti - mentre tornava al laboratorio per depositare i tessuti. Le sue conclusioni di allora sono messe oggi in discussione dall’esposto presentato dal nuovo legale della famiglia Pantani, Antonio De Rensis, secondo il quale il campione cesenate, quel giorno di San Valentino di dieci anni fa, nel residence Le Rose di Rimini nel quale si era barricato, in realtà sarebbe stato ucciso. La ricostruzione si basa sulle indagini del legale e sulla nuova perizia di parte del professor Francesco Maria Avato. Pantani avrebbe ricevuto la visita di uno o più uomini che dopo un diverbio lo avrebbero aggredito e immobilizzato, costringendolo a bere un cocktail letale di acqua e cocaina. Per Fortuni, però, il Pirata è morto da solo e in preda ad allucinazioni. «Nessuno parla degli scritti deliranti di Pantani che furono ritrovati nel residence - le sue parole - prova certa del suo delirio e in alcun modo causabili da un overdose "omicidiaria" ma solo da un uso continuo e crescente della cocaina». Il riferimento è a quanto scritto dal campione nelle sue ultime ore. Pensieri affidati a fogli e quaderni, ma anche scritti sul muri del bagno del bilocale riminese. Si va da accuse inquietanti, cariche di astio («Hanno voluto colpire solo me», forse un riferimento alla vicenda del doping) alle composizioni nonsense («Colori, uno su tutti rosa arancio come contenta, le rose sono rosa e la rosa rossa è la più contata». E ancora: «Con tutti Marte e Venere segnano per sentire»). Prove certe di un «delirio da cocaina», per il perito della Procura. Eppure molti amici di Marco sostengono che anche quando era lucido il campione scrivera poesiole e pensieri dello stesso tipo. La madre, la signora Tonina, conserva ancora fogli e quaderni con quelle strane poesie. L’altro elemento sottolineato nella prima perizia è la morte sopraggiunta dopo l’assunzione prolungata di droga, circostanza che si scontra con l’ingestione coatta, in un solo atto. Nell’organismo c’era una quantità sei volte superiore a quella considerata la dose letale minima, ma nel sangue «periferico» la concentrazione era addirittura tredici volte più alta, mentre l’esame del midollo ha mostrato una compatibilità con un uso cronico della sostanza. Il tutto in un quadro in cui omissioni e incongruenze sono superiori alle certezze.
Morte Pantani, professor Avato: “Provinciale l’approccio alle indagini”. "Ogni ricostruzione di un delitto dovrebbe partire dalla medicina legale" afferma il professor Francesco Maria Avato sul caso Pantani. La sua perizia ha contribuito all'indagine sulla morte del Pirata. "Un cold case è sempre il segno di una primitiva sconfitta", scrive Alessandro Mastroluca su “Fan Page”. Pantani è stato costretto ad assumere un enorme quantitativo di droga. È questa la conclusione principale della nuova perizia medica completata dal professor Francesco Maria Avato, incaricato dalla famiglia del Pirata e dall’avvocato De Rensis. Il suo esame, insieme ai risultati delle prime indagini di De Rensis, ha convinto Paolo Giovagnoli a riaprire il caso per omicidio. Avato, coordinatore della sezione di Medicina Legale e delle Assicurazioni dell’Università di Ferrara, ha eseguito la prima autopsia sul corpo di Denis Bergamini, il “calciatore suicidato”. È il perito incaricato dalla difesa di Alberto Stasi, accusato di aver ucciso la fidanzata, Chiara Poggi, a Garlasco. Nel febbraio 2011, poi, insieme a Giuseppe Micieli della Neurologia dell’Università di Pavia e a Francesco Montorsi dell’Urologia del San Raffaele di Milano, incontra Bernardo Provenzano, per valutarne i problemi di salute che lo avevano indotto a chiedere il permesso di poter uscire dal supercarcere di Novara. Il suo esame sul corpo di Pantani si è basato sull’autopsia del professor Fortuni e sull’analisi di quasi 200 foto a colori e del video della Scientifica, ed è giunto a conclusioni diverse dal primo esame autoptico effettuato quasi 2 giorni dopo il ritrovamento del cadavere. Avato accerta la presenza nel corpo di un quantitativo di cocaina sei volte superiore alla dose letale. La droga, ci spiega il professor Avato che abbiamo raggiunto telefonicamente, “era in quantità tale da lasciar intuire un’assunzione in forme diverse da quella classica. Il conteggio però è complicato, eviterei le semplificazioni”, aggiunge. “Se poi l’abbia bevuta disciolta nell’acqua o l’abbia mangiata, attiene alla ricostruzione di competenza dell’autorità giudiziaria”. Fatto sta che nella stanza D5 del residence Le Rose c’erano molliche di pane rigurgitate, con presenza di polvere bianca, e una bottiglietta d’acqua mai esaminata dalla scientifica. Avato sposta l’ora della morte tra le 10.45 e le 11.45 della mattina di San Valentino del 2004 e conclude che il cadavere sia stato spostato, probabilmente nel pomeriggio, perché anche nel video della polizia si notano segni di trascinamento spiegabili solo se il sangue fuoruscito non si era ancora rappreso. “Il corpo era poggiato sul fianco sinistro” sottolinea Avato, “con la parte destra più alta. Rimanendo così per molte ore, a causa dell’emorragia il sangue sarebbe defluito maggiormente nel polmone sinistro”. Invece è il destro a pesare di più, circa 200 grammi. Come nel caso della morte di Denis Bergamini, anche la gestione delle prime ore dopo il ritrovamento del cadavere “aprirebbe un discorso davvero molto ampio sulle indagini investigative, sulle modalità di approccio al delitto che definirei un po’ ‘provinciale‘” spiega Avato. “La medicina legale dovrebbe essere la genitrice prima di ogni ricostruzione. Noi avevamo un sistema di indagine che è stato un modello per tutto il mondo, ma l’abbiamo trascurato e abbiamo sviluppato un approccio inglese, alla Scotland Yard, che è antico”. Ogni vicenda delittuosa, prosegue Avato, “ogni episodio che richieda competenze medico-legali è sempre diverso”. Nelle inchieste sulla morte di Bergamini e di Pantani, tuttavia, c’è uno schema ricorrente: un’indagine frettolosa, una tesi accettata dal primo momento come vera, sopralluoghi tutt’altro che da manuale sulla scena. “Qui si tratterebbe di considerare dall’inizio tutti i passaggi, le decisioni che hanno portato alla formulazione iniziale. Il punto sostanziale è che le competenze richieste in situazioni del genere devono sempre essere intese come competenze di altissimo livello”. Ma così non è stato, come dimostra lo stesso video della Scientifica in cui si vedono addetti che perlustrano la stanza senza protezioni, senza guanti e non prendono le impronte digitali. Per questo, conclude Avato, “il cold case non va inteso come un’occasione per mettere in rilievo le capacità tecniche. Possiamo discutere se l’insufficienza originaria dipenda da un’impostazione organizzativa o da altre cause. Ma la riapertura di un cold case è sempre il marchio di una primitiva sconfitta”.
Marco Pantani non aveva più controllo sul
proprio patrimonio economico e immobiliare, scrive “Il
Tempo”. È quanto filtra da ambienti investigativi di polizia, secondo cui il
Pirata di fatto aveva un vitalizio che gestiva con la carta di credito
trovatagli nel portafoglio messo sotto sequestro l'altro ieri, come tutta la
stanza del residence Le Rose dove ha trovato la morte nel giorno di San
Valentino. Questo spiegherebbe anche i rapporti tesi con la famiglia, di cui si
è parlato nelle ultime ore, e l' allontanamento del campione da Cesenatico, dove
non si faceva vedere da parecchio tempo. Non ci sarebbero però accuse ai parenti
fra i biglietti trovati nella stanza del residence, affermano fonti
investigative. Le stesse fonti smentiscono categoricamente le indiscrezioni sul
contenuto dei foglietti riportate da alcuni giornali, in realtà una sorta di
testamento di una persona molto provata psicologicamente che si è sfogata
devastando la camera dell'albergo dove aveva preso alloggio e affidando i propri
pensieri a parole e frasi sconnesse, non riconducibili una all'altra, di
interpretazione impossibile. L'unico riferimento al mondo del ciclismo che
Pantani avrebbe fatto su un pezzo di carta dell'albergo è quello alla sua
bicicletta, una sconclusionata dichiarazione d'amore. Il ciclista nella sua
carriera aveva accumulato una fortuna: si parla di sei milioni di euro che erano
stati investiti in varie società, soprattutto immobiliari a Cesenatico e in
Romagna. Di queste società il campionissimo risultava essere l'amministratore
unico. Amministratore unico insieme al padre Ferdinando. Questo già nel 2003, e
forse da prima. Dopo il ciclone Marco continuava a seguire le vicende delle sue
aziende partecipando alle assemblee ordinarie. Lo testimonierebbe, ad esempio,
il verbale dell'assemblea della società immobiliare «Sotero» del 30 maggio 2003
che aveva come ordine del giorno la presentazione del bilancio 2002.
All'incontro erano presenti Marco Pantani e Ferdinando Pantani in qualità di
amministratore unico. La precaria situazione psicofisica del figlio aveva spinto
il genitore a subentrargli nelle vicende finanziarie. Marco avrebbe reagito
male. In un momento delicato della sua vita, segnata dalla fine della carriera
sportiva, dallo scandalo mal digerito e dall'accentuarsi dei problemi
psicologici, forse l'ingerenza del padre è suonata come una prova ulteriore del
suo fallimento. È anche vero che negli ultimi tempi la deresponsabilizzazione di
Marco era diventata un fardello pesante.
Vita notturna sfrenata, serate in discoteca che si prolungavano fino all'alba,
amicizie discutibili. Quelle vecchie che appartenevano a un mondo passato,
cancellate. «Non mi cercate più» aveva detto a tutti quelli che avevano cercato
di ributtarlo nel mondo delle due ruote. Poi quel lungo viaggio a Cuba in
novembre. Una fuga, la precisa volontà di allontanarsi dalla famiglia, da casa.
La rottura coi genitori, nella quale ha un peso determinante anche la molla
economica, sembrerebbe pure il motivo per cui Pantani a un certo punto era
andato a vivere nella casa di un amico a Predappio. Michel, l'amico che lo ha
ospitato e che non ha nulla a che fare con il mondo del ciclismo, in questo
momento è chiuso nel suo dolore e non vuole parlare. Sembra però che durante un
colloquio informale si sia lasciato andare affermando che nella scelta di Marco
di allontanarsi dalla famiglia c'era pure il suo zampino.
La morte di Pantani è iniziata a Campiglio, scrive Xavier Jacobelli su “La Provincia di Varese”. Marco era un ragazzo generoso, trasparente. Gli hanno teso un tranello perché dava fastidio. La gente era tutta per lui e per il ciclismo; il calcio e la Formula Uno perdevano seguito e milioni di euro: per questo lo hanno fatto fuori». Col du Galibier, 2.301 metri di altitudine, Alta Savoia, Francia, 19 giugno 2011. Paolo Pantani ha gli occhi lucidi. Come Tonina, sua moglie. Lui e lei hanno appena assistito all’inaugurazione del monumento dedicato a Marco, voluto con tutte le proprie forze da Sergio Piumetto, piemontese di Cherasco trapiantato a Les Deux Alpes dove il 27 luglio 1998 il Pirata firmò una delle imprese più memorabili della sua straordinaria carriera. Quella che lo lanciò al trionfo nel Tour, due mesi dopo avere vinto il Giro. Quel giorno di giugno sono sul Galibier, accanto a Paolo e a Tonina. Dirigo quotidiano.net, l’edizione on line dei giornali della Poligrafici Editoriale (Il Resto del Carlino, La Nazione, il Giorno, Quotidiano Nazionale). Piumetto era venuto a trovarmi un anno prima, a Bologna, per raccontarmi il suo sogno. Erigere un monumento al Pirata lassù, sulle montagne francesi. E siccome chi sogna non si arrende mai, sino a quando la vita che s’immagina diventa realtà, noi di quotidiano.net avevano deciso di accompagnare passo dopo passo la costruzione di quel sogno. Le parole di Paolo Pantani mi sono tornate alla memoria in queste ore in cui ha fatto il giro del mondo la notizia della riapertura delle indagini sulla fine di Marco, trovato morto nel bilocale D5 del residence Le Rose di Rimini. L’ipotesi di reato è: «omicidio e alterazione di cadavere e dei luoghi». La magistratura si è mossa dopo avere ricevuto l’esposto dall’avvocato Antonio De Rensis, legale dei Pantani. Né Paolo né Tonina hanno mai accettato la tesi che Marco fosse morto per overdose lui spontaneamente assunta. Mai. Ecco perché, adesso, Tonina ripete le parole che aveva pronunciato quel giorno sul Galibier, che i due genitori hanno pronunciato sempre da quando Marco se n’è andato: «Da una parte sono contenta, finalmente non sto più urlando al vento. Ma dentro di me c’è anche rabbia, rabbia e ancora rabbia: perché tutto questo tempo? Perché nel 2004 diverse cose non erano al loro posto e nessuno ha fatto nulla per darmi delle risposte?». Tonina e Paolo hanno sempre difeso strenuamente la memoria di Marco. E lo avevano sempre difeso anche prima della notte di San Valentino in cui se ne andò. Lo avevano difeso dalle accuse di doping, lui che non era mai stato positivo a un controllo; avevano chiesto invano di sapere che cosa fosse esattamente successo a Campiglio, quando il 5 giugno del ’99, mentre stava vincendo il Giro, venne squalificato per un valore dell’ematocrito alterato di un punto. Ai cialtroni e ai mentecatti che da quel giorno hanno sputato solo veleno addosso a Marco, spingendolo nel tunnel senza ritorno della depressione, bisogna ricordare le parole del campione: «Ero già stato controllato due volte, avevo già la maglia rosa e il mio ematocrito era del 46 per cento. Ora invece mi sveglio con questa sorpresa: c’è qualcosa di strano». Pantani lascia Madonna di Campiglio alle 13.05. A Imola, nel pomeriggio, si sottopone a un esame del sangue in un laboratorio accreditato dall’Uci: nei due test il suo ematocrito risulta pari a 47,8 e 48,1. Regolare. Ma dal Giro l’hanno fatto fuori per sempre. La mattina di Campiglio un giornale aveva titolato: Marco pedala nella leggenda. Il giorno dopo l’ha scaricato come un pacco postale. Paolo e Tonina non hanno mai dimenticato. Ora hanno il diritto di sapere la verità anche su Campiglio. Mentre le jene sono andate a nascondersi.
Pantani, un uomo sempre solo quando vinceva e quando sbandava. Non era un angelo né un diavolo: arrivava da un ciclismo antico, parlava una lingua diversa, sulla canna della sua bici c’era l’Italia. Dieci anni fa la morte misteriosa, scrive Gianni Mura su “La Repubblica”. Dieci anni, di già. Ma siete ancora qui a esaltare un drogato? Oppure: ma non avete ancora capito che era l’agnello sacrificale? Dieci anni dopo la morte, Marco Pantani continua a dividere, come dieci giorni dopo. Solo quando correva e vinceva tutti lo sentivano loro. Io non mi riconosco in nessuna delle due fazioni, quella del diavolo e quella dell’angelo. Troppo estreme, in un certo senso troppo comode. Sarebbe meglio conciliare: anche i diavoli hanno slanci positivi, anche gli angeli non resistono alle tentazioni. E, comunque, Pantani era un uomo. Un uomo solo al comando quando staccava tutti in salita. Un uomo solo allo sbando dopo Madonna di Campiglio. La lunga, sofferta discesa in fondo alla quale non sapeva più distinguere gli amici veri dai finti, quelli che si preoccupano della tua infelicità e quelli che la rivestono di polveri bianche e donne a pagamento. Mi riconosco pure in un libro appena uscito: «Pantani era un dio». L’ha scritto Marco Pastonesi, collega della Gazzetta che ha per primo amore il rugby ma che nel ciclismo tiene bene la ruota dei grandi suiveurs sui fogli rosa. È uno che sa osservare e sa ascoltare, Pastonesi. E anche onesto. Prime righe della prefazione: «Pantani non era uno dei miei. Nessun campione, nessun capitano, nessun vincitore né vincente né vittorioso è uno dei miei. I miei sono i corridori che, da professionisti, non ne hanno vinta neanche una». Dunque non Pantani. In questi dieci anni sono usciti molti libri sulla vita e la morte di Pantani, scritti da giornalisti italiani e stranieri, dalla manager, dalla madre Tonina. Più un film per la tv e un lungo, doloroso e umanissimo spettacolo del Teatro delle Albe di Ravenna (romagnoli come lui) e una decina di canzoni, dai Nomadi ai Litfiba, da Lolli agli Stadio. Più le processioni: sui blog, al cimitero di Cesenatico, sulle salite di Pantani. Quelle domestiche, l’amato Carpegna, il Centoforche, il Fumaiolo. Quelle più famose. Mortirolo, Alpe d’Huez, Galibier, Ventoux. Per come correva, posso dire che tutte le salite erano di Pantani. Erano il suo pascolo naturale, il suo mare verticale, erano croce e delizia. La croce era quella che chiamava agonia, la fatica più dura. La delizia era quel suo attaccarle stando in coda al gruppo e poi un po’ alla volta sorpassare tutti gli altri guardandoli in faccia. Lo faceva apposta, non era un caso. Non era un caso l’alleggerirsi in vista dell’attacco, era un segnale per gli avversari, un avvertimento, come il drin di un campanello: tra un po’ comincio a darci dentro, mi venga dietro chi può. Non a caso, ancora, Pastonesi dilata il quadro, dà voce a tutti i gregari di Pantani, a chi s’è allenato con lui e ha corso con lui, anzi per lui, perché la Mercatone Uno prevedeva un solo capitano, Pantani, e tutti gli altri al servizio della causa, Se vinceva lui, vincevano tutti. E se perdeva, tutti perdevano. Nella dilatazione del quadro ci sono i grandi ciclisti romagnoli del passato, e i grandi scalatori come Gaul, Bahamontes, Massignan. Come il primo dei grandi scalatori, René Pottier, vincitore del Tour 1906, che s’impiccò a una trave delle officine Peugeot il 25 gennaio del 1907. Delusione d’amore, dissero ai tempi. Nessun biglietto lasciato, un’altra morte misteriosa. Come quella di Pantani. Che ha due grandi punti interrogativi su due stanze d’albergo. Una è quella di Madonna di Campiglio, 5 giugno 1999, l’inizio della fine. Come mai, trattandosi di una visita annunciata, non a sorpresa, il sangue di Pantani presentava un ematocrito a 52? E cosa accadde veramente nella stanza D5 del residence Le Rose, a Rimini, la fine della fine? Un libro di Philippe Brunel dell’Equipe ha documentato quante smagliature e lacune ci fossero nell’inchiesta. I dubbi restano e quel residence non c’è più, è stato demolito in tempi brevi, sorprendenti per la burocrazia nostrana. I dubbi non restano in chi parla di Pantani solo come di un drogato, in bici e giù dalla bici, o solo come di un angelo innocente tirato giù dal cielo. Rivivere quegli anni, tra la fine degli ’80 e poco oltre il 2000, è come seguire le piste dell’Epo. Pantani ne ha fatto uso? Sì, come tutti. In che misura? Pastonesi cita livelli alquanto alti. Avrebbe vinto ugualmente? Sì, a parità di carburante. Ma, a Pantani morto, è saltato fuori che su qualcuno (Armstrong) l’Uci teneva aperto un larghissimo ombrello. Per onestà, come Pastonesi ha scritto che Pantani non era uno dei suoi, devo scrivere che Pantani è stato uno dei miei. Perché, come i vecchi ciclisti, in corsa faceva di testa sua, non usava il cardiofrequenzimetro e quando s’allenava dalle sue parti beveva alle fontane e mangiava pane e pecorino. Perché, più ancora delle vittorie, ricordo l’attesa delle vittorie, o comunque dell’attacco in salita. E l’entusiasmo della gente, come un ascensore sonoro fra tornante e tornante. E l’Italia sulla canna di quella bicicletta, e i francesi che s’incazzavano, ma neanche tanto. Perché gli piaceva ascoltare Charlie Parker. Perché dipingeva. Perché era piccolino. Perché parlava una lingua diversa. Pontani (Aligi, quasi un omonimo) mi chiamò dalla redazione quel 14 febbraio 2004. Ero in ferie, stavo cenando a Firenze. È morto Pantani. Non si sa di preciso, in un residence. Serve un coccodrillo, di corsa. Taxi, albergo, speciale Tg, dettare. Trovo ancora lettori che mi dicono che quel pezzo a caldo, in morte di Pantani, è tra i più belli che ho scritto. Non avrei mai voluto scriverlo e non l’ho scritto, è venuto fuori così. Come aprire un rubinetto, o una vena.
Pantani, dopo quella morte speculazione infinita, scrive Eugenio Capodacqua su “La Repubblica”. Avevo fatto un patto con me stesso, in nome dell’amicizia che mi ha legato per breve tempo a Marco Pantani, e cioè che non avrei più scritto un rigo su di lui e sulle sue tragiche vicende. Pur conoscendo la sua storia nei minimi particolari non ritenevo di dover puntualizzare fatti e situazioni; proprio per rispetto di un uomo che ha comunque pagato il prezzo più alto. Ma evidentemente non c ‘è pace sotto gli ulivi. E, con la riapertura d’ufficio dell’inchiesta sulla morte, riecco Pantani pronto ad essere di nuovo immolato sull’altare della cronaca. Quella più bieca e nera che allunga un triste velo di grigio sull’ immagine dell’uomo e dell’atleta, comunque rimasto profondamente nel cuore di molti appassionati e tifosi. Un atto dovuto da parte dei magistrati dopo l’esposto dei genitori e l’accurata perizia dell’avvocato di parte che ipotizza l’omicidio. Diciamo subito che se ci sono dubbi (e ce ne sono) sulle circostanze di questa tragedia è doveroso andare fino in fondo. Anche se il cammino delle indagini, a dieci anni di distanza dai fatti, risulta piuttosto difficile. Ma, più in generale, sembra arrivato il momento di fare un minimo di chiarezza. Per lunghissimi dieci anni l’informazione (specie la tv di stato) ha contribuito a mistificare un dramma che è e resta umano prima ancora che sportivo. Pantani trasformato in un eroe. Pantani campione, esempio da seguire e imitare. Pantani vittima di chissà quale complotto. Pantani “capro espiatorio” di una realtà che invece tutti conosciamo, purtroppo. E cioè la realtà di un ciclismo all’epoca stradopato che ha tradito la passione degli spettatori propinando uno “spettacolo” al di fuori e al di sopra di ogni umana credibilità. Pantani faceva sognare e del sogno in questa dannata società c’è fame come dell’aria, dell’acqua, del pane. Lui incarnava l’attacco, il successo, la botta vincente. Quello che tanti “travet” covano nell’intimo. Il “come” poco importava. Quanti erano in grado di capire, o volevano capire il “come”? E forse poco importa, adesso. Da questo punto di vista Pantani è stato un grande. Ha toccato nel più profondo l’animo degli appassionati. Ancorché alle prese con un problema esistenziale che tormenta spesso, troppo spesso, la vita di tanti protagonisti. Un problema che Madonna di Campiglio ha acuito e fatto esplodere. Mettendo in risalto tutta la fragilità dell’uomo, ma anche l’insensibilità, l’egoismo e l’ignoranza di qualcuno che gli è stato accanto. Vediamo di ragionare con un minimo di freddezza. Pantani è stato un eccellente ciclista. Un eccellente scalatore che, doping o meno, probabilmente avrebbe inebriato ugualmente le folle con le sue gesta in salita, con il suo carattere e la sua personalità. Perché comunque il ciclismo si fa e si esalta in salita. Ma che facesse come tutti gli altri lo ammette anche la stessa madre che – è comprensibile: è la mamma – continua una sua battaglia infinita. La capisco: la mia, di mamma, è andata fuori di testa alla morte del figlio 25enne in un incidente aereo di cui non si è mai data ragione. E comunque si vuole restituire dignità. Ma quale dignità? Quella del “così fan (hanno fatto) tutti”? Ben magra consolazione… Perché che facesse come tutti i ciclisti della sua epoca è ormai chiarissimo. E adesso, dopo l’indagine del Senato francese sul Tour 1998, è addirittura comprovato al di là di ogni sospetto. Niente da aggiungere. Niente da chiedere al mondo ipocrita del ciclismo. La dignità a Pantani la si restituisce non arzigogolando attorno a presunti complotti, ma spiegando come la vita possa mettere trappole mortali anche sulla strada degli uomini di più grande successo. Insegnando a diffidare della notorietà, della gloria effimera (un giorno sugli altari, il giorno dopo nella polvere); ad essere guardinghi e mai esagerati. La breve vita del Pirata è un paradigma dove c’è tutto: dall’esaltazione nel momento della gloria, alla più profonda depressione quando un mondo costruito con cura crolla davanti al test di Campiglio. Pantani come gli altri. Tanti altri. L’osservatore un minimo distaccato tocca con mano la profondità del baratro quando si finisce nei meandri della droga. Vede come sia facile scivolare, cadere definitivamente. Eppure cosa era è successo, in fondo, a Madonna di Campiglio? Nient’altro che quello che è successo a decine di altri corridori. Uno stop (di soli 15 giorni, neppure una squalifica…) per essere fuori dalle regole stabilite in quel momento. Scontata quella pena che all’epoca non aveva neppure il marchio del doping (“sospensione a tutela della salute”) tutto era finito. Ma paradossalmente è stata proprio la sensibilità particolarissima dell’uomo, la coscienza e il sentimento di vergogna per essere stato scoperto e messo a nudo, a perderlo. Non ha retto, dicono, e si è rifugiato nella droga, trascinato in un mondo che gli turbinava attorno da tempo. In un mondo di cinici si è comportato come l’ultimo dei romantici. Ciò che lo rende umano, umanissimo. Tutt’altro che un dio: umanissimo uomo. Per questo ancora più apprezzabile. Per questo, a me non danno fastidio le celebrazioni e i ricordi. Men che meno che si scavi per chiarire i dubbi sulla morte. Mi da fastidio il sentimento peloso che trasuda interesse economico attorno a tutta la vicenda. Mi da fastidio chi su quella morte ci ha guadagnato e continua a guadagnarci, speculando sull’emozione. Pantani è stato un business milionario da vivo e ancora di più da morto. I libri basati sulla sua tragica epopea sono andati a ruba. Al ritmo di 25-27 mila copie vendute. Fra il 2003 e il 2005, raggranellando cifre di gadget, dvd, bandane, donazioni, libri, poster, foto e tutto il merchandising connesso sono arrivato a calcolare quasi un milione di euro. Una cifra che si può tranquillamente moltiplicare per 3, per 5 arrivando ai nostri giorni. Chiaro che a questo mercato serva l’eroe. Anche se eroe non è. Pace all’anima sua. Il sistema che in qualche modo lo ha messo in un angolo, continua a succhiarne la linfa. Come? Raccontando la favola dell’eroe tragico. Della vittima predestinata. Del campione che suscita invidia e viene eliminato. Emozione, sentimento, partecipazione. Sul piano umano è tutto più che comprensibile, dopo la grande tragedia. Ma se vogliamo dare un esempio ai giovani non possiamo continuare a proporre tesi senza fondamento. Complotto? E chi mai avrebbe avuto interesse a complottare contro il Pirata? La Fiat perché lui aveva scelto la Citroen come sponsor? Ma, andiamo! Chi lo voleva in squadra ottenendo il rifiuto? E come si sarebbe realizzato il complotto? Corrompendo i medici prelevatori? Quello che si è letto negli anni e di recente appare chiaramente strumentale. E a mio avviso infondato. Oggi c’è di mezzo la giustizia ordinaria e un’indagine ufficiale, ma se ne sono viste e lette in passato… Soprattutto per assecondare la tesi della trappola. Qualcuno ha tirato fuori perfino la provetta di quel tragico prelievo ematico a Campiglio che sarebbe stata scaldata per alzare l’ematocrito. Ma – è addirittura banale – scaldando il sangue si scalda e aumenta di volume anche la parte liquida non solo quella corpuscolare e il rapporto in percentuale dell’ematocrito resta inalterato. Insostenibile scientificamente, eppure c’è chi ne ha fatto un elemento saliente della tesi complottistica. E poi: chi l’avrebbe scaldata? Il medico prelevatore? I medici dell’ospedale di Parma che nella serata di quel 5 giugno 1999 hanno ripetuto i test su ordine del pm di Trento Giardina trovando gli stessi valori dei medici Uci? Si può sostenere un’accusa così grave, che sfiora la calunnia, in modo così generico? Chi fa riferimento al complotto deve anche spiegare chi, come e dove può aver complottato. Per questo dico che sono solo speculazioni per suscitare emotività e vendere copie (o altro) al tifoso. Pantani era la gallina dalle uova d’oro per il ciclismo di quel tempo. E non solo. L’atleta che era riuscito a riportare milioni di tifosi sulle strade del Giro e con loro gli sponsor, cioè il potere economico. Cioè il dio denaro. Tanto e disponibile per tanti. Su Campiglio ha indagato la Procura di Trento. Il verdetto è stato univoco: nessuna truffa, nessuna sostituzione di provette (il sangue era di Pantani, come hanno provato i test del DNA), nessun complotto, nessuna manomissione. Resta solo l’ombra delle scommesse. Ma le indagini fin qui fatte non hanno portato a nulla. E ad anni di distanza il nome di quell’ “amico” di Vallanzasca che gli avrebbe consigliato di non scommettere su Pantani perché non sarebbe arrivato a Milano nonostante la maglia rosa sulle spalle e la classifica ormai blindata dai risultati, ancora non viene fuori. Su Pantani si specula. Come definire altrimenti il sottolineare l’irregolarità della procedura punto centrale in una delle ultime pubblicazioni? La provetta sarebbe stata scelta da uno dei medici prelevatori e non dall’atleta come vuole il regolamento. Un vizio di forma ininfluente ai fini del test. A meno di non chiamare in causa la stessa ditta produttrice delle provette, che sono sigillate e sottovuoto. Tutte. E anche qui senza prove si sfiora la calunnia. Ma a cosa può servire tirare fuori un vizio di forma di fronte al quale oggi non si può fare nulla se non instillare senza motivo il dubbio generico che qualcosa di irregolare sia accaduto? Facile rispondere: è una mossa furba per accalappiare ancora di più il tifoso. Ma dire, 14 anni dopo, che si sarebbe potuto fare ricorso contro le modalità di quel test, non toglie nulla alla realtà storica: l’ematocrito fuori norma per le regole del tempo. Controllato otto volte sul sangue del Pirata. Valori fiori norma. Non per la prima volta, come del resto provano i dati emersi nel processo Conconi alle cui cure Pantani si era affidato già dal ‘94. E baggianate come “il prelevatore ha messo la provetta in tasca alzando la temperatura, ecc. ecc.” dicono sopratutto dell’ignoranza se non della malafede di chi sostiene tale ridicola tesi. Basta pensare alla temperatura corporea: 38 gradi circa. Ci sono 38 gradi in una tasca? Difficile. Dunque caso mai la provetta si sarà raffreddata non riscaldata. Ma tant’è. Lo dico chiaro: queste “spiegazioni postume” non mi convincono. Come quella che la macchina da analisi (Coulter Act) avrebbe “visto” un ematocrito alto per via del raggrumarsi delle piastrine. Ma gli esperti sono chiarissimi: “E’ impossibile – sostiene Benedetto Ronci ematologo di fama dell’Ospedale San Giovanni Addolorata di Roma, consulente dei pm nella inchieste doping più clamorose – anche se le piastrine hanno tendenza ad aggregarsi non incidono sul volume corpuscolare; non possono modificare in alcun modo l’ematocrito”. Piuttosto al medico che avrebbe fatto l’ematocrito a tutta la squadra in quei giorni andrebbe posta una semplice domanda. Perché? Si sa che con lo sforzo prolungato per settimane l’ematocrito cala. Che bisogno c’era di controllare? Altro discorso è la morte nel residence. Ma qui la scelta è ancora più netta. O si sposa la tesi dell’esagerata ingestione di cocaina (sette volte la dose mortale), overdose accidentale, come dice il referto di morte e dunque si spiega così il delirio la gran baraonda trovata in quella tristissima camera n.5 del Residence Le Rose, che è poi la tesi ufficiale di chi ha indagato. Oppure si allineano una serie di elementi di dubbio. Particolari incerti che dall’ora della morte, al cibo cinese (odiato dal Pirata), trovato in camera, alle ferite sul corpo, ai boxer che farebbero sospettare un trascinamento, al particolare del cuore portato via dal medico che eseguì l’autopsia timoroso che venisse rubato (da chi?); alimentano dubbi concreti. Cui dovrà rispondere l’indagine. Si continua a confondere il piano umano che merita il massimo della comprensione per una morte assurda con quello sportivo sfruttando la mozione degli affetti. Cosa dobbiamo fare? Giustificare tutto in nome della tragedia? E cosa raccontiamo ai nostri figli? Segui quell’esempio e sarai felice?
Protagonisti e comparse. Ecco il dizionario del mistero Pantani. Chi poteva volere morto il campione? L'inchiesta della Procura di Rimini parte da nomi e ruoli dei personaggi dell'affaire, scrive Pier Augusto Stagi su “Il Giornale”. «Pantani è stato ucciso». Questo è il titolo del «romanzo noir» di questa estate italiana poco assolata e calda. A gridarlo da anni mamma Tonina. A raccogliere il suo grido di dolore e le prove per presentare un fascicolo presso la Procura di Rimini che ha competenza sull'accaduto è l'avvocato De Rensis. La richiesta: riaprire il caso sulla base dei molti fatti nuovi contenuti nelle pagine (120) dell'istanza. Un romanzo che ha una storia buia, molti protagonisti e qualche comparsa. Ecco un dizionario per orientarsi, mentre la Procura rinvia a settembre la decisione su chi assegnare la delega a indagare, carabinieri o polizia.
A come avvocato. Antonio De Rensis è l'avvocato della famiglia Pantani, che in nove mesi di lavoro ha raccolto una serie impressionante di contraddizioni e anomalie. È a lui che si deve l'esposto per la riapertura del caso.
D come dubbi. Il lavoro del professor Avato si discosta di molto dalle conclusioni prospettate all'epoca dal collega Giuseppe Fortuni, che aveva eseguito l'autopsia su incarico della Procura. Quali sono i rilievi di Avato? Molti. A partire dall'ora della morte: posizionata tra le 10.45 e le 11.45. La quantità di droga trovata su Pantani equivarrebbe a diverse decine di grammi, tale da essere paragonabile ai pacchetti ingeriti dai corrieri per eludere i controlli. Impossibile per qualunque persona mangiare o inalare una dose simile. L'unico modo per farlo è diluirla nell'acqua e farla bere a forza (la bottiglia trovata nella stanza, non viene nemmeno analizzata). Le numerose ferite sul corpo di Pantani sono compatibili con opera di terzi, con evidenti segni di trascinamento del cadavere. Il corpo di Pantani è poggiato sul fianco sinistro ma per Avato è il polmone destro a pesare 200 grammi di più: quindi, il corpo di Marco è stato spostato dalla posizione originaria della morte. E poi c'è la stanza, con il suo «disordine ordinato». L'ipotesi è fin troppo chiara: far passare Pantani in preda al delirio per celare altro. Nessuna impronta fu presa e non sarà più possibile farlo neppure 10 anni dopo.
E come esperto. Francesco Maria Avato è il perito di parte, il medico-legale (lo stesso che ha contribuito a far riaprire dopo 23 anni il caso Bergamini, il calciatore «suicidato») che ha fornito un contributo fondamentale per completare e avvalorare l'esposto preparato da De Rensis.
I come imputati. Dieci anni fa l'indagine sulla morte di Pantani viene svolta dal sostituto procuratore romagnolo Paolo Gengarelli, con la Squadra mobile di Rimini e la Polizia di Napoli. Tre mesi dopo la morte del Pirata, il 14 maggio 2004 vengono arrestati Fabio Miradossa (il fornitore napoletano di cocaina del romagnolo già dal dicembre 2003), Elena Korovina (la cubista russa che ebbe una relazione con il corridore), Fabio Carlino (leccese, titolare di un'agenzia di immagine) e Ciro Veneruso (il corriere napoletano che portò la dose letale a Pantani). Viene rinviato a giudizio anche il barista peruviano Alfonso Ramirez Cueva. Il processo di primo grado inizia il 12 aprile 2005 davanti al Gup di Rimini. Vengono in seguito accettati i patteggiamenti di Miradossa (4 anni e 10 mesi) e di Veneruso (3 anni e 10 mesi) e Cueva (1 anno e 11 mesi). Gli altri accettano di affrontare il dibattimento. La russa viene assolta. Fabio Carlino viene condannato in primo grado e in appello, ma poi prosciolto in Cassazione.
M come manager. Manuela Ronchi è la manager del campione romagnolo. La sua è una figura non marginale in tutta questa vicenda, anche perché è una delle ultime a vedere Marco vivo. Doveva andare a sciare con suo marito, per questo Marco passa il 26 gennaio da Cesenatico per prendere tre giacconi che porta su a Milano. Il 31 gennaio Marco ha una lite con la manager davanti agli occhi di mamma Tonina e papà Paolo, chiamati per l'occasione dalla Ronchi. Il 9 febbrario Marco decide di andare a Rimini. La Ronchi gli fa recapitare una «sportina» di effetti personali (non ha valige) ad un hotel in piazza della Repubblica. Marco qualche giorno dopo parte per Rimini. Uno dei grandi misteri di questa vicenda è: come ci sono arrivati i tre giubbotti al residence Le Rose?
P come procuratore. Paolo Giovagnoli è il procuratore capo di Rimini al quale è stato consegnato il fascicolo, il quale a sua volta l'ha assegnato ad Elisa Milocco, giovane sostituto procuratore, arrivato a Rimini da pochi mesi. Toccherà a lei far sul luce su quella sera del 14 febbraio 2004.
Pantani, il legale accusa: "Inchiesta piena di buchi". Nove mesi di indagini private e una perizia medica hanno messo in forse la tesi del suicidio. L'avvocato di famiglia contro il pm che archiviò: "Troppi silenzi", scrive Pier Augusto Stagi su “Il Giornale”. Quando facciamo suonare il suo cellulare l'avvocato Antonio De Rensis è alla buca 18. Cerca, dopo mesi duri e difficili, di rilassarsi un po', di liberare la mente dalle tossine accumulate durante la preparazione di un'indagine difensiva molto delicata. «In verità forse mi conveniva restare a casa, perché sono riuscito a giocare pochissimo». Per dirla con un linguaggio molto caro al nostro presidente del Consiglio, l'avvocato De Rensis per certi versi assomiglia a un «rottamatore»: non vuole mandare a casa nessuno ma smontare teorie e ricostruzioni fatte dieci anni fa, quello sì. E grazie ai suoi nove mesi di lavoro, di indagini e alla perizia di parte effettuata dal medico-legale, il professor Francesco Maria Avato, la ricostruzione originaria sulla fine tragica di Marco Pantani è stata smontata pezzo per pezzo. Ci vorranno mesi, per arrivare ad una nuova fase di questa storia che in dieci anni non ha finora trovato la vera parola fine. E una verità. Al momento il bandolo della matassa è nelle mani del procuratore Capo di Rimini Paolo Giovagnoli e in quelle della pm Elisa Milocco. «È esattamente così - spiega l'avvocato De Rensis -, ci vorranno mesi di lavoro, anche perché ovviamente sono tantissime le cose che la dottoressa Milocco dovrà esaminare. Bisognerà solo avere pazienza». Si parte dalle accuse di mamma Tonina, che non ha mai creduto al suicidio del figlio, ai nove mesi di indagini condotte dall'avvocato Rensis, trascorsi a recuperare carte e materiale di ogni tipo e studiandole successivamente con assoluta minuzia e passione. «Il tutto è concentrato in centodieci pagine, dense di dati e osservazioni», puntualizza il legale. Lui, però, non se la sente di stilare una graduatoria tra le tante incongruenze che nella sua inchiesta ha portato alla luce. «Mi creda, non voglio apparire per quello che vuole eludere ad una legittima curiosità o a una domanda, ma si fa fatica a dire quali di queste incongruenze possa essere più decisiva rispetto ad altre. Vedrà, sono e saranno tutte decisive perché concatenate l'una all'altra». Paolo Gengarelli, il pubblico ministero della prima inchiesta, non si è soffermato molto su questo nuovo capitolo della storia tragica di Marco Pantani, limitandosi a dire stizzito che «non sono abituato a commentare le notizie, come del resto dovrebbero fare in tanti». L'avvocato De Rensis, non esita a rispondergli: «Anche noi cerchiamo di parlare con i fatti. Anche noi cerchiamo di rispettare le indagini. Ma soprattutto noi vogliamo raccontare che all'epoca dei fatti non sono state prese le impronte digitali; che il video dei carabinieri dura 51 minuti mentre il girato è di due ore e cinquantasei minuti e via elencando. Non mi sembra di parlare di atti dell'indagine. Mi sembra solo di evidenziare cosa è stato fatto o meglio, non è stato fatto all'epoca. Anche noi staremo zitti nel momento in cui si tratterà di affrontare le cose da fare, ma queste sono fatti accaduti in passato ed è giusto portarli alla luce. Se il silenzio è luminoso ha un senso, i silenzi con le ombre a me non piacciono neanche un po'». L'avvocato De Rensis è capace di attaccare, ma si dimostra abile anche in fase difensiva. Quando gli chi chiede se ha un'idea di chi abbia ucciso Marco, si chiude a riccio. «Se sia stata una persona o più persone che fanno sempre parte del giro dei pusher? Se si tratta di persone fuori da questi giri? La prego, non mi chieda nulla. Sui nomi non mi esprimo. Non posso e non voglio». Più morbido all'ultima domanda: ma se la pm Milocco, alla fine dovesse decidere di chiudere il tutto con un nulla di fatto, quale sarebbe la sua reazione. Si griderebbe al complotto? «È una eventualità che non voglio nemmeno prendere in considerazione. Ho grande fiducia nel procuratore Capo Paolo Giovagnoli e nella dottoressa Elisa Milocco. Il procuratore capo è un galantuomo e la dottoressa Milocco - che ho conosciuto da poco - mi ha dato l'idea di essere una persona molto rigorosa. Quindi...».
Pantani, l’avvocato di famiglia: «Leggendo le carte la strada s’illuminerà da sola», scrive “Giornalettismo”. Antonio De Renzis, legale della famiglia del Pirata, parla della perizia che potrebbe far emergere una nuova verità sulla morte del ciclista romagnolo. Intanto, il ristoratore che consegnò l'ultima cena ricorda: «Non aveva la faccia di uno che volesse suicidarsi». Ufficialmente per la giustizia italiana Marco Pantani, trovato morto in una stanza d’albergo il 14 febbraio del 2004, è deceduto «come conseguenza accidentale di overdose». Per la famiglia del campione romagnolo, invece, la verità è un altra. Il Pirata sarebbe stato ucciso da una o più persone che lo avrebbero raggiunto quella sera al Residence Le Rose di Rimini, forse dopo essere stato costretto a bere cocaina disciolta nell’acqua. A parlare dopo la riapertura del caso è innnanzitutto la mamma di Pantani, Tonina Belletti, che ha provveduto a presentare un esposto-denuncia per omicidio volontario in Procura. Ma ad esporsi è anche l’avvocato della famiglia del ciclista, Antonio De Renzis, che alle telecamere di Sky racconta oggi di «mancanze», «lacune», «incongruenze», «anomalie», «accertamenti non fatti», che avrebbero condizionato la prima inchiesta sulla morte del Pirata che risale a 10 anni fa e che fu chiusa a tempo di record, in soli 55 giorni. Il legale, descrivendo la segnalazione alla Procura, parla di «rilettura» di quegli «atti d’indagine e processuali» che avrebbero determinato una verità giudiziaria a suo parere lontana dalla realtà, di una rilettura che contiene «elementi che convergono e vanno in una direzione precisa» e opposta rispetto a quanto emerso finora. Secondo De Renzis, in sostanza, la tesi seguita poche ore dopo la scoperta del corpo di Pantani, e «mai più abbandonata», andrebbe dunque «assolutamente rivisitata», ed è possibile che fancendo luce sulle «mancanze» della prima inchiesta emergerà un’altra verità. «Le carte e il video parlano molto», ha detto l’avvocato parlando della «corposa e approfondita consulenza» (perizia medico-legale) realizzata da professor Francesco Maria Avato. E ha aggiunto: «Credo che leggendo bene le carte sia possibile colmare queste lacune», «la strada si illuminerà da sola». Molto chiara è stata la signora Tonina, la prima ad annunciare, su Facebook, la riapertura del caso Pantani. «Me l’hanno ammazzato. La mia sensazione, sin da subito, è che avesse scoperto qualcosa e gli abbiano tappato la bocca», ha dichiarato nei giorni scorsi la madre del Pirata. «Non vedo altre ragioni – ha spiegato a TgCom24 -. Non mi sono mai sbagliata su Marco. Così come non credo siano stati gli spacciatori». «Sono dieci anni – ha aggiunto – che lotto e non mollerò, fino alla fine. Voglio la verità, voglio sapere cosa è successo a mio figlio. Da subito ho detto che me l’hanno ammazzato e, infatti, me l’hanno ammazzato». La signora Tonina ha poi parlato anche di una richiesta di aiuto del Pirata nelle ultime ore di vita: «Ha chiamato i carabinieri, parlando di ‘persone che gli davano fastidio’». E infine: «Marco aveva pestato i piedi a qualcuno, perché lui quello che pensava diceva: parlava di doping, diceva che il doping esiste».
Morte di Marco Pantani, legale: “Realtà è molto diversa da quella ufficiale”. Per l'avvocato Antonio De Rensis le indagini che vennero condotte dieci anni fa "presentano lacune e contraddizioni". Il legale ha ottenuto la riapertura delle indagini da parte della procura di Rimini che indaga per "omicidio volontario a carico di ignoti". La tesi della famiglia e della difesa è che il campione non morì di overdose ma venne ucciso, scrive “Il Fatto Quotidiano”. La realtà che emerse dieci anni fa sulla morte di Marco Pantani è “molto diversa” da quello che è accaduto realmente la mattina del 14 febbraio 2004, nel bilocale del residence Le Rose di Rimini. Ne è convinto l’avvocato dei familiari del Pirata, Antonio De Rensis, che spinto dalla tenacia della madre del campione, Tonina, ha riletto e analizzato migliaia di pagine che compongono le indagini e il processo. Per il legale le conclusioni a cui gli inquirenti giunsero dieci anni fa sono piene di “lacune e contraddizioni”. Pantani non morì per un’overdose, ma venne ucciso da una o più persone che il campione romagnolo conosceva e a cui lui stesso aprì la porta. Nella stanza scoppiò una lite. Il Pirata ebbe la peggio. L’aggressore (o gli aggressori) fecero bere al ciclista una dose letale di cocaina diluita in acqua. In sostanza, gli investigatori condussero le indagini su una messa in scena. Quelle certezze sono state messe nero su bianco dall’avvocato De Rensis che ha presentato un esposto alla procura di Rimini. “Accolto”. Il fascicolo accantonato per dieci anni è stato riaperto per “omicidio volontario a carico di ignoti”. “Mi limito a dire – ha dichiarato all’Ansa il legale – che è già importante comprendere tutti che la realtà fattuale è molto diversa. E già questo è tanto, perché porta poi in direzioni molto precise. Intanto facciamo emergere le enormi lacune e contraddizioni, facciamo emergere ciò che si poteva comprendere facilmente all’epoca e poi partiamo tutti insieme da qui per arrivare a ristabilire una verità. È un’indagine nuova che si apre con una ipotesi di reato grave. Sarà un’indagine che durerà molto, perché comunque è complessa. Gli elementi che dovrà valutare la procura sono tantissimi, però il nostro intendimento è di evidenziare in modo chiaro che la verità ufficiale è piuttosto lontano da quella fattuale”. De Rensis, avvocato del foro di Bologna, è un legale abituato alle battaglie che legano lo sport alla giustizia: ha assistito Antonio Conte nella vicenda del calcio scommesse. Il lavoro dell’avvocato su carte e riscontri investigativi è suffragato dalla perizia medico scientifica del prof. Francesco Maria Avato, che con un suo lavoro aveva portato alla riapertura del caso di Denis Bergamini, il calciatore del Cosenza morto il 18 novembre 1989 a Roseto Capo Spulico (Cosenza). Un caso che per anni è stato considerato un suicidio poi è stato riaperto per omicidio. “Un lavoro faticoso e impegnativo – dice De Rensis – anche di rilettura. Gli atti non è stato nemmeno semplice acquisirli. Questi faldoni sono negli archivi, sono migliaia e migliaia di pagine che sono state analizzate, sezionate, studiate, confrontate. Poi il lavoro scientifico del prof. Avato, che si è andato a confrontare e intrecciare continuativamente con le analisi degli atti di indagine e processuali, a confronto reciproco e intreccio reciproco. Quindi le indagini difensive che sicuramente, seppure assolutamente riservate, hanno evidenziato elementi importantissimi”. “Io nutro un grande rispetto per la magistratura – precisa De Rensis – Noi abbiamo lavorato pensando che dovevamo aprire una pagina nuova sulla base di enormi lacune e enormi contraddizioni“. “Queste lacune e incongruenze per noi possono essere colmate – conclude – possono essere riviste e credo che questo sia un dovere morale, oltre che giudiziario, da parte di tutti. Dobbiamo lavorare insieme per riscrivere la pagina di quella dolorosissima vicenda il più possibile vicino alla realtà”. Un ricordo di Pantani lo offre in queste ore anche Oliver Laghi, il ristoratore di Rimini che in albergo consegnò al campione romagnolo la sua ultima cena, un’omelette di prosciutto e formaggio. Il Piarata appariva stanco , ma sereno. «Ricordo – ha detto Laghi al Corriere della Sera – come ieri il volto di Marco: stanco, le occhiaie profonde, la barba un po’ lunga, ma ho pensato che fosse colpa del viaggio e che una bella dormita avrebbe rimesso tutto a posto, tanto che prima di andarmene gli chiesi se potevo tornare il giorno dopo con mio figlio piccolo per un autografo e lui mi rispose con un sorriso timido e una pacca sulla spalla: ‘Va bene, a domani’». E ancora: «Il Marco con cui ho parlato quella sera non aveva la faccia di uno che volesse suicidarsi». Ora gli occhi sono tutti puntati sulla procura di Rimini che dovrà esprimersi sulla perizia del dottor Aveta (secondo la quale le ferite presenti sul corpo di Pantani «non sono autoprocurate, ma opera di terzi») e che dovrà esprimersi relativamente alla nuova ipotesi«omicidio con alterazione del cadavere e dei luoghi». Il lavoro spetta innanzitutto al pm Elisa Milocco, cui è stato affidato il fascicolo dell’indagine bis, e comincia senza che alcuna persona risulti indagata. Va ricordato che tre anni fa la corte di Cassazione aveva assolto il presunto pusher di Pantani, accusato di aver provocato la morte del campione vendendogli cocaina purissima, «perché il fatto non costituisce reato».
Il timer fissa la durata del girato in due ore e 56 minuti, ma ne restano solo 51. Caso Pantani, un buco di 125 minuti nel video della polizia scientifica. Per i pm cinque nuovi testimoni che potrebbero raccontare una verità diversa sulla morte del Pirata. Tutti i punti oscuri del caso, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Un «buco» di 125 minuti nel video della Polizia scientifica e almeno cinque nuovi testimoni che potrebbero raccontare una diversa verità sulla morte di Marco Pantani. Riparte da qui la nuova indagine avviata dalla procura di Rimini e si concentra su almeno sei anomalie denunciate dalla famiglia del «Pirata» con l’esposto presentato dall’avvocato Antonio De Rensis. Ricomincia da un’imputazione di omicidio volontario che non sarà facile dimostrare a oltre dieci anni di distanza da quel San Valentino che il ciclista trascorse nell’appartamento D5 del Residence «Le Rose». Anche perché la struttura alberghiera è stata completamente modificata, ma soprattutto perché l’ipotesi più probabile è che se davvero qualcuno è entrato in quel bilocale e ha picchiato Pantani, è possibile che lo abbia fatto per fargli pagare uno «sgarro», non per ucciderlo. E che la situazione gli sia poi sfuggita di mano. Il campione era un uomo disperato, preda dei suoi demoni e della sua totale dipendenza dalla droga. Ma - questo dicono alcune nuove testimonianze - non sembrava affatto «fuori di testa» come qualcuno ha voluto far credere. «L’ho trovato stanco ma lucido - ha raccontato Oliver Laghi, il ristoratore che la sera del 13 febbraio 2004 gli portò un’omelette al prosciutto e formaggio -, mi disse di tornare il giorno dopo con mio figlio che voleva l’autografo». Secondo l’inchiesta svolta dieci anni fa e chiusa avvalorando la tesi del suicidio, Laghi è stato l’ultimo a vedere Pantani vivo. Il procuratore Paolo Giovagnoli e il sostituto Elisa Milocco dovranno stabilire se è davvero così. Ma la convinzione è che qualcuno sia comunque entrato in quella stanza prima delle 20,30 del 14 febbraio, quando i soccorritori accertarono che per Pantani non c’era ormai più nulla da fare. Agli atti del processo contro i due spacciatori Fabio Miradossa e Ciro Veneruso - hanno patteggiato condanne rispettivamente a 4 anni e 10 mesi e 3 anni e 10 mesi - c’è un video girato dai poliziotti della Scientifica che comincia alle 22,45 del 14 febbraio e termina all’1.01 del 15 febbraio. Il timer fissa dunque la durata in due ore e 56 minuti ma il «girato» è di soli 51 minuti e termina prima dalla fine dell’ispezione. Chi ha effettuato i «tagli»? Perché ci sono dei «salti» tra una scena e l’altra? Eppure è proprio il filmato a fornire le tracce più evidenti di una ricostruzione diversa da quella ufficiale mostrando indizi evidenti per accreditare l’ipotesi che, almeno in un certo lasso di tempo di quel giorno, Pantani non sia stato da solo. Ma anche per dimostrare quelle che appaiono alcune «lacune» nelle indagini. L’avvocato della famiglia ha infatti denunciato come nel fascicolo processuale non risulta la rilevazione di alcuna impronta digitale durante il lungo sopralluogo. E questo nonostante ci fossero molti mobili spostati, alcuni rotti, un filo dell’antenna tv legato come un cappio e pendente dal soppalco, una confusione pressoché totale. Lo stesso filmato mostra svariate dosi di cocaina. Secondo quanto accertato al processo, Pantani aveva acquistato 20 grammi di droga. La nuova relazione medico-legale, firmata dal professor Francesco Maria Avato e basata sulla rilettura delle analisi effettuate dieci anni fa, assicura invece che Pantani aveva assunto cocaina in quantità sei volte maggiore di quanto una persona possa sopportare e altra sia rimasta inutilizzata. Proprio questo accredita l’ipotesi che qualcuno l’abbia portata durante la giornata. Nella denuncia si parla di «costrizione a bere cocaina sciolta nell’acqua», una circostanza difficile da dimostrare e che probabilmente costituirà uno dei punti più controversi della nuova inchiesta. Strano anche quanto accertato riguardo ai pasti consumati da Pantani. Secondo la versione ufficiale l’ultimo cibo ingerito è l’omelette portata da Laghi. Per l’autopsia Pantani ha invece fatto colazione, i resti vengono rinvenuti nello stomaco. I dipendenti del residence hanno sempre dichiarato che il Pirata non ha mai lasciato l’appartamento e che nessuno è entrato. E allora come ha fatto a procurarsela? In realtà rileggendo quanto verbalizzato all’epoca, il legale ha scoperto il racconto di un custode che ha spiegato come fino alle 21 fosse «possibile entrare passando dal garage». E dunque potrebbe essere proprio questa la strada percorsa da chi voleva incontrare il campione senza essere visto. E che potrebbe aver lasciato almeno due indizi: nel bilocale non c’era il frigobar, ma è stata trovata la carta di un cornetto Algida; Pantani era arrivato con un piccolissimo bagaglio, «una sporta», ma lì c’erano tre giubbotti pesanti. Un quadro indiziario nuovo, lo definiscono gli stessi inquirenti che prima di riaprire il fascicolo, sia pur come «atto dovuto», hanno avuto un lungo incontro con il legale della famiglia. E adesso dovranno concentrarsi sulla visione del filmato incrociata con la relazione medico-legale che evidenzia due punti: il corpo trascinato sulle tracce di sangue e dunque spostato dopo il decesso; lesioni ed ecchimosi incompatibili con l’autolesionismo, sia pure in una persona completamente stravolta dalla cocaina.
Caso Pantani, depistaggi e buchi nell'indagine. "Quando lo trovammo non c'era sangue". I racconti dei primi soccorritori contraddicono la perizia fatta all'epoca dal medico legale. E le testimonianze di chi lo vide nelle sue ultime ore si smentiscono a vicenda, scrivono Marco Mensurati e Matteo Pinci su “La Repubblica”. Testimonianze stridenti, perizie divergenti e protagonisti dimenticati s'intrecciano intorno alle ultime ore di vita di Marco Pantani. E con il passare dei giorni i dettagli inquietanti sembrano quasi sommarsi, alimentarsi uno con l'altro, accentuando i depistaggi, le lacune nella versione ufficiale, ma anche nei racconti di chi per primo intervenne sul corpo dell'atleta, fino a quelli dei testimoni della primissima ora. "Non c'erano tracce di sangue". Così lo raccontano i medici del 118, i primi a intervenire dopo la segnalazione del portiere del residence Le Rose. Eppure, i filmati della polizia dimostrano come Pantani sia stato trovato riverso a terra in una pozza di sangue, il viso una maschera rossa. La lettura dell'esame autoptico rivela poi anche una serie di ferite sul corpo, sulla fronte, sul naso, intorno al capo. Eppure, chi arriva per primo nella stanza D5 di viale Regina Elena, a Rimini, proprio non riesce a ricordarle: "Marco non aveva alcuna ferita sul viso". Incongruenze curiose, come le divergenze sulle macchie di sangue presenti nella stanza. Quegli schizzi secondo la perizia del professor Avato allegata alle indagini condotte dal legale della famiglia, Antonio De Rensis, non possono essere frutto della caduta. Non la pensava così però il dottor Fortuni, il medico legale che condusse l'autopsia, seppur 48 ore dopo il ritrovamento del corpo: volevano lui, anche a costo di doverlo aspettare due giorni. E pensare che Fortuni e Avato hanno sostenuto tesi opposte anche sul caso Aldrovandi, controverso almeno quanto la morte del Pirata: il primo consulente della difesa dei poliziotti sotto accusa, l'altro per la famiglia del giovane. Ma incollato come un'ombra al nome di Fortuni è rimasto soprattutto il dettaglio macabro del cuore del Pirata portato via dal laboratorio e custodito in casa per una notte, per evitare furti. Un pezzo del cuore del campione di Cesenatico che rappresentava "un corpo di reato, sotto la mia custodia in qualità di perito, che ovviamente non poteva andare né perso né distrutto". Procedura non inconsueta, eppure oggetto di attenzioni quasi morbose. Il cuore di un uomo farneticante: così almeno lo raccontavano le indagini dell'epoca. Un ritratto che nasce dalle dichiarazioni notturne di tre ragazzi, giovani, 27 anni appena: si presentano spontaneamente alle 23.30 della notte di San Valentino per consegnare la loro verità sul campione scomparso a un ispettore mentre nella stanza D5 del residence Le Rose si muovono ancora inquirenti al lavoro e civili, filmati impietosamente dall'occhio delle telecamere della polizia. Avevano incontrato Pantani, dicono, la sera prima, sul pianerottolo, intorno alle 22.15. Avevano impiegato un po' a riconoscerlo, poco curato, una barba sciatta. Lo avevano sentito dire cose surreali, lo avevano salutato con un generico "a domani", salvo sorprendersi nel sentirlo rispondere in dialetto "non so se ci sarà un domani per me". Visibilmente turbato, poco lucido e tragicamente inquieto, quasi consapevole del proprio destino irreversibile. Testimonianza ritenuta credibile al punto da essere inserita nella consulenza medico legale. Quella testimonianza diventa l'elemento per dare coerenza alla tesi di un Pantani in preda al delirio, quello che avrebbe potuto demolire la stanza del residence o barricarsi in camera e drogarsi fino a morire. Apparentemente affermazioni utili a raccontare lo sviluppo delle ultime ore del campione caduto. Eppure, nessuno sentirà la necessità di ascoltarli ancora: né durante le indagini, né durante il procedimento giudiziario. Curioso, almeno. Viene da chiedersi perché, al contrario, durante la pur fugace indagine non sia venuto in mente a nessuno di ascoltare se avesse qualcosa dire l'ultima persona che, con certezza, ebbe occasione di incontrare Pantani vivo. Eppure era proprio lì, a pochi metri dalle stanze ormai demolite e rivoluzionate del Le Rose. Oliver Laghi è il ristoratore a cui viene ordinata l'ultima cena del Pirata, un'omelette prosciutto e formaggio, qualche succo di frutta che prende dal concierge dove scopre che il cliente da servire, stavolta, è il suo idolo. Tra le 21 e le 21.30, Pantani gli apre la porta: se qualcuno lo avesse sentito all'epoca, Laghi avrebbe detto quello che dice soltanto ora. "Non aveva la faccia di chi voleva suicidarsi", dice. Racconta che emozionato per quell'incontro inatteso gli chiese di poter tornare con il figlio, che sarebbe impazzito per un suo autografo. Marco gli diede una pacca sulla spalla e rispose "va bene, ci vediamo domani". L'esatto opposto di quello che solo un'ora dopo, un Pantani sconvolto e delirante avrebbe detto ai tre ragazzi. Almeno stridente, se non inquietante. In un'ora scarsa, Pantani avrebbe dovuto mangiare la cena ricevuta per poi imbottirsi di cocaina e uscire dalla stanza per apparire instabile, in preda a manie persecutorie, perso in discorsi surreali ai giovani che lo incontrano sul pianerottolo. Rimini parla, racconta, aspetta. La pm Elisa Milocco dalle vacanze genovesi inizia a cercare risposte.
Pantani, il giallo dei pusher. Contatti frenetici al telefono mentre Marco era già morto. L'indagine per omicidio: cellulari impazziti tra le 13 e le 20. Il gelo del magistrato che archiviò: per me parlano gli atti. Si riparte da zero: il fascicolo affidato a una giovane pm, l'ultima arrivata nella procura. Dall'esame dei tabulati l'ultimo mistero sulla fine del Pirata nel motel Le Rose di Rimini.Il legale della famiglia: "Possibile colmare le lacune", scrivono Marco Mensurati e Matteo Pinci su “La Repubblica”. La nuova indagine sulla morte del Pirata ripartirà da una serie di tabulati telefonici. Numeri che si incrociano in maniera convulsa nelle ore immediatamente successive all'omicidio di Marco Pantani, in quel tragico pomeriggio del 14 febbraio 2004, e che disegnano una strana, fittissima triangolazione tra Fabio Miradossa, Ciro Veneruso - vale a dire il fornitore e lo spacciatore del ciclista (successivamente per questo condannati) - e altri numeri per il momento non meglio identificati. Cosa c'era all'origine di quel febbrile giro di chiamate rimbalzato nell'etere tra le 13 e le 20 di quel giorno? Chi sapeva cosa? Per quale motivo, di punto in bianco, due "pesci piccoli" dello spaccio in Riviera cominciano ad agitarsi in maniera scomposta? Ci vorranno mesi per saperlo. Le indagini penali, si sa, hanno tempi lunghi, specialmente quando diventano tecniche. Ma ormai la macchina si è messa in moto, e comunque vada, alla fine, una risposta definitiva sulla morte di uno dei campioni più amati di sempre dovrà pur venire fuori. Almeno questo è l'intento del procuratore di Rimini Paolo Giovagnoli. "Abbiamo appena ricevuto le carte presentate dai familiari e aperto un'indagine. È un atto dovuto quando arriva un esposto-denuncia per omicidio volontario. Leggeremo le carte, se ci sarà l'esigenza di indagini chiederemo al giudice". Le carte, in realtà, Giovagnoli le aveva già lette la scorsa settimana facendo in tempo ad aprire il fascicolo "contro ignoti" e ad affidare l'inchiesta a una giovane fidata collega, il pm Elisa Milocco. In procura - dove tutti si nascondono dietro il più assoluto segreto istruttorio - nessuno sottovaluta la difficoltà di un cold case del genere, con una vittima tanto famosa e amata, uno scenario alternativo così suggestivo, e con dieci anni di distanza a rendere tutto, se possibile, ancor più complicato. Basti pensare che il luogo del delitto, semplicemente, non c'è più: il residence Le Rose, nella cui stanza D5 venne ritrovato, il 14 febbraio 2004, il cadavere di Marco Pantani, è stato demolito. E non è un dettaglio da poco. Molto, nella ricostruzione originaria, quella fatta a pezzi dalle indagini difensive condotte dall'avvocato Antonio De Rensis, ruotava attorno al fatto che nessuno fosse entrato o uscito in quei giorni dalla stanza di Pantani, visto che nessuno era passato per la portineria chiedendo di lui. In realtà, si è scoperto, quella stanza, così come tutte le altre in quel residence, poteva essere raggiunta comodamente e con la massima discrezione dal garage (non c'era nemmeno una telecamera di controllo). Insomma, in quei giorni chiunque potrebbe essere entrato e uscito dalla stanza di Pantani, spacciatori, vecchi amici del posto, gente venuta da Milano. Chiunque, insomma, oltre allo stesso Pantani e ai suoi eventuali assassini. Purtroppo però non sarà possibile effettuare alcun sopralluogo. Ciononostante la voglia di fare luce su un caso che da anni avvelena le acque di questa piccola procura è tanta. Ancora ieri Paolo Gengarelli, il pm della prima inchiesta, quella oggi sotto tiro ha rilasciato una dichiarazione non proprio amichevole: "Io non commento la notizia, sono un magistrato con l'abitudine di non parlare come dovrebbero fare in tanti, lascio che siano gli atti a farlo". La scelta di affidare l'incartamento a un magistrato "nuovo" dell'ambiente, lontano per definizione da ogni possibile pressione locale non appare casuale. La strada dell'indagine a questo punto è abbastanza scontata. La dottoressa Milocco al ritorno dalle vacanze (ha chiuso ieri l'ufficio portando con sé il fascicolo) avvierà i primi accertamenti, delegando la polizia giudiziaria. Poi disporrà una nuova perizia. Il cuore delle accurate indagini effettuate da De Rensis e il suo staff è infatti la perizia medico legale del professor Francesco Maria Avato che ha parlato di "ferite non autoprodotte, ma inferte da terzi" sul corpo di Pantani, di "evidenti segni di trascinamento del cadavere", e della "probabile ingestione della cocaina da una bottiglia di acqua" ritrovata sulla scena e "mai repertata". Elementi che, se confermati, non lascerebbero più dubbi sull'omicidio di Pantani. Resterebbe a quel punto da rispondere alle altre domande: chi e perché ha ucciso Pantani, e chi e perché ha coperto l'assassino? Nell'istanza presentata da Rensis ci sono numerosi altri elementi che potrebbero aiutare a rispondere anche a queste domande. E i tabulati telefonici sono uno di questi. "Quando i genitori di Marco mi hanno contattato, mi sono riservato prima di capire perchè non volevo creare false illusioni ma non c'è voluto molto per comprendere che c'era molto lavoro da fare - racconta l'avvocato De Rensis ai microfoni di Sky -. La stessa consulenza scientifica è stata inizialmente un percorso esplorativo ma abbiamo capito subito che dovevamo buttarci a capofitto con una rilettura della vicenda. Sono stati mesi molto faticosi, dolorosi, pieni di tensione e speranza. Adesso sappiamo che abbiamo molto lavoro da fare insieme e mi concentro sul fatto che inizia un nuovo percorso faticoso, lungo, ma che affronteremo con determinazione massima. La prima indagine? Penso al passato soltanto in proiezione futura, sono molto concentrato su quello che dobbiamo fare". L'esposto presentato, spiega De Rensis, "è una rilettura, un esame degli atti di indagine e processuali, c'è una corposa e approfondita consulenza scientifica, tutti elementi che convergono verso una direzione molto precisa. Ci sono state molte mancanze, molte lacune, accertamenti non fatti e una tesi seguita poche ore dopo la scoperta del corpo di Marco mai più abbandonata e che credo vada invece assolutamente rivisitata". Ancora nessuna pronuncia su possibili sospetti: "Iniziando a fare luce sulle mancanze, sulle lacune, sulle incongruenze, sulle anomalie, credo che la strada si illuminerà da sola, il percorso sarà molto chiaro e preciso. Il perchè certe cose sono venute meno non lo devo dire io, chi fa le indagini avrà molti punti da chiarificare e credo che questo sia assolutamente possibile. Colmare le lacune credo sia possibile, le carte parlano molto, il video parla molto, leggendo le carte nel modo giusto, leggendo il video e altri dati credo che sia possibile colmare queste lacune". "Credo che adesso inizierà un'indagine molto faticosa - conclude De Rensis - ma il procuratore capo di Rimini è un galantuomo, la dottoressa Milocco mi ha dato l'impressione di una persona molto rigorosa. C'è grandissima fiducia nell'opera della magistratura e daremo il nostro piccolo supporto perchè i fatti vengano chiarificati e la verità fattuale prevalga su quella ufficiale che penso sia molto lontana dalla verità dei fatti".
IL MISTERO DI DENIS BERGAMINI.
La morte di Donato Bergamini: per i periti fu «soffocato e coricato sotto il camion». La svolta negli accertamenti sulla morte, risalente al 1989, del calciatore emiliano nel Cosentino è emersa dall’incidente probatorio davanti al gip di Castrovillari nel corso del quale i periti nominati dallo stesso giudice. Inizialmente si ipotizzò il suicidio, scrive il 29 novembre 2017 "Il Corriere della Sera". Il calciatore del Cosenza Donato Bergamini, trovato privo di vita 28 anni fa - era la sera del 18 novembre del 1989 - sull’asfalto della Statale Jonica 106 al chilometro 401, fu «soffocato ed era già morto prima di essere coricato sotto il camion». Quello sotto il quale si sarebbe buttato volontariamente per togliersi la vita, come si ipotizzò all’epoca. Invece non era così. È quanto emerso dall’incidente probatorio davanti al gip di Castrovillari (Cosenza) nel corso del quale i periti nominati dallo stesso giudice hanno depositato ed illustrato il loro lavoro. A riferirlo è stato l’avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia Bergamini. «È stata assolutamente confermata l’ipotesi della morte per asfissia ed i periti hanno detto che era già morto prima di essere coricato sotto il camion», ha detto. «Il risultato è riservato, ma sono molto soddisfatto di quello che hanno fatto i periti» ha detto il procuratore di Castrovillari Eugenio Facciolla alla fine dell’udienza per l’incidente probatorio relativo alla superperizia eseguita sulla salma riesumata di Denis Bergamini, il calciatore morto nel novembre di 28 anni fa in situazioni mai chiarite. «Un lavoro egregio, eccellente dal punto di vista scientifico - ha detto Facciolla - e adesso guardiamo avanti». La sorella: «Fatto ciò che si doveva fare 28 anni fa». «Oggi è stato fatto finalmente ciò che doveva essere fatto allora». Soddisfatta e molto provata, la sorella di Denis, Donata, che ha partecipato all’udienza durata 5 ore. «Si tratta di una morte negata per 28 anni - ha detto la sorella del calciatore del Cosenza, Bergamini - ma sono soddisfatta per il lavoro dei periti e per le spiegazioni che hanno dato. La prima verità è arrivata, perché mio fratello l’hanno soffocato - ha aggiunto Donata Bergamini - e adesso aspettiamo le altre».
La posizione dei due indagati. Alla luce dei risultati della perizia, sembra aggravarsi la posizione dei due indagati dell’inchiesta ter sulla morte del calciatore, l’ex fidanzata dell’epoca Isabella Internò - che era con Denis la sera della sua morte - e l’autista del camion, Raffaele Pisano. Se i due saranno processati e se lo saranno da soli o con altre persone, però, è presto per dirlo. E su questo aspetto Facciolla è stato chiaro: «siamo in piena fase di indagini preliminari quindi questo fa capire che non si può parlare né di quello che si sta facendo, né di quello che si farà; finita l’udienza guardiamo avanti». Il procuratore di Castrovillari, tuttavia, non ha negato la soddisfazione per «quello che abbiamo fatto, di quello che è stato fatto finora e di quello che hanno fatto i periti del giudice oltre che i miei consulenti. Un lavoro egregio, davvero eccellente dal punto di vista scientifico, un grosso passo avanti».
L’indagine del 2011. Un passo avanti che, forse, finalmente consentirà di scrivere la parola fine su una vicenda che da 28 anni è avvolta dal mistero che già due inchieste non sono riuscite a diradare. La prima si concluse sposando la tesi del suicidio. La seconda era stata aperta nel luglio del 2011. Alcune perizie dei carabinieri del Ris e del medico legale, portarono alla notifica di un avviso di garanzia alla Internò e a Pisano con l’ipotesi di accusa di omicidio volontario in concorso. Ma nel 2015 la Procura di Castrovillari chiese ed ottenne dal gup, nonostante l’opposizione della famiglia del calciatore, una nuova archiviazione. Nel luglio del 2017, dopo l’arrivo al vertice della Procura di Facciolla, una nuova riapertura delle indagini e le perizie che adesso sembrano poter indirizzare gli inquirenti a fare chiarezza una volta per tutte.
Bergamini, perizia: "Soffocato e poi posizionato sotto camion". Si inizia a fare luce sulla sorte del calciatore: il suo non fu suicidio. Dagli esami risulta che il giovane centrocampista del Cosenza, il 18 novembre del 1989, morì per asfissia. Ora l'inchiesta prosegue, scrive Alessia Candito il 29 novembre 2017 su "La Repubblica". Ventotto anni e 9 giorni dopo la sua morte, si inizia a fare chiarezza sulla sorte del calciatore Denis Bergamini. Il suo non è stato un suicidio. Il 18 novembre del 1989 qualcuno ha strangolato il giovane centrocampista del Cosenza e poi ha adagiato il suo corpo sotto le ruote di un camion sulla statale 106, nei pressi di Roseto Capo Spulico, nel cosentino. A provocarne la morte non è stato il presunto impatto con il mezzo, ma un'asfissia. È questo il dato che i periti della procura e del gip hanno portato oggi all'attenzione del giudice di Castrovillari nel corso dell'incidete probatorio. Ed è questo il punto di partenza dell'indagine che è stata rimessa nelle mani del procuratore capo Eugenio Facciolla. A nulla sono valse le obiezioni sollevate dai legali degli imputati, Isabella Internò, fidanzata dell'epoca del calciatore e per molto tempo accreditatasi come unica testimone oculare del presunto suicidio, e Raffaele Piano, l'autista del mezzo. Dopo oltre cinque ore di udienza, il giudice non ha avuto dubbi: l'inchiesta deve procedere. E a partire da un dato nuovo e concreto: Denis Bergamini è stato ucciso e di questo, grazie alla superperizia richiesta dal procuratore capo Facciolla, ci sono le prove. Quello dei periti - ha detto il magistrato - è stato "un lavoro egregio, eccellente dal punto di vista scientifico e adesso guardiamo avanti". Quanto al momento non è dato sapere. "Siamo in piena fase di indagini preliminari, ma certamente oggi è stato fatto un grosso passo avanti" si è limitato a dire il magistrato, opponendo un secco no comment a qualsiasi altra domanda. Di certo però, la perizia apre nuovi scenari. Se Bergamini è stato strangolato, è da escludere che ad agire sia stata solo Internò. Quel 18 novembre del 1989 c'era qualcuno con lei, che per oltre 28 anni non solo è rimasto nell'ombra, ma è stato in grado di costringere tutti al silenzio. Allo stesso modo, la stessa o le stesse persone potrebbero aver costretto prima a collaborare e poi a tacere il camionista che secondo la versione ufficiale avrebbe travolto e ucciso Bergamini. Dalla perizia sarebbe emerso che il corpo del calciatore - come del resto già messo in luce dall'autopsia - non sarebbe finito interamente sotto le ruote dell'autocarro, né sarebbe stato trascinato. Tutti elementi che, secondo indiscrezioni, avrebbero indotto gli investigatori a pensare che Piano sia stato minacciato e costretto a partecipare al delitto. Ipotesi che toccherà alla procura valutare ed esplorare. Per quanto tempo, non è dato sapere. Le indagini continuano sotto stretto riserbo. Ma la sorella del calciatore, Donata Bergamini, adesso - dice - sa di poter attendere con serenità. "Oggi è stato fatto finalmente ciò che doveva essere fatto allora" afferma, provata e stanca, alla fine dell'udienza. "Si tratta di una morte negata per 28 anni, ma sono soddisfatta per il lavoro dei periti e per le spiegazioni che hanno dato. La prima verità è arrivata, perché mio fratello l'hanno soffocato e adesso - ha aggiunto - aspettiamo le altre". Accompagnata dal suo legale, Fabio Anselmo, Donata ha assistito a tutto l'incidente probatorio, ma l'avvocato oggi non era l'unico a darle sostegno. Ad accompagnarla c'era anche Ilaria Cucchi, che per ore ha atteso su una scomoda panca l'esito dell'udienza. "La vicenda di Donata mi ricorda molto quello che stiamo vivendo io e la mia famiglia, anche se per noi la battaglia dura solo da 8 anni. Dico "solo" - sottolinea - ma sembrano già tantissimi". Denis e Stefano non si sono mai conosciuti, la loro morte è avvenuta ad anni di distanza e per motivi probabilmente diversi, ma in un certo senso la loro storia corre su binari paralleli. "Anche per noi - ha detto Cucchi - siamo ad una svolta sulla verità per la morte di mio fratello Stefano. Adesso speriamo che lui, Denis e tanti altri possano vedere riconosciuta la giustizia su quanto accaduto. Io credo ancora nella giustizia - ha concluso - e la mia esperienza e quella di Donata devono essere di esempio per tutti, non bisogna smettere di crederci".
Omicidio Bergamini, la nuova testimonianza: “Pisano diceva che Denis era già per terra”, scrive Iacchite il 30 novembre 2017. Sono passate da poco le 23,30 quando Federica Sciarelli annuncia il “pezzo” di Paolo Fattori sull’omicidio di Denis Bergamini a “Chi l’ha visto?”. La popolare trasmissione di Raitre è stata vicino alla famiglia di Denis fin dal primo giorno e nel corso di questi interminabili 28 anni ha sempre seguito con grande risalto tutta la vicenda. Figurarsi ieri, il giorno dell’incidente probatorio grazie al quale periti di grande prestigio hanno definitivamente chiarito che Denis è stato ucciso. Fattori ripercorre ancora una volta tutti i fatti salienti del caso: Isabella e la sua voglia matta di farsi sposare da Denis, Isabella “peggio dell’Attak” che rincorreva dappertutto Denis con la sua gelosia morbosa, il racconto di Tiziana Rota che si sentì da dire da quella specie di donna che “piuttosto che saperlo di un’altra preferisco che muoia”, i due cugini che le fanno da scorta e la telefonata alla nuova fidanzata Roberta alla quale Denis confida che “qualcuno mi vuole male”. L’annunciata testimonianza inedita è quella di un camionista che quel maledetto pomeriggio si trovava proprio a Roseto Capo Spulico, dietro il camion di Raffaele Pisano da Rosarno, quello che nel “piano diabolico” degli assassini avrebbe dovuto investire Denis. Si tratta di una registrazione audio di Donata Bergamini, che è stata rintracciata non molto tempo fa da questo camionista. “… Nel 1989 ero un ragazzo e quella sera mi trovavo proprio lì, dietro a quel camion. Ricordo che frenò improvvisamente, aspettai qualche secondo e mi chiedevo perché non ripartisse. Allora scesi dal camion e mi avvicinai al lato guida e l’uomo che guidava indicando il cadavere di Bergamini diceva: “Non c’era. Non l’ho visto, era già per terra, era già per terra…”. Voltai lo sguardo e dal lato di là c’erano tre persone tra le quali una ragazza che urlava disperata alla quale chiesi se quell’uomo steso a terra fosse un suo parente…”. La registrazione si ferma qui, non viene specificato come quel camionista abbia lasciato la scena del delitto ma è abbastanza semplice supporre che il procuratore Facciolla lo abbia già ascoltato e che la sua testimonianza faccia parte di un fascicolo che ormai ha la verità in pugno. Una verità che, per il momento, inchioda alle loro gravissime responsabilità Isabella Internò e Raffaele Pisano. In attesa di sapere chi sono i loschi figuri che hanno agito in concorso con loro, che ormai hanno le ore contate.
La perizia riapre il giallo sulla fine di Bergamini. «È morto soffocato», scrive Carlo Macrì su "Il Corriere della Sera", 30 ottobre 2017. Non c’è una conferma ufficiale, ma la morte di Denis Bergamini potrebbe essere stata causata da soffocamento. Non si sarebbe trattato di un suicidio. Il calciatore del Cosenza la sera del 18 novembre del 1989 sarebbe stato prima ucciso e poi gettato sotto il camion che in quel momento passava sulla statale ionica, vicino a Roseto Capo Spulico. Il cadavere del giocatore è stata riesumato nel mesi scorsi dopo la decisione del gip di Castrovillari, Teresa Riggio, che ha accolto la richiesta del procuratore Eugenio Facciolla che ha riaperto l’inchiesta sulla morte del calciatore. Il professor Antonello Crisci, uno dei periti nominati dalla procura, non conferma né smentisce la notizia riportata ieri dal Quotidiano del Sud. Dice: «Non abbiamo ancora depositato nulla, dobbiamo riunirci con i colleghi per mettere a punto i dettagli del lavoro che abbiamo portato a termine». Non sa nulla neanche l’avvocato della famiglia Bergamini, Fabio Anselmo. «Sono comunque molto contento e soddisfatto del lavoro che stanno facendo i periti. Non vedo l’ora di poter leggere la relazione finale», dice. Neanche il procuratore di Castrovillari Facciolla commenta la notizia, mentre il maggiore del Ris di Messina, Sergio Schiavone, che sta lavorando alle indagini sulla morte di Bergamini, si dice all’oscuro di tutto. Il Ris ha avuto incarico dalla Procura di Castrovillari di analizzare l’auto di Bergamini nella speranza di trovare qualche traccia che potesse condurre gli inquirenti a ipotizzare la causa della morte del calciatore rossoblù. Il Quotidiano del Sud scrive che il risultato della superperizia non «collima con la tesi del suicidio sotto il camion in corsa e rafforza l’esito della consulenza del Ris di Messina, incompatibile con l’ipotizzato decesso causato dall’impatto con l’autocarro in movimento». I magistrati hanno messo in dubbio che Denis fosse stato travolto da un camion e questa superperizia avrebbe lo scopo di sgomberare il campo dall’ipotesi. La famiglia del giocatore da 28 anni si sta battendo per conoscere la verità sulla sua morte, convinta che Denis non avesse nessun motivo per suicidarsi. Per Donata Bergamini, sorella del calciatore, Denis sarebbe stato ucciso prima di essere gettato sotto il camion. Due precedenti inchiesta non sono bastate per risolvere il giallo. Per la morte di Denis sono indagati l’ex fidanzata Isabella Internò e l’autista del camion Raffaele Pisano. La ragazza sarebbe stata l’ultima persona a vedere il calciatore. Si parlò all’epoca di un litigio tra i due che spinse Denis a buttarsi sotto il camion. Una ipotesi cui sembrerebbe non credere la Procura, che ipotizza scenari criminali. Secondo la famiglia, il corpo di Denis non presenterebbe traumi da schiacciamento e, soprattutto, l’orologio e la catenina al collo avrebbero dovuto frantumarsi con l’impatto sull’asfalto, invece sono rimasti intatti. Altri oggetti che portava addosso Bergamini non hanno subito danni, come accertarono le perizie del tempo. Le prime indagini hanno stabilito che Denis Bergamini è stato schiacciato dalle ruote del camion: l’autista non si sarebbe accorto di lui, pioveva e la visibilità era scarsa.
Svolta sul caso Bergamini. Nuova perizia: "È morto soffocato". A 28 anni dalla morte del calciatore del Cosenza, una nuova perizia sostiene che non sia morto nell'impatto con il camion contro il quale si sarebbe lanciato per suicidarsi, scrive Alessia Candito il 29 ottobre 2017 su "La Repubblica". Denis Bergamini non si è suicidato lanciandosi contro un camion in corsa, ma è stato soffocato. Secondo indiscrezioni sono queste le conclusioni della perizia chiesta dal procuratore capo di Castrovillari Eugenio Facciolla, che riapre il caso Bergamini a quasi 28 anni esatti dalla morte del calciatore del Cosenza. Un suicidio, secondo la sua fidanzata dell'epoca, Isabella Internò, che ad inquirenti e investigatori ha sempre raccontato che il 18 novembre del 1989, dopo un'accesa discussione, il giovane centrocampista si sarebbe spontaneamente tolto la vita, lanciandosi sotto un camion sulla statale 106, all'altezza di Roseto Capo Spulico (Cosenza). Ma i familiari e gli amici di Denis non le hanno mai creduto. E anche magistrati e investigatori hanno sempre espresso dubbi sulla sua versione dei fatti. Per questo la donna in passato è finita sotto indagine, al pari dell'autista del camion che ha investito il calciatore, Raffaele Pisano. Sebbene tanto l'autopsia, come le simulazioni del Ris negli anni abbiano messo in dubbio la dinamica dell'incidente raccontato dai due, non ci sono mai stati elementi sufficienti per procedere contro di loro e le due inchieste sono state archiviate. Adesso però, la nuova perizia chiesta dalla procura e disposta dal gip di Castrovillari, potrebbe segnare una svolta, perché per la prima volta c'è una ricostruzione alternativa della morte del calciatore, che cambia completamente il quadro. Se Bergamini è stato soffocato, tanto Internò come Pisano hanno mentito. E da quasi trent'anni c'è un assassino a piede libero. I magistrati lo cercano da tempo. Da quando il procuratore capo Facciolla ha aperto la terza inchiesta sulla morte del calciatore, le indagini sono state portate avanti a largo raggio. Un nuovo avviso di garanzia è stato recapitato nei mesi scorsi a Internò e Pisano, ma i due potrebbero non essere gli unici nel mirino della procura. Gli investigatori hanno battuto nuove piste e sono stati ascoltati nuovi testimoni, che secondo alcune fonti avrebbero disegnato scenari inediti e indotto i magistrati a iscrivere nuovi sospetti sul registro degli indagati. Chi siano, al momento, non è dato sapere. Tutto viene tenuto sotto stretto riserbo, ma nuove svolte potrebbero non tardare ad arrivare.
Denis Bergamini soffocato, la sorella: "Ho fiducia nella giustizia". Trapelano i primi risultati dopo la riesumazione dei resti del calciatore del Cosenza deceduto 28 anni smentiscono il suicidio. Colpo di scena: si indaga per omicidio, scrive il 30 ottobre 2017 "Tgcom24". "I nuovi esami si sono rivelati fondamentali, troppi elementi smentivano il suicidio e ora, dopo 30 anni, ho fiducia nella giustizia". Commenta così su La Repubblica Donata Bergamini, sorella di Denis, il calciatore del Cosenza morto il 18 novembre 1989, le indiscrezioni sui risultati dell'ultima perizia anticipati dal Quotidiano del Sud. Dalle analisi, infatti, sui resti del giocatore riesumati di recente, risulterebbe che Denis sarebbe morto soffocato e non gettandosi sotto un camion sulla statale ionica, vicino a Roseto Capo Spulico (Cosenza). La rabbia della sorella: "Prima della seconda archiviazione avevamo chiesto queste analisi". Una prima vittoria, dunque, per la famiglia che non ha mai creduto al suicidio del congiunto e che non si è arresa davanti all'archiviazione del caso per la seconda volta. "Ufficialmente non ci è stato comunicato nulla - aggiunge a La Repubblica la sorella del calciatore Donata Bergamini. - Avremo un incontro con il gip di Castrovillari il 29 novembre e non posso anticipare niente. Ma ho tanta rabbia dentro, perché i nuovi esami si sono rivelati fondamentali e ne avevamo fatto richiesta prima della seconda archiviazione per suicidio". "Fin dal principio - continua - tanti elementi non quadravano e da subito sono stati troppi per essere considerati semplici errori. Di certo troppi per chiudere il caso". Così la terza inchiesta riparte con nuovi spunti investigativi.
La vicenda e la terza inchiesta. Dopo 28 anni, dunque, l'esito della super perizia medico-legale disposta dal gip del tribunale di Castrovillari sul cadavere del calciatore del Cosenza contribuirebbe a dare nuovo impulso a una vicenda mai chiarita. Un risultato quello del nuovo sofisticato esame autoptico che, come riporta Il Quotidiano del Sud, "non collima con la tesi del suicidio sotto il camion in corsa e rafforza, invece, l'esito della consulenza del Ris di Messina, incompatibile con l'ipotizzato decesso causato dall'impatto con l'autocarro in movimento". La salma di Denis Bergamini - la cui morte, avvenuta il 19 novembre del 1989 venne attribuita al gesto volontario di togliersi la vita - è stata riesumata a luglio dopo la riapertura dell'inchiesta da parte del Procuratore della Repubblica di Castrovillari Eugenio Facciolla. Due precedenti inchieste della magistratura non erano, evidentemente bastate a sgombrare il campo da dubbi e perplessità per quello che per molti, soprattutto per i familiari e per tanta parte della tifoseria cosentina rimasta fortemente legata al calciatore di Argenta (Ferrara), era stato archiviato come suicidio. Una tesi quella che avrebbe portato Bergamini a togliersi la vita alla quale da subito non avevano creduto i familiari e le persone a lui più vicine. E sono stati loro, in particolare la sorella Donata a lottare contro quel verdetto e a fare riaprire le indagini. L'ipotesi della Procura è quella di omicidio e su queste basi sono attualmente indagati l'allora fidanzata del giocatore, Isabella Internò, e l'autista del camion che investì il calciatore, Raffaele Pisano. Forse Denis era venuto a conoscenza di affari che non avrebbe dovuto sapere. Il procuratore della Repubblica di Castrovillari Eugenio Facciolla, rintracciato telefonicamente dall'Ansa, non ha voluto, al momento, rilasciare commenti.
Il calciatore soffocato con un sacchetto di plastica, la verità ritorna dopo quasi 30 anni. E sconvolge tre famiglie. Il caso archiviato come suicidio è stato riaperto dopo 28 anni. Com'è possibile che un uomo trascinato da un camion che pesa 138 quintali sull’asfalto per 60 metri non abbia nessun segno? Neanche il fango sui vestiti? Scrive Pierangelo Sapegno su "Tiscali News" il 30 ottobre 2017. Adesso Denis Bergamini potrà avere la verità che chiedevano la sua famiglia e sua sorella, Donata, e i suoi amici e tutti quelli che non avevano mai creduto alla versione ufficiale, come Carlo Petrini, centravanti un po’ sfigato del Milan e della Roma, che su questa storia ci aveva scritto pure un libro, «Il calciatore suicidato». Denis Bergamini era un mediano del Cosenza, di quelli tutti anima e cuore come nella canzone di Ligabue, una vita da mediano a rincorrere gli altri e la vita, serie B, e Fiorentina e Parma che lo volevano nel football che conta. Aveva 27 anni, quando il 18 novembre del 1989 fu trovato morto al chilometro 401 della statale Ionica 106 vicino a Roseto Capo Spulico. «Si è buttato sotto il camion», disse la sua ex fidanzata, Isabella Internò. «Non sono riuscito a fermarmi», raccontò Raffaele Pisano, l’autista del Fiat Iveco 180, che passava con il suo carico di mandarini. Il caso fu archiviato subito: suicidio. Ci sono voluti 28 anni e la super perizia medico-legale richiesta dal Gip del Tribunale di Castrovillari, Teresa Riggio, per mettere nero su bianco quello che sua sorella Donata gridava da allora e che la prima autopsia dell’epoca e gli esami del Ris avevano in fondo già ipotizzato: Denis Bergamini è morto «per soffocamento». Dunque, è stato ucciso. Sotto al camion, se davvero c’è mai finito, era già senza vita.
Il primo passo. E’ solo il primo passo di questo mistero così ingarbugliato da essersi perso nella polvere degli anni e di tutte le carte ingiallite ammucchiate sugli scaffali della Giustizia. Perché sin dall’inizio era così pieno di incongruenze e di domande senza risposte da lasciar spazio a un mucchio di ipotesi, anche quelle più fantasiose. Carlo Petrini non aveva scritto cose campate in aria, ma forse s’era sbagliato anche lui, che aveva visto Denis come la vittima di un fosco e tentacolare giro di calcio scommesse. Molto più probabilmente la morte di Bergamini è il delitto di una storia privata. Adesso gli inquirenti ipotizzano il soffocamento con un sacchetto di plastica, e, una volta stordito, un colpo al fianco sinistro con un attrezzo di lavoro per edilizia. Ma se è così, crolla completamente la versione ufficiale, quella che per 28 anni ha retto a tutti i dubbi e a tutte le domande. Quel 18 novembre Denis Bergamini era al cinema con i suoi compagni. I testimoni raccontano che arrivò una telefonata e lui uscì subito. Sulle carte c’è scritto che fuori avrebbe incontrato due persone, rimaste poi non identificate. Isabella Internò, la sua ex fidanzata, disse che lui passò a prenderla a casa alle 16 con la sua Maserati bianca e che andarono verso Roseto, 100 km da Cosenza. Si erano lasciati da due mesi. Era lui che aveva interrotto la storia. Era innamorato di una ragazza delle sue parti, Boccaleone di Argenta (Ferrara), e sua sorella Donata dice che era felice e che voleva sposarsi. La storia con Isabella era durata 4 anni, un amore anche turbolento, tra alti e bassi e con un aborto di poco tempo prima, quando lei gli aveva detto che era incinta e lui si era rifiutato di sposarla: «non posso restare una ragazza madre a Cosenza», aveva pianto l’ex fidanzata, «sarei rovinata». Avevano deciso di fare l’intervento a Londra. E il loro amore era finito così. Ma quel giorno, raccontò Isabella, era venuto a prenderla per chiederle di andare via con lui, che non ne poteva più del mondo in cui viveva. «Voleva andare alle Hawai o in Amazzonia, ma io gli dissi di no». Per questo si sarebbe ucciso, urlando «Ti lascio il mio cuore» mentre si gettava sotto il camion. A verbale, davanti al sostituto procuratore Ottavio Abbate, Isabella Internò a domanda risponde: «Si è buttato sotto le ruote, tuffandosi nella stessa posa che si usa quando uno si tuffa in piscina, le braccia protese in avanti, il corpo teso orizzontalmente». Raffaele Pisano, l’autista del camion, conferma tutto: «Non sono riuscito a evitarlo e l’ho trascinato per più di 50 metri». Cinquantanove, precisa il verbale dei carabinieri arrivati sul posto.
"Quelle mani protese". Ma quelle mani «protese in avanti» non avevano un graffio. E pure i piedi, le gambe, le spalle. C’è solo una piccola abrasione sulla fronte, vicino all’attaccatura dei capelli, sul lato sinistro, una macchia grigio cenere venata di rosso. Anche i vestiti sono intatti, il gilet di raso, la camicia, i pantaloni, le scarpe di pelle, i calzini a losanghe tirati su fino al polpaccio. E pure il suo orologio non è rotto ed è senza segni. L’hanno restituito a Donata, che lo tiene ancora accanto a sé, in camera: il quadrante senza la minima scalfittura, il cinturino in pelle marrone perfettamente liscio, le lancette che girano, e continuano a girare da allora, come una ossessione senza fine che insegue la verità negata. I dubbi sono scritti nero su bianco dai Gis: com’è possibile che un uomo trascinato da un camion che pesa 138 quintali sull’asfalto per 60 metri non abbia nessun segno? Neanche il fango sui vestiti?, perché quel giorno pioveva e c’erano le pozzanghere sulla strada. Però tutto questo non è bastato per riaprire le indagini. Neanche le testimonianze dei suoi compagni che avevano raccontato come lui fosse un ragazzo felice e allegro, che non sembrava proprio pensare a nessun suicidio, molto esuberante, sempre pronto tutti i giorni a organizzare uno scherzo negli spogliatoi. Michele Padovano, calciatore poi passato alla Juve e al Napoli, era un grande suo amico e, come ha rivelato il procuratore di Castrovillari Eugenio Facciolla, disse che il giorno del funerale lo fecero salire a casa di Isabella e li trovò che avevano le tavole imbandite di paste come a una festa. Forse erano normali usanze. Però, quel giorno l’ex fidanzata si fa accompagnare in un bar, dopo la morte di Denis, e dice al signore che aveva fermato di chiamare lui i carabinieri. Lei, invece, telefona a sua madre e a Gigi Simoni, l’allenatore del Cosenza. Ora che gli esami medici riaprono il caso, anche le cose più banali possono sembrare strane. Isabella oggi ha 45 anni, una bella famiglia felice e due figlie. E’ indagata per omicidio. E Raffaele Pisano che di anni ne ha 79 per falsa testimonianza. La verità che ritorna può diventare un incubo. Anche Donata ha delle figlie. Le hanno sempre chiesto come era morto lo zio. «E io non ho mai saputo cosa rispondere». Gli diceva: «Stiamo cercando la verità». Oggi che è più vicina, ti accorgi che fa ancora più male dopo quasi 30 anni. La verità è come la rivoluzione. Non è una passeggiata.
Omicidio Bergamini, la perizia di Giorgio Bolino: “Denis soffocato con un sacchetto di plastica”, scrive Iacchite il 16 novembre 2017. L’indiscrezione era stata pubblicata il 29 ottobre scorso dal giornalista Paolo Orofino ed è stata puntualmente confermata: è di quelle che buttano la mazzata definitiva a quei pochi che ancora ciarlavano della tesi del suicidio per la tragica morte di Denis Bergamini. La superperizia effettuata sulla salma di Denis non lascia spazio ad equivoci: Bergamini è morto per soffocamento. Un particolare che chi ha seguito il caso ricollega immediatamente alla prima autopsia del professore Avato e alla perizia del medico legale Giorgio Bolino. Il professore Avato fa notare sin dal principio che c’è stato un unico punto d’impatto tra l’autotreno e il calciatore. E come sia impossibile il trascinamento, come le ferite siano concentrate solo su una parte (il fianco destro) e riconducibili a un sormontamento del camion, vale a dire le ruote fatte passare sopra un corpo steso per terra (e già cadavere come diranno le recenti consulenze, a partire da quella del Ris). Avato per spiegare meglio usa la metafora di un frutto schiacciato ed esploso. E’ quello accaduto alla parte destra del fianco di Bergamini. Ma sul resto del corpo il giocatore non presenta ferite, i vestiti (come dimostrano altre foto scattate sul posto da Barbuscio) sono intatti, le scarpe ben strette ai piedi, persino le calze sono tirate su. E poi c’è il viso: secondo i testimoni Bergamini si sarebbe buttato a pesce sotto le ruote e poi trascinato ma sul viso di Denis non c’è neanche un graffio! Questo è raccontato agli inquirenti, ma il presunto suicidio non è mai messo in dubbio nonostante il corpo di uno sfortunato ragazzo dica altro. Gli inquirenti non cambiano idea neppure dopo l’autopsia di Avato. Anzi, quella perizia finisce dimenticata, l’incidente probatorio evaporato. Nessun credito viene dato all’autopsia effettuata dal dottor Francesco Maria Avato. Il pm Ottavio Abbate (che rimarrà al suo posto di presidente del Tribunale di Castrovillari fino a dopo la riapertura del caso Bergamini!!!) e il pretore Mirabile hanno evidentemente giocato sporco. Nel cadavere si riscontravano tracce di alcol etilico pari allo 0,6 e una sofferenza polmonare. Però il giovane era astemio e non ha mai avuto problemi respiratori. Qualcuno ipotizzerà un possibile uso di narcotico a danno della vittima. Ma la spiegazione è un’altra, secondo la perizia del medico legale Giorgio Bolino, della facoltà di Farmacia e Medicina dell’Università La Sapienza di Roma. Bolino, abruzzese di Sulmona, 53 anni, per la precisione, lavora al Dipartimento di Scienze Anatomiche, Istologiche, Medico-legali e dell’apparato Locomotore dell’ateneo romano. Ed è uno dei medici legali di maggiore esperienza de “La Sapienza”. Nell’autopsia, il professore Avato evidenziava una certa qual sofferenza polmonare (aspetti congestizi e di edema, di enfisema acuto) e anche cardiaca. Questo induceva il perito Bolino a ipotizzare che Bergamini potesse essere stato asfissiato meccanicamente magari mediante l’applicazione di un sacchetto di plastica aderente al volto. Ciò avrebbe comportato una morte rapida con rapido stato di sofferenza anossica, tale da consentire il posizionamento del corpo sul manto stradale ad opera di terzi. E’ per questo che non ci sono tracce di condotta difensiva, anche istintiva. E’ evidente che in questa operazione sono state coinvolte più persone in grado di sopraffare fisicamente la vittima. Bolino ha anche scritto un libro su queste scottanti tematiche, dal titolo “Asfissie meccaniche violente” edito da Feltrinelli. “Abbiamo rappresentato al gip l’opportunità di fare degli esami – aveva detto l’avvocato Fabio Anselmo -. Facendo la riesumazione e sottoponendo a Tac il corpo del povero Bergamini si potrebbero ottenere risultati inaspettati”. Questo affermava il legale e finalmente il procuratore Facciolla ha aderito alla richiesta di Fabio Anselmo dopo l’incredibile archiviazione della “maschera di gomma”, il pavido ex procuratore di Castrovillari Franco Giacomantonio. In particolare si cercava di capire se Denis fosse ancora vivo o già morto al momento in cui venne sormontato dal camion. “Potrebbe anche dire quanto tempo prima era morto”, aggiunge il legale. E Anselmo ribadiva che l’anatomopatologo Bolino ha avanzato l’ipotesi che Bergamini fosse stato prima soffocato con un sacchetto di plastica per essere poi steso sulla strada. Questa tesi è stata finalmente presa in seria considerazione da un magistrato che non risponde alle logiche deviate di Ottavio Abbate, Antonino Mirabile e del pavido Franco Giacomantonio. Certo, è ancora presto per dire che l’aria è definitivamente cambiata. Ma non c’è dubbio che Isabella Internò e i suoi protettori hanno ripreso a passare giornate difficili. Il loro castello d’argilla prima o poi cadrà. Questa terra è in mano ai poteri forti ma questo omicidio è una delle pagine più nere della nostra storia. E non può rimanere impunito.
Bergamini è stato ucciso con una sciarpa da più persone, scrive Arcangelo Badolati il 16 novembre 2017 su “La Gazzetta del Sud”. I consulenti medico-legali confermano: il calciatore del Cosenza soffocato. Demolita la vecchia ipotesi del suicidio. Parla Donata, sorella della vittima: abbiamo lottato per 28 anni e finalmente si conosce la verità. Un delitto quasi perfetto. Con la vittima immobilizzata da più persone e poi soffocata usando una sciarpa di lana. Denis Bergamini sarebbe stato ucciso durante un convulso incontro avuto lungo la Statale 106 ionica, lontano da occhi indiscreti, in territorio di Roseto Capo Spulico. Quella del suicidio sarebbe stata, dunque, una messinscena attuata per celare un omicidio posto in essere usando un indumento destinato a non lasciare tracce evidenti. Uno strangolamento, infatti, avrebbe provocato ematomi e lesioni chiaramente rilevabili, mentre il soffocamento produce effetti meno visibili. Siccome, però, i «morti parlano» come sanno tutti gli appassionati di medicina legale, la nuova perizia autoptica eseguita sul cadavere del calciatore del Cosenza a 28 anni di distanza dalla morte, ha rivelato elementi determinanti ai fini delle indagini. Elementi scientifici che dimostrerebbero l’attuazione di un’azione meccanica di soffocamento. Un’azione posta a cagione del decesso e realizzata con una forza sica adeguata. Una forza capace di neutralizzare la naturale resistenza, la veemente reazione, di un atleta ventottenne, nel pieno del vigore e perfettamente allenato. Se, dunque, la consulenza depositata ieri al Gip di Castrovillari offre questo quadro e la chiave di lettura dell’evento è da ricondursi ad un omicidio, a soffocare l’idolo della tifoseria rossoblù non può essere stata una sola persona. Ciò significa che il procuratore di Castrovillari, Eugenio Facciolla, che conduce personalmente l’inchiesta, ha già messo gli investigatori al lavoro per individuare le persone che in quella tragica sera di novembre del 1989 erano insieme alla vittima. Con Denis Bergamini non vi era solo l’ex danzata, Isabella Internò, ma qualcun altro che raggiunse la coppia che s’era inspiegabilmente spostata da Cosenza a Roseto a bordo della Maserati del calciatore. Perché lasciare il capoluogo bruzio alla vigilia di un importante incontro di campionato? Mai Bergamini in occasioni simili si era allontanato dai compagni di squadra. Perché dirigersi verso un’area della provincia tanto distante? Se la tesi dell’omicidio dovesse trovare definitiva conferma in sede processuale, se ne dedurrebbe che lo spostamento venne ideato e programmato per consentire agli aggressori di sfuggire ad eventuali testimoni. Denis Bergamini era un personaggio notissimo a Cosenza e Rende, facilmente riconoscibile da chiunque. Se qualcuno aveva deciso di “punirlo” non avrebbe certo potuto farlo nell’area urbana bruzia. Venne pertanto prima soffocato e poi “suicidato” a 100 chilometri di distanza. In una serata di pioggia e lungo un’arteria stradale lontana e trafficata. Il cadavere del calciatore venne ritrovato in una sera sferzata dal vento di tramontana al chilometro 401 della Statale 106. Denis venne travolto e ucciso da un Tir, sotto il quale - dissero la ex danzata e l’autista del mezzo, Raffaele Pisano originario di Rosarno - si era volontariamente lanciato. Una tesi che successivamente i giudici della Corte d’appello di Catanzaro fecero propria nella sentenza che mandò in archivio l’inchiesta sul decesso come «morte per suicidio». Nessuno tenne in considerazione le contraddizioni che pur emergevano dalle carte processuali. Donata Bergamini, sorella di Denis, ieri ha detto: «La mia famiglia ha lottato per 28 anni: mio fratello è morto per soffocamento senza se e senza ma. Finalmente si riconosce la verità».
"Sono a conoscenza che oggi è stato effettuato il deposito. Ma io ero presente alle operazioni peritali. La mia famiglia ha lottato per una verità negata per 28 anni, consentitemi almeno questo: mio fratello è morto soffocato, senza se e senza ma. Lo sapevo già attraverso i miei consulenti. Finalmente si riconosce la verità". È quanto scrive, sul suo profilo Facebook, Donata Bergamini, sorella di Denis, il calciatore del Cosenza che morì, in situazioni ancora oggi poco chiare, nel novembre del 1989. Al presunto suicidio la famiglia non ha mai creduto. Dopo l'ennesima riapertura dell'inchiesta, oggi si apprende che è stata depositata la super-perizia secondo la quale il calciatore sarebbe morto, a 27 anni di età, per soffocamento. La salma del calciatore era stata riesumata lo scorso luglio.
Bergamini, 20 anni di omertà. “Il calciatore suicidato” e le convinzioni (sbagliate) di Carlo Petrini, scrive Gabriele Carchidi su Iacchite il 7 novembre 2017. Con Carlo Petrini abbiamo appuntamento al Punto Snai di Lucca. E’ il 9 giugno del 2008. Ha ancora un fisico aitante ma porta un cappello per nascondere i segni della chemioterapia e si vede lontano un miglio che soffre agli occhi e che è tremendamente travagliato. Ci dice che si è meravigliato molto quando gli abbiamo chiesto di intervistarlo perché ricorda che quando venne a Cosenza, parlare di Bergamini era quasi tabù. Io gli confesso di aver letto molto superficialmente il suo libro “Il calciatore suicidato” ma che comunque ho capito dove vuole andare a parare. Lui mi guarda con un po’ di diffidenza e mi dice che è impossibile che noi cosentini non sappiamo chi è stato ad ammazzare Denis. Diciamo che la prima sensazione è quella di avere davanti uno che ha già deciso da che parte stare: lui pensa che sia stata la malavita cosentina a far fuori Denis e ce lo dice con franchezza. Io gli rispondo che forse ha ragione ma che ancora non ho gli elementi per accodarmi alla sua tesi. Gli chiedo quali sono, a suo avviso, gli elementi più forti che lo portano a questa conclusione e inizio a capire che la longa manus del depistaggio è arrivata fino a lui facendogli scrivere anche delle cose non solo fantasiose ma sinceramente grottesche. Tipo la storia della fantomatica Damatiana De Santis, falso nome di una presunta studentessa di Matematica a Cosenza che gli manda un plico alla Kaos edizioni. Damatiana rivela che a Bergamini venivano date scatole di cioccolatini quando il Cosenza andava a giocare al nord, ma all’interno veniva nascosta la droga da spacciare. Per questo è stato ucciso Donato? Perché ha scoperto il trucco e si è rifiutato di continuare? Resto perplesso perché penso che quella maledetta macchina l’ha comprata appena quattro mesi prima di morire ma non posso dare per scontato che sia una balla, almeno in quel momento.
Carlo Petrini è convinto che domenica 12 novembre 1989, quando passa la notte all’Hotel Hilton di Milano in compagnia di un’amica, Giuliana T., dopo aver giocato la partita di Monza, abbia detto proprio a lei che quella sarebbe stata l’ultima volta, e che per questo sarebbe stato ucciso. L’ultima volta che avrebbe trasportato droga? O l’ultima che avrebbe partecipato a una partita truccata? Sì, perché Carlo Petrini ci apostrofa pesantemente non solo sul fatto della malavita ma anche sull’altra ipotesi, collegata al Totonero e al coinvolgimento della malavita nelle partite truccate e nelle scommesse clandestine sul Cosenza. Di sicuro, ci fa notare che il boss Franco Pino ha confessato in un processo di aver truccato la partita Cosenza-Avellino 2-1 del campionato precedente alla morte di Denis. Ha tenuto in ostaggio sulle tribune del San Vito la moglie di un giocatore ospite per essere certo che si verificasse il risultato atteso. Ce ne erano state altre? Bergamini l’aveva scoperto? Altre balle spaziali, certo, ma non posso dare tutto per scontato e ho ancora paura che ‘sta maledetta malavita c’entri davvero nell’omicidio e sono costretto a ingoiare il rospo ed a farlo parlare. E poi si mantiene per ultima la storia di Michele Padovano, compagno di camera di Denis, che al suo funerale disse al padre Domizio: “Se tuo figlio me lo avesse detto, io conoscevo un pezzo da novanta che avrebbe messo tutto a posto”. Ma cosa bisognava mettere a posto? Me me vado con la testa in fiamme: avrei dovuto fargli io le domande e invece mi sono trovato davanti uno che mi ha quasi aggredito perché riteneva impossibile che non conoscessi la verità. Da quell’incontro non c’è stato più un giorno della mia vita nel quale non ho pensato a Denis Bergamini e a quello che c’è dietro il suo omicidio. Questa storia è come un vortice o una calamita come diceva Oliviero Beha ed è impossibile staccarsene. Dico a Petrini che ci rivedremo presto perché ci sono ancora troppe cose che non mi quadrano. Vado a rileggermi il libro e stavolta seriamente: due, tre, quattro volte…Quando il sostituto procuratore Abbate interroga Isabella, alla domanda se si fosse legata a qualcuno dopo aver interrotto il rapporto con Donato, risponde così: “… Non mi sono legata a nessun altro. Avevo però il conforto delle mie amiche, e anche del mio amico di famiglia a nome Conte Luciano, che è un poliziotto della digos e presta servizio a Palermo… con il Conte intercorrono rapporti telefonici…”. Il particolare viene inserito nel libro “Il calciatore suicidato” a pagina 38, ma di Isabella e del poliziotto della digos, purtroppo, non si tornerà più a parlare nelle pagine scritte con grande ardore da Carlo Petrini. Me la lego al dito, gli ritelefono e gli dico che appena salirò per andare a Ferrara mi fermerò da lui per parlarne approfonditamente. Sì, perché nel frattempo abbiamo deciso che andremo a casa Bergamini subito dopo il ventennale della morte di Denis. E infatti su Cosenza Sport tutto è iniziato il 16 novembre 2009, due giorni prima del ventennale della morte di Denis Bergamini. Abbiamo deciso di dedicare una fortunata copertina al nostro Campione (l’hanno “adottata” praticamente tutti gli organi di informazione, sia sul web che in tv) e abbiamo iniziato da quel giorno una lunga inchiesta.
IL PRIMO EDITORIALE – 16 NOVEMBRE 2009 – Vent’anni fa Cosenza venne messa a dura prova dall’omicidio di Denis Bergamini. Che fare davanti ad un evento così traumatico per migliaia e migliaia di tifoso o magari semplici sportivi? Accettare l’assurda tesi del suicidio o cercare la verità? Nessuno di noi cosentini avrebbe potuto smuovere le montagne dei poteri forti. Sì, perché non c’era dubbio che quell’omicidio fosse stato reso possibile da chi guida le sorti della nostra città. La malavita, le forze dell’ordine, la magistratura, la società del Cosenza Calcio, gli stessi compagni di squadra di Bergamini, i giornalisti. Tutti, nessuno escluso, conoscevamo la genesi di quel “pasticciaccio”. Abbiamo deciso tutti di tacere. “Sulla sua morte – scrive Carlo Petrini nella prefazione de “Il calciatore suicidato” – è stata fatta un’inchiesta superficiale, piena di buchi e di errori, che ha dovuto fare i conti con un muro di omertà costruito all’interno della squadra (e della città, aggiungeremmo noi, ndr). La magistratura prima ha dato credito alla tesi che si fosse trattato di un suicidio, poi ha cambiato idea e il suicidio è diventato omicidio colposo ma alla fine del processo l’imputato – un camionista di Rosarno – è stato assolto. Per la pubblica accusa il giocatore non era un suicida, per i giudici non era stato ucciso. Così si potrebbe concludere che Donato Bergamini è stato suicidato…”. Il calcio ci ha messo subito una pietra sopra, il giornalismo altrettanto. Carlo Petrini ha fatto “quello che nessuno dei giornalisti sportivi ha mai fatto: loro sono troppo impegnati a leccare il culo del potere pallonaro e dei suoi divi per occuparsi di un giocatore di serie B ammazzato come un cane…”. Bergamini è stato ucciso dall’ambiente, purtroppo il nostro ambiente, in cui “era finito – accusa Petrini – e nel quale è rimasto cinque anni senza rendersene conto o senza avere la forza per scapparsene. Un errore o una debolezza che gli è stata fatale”. Noi cosentini, pertanto, dovremmo riflettere a lungo sulla città nella quale abitiamo e lavoriamo. Una città che non è quasi per niente cambiata dal 1989, nonostante il decennio manciniano, servito soltanto a buttare un po’ di fumo negli occhi a tutti.
CARLO PETRINI CAMBIA IDEA. Qualche giorno dopo salgo a Ferrara e mi fermo a Lucca e pongo a Carlo Petrini la domanda che avrei dovuto fargli subito: ma non lo sapevi che Isabella si era maritata proprio con quel poliziotto lì? Mi giura e spergiura che non lo sapeva e stavolta ad incalzarlo sono io: vedi che la malavita non c’entra niente e che, semmai, è stato lo stato deviato a far fuori Denis perché aveva “osato” non sposarsi con quella lì? Petrini annuisce e mi promette che mi darà soddisfazione. Manterrà la sua parola. Diretta Radio Sport, la storica trasmissione di Radio Libera Bisignano (prima che finisse nelle grinfie del mercenario della pubblicità e della politica corrotta), ha rotto gli indugi ed è scesa in campo con decisione per cercare la verità sul caso Bergamini. Eliseno Sposato, Piero Bria e Daniele Mari hanno dato una grande dimostrazione di coraggio. Federico Bria ha ricordato la figura di Denis con commozione e incisività. Poi è toccato a me, che ho fatto il punto sulle ultime novità scaturite dalle inchieste giornalistiche. In particolare, ho anticipato che “Chi l’ha visto?” ha finalmente rintracciato Isabella Internò e il marito-poliziotto. «Il poliziotto – gli rivelai perché ero stato io ad indicare al giornalista Emilio Fuccillo la casa di Isabella – ha apostrofato in malo modo il giornalista di “Chi l’ha visto?”. Minacciandolo quasi in stile mafioso… A questo punto, o il poliziotto ha la coda di paglia oppure sa qualcosa e non collabora alla ricerca della verità». Subito dopo è intervenuto Carlo Petrini. I giornalisti di Rlb l’hanno informato dei fatti nuovi e l’ex calciatore ha affermato testualmente: «Seguire la pista che porta al marito di Isabella Internò non solo è giusto ma potrebbe portare a grosse sorprese». Un’affermazione che apriva realmente nuovi scenari per interpretare il “giallo” e che dimostrava come Carlo avesse cambiato idea. Petrini ha ribadito con forza che Bergamini è stato ucciso, ricordando tutte le incredibili incongruenze delle indagini e l’omertà dei dirigenti e dei calciatori del Cosenza dell’epoca. E per me è stato un grande onore ricevere la denuncia dei coniugi diabolici e vedere che oltre a me tra i querelati c’era anche Carlo Petrini. Un modo come un altro per dirmi che avevo ragione da vendere. Carlo Petrini aveva concluso la sua intervista ai colleghi di Rlb (quelli buoni…) auspicando la riapertura del caso e annunciando il suo arrivo in Calabria. Purtroppo la sua malattia non glielo ha consentito ma quando arriveremo alla verità, non c’è dubbio che un grande riconoscimento pubblico andrà fatto soprattutto a lui. Ciao Carlo, dovunque ti trovi adesso so che stai tifando per noi.
Bergamini, 20 anni di omertà: i depistaggi, la rabbia di Padovano e il nulla di Abbate, scrive Iacchite l'8 novembre 2017. Proseguiamo la ricostruzione dei giorni immediatamente successivi all’omicidio di Denis Bergamini. Martedì 21 novembre 1989, all’indomani del funerale, diversi media pubblicano la notizia della misteriosa intimidazione ai danni di Bergamini in un ristorante di Laurignano. In più, iniziano le congetture sul possibile uso della Maserati per trasportare droga. Si parla di difficoltà economiche, di amicizie chiacchierate e persino di totonero. E’ un’agenzia di stampa romana che avanza quest’ultima ipotesi e l’indiscrezione viene ripresa dai deputati radicali Francesco Rutelli, Emilio Vesce e Mauro Mellini, che rivolgono una interrogazione parlamentare ai ministri dell’Interno, di Grazia e Giustizia e del Turismo. “E’ poco probabile che in questa vicenda possa entrarci in qualche modo una delusione d’amore – si legge nell’interrogazione – visto che lo stesso Bergamini aveva interrotto la propria relazione con la signorina Internò”. L’interrogazione proseguiva poi domandando “cosa ci sia di vero sulle notizie di un coinvolgimento in questa vicenda della malavita del Cosentino e sulle ipotesi che dietro questo episodio ci sia il giro del totonero”, e terminava con la richiesta di “verificare l’eventualità di un coinvolgimento della malavita all’interno del mondo del calcio come già in passato è venuto alla luce”. Quanto basta per indispettire i compagni di squadra. Il giornalista Santi Trimboli, che all’epoca lavorava per il Corriere dello Sport-Stadio, rivela di aver ricevuto una telefonata “di fuoco” da Michele Padovano. «Sto leggendo cose incredibili, assurde – diceva l’attaccante al giornalista -. Sono tutte cattiverie: lo state uccidendo una seconda volta. Da questo momento faremo il silenzio stampa. Donato non aveva alcun motivo per uccidersi, è tutto falso. Denis aveva dei genitori eccezionali, amava il suo lavoro, non aveva rapporti con gente chiacchierata, non soffriva di disturbi psichici. Giovedì sera abbiamo cenato insieme. Nessuno, come invece è stato scritto, è venuto a prenderlo al ristorante. Finito di cenare, siamo tornati subito a casa. Io non so cosa possa averlo spinto sabato, mentre eravamo al cinema, a telefonare a Isabella che non vedeva più da tre mesi e a lasciare Cosenza. Mi sento di poter escludere che abbia voluto uccidersi. Lo dice Isabella, ma come dare credito a una ragazza sotto shock?». In molti si interrogano sui motivi che hanno indotto la Procura di Castrovillari a non autorizzare l’autopsia sul cadavere di Bergamini. Vengono ordinate solo alcune perizie tecniche e viene stilato un calendario di interrogatori (Isabella viene sentita nuovamente cinque giorni dopo la morte di Denis). Ai carabinieri viene anche affidato il compito di indagare nella vita privata di Denis e a quanto pare, sia pure non ufficialmente, è quanto farebbe anche la questura di Cosenza. Giovedì 23 novembre Isabella Internò entra nello studio di Abbate per essere interrogata. Il colloquio dura circa un’ora. Cosa dica la ragazza all’epoca fa parte del segreto istruttorio. Inutile saperne di più. Anche perché Isabella è brava, grazie pure alle premure di alcuni suoi parenti, ad evitare in slalom i giornalisti. Il pm Ottavio Abbate viene intervistato da qualche giornalista volenteroso e le sue risposte sono quantomeno imbarazzanti. «Noi non abbiamo piste privilegiate da cui partire – dichiarerà a Santi Trimboli -. Voglio dire che il magistrato penale si muove nell’ambito delle competenze istituzionali specifiche che prevedono determinati campi di indagine. Che sono poi quelle previste dal codice. Noi dobbiamo fare chiarezza sui fatti, successivamente potremo trarre le opportune conclusioni, che in questo momento sarebbero fuori luogo. Stiamo indagando, il caso non è stato mai archiviato e non c’è mai stata una richiesta di questo tipo: deve farla il pubblico ministero, in questo caso io, e non ho ancora concluso il mio lavoro. Quanto all’autopsia, abbiamo ritenuto che le cause della morte fossero sufficientemente accertate. “Era fin troppo chiara che la causa di decesso del ragazzo fosse lo sfondamento del suo addome travolto dal mezzo pesante. Non c’era bisogno di fare l’autopsia…”. Insomma, il nulla. Con l’aggravante di aver dichiarato che “non c’era bisogno di fare l’autopsia”, salvo poi essere costretto a richiederla solo qualche settimana dopo. No, non si può neanche stendere un velo pietoso. Il 27 novembre il giro degli interrogatori prosegue con l’allenatore Gigi Simoni e Michele Padovano. Il 29 novembre è la volta del presidente Antonio Serra e del direttore sportivo Roberto Ranzani, il 30 novembre toccherà a Domizio Bergamini. Quanto al camionista, lo stesso pm Abbate, dall’alto delle sue “sicurezze”, dichiarerà: «Lo sentiremo, se necessario, nelle forme di legge e, comunque, soltanto dopo il risultato dei rilievi tecnici». Il magistrato, tuttavia, non può fare a meno di riconoscere che, se ha disposto nuovi accertamenti tecnici, non si fida troppo della versione di Isabella. «La ragazza ha raccontato la sua verità – dice Abbate – ma più volte è caduta in contraddizioni». Eppure, non si decide a fare l’autopsia! Quanto agli interrogatori, nessuna indiscrezione. «Personalmente – afferma il presidente Serra – non ho fatto altro che ripetere le cose che sto dicendo a tutti e cioè che Donato era un bravo ragazzo: educato, serio, gran lavoratore. Strano negli ultimi tempi? Assolutamente no. Anzi, era su di giri, lo vedevo assai stimolato. Voleva recuperare il tempo perduto a causa del grave incidente dello scorso anno. Se dovesse emergere qualcosa sul suo conto, sarebbe per me un fatto davvero sconvolgente».
Bergamini, 20 anni di omertà: era già tutto chiaro al funerale, scrive Iacchite il 13 novembre 2017. Dopo aver esaminato alcuni aspetti grossolani dei depistaggi messi in atto dall’associazione a delinquere che ha deciso a tavolino l’omicidio di Denis Bergamini, potendo contare sull’appoggio di pezzi deviati dello stato, ritorniamo al racconto dei giorni immediatamente successivi alla morte del nostro Campione.
COSENZA-MESSINA 2-0. Al San Vito, intanto, il 19 novembre, si gioca Cosenza-Messina. Una gara senza senso in un’atmosfera allucinante. Nessuno osa alzare un solo coro e regna sovrano il silenzio. Anche i tifosi messinesi, rispettosi del nostro dramma, non aprono bocca per tutta la durata dell’incontro. E’ evidente che il fatto sportivo è sovrastato dal fatto umano. L’emozione è grande. Che cosa può valere una vittoria davanti all’immagine ancora palpitante di un ragazzo amato e osannato che ora non c’è più? Nessuno tra gli ultrà e i tifosi del Cosenza crede al suicidio di Denis Bergamini. C’è la sensazione che possa esserci qualcosa di grosso da nascondere alla base della decisione di uccidere Denis ma al suicidio no, non ci crede proprio nessuno. La partita finirà 2-0 per il Cosenza. Michele Padovano, che indossa la maglia numero otto di Denis, segna il primo gol al 36’ del primo tempo. Nel finale raddoppierà Gigi De Rosa.
IL FUNERALE. Nella tarda mattinata di lunedì 20 novembre 1989 oltre diecimila persone partecipano al funerale di Denis Bergamini nella chiesa della Madonna di Loreto. Isabella Internò è presente ed è accompagnata dai “soliti” cugini. Oggi finalmente sappiamo anche chi sono. Alfredo Internò, detto Pippo o Dino, aspirante guardia giurata (lo diventerà successivamente all’omicidio di Bergamini), cugino di primo grado di Isabella, in pratica la “scorta” in ogni momento della celebrazione. L’altro è il marito della cugina, che crede di mimetizzarsi con un paio di occhiali scuri. In realtà quegli occhiali non faranno altro che metterlo ancora di più in evidenza. Si chiama Francesco Arcuri. Sono esattamente i due cugini che Tiziana Rota, la moglie di Lucchetti, vede vicino a Isabella quando la incontra a Rende una decina di giorni prima della morte di Bergamini e che sono ritenuti capaci di “ammazzare” Denis se soltanto sapessero come sono andate le cose. Il particolare colpisce molti cosentini presenti al funerale e si sparge la voce che Isabella sia “scortata” da poliziotti in borghese per proteggerla da eventuali “malavitosi” malintenzionati ma è soltanto una leggenda urbana. A nessuno però viene in mente di chiarire chi fossero questi due “brutti ceffi”. Nella chiesa della Madonna di Loreto ci sono proprio tutti. I compagni di squadra, i dirigenti con in testa il presidente Antonio Serra, il sindaco Giuseppe Carratelli, che fino a pochi mesi prima è stato il presidente del Cosenza, il presidente della Provincia Eugenio Madeo. E ancora: il presidente del Catanzaro Pino Albano, il vicepresidente della Reggina Cuzzocrea, una delegazione dell’Acr Messina, i responsabili di tutti i club organizzati del Cosenza. E naturalmente ci sono anche gli ex compagni di squadra Gigi Simoni, Enrico Maniero, Maurizio Giovanelli e Daniele Simeoni e l’allenatore della Serie B, Gianni Di Marzio. «Io – dice Di Marzio – lo conoscevo bene. Era un ragazzo pieno di vita, innamoratissimo del lavoro che faceva. Introverso? Balle. Discreto, riservato, questo sì. Certo, le sue amicizie le selezionava ma amava divertirsi e scherzare. Ricordo che un giorno mi fece sparire un borsone. Me lo restituì dopo avermi fatto ammattire per un paio d’ore. Ma quale suicidio!». La bara di Denis viene portata a spalla dai compagni di squadra, sgomento e commozione si toccano con mano. «Una morte – dirà don Peppino Bilotta nella sua omelia – avvolta nel più fitto mistero. Sarà interrogata la sociologia, saranno sentiti gli esperti ma le risposte non saranno mai esaurienti». La messa è celebrata da Padre Fedele Bisceglia. Con la voce rotta dall’emozione, il frate cappuccino traccia un breve ricordo di Denis e rivela un particolare. «Un mese fa gli chiesi il favore di far recapitare un libro a Padovano. Lui mi invitò a farlo di persona. Vieni tu, mi disse, siamo tanto soli. Io non andai e questo non me lo perdono. Quel “siamo tanto soli” mi perseguiterà come una maledizione. Forse aveva bisogno di me e io non l’ho capito». «Caro Donato, non siamo qui per darti l’ultimo saluto, siamo qui per dirti arrivederci. Arrivederci in Cielo per continuare la più bella partita, quella vera della felicità eterna». Il presidente Antonio Serra: «Interpretando i sentimenti e lo stato d’animo della società, di tutti i cittadini di Cosenza e della provincia, esprimo i sensi delle più sentite e fraterne condoglianze alla famiglia di Bergamini. Questi, tragicamente e immaturamente scomparso, resterà sempre nel ricordo e nel cuore di tutti noi, come amico schietto e sincero, atleta e professionista encomiabile e leale, esempio di correttezza e di equilibrio nella vita come sui campi di gioco». Dopo la cerimonia, Isabella sarà lasciata libera dalla “scorta” dei cugini. Michele Padovano dirà a Carlo Petrini che il giorno del funerale, dopo la messa, l’ha accompagnata a casa, a Rende. “Una cosa che mi è sembrata strana è che quando siamo arrivati a casa sua, non c’era un clima da funerale ma una certa allegria. Mi hanno perfino invitato a bere…”. Qualche giorno fa, tuttavia, Padovano ha smentito di aver dichiarato questo particolare a Petrini. Non è un mistero che tra i due ci fossero state molte incomprensioni su quella intervista. I parenti di Isabella comunque – festa o non festa – stavano già preparando il tanto atteso matrimonio e il “prescelto” non poteva che essere un uomo in divisa, il poliziotto Luciano Conte.
Omicidio Bergamini: brigadiere, questo le sembra un corpo trascinato da un camion per 60 metri? Scrive Iacchite il 29 ottobre 2017. Lo abbiamo scritto più volte e lo ribadiamo, anche se ai familiari darà fastidio perché si parla di un uomo che non c’è più. Il brigadiere Francesco Barbuscio è stato senz’altro uno dei complici degli assassini di Denis Bergamini e ci sono decine e decine di prove a confermarlo. Non serve essere “scienziati” ma solo intellettualmente onesti. E abbiamo visto in tutti i particolari le vicende grottesche dei suoi “rilievi”…Il brigadiere Barbuscio, dunque, compie i primi rilievi e produce addirittura una piantina del presunto incidente. Cosa succede dopo il presunto impatto. Questo è il racconto del camionista Raffaele Pisano, altro soggetto che fa parte dell’organizzazione criminale che ha deciso l’omicidio di Bergamini. «Dopo qualche minuto un signore sopraggiunto disse di aver sentito chiedere aiuto da una voce proveniente da sotto il camion e allora io, per verificare la veridicità di tale affermazione, ho spostato il camion di circa 50 centimetri ma purtroppo il giovane era morto. Io ho spostato il mezzo all’indietro di 50 centimetri non subito dopo l’investimento ma dopo circa 5-10 minuti». Cosa significa? Che Denis investito sotto il camion è ancora vivo? E chi è il signore che ha sentito chiedere aiuto? Non è stato mai identificato eppure una sua testimonianza sarebbe stata molto importante per capire se una retromarcia forse un po’ maldestra aveva definitivamente ucciso Denis Bergamini…
Attravero le fotografie, recuperate dopo non poche peripezie, si vedono la posizione finale del corpo di Denis Bergamini ma soprattutto le condizioni del cadavere. Com’è possibile che un corpo, dopo l’impatto con un camion di 13 tonnellate e mezzo, che procede a 40-45 kmh, dopo essere stato agganciato e trascinato per 59 metri, strisciando sull’asfalto, rimanga così integro? Le scarpe sono ancora infilate e pulite, i calzini tirati su, il gilet di raso praticamente intatto, la camicia sembra stirata, i capelli a posto, ancora pettinati. Per non parlare dell’orologio (ancora funzionante!), della catenina e delle scarpe, che faranno parte di un altro capitolo di questa incredibile vicenda.Il medico legale del Tribunale Pasquale Coscarelli è il primo a chiarire la dinamica dell’incidente. Denis Bergamini è stato colpito dal camion solo un metro prima rispetto al punto dov’è stato trovato il corpo e non come indicato dalla ragazza e dal camionista all’altezza della piazzola. Ed è il referto dell’autopsia (effettuata oltre un mese dopo la morte dal professore Avato e della quale ci occuperemo più avanti) a fugare ogni dubbio. «L’assenza di lesioni al capo, al torace, agli arti superiori, alle ginocchia, alle gambe e ai piedi conduce a ritenere verosimile l’ipotesi di schiacciamento da parte di un unico pneumatico del corpo disteso al suolo disposto con il capo verso la strada». A Denis è letteralmente esploso l’addome. Non c’è stato urto, abbattimento al suolo, propulsione e trascinamento del corpo. Denis era supino quando la ruota del camion gli è passata sopra lentamente, provocandone la morte. Tutto il resto del corpo è integro!
LE TELEFONATE DI ISABELLA E LA NOTIZIA. Sono da poco passate le 19,30 quando al centralino del Motel Agip di Rende arriva una telefonata. E’ Isabella Internò che chiede di poter parlare con l’allenatore del Cosenza Gigi Simoni. “Venite subito – dice Isabella -. Sono a Roseto Capo Spulico. C’è stata una disgrazia. Donato Bergamini è morto. Mi chiamo Isabella Internò, ero la sua ragazza”. L’allenatore e i calciatori del Cosenza apprendono della morte di Bergamini dalla stessa Isabella Internò. La ragazza, secondo la sua versione dei fatti, una volta al bar –ristorante, non telefona ai carabinieri, come sarebbe stato logico, ma a sua madre, all’allenatore del Cosenza, Gigi Simoni, e al capitano della squadra, Ciccio Marino. A Simoni e Marino biascicherà soltanto qualche frase, utile comunque a conoscere la drammatica verità, senza peraltro tradire nessun tipo di emozione. La reazione dei compagni di squadra invece è disperata e uno di loro, Michele Padovano, scaraventa una sedia su una vetrata, quasi a testimoniare la rabbia per non essere riusciti a evitare quanto è accaduto. Ciccio Marino ancora oggi si chiede perché Isabella gli abbia telefonato e non può fare a meno di avanzare un dubbio: “Credo che mi abbia telefonato per verificare se Denis avesse detto qualcosa a noi compagni di squadra sul motivo del suo allontanamento dal cinema. Ed era evidente, purtroppo, che noi non potevamo sapere nulla”. Seguono attimi di grande smarrimento. In effetti, al Motel Agip, Bergamini non c’è e non può esserci. Manca soltanto lui all’appello. Gli altri, dopo essere stati qualche ora prima al cinema Garden per assistere alla proiezione de “La più bella del reame” con Carol Alt (per ironia della sorte, si tratta del film ispirato alle movimentate esperienze sessuali di Marina Ripa di Meana), sono rientrati tutti. Gigi Simoni informa immediatamente il direttore sportivo Roberto Ranzani, che parte subito alla volta del luogo indicato e conferma alla squadra la veridicità della tragica notizia. L’agenzia giornalistica Ansa, qualche minuto prima di mezzanotte, è la prima a dare la notizia. Scriverà che il centrocampista del Cosenza calcio Donato Bergamini si è suicidato “facendosi volutamente investire da un autotreno”. L’agenzia precisava anche che la notizia del suicidio del giocatore era basata su “una prima ricostruzione dei fatti fornita dai carabinieri”. Nel giro di poche ore, nel cuore della notte, sono già in tanti a sapere dell’omicidio fatto passare per suicidio.
Bergamini, 20 anni di omertà. L’ultimo giorno di Denis: la telefonata al Motel Agip, scrive Iacchite il 20 settembre 2017. Venerdì 17 novembre 1989 Denis Bergamini incontra Francesca, la figlia del suo amico Michele Mirabelli, per prendere la “pappa reale”, ottima come integratore. E cena all’Elefante Rosso in compagnia del proprietario del locale. Nessuno dei due nota comportamenti particolari rispetto al solito da parte di Donato. Non è tranquillo ma ha capito che, in ogni caso, sarà meglio portarsi dietro qualcosa che dimostri quell’aborto del 1987 a Londra. In tasca aveva la ricevuta di pagamento della clinica londinese dov’era avvenuta l’interruzione di gravidanza. Non sapeva nient’altro, non poteva sapere. Eppure qualcuno aveva già armato la mano degli assassini. Denis sapeva solo che presto avrebbe avuto un appuntamento. Forse già nella tarda mattinata di sabato. Di buon mattino, invece, allenamento di rifinitura al San Vito alla vigilia della partita interna contro il Messina, tre quarti d’ora di “stacco” e poi appuntamento per il pranzo al Motel Agip di Rende, storico quartier generale del Cosenza prima delle partite in casa. La mattina del suo ultimo giorno di vita, tra l’altro, l’incitamento ai compagni di Bergamini, con tanto di foto, viene pubblicato dalla Gazzetta del Sud nell’articolo di presentazione della partita. Il solito Denis che scalpita per vincere e dimostrare che il Cosenza può e deve riprendersi. L’intervista, che ci restituisce l’immagine di un calciatore combattivo e grintoso, è stata rilasciata ovviamente il giorno prima presumibilmente al termine dell’allenamento. Finita la seduta di rifinitura, nella quale si è impegnato al massimo come sempre, Denis si lamenta perchè la sua Maserati è rimasta “chiusa” dall’autovettura dell’allenatore in seconda Pini e mostra una certa impazienza per la lentezza con la quale il tecnico faceva la doccia. Il particolare viene raccontato da mister Gigi Simoni, che aggiunge: “… La fretta di Bergamini per la verità non mi apparve giustificata anche perchè la meta era il ritiro di…talchè non vi era giustificazione alcuna alla premura di allontanarsi dal campo. Questa circostanza si verificava verso le ore 11,45. L’appuntamento per il pranzo era fissato alle 12,30. “… E’ pensabile che il calciatore – osserva l’avvocato Gallerani – allora avesse programmato di andare da qualche parte, dove probabilmente aveva appuntamento con qualcuno, tanto da avere fretta di andar via dallo stadio… E’ forse questo incontro da collegare alla telefonata che gli giunge nella stanza d’albergo attorno alle 15-15,30?. Dov’è andato Bergamini con tanta premura a mezzogiorno a bordo della sua Maserati?”. Già, dov’è andato? L’intuito suggerisce che abbia potuto vedere Isabella Internò. Dopo gli abboccamenti dei primi giorni del mese di novembre, la telefonata di Boccaleone e le minacce fuori dal ristorante a Laurignano, è probabile che Denis abbia deciso di vederci più chiaro incontrando direttamente la causa dei suoi problemi. Un incontro di pochi minuti, nel corso del quale l’ex fidanzata potrebbe aver avvertito Denis che qualcuno dei suoi familiari voleva parlargli. Una sorta di “falsa rassicurazione” del tipo: “Questione di cinque minuti, gli dai quella carta dell’aborto a Londra e finisce tutto lì…”. Bergamini, di conseguenza, sembra essere ritornato tranquillo: raggiunge il Motel Agip e va a mangiare con i compagni di squadra. Finito il pranzo, i calciatori salgono in camera in attesa di vedere lo spettacolo delle 16,30 del Cinema Garden: un rituale che era stato introdotto da Gianni Di Marzio e che era continuato anche con gli altri allenatori rossoblu. Denis divide la stanza con Michele Padovano. Sono in camera quando Denis riceve una strana telefonata. “La sveglia era fissata per le quattro – ricorda Michele -, lo spettacolo alle quattro e mezzo. Intorno alle tre-tre e mezzo riceve una telefonata, che dura pochissimi minuti. Lo vedo un po’ così, ma non ci faccio caso, anche perchè non mi dice niente ed era solito estraniarsi da tutto e tutti”. Sembrava che ti volesse dire qualcosa? “Non lo so, dopo ho pensato a tante cose, perchè poi la testa, quando succedono certi fatti, va in mille direzioni. Sì, sembrava che volesse parlare, ma poi non mi disse niente. E allora gli dissi: “Andiamo!”. Ricordo che non mi rispose subito, ma non mi preoccupai più di tanto perchè spesso faceva così, non ci feci molto caso e invece dopo, ripensandoci, devo dire che era proprio assente… Glielo ridissi e mi rispose che stava scendendo. Lo aspettai giù perchè di solito andavamo al cinema con una macchina sola, ma quando mi vide mi disse che prendeva la sua macchina. E’ stata l’ultima volta che l’ho visto”. “Quando ho dato la sveglia ai giocatori per andare al cinema – ricorda il massaggiatore Giuseppe Maltese – Michele era sul letto e Denis era in piedi davanti alla finestra con lo sguardo perso nel vuoto. Sì, l’ho visto molto strano”. Perchè Denis si è incupito? Con chi ha parlato? Questa volta non è facile desumerlo. Di certo, però, c’è un particolare, che ci rivela lo stesso Padovano. A sorpresa, Bergamini decide di uscire con la sua Maserati dal Motel Agip per recarsi al vicinissimo cinema Garden quando invece era solito andare con la macchina di Michele o di qualche altro compagno. Sono le quattro del pomeriggio, anzi sicuramente qualche minuto in più se pensiamo che la sveglia era fissata per le quattro e l’inizio dello spettacolo per le quattro e mezza. La voce al telefono, dunque, gli ha preannunciato che il famoso appuntamento era fissato per il pomeriggio fuori dal cinema Garden. Probabilmente in contrasto con quanto potrebbe avergli detto Isabella per non farlo preoccupare qualche ora prima. E sarà stato anche per questo che Denis, appena entrato al Garden, ha fatto una telefonata con i vecchi “gettoni” alla stessa Isabella, che con ogni probabilità gli ha confermato che il momento dell’appuntamento è arrivato e che è previsto proprio davanti al cinema.
Bergamini, 20 anni di omertà. Gli ultimi giorni di Denis: la telefonata a casa e l’incontro con Graziella, scrive Iacchite il 18 settembre 2017. Siamo a lunedì 6 novembre 1989. Il Cosenza ha giocato al San Vito contro la Reggina e non è andato al di là dello zero a zero ma è sembrato in ripresa. Bergamini ha fatto parte dell’undici titolare ed è stato tra i migliori. La settimana scorre via tranquilla: giovedì 9 novembre, in particolare, Denis cena insieme a Michele Padovano a casa di Michele Mirabelli e non c’è ancora nulla che possa far pensare a qualcuno che gli vuole male. Il 12 novembre il Cosenza gioca a Monza. Allo stadio “Brianteo” c’è anche il papà di Denis, Domizio, con il quale si salutano dopo la conclusione della partita. Fu un pareggio: 1-1 con gol rossoblu di Padovano. Bergamini avrebbe passato la notte in un hotel di Milano. Con lui c’era un’amica, Giuliana Tampieri, ma tra loro non c’era nessun tipo di legame se non quello di una sincera amicizia. Il giorno dopo Denis rientra a casa a Boccaleone. Al momento di mettersi a tavola per la cena, verso le 20, arriva una telefonata. Denis si alza subito e dice: “E’ per me”. Il cognato Guido Dalle Vacche afferma di aver avuto l’impressione che attendesse quella telefonata. Bergamini si dirige verso la stanza del telefono, chiude la porta e torna dopo un minuto. Dopo la telefonata, l’umore di Denis cambia totalmente. Donata ricorda: “A tavola era seduto di fronte a me, improvvisamente diventò tutto rosso intenso in volto e sulla fronte aveva gocce di sudore, non ho mai visto una reazione così, mio padre se ne accorse e gli disse: “Denis, se hai caldo leva il maglione”, ma lui rispose che erano cose sue. Successivamente Denis va a casa di Donata e Guido, che cercano di sapere qualcosa in più rispetto alla telefonata. Donata a un certo punto gli dice: “Denis, papà è rimasto male, ma chi era al telefono?”. Denis risponde: “Gli piacerebbe saperlo a papà cosa sta succedendo”. Il cognato Guido rimane molto colpito dalla frase “gli piacerebbe a papà” e dice, al riguardo: “Subito pensai all’episodio dell’aborto, perché ricordo che il padre di Denis si era lamentato molto di quel fatto, ribadendo a Denis che certe cose non si facevano e poteva succedergli qualcosa di brutto. Il discorso era stato ripreso più volte e il riferimento che Denis fece al padre mi portò a ricollegare le cose. Certo, è una mia sensazione, ma conoscendo Denis interpretai il riferimento in quel modo e credo di non avere sbagliato”. Ricapitoliamo: nella settimana che precede la partita di Monza qualcuno ha detto a Denis che il lunedì gli sarebbe arrivata una telefonata a casa, a Boccaleone. E’ probabile che a Bergamini venissero chieste spiegazioni sull’aborto (ma Denis è a conoscenza solo di quello del 1987) ed è altrettanto probabile che siano partite o siano state riferite minacce più o meno velate. Dietro queste minacce, non può che esserci Isabella Internò.
L’INCONTRO CON GRAZIELLA DE BONIS. Al rientro a Cosenza, nel primo pomeriggio di martedì 14 novembre, dopo aver viaggiato con l’auto del compagno di squadra Massimo Storgato, Denis sembra essere tornato del tutto sereno. Tra martedì 14 e mercoledì 15 novembre, proprio a dimostrazione della tranquillità di Denis, si colloca l’incontro con una ragazza cosentina, Graziella De Bonis, che qualche anno dopo sarebbe diventata “famosa” per aver partecipato al concorso Miss Italia ed essersi fidanzata con il popolare conduttore tv Fabrizio Frizzi. “… La ragazza – riferisce l’avvocato Gallerani nel suo dossier di controinchiesta – ricorda bene di avere incontrato Bergamini sicuramente nella settimana stessa in cui lui morì, all’uscita della farmacia sita nella piazzetta di Commenda di Rende, quando lei si trovava in compagnia dell’amica Elena Terzi…”. Graziella conosceva già Denis, tramite la sorella Rossana. Martedì 14 o mercoledì 15 novembre, Denis è con Michele Padovano quando incontra Graziella De Bonis ed Elena Terzi. Graziella, ascoltata dall’avvocato Gallerani, dichiara che prima di salutarsi, Denis chiese alle ragazze se fossero libere la domenica e, alla loro risposta affermativa, si accordarono di incontrarsi sempre lì, nella piazzetta di Commenda, la domenica successiva dopo la partita e poi andare a mangiare qualcosa insieme. Graziella accettò anche perché sapeva che Bergamini aveva interrotto la sua relazione con Isabella Internò. Tra l’altro, la De Bonis ricorda che “nel corso della conversazione tra noi avvenuta nella piazzetta di Commenda passò proprio Isabella e si salutò con Denis”. La vita del calciatore, dunque, si svolge serena e allegra e anche quelle ombre che si addensavano dietro la telefonata di qualche ora prima sembrano essersi dissipate. Di Graziella De Bonis torneremo a scrivere quando affronteremo gli eventi immediatamente successivi alla morte di Denis. Si tratta di un episodio inedito, ancora non raccontato da nessun media, che quantomeno lascia pensare…
Omicidio Bergamini: la gelosia morbosa di Isabella e il (possibile) secondo aborto, scrive Iacchite il 9 settembre 2017. Dopo la triste esperienza dell’aborto, il rapporto tra Denis e Isabella fatalmente ne risente ma continua ancora, tra il 1987 e il 1988, tra alti e bassi. E’ impossibile conoscere la situazione del rapporto mese per mese dopo l’interruzione di gravidanza dell’estate del 1987 ma sappiamo con certezza che tra maggio e giugno 1988, quando Bergamini festeggia la promozione del Cosenza in Serie B, non c’è traccia di Isabella. Suo cognato Guido Dalle Vacche, il marito della sorella Donata, è rimasto a Cosenza per almeno due settimane e non ha mai visto la ragazza. Anzi, è stato testimone di altre relazioni di Denis, magari durate solo una notte o un pomeriggio, visto che, come abbiamo accennato, era corteggiatissimo dalle ragazze cosentine. “Posso dire che in quei giorni non vidi mai Isabella – afferma Guido -. Già prima di allora Denis mi aveva detto che le cose con lei non andavano tanto bene e che il loro rapporto si era raffreddato. Ricordo che Denis mi disse: “E’ possessiva. Mi fa delle scenate senza alcun motivo”. Anche il suo compagno di appartamento Gigi Simoni sottolinea la gelosia di Isabella. “Nel rapporto con Denis, Isabella era senz’altro gelosa e direi anche possessiva. Spesso arrivavano telefonate di Isabella che voleva sincerarsi che fosse in casa. Quando non c’era e io ero in casa, voleva sempre sapere dove fosse Denis e quando sarebbe rientrato. Io poi riferivo a Denis che Isabella lo aveva cercato e spesso lui commentava, un po’ seccato, “ancora…”. Insomma, capivo che lei era troppo opprimente e che voleva sapere dove fosse in ogni momento della giornata. Diverse volte Denis aveva lasciato la ragazza e mi aveva detto: “Adesso basta con Isabella”. Dopo poco tempo, però, li rivedevo assieme e Denis, pur dopo averla mollata, si rimetteva assieme a lei. Denis non mi ha mai detto di essere innamorato di lei ma certamente, almeno nei primi tempi, posso dire che la ragazza gli piaceva molto, soprattutto fisicamente”. Maurizio Lucchetti e sua moglie Tiziana Rota uscivano spesso con Denis e Isabella e il centravanti rossoblu, insieme alla compagna, sono stati determinanti (per come vedremo) per chiarire una serie di circostanze strettamente legate alla morte di Denis. “Circa il loro rapporto – dichiarerà Lucchetti all’avvocato Gallerani nella sua controinchiesta – posso dire che, anche se stavano bene assieme, avevano una mentalità molto diversa. Sicuramente per Denis il pensiero principale era il calcio mentre per Isabella il pensiero principale era Denis… In particolare posso dire che Isabella era molto gelosa e possessiva, a livello che potrei definire morboso”. “Isa era molto innamorata di Denis – dichiara Tiziana Rota – ma amava anche il contesto in cui lui viveva. Si trovava su un piedistallo, era un bravo calciatore, famoso, lui e i suoi compagni a quei tempi erano visti come degli idoli, io stessa riflettevo l’immagine di mio marito e la cosa mi faceva piacere… Tuttavia, la gelosia di Isa nei confronti di Denis si faceva sempre più morbosa… ad esempio mi telefonava a fine allenamento chiedendomi se Maurizio era già rientrato e capitava che mi rispondesse: “Vedi, Denis non è ancora arrivato, chissà dov’è, chissà cosa starà facendo…”. Controllava persino sotto casa sua per vedere se tornava dagli allenamenti. Per questi motivi litigavano spesso e Denis più di una volta, in presenza mia e di mio marito, le aveva detto: “Te lo dico davanti a loro, se non la smetti con questa gelosia, ti lascio”. Dopo che Gigi Simoni si è trasferito a Pisa, Denis Bergamini è andato a vivere in un appartamento insieme a Michele Padovano. I due hanno caratteri diversi ma si stimano profondamente. Ecco cosa dice Padovano del loro rapporto. “Isabella era la ragazza di Denis, quella che gli aveva fatto perdere la testa. Ogni tanto si lasciavano ma poi si rimettevano insieme…”. Il massaggiatore Giuseppe Maltese la definisce “il contrario di Denis: aveva sì e no 18 anni, ma di carattere ne dimostrava 30… Si muoveva come una donna esperta alle prese con un buon partito… Non mi è mai stata simpatica. Era una ragazzina che mi provocava molta diffidenza, forse ero condizionato dal fatto che nell’ambiente della squadra sul conto di lei si sparlava parecchio. Il soprannome più gentile che le avevano dato era Vedova allegra…”. E’ probabile che Denis abbia riallacciato la relazione con Isabella tra agosto e ottobre del 1988 mentre è certo che a novembre dello stesso anno i due si erano definitivamente lasciati o comunque la loro relazione si era interrotta per più di qualche mese. E’ quanto risponde la ragazza a una precisa domanda del sostituto procuratore riguardante la durata del loro rapporto. Cosa sia accaduto a novembre del 1988 non è dato sapere ma si deve trattare di qualcosa di molto importante o quantomeno a Isabella serve fissare una data per dare un riferimento temporale preciso. Non sappiamo se le serve per le indagini oppure per una “giustificazione” da dare a qualcuno. Questo comunque non significa che Denis e Isabella da novembre 1988 in poi non si siano più visti o sentiti. Denis, tuttavia, anche parlando con i suoi familiari, sottolinea che il suo rapporto con Isabella si è definitivamente interrotto. E così risulta anche agli amici Michele e Francesca Mirabelli, che lo ospiteranno a casa loro nell’estate del 1989. Ma c’è di più. Nel maggio del 1989 Denis aveva riallacciato una relazione avuta anni prima con Roberta Alleati, una ragazza di Russi. “Mi raccontò che era single in quel momento – dice Roberta nel dossier presentato dall’avvocato Gallerani -, che aveva avuto una relazione durata diversi anni con una ragazza di Cosenza e che era finita da un paio di mesi. Era finita perché lui si era disinnamorato. Denis mi disse che era diventato impossibile rimanere assieme a lei per la sua morbosa gelosia e possessività; lo soffocava e lo esasperava…”. A giugno invece Bergamini se ne va a Riccione insieme ai compagni di squadra Padovano e Marino e di sicuro non ha più contatti con Isabella. E frequenta spesso invece Roberta, la ragazza di Russi, in provincia di Ravenna, che aveva conosciuto quando giocava con la squadra del paese romagnolo in Serie D. Torna a Cosenza a metà luglio ma solo per andare in ritiro con la squadra.
LA POSSIBILE SECONDA GRAVIDANZA DI ISABELLA. Ci sono diverse testimonianze che riferiscono di una certa insistenza di Isabella nel cercare Denis, sia telefonicamente che in giro per la città, nei mesi di aprile e maggio e poi ad agosto del 1989. Giovanna Rosapane, una sua amica cosentina, dichiara: “Denis mi disse che non riusciva a liberarsi di Isabella, che gli telefonava e lo “tampinava” dappertutto…”. Anche la stessa Roberta Alleati riferisce che Bergamini gli confidava i tentativi di Isabella di riprendere il rapporto. Michele e Francesca Mirabelli, come accennato, lo ospitano nel loro appartamento ad agosto (mentre loro si trovavano al mare) insieme a Michele Padovano in attesa che si liberasse l’appartamento destinato loro dalla società per la stagione 1989-90. Michele Mirabelli ricorda in particolare che, al rientro dalle ferie, quando i due calciatori già si erano trasferiti nella nuova casa, ascoltò i messaggi che erano arrivati nella sua segreteria telefonica. E trovò alcuni messaggi che erano rivolti a Denis. I messaggi erano tutti di Isabella Interno ed erano tutti dello stesso tenore. Così dichiara Michele Mirabelli: “La ragazza sollecitava (quasi pregandolo) Denis a risponderle. Il loro tenore era il seguente: “Denis, rispondi, rispondi”; “Dè, ti vuoi decidere a chiamarmi?”; “Rispondimi, rispondimi, ti prego”. Ricordo che ascoltai i messaggi con mia moglie Maria e anche con mia figlia Francesca. Tutti noi rimanemmo stupiti e capimmo bene che Denis non intendeva rispondere alle telefonate della ragazza”. Isabella Internò potrebbe avere abortito una seconda volta tra l’estate e l’autunno del 1989. Lo avrebbero appurato gli investigatori acquisendo la relativa documentazione in una clinica di Cosenza. E’ molto probabile che Isabella cercasse Denis per informarlo che, dopo uno dei loro ultimi incontri, era rimasta incinta. Ma Bergamini non le dà la possibilità di parlare. E Isabella potrebbe andare ad abortire a Cosenza, probabilmente con l’aiuto della “zia di Torino”, per evitare che qualcuno dei suoi familiari possa scoprire tutto. Questa volta però i familiari di Isabella vengono a conoscenza della gravidanza (non sappiamo se di una sola o addirittura di entrambe) e tra questi anche un amico di famiglia, un poliziotto in servizio alla digos di Palermo, che qualche tempo dopo sarebbe diventato suo marito. Ma che molto probabilmente faceva “triangolo” con la sua fiamma (porcaria diciamo a Cosenza) e Denis. Nel senso che quella donna lo prendeva per i fondelli. Eh sì, perché quando il giudice le chiede lumi sul periodo della sua gravidanza, la ragazza risponde testualmente: “… Mi è capitato di dover ricorrere alla interruzione volontaria della gravidanza nell’estate del 1988…”. Già, però l’aborto avvenne in realtà l’anno precedente, nel 1987, ed è davvero strano un errore del genere per chi abortisce. A meno che non dovesse dare “giustificazioni” a qualcuno. O forse vi fu un altro aborto?
Bergamini, 20 anni di omertà. I calciatori del Cosenza e le ragazze. Belli e Impossibili, scrive Iacchite il 5 settembre 2017. IL CAMPIONATO 1988-89. Anche nella stagione successiva quella squadra e quel gruppo, appena reduci dall’impresa della promozione, hanno tenuto alto il nome di Cosenza in Serie B. La società ha deciso di confermare praticamente tutti i protagonisti della promozione ma non ha raggiunto l’accordo con Gianni Di Marzio e ha chiamato un tecnico emiliano, Bruno Giorgi. L’ambiente, all’inizio, non è troppo favorevole nei suoi confronti ma Giorgi disarma tutti con la sua squisita gentilezza, con il suo proverbiale savoir fairee anche lui riesce a plasmare la squadra a sua immagine e somiglianza. E se il Cosenza di Di Marzio era cinico e sparagnino, quello di Giorgi sarà offensivo e spregiudicato. E’ un Cosenza che gioca sempre per vincere, che dà spettacolo su tutti i campi e strabilia gli addetti ai lavori: è stata sicuramente la squadra più bella mai ammirata al San Vito. Dopo un inizio altalenante, il Cosenza ingrana la marcia ed entra a far parte dell’elite del campionato. La Serie A è stata a lungo cullata e sognata: per mezzora, a Taranto, quando la Cremonese soccombeva a Licata, si è accarezzata concretamente la possibilità di fare almeno lo spareggio ma la classifica avulsa all’epoca ci penalizzò. Nessuno ha dimenticato quei mesi di passione. Sei vittorie in trasferta, una dimostrazione costante di forza e brillantezza. Partite come quelle di Monza, Padova, Piacenza, Udine, Bari resteranno memorabili così come le esaltanti vittorie al San Vito contro Reggina, Brescia, Avellino, Messina… E il merito è stato quasi esclusivamente di Bruno Giorgi, il grande allenatore gentiluomo. Denis Bergamini è uno dei calciatori preferiti del tecnico emiliano. Dal Torino è arrivato un ragazzotto di belle speranze, Giorgio Venturin, ma il titolare è Denis. L’avvio di campionato è difficile ma dal derby con la Reggina in poi il Cosenza non si ferma più: nove risultati utili consecutivi e quarto posto in classifica. Nella gara casalinga con il Licata Denis segna il suo primo gol in Serie B con una caparbia azione in percussione. La serie positiva si interrompe al San Vito contro il Bari, il 31 dicembre. Da lì inizia un periodo che definire sfortunato è poco. Prima della partita di Udine, il 7 gennaio 1989, Bergamini cade sul campo di allenamento e si frattura il perone. Resterà fuori per tre mesi e poi avrà bisogno di qualche altro mese per riprendere il ritmo. Di fatto, il suo campionato finisce lì ma Denis ha fatto gruppo come non mai. Spesso in Curva a seguire le partite casalinghe e poi sempre sul campo, insieme al fisiatra De Rose, per recuperare al meglio. Ha fatto in tempo a giocare anche qualche altra gara, come a Catanzaro o come in casa col Parma. Ma è chiaro che doveva rimandare tutto all’annata successiva. Nel frattempo, però, a Denis non mancavano certo le richieste. Lo voleva il Parma di Nevio Scala, che gli aveva offerto un ingaggio molto importante ma soprattutto la Fiorentina di Bruno Giorgi, che aveva decisamente puntato anche Michele Padovano. Ecco il ricordo dell’attaccante rossoblu. “Ricordo che Giorgi voleva anche lui a Firenze, era un suo grande estimatore. Denis era un centrocampista moderno, poteva giocare in tutti e quattro i ruoli del centrocampo, ma era molto più bravo al centro, sulla linea mediana, davanti alla difesa. Era un incontrista che non disdegnava di giocare il pallone, anzi gli piaceva cercare la “giocata”, rischiava e poi metteva sempre la gamba, non si tirava indietro. Mi piaceva molto la sua tenacia e mi ha insegnato che in allenamento bisognava sempre dare il massimo”. Ma il Cosenza non vuole perdere Bergamini. Un giorno chiamò Luigi Simoni: «Risposi io – ricorda papà Domizio -, pensando che fosse il suo vecchio compagno di squadra. Era, invece, il nuovo tecnico del Cosenza». Simoni, specialista dei campionati di Serie B, con all’attivo tre promozioni nella massima serie, cerca di convincere il ragazzo a rimanere, ma in un primo tempo senza successo. Poi interviene Ranzani e Bergamini cede: «Denis si sentiva debitore nei confronti di Ranzani, dei tifosi ed anche del Cosenza. La società infatti gli aveva messo a disposizione una macchina speciale per favorire la guarigione e mio figlio non l’aveva dimenticato». E così Denis Bergamini rimane a Cosenza.
I CALCIATORI DEL COSENZA E LE RAGAZZE. Da marzo 1985 in poi (da quando fu ucciso il direttore del carcere Sergio Cosmai), la guerra di mafia diventa per fortuna solo un lontano ricordo e così finalmente a Cosenza e nell’area urbana si ritorna ad uscire la sera. I giovani amano sostare fino a tarda ora nella centralissima piazza Kennedy, che diventa così il luogo ideale per gli incontri e magari per le “avventure”. Ma anche in altri punti di ritrovo come la piazzetta di Commenda, a Rende, vicino al Bar Mary. O la discoteca Akropolis, sulla strada per Castiglione Cosentino. “… Non erano fighetti da copertina i calciatori del Cosenza – scriveva Iole Perito nel 2009 su Cosenza Sport – . All’epoca non erano ancora di moda i calciatori adatti al fashion style e all’essere icone gossip, le veline erano solo fogli di carta da pubblicare o al massimo cose che i giornalisti dovevano passare “per forza” al loro politico di riferimento. Eppure certi appartamenti tra il centro di Cosenza e soprattutto Commenda di Rende, come raccontano residui di cronache pettegole, davano anticipazioni degne dei migliori scoop da rotocalc(i)o. Diverse signore della buona borghesia rischiarono lo scandalo mettendo in pericolo la quiete coniugale… Michele Padovano era il calciatore più “richiesto”, era lui quello eletto come “il più bello”. … Ragazzo della porta accanto con lo sguardo sofferente che ispirava il classico “aspetto che lei venga a salvarmi”. Il suo charme ma anche quello dei suoi compagni, ci mancherebbe altro (e mica poteva “farsele” tutte lui…), ha saputo stamparsi nei ricordi di signorine (e non solo) ammaliate da quei lupi sempre un po’ imbronciati e ideali per lo spot dell’uomo che non deve chiedere mai. Michele l’irraggiungibile (o Bello e Impossibile) si conquistò il titolo di bel tenebroso, bad boy con la faccia da bravo ragazzo che non disdegnava ciambotte insieme agli ultrà…Lui e Denis Bergamini al San Vito spopolavano. Persino oggi che nelle foto risaltano in abbigliamenti grezzi sono sempre due visi d’angelo che strappano un sorriso al pubblico femminile. Per loro le donne hanno fatto follie. La chioma scalata di Padovano fece perdere la testa a teenagers che per incrociarsi con quello sguardo sofferente tiravano filone presentandosi alla sua porta. Nel calcio di allora contava più il fascino che il fashion. E c’era anche la discoteca, una sola, che all’epoca già bastava e avanzava, la mitica Akropolis. E lì andava di moda anche la permanente, ma è improbabile che la cascata di riccioli di Galeazzi e Urban fosse il frutto di una seduta dal barbiere…”. Tra quelli che spopolavano c’era anche Claudio Lombardo, ma veniva ritenuto più “serio” di altri, forse anche perché aveva una fidanzata al Nord che poi è diventata sua moglie. Galeazzi invece alla fine si è sposato davvero con la fidanzata cosentina dell’epoca, Marina, che lavorava all’Hit Shop, dove le commesse erano così belle che erano i calciatori (e non il contrario) a fargli il filo. E Denis Bergamini?
Bergamini, 20 anni di omertà: Denis, l’uomo in più di Gianni Di Marzio, scrive Iacchite il 20 agosto 2017. IL CAMPIONATO DELLA CONSACRAZIONE. Gianni Di Marzio sa già di avere a disposizione una buona rosa per provare l’impresa attesa da quasi un quarto di secolo ma chiede ancora uno sforzo alla società. Urban decide di restare, Rocca viene sostituito da un’altra vecchia lenza come Renzo Castagnini, reduce dalla promozione in Serie B con il Barletta, che Di Marzio aveva già avuto con se a Catania mentre il posto di Messina viene preso da Maurizio Lucchetti, un talentuoso centravanti di manovra garantito da Ranzani. Serve anche un libero e in questo caso Di Marzio va sul sicuro convincendo Maurizio Giovanelli, un’altra sua vecchia conoscenza dai tempi di Catania. E per non lasciare nulla al caso, arriva anche un altro rinforzo per il centrocampo: Gigi De Rosa, proveniente dal Pescara. Il Cosenza è tra le superfavorite del torneo. I nuovi arrivi vanno a completare un’ossatura già collaudata con i ragazzi portati in rossoblu da Ranzani: Simoni, Lombardo, Bergamini, Galeazzi e Padovano. Ai quali si aggiungono l’ormai inamovibile Ciccio Marino, Giansanti e Schio. Quella squadra riuscirà a compiere l’impresa ma non senza patemi d’animo. Le sconfitte iniziali di Foggia e Reggio Calabria provocano parecchi malumori ma Di Marzio tiene duro, motiva la squadra e ne esalta le sue capacità. E’ un gruppo che prende pochissimi gol ma che non segna molto. Tante le partite, dentro e fuori, che finiranno zero a zero. Il vulcanico tecnico napoletano è restio a schierare sempre il “tridente” formato da Lucchetti, Urban e Padovano perché teme per la tenuta del centrocampo e della difesa e allora spesso e volentieri Padovano finisce in panchina e in mezzo al campo giocano sia Bergamini che De Rosa (come si vede nella foto in alto). In realtà, Di Marzio utilizza Denis anche come ala tattica (maglia numero sette) in alternativa a Galeazzi, che nelle prime giornate non trova molto spazio tra i titolari. Per tutto il girone d’andata “Berga” gioca per lo più con la maglia numero undici e qualche volta anche con la dieci. Il 6 marzo, in un Cosenza-Reggina finito a reti inviolate ma pesantemente condizionato da un rigore non concesso ai Lupi per un plateale atterramento di Urban, Bergamini inizia a indossare la sua maglia numero otto, che non mollerà più dalla leggendaria vittoria di Salerno. Sì, perché il campionato dei Lupi si sblocca proprio al “Vestuti” di Salerno dove un gol in contropiede di Padovano sancisce la svolta di tutto. La tifoseria fa il resto, colorando di rossoblu ogni quartiere della città e trascinando la squadra agli ultimi indispensabili successi. Da allora Bergamini non mollerà più quella maglia che diventerà il suo biglietto da visita. Denis Bergamini è uno degli eroi della promozione. Le ragazze lo corteggiano, i ragazzi lo eleggono tra i loro idoli preferiti. “Berga” perde anche un po’ della sua timidezza e si convince sempre di più delle sue grandi qualità. E’ uno dei giocatori più presenti in quella squadra. Disputa 32 partite su 34. Di Marzio lo ritiene indispensabile per l’equilibrio tattico della squadra. Denis, come al solito, corre per chi fa il playmaker davanti alla difesa (in questo caso Castagnini, il capitano) e per consentire a Urban di fare il “fenomeno” lì davanti. Spende un sacco di energie ma non perde un contrasto e una sola occasione per ripartire.
IL RICORDO DI GIANNI DI MARZIO. (Da denisbergamini.com). Potrei raccontare tante cose di Denis, così come di tutti i ragazzi che allenai, ed a cui rimango ancora oggi profondamente affezionato. Sono due gli episodi che mi colpirono di più. Uno, il primo, è un rammarico: senza colpevolizzare nessuno, ma per il mio modo di fare, di vedere il calcio, io ero uno di quelli che seguiva i suoi ragazzi metro per metro, giorno per giorno. Ed avevo un allenatore in seconda, Tonino Ferroni – peraltro, come Simoni, molto amico di Denis – che mi aiutava nel controllarli. Non sono mai stato particolarmente democratico, in tal senso, nella gestione dei calciatori: anzi, ero abbastanza assolutista. Se entravamo in 20 al cinema, in 20 dovevamo uscire, e per questo sguinzagliavo Ferroni che mi sostituiva nel fare da ‘fratello maggiore’ ai ragazzi. Ecco perché, all’epoca, mi meravigliai moltissimo di come, Denis, quel giorno, abbandonò il cinema: lui non l’avrebbe mai fatto. Una cosa del genere non stava né in cielo né in terra. L’altro momento che ricordo è legato ai funerali di Donato. A casa di Denis parlai con suo papà, Domizio: quando mi spiegò che l’orologio, anche a seguito dell’incidente, rimase intatto, oltre a tutto il resto, la prima cosa che gli proposi fu di chiedere un’autopsia. Andava fatta. Denis, in ritiro, con Simoni, Ferroni e Padovano componeva il gruppo – anzi, il quartetto – degli inseparabili. Certo, con lui non avevo un rapporto vero e proprio di complicità, come poteva essere per mio figlio Gianluca, che, essendo più giovane, con lui faceva lunghe passeggiate. Questo era Denis, un ragazzo semplice, sereno e gioviale. Certo, come calciatore mi faceva anche arrabbiare. Era discontinuo e talvolta mancava di intensità: e per questo io, per educarlo, lo spronavo di frequente. Lo incattivivo. Volevo che desse sempre il massimo in campo, e lui lo faceva. Infine volevo che migliorasse ancora, e ancora: ecco perché, alla fine, con me ha sempre giocato. Perché aveva splendide potenzialità. Ottime potenzialità. Tanto che Denis potrebbe essere tranquillamente collocabile, oggi, nel calcio moderno. Personalmente, in lui rivedo una sorta di antesignano di Pavel Nedved. Ecco, Denis era il mio Nedved, anche perché io mi circondavo, soprattutto a centrocampo, di giocatori rapidi, scattanti, proprio come Bergamini. La sua rapidità, accoppiata a quella di Urban, alla capacità agonistica e temperamentale di Giovanelli e Castagnini, dava alla mediana una quantità ed una qualità inaudita. Oggi in tanti usano il 4-3-3: bene, nel ruolo di ala largo, a sinistra, in attacco, Denis si sarebbe perso, ma i ruoli di mezzala mancina nei 3, oppure esterno nel 4-2-3-1, sarebbero stati una vera e propria manna per lui, per le sue capacità, e per chi avrebbe potuto schierarlo. Un pò Mertens, un pò Hamsik, per riferirsi al Napoli, ad esempio. Esplosività, rapidità, dedito agli inserimenti: Denis, in qualche modo, anticipò il calcio di oggi, in cui i giocatori come lui sono richiestissimi. E nel quale lui, Denis, sarebbe stato benissimo. Gianni Di Marzio – Allenatore, opinionista e dirigente sportivo
Bergamini, 20 anni di omertà: Denis e il Cosenza Calcio, scrive Iacchite il 19 agosto 2017. Denis Bergamini, come abbiamo accennato, è stato seguito personalmente dal direttore sportivo Roberto Ranzani, che ne è rimasto entusiasta per le doti di corsa ma anche per come “tocca” il pallone. Per lui, quello della Serie C è un “doppio salto”, con la prospettiva di fare la panchina agli esperti Alberto Aita, Vittorio Petrella e Damiano Morra, che sono i titolari delle maglie di centrocampo. Mister Montefusco, reduce da un bel campionato concluso tra le “grandi”, ha tutta l’intenzione di costruire una bella miscela tra giovani e anziani ma tutto girerà per il verso storto. L’esordio di Bergamini con la maglia rossoblu arriva già alla prima giornata, al San Vito contro la Salernitana, il 22 settembre 1985. Un quarto d’ora, quello finale, al posto di Rovellini, per contenere gli avversari e mantenere il vantaggio siglato da Tivelli. La prima gara da titolare, con la maglia numero sette, a Brindisi, qualche settimana dopo. Ma tutti, e forse anche Denis, sono convinti che c’è ancora un po’ di tempo da aspettare per diventare stabilmente un pilastro del Cosenza. E invece la decisione della società di mettere ai margini della prima squadra Petrella e Morra dà la possibilità proprio a Bergamini e al talento locale Bruno Russo di mettersi in mostra e di conquistare la fiducia dell’allenatore napoletano Enzo Montefusco. E’ alla dodicesima giornata che Denis indossa per la prima volta la maglia numero otto proprio per prendere il posto di Petrella, spedito in panca. E poi ancora una decina di partite con la maglia numero sette fino alla conclusione del campionato. Non è una grande stagione per il Cosenza, beninteso. Nonostante la cessione “miliardaria” del bomber Gigi Marulla al Genoa, la società non allestisce una squadra competitiva e meno male che quel “vecchio diavolo” di Costante Tivelli segna sedici gol che, alla fine, valgono una sofferta salvezza proprio all’ultima giornata in casa contro il Monopoli. Una stagione così stentata che provoca anche l’esonero di Montefusco a otto giornate dalla fine del torneo e il ritorno a Cosenza di quel tecnico argentino, Oscar Montez, che era stato protagonista di memorabili campionati negli anni Sessanta e Settanta. Ma per giovani come Bergamini, Simoni, Lombardo, Marino e Russo è comunque un’annata positiva e per i tre ragazzi del Nord, ai quali si unisce l’indigeno Ciccio, quel campionato significa una conferma a furor di popolo per la stagione 1986-87. Denis, che doveva essere riserva delle riserve, gioca ben 24 partite e si ritaglia, insieme a Simoni e Lombardo, il ruolo di “rivelazione” di quella stagione così avara di soddisfazioni.
STAGIONE 1986-87. Per la stagione successiva la società si decide finalmente a costruire una squadra competitiva per il salto di categoria. L’allenatore prescelto, Franco Liguori, aveva portato con se da Cava de’ Tirreni un giocatore esperto e grintoso come Tonino Rocca, castrovillarese, a fine carriera e reduce anche da esperienze in Serie A e Alberto Urban, un fantasista peperino che aveva giocato una stagione fantastica in Campania. Ma non solo: per la prima linea si decide di puntare su un attaccante di categoria come Gabriele Messina, un lusso per la C1 e su un giovane promettente cresciuto nel vivaio, Walter Mirabelli. E in difesa arrivano ancora altri giocatori di livello come lo stopper Schio, il libero Sassarini e il terzino Giansanti. Tra i giovani, come accennavamo, Ranzani ha “pescato” due piemontesi, Sergio Galeazzi, un esterno di grande corsa e Michele Padovano, attaccante di movimento. Simoni, Marino, Lombardo e Bergamini, dopo la bella stagione precedente, partono da titolari in una formazione che è un mix di esperienza e gioventù e che sembra destinata a far esplodere il Cosenza. Ma non andrà così. Dopo una buona partenza, la squadra, dopo la sconfitta interna contro il Catanzaro di Palanca, entra in crisi e costringe la dirigenza a dare il benservito a Liguori. I giocatori, capitanati dai “fedelissimi” Rocca e Urban, si oppongono con forza all’esonero e solo la grande capacità diplomatica del presidente Carratelli sarebbe riuscita a compiere il miracolo del via libera al nuovo allenatore, Gianni Di Marzio. Il rendimento della squadra migliora ma non al punto di rientrare in lotta per la promozione. Alla fine il Cosenza è quarto ma pone le basi per il ritorno in Serie B. Bergamini disputa 28 partite e segna anche due gol pesanti e decisivi al San Vito contro Sorrento e Benevento. Il gol contro il Benevento, in particolare, è un capolavoro balistico. Gran tiro da oltre venti metri, di destro, e palla all’incrocio dei pali. Per di più a quattro minuti dalla fine, quando il risultato sembrava ormai bloccato sull’uno a uno. Quel ragazzino biondino e apparentemente timido e scontroso, si rivela un mediano di spinta coi fiocchi, bravo sia nella fase di interdizione che nella costruzione del gioco. A vederlo fuori dal campo non diresti mai che sia in grado di svolgere tutto quel lavoro. Denis gioca proprio in mezzo a Rocca, che fa il playmaker davanti alla difesa e Urban, che fa il trottolino tra le linee. Tocca a lui assicurare il collegamento tra i reparti e, soprattutto, correre e recuperare palloni. Il biondino non si risparmia e gioca una partita più bella dell’altra risultando titolare fisso sia con Liguori che con Di Marzio. Salterà solo sei partite, una per squalifica e le altre per un problema muscolare smaltito senza troppi assilli.
Bergamini, 20 anni di omertà: la carriera di Denis. La leva calcistica della classe ’62, scrive Iacchite il 18 agosto 2017. Simoni, Marino, Lombardo, Castagnini, Schio, Giovanelli, Galeazzi, Bergamini, Lucchetti, Urban, Padovano. Non c’è dubbio che sia questa la squadra del Cosenza alla quale i suoi tifosi sono più legati. Non solo perché ha conquistato la Serie B dopo tanta attesa ma anche perché questi stessi uomini, con pochissime variazioni, soltanto un anno dopo, hanno sfiorato una clamorosa promozione in Serie A. E’ questo il gruppo più forte che abbiamo mai visto, grazie anche a due grandi allenatori come Gianni Di Marzio e Bruno Giorgi. E a un direttore sportivo ferrarese, che risponde al nome di Roberto Ranzani, che ha modellato il nucleo storico di questa squadra negli anni precedenti. Gigi Simoni, Claudio Lombardo, Sergio Galeazzi, Denis Bergamini e Michele Padovano sono cinque giovanotti di belle speranze che iniziano a muovere i loro primi passi calcistici nelle squadrette di periferia del Nord. Gigi Simoni e Denis Bergamini abitano a un tiro di schioppo l’uno dall’altro. Gigi è di Comacchio, Denis di Argenta. Provincia di Ferrara. Claudio Lombardo è di Voghera, vicino Pavia. Il loro talent scout è appunto Roberto Ranzani, direttore sportivo ferrarese del Cosenza, una società di un certo blasone che sta cercando di tornare in serie B. Ranzani li recluta tutti e tre tra il 1984 e il 1985. Denis ha 23 anni, Claudio 22 e Gigi 20. Lombardo si prende subito la maglia numero 3 di terzino sinistro con licenza di fluidificare e non la molla più. Simoni, dopo un anno di panchina a Roberto Busi, si prende il posto di titolare alla fine del girone d’andata scalzando Delli Pizzi. Il mediano Bergamini gioca un buon numero di partite (24) ma esploderà l’anno successivo quando ai tre ragazzotti del Nord si aggiungeranno altri due talenti scoperti da Ranzani, Sergio Galeazzi e Michele Padovano, entrambi piemontesi. Sergio ha 21 anni, Michele 20 e sta svolgendo il servizio militare. Si forma così l’ossatura del Cosenza dei miracoli. Uniti sia in campo che fuori, amicizie che lasciano il segno e che si estendono anche alle rispettive famiglie.
DENIS BERGAMINI: GLI INIZI. Denis Bergamini, all’anagrafe Donato (all’epoca i nomi stranieri non erano consentiti…), è nato il 18 settembre 1962 ed è arrivato a Cosenza quando non aveva ancora compiuto 23 anni, reduce da un buon campionato di Serie D a Russi, vicino Ravenna. Viene dalla provincia di Ferrara, precisamente da una frazione di Argenta, Boccaleone. E’ figlio di Domizio, un contadino che ha sempre lavorato duro, anche dodici ore al giorno, e ha tirato su la sua famiglia con grandissima dignità insieme alla moglie Maria, lasciandogli coltivare il sogno di diventare un calciatore professionista. E Denis, già da quando era soltanto un bambino, aveva dimostrato a tutti di poter riuscire in quell’impresa. Spalleggiato e supportato dalla sorella maggiore, Donata, che ovviamente stravede per lui.
L’INTERVISTA AL GUERIN SPORTIVO. «Già, il pallone – sorride Donata -. Denis era fissato. Lo ricordo sempre con la palla tra i piedi e con la Juventus nel cuore. Tra noi c’era un anno di differenza. Si giocava spesso insieme, qui nel giardino di casa. Ovviamente a me toccava stare in porta, mentre lui tirava e correva senza soste». La passione c’è, il talento pure. Il Boccaleone lo arruola presto nei Pulcini: «Era piccolino – rammenta Domizio – , un “cosmo” pelle e ossa. Non avrei mai creduto che con il calcio avrebbe sfondato. Io stavo in disparte, ma chi lo vedeva giocare diceva che era veramente bravo». Proprio così, Denis, biondo e magrolino, in campo è un gigante e si fa notare. Passa poco tempo e un giorno a casa Bergamini si presenta Rino Mazzi, tecnico della vicina Argentana. Vuole parlare con Domizio: «Tuo figlio lo vuole il Bologna». «Ricordo che traballai. Denis era poco più che un bambino. Non me la sono sentita. Gli dissi: “Papà non ha piacere che tu vada”. E lui fu contento. Era attaccato alla famiglia, alla sorella. Un distacco in quel momento sembrava prematuro». Sfumato il grande salto, rimane l’abilità di Bergamini col pallone, tanto che si trova a giocare con i più grandi. Anche se non ha l’età: «Dal Boccaleone era passato all’Argentana e falsificarono il cartellino – ricorda ancora Domizio -: io non sapevo nulla, me lo hanno detto a cose fatte». Denis calamita le attenzioni. E’ un mediano per vocazione: per quel modo di stare in campo, per la sua generosità, per il grande cuore. Presto gli mettono il nomignolo di Cavallino, qualcuno azzarda un paragone con Tardelli, che in quel periodo sta già spopolando con la sua Juventus. Poi una volta succede che segna anche un gol, addirittura in Svizzera, con la maglia dell’Argentana. «Questa è una storia da raccontare – sorride dolcemente la sorella – perché quel testone mica voleva andarci. Avrà avuto dodici o tredici anni. Finito il campionato, l’Argentana lo vuole per un torneo giovanile che si disputerà, per l’appunto, in Svizzera. Mi ci volle tutta la notte per convincerlo. Era attaccato alla casa». «Credo che abbia inciso anche il mio lavoro – interviene Domizio -. Partivo alle quattro di mattina e tornavo alle undici di sera. Ai figli questo pesava. Denis voleva sempre il bacino prima che io partissi. Se non glielo davo, piangeva». L’intervento notturno di Donata, la sorellona, si rivela però decisivo. Denis va e torna vincitore. «Riuscì a segnare anche un gol. Era gasatissimo, ma lo sarebbe stato ancora di più l’anno dopo, quando con la maglia della prima squadra dell’Argentana fece un altro gol, questa volta di testa: una cosa incredibile». Il Bergamini giovanissimo è serio e responsabile ma è anche un ragazzino al quale piace divertirsi. Fa il “vu’ cumprà” in spiaggia per far divertire gli amici e si specializza nel lancio dei gavettoni, decisamente la sua specialità: diciamo che ha lo scherzo in canna. Una simpatica canaglia, ma pure il grimaldello per neutralizzare il catenaccio che papà Domizio ha cucito addosso alla bella Donata. «Non avevo libertà – sorride Donata, mentre rivolge uno sguardo affettuoso al babbo -. Uscivo solo perché c’era mio fratello. Ed è stato grazie a Denis che ho conosciuto il mio futuro marito». Domizio sorride ed annuisce. E ricorda il giorno in cui gli arrivò una notizia che sembrò, in quel momento, azzerare ogni speranza per la carriera di Denis: «Mi dissero che aveva problemi al cuore. Rimasi senza parole, non mi sembrava possibile». Risolse tutto il professor Lincei di Imola, uno che curava i ciclisti. Gli disse: «Hai i battiti del cuore come Eddy Merckx». Voleva dire che i battiti non erano così frequenti come per noialtri comuni “mortali” e proprio per questo gli riusciva più facile resistere alla fatica e macinare chilometri. Proprio come i ciclisti, che di chilometri ne fanno migliaia e migliaia. Spesso i medici generici rimangono spaventati da soggetti come Denis ma per fortuna quelli sportivi ristabiliscono le cose. Il vero problema di Bergamini agli inizi della carriera era la mancanza di ferro. Che si combatteva con fialette ricostituenti e bistecche. Denis così cresce, irrobustisce il fisico e arriva anche a “prenotare” un provino eccellente. Domizio lo ricorda così: «Niente, una volta Denis insieme ad altri ragazzini fece un provino per la Juve. Mai saputo nulla. Molti anni dopo, salta fuori che Denis avrebbe dovuto fare un altro test, ma che a quella seconda prova il dirigente incaricato portò suo figlio». Nel 1982, finalmente, la ruota inizia a girare per il verso giusto e per Denis arriva prima l’Imolese, quindi il Russi, campionato Interregionale. Passano tre anni ed ecco la vera svolta: «Stava giocando contro il Lugo ed a vedere la partita c’era il direttore sportivo del Cosenza Roberto Ranzani, che è di queste parti. In verità, era lì per osservare un altro giocatore, ma rimase colpito da Denis. E lo prese. Da lì è partito tutto». Domizio fa fatica a nascondere la sua avversione per quel trasferimento in una terra così lontana: «Non ero contento. Il Cosenza faceva la C1, c’era un nostro paesano che giocava là, un certo Simeoni. Io suggerii a Denis di prendere un procuratore, ma lui non volle. Allora mi rivolsi al suo vecchio maestro di scuola perché ci assistesse al momento del contratto. A Ranzani dissi: “Questo me lo tieni al massimo due anni”. Il contratto, poi, arrivò per posta. Era un biennale con l’opzione per il terzo anno». Atmosfera particolare in casa Bergamini. Denis è contento, mentre Domizio è combattuto, ma per amore di padre non ostacola il percorso del figlio: «Vedevo Denis soddisfatto e per me andava bene così. Fu subito titolare, legò alla grande coi tifosi, gli allenatori gli volevano bene. Al terzo anno, poi, la Serie B. Di Marzio, il mister della promozione, recentemente lo ha paragonato a Nedved, per la dedizione alla squadra e lo spirito di sacrificio». «Denis era così – aggiunge Donata -, uno generoso, umile ed attaccato alla terra. Quando tornava, si metteva sul trattore ed andava per campi ad arare. E quando si doveva muovere, prendeva la bicicletta e pedalava».
Omicidio Bergamini, la droga non c’entra, scrive Francesco Ceniti su Iacchite il 29 ottobre 2017. A beneficio di quanti ancora agitano motivazioni che non stanno più né in cielo e né in terra con riferimento all’omicidio Bergamini, pubblichiamo l’articolo scritto da Francesco Ceniti nel 2012 sulla Gazzetta dello Sport. L’articolo riportava i particolari del lavoro del RIS dei carabinieri, che escludeva ogni possibile movente legato alla droga. Lo riproponiamo anche a beneficio del procuratore di Castrovillari, Eugenio Facciolla, affinché non ascolti chi metta in mezzo questioni (tra l’altro assurde) riguardanti Michele Padovano e quella stramaledetta Maserati. Uno dopo l’altro sembrano sgretolarsi i misteri e le leggende che per 22 anni hanno reso «impossibile» l’accertamento della verità sulla morte di Donato Bergamini, centrocampista del Cosenza, avvenuta il 18 novembre 1989. A febbraio il Ris con una accurata perizia, eseguita sugli oggetti indossati dal giocatore al momento del decesso e sui reperti istologici perfettamente conservati dopo l’autopsia chiesta e ottenuta dalla famiglia visto l’immobilismo degli inquirenti dell’epoca, hanno spazzato via la tesi del suicidio.
LA DROGA NON C’ENTRA. Le carte arrivate nelle mani di Franco Giacomantonio, il procuratore capo di Castrovillari che a luglio 2011 ha riaperto il caso, non hanno margini d’interpretazione: è stato un omicidio e la ferita sul bacino (per 22 anni indicata come la «prova» del suicidio: nel racconto della testimone oculare, l’ex fidanzata Isabella Internò, Bergamini si era tuffato sotto un camion, poi trascinato sotto le ruote per circa 60 metri senza però finire maciullato e con vestiti e orologio praticamente intatti) inferta quando il calciatore era già cadavere. Ma il Ris ha escluso anche un altro aspetto importante, specie per gli sviluppi delle indagini entrate in una fase cruciale: la Maserati di Bergamini, sequestrata ed esaminata da cima a fondo, non aveva nessun doppio fondo o manomissione. La novità dovrebbe portare gli inquirenti ad abbandonare una delle piste più calde sul movente dell’assassinio, quello legato al traffico di droga con Bergamini in qualche modo corriere (inconsapevole?) della ‘ndrangheta. La macchina non aveva le caratteristiche. Cade una teoria diventata realtà anche per i media che davano per acclarata l’esistenza del doppio fondo. Non è la prima volta, in questa assurda storia, che la «verità» è ribaltata in modo clamoroso: solo nei mesi scorsi, ad esempio, si era «scoperto» vivo e vegeto l’autista del camion coinvolto nell’incidente, dato morto per anni.
CACCIA AI COLPEVOLI. Ma torniamo al movente dell’omicidio perché è su questo che si sono concentrate le indagini del nucleo investigativo dei carabinieri iniziate a fine dicembre. Molti passi in avanti sono stati fatti e i tasselli del complicato puzzle sembrano ora ricomporsi. Cerchiamo di capire i possibili sbocchi. Con la messa in soffitta del delitto maturato in ambienti criminali (niente coinvolgimento della ‘ndrangheta nella gestione dell’omicidio), il cerchio si stringe intorno alle persone che frequentavano il giocatore: il movente sarebbe allora da ricercare in ambito personale, magari a seguito di un litigio dopo un chiarimento per una vicenda privata non andato nella direzione sperata. Non ci sono conferme dirette, ma proprio su questa pista si sarebbero rivolte le attenzioni degli investigatori che avrebbero cercato di ricostruire le ultime ore di vita del calciatore, soprattutto su un passaggio. Chi e quante erano le persone che lo avrebbero atteso fuori dal cinema dove si trovava in ritiro con il resto della squadra. Quelle persone sono la chiave del mistero: sono loro che lo hanno condotto verso una morte violenta. C’è un altro aspetto fondamentale: è da capire come sarà inquadrata la posizione dell’ex fidanzata che ha sempre ripetuto la tesi del suicidio, anche a dicembre 2011 quando è stata riascoltata come persona informata sui fatti. Quella testimonianza, però, è in netto contrasto rispetto a quanto sostenuto dai Ris.
Iuliano senior accusa Padovano: "Ha rovinato mio figlio Mark", scrive Francesco Ceniti il 14 dicembre 2011 su "La Gazzetta dello sport". La versione del signor Alfredo: "Sono decine i calciatori sue vittime. Spacciava già da ragazzo. Dio gli diede la possibilità di cambiare e invece portò la sua diabolica inclinazione nel calcio. E sa tutto sul caso-Bergamini". "Quello su Ronaldo? Era rigore...". Alfredo Iuliano è un signore di 63 anni che abita in una casa di campagna tra le province di Salerno e Potenza. E' il padre di Mark, l'ex giocatore della Juve da tutti ricordato soprattutto per l'episodio da moviola nella sfida scudetto del 1998 tra i bianconeri e l'Inter. Ma non è per questo motivo che ieri il cellulare è squillato centinaia di volte "persino giornalisti da Francia e Inghilterra". Il motivo è legato alla condanna di Michele Padovano e al post lasciato sulla sua pagina di Facebook. Accuse nette: "Sono decine i calciatori vittime di Padovano. Spacciava già da ragazzo. Dio gli diede la possibilità di cambiare e invece portò la sua diabolica inclinazione nel calcio". Mark Iuliano, oggi 38enne, ha giocato nella Juve dal '95 al 2005. Al telefono Iuliano senior va oltre: "Certo che confermo tutto. Con mio figlio non parlo dal 2008, da quando è stato squalificato: doping per la droga. Si è rovinato la vita, lui nominato Cavaliere del lavoro da Ciampi. Le racconto un episodio: un giorno Padovano, giocava nel Crystal Palace, si presenta nella casa di Torino dove vivevo con mio figlio. Si chiudono in stanza. Strano. Allora inizio a origliare, sento discussioni tipo "provala è buonissima, lo hanno fatto anche altri tuoi compagni". Entro di forza, mi dicono che avevo frainteso. E invece i giudici sostengono il contrario. E aggiungo che Padovano sa tutto sul caso Bergamini: se non vi fossero stati occultamenti clamorosi, sarebbe stato smascherato da tempo. Mi vuole querelare? Sì, mio figlio tramite il fratello mi ha fatto arrivare questa cosa. Non vedo l'ora di avere con Padovano un contradditorio in tribunale...".
Il padre di Iuliano: “Padovano spacciava ai giocatori della Juventus”, scrive il 13 Dicembre 2011 Marco Di Maro su "Soccermagazine.it". Il caso Padovano sembra destinato ad allargarsi. Il padre di Mark Iuliano, ex difensore della Juventus e della Nazionale ha lanciato pesanti accuse: “Sono decine i calciatori vittime dello spaccio di Padovano. In questi anni ha tenuto stretti contatti di spaccio anche con qualche giornalista spacciatore cosentino. Padovano è un cancro da estirpare, era un trovatello cresciuto in un orfanotrofio, spacciava già da ragazzo, Dio gli diede l’opportunità di cambiare, invece portò la sua diabolica inclinazione anche nel calcio. E’ stato devastante. Mio figlio lo stimava anche perchè quando era bambino era il suo idolo nel Cosenza. Quando gli fece l’assist in Coppa Campioni e Padovano segnò di testa, Mark toccò il settimo cielo, il suo affetto era purtroppo mal riposto”. Alfredo Iuliano ha inoltre aggiunto: “Padovano è colpevole, riforniva anche i calciatori della Juventus tra cui mio figlio: altre vittime sicure Vialli e Bachini (squalificato a vita dopo una doppia positività, ndr), che a causa della droga ha visto troncata del tutto la sua carriera. Inoltre resta ancora aperta la sua responsabilità sul caso Bergamini (giocatore del Cosenza assassinato nel 1989)”.
"Padovano riforniva lo spogliatoio della Juve". Il padre di Iuliano su Facebook: "Vialli e Bachini vittime", scrive "Quotidiano.net" il 13 novembre 2011. Droga, Padovano condannato a 8 anni e 8 mesi. L'attaccante è stato condannato per associazione a delinquere finalizzata allo spaccio, e il papà del suo compagno in bianconero fa nomi importanti e sfoga tutta la sua rabbia: "Sono decine i calciatori vittime dello spaccio di Padovano. E' un cancro da estirpare". Dalla pagina Facebook del padre di Mark Iuliano piovono ulteriori pesanti accusa su Michele Padovano. Alfredo Iuliano affida al social network tutta la sua rabbia: "Padovano è colpevole, riforniva anche i calciatori della Juventus tra cui mio figlio". L'attaccante è stato condannato per associazione a delinquere finalizzata allo spaccio, e il papà del suo compagno in bianconero fa nomi importanti: "Altre vittime sicure Vialli e Bachini, che a causa della droga ha visto troncata del tutto la sua carriera". Ma la rabbia di un padre contro quello che era l'idolo di suo figlio esplode tutta: "Sono decine i calciatori vittime dello spaccio di Padovano. E' un cancro da estirpare. Veniva da ambienti difficili, era cresciuto in un orfanotrofio e spacciava già da ragazzo. Ma quando Dio gli diede l'opportunità di cambiare, portò la sua diabolica inclinazione anche nel calcio. E' stato devastante. Mio figlio lo stimava anche perchè quando era bambino era il suo idolo nel Cosenza. Quando gli fece l'assist in Coppa Campioni e Padovano segnò di testa, Mark toccò il settimo cielo. Il suo affetto era purtroppo mal riposto". E come se non bastasse: "Inoltre resta ancora aperta la sua responsabilità sul caso Bergamini", facendo riferimento al calciatore del Cosenza morto in circostanze mai chiarite nel 1989.
IL GIOCATORE CHE VENDEVA COCAINA, scrive il 12.12.2011 Tommaso Caldarelli su Giornalettismo". Condannato Michele Padovano per spaccio di droga; il padre di Mark Iuliano lo accusa: “La dava anche a mio figlio”. Arriva ad un primo punto di svolta la vicenda giudiziaria di Michele Padovano: questo pomeriggio il tribunale di Torino lo ha condannato in primo grado ad otto anni e mezzo di reclusione per associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti. Michele sarebbe stato uno dei terminali di un’associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga: cocaina principalmente, ma erano anche altri gli stupefacenti che Padovano trattava, non da solo. “Non c’entro niente”, dice ora, e “lo dimostrerò”. A ripercorrere la sua storia ci si imbatte in una brutta vicenda di malaffare a base di cocaina che coinvolgeva altri nomi noti del mondo del pallone. Indagando su un vasto traffico di hashish importato in Italia dal Marocco, attraverso la Spagna, i carabinieri si sono imbattuti nei nomi di ex calciatori famosi: Michele Padovano, Nicola Caricola e Gianluca Vialli, tutti ex juventini. Avevano ruoli e responsabilità diverse. Padovano è stato arrestato con l’accusa di essere stato uno dei finanziatori dei trafficanti, Caricola è stato denunciato. Per Vialli nessun provvedimento. Così parlava il Corriere della Sera raccontando dell’arresto del calciatore. Atteggiamenti sospetti e ricostruzioni avevano portato al procedimento di custodia cautelare a suo carico. L’ex calciatore avrebbe prestato in due diversi momenti quasi 100 mila euro a quello che i carabinieri ritengono il capo della banda, Luca Mosole, 39 anni, di La Cassa (Torino), un disoccupato dal tenore di vita estremamente elevato. I carabinieri di Venaria (Torino), i primi a indagare, hanno anche accertato un episodio singolare: Padovano si presentò nel piccolo ufficio postale del suo paese per depositare 100 mila euro in contanti, contenuti in una scatola di scarpe. Padovano è nato calcisticamente con la maglia dell’Asti, prima di militare a lungo nel Cosenza: la notorietà è arrivata con le grandi squadre, soprattutto Genoa e Reggiana, e infine con la Juventus. A Torino Padovano è stato due anni, dal 1995 al 1997, prima di avviarsi all’estero e di iniziare gli ultimi anni da calciatore professionista. Poi, il guaio con la droga e l’arresto, nel 2006: solo pochi mesi fa l’udienza era arrivata alle richieste del Pubblico Ministero, che aveva chiesto per Padovano 24 anni. Il giudice, come abbiamo visto, ne ha concessi praticamente un terzo. Su Facebook c’è una fonte decisamente attendibile che commenta la sentenza. Si tratta di Alfredo Iuliano, che, come scrive in un recente aggiornamento del suo profilo, è sicuro che Padovano si meriti la condanna che ha ricevuto: questo perché “vendeva la droga a mio figlio”. Il figlio di Alfredo è Mark Iuliano, altro calciatore della Juventus e della Nazionale anch’esso finito in mezzo ad una brutta storia di droga. Nel 2008 un’ispezione federale ha trovato Iuliano positivo ad un metabolita della cocaina, la “benzoilecgonina”, come raccontava ancora il Corriere della Sera; in quell’annata Iuliano giocava sotto i colori del Ravenna, che soffre per sua sospensione a due anni di un danno di immagine quantificato, secondo i giudici sportivi, in 10.000 euro (un precedente assoluto per il mondo del calcio). Ora, il padre di Mark lo scrive forte e chiaro su Facebook. Iuliano senior chiama in causa Gianluca Vialli, in effetti lambito dall’indagine che ha portato Iuliano dietro le sbarre ma che si è sempre detto estraneo ai fatti; per quanto riguarda Jonathan Bachini, altro calciatore in zona Juventus alla fine degli anni ’90, si tratta di un atleta livornese espulso a vita dalla lega professionisti perchè “recidivo alla cocaina”: dal 2004 al 2006 infatti Bachini è stato trovato positivo ai metaboliti della cocaina nonostante il passaggio dal Brescia al Siena. Recentemente ha chiesto di poter essere riammesso all’albo, essendo passati più di cinque anni dai fatti: “Bachini a causa della coca ha visto stroncata del tutto la carriera”, dice Alfredo Iuliano. E’ ancora lui a tirare in ballo un altro nome. Resta ancora aperta la sua responsabilità sul caso Bergamini.
QUELLA MORTE MISTERIOSA – Donato Bergamini è stato un calciatore del Cosenza morto in circostanze mai chiarite nel 1989, ritenuto suicida: Michele Padovano, allora calciatore nella squadra calabrese, segnò il gol del pareggio nella sua ultima partita. Quando nuove informazioni sulla morte di Bergamini furono divulgate dal libro di Carlo Petrini, il nome di Padovano tornò in ballo: in effetti il calciatore ora condannato aveva qualcosa da raccontare sul suo fu-migliore amico. Oggi il miglior amico di Bergamini, Michele Padovano – lui sarebbe diventato centravanti della Juventus, del Genoa, del Crystal Palace –, ha voluto rivelare come i vestiti che il calciatore aveva indosso al momento della morte non siano mai stati repertati dai carabinieri. “Dopo la celebrazione dei funerali li ho visti sul pullman, dentro una busta. I miei compagni se li passavano, ognuno voleva possedere qualcosa di Donato”. Padovano ha un altro ricordo, preciso, sul 18 novembre 1989. Prima del cinema. Era con l’amico nella stanza d’albergo, il Motel Agip di Cosenza. “Dopo pranzo, riposavamo. La sveglia era fissata per le quattro del pomeriggio, lo spettacolo iniziava alle quattro e mezza. Intorno alle tre Donato ricevette una telefonata in camera. Non ci feci caso, ma lui cambiò espressione. Sembrava volesse parlarmene, non disse niente: diventò assente. Di solito andavamo al cinema con un’auto, quel giorno mi disse che avrebbe preso la sua. Voleva stare da solo. Accese il motore ed è stata l’ultima volta che l’ho visto”. Alfredo Iuliano ricostruisce una breve biografia del calciatore – presunto spacciatore. Padovano era un trovatello cresciuto in un orfanotrofio, spacciava già da ragazzo, dio gli diede l’opportunità di cambiare, invece porto la sua diabolica inclinazione anche nel calcio. E’ stato devastante. Mio figlio stimava padovano anche perchè quando era bambino era il suo idolo nel Cosenza. Quando gli fece l’assist in coppa campioni e padovano segnò di testa, mark toccò il settimo cielo. Il suo affetto era purtroppo mal riposto. Il giovane Iuliano in effetti era originario di Cosenza, anche se non militò mai nel club di casa. “La nostra famiglia è stata segnata per sempre”, dice il padre.
IL NARCO-CALCIO DA PADOVANO A BERGAMINI, scrivono Malcom Pagani, Andrea Scanzi, su il Fatto Quotidiano il 15 dicembre 2011. Nel fango del dio pallone si prega di fare silenzio. Coprendo i rumori di fondo che disturbano il quadro. Tagliando i fili con i portatori sani. “Mi trattano da lebbroso” dice oggi Michele Padovano e sembra un bambino. Ora che gli anni sono 45, le maglie impolverano in un cassetto e i ricordi (Juve, Napoli, Nazionale) sono una condanna quasi peggiore degli 8 anni e 8 mesi di solitudine per associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti. L’infanzia, l’amicizia con un trafficante, i panetti di hascisc, le fumate a casa dell’erede Grande Stevens, la maledizione del padre di un suo ex compagno, Mark Iuliano, solo l’ultima luce di una galleria di altarini spenti sotto la “neve” da Maradona a Pagotto, da Bachini a Flachi. Iuliano senior sostiene che Padovano fosse il diavolo. “Un cancro da estirpare” che passava la droga al figlio e riforniva mezza Juventus. Ha rotto con Mark, che lo smentisce chiamandolo “il signor Alfredo” e senza sorprendere nega le ricostruzioni pubblicate su Facebook. Alfredo Iuliano tira in ballo anche Vialli. L’ex campione che correva sull’erba e la consumava sporadicamente “fin dai tempi del Chelsea”. Il “Luc Besson” intercettato nel 2004 mentre intima a Padovano “abbondante, eh”. Lo stesso che in un cortocircuito virtuale minimizza su Twitter e più che il “Luc Besson” delle telefonate preferisce recitare da comparsa vanziniana: “Con Padovano, ma già si sapeva, solo qualche canna da ragazzi. Sbalordito dalla sentenza e dalle parole di Iuliano padre. Abbasso la droga viva la gnocca!!”. Su Padovano si dicono tante cose. Basta fare due passi a Reggio Emilia, dove ha giocato ed è stato dirigente, per sentire nere storie sul suo conto. Forse vere, magari false. Padovano, ora, giura di essere “un ingenuo”, lamenta l’emarginazione e rigetta l’allusione più violenta di Alfredo Iuliano. Quella su Donato “Denis” Bergamini, il “calciatore suicidato”, del libro meritorio (e censurato) di Carlo Petrini, l’ex calciatore che più che dribblare la verità l’ha inseguita. Non si può capire la parabola di Padovano senza affrontare il mistero Bergamini. Morì sabato 18 novembre 1989 a Roseto Capo Spulico (Cosenza). Il suo cadavere venne rinvenuto all’altezza del km 401 della statale Ionica ai bordi di una piazzola fangosa da dove si vede il mare. Travolto da un camion per decine di metri, mentre pioveva, a dar retta alla versione ufficiale. Portato in zona solo in seguito secondo la ragionevolezza e le limpide ruote della sua Maserati trovata a pochi metri. Aveva 27 anni ed era compagno di squadra, stanza d’albergo e appartamento di Padovano al Cosenza. Padovano vide Bergamini ricevere la telefonata che forse ne accelerò la fine. Nella stanza non c’era nessun altro. Ha sempre raccontato di averlo visto sconvolto dopo quel colloquio, senza però aggiungere altro. Limitandosi ad affermare che non ha mai creduto al suicidio e alle troppe versioni fornite dall’ex fidanzata di Denis (altra figura chiave), ancora viva, in zona e sposata con un poliziotto. Si è detto che quando Bergamini abbandonò di nascosto il Cinema Garden di Rende, l’allenatore Gigi Simoni e i compagni per andare incontro alla morte, Padovano fosse il solo a intuire dove era diretto. O forse no. Venne ucciso. Da chi? Non si sa. Il caso Bergamini è un domino infinito, “Chi l’ha visto?” gli ha dedicato una puntata anche ieri sera (erano presenti i familiari e Gallerani, il legale dei Bergamini) confutando gli orari del decesso. Denis fu vittima di un delitto d’onore? Oppure venne assassinato perché aveva scoperto di essere coinvolto in un traffico di stupefacenti e ne voleva uscire? La trasmissione che ha già dedicato molte puntate (incasellando querele) alla vicenda ha mostrato le incongruenze sull’orario della morte, la posizione della Maserati e gli “errori” grossolani del brigadiere Barbuscio (il primo ad occuparsene). Nei giorni scorsi, grazie al lavoro da pistard di Francesco Mollo del Quotidiano della Calabria si è scoperto che il camionista considerato in principio responsabile dell’uccisione involontaria di Bergamini, Raffaele Pisano, due volte assolto per omicidio colposo, non era morto come si supponeva. È vivo, ha 73 anni e un figlio, Bruno, pesantemente coinvolto nella più recente e importante operazione antimafia della locale Dda e il suo legale – Domenico Malvaso – fa sapere che non c’è nulla da aggiungere: “La famiglia non vuole più tornare sul tema e desidera dimenticare perché la ferita è troppo dolorosa”. Malvaso è subentrato da poco. Non ha conosciuto il padre di Donato, Domizio Bergamini. La sua ostinazione. Non ha seguito il caso dall’inizio. Non vede collegamenti con Padovano che in onore di Bergamini chiamò Denis il figlio, pianse ai funerali calabresi (10.000 persone) e indossò la numero 8 del Cosenza (quella di Bergamini) dedicandogli il gol, il giorno dopo la morte violenta di Denis, contro il Messina. Malvaso era altrove. Difende padre e figlio con atona professionalità: “Il mio cliente non si è mai finto morto. Fu un errore della stampa e suo figlio, pur coinvolto in storie non edificanti, all’epoca della tragedia Bergamini aveva solo sei anni”. Se insisti o adombri mafiosità ereditarie e contro deduzioni, Malvaso le bolla come ‘congetture’. Oppone un garbato rifiuto su qualunque altra ipotesi pur specificando che le atroci foto pubblicate dalla Gazzetta dello Sport nel ventennale della morte di Bergamini (il corpo, pasoliniano, deturpato su un solo lato ma non sfigurato) lui non le ha mai viste: “Non capisco perché vi stupiate. Io sono abituato a lavorare sugli atti e non sui giornali sportivi. Per ora non siamo stati convocati, ma se riapriranno il caso, il mio assistito deporrà ancora una volta. La sua posizione? È cristallizzata nelle dichiarazioni di allora”. Ventidue anni fa. Oggi.
Bergamini, 20 anni di omertà. Calciatori, dirigenti e malavita: la Maserati di Paese, scrive Iacchite il 31 ottobre 2017. Abbiamo delineato il contesto della città di Cosenza alla fine degli anni Ottanta, una città dai due volti. Da una parte la città oscura e sotterranea, nella quale domina la “cappa” di una cupola politico-giudiziaria-massonica e mafiosa tuttora visibile e operante (almeno fino a quando qualcuno non metterà un vero procuratore capo nel “porto delle nebbie”) e dall’altra la città degli Ultrà Cosenza e dei Nuclei Sconvolti ovvero l’anima progressista e ribelle. I calciatori del Cosenza hanno a che fare, naturalmente, con tutte le diverse anime di questa città. Amano gli ultrà perché loro coetanei e perché hanno gli stessi interessi, dalle ragazze alla voglia di divertirsi e di aggregarsi. Una Curva sempre piena, ottomila anime che ti incitano e ti spingono a spaccare il mondo, del resto, non può che esercitare un grandissimo fascino su un giovane calciatore. Ma devono dar retta anche ai dirigenti, che ovviamente non possono che essere espressione dell’altra faccia della città. Il presidente Carratelli appartiene all’avvocatura (e abbiamo visto che potere esercitava) e ci sono ben pochi dubbi che sia massone, così come il vicepresidente, lo stampatore Umberto De Rose, figlio di Tanino, un grande massone che non si è mai vergognato di dirlo (a differenza di Carratelli). L’altro vicepresidente Salvatore Perugini è avvocato e nipote dell’ex presidente del Cosenza ed ex dominus democristiano della Cassa di Risparmio di Calabria e di Lucania, scomparso prematuramente e medita di entrare in politica come il padre, il senatore democristiano Pasquale. Paolo Fabiano Pagliuso si occupa dell’arredamento di bar e ristoranti ed è imparentato con uno dei boss della malavita, Franco Perna, Antonio Serra (anche lui in odore di massoneria) lavora nel campo dei materiali sanitari, Giorgio Trocini era bene inserito nel mondo dell’edilizia e così via. Il dirigente accompagnatore della società è Santino Fiorentino. Gestisce un negozio di abbigliamento sportivo, “Giocasport Franca”, su via Panebianco ed è il cognato di un boss della malavita cosentina, Tonino Paese (appartenente al clan Perna-Pranno), che passa molto tempo in un biliardo a due passi dal negozio di Fiorentino, che si chiama “Brutia Club”. Paese è sempre stato un grande tifoso del Cosenza, animato da una passione che lo porta a seguire la squadra dappertutto. All’inizio degli anni Ottanta è passato alla “leggenda” perché ha dato una lezione “esemplare” a un gruppo di tifosi reggini che, dal settore ospiti, avevano pensato bene di intonare il coro “Cosenza vaffanculo”. Tonino, che stazionava abitualmente in Tribuna B, chiamò un paio di amici e imitò Bud Spencer e Terence Hill con una scazzottata che in molti ancora ricordano. Paese aveva l’obbligo di dimora ma, quando doveva seguire in trasferta il Cosenza, non esitava un attimo a “rischiare” per amore dei colori rossoblu. Paese è vicino alla squadra e conosce i calciatori, con alcuni dei quali ha anche un rapporto di amicizia. Tra questi c’è certamente Alberto Urban, che spesso fa tappa al biliardo e trascorre un po’ di tempo con Tonino e i suoi amici, magari a giocare a poker e più frequentemente a fare allegre ciambotte. Qualche volta erano ammessi anche i cronisti… Tonino si divertiva a far parlare il dialetto cosentino a Urban, notoriamente di origine francese, che invece era negato. E così una sera gli propose uno scioglilingua cosentino che era tutto un programma. “Cicciu ciangia ca nun ci aiungia a tuccar’a ciongia…”. Roba da sbellicarsi dalle risate. Nel corso della settimana di feste dopo la promozione, il Cosenza viene invitato anche a giocare una partitella nel campetto in terra battuta di fronte al negozio di Fiorentino, nella traversina del Bar Perri, in un’atmosfera di grandissima condivisione e di festa generale. Ancora oggi ce n’è testimonianza su you tube e si può vedere un Denis Bergamini scatenato nei festeggiamenti. Un anno e mezzo dopo, Paese, che gira per la città con una Maserati Biturbo bianca col tettuccio nero e con il radiotelefono vicino al cambio, ha esigenza di vendere la macchina, che risulta intestata a una sua parente. Parla con un po’ di calciatori e alla fine la cede a Denis Bergamini. Pare avesse percorso soltanto mille chilometri e che sia costata 35 milioni al nostro centrocampista.
LA MASERATI DI DENIS. Quella macchina sarebbe diventata il principale mezzo di “depistaggio” delle indagini sull’omicidio di Denis. In molti ritenevano che quell’auto nascondesse chissà quale segreto e che potesse contenere “doppi fondi” per trasportare droga, magari quando Bergamini tornava a casa a Ferrara o quando il Cosenza giocava in trasferta al Nord. Denis la compra ad agosto del 1989, quattro mesi prima di morire. Quella macchina ha percorso solo una volta il tragitto Cosenza-Ferrara e non ha mai seguito il Cosenza in trasferta. Non ha mai nascosto “doppi fondi”, per com’è stato appurato anche dai Ris di Messina ma per decenni ha “terrorizzato” noi cosentini, che ci eravamo erroneamente convinti che potesse rappresentare chissà che cosa. “Chi l’ha visto?”, la popolare trasmissione di Raitre ci aveva montato su un “caso” e l’aveva anche fatta vedere, sottolineando persino i punti dove potevano essere i “doppi fondi”: vicino al serbatoio e dietro il cruscotto. Carlo Petrini, autore del libro “Il calciatore suicidato”, del quale ci occuperemo ampiamente più avanti, riteneva che la Maserati potesse essere una macchina “franca”, pulita, nel senso che, sia a Cosenza, sia al Nord, le forze dell’ordine sapevano bene che non avrebbero dovuto toccarla. E sosteneva che Bergamini si fosse reso conto di essere diventato un “corriere della droga” firmando in pratica la sua condanna a morte. In realtà, Tonino Paese non aveva nessun interesse a far passare la droga dal Cosenza Calcio. Probabilmente esercitava attività illecite e magari spacciava anche droga ma non gli passava neanche per la testa di coinvolgere in queste vicende i suoi amici calciatori, per i quali andava letteralmente pazzo per un semplice motivo: indossavano la maglia della sua squadra del cuore. Il problema è che Paese muore ammazzato neanche due anni dopo l’omicidio di Denis (pare, ironia della sorte, per problemi legati a una donna…) e così non c’è stata più la possibilità di ascoltare quello che sarebbe stato un “testimone” importantissimo anche per quei cronisti che cercavano la verità. E, di conseguenza, cresceva la convinzione “sballata” che Paese avesse potuto avere un ruolo in quella morte. E invece non è mai stato così. Michele Padovano dal canto suo si faceva vedere spesso in giro con Raffaele Mazzuca, altro esponente del clan Perna-Pranno. I due avevano un bel rapporto di amicizia e si divertivano insieme. Una volta, sciando in Sila con Mazzuca e altri amici, Michele si ruppe pure un braccio beccandosi una dura reprimenda della società, mitigata soltanto dall’intervento “paterno” di mister Giorgi. Saremmo ipocriti se dicessimo che i calciatori del Cosenza non frequentassero “amicizie pericolose” (e che dovremmo dire di Diego Armando Maradona?) e ancora più ipocriti se non dicessimo che i dirigenti del Cosenza non avessero rapporti con la malavita, ma è assolutamente falso sostenere che quei legami possano avere avuto un ruolo nella morte di Denis Bergamini. L’omicidio del nostro Campione, come vedremo, risponde a logiche completamente diverse. Del resto, hanno osservato in tanti, quando la malavita vuole uccidere qualcuno mette sempre la firma: o fa sparire il cadavere o lo fa trovare con messaggi inequivocabili. In questo caso, come vedremo, ha messo a disposizione la struttura logistica, creando i presupposti perchè qualcuno potesse uccidere. Ma non è la malavita ad aver ordinato l’eliminazione di Bergamini né tantomeno sono “malavitosi” nel senso letterale del termine coloro che lo hanno ucciso. Se fossero stati “mafiosi” non avrebbero certo combinato quel disastro. Tecnicamente parlando, l’omicidio di Bergamini è stato compiuto da “macellai” senza nessuna esperienza e il gioco è andato avanti solo perché lo stato era complice e connivente. La mafia, quella vera, non agisce così.
Bergamini, 20 anni di omertà. Donata a “Il Romanista”: “Denis, non sarai più solo”, scrive Iacchite il 12 novembre 2017. Tratto da “IL ROMANISTA” di Vincenzo Mulè. «Ti va di parlare?». Le agenzie stampa hanno battuto da poco la notizia che aspettava da circa trent’anni. Donata Bergamini risponde subito: «Certo!». Suo fratello, Donato Bergamini, ha finalmente avuto (una prima) giustizia. La verità racconta una storia diversa sulla fine del calciatore del Cosenza, morto per soffocamento. «Il corpo di mio fratello parla da quasi trent’anni, ma nessuno ha voluto dargli ascolto. Ora, finalmente, c’è qualcuno che ha voluto sentire cosa aveva da dire». Se le anticipazioni troveranno conferma, la storia del «calciatore suicidato» – come scrisse Carlo Petrini in un suo fortunato libro – andrà totalmente riscritta. Donata Bergamini da 28 anni si batte perché venga scoperto il reale motivo della morte del fratello, trovato senza vita la sera del 18 novembre 1989 sull’asfalto della statale 106 nei pressi di Roseto Capo Spulico in provincia di Cosenza. Una tenacia che, ora, sembra aver portato dei frutti anche se, ci tiene a precisare «io di ufficiale non so nulla. Posso solo dire che per la prima volta ho visto i miei consulenti soddisfatti. Non c’è stato mai, dico mai, nemmeno un secondo in cui ho creduto che Denis si fosse suicidato. Prima di tutto perché lo conoscevo come nessun altro e in pochi amavano la vita come lui. Poi, perché stava per coronare il suo sogno, andare a giocare in Serie A. Terzo, perché il week end prima della sua morte era qui nelle nostre zone, vicino la nostra casa di famiglia, per comprare un terreno. Voleva costruirci la casa dove sarebbe andato a vivere con la sua ragazza. Denis – rivela Donata – aveva anche deciso di sposarsi con una ragazza del Nord con la quale si era fidanzato dopo la fine della sua storia con la Internò. Stavamo bene, altro che suicidio! Tutto andava per il meglio, era arrivata anche la Serie A!». L’estate del 1989, infatti, Bergamini aveva ricevuto due offerte: una dalla Fiorentina e una dal Parma di Nevio Scala. La scelta cadde sulla società di Tanzi, sia per valutazioni di carattere calcistico sia perché tornava a giocare a due passi da casa. «Voleva sempre stare qui e appena poteva tornava – riprende ancora Donata -. Non che si trovasse male a Cosenza, anzi, ma amava proprio stare a casa sua. Mi ricordo che una volta, avrà avuto 16 anni, il presidente di una squadra di un paesino delle nostre parti, in provincia di Ferrara, lo voleva portare a giocare un torneo in Svizzera con la squadra dei più grandi. Passammo due giorni a convincerlo. Lui amava la sua terra e la sua casa e più ci stava e meglio si sentiva». Con il Parma, Denis raggiunse un accordo: un’altra stagione a Cosenza e poi il salto definitivo. Voleva guarire per bene da un infortunio e arrivare pronto alla Serie A. Un salto mai spiccato. Non per colpa sua. Bergamini giocò la sua ultima partita il 12 novembre 1989: Monza-Cosenza 1-1, con rete rossoblù di Michele Padovano. «Il mondo del calcio non ci ha mai abbandonato e io non ho mai smesso di seguire il Cosenza – riprende Donata – ma se c’è una cosa che mi ha fatto stare male è stata la mancanza di sensibilità nel far disputare la partita tra il Cosenza e il Messina il giorno dopo la morte di mio fratello». La partita finì 2 a 0 per i calabresi e proprio Padovano segnò uno dei due gol. Quel giorno, l’attaccante aveva chiesto – e ottenuto – di giocare con la maglia numero 8 dell’amico che non c’era più. Padovano, Simoni e Bergamini erano inseparabili. L’esperienza calabrese aveva fatto nascere tra i tre un’amicizia rara nel mondo del calcio. «Fu incredibile – ricorda Donata -, passammo tutta la notte svegli. Tutta la squadra era lì con la nostra famiglia. Non dimenticherò mai i loro volti spaesati, increduli per una situazione inimmaginabile. Però, l’immagine che più mi è rimasta impressa fu quella di Gianni Di Marzio. Era stato allenatore di Denis sempre a Cosenza. Appena saputo della notizia, raggiunse la squadra in albergo e spalancando la porta cominciò ad urlare che non voleva sentire storie e che non credeva alla storia del suicidio. Anche Gigi Simoni, l’allenatore di quella stagione, era d’accordo con lui».Il ricordo di Donata si ferma su Cosenza, la città e la squadra. Ma soprattutto sul gruppo di giovani calciatori che, piano piano, avevano stretto amicizia, coinvolgendo anche le famiglie. E’ un racconto di un calcio andato, difficile da rivivere oggi: «Seguivo tutte le partite di Denis, fin da quando era un bambino prodigio. La domenica non andavo a ballare, ma allo stadio a vedere mio fratello. Partivo con i miei genitori e mia figlia, soprattutto se le trasferte erano al Centro-Nord dell’Italia. Spesso, però, siamo andati anche a Cosenza. Ci organizzavamo anche con le altre famiglie dei compagni di squadra di Denis. Spesso davamo un passaggio anche alle loro fidanzate. Di solito eravamo tre macchine alle quali si univa quella dei genitori di Padovano, che venivano da Torino. I ragazzi erano molto uniti e spesso, nei lunedì dopo la partita, venivano a mangiare qui da noi. E se non mangiavamo da noi, ci vedevamo tutti a casa di Gigi Simoni, il portiere omonimo dell’allenatore, che viveva a 40 chilometri da casa nostra. Anche il Natale lo passavamo tutti assieme. Ricordo ancora il risotto all’anguilla dei Simoni e i tortellini che preparava mia madre. Gli anni più belli della vita di Denis si sono svolti quando lui era al Cosenza. Non seguirla più sarebbe stato come non seguire più mio fratello». Il calcio era la vita per Bergamini: «Non c’è un momento in cui non lo ricordi con un pallone tra i piedi. Tra me e Denis c’erano 18 mesi di differenza. Lui è sempre stato un tipo molto magro. Ed era il piccolino di casa. Quindi, per non dirgli di no, mi ritrovavo sempre in un campo di calcio con lui, però in porta!». Dalla relazione tra i due fratelli prende piede un vero e proprio movimento, tanto che verso la fine degli anni Sessanta ad Argenta, un piccolo comune del ferrarese, si era formata una squadra di calcio di sole donne che appena poteva sfidava i maschi. Ci veniva a vedere la gente del paese!». Ricordi belli, di tanti anni fa e che non l’hanno mai abbandonata. Accompagnandola nel momento più difficile». La riesumazione me la sono seguita tutta, dall’inizio alla fine», ricorda Donata, che racconta dei tentativi fatti dal suo avvocato e da chi le era vicina di distoglierla dal suo proposito. «È stato un avvicinamento lungo, durato due anni – ricorda Donata – L’avvocato (Fabio Anselmo, il legale noto anche per aver seguito la famiglia Cucchi, ndr) me lo aveva detto e ha cominciato a parlarmene due estati fa. Mi diceva che se volevamo arrivare alla verità la riesumazione era necessaria. Mi diceva anche che sarebbe stata un’esperienza da evitare, ma io avevo deciso di non lasciare più solo mio fratello. Su una cosa non transigo più: dove c’è mio fratello, ci voglio essere anche io. Sono rimasta fregata una volta e ora non permetto più che nessuno tocchi mio fratello senza di me». E la preparazione è servita. Lo scorso luglio, durante le operazioni di riesumazione, «ero lì, con gli occhi di tutti addosso. Mentre aprivano la bara, percepivo il loro stato d’animo preoccupato nei miei confronti. Dentro di me dicevo: state tranquilli per me e fate bene il vostro lavoro. Il mio sguardo era vigile su quello che accadeva ma ero serena perché ero pressoché sicura che il corpo di Denis sarebbe stato in condizione di aiutarci. Poter partecipare a quei momenti lo considero un regalo bellissimo, che mi ripaga anche del passato». Cioè di quella maledetta notte del 1989, quando Donata fu la prima a vedere il corpo del fratello: «La prima versione che ci fornirono fu che Denis era stato trascinato per 64 metri da un camion carico di mandarini. Appena lo vidi, mi sentii male. Mi aspettavo di vedere un corpo straziato, invece lo trovai quasi intatto. Il volto era scoperto e aveva un lenzuolo bianco fino ai piedi. Ricordo che aveva un piccolo livido sulla tempia sinistra. Aveva la forma perfettamente circolare, come una moneta da due centesimi». A questo punto accade un episodio che nel corso degli anni ha dato adito a mille interpretazioni: «Faccio entrare i miei genitori per l’ultimo saluto. Mia mamma vuole baciare mio fratello ma un infermiere la blocca dicendole di non farlo perché l’unica parte rimasta intatta era la testa. Appena l’uomo lascia la stanza, solleviamo il lenzuolo dai piedi e riusciamo a vedere fino all’inguine. Il corpo era intatto. Ricordo che riusciamo anche a vedere il colore dei calzettoni che portava». Fu il primo di tanti tasselli che in questa storia non hanno mai trovato il loro esatto posto. Fino a quando qualcuno non ha deciso di (ri)ascoltare il corpo di un ragazzo assassinato e strappato alla vita nel suo momento migliore.
Omicidio Bergamini, “Quarto Grado” e lo stato deviato, scrive Iacchite il 4 novembre 2017. L’attenzione mediatica sull’omicidio Bergamini è ritornata forte e i grandi media e le trasmissioni “specializzate” nei cold case sono tornate in massa sull’intricata faccenda all’indomani delle indiscrezioni riguardanti la superperizia, che affermano senza possibilità di equivoci che Denis è stato ucciso. Per soffocamento. Ieri sera “Quarto Grado” su Rete 4 ha dedicato buona parte della trasmissione a Denis Bergamini. Tra gli ospiti c’era anche Michele Padovano, il quale, intervistato da Gianluigi Nuzzi, ha ribadito quanto ha detto più volte negli anni passati e cioè che non ha mai creduto al suicidio di Denis raccontando gli scherzi che ha fatto fino a quel sabato mattina. Il “bomber” ha poi ricordato quella telefonata che Denis ricevette al Motel Agip prima di scendere per andare al cinema Garden e anche in questo caso ha ribadito quanto detto negli anni passati e cioè che rimase molto turbato da quei pochi attimi di colloquio. Quanto alla dichiarazione relativa ai “festeggiamenti” in casa di Isabella Internò dopo il funerale di Denis, Padovano non ha confermato quanto è stato scritto dall’ormai defunto Carlo Petrini (“Una cosa che mi è sembrata strana è che quando siamo arrivati a casa sua, non c’era un clima da funerale ma una certa allegria. Mi hanno perfino invitato a bere…”). Petrini non c’è più e non può replicare ma tra i due c’è stata più di una incomprensione per quella intervista. Padovano ha sempre contestato quanto ha scritto Petrini nel suo libro e non solo questa dichiarazione. Il buon Carlo aveva tentato di abbozzare un collegamento con moventi legati a questioni diverse da quelle passionali (calcioscommesse in questo caso, poi ci hanno messo anche la droga) e la risposta di Michele era stata aggressiva perché ritenute offensive della memoria di Denis e dell’onestà professionale di tutti i suoi compagni di squadra. Il giornalista Remo Croci era in diretta dallo stadio “Gigi Marulla” ed ha aggiunto diverse note di colore alla storia, facendoci rivedere la curva di Denis, il tappeto erboso e quegli spalti che per anni hanno trepidato per il grande Cosenza dei tempi belli. Scendendo nei particolari dell’inchiesta, è stato spiegato dagli addetti ai lavori che la Tac tridimensionale renderà possibile distinguere le fratture primarie da quelle secondarie e anche le cause della morte. Non sono mancati i riferimenti al soffocamento “dolce”, messo in essere presumibilmente da più persone e, dulcis in fundo, l’eventualità molto probabile che subito dopo il deposito della superperizia, il procuratore Facciolla invierà nuovi avvisi di garanzia ad altri indagati. Donata Bergamini ha ricordato una serie di episodi relativi a Isabella Internò. “… Si erano lasciati da otto mesi ma lei (Isabella, ndr) era come l’Attak, se la trovava davanti in qualsiasi momento… Tempo dopo la morte di Denis aveva anche telefonato a mio padre sostenendo che Denis voleva che la Maserati se la tenesse lei e la risposta era stata positiva ma solo a patto che dicesse finalmente la verità…”. Ha concluso ribadendo che non farà sconti a nessuno e che non concederà mai il perdono a Isabella: “Avrebbe dovuto farlo prima e io glielo avrei anche concesso ma adesso no, non più”. A un certo punto della trasmissione, Gianluigi Nuzzi ha posto il fatidico quesito: “Ma non è che Isabella Internò abbia taciuto e taccia ancora per paura?”. L’interrogativo si è trasformato in farsa quando la regia ha fatto partire le intercettazioni del marito poliziotto ed ex amico di famiglia Luciano Conte prima che Isabella andasse all’interrogatorio a Castrovillari. Oltre a quelle già conosciute, ne è stata (ri)proposta un’altra nel corso della quale Conte dice alla moglie: “… Loro lo sanno ed è per questo che ti chiedono di me…”. Di qualsiasi cosa si tratti, del loro rapporto sentimentale, di quando è cominciato e cosa si sia portato dietro oppure della sera dell’omicidio, poco importa. Nessuna “paura” può avere impedito a Isabella di rivelare quello che era accaduto quella sera, in primo luogo proprio perché si era legata a un servitore dello stato. E qui l’opinionista della trasmissione Carmelo Abbate ha giustamente sottolineato che in questa vicenda lo stato è pesantemente implicato a tutti i livelli perché sono chiare come il sole le responsabilità dei magistrati e delle forze dell’ordine che hanno coperto e insabbiato. Per ironia della sorte, Abbate ha lo stesso cognome di Ottavio, il sostituto procuratore che ha colpevolmente depistato le indagini. E, sempre a proposito di stato deviato, Donata Bergamini ha ricordato che cosa hanno raccontato alla famiglia per i vestiti di Denis. “Prima ci hanno detto che i vestiti erano stati messi in un sacco nero e poi, dopo appena un quarto d’ora, l’infermiere ci faceva sapere che non era possibile riaverli perché erano stati bruciati in un inceneritore”. Toccherà al procuratore Facciolla mettere sotto processo lo stato deviato, protagonista principale dell’omicidio di Denis Bergamini, altro che camorra!
Lettera a Bergamini, il migliore di quel Cosenza (di Luigi Simoni), scrive Iacchite il 3 novembre 2017. Di Luigi Simoni – ex portiere Cosenza Calcio – tratto da Stadio Sport. Le favole a lieto fine iniziano sempre con “C’era una volta…”, ma qui il lieto fine ancora non c’è e comunque non ci sarà mai…Ci siamo conosciuti di persona nell’estate del 1985 ad un torneo di calcio notturno di beneficenza, se non ricordo male. Il luogo esatto non lo ricordo, ma già sapevo che da lì a qualche settimana saremmo diventati compagni di squadra nel Cosenza, dove io già militavo da un anno. Ci prendemmo subito in simpatia, visto che ci accomunò la voglia di vincere, anche nel torneo “del bar”, che poi ci accompagnò nei seguenti 4 anni della nostra permanenza in Calabria. A fine partita ci salutammo con un arrivederci in ritiro. Berga era un ragazzo, un Amico ed un Giocatore eccezionali e in ritiro si mise in mostra sin da subito anche se c’erano alcune gerarchie da rispettare, visto che l’anno precedente il Cosenza arrivò 7° sfiorando la Coppa professionisti, per cui le aspettative erano alte e la squadra era stata rinforzata. Quindi, si decise di mettere i giovani in panchina. Essendo entrambi “quasi” vicini di casa (Boccaleone e Comacchio distano 36 km) decidemmo di condividere un appartamento giù a Cosenza diventando Amici per la pelle da subito. Il campionato 1985/86 non cominciò male, anzi, ma poi nel proseguo i risultati furono deficitari e l’allora grande D.S. Ranzani, con Mister Montefusco, ebbe il coraggio e l’intuizione di fare una “rivoluzione”: fuori alcuni “vecchi” e dentro i giovani. Io e Berga diventammo titolari inamovibili e raccogliemmo numerosi consensi, fino a conquistare una sospirata salvezza! Di quel gruppo facevano già parte Claudio Lombardo, Ciccio Marino, che insieme a noi due diventò la costante di tutte le formazioni che vennero a seguire e che portarono i Lupi dove il calcio comincia a contare qualcosa! Le Amicizie con la A maiuscola si riconoscono da quello che fai tu per gli altri e quello che fanno gli altri per te… la complicità, quando con uno sguardo ti capisci, coprirsi a vicenda ed a volte prendersi le “colpe” anche se non sono tue. Ecco, Noi questo eravamo. Noi eravamo disposti anche a gettarci nel fuoco per l’Amicizia, esserci sempre per qualsiasi cosa l’uno per l’altro, e tutto questo si può riassumere in una parola, in un nome: Donato Bergamini! Per scontato si dice di qualcuno che non c’è più che era il migliore ma Berga lo era veramente il MIGLIORE di tutti noi. Era (e per me ma credo anche per gli altri lo è ancora) il migliore Amico di ognuno di noi: educato, gentile, disponibile; insomma un ragazzo perbene fuori dal campo ed un Guerriero Indomabile dentro il campo, e di cui tu ti potevi fidare sempre. Nei primi 3 anni nei Lupi Denis veniva “usato” per mettere la museruola al giocatore più talentuoso del centrocampo avversario; a tal proposito, ricordo aver “azzerato” Zola, all’epoca nella Torres, ed aver battagliato epicamente contro Rui Barros della Juventus. Ma l’intuizione che ebbe Bruno Giorgi (che stravedeva per Denis tanto da farlo rientrare in squadra “zoppo” dopo l’infortunio) di lasciarlo anche giocare con libertà di inserimenti offensivi (il quarto anno fu il suo campionato migliore) fu una genialata. Se non si fosse rotto la gamba prima di Udinese-Cosenza staremmo qui a raccontare un’altra storia…Quel Cosenza, anzi il Cosenza di quegli anni, aveva un Gruppo Fortissimo, tutti ragazzi che avevano “fame” di vittorie e voglia di diventare Grandi e che non temeva nulla. Spesso si ritrovava a casa da qualcuno per una castagnata o per mangiare anguria o per mangiare uno dei dolci della signora Lucchetti (Tiziana). Sono sicuro di parlare a nome di tutti quei ragazzi… quel 18/11/89 una parte di noi se ne è andata via con Berga. La sua scomparsa, la sua morte, il mistero che circonda quella vicenda ha segnato tutti noi. Sì, certo, la vita è andata avanti, ognuno di noi ha proseguito la propria carriera con gioie e qualche dolore. Ma tutti noi sappiamo che Berga con la sua voglia di vivere e la sua presenza, la sua Amicizia, avrebbe sicuramente reso migliori le vite di tutti quanti noi. Dopo la sua morte hanno cercato di infangare la sua memoria e sporcare la sua immagine parlando di calcio scommesse e droga, ma la sua fama di bravo, onesto e generoso ragazzo, la sua Fantastica Famiglia e noi amici non lo permetteremo mai! Ora, dopo anni di bugie, cazzate e depistaggi si intravede e si sente un vento di libertà, un vento di verità… un vento di giustizia… Sì, Giustizia e Verità per Donato Bergamini. Ovunque Tu sia, un Abbraccio Immenso Amico mio! Gigi
L’attuale mister dello Stresa fu l’ultimo compagno a vedere Bergamini: “Mai creduto al suicidio”. Galeazzi giocava nel Cosenza: i suoi ricordi dopo la riapertura del caso sul calciatore morto nel 1989 a 27 anni, scrive Filippo Massara il 31/10/2017 su "La Stampa”. E’ stato l’ultimo compagno di squadra a vederlo in vita e non ha mai creduto al suicidio. L’aronese Sergio Galeazzi, allenatore di calcio dello Stresa, era un grande amico di Donato «Denis» Bergamini. Giocava con lui nel Cosenza quando il centrocampista morì nel 1989 a 27 anni. All’epoca il caso venne archiviato: l’uomo si sarebbe tolto la vita lanciandosi sotto un camion in corsa sulla statale 106 jonica nella provincia calabrese. Familiari, tifosi e tante altre persone vicine a Bergamini hanno sempre pensato che la verità fosse un’altra: quell’incidente era una messinscena per nascondere l’omicidio. Ora la possibile svolta: il calciatore ferrarese sarebbe morto per soffocamento e non per lo scontro con il veicolo. La tesi trapela dai risultati della super perizia chiesta da Eugenio Facciolla, procuratore capo di Castrovillari. «Sapevamo che prima o poi la verità sarebbe venuta a galla - dice Galeazzi -. Per noi è una conferma. Denis era sempre allegro, poteva andare al Parma e non aveva mai manifestato insofferenza. Eppure all’inizio si parlava di legami con la droga o il calcioscommesse: tutte frottole». Nella nuova inchiesta sono indagati Isabella Internò, l’ex fidanzata di Bergamini, e Raffaele Pisano, l’autista del camion. Anche una terza persona sarebbe coinvolta nel caso che già l’autopsia eseguita nel ’90 e ulteriori accertamenti condotti dai Ris nel 2012 avevano rilevato essere pieno di punti oscuri. «Io stesso – prosegue Galeazzi - sono stato convocato dai carabinieri solo nove anni dopo il decesso per ricordare cosa avessi visto quel giorno. E’ strano perché ero molto legato a Denis: con Michele Padovano e Claudio Lombardo eravamo gli scapoli del gruppo». L’ex amico non dimenticherà mai l’ultimo pomeriggio trascorso con i compagni al cinema Garden di Rende, un’abitudine per la squadra in ritiro il sabato prima di ogni partita casalinga. «Denis era seduto in una fila sotto la mia - spiega -. Gli tiravo le palline di carta per giocare. Lui si alzò poco prima che cominciasse il film e si avvicinò alle scale. Lo vidi con due persone, due ombre, ma era buio e nessuno di noi si accorse se si fosse allontanato». A cena, la brutta scoperta. «Il cameriere spiegò a Gigi Simoni, il nostro allenatore, che la fidanzata di Denis aveva telefonato per dire che era morto – continua -. Ma lei non era più la sua compagna, quindi pensavamo a uno scherzo. Poi però chiamarono i carabinieri: era tutto vero». In questi anni Galeazzi ha incontrato più volte la famiglia Bergamini, “«he non ha mai mollato. Ora - avverte - bisogna andare fino in fondo».
Bergamini, 20 anni di omertà. Parla Fabio Anselmo: “Ora lo Stato finalmente processerà se stesso”, scrive "Iacchite" il 31 ottobre 2017. Il legale della famiglia Bergamini, Fabio Anselmo, in un primo tempo non ha confermato né smentito le indiscrezioni riguardanti i risultati della superperizia sulla salma riesumata di Denis che dimostrerebbero un omicidio per soffocamento. Ma poche ore fa, nel corso della tarda serata di ieri, ha diffuso un suo importante pensiero sul suo profilo di FB. Lo riportiamo integralmente. La verità su cosa sia accaduto a Denis Bergamini potrebbe andare oltre ogni immaginazione. Ho sempre creduto che la medicina legale avrebbe potuto alzare il velo di ipocrisia, falsità e depistaggi che ha coperto fino ad oggi la sua uccisione. È sorprendente come ora a Castrovillari lo Stato sia presente e si sia riappropriato del proprio ruolo dopo tanti anni. Senza arroganza ma con efficienza. Quel che so è che più vado avanti e più sento che questo sarà uno dei processi miei, in tutto e per tutto. Qui lo Stato processerà sé stesso. Finalmente.
Omicidio Bergamini, ecco chi ha paura della verità, scrive "Iacchite" il 30 ottobre 2017. Sono passati quasi tre anni da quel 23 febbraio 2015 quando il pavido e oscuro, ormai ex procuratore della Repubblica di Castrovillari, Franco Giacomantonio, si è messo in prima linea facendoci anche vedere la sua faccia di bronzo. Doveva per forza agire così davanti all’assedio mediatico nella sua cittadella, nel suo muro di gomma creato appositamente per insabbiare i processi delicati. Quelli che coinvolgono i pezzi deviati dello stato. Dall’omicidio Bergamini all’omicidio del magistrato Bisceglia. Tanto per citare soltanto i due casi-limite. Da Castrovillari, tuttavia, appena andato in pensione il pavido Giacomantonio, il nuovo procuratore Eugenio Facciolla ha fatto le cose seriamente per risalire finalmente alla verità sugli assassini di Denis Bergamini. E abbiamo avuto la prova che non è come Giacomantonio. Oscuro burocrate (ahinoi cosentino) al servizio dei potenti e dello stato deviato.
Facciolla è un magistrato serio: ha fatto guerra ai magistrati corrotti, ha fatto emergere molto del marcio che c’è nella giustizia cosentina ed è stato l’unico a perseguire seriamente corruzione, malaffare e delinquenti. Ma ha pagato un prezzo molto alto. Oggi, probabilmente, è stato “assorbito” da quel sistema che prima lo respingeva ma rimane comunque l’unica seria speranza per arrivare alla verità (quella, tra l’altro, che tutti conosciamo) sull’omicidio di Denis Bergamini. Del resto, non era davvero possibile lasciare in piedi la montagna di fandonie costruita ad arte prima dal complice e connivente Ottavio Abbate e dalla sua procura in mano al clan Cirillo e poi dal pavido Giacomantonio, tutto proteso a proteggere i “pezzi da novanta” che temono di essere smascherati dopo aver ucciso il nostro Campione. Per Giacomantonio non sono bastate tre perizie di medici legali di assoluto valore (Avato, Testi e Bolino) nè tantomeno l’evidenza e la logica: per lui Bergamini si è suicidato e non ci sono prove che reggano. Eppure era stato proprio lui a riaprire il caso nel 2011 sottolineando tutti i madornali errori delle indagini dell’epoca. Così com’era stato ancora lui, nell’aprile del 2012, a dichiarare testualmente che “Bergamini non è morto tuffandosi sotto un camion”. Ed era stato sempre lui, nel 2013 (a meno che non abbia un sosia oppure, ipotesi più probabile, uno sdoppiamento della personalità) a indagare per concorso in omicidio volontario Isabella Internò ovvero colei che continua a sostenere, senza vergognarsi, che Denis si è suicidato. Quel 23 febbraio 2015, in maniera del tutto irrituale rispetto alle pratiche consuete della giustizia italiana, Giacomantonio (cioè un procuratore della Repubblica) era addirittura presente nell’aula del tribunale in una udienza nella quale si discuteva una richiesta di archiviazione, per dare manforte alle sue “ragazza” (il gip e il pm). Temeva la vis oratoria dei legali della famiglia Bergamini, Fabio Anselmo ed Eugenio Gallerani.
Fabio Anselmo, sia nelle pause dell’udienza che alla fine del braccio di ferro con quell’omino piccolo piccolo, gli ha assestato una serie di fendenti che devono aver fiaccato il suo precario equilibrismo a favore delle assurde tesi della “mantide” di Surdo. Anselmo, in particolare, ha offerto alla procura di Castrovillari l’opportunità di dimostrare che al suo interno ci sono magistrati seri e credibili. Andato via Giacomantonio, insomma, la partita si è riaperta. Eccome se si è riaperta. “Abbiamo richiesto – affermò all’epoca il legale – una serie di indagini immuno-isto-chimiche suo preparati in formalina dei resti di Denis Bergamini. Si tratta di esami che possono datare le lesioni subite ed accertare senza possibilità di errore se i tessuti erano vitali quando il camion ha sormontato lentamente e parzialmente il corpo di Bergamini. Ma anche una Tac tridimensionale, da effettuare con la riesumazione del cadavere, che darebbe gli stessi risultati delle indagini immuno-isto-chimiche. Ebbene, pur davanti a queste eccezionali possibilità di arrivare alla verità, il pm si è opposto. E noi ci siamo rimasti decisamente male”. L’avvocato Anselmo aveva anche detto ai numerosi cronisti presenti in tribunale che era stato Vittorio Fineschi, il direttore del Dipartimento di Scienze Anatomiche, Istologiche e Medico legali de “La Sapienza” di Roma, a rendersi disponibile per effettuare gli esami. Per quanto riguarda la Tac tridimensionale invece erano stati gli stessi consulenti del pm a consigliarla, senza peraltro essere ascoltati. “Sinceramente – aveva commentato ancora Anselmo – non riesco a comprendere le motivazioni dell’opposizione della procura perché se c’è anche una sola possibilità di arrivare alla verità, un magistrato ha il dovere di seguirla e mi sembra molto strano che un procuratore della Repubblica, che è un uomo dello stato, si rifiuti di farlo. Non bisogna avere paura della verità”.
Richiedendo l’archiviazione, l’ex procuratore Giacomantonio non ha svolto più il suo dovere di pubblica accusa ma si è sostituito, di fatto, a chi deve prendere una decisione. E questo è veramente inaccettabile. Sempre quel 23 febbraio avevamo chiesto all’avvocato Anselmo se Bergamini può ritenersi una vittima dello stato come Cucchi e Aldrovandi. Il legale ci ha pensato qualche secondo e ha risposto così: “Non lo so, ma se non si andasse ad un processo, si potrebbe certamente parlare di negata giustizia”. Ritornando a bomba: chi ha paura della verità oltre al pavido Giacomantonio? Senza ombra di dubbio Isabella Internò e i suoi protettori all’interno dei pezzi deviati dello stato. Se per tutti questi anni nessuno è mai riuscito ad arrivare alla verità, è chiaro come il sole che c’è qualcuno dietro le quinte che manovra affinchè il mistero rimanga tale. Ed è altrettanto evidente che si coprono le gravissime responsabilità della procura di Castrovillari e segnatamente del magistrato che condusse le indagini ovvero Ottavio Abbate. Ma è davvero paradossale come non si voglia arrivare quantomeno ad un processo. E’ possibile che le coperture e le protezioni di Isabella Internò siano così alte e insormontabili? Lo sapremo presto, finalmente. Le prime indiscrezioni sui nuovi esami sono già uscite, novembre è alle porte, la salma di Denis parlerà spiegando a tutti che era già morto quando lo hanno steso sull’asfalto e messo sotto il camion e allora per Isabella e i suoi protettori la pacchia sarà finalmente finita dopo 28 lunghi e interminabili anni.
Bergamini, 20 anni di omertà: i cugini di Isabella Internò, scrive "Iacchite" il 30 ottobre 2017.
IL CAMPIONATO 1989-90. Denis Bergamini parte per il ritiro deciso a dimenticare in fretta l’infortunio della stagione precedente. E’ particolarmente riconoscente alla società rossoblu perchè ha resistito alle offerte di club di Serie A e ha deciso di aumentargli sensibilmente l’ingaggio. Ma anche perchè, per consentirgli di recuperare più in fretta, non ha badato a spese per macchinari e fisiatri. Il presidente Serra ha ceduto qualche pezzo pregiato: Simoni è passato al Pisa, Urban se n’è andato al Genoa, Poggi e Venturin sono tornati al Torino e hanno fatto le valigie anche Schio e Giovanelli. In compenso però la squadra è stata rafforzata con gli arrivi del portiere Di Leo, del fantasista Muro e del Bomber Gigi Marulla, che torna a Cosenza dopo quattro anni di Serie B tra Genova e Avellino. E al timone c’è un allenatore di sicuro affidamento come Gigi Simoni, protagonista di splendide imprese nel campionato cadetto. La squadra però non rende come dovrebbe e incappa in una serie di risultati negativi. Perde a Padova, all’esordio, e anche in casa, sette giorni dopo, contro la Reggiana. I primi punti arrivano dalla doppia trasferta di Barletta e Cagliari (due pareggi), la prima vittoria al San Vito contro il Pescara. Ma è solo un fuoco di paglia. Il Cosenza esce sconfitto rovinosamente a Parma e lascia punti quasi a tutti al San Vito. Urge un cambio di rotta per non sprofondare in Serie C. Bergamini comunque torna ad essere titolare ed è uno dei calciatori più positivi e continui in quel difficile inizio di campionato. Gioca tutte le partite da titolare e il suo rendimento è molto alto nonostante la squadra non decolli.
L’INCONTRO TRA ISABELLA E TIZIANA ROTA. Tiziana Rota, la moglie di Maurizio Lucchetti, è rimasta molto amica di Isabella Internò. A maggio del 1989 partorisce la sua prima bambina e a novembre torna a Cosenza per trovare alcuni amici e ritirare un’auto e in quell’occasione si accorda per incontrare anche Isabella. E’ il 6 novembre 1989. “… Le feci vedere la bambina e bevemmo qualcosa in una pasticceria di Commenda di Rende – dichiara Tiziana Rota all’avvocato Eugenio Gallerani –. Lei mi disse che con Denis era finita e che non riusciva ad accettare la cosa, ma lui non ne voleva più sapere di lei. Isa mi disse che questa non era come le altre volte (che poi tornavano assieme), anche perché era passato troppo tempo. In più mi disse che Denis non la voleva più: non la voleva più vedere e non voleva più sentirla. Isa mi disse: “Stavolta questo non torna, non torna”; “Stavolta l’ho perso”. Io le dissi: “Passano tanti treni, ne hai perso uno, prenderai il prossimo”. Isa rispose: “No, Tiziana, io lo voglio mio; deve essere mio. Piuttosto che sia di un’altra preferisco che muoia”. Ovviamente questa frase mi lasciò scossa ed è rimasta scolpita nella mia mente. Preciso che il discorso su Denis iniziò all’interno della pasticceria, ma per la gran parte proseguì al di fuori. Mi disse anche che i suoi non sapevano che lui l’aveva lasciata, che non poteva dirlo a suo padre per la questione dell’onore. Isa era molto agitata. A un certo punto, dalla nostra sinistra si avvicinarono due ragazzi, mi avvisò che erano i suoi cugini e mi intimò di cambiare subito discorso perché se avessero saputo che Denis l’aveva lasciata lo avrebbero potuto ammazzare. In particolare, disse: “Tizia’, se sanno lo ammazzano”. Si fermarono un attimo, salutarono Isa, che me li presentò, le chiesero se andava tutto bene e se ne andarono. Non ricordo esattamente il loro aspetto, comunque erano due ragazzotti ben robusti e dai tratti mediterranei. Io ero esterrefatta, anche perché non capivo cosa c’entrassero i cugini. Isabella mi rispose: “Tizia’, tu non capisci, qui c’è l’onore, la famiglia. E’ diverso che al Nord”. Parlammo ancora di Denis, le dissi che doveva calmarsi e di lasciarlo andare, di dimenticarlo, poi ci salutammo sempre con l’idea di risentirci. Posso dire che quell’incontro mi è rimasto particolarmente impresso. Ciò non solo per le frasi pronunciate, per l’arrivo dei cugini con la conseguente frase di Isa (“Zitta, se lo vengono a sapere, sono capaci di ammazzarlo”), ma anche perché Isa era molto nervosa e agitata, come non l’avevo mai vista. Mi colpì anche il fatto che Isa, quando vide arrivare i cugini, si spaventò e agitò ancora di più e mi intimò di cambiare discorso”.
Bergamini, 20 anni di omertà: il gruppo su FB, la verità e Alessandro Piersigilli, scrive "Iacchite" il 27 ottobre 2017. Ci sono storie normali che possono diventare storie eccezionali. Incroci di vita, il caso, le situazioni. I canali dell’informazione istituzionale (tutti venduti al potere politico e massonico) bypassati e l’onda della coscienza pubblica che supera gli steccati del tempo. Quarantasette anni, professione dipendente pubblico con la passione del giornalismo, ternano di nascita trapiantato a Milano. Alessandro Piersigilli con le storiacce cosentine degli anni Ottanta non c’entrava nulla. Forse neanche l’orecchio distratto ai tg nazionali prestava, e la città di Telesio la conosceva più che altro per l’antica amicizia fra i rossoverdi ternani ed i supporter silani, i leggendari Nuclei Sconvolti fratelli di strada (e di fumo) degli altrettanto leggendari Freak Brothers. Eppure, in una biblioteca meneghina trova un libro scritto da un ex calciatore, ed il tarlo è bello ed imbucato nel cervelletto: “Il calciatore suicidato” raccontato da Petrini non lo lascia più. Donato Bergamini lo conosce in questa maniera, senza averlo mai visto giocare. Ed in rete, nel mare infinito del web, le cose non sono poi così chiare. Un magma di notizie frammentate, ufficiali, ufficiose, false. Così fa una cosa semplice e ugualmente insolita. Crea un “gruppo” su Facebook, il social network più amato dagli italiani, “Verità per Donato Bergamini”. Prima pochi amici, poi altri utenti, poi molti internauti bruzi. Addirittura alcuni familiari di Bergamini. C’è Donata, la sorella del calciatore rossoblù, c’è suo figlio Denis, c’è la cugina Dilva. Donata rilascia addirittura un’intervista, e quando sente tutto l’affetto nutrito da centinaia di tifosi vent’anni dopo la tragedia riversarsi su quelle pagine, scrive parole commosse di ringraziamento, per la prima volta, dice, “la sua famiglia non si sente sola”. La cosa inizia ad assumere un altro significato. Di massa. Aumentano anche gli “amministratori” che curano il punto di incontro virtuale, come Antonello Renzini e Gianmarco Carbone, due cosentini purosangue. Due ragazzi, nuova generazione di calabresi che il velo dell’omertà vuole squarciarlo. Al primo gruppo se ne affiancano altri due, entrambi portano il nome di Donato. Qualcosa come cinquemila persone si iscrive, vuole sapere. E sulle pagine del signor “Fb” nasce la folle intuizione: fare riaprire il caso. Come si fa? Innanzitutto bisogna riparlarne. Cercare i media nazionali e braccarli. Con e-mail, sms, chiamate. Non si può tacere all’infinito. Oliviero Beha ne scrive sul “Fatto quotidiano” appena nato ed in tv su Rai 3, ne scrive “Tuttosport”. Ne scrivono una miriade di giornali locali. Poi nasce l’Associazione Verità per Denis e i cosentini si svegliano definitivamente dal letargo ma nessuno potrà mai dimenticare il “pizzopazzo”, Alessandro Piersigilli, il primo a credere nell’utopia che potrebbe diventare realtà: assicurare allla giustizia gli assassini di Denis Bergamini. E, a proposito di Piersigilli, noi ci siamo “innamorati” di una sua composizione, che si intitola semplicemente Denis e la verità. Leggetela solo per qualche minuto e vi sentirete migliori.
DENIS BERGAMINI E LA VERITA’ (di Alessandro Piersigilli)
“Ciao Denis!”
D: “ciao!”
“dai allora domani è derby!!”
D:”per domani siamo carichi!”
“che dici lo vinciamo??”
D:”beh, come sempre noi daremo tutto, poi io ho una voglia in più, particolare, per farmi vedere…forse più di una…”
“Davvero? finisce che domani magari segni per noi proprio te?”
D:”Difficile che io segni, però hai visto mai…”
“cosa sono quelle voglie in più che hai?”
D:”vengo da un infortunio, voglio riprendermi il mio posto, tornare in forma più di prima!”
“E poi?”
D:”E poi…te lo dico, forse forse qualcuno mi porta magari in serie A!”
“vorrai mica lasciarci?”
D:”E’ un’occasione unica, amo questo gioco, amo il calcio, e la serie A è un sogno…”
“capisco…”
D:”guarda che per me piazze come Cosenza non esistono, l’amore di questa città che ha per me, è pari a quello che io ho per lei, mai nessuna potrebbe sostituirla…nemmeno in serie A!”
“sei un grande Denis!!!”
D:”scusa ora devo andare, domani c’è il derby, ma per oggi ho altri programmi…un bel film al cinema, poi magari se non mi piace, esco prima, mi faccio un giro in macchina, magari passo a prendere la mia ex e poi hai visto mai…magari mi butto sotto un camion…così giusto per passare la giornata pre derby…”.
“ma come…le voglie di dimostrare, l’amore per il calcio, l’amore per Cosenza, la serie A…”
D:”va beh dai…uno non può cambiare idea??? devo per forza sempre dire la VERITA’??”
DENIS NEL CUORE
Grazie, Alessandro Piersigilli, ternano doc, fondatore del mitico Gruppo “Verità per Donato Bergamini”.
Omicidio Bergamini, le prime (incredibili) interviste del magistrato insabbiatore, scrive "Iacchite" il 24 ottobre 2017. Il magistrato Ottavio Abbate ovvero colui che ha condotto le indagini sull’omicidio Bergamini “insabbiando” l’inchiesta è nato a Longobardi, piccolo paese della provincia di Cosenza sul mar Tirreno, il 5 dicembre 1946. E’ sposato con due figli, è un ex poliziotto e pare vanti nel suo curriculum anche un incarico da vicequestore. Negli anni Ottanta invece entra in magistratura e gli tocca la procura di Castrovillari proprio nel periodo in cui è in mano al clan Cirillo e i magistrati vanno a braccetto con i camorristi nel villaggio Bagamoio di Sibari come diceva Salvatore Frasca, uno che ad Abbate ha sempre fatto guerra perché probabilmente aveva capito che “pesce” era. Resta a Castrovillari fino al 1994, poi i poteri forti lo mandano a dirigere il Tribunale di Sala Consilina ma torna nella città del Pollino nel 2004 per assumere l’incarico di presidente del Tribunale. Quando arriva la bufera del caso Bergamini, Abbate (che sente puzza di bruciato) prova in tutti i modi a farsi trasferire. Nel 2010 fa domanda per il Tribunale di Catania ma occorrerà attendere l’estate del 2012 (quando il caso Bergamini è già riaperto e lui è ancora presidente del Tribunale di Castrovillari!!!) per vederlo andare via a Campobasso, dove concluderà la sua indegna “carriera” di giudice corrotto e insabbiatore. Oggi, visto che è andato in pensione appena da qualche settimana, potrebbe essere tornato in Calabria e speriamo tanto che qualcuno lo abbia informato che le sue malefatte non sono passate inosservate. Il 12 gennaio del 1990, 55 giorni dopo l’omicidio di Denis Bergamini che Abbate vuole far passare a tutti i costi per suicidio, l’inviato della Gazzetta dello Sport Francesco Caruso, oltre ad intervistare Isabella Internò, decide di andare a Castrovillari e di ascoltare cosa ha da dire questo magistrato dalla faccia di gomma. Ed ecco il testo dell’intervista rilasciata allo stesso Francesco Caruso dal dottor Ottavio Abbate.
Mercoledì lei voleva aspettare l’autopsia: ora invece pensa di chiudere in trenta giorni. Perché?
“Perché la pista dell’autopsia non è la più importante (!!!). Da questo accertamento non mi aspetto la soluzione del caso…”.
Come mai questo scrupolo le è venuto solo in un secondo momento?
“Perché dopo la deposizione dei due testimoni (Isabella Internò e il camionista Raffaele Pisano, ndr), tutto collimava e la ricostruzione dei fatti sembrava chiarissima. Poi, quando ho riascoltato la fidanzata del giocatore e l’autista del camion ho notato qualche sbavatura. Niente di trascendentale, comunque, sia chiaro”.
Ma insomma, lei per quale ipotesi propende?
“Non ho mai detto di propendere ora per il suicidio, ora per l’omicidio. Certo, sembra strano che qualcuno per ammazzare una persona scelga di andare proprio in un posto così trafficato…”.
C’è da rimanere allibiti rileggendo queste dichiarazioni, rilasciate ufficialmente ad un giornalista e riportate fedelmente sul giornale che allora e anche oggi risulta il più letto d’Italia. Ma come si fa a dichiarare che l’autopsia non è importante e che da essa non si aspetta la soluzione del caso? E come si fa a dichiarare che le deposizioni della Internò e del camionista collimavano in pieno quando anche un bambino aveva capito che non erano per niente corrispondenti? Ma il colmo lo si raggiunge quando questo signore afferma addirittura che se qualcuno voleva uccidere il calciatore non sarebbe andato in un posto così trafficato. E’ incredibile: il magistrato titolare delle indagini è stato il primo, oltre a non fare il suo dovere, a cercare di depistare le indagini stesse. E non finisce qui. Il giornalista Santi Trimboli, ex vicecaporedattore alla RAI Calabria, ha ricordato, in un suo intervento apparso su Il Quotidiano del Sud, le pessime indagini che vennero fatte dalla procura di Castrovillari nell’immediatezza dell’omicidio di Denis Bergamini. Ed è il primo che, finalmente, ci segue nell’analizzare l’atteggiamento quasi ostruzionistico del magistrato Ottavio Abbate. Ecco il ricordo di Santi Trimboli.
“… E ricordo soprattutto il mio urticante incalzare nei confronti dell’allora titolare dell’inchiesta, il procuratore di Castrovillari Ottavio Abbate. Perché non è stata eseguita l’autopsia sul cadavere di Bergamini? Chiedevo ripetutamente e con forza nei miei servizi. L’autopsia. “Sì, la facciamo l’autopsia”, bisbigliò quasi un mese dopo (!) il procuratore Abbate. Ricordo ancora il tono della sua voce. Quasi di insofferenza e al tempo stesso di liberazione. E così, la mattina del 18 dicembre, nel cimitero di Boccaleone, la salma di Bergamini fu riesumata. Finalmente, il primo passo verso l’accertamento della verità! Una verità che nonostante i tre gradi di giudizio e l’iniziativa, poi stroncata, di riaprire il caso, non è stata ancora rivelata. E che ora il procuratore capo di Castrovillari Eugenio Facciolla, un magistrato di grandissimo spessore umano e professionale, si appresta a scrivere in nome della Giustizia. Quella con la G maiuscola”.
Denis Bergamini, i misteri di una storia sbagliata, scrive Tiziano Carmellini su “Il Tempo”. Un libro per non tacere, per continuare a cercare la verità e scoprire quello che in un quarto di secolo ancora non è emerso. Un modo, forse l’unico, per spazzar via nubi, dubbi...Un libro per non tacere, per continuare a cercare la verità e scoprire quello che in un quarto di secolo ancora non è emerso. Un modo, forse l’unico, per spazzar via nubi, dubbi e capire come sono andate veramente le cose. Già, perché a 25 anni dalla morte di Donato «Denis» Bergamini – il talentuoso centrocampista argentano del Cosenza trovato morto sulla Statale Jonica il 18 novembre 1989 – il suo caso lascia aperti ancora tanti interrogativi. A provare a rispondere a tali interrogativi è un libro fresco di stampa, «Denis Bergamini, una storia sbagliata», scritto dal giornalista sportivo Alessandro Mastroluca, che prova a far luce sulle tante ombre di un cold case senza ancora nessuna certezza, tanto che per lungo tempo si è parlato, oltre che di suicidio, di un omicidio legato alle partite vendute o a un traffico di droga dei quali il calciatore sarebbe venuto a conoscenza, minacciando di spifferare tutto. In tutta questa storia ci sarebbe già una verità, quella giudiziaria basata in gran parte sulla testimonianza della ex fidanzata di Bergamini, Isabella Internò, che parla di suicidio. Ma è una verità che, come evidenziato nel libro, non collima con le prove fisiche e con altre testimonianze – spesso discordanti o ritrattate – tanto che, grazie al lavoro dell’avvocato Eugenio Gallerani, la procura di Castrovillari ha riaperto l’indagine, questa volta per omicidio. Questo libro ripercorre tutti gli aspetti della inchiesta e della nuova indagine, ricostruisce il racconto di tutti i testimoni ascoltati nel 1990 e dei compagni di squadra del calciatore e le nuove interpretazioni emerse in questi ultimi anni. Ripercorre inoltre tutte le dinamiche possibili e i moventi emersi in molti anni di inchieste giornalistiche e «soffiate» anonime: dal giro di droga alle partite truccate fino alla tragedia per motivi passionali. Una ricostruzione obiettiva e dettagliata che mette insieme tutti gli aspetti di una storia ancora incompresa. Insomma, una storia sbagliata. Una storia che di sport alla fine ha ben poco se non il talento del protagonista espresso sui campi di calcio professionistico in una realtà difficile come quella del Cosenza. Denis era un giocatore di quelli che fanno la differenza e non è un caso se è rimasto comunque nel cuore della tifoseria che ogni anno gli dedica tributi... per non dimenticare.
Giallo Bergamini, svolta clamorosa: la fidanzata del calciatore morto nel 1989 è indagata per concorso in omicidio volontario, scrive “Oggi”. Svolta clamorosa nel giallo Bergamini. La fidanzata del calciatore è indagata per concorso nel suo omicidio. Colpo di scena nell’inchiesta sull’ex giocatore del Cosenza, investito da un camion quando era già senza vita. Fu tutta una messinscena? Donato Bergamini, svolta clamorosa nel giallo del calciatore del Cosenza morto nel 1989. Un avviso di garanzia per concorso in omicidio volontario è stato notificato a Isabella Internò, ex fidanzata del giocatore, investito da un camion, il 18 novembre 1989. L’avviso è stato emesso dalla Procura di Castrovillari che ha riaperto le indagini sulla morte del calciatore. L’avviso di garanzia, notificato dai carabinieri del Comando provinciale di Cosenza, scaturisce dalle indagini avviate dalla Procura di Castrovillari dalle quali nel febbraio scorso è emerso che Bergamini era già morto quando fu investito dal camion e non si gettò a pesce sotto il mezzo, come stabilì la prima inchiesta. Ad ipotizzare il primo scenario sono una serie di perizie realizzate dai carabinieri del Ris e dal medico legale dopo la riapertura dell’inchiesta su richiesta della famiglia Bergamini. Era stata sentita in qualità di testimone nel dicembre del 2011 Isabella Internò, l’ex fidanzata del calciatore del Cosenza morto il 18 novembre del 1989 a Roseto Capo Spulico (Cosenza) in circostanze mai chiarite. L’ex fidanzata di Bergamini era stata sentita nella nuova inchiesta che la Procura di Castrovillari ha avviato ipotizzando il reato di omicidio. Internò è l’unica testimone oculare di quel presunto incidente stradale che, fino a qualche anno fa, era ritenuto la causa della morte del calciatore. Ad avvalorare la tesi che il calciatore si fosse suicidato erano state, all’epoca, proprio le testimonianze della ragazza e del camionista che era alla guida del mezzo carico di agrumi che avrebbe investito il calciatore, provocandone la morte. L’anno scorso, nell’ambito della nuova inchiesta avviata dopo le denunce dei familiari, la Procura di Castrovillari affidò ai Ris di Messina e a un medico legale l’incarico di effettuare perizie e accertare le cause della morte. Dagli accertamenti scientifici era emerso che Bergamini era già morto quando fu investito dal camion. Le testimonianze della (ex) fidanzata Internò paiono contraddittorie. Era legata a Bergamini sin da quando il ragazzo, ferrarese di Argenta, era approdato al Cosenza nel 1985. Maglia numero “8”. Nel luglio ’87 la Internò, appena maggiorenne, abortisce a Londra. Nell’estate 1988 Bergamini , fino a quel momento mediamente pagato, è corteggiato da alcune squadre di serie A (tra cui il Parma). Viene convinto a rimanere in B con il Cosenza, esigendo però eguale contratto. E’ bello, bravo, ricco . Desiderato. Michele Padovano, compagno di squadra e di camera il giorno del ritiro (e della morte), racconterà di un Denis sgomento dopo aver ricevuto una telefonata alle 15.30. Da quel ritiro, mentre il resto della squadra stava guardando un film al Cinema di Rende, Bergamini fuggirà – o verrà costretto a farlo – fino a Roseto Capo Spulico. Teoricamente la destinazione doveva essere Taranto, da cui si sarebbe voluto imbarcare (con la Internò) per abbandonare l’Italia. Verrà invece ammazzato, forse con un’arma bianca. Non si sa da chi (ma il Procuratore sembra saperlo e a giorni i nomi saranno noti). Bergamini aveva da poco intrapreso una relazione con una donna diversa dalla Internò. Aveva informato Isabella, oggi sposata con un poliziotto che già conosceva all’epoca (“un amico di famiglia”). Perché, nonostante il rapporto finito, Denis era insieme alla Internò quel pomeriggio? Chi c’era con loro? Forse qualche risposta sta per arrivare. ”In un giorno come questo il sentimento che prevale in me è di profonda tristezza. Nel mio cuore il pensiero va solo a mio fratello, cui hanno tolto la vita nel pieno della sua vita”. Sono le parole di Donata Bergamini, la sorella gemella di Denis Bergamini, calciatore del Cosenza, morto nel 1989 in circostanze mai chiarite e che ora stanno emergendo dalla nuova inchiesta. La donna non e’ voluta entrare nel merito dell’inchiesta e si e’ limitata a prendere atto delle evoluzioni.
Denis Bergamini fu ucciso. Ora c’è anche un movente. Secondo la versione ufficiale il giocatore ferrarese morì nel 1989 gettandosi sotto un tir sulla statale calabrese 106. Ma l'ipotesi del suicidio non ha mai convinto, tanto che pochi giorni fa la Procura di Castrovillari ha iscritto alcuni nomi sul registro degli indagati per omicidio volontario e la pista sembra essere "passionale", scrive Andrea Scanzi su “Il Fatto Quotidiano”. Carlo Petrini, il calciatore maledetto che si reinventò (ottimo) investigatore e fustigatore per espiare le proprie colpe, lo aveva capito. E non solo lui. Donato “Denis” Bergamini, quel 18 novembre 1989 sulla statale 106 Jonica nei pressi di Roseto Capo Spulico, fu “suicidato”. Cioè ammazzato. Petrini, scomparso un anno fa, intuì che il ragazzo 27enne era già morto, quando un autocarro Fiat Iveco in transito gli passò sopra due volte, avanti e retromarcia. La versione ufficiale parlò di un Bergamini che, scattando dalla piazzola di sosta, si buttò sotto un camion dopo aver gridato “Ti lascio il mio cuore” alla (ex) fidanzata Isabella Internò, unica presenza certa al momento del decesso con l’allora 51enne Raffaele Pisano, il guidatore (tuttora in vita) del mezzo pesante. Bergamini avrebbe chiesto a Isabella di accompagnarlo in Brasile o alle Hawaii: di abbandonare con lui l’Italia, perché stanco di quel mondo. La Internò si rifiutò, da qui il “gettarsi a pesce” sotto il camion. Se Petrini intuì la dinamica, sbagliò però il movente. Non un omicidio legato al calcioscommesse o al traffico di droga, ma un delitto passionale (d’onore?). Una “banale” morte privata. A questo sembra essere giunta la Procura di Castrovillari, che ha iscritto nel registro degli indagati alcune persone. Per omicidio volontario. Il caso, pieno di incongruenze, morti sospette (due magazzinieri-factotum del Cosenza che dicevano di sapere tutto: scomparsi il 3 giugno 1990 in un incidente stradale sulla stessa statale 106) ed errori marchiani, è stato riaperto due anni fa grazie alla tenacia della famiglia Bergamini e all’avvocato Eugenio Gallerani. sorella Donata, nei giorni scorsi, ha partecipato a Ferrara al sit-in in memoria e difesa di Federico Aldrovandi, il giovane ucciso nel 2005 da quattro poliziotti. In questi quasi 24 anni non tutti hanno dimenticato: non il programma Chi l’ha visto?, che si è sempre occupato della vicenda; non i tifosi del Cosenza, che a Bergamini hanno dedicato la Curva Sud dello stadio San Vito; non parenti ed amici. Troppi i dubbi. I vestiti del giocatore, subito bruciati nel-l’inceneritore vicino all’ospedale invece di essere restituiti ai familiari. Il comportamento della Internò, che prima di chiamare i soccorsi telefonò a Gigi Simoni (tecnico del Cosenza) e Francesco Marino (compagno di squadra). I rilievi non effettuati – o effettuati male – su camion e fondo stradale. La Maserati di Bergamini, che secondo Petrini sarebbe servita a trasportare droga tramite doppi fondi di cui neanche il calciatore era a conoscenza, lavata accuratamente il giorno dopo il suicidio/omicidio. E molto (troppo) altro ancora. Adesso parte del supposto è ufficiale. Bergamini era già morto quando fu investito dall’autocarro per inscenare il finto suicidio. Lo attestava già del 1990 curata a Ferrara dal Professor Avato, ma misteriosamente non fu tenuta in considerazione. Come pure le scarpe e l’orologio di Bergamini, immacolate le prime e tuttora funzionante il secondo: non così sarebbe avvenuto, se il ragazzo fosse stato trascinato per 60 metri sull’asfalto. Le testimonianze della (ex) fidanzata Internò paiono contraddittorie. Era legata a Bergamini sin da quando il ragazzo, ferrarese di Argenta, era approdato al Cosenza nel 1985. Maglia numero “8”. Nel luglio ’87 la Internò, appena maggiorenne, abortisce a Londra. Nell’estate 1988 Bergamini , fino a quel momento mediamente pagato, è corteggiato da alcune squadre di serie A (tra cui il Parma). Viene convinto a rimanere in B con il Cosenza, esigendo però eguale contratto. E’ bello, bravo, ricco . Desiderato. Michele Padovano, compagno di squadra e di camera il giorno del ritiro (e della morte), racconterà di un Denis sgomento dopo aver ricevuto una telefonata alle 15.30. Da quel ritiro, mentre il resto della squadra stava guardando un film al Cinema di Rende, Bergamini fuggirà – o verrà costretto a farlo – fino a Roseto Capo Spulico. Teoricamente la destinazione doveva essere Taranto, da cui si sarebbe voluto imbarcare (con la Internò) per abbandonare l’Italia. Verrà invece ammazzato, forse con un’arma bianca. Non si sa da chi (ma il Procuratore sembra saperlo e a giorni i nomi saranno noti). Bergamini aveva da poco intrapreso una relazione con una donna diversa dalla Internò. Aveva informato Isabella, oggi sposata con un poliziotto che già conosceva all’epoca (“un amico di famiglia”). Perché, nonostante il rapporto finito, Denis era insieme alla Internò quel pomeriggio? Chi c’era con loro? Forse qualche risposta sta per arrivare.
Caso Bergamini, già l'autopsia del '90 smontava il suicidio, scrive Francesco Ceniti su “La Gazzetta dello Sport”. Il viso del calciatore del Cosenza senza un graffio ma fu dato credito al trascinamento da parte del camion per 60 metri. Se questo vi sembra un uomo trascinato da un camion per 60 metri... C’è una foto che parla. C’è una foto che grida. C’è una foto che fa indignare. E’ la foto di Donato Bergamini, un primo piano. Molto stretto. A parte la postura degli occhi, sembra il viso di un addormentato. Con la barba lunga di qualche giorno. Ma quello scatto non è una semplice foto: fa parte della perizia medico legale effettuata nel gennaio 1990 dal professor Francesco Maria Avato, lo stesso che ha contribuito a far riaprire il caso Pantani. Avete letto bene: gennaio 1990. Due mesi dopo la morte del centrocampista del Cosenza. caso riaperto — La foto è arrivata alla Gazzetta dalla famiglia Bergamini. Sono stati la sorella Donata e il padre Domizio a decidere questo passo. Come mai? Fa capire, più di tante parole, quanto era poco credibile da subito la tesi del suicidio, un suicido raccontato agli inquirenti dai due testimoni presenti sulla Statale 106 nei pressi di Roseto Capo Spulico: Isabella Internò, ex ragazza di Bergamini, e Raffaele Pisano, l’autista del camion. Entrambi sono ora indagati, la Internò per omicidio volontario in concorso, Pisano per falsa testimonianza, nella nuova inchiesta riaperta dalla Procura di Castrovillari nel 2011. Prima di andare avanti nel racconto, serve una spiegazione: la Gazzetta ha deciso di non pubblicare sul giornale la foto. Certo, è un documento di grande importanza e non vìola nessun segreto istruttorio, ma potrebbe urtare la sensibilità di qualche lettore. E’ disponibile nel sito della Gazzetta: prima di visionarla si è avvertiti dei contenuti forti. Insomma, una presa di responsabilità. Precisato questo aspetto, torniamo al racconto: perché quella immagine grida e fa indignare? Seguiteci. Il suicidio — "Faccio entrare solo il papà a vedere il corpo: è straziato perché è stato trascinato per oltre 60 metri". Così il carabiniere Barbuscio accoglie, dopo un bel po’ di anticamera, i familiari del povero Bergamini il giorno dopo quel maledetto 18 novembre 1989. Hanno viaggiato da Argenta tutta la notte, con un dolore lancinante per la notizia piombata all’ora di cena: l’amato figlio, il calciatore lanciato verso una carriera importante in A, morto in circostanze misteriose. Quando arrivano nella caserma di Roseto Capo Spulico, sanno poche cose. Domizio entra nella stanza, gli fanno vedere solo il viso del figlio: il corpo è coperto da un lenzuolo. Barbuscio gli spiega: «Si è gettato sotto un camion, poi è stato trascinato per quasi 60 metri. Non lo tocchi». Il volto è pulito, tranne un piccolo graffio sulla fronte. Il papà sbotta: "Ma che cosa sta raccontando, ho guidato dei camion di quella portata: se uno ci finisce sotto finisce maciullato. Non può essere andata come dite voi". La battaglia lunga 23 anni inizia quel giorno. Come è stato possibile credere a una versione che faceva acqua da tutte le parti a iniziare da un viso pulito? Come è stato possibile che quel volto senza ferite ispezionato la mattina del 19 novembre anche dal pm di allora, Ottavio Abbate, non abbia instillato neppure il minimo dubbio sul suicidio, dando pieno credito al trascinamento? Ma c’è molto di più. Lasciamo stare i rilievi sballati (con piazzole di sosta spostate di 40 metri) effettuati da Barbuscio nelle ore seguenti al ritrovamento del cadavere (tutti confutati negli anni seguenti), quello che qui ci preme far notare è come si arriva alla foto in questione: con inspiegabile ritardo il pm solo a gennaio decide di far eseguire l’autopsia su Bergamini e ordina la riesumazione del corpo. La perizia è condotta dal professor Avato che scatta una serie di foto fondamentali e fa le sue ipotesi in una consulenza che avrebbe dovuto ripetere durante l’incidente probatorio, diventando una prova da utilizzare in un eventuale processo. Ma questo non accade: Avato non sarà mai sentito, né durante l’incidente probatorio, né al processo del 1991 con Pisano unico imputato (poi assolto) per omicidio colposo. I giudici sentenziano: Bergamini si è gettato sotto il camion. E poco importa se la foto scattata da Avato e la relazione medico-legale suggeriscano altre conclusioni e hanno un nome molto diverso dal suicidio. Il professore fa notare come sia impossibile il trascinamento, come le ferite siano concentrate solo su una parte (il fianco destro) e riconducibili a un sormontamento del camion, vale a dire le ruote fatte passare sopra un corpo steso per terra (e già cadavere come diranno le recenti consulenze, a partire da quella del Ris), Avato per spiegare meglio usa la metafora di un frutto schiacciato ed esploso. E’ quello accaduto alla parte destra del fianco di Bergamini. Ma sul resto del corpo il giocatore non presenta ferite, i vestiti (come dimostrano altre foto scattate sul posto da Barbuscio, immagini che ripubblichiamo) sono intatti, le scarpe ben strette ai piedi, persino le calze sono su. E poi c’è il viso: secondo i testimoni Bergamini si sarebbe buttato a pesce sotto le ruote e poi trascinato. Questo è raccontato agli inquirenti, questo non è mai messo in dubbio nonostante il corpo di uno sfortunato ragazzo dica altro. Gli inquirenti non cambiano idea neppure dopo l’autopsia di Avato. Anzi, quella perizia finisce dimenticata, l’incidente probatorio evaporato. La foto parla e spiega come mai la famiglia non si sia mai rassegnata. Sta ancora aspettando una risposta: proprio in queste settimane la Procura di Castrovillari sta per chiudere l’inchiesta riaperta nel 2011 (ipotesi omicidio volontario) e condotta dal procuratore capo Franco Giacomantonio e dal pm Maria Grazia Anastasia. Il lavoro del professore Avato è agli atti insieme ad altre novità importanti (consulenze e testimonianze). La tesi del suicidio dopo 25 anni è stata spazzata via dalle nuove indagini. La strada per capire cosa sia accaduto nel 1989 è ancora lunga, ma è arrivata l’ora di capirlo. E magari un giorno qualcuno spiegherà alla famiglia e all’opinione pubblica come mai 25 anni fa sia stato possibile non porsi delle domande guardando un viso di un uomo che doveva essere irriconoscibile, ma aveva solo un graffietto sulla fronte.
Bergamini, 25 anni di misteri e bugie. Tutti i punti dubbi sulla sua morte. Denis, calciatore del Cosenza,fu trovato morto davanti a un camion il 18 novembre del 1989. Suicidio, si disse per anni. Ora sta per chiudersi la nuova inchiesta: per omicidio, scrive di Angela Geraci su “Il Corriere della Sera”. C’è un orologio che continua a ticchettare in una casa di Boccaleone di Argenta (Ferrara) da venticinque anni. È in perfette condizioni: la cassa dorata lucida, il quadrante senza un graffio, il cinturino in pelle marrone liscio e intatto. Le lancette girano, imperterrite, dentro il cassetto di Donata e scandiscono il tempo che passa senza giustizia per suo fratello Donato, Denis come lo chiamavano tutti. Quell’orologio, infatti, racconta la storia di una morte mai spiegata, lasciata – per scelta, interesse e incuria di qualcuno – senza spiegazioni. Anzi, sepolta da una montagna di bugie. Denis Bergamini ce l’aveva al polso la sera piovosa del 18 novembre del 1989 quando venne trovato morto sul ciglio della Statale Jonica 106 al chilometro 401 vicino a Roseto Capo Spulico, a 100 chilometri da Cosenza. Il corpo del ragazzo, centrocampista del Cosenza di 27 anni, era a pancia in giù sull’asfalto, davanti alle ruote di un camion carico di mandarini che pesava 138 quintali. L’autista, Raffaele Pisano, raccontò subito di aver investito Denis, di non essere riuscito a frenare e di averlo trascinato «per quasi una cinquantina di metri» sotto il suo gigantesco mezzo. Per 59 metri, precisarono e misero a verbale i carabinieri arrivati sul posto. Denis, disse immediatamente il camionista, si era buttato volontariamente tra le ruote del suo Fiat Iveco 180 e c’era un’altra persona che lo aveva visto e poteva testimoniare: Isabella Internò, la ex fidanzata del ragazzo che era insieme a lui proprio in quel momento. «Si è voluto suicidare», furono le prime parole che la 20enne rivolse all’autista del camion. «Si è buttato sotto le ruote tuffandosi nella stessa posa che si usa quando si fanno i tuffi in piscina: le braccia protese in avanti, la testa leggermente reclinata in avanti, il corpo teso orizzontalmente», dichiarò poi davanti al sostituto procuratore Ottavio Abbate. Nessuno, venticinque anni fa, si volle soffermare sul fatto che sul corpo del calciatore non ci fosse alcun segno compatibile con la dinamica raccontata. Un corpo stritolato per metri tra l’asfalto e la mole di un mezzo così pesante sarebbe dovuto essere maciullato, con i vestiti quantomeno stracciati in qualche punto. Invece quelle mani «protese in avanti» non avevano un graffio. Così come i piedi, le gambe, le spalle, il volto di Denis (su cui c’era solo una piccola abrasione sulla fronte, vicino all’attaccatura dei capelli sul lato sinistro). I suoi vestiti erano intatti: il gilet di raso, la camicia, i pantaloni, le scarpe di pelle, i calzini a losanghe ancora perfettamente tirati su sul polpaccio. E quell’orologio da polso integro e funzionante. L’unica ferita, grave, era all’altezza del bacino. Denis Bergamini di certo non è stato investito e trascinato come hanno raccontato i testimoni e come è stato avallato dai carabinieri e dai due gradi di giudizio che nei primi anni Novanta hanno assolto il camionista dall’accusa di omicidio colposo. Quella sera di venticinque anni fa le cose non sono andate così come sono state ricostruite. Adesso si sta per chiudere l’inchiesta riaperta nel 2011 dalla procura di Castrovillari, grazie alla tenacia della famiglia Bergamini e al lavoro del loro avvocato Eugenio Gallerani: l’ipotesi di reato, questa volta, è omicidio volontario. Ci sono almeno due indagati: Isabella, per concorso in omicidio, e l’autista del camion per false dichiarazioni ai pm. Ecco, punto per punto, i principali elementi che non tornano in questa vicenda resa difficile dalle menzogne e dal passare degli anni, ma che complicata, in fondo, non doveva essere.
1. La macchina di Denis. La Maserati bianca. Il rapporto scritto dal brigadiere Francesco Barbuscio, il comandante della stazione dei carabinieri di Roseto Capo Spulico arrivato sul luogo dell’“incidente” alle 19,30, contiene una macroscopica incongruenza a proposito della macchina di Bergamini, una Maserati bianca. Nel testo del militare si legge che «sul luogo del sinistro […] l’autocarro era preceduto dall’auto». Quell’auto che, precisa il carabiniere, lui stesso aveva fermato a un posto di blocco due ore prima: a bordo c’erano un ragazzo e una ragazza. Non vedendo la giovane, il brigadiere chiede al camionista dove sia finita e gli viene detto che «con un automobilista di passaggio si era recata a Roseto forse per avvertire i congiunti». Allora Barbuscio scrive di essere andato in paese e di aver trovato vicino a un bar «la ragazza che prendeva posto sulla Maserati di cui sopra». In poche righe la macchina della vittima cambia di posto e si trova contemporaneamente in due luoghi diversi. Ma nessuno ci fa caso. E c’è di più: dagli ordini di servizio in cui i carabinieri registrano tutte le loro attività è sparita proprio la nota, allegato B, con l’elenco delle auto fermate dalle 17 in poi di quel pomeriggio al posto di blocco. C’è poi un altro punto oscuro: Barbuscio scrive di essere stato avvisato che «c’era un morto in mezzo alla strada» dai carabinieri di Rocca Imperiale, un paese vicino, per telefono. Ma chi ha avvisato i carabinieri? Finora non si è mai saputo. Si sa invece che più volte, dopo la morte di Denis, Isabella ha telefonato ai suoi familiari chiedendo che le fosse data la Maserati che Bergamini aveva comprato poco prima da un parente di un dirigente del Cosenza: «Lui me l’aveva promessa in eredità», sosteneva.
2. L’accompagnatore misterioso. Isabella era insieme a Denis quel pomeriggio, anche se (dopo una storia complicata durata quattro anni tra alti e bassi) non stavano più insieme da un paio mesi, ed è la testimone numero uno di quanto accaduto. Al sostituto procuratore dice di aver «chiesto a un ragazzo che si era fermato e aveva una macchina bianca di accompagnarmi a telefonare per chiedere aiuto». Arrivati al bar del paese lei telefona alla madre (e anche alla società del Cosenza e a un giocatore, Marino) mentre «il ragazzo che mi aveva accompagnato telefonò ai carabinieri». Ma i militari sono già sul posto visto che, come dice il brigadiere, sono stati avvisati dai colleghi e Isabella sulla Statale 106 non c’è. Il proprietario del bar, Mario Infantino, dichiara invece che la ragazza arriva nel suo locale insieme a un signore e che, mentre lei parla al telefono, questa persona gli dice di aver lasciato la sua auto sul luogo dell’incidente con dentro la moglie incinta. Per accompagnare Isabella il signore ha usato la Maserati di Denis e poi sempre con quella, dichiara il barista, è tornato dalla moglie lasciando la ragazza nel bar. Come è arrivata davvero Isabella al bar? E come mai l’accompagnatore non si è mai fatto avanti, allora e in tutti questi anni (né lui né l’ipotetica moglie incinta)? Adesso sembra che l’uomo sia stato identificato e ascoltato dagli inquirenti.
3. In viaggio da Taranto. Isabella ha raccontato che quel giorno Denis la passa a prendere in auto sotto casa intorno alle 16. Iniziano a dirigersi verso Taranto e alle 17,30 vengono fermati al posto di blocco dei carabinieri di Roseto. Rimarranno due ore a discutere nella piazzola di sosta vicino a dove sarà trovato il calciatore. Di cosa? Lui voleva lasciare il mondo del calcio e partire per l’estero, Amazzonia o Hawaii. Strano visto che non aveva con sé denaro a sufficienza per una fuga né valigie né passaporto o carta di identità. E poi dal porto di Taranto non ci si imbarca per nessuna destinazione: partono solo merci. Ma quindi, dunque, aveva deciso di scappare o voleva suicidarsi? E se voleva uccidersi perché farlo a 100 chilometri da Cosenza e davanti a una ex fidanzata? Oltretutto il giorno prima di un’importante partita che lui ci teneva a giocare? La domenica il suo Cosenza, salito in serie B l’anno prima e in cui lui stava da quattro anni, doveva affrontare il Messina: Bergamini si era allenato sabato mattina ed era in ritiro con la squadra. «Il calcio era la sua vita – racconta la sorella Donata – e non era mai mancato a un allenamento, anche quando giocava nelle serie minori». Che Bergamini fosse un professionista serio e preciso è stato sempre confermato da tutti: dalla società sportiva, dai suoi compagni di squadra, dall’allenatore.
4. I segni sul corpo. Che Denis non sia stato investito e trascinato per 59 metri dal camion lo capiscono subito sia i tifosi del Cosenza che si precipitano all’obitorio di Trebisacce non appena si diffonde la notizia, sia la famiglia del calciatore che riesce a vedere il corpo la mattina successiva, dopo una notte di viaggio in macchina da Ferrara alla città calabrese. Ai parenti del calciatore, il brigadiere Barbuscio dice che il ragazzo è inguardabile, «distrutto». «Mi ero preparata a vederlo “ammaccato” – ricorda oggi la sorella – ma quando lo vidi in faccia rimasi stordita e scioccata: sembrava che dormisse, notai solo una piccola macchia rotonda grigio-azzurra sulla fronte». L’autopsia non viene fatta subito. Ci sono i funerali a Cosenza (a cui partecipano 8mila persone), poi Denis viene riportato ad Argenta per un’altra funzione religiosa e per essere sepolto. Due mesi dopo, nel gennaio del 1990, viene riesumato e finalmente si fa l’autopsia: 25 pagine in cui il professor Francesco Maria Avato riporta quello che vede. Risultano «indenni le cosce, le ginocchia, le gambe, i piedi», «gli arti superiori» sono anch’essi «indenni da lesioni», «la teca cranica appare integra». Intorno al collo, «indenne» pure quello, non c’è alcun segno eppure Denis indossava una collanina d’oro (restituita alla sorella dai carabinieri insieme all’orologio e al portafoglio) che avrebbe dovuto lasciare qualche traccia nel trascinamento. Il professore spiega anche che nei casi di investimenti ci sono cinque fasi contraddistinte da lesioni tipiche ma su Bergamini non ci sono tutti questi traumi: c’è solo una «lesività di tipo addominale», gli è stato schiacciato il fianco sul lato destro. Cioè il lato opposto a quello che, stando alla ricostruzione, sarebbe dovuto essere stato colpito dal camion. È verosimile dunque, si legge poi nell’autopsia, «l’ipotesi di schiacciamento da parte di un unico pneumatico del corpo disteso al suolo», un «arrotamento parziale» connesso a un «mezzo pesante dotato di moto “lento”» che ha causato «lesioni da scoppio». Denis è morto in poche decine di secondi per l’emorragia, schiacciato da un camion che gli è salito in parte sul fianco mentre lui era steso a pancia in su. Questo dicono quelle 25 pagine messe da parte e dimenticate per anni. Il professore Avato non è stato mai ascoltato durante il processo all’autista.
5. Il camion. Il camion viene sottoposto a un tipo di sequestro particolare: è lasciato in uso al signor Pisano che quindi risale a bordo e se ne va. Nessuno esaminò quindi il mezzo che aveva investito un uomo. E nessuno controllò bene neppure il cronotachigrafo del quattro assi. Sul dischetto di carta che a quei tempi i camionisti erano obbligati a compilare e inserire nel cruscotto – era una sorta di scatola nera – c’era scritto che Pisano era partito da Rosarno, un paese in provincia di Reggio Calabria, e aveva percorso circa 160 chilometri in quattro ore prima di investire Denis, come scrissero i carabinieri. Ma i conti non tornano: tra Rosarno e Roseto Capo Spulico ci sono circa 230 chilometri. E poi se il camion era andato in media a 40 km orari come era stato possibile che non fosse riuscito a frenare in tempo dato che, con i fari accesi nel buio, un ragazzo che indossava vestiti chiari al bordo della strada doveva essere visibile?
6. Il mistero dei vestiti spariti. Sarebbe stato utile anche poter sottoporre a perizia, appunto, i vestiti che il calciatore indossava quando è morto ma qualcuno pensò bene di fare sparire quelle prove importanti per capire cosa fosse davvero accaduto. Finiti nell’inceneritore, disse un infermiere ai familiari. Le foto scattate dai carabinieri però restano: gli indumenti di Denis sono sani, integri, le scarpe allacciate, i calzini perfettamente tirati su. Non è pensabile che siano gli abiti trovati addosso a una persona vittima di un incidente stradale come quello raccontato. Mesi dopo al signor Bergamini furono fatte recapitare le scarpe del figlio, scampate al “raid” per fare scomparire gli oggetti. Gliele diede il direttore sportivo del Cosenza, Roberto Ranzani, che le aveva avute da uno dei factotum della squadra insieme a un messaggio da portare: a fine campionato quella persona sarebbe andata dai genitori di Denis e avrebbe raccontato quello che sapeva sulla sua morte. Tornando in Calabria dopo l’ultima partita di quella stagione, a Trieste, i due factotum del Cosenza però morirono in un incidente stradale sulla Statale Jonica, a pochi chilometri da dove era stato ritrovato il corpo del giocatore. Negli ultimi anni i familiari sono stati chiari e hanno detto che non vogliono che i nomi dei loro cari vengano associati al caso Bergamini.
7. Le indagini del 1994. Cinque anni dopo la morte di Bergamini qualcuno della questura di Cosenza inizia a fare delle indagini, delle ricerche. Vengono anche messe sotto controllo alcune utenze telefoniche ma poi si ferma tutto. Alcuni funzionari vengono trasferiti ad altri uffici e i risultati di quella inchiesta non ufficiale rimasta incompleta finiscono in qualche cassettiera.
La tesi del suicidio e i progetti per il futuro. Tutti quelli che l’hanno conosciuto, hanno sempre ritenuto impossibile che Denis Bergamini si sia suicidato. Lo ripete da 25 anni la sorella: «Ricordo la sua felicità dell’ultimo periodo – dice Donata - stava raggiungendo tutto ciò che desiderava: l’anno dopo avrebbe giocato in serie A, pensava di costruire la sua casa ed era andato già a vedere dei terreni qui vicino da noi, perché cercava un azienda agricola. Giorni dopo la sua morte sapemmo anche che aveva una ragazza che voleva sposare... Non l’avevo mai visto così felice, era l’anno dei grandi progetti per lui». La fidanzata di Denis si chiamava Roberta, era delle sue parti, si conoscevano da anni e a Cosenza ancora non era mai stata. «Quando ci dissero che era morto e che con lui c’era Isabella – continua Donata - noi cademmo dalle nuvole: perché c’era lei? A 100 chilometri da Cosenza? Abbiamo capito male?». Ma al suicidio non hanno creduto mai neppure i compagni di squadra di Denis, i ragazzi che passavano con lui tutti i giorni. Lo hanno detto da subito: era allegro come sempre, professionale in campo, faceva i suoi soliti scherzi nello spogliatoio, era stranissimo che avesse abbandonato il ritiro sapendo che per punizione poi non avrebbe potuto giocare la partita contro il Messina. Nessuno di loro però, in tutti questi anni, ha saputo o voluto dire di più degli ultimi giorni di vita del calciatore. Neppure Michele Padovano, il compagno amico fraterno con cui Denis divideva la casa e le camere d’albergo durante le trasferte (Padovano poi giocò anche nella Juventus e nel 2011 è stato condannato in primo grado a 8 anni e otto mesi per associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga). Nei giorni e nei mesi prima che Bergamini morisse nessuno ha notato nulla di diverso in lui, nessuno ha raccolto qualche sua confidenza? Eppure la vita dei giocatori di una squadra di calcio è cameratesca, soprattutto se ci si trova a vivere in una piccola città come Cosenza, lontani dalle proprie case.
Il Totonero e la droga. Le voci, le ipotesi, le chiacchiere e le congetture intorno alla morte di Bergamini sono nate presto. Si disse che il calciatore fosse stato ucciso perché implicato nel Totonero, la compravendita di partite fatta in quegli anni da alcuni calciatori. Il direttore sportivo Ranzani ripete da anni che non ci ha mai creduto: chi avesse voluto corrompere un giocatore – ha ragionato più di una volta - avrebbe scelto un difensore o un portiere o un attaccante, non certo un centrocampista. E poi si parlò di ‘ndrangheta e traffico di droga. Si diceva che la malavita usasse il pullman del Cosenza per portare la droga al nord; una misteriosa ragazza (che poi sparì nel nulla) telefonò più volte a casa Bergamini sostenendo che invece la droga veniva nascosta in scatole di cioccolatini che Denis inconsapevolmente doveva recapitare durante le trasferte. Ci fu chi disse che nella Maserati del calciatore ci fossero doppi fondi in cui venivano nascosti, sempre a sua insaputa, gli stupefacenti. Ma la macchina di Bergamini è stata analizzata dal Ris e risulta esattamente uguale a come uscì dalla fabbrica, senza vani segreti e nascosti. «Qui a Cosenza c’è stata per molto tempo un’atmosfera pesante creata ad arte per fare paura alle persone e spingerle al stare zitte - spiega Marco De Marco, nel direttivo dell’associazione “Verità per Denis” – La curva, con i suoi striscioni allo stadio, è stata l’unico spicchio della città a rivendicare la verità su quello che era successo a Bergamini». «Quando si parlava di lui – continua De Marco - vedevi sui volti dei tifosi un misto di vergogna e timore». L’associazione, per i 20 anni dalla morte del calciatore, ha organizzato una grande manifestazione che è partita dal tribunale per finire allo stadio San Vito. «Non abbiamo mai ricevuto minacce per quello che facciamo, nessuno è venuto a spaventarci o intimidirci – conclude De Marco – e da pochi mesi è stata aperta anche una scuola calcio intitolata a Denis». La verità allora forse va cercata altrove, nella sfera dei rapporti personali del calciatore. Forse qualcuno voleva punirlo per qualcosa che Bergamini aveva fatto o detto, oppure doveva essere solo una dimostrazione di forza andata troppo oltre. Poi c’è stata la maldestra messa in scena del suicidio, rimasta incredibilmente in piedi per così tanto tempo.
La nuova inchiesta. La procura di Castrovillari da tre anni sta cercando di mettere ordine nei pezzi di questa storia. Isabella Internò oggi è una donna di 45 anni, sposata con un uomo che appartiene alle forze dell’ordine e madre di due figlie. «Si è chiusa in un mutismo assoluto» ha detto il suo legale quando, nel 2013, la donna è stata iscritta nel registro degli indagati. L’autista Raffaele Pisano ha più di 75 anni e anche lui si è avvalso della facoltà di non rispondere. Il brigadiere Barbuscio è morto pochi anni dopo Bergamini. Gli atti della nuova inchiesta sono secretati ma, intervistati dal Quotidiano della Calabria già un paio di anni fa, i medici legali incaricati di esaminare i reperti biologici del calciatore avevano parlato chiaramente: «Non abbiamo scoperto la luna, era già tutto scritto nella perizia di Avato», ha detto Roberto Testi; «allora nessuno l’ha mai letta bene», ha ribadito Franco Bolino.
La mancanza del diritto alla verità. «Quando penso a mio fratello la prima immagine che mi viene in mente è il suo sorriso, la sua voglia di vivere», confida Donata. Tra lei e Denis c’erano solo 16 mesi di differenza, oltre che fratello e sorella erano amici. «Siamo cresciuti insieme, dormivamo nella stessa camera, la sera da piccoli dopo il telegiornale facevamo degli spettacoli casalinghi per i nostri genitori e i nostri nonni: imitavamo i cantanti, loro ridevano», ricorda. Ai suoi figli che da bambini le chiedevano come fosse morto lo zio e perché, Donata all’inizio non sapeva rispondere. Poi per anni ha ripetuto loro: «Stiamo cercando la verità, noi eravamo lontani quando è successo». «Il dolore per una morte è un conto, essere privati di un diritto un altro – conclude oggi –. Messe insieme le due cose rendono la vita invivibile, un inferno». Intanto l’orologio senza graffi di Denis continua a ticchettare.
IL MISTERO LUIGI TENCO E PIER PAOLO PASOLINI.
Il libro nero del Festival di Sanremo di Romano Lupi Riccardo Mandelli edito da Odoya, 2016. Il libro nero del Festival di Sanremo: La storia del Festival di Sanremo non è scritta soltanto dalla "grande evasione" di tv, sorrisi e canzoni, scrive “Unilibro”. E tantomeno da quello che, davanti agli occhi di tutti, accade sul palcoscenico. Esiste, infatti, una storia segreta che attraversa tutto il dopoguerra italiano e le cui premesse nascono da una sorta di "progetto Sanremo" ideato alla fine dell'Ottocento: un "paradiso terrestre massonico" dove il gioco d'azzardo è il termine medio tra spionaggio internazionale e grandi giochi politici. Il Festival è l'ultima tappa di un percorso dove la manipolazione sociale assume i morbidi e insinuanti contorni della musica nazional-popolare. Il legame con il casinò è molto forte. Non è un caso che la più importante kermesse canora del nostro paese sia nata e si sia sviluppata in stretto collegamento con una delle quattro case da gioco italiane, tra i rapporti indicibili delle istituzioni con la criminalità organizzata, i servizi segreti e l'industria discografica. Gli scandali emersi nel corso degli anni presentano risvolti molto più inquietanti rispetto a quello che ci si potrebbe aspettare. Dalle ambigue figure dei primi "patron" festivalieri come Pier Bussetti, Achille Cajafa ed Ezio Radaelli, con i loro tragici destini, alla misteriosa morte di Luigi Tenco; dal ruolo del Vaticano nell'industria del gioco e dell'intrattenimento ai Festival truccati; dalle tangenti di Adriano Aragozzini fino alle polemiche sulle amicizie in odore di mafia del direttore artistico Tony Renis. La storia d'Italia non è mai banale ed è sempre capace di stupire, anche quando "sono solo canzonette".
“Il libro nero del Festival di Sanremo”, in uscita l’opera di Romano Lupi e Riccardo Mandelli. In questo libro compare un punto interrogativo: "Perché Sanremo è Sanremo?" Scrive il 14 novembre 2016 “Riviera 24”. Accanto al ritornello accattivante scritto da Bardotti-Caruso che lanciava la nuova edizione del festival presentata da “re Baudo”, in questo libro compare un punto interrogativo: “Perché Sanremo è Sanremo?” “Sanremo, scrivono e circostanziano bene gli autori, è (a) Sanremo perché doveva fare da paravento o nobile corollario al casinò della città. Prima che Sanremo fosse Sanremo, svariati giochi di potere prima e durante il fascismo avevano creato una stretta relazione tra eventi e gioco d’azzardo. Fu così che nel Secondo dopoguerra, da un’idea di Amilcare Rambaldi, commerciante di fiori massone della loggia Mazzini, e il suo confratello Angeli Nizza, che occupava la posizione di ufficio stampa del casinò, si sviluppò un abbozzo di programma che avrebbe riunito gli interessi di Piero Busseti (gestore della sala da gioco) e della Rai. Era il 1951. La prima vincitrice fu Nilla Pizzi. Fu praticamente obbligata a giocare alla roulette e restò stupefatta di fronte a quel maldestro tentativo di farne immediatamente la testimonial del gioco d’azzardo. Le persone sedute alla roulette le sembrarono infatti “ipnotizzate”, “stregate dalla pallina che girava” e se ne andò offesa. La mafia legata dal gioco (Nitto Santapaola e Joe Adonis per citare due nomi illustri) ebbe a che fare ancora per decenni con l’organizzazione del festival, ma già dal 1955 i dischi che la competizione faceva vendere giustificavano di per sé la pena di organizzare l’evento. Le canzoni del festival sfondarono addirittura i confini nazionali. Erano particolarmente apprezzate in URSS dove circolavano in edizioni illegali incise sulle radiografie ossee…Questo non contribuì a rendere limpida l’organizzazione e la gestione della competizione, che iniziava ad assumere i connotati delle edizioni che conosciamo. In questa inchiesta completissima si dimostra come gli interessi in gioco fossero tanti e tali che spesso i risultati non fossero frutto di una votazione onesta. Per esempio gli autori raccontano che Pupo spese 75 milioni in schedine del Totocalcio per pilotare il voto del pubblico. Le reti Mediaset, che ne avevano tutto l’interesse, provarono a smascherare i brogli e Striscia la Notizia se ne uscì ben due volte con il nome del vincitore a un paio di giorni dalla votazione…Questo sarebbe un peccato veniale se non avesse portato, certo in un quadro di insieme più complesso, al suicidio di ben due concorrenti: Luigi Tenco e Mia Martini…Un’inchiesta dura e che non risparmia nessuno dei grandi partiti politici e che parte dalla convinzione che Guy Debord, nel suo libro culto La società dello spettacolo ci avesse visto giusto. Interessantissima anche la storia dei controfestival con i quali Dario Fo e Franca Rame ebbero molto a che spartire. Anzi, si può dire che la prima manifestazione alternativa (1969) fu una loro idea. Insomma: un vero e proprio libro nero sulla falsariga di quello che un tempo si chiamava controinformazione, passata di moda a favore della più adatta ai tempi disinformazione”. Romano Lupi, nato a Sanremo, è giornalista pubblicista dal 2005 e scrittore. Ha al suo attivo diverse collaborazioni con giornali e riviste culturali. Tra i suoi libri: Sanremando tra cronaca e storia (con Franco D’Imporzano); Futbolstrojka. Il calcio sovietico negli anni della Perestrojka (con Mario Alessandro Curletto); Il calcio sotto le bombe. Storia del Liguria nel campionato di guerra del ’44; Jašin. Vita di un portiere (con Mario Alessandro Curletto). Per Odoya ha già pubblicato: Vittò. Giuseppe Vittorio Guglielmo (2016). Riccardo Mandelli è storico e scrittore. Tra i suoi saggi ricordiamo: L’ultimo sultano. Come l’Impero ottomano morì a Sanremo; Al casinò con Mussolini. Gioco d’azzardo, massoneria ed esoterismo intorno all’ombra di Matteotti; Decreti sporchi. La lobby del gioco d’azzardo e il delitto Matteotti.
Balordi, miliardari e misteri Ecco il libro nero del Festival. Ricostruiti gli scabrosi retroscena della kermesse musicale inventata per valorizzare e portare clienti al Casinò, scrive Umberto Piancatelli, Martedì 22/11/2016, su "Il Giornale". Perché Sanremo è Sanremo? Non è soltanto la sigla del Festival della Canzone ma, aggiungendo un interrogativo, è anche il mistero che hanno cercato di svelare Romano Lupi e Riccardo Mandelli con Il libro nero del Festival di Sanremo (Odoya). Il lavoro dei due autori liguri ripercorre la storia della rassegna canora, partendo dagli inizi del 900 da quando si costruisce il primo Casinò italiano, che diventa subito un centro di spionaggio, ricatto, finanziamento occulto e riciclaggio. L'intenzione dei primi gestori, come Lurati, è quella di far diventare la casa da gioco un punto nevralgico per attirare magnati e miliardari da tutto il mondo, scippando lo scettro alla vicina Costa Azzurra. Come scrivono gli autori: «l'Italia avrebbe dovuto assumere il primo posto come paese del divertimento, del gioco, dello spettacolo e dell'assenza di pensieri tormentosi. Il regno dell'illusione. La formula paradiso, replicata in tutto il mondo fino a oggi con i necessari adattamenti, sembrava sul punto di trovare proprio qui da noi la massima espressione». Dove circola una montagna di denaro, ovviamente, i traffici illeciti proliferano ovunque. L'editore musicale Suvini e Zerboni per far lievitare i propri profitti si dedica ad un giro di scommesse raccolte tra una rappresentazione e l'altra. Trame occulte influenzano la vita nazionale e quella del mondo intero e al centro si trova il tempio dell'azzardo. Giochi di potere, anche durante il fascismo, creano una stretta relazione tra spettacoli e gioco d'azzardo. Sono gli anni in cui l'edificio del Casinò è frequentato dai fratelli De Filippo, insaziabili giocatori d'azzardo, e si organizza un Festival di Musica Partenopea che nella sua struttura è da considerare il progenitore dell'attuale kermesse canora. Il primo ad avere l'idea di un Festival della Canzone Italiana è Amilcare Rambaldi, commerciante di fiori, che aveva rischiato la fucilazione. Per concretizzare l'intuizione di Rambaldi, il giornalista Angelo Nizza «cominciò così a lavorarsi il nuovo gestore del casinò, Piero Busseti, e alla fine riuscì a convincerlo che l'idea di un Festival della Canzone non era poi malvagia. Quindi Nizza attivò i suoi amici della sede Rai di Torino, primo tra tutti Nunzio Filogamo». Alla terza edizione, nel 1953, la manifestazione canora era ormai un successo consolidato. In questa festa dello show business con sempre più frequenza si parla di droga, lavorata da famose case farmaceutiche, anche se «il traffico di sostanze stupefacenti esisteva già negli anni Venti, e il nostro Paese ne era un nodo fondamentale» e del mercato dell'illecito che ruota dentro e intorno al Casinò. Entrano in scena personaggi loschi, faccendieri, la Gladio, Lucky Luciano, Angelo La Barbera, Salvatore Greco, Giuseppe Bono, Gaetano Badalamenti, Tommaso Buscetta e Joe Adonis, potente mafioso italo-americano della famiglia Genovese. Durante il suo soggiorno obbligato nelle Marche, secondo quanto riportato nel libro, «secondo un biscazziere che lo conosceva bene erano intanto passati a salutarlo Dori Ghezzi, Ombretta Colli, Lauretta Masiero, Johnny Dorelli». A gestire il Casinò ritroviamo Rinaldo Masseroni, già presidente dell'Inter, e con lui Achille Cajafa, soprannominato vero dittatore della canzone. Si fa sempre più pressante il dubbio che una vittoria del Festival sia frutto di manovre sottobanco. Il racconto ci riporta alla mente i brogli denunciati a gran voce da Claudio Villa, l'era dei patron Ravera e Radaelli, le loro guerre contro le case discografiche, le ammissioni alla gara (si dice) vendute a suon di milioni, le irregolarità amministrative e altri reati connessi. Arriviamo alla triste pagina della morte di Luigi Tenco dopo l'esclusione della sua Ciao amore ciao, con Gianni Ravera che farfugliò in stato confusionale: «Bastava che me lo dicesse e sarebbe passato in finale». Leggendo le documentate pagine di Lupi e Mandelli si arriva al Festival del 1975 vinto da Gilda con Ragazza del Sud, pupilla di Napoleone Cavaliere, patron della manifestazione, in cui il posto di un notaio fu ricoperto da un figurante cinematografico. Quindi è l'era di Adriano Aragozzini, condannato e carcerato per tangenti pagate ad amministratori e politici locali per ottenere l'organizzazione. Fece scalpore la presa di posizione di Gino Paoli che scese in campo per difenderlo. Lungo la cavalcata musical-scandalistica di 300 pagine appare anche il nome di Lele Mora, chiamato a riorganizzare le sorti balneari di Sanremo. Insomma Il libro nero del Festival di Sanremo è un testo che tenta di colmare il vuoto lasciato da quella informazione che non indaga più a fondo e non va oltre le patinate apparenze.
Luigi Tenco, Pier Paolo Pasolini: quando la tragedia sveglia le coscienze. Il suicidio di Luigi Tenco (1967) e l’omicidio di Pier Paolo Pasolini (1975): la gravità di questi due eventi scosse tante persone, ma soprattutto colpì anche parte di quel blocco conservatore indicato come “maggioranza silenziosa”, scrive Gianni Martini il 3 dicembre 2012. Si è parlato di “torpore coscienziale”, condizione politico-culturale che caratterizzava, negli anni ’60 e ’70, larghi strati della popolazione. “Maggioranza silenziosa”, così veniva definito questo “blocco sociale” trasversale che dalla piccola e media borghesia arrivava a toccare anche i ceti popolari. Ritengo importante soffermarmi su questo “muro sociale” conservatore perché la sua presenza impalpabile e, appunto, silenziosa, giocò un ruolo significativo. Più che di arretratezza politica penso si trattasse di una ben più grave arretratezza culturale che si esprimeva in una mentalità chiusa e refrattaria alle novità. Sarebbe quindi sbrigativo ed erroneo liquidare come “di destra”, compattamente, quest’area sociale. Infatti, anche una parte della sinistra popolare, allora legata al P.C.I, condivideva nei fatti le stesse posizioni conservatrici che non esitarono a condannare l’arte d’avanguardia, i capelloni dei primi anni ’60, gli omosessuali. Eppure, in quegli anni ci furono almeno due fatti che, sul piano del costume, scossero la società civile, arrivando forse a smuovere un po’ anche le “maggioranze silenziose”: 1967 suicidio di L. Tenco e 1975 omicidio di P. Pasolini. La sociologia ci insegna che quando nella società civile si verifica un “evento traumatico” si possono determinare cambiamenti nei comportamenti sociali più o meno diffusi, in relazione all’entità dell’evento stesso. L. Tenco si suicidò nella notte tra il 26 e il 27 gennaio 1967, mentre era in corso il festival di Sanremo. Nel drammatico messaggio che lasciò scritto sulla carta intestata dell’albergo si leggeva un’attestazione d’amore per il pubblico italiano, ma al tempo stesso una profonda delusione per il passaggio in finale di una canzonetta insulsa come “Io tu e le rose” e una finta canzone di protesta come “La rivoluzione”. L’opinione pubblica fu scossa soprattutto perché non ci si aspettava che il Festival di Sanremo potesse essere sconvolto da una tragedia simile. La morte di L. Tenco fece irrompere nella spensieratezza del tempio della canzonetta disimpegnata e leggera, del bel canto popolare, un’altra realtà: il fatto che si potessero scrivere canzoni frutto di un’ispirazione più autentica, canzoni che parlassero della vita concreta, non idealizzata e mistificata. Che le cose stessero iniziando a cambiare – con grida di scandalo di ben pensanti e reazionari di ogni risma – lo si era in realtà già capito da qualche anno, visto che il Festival di Sanremo aveva ospitato alcuni complessi di “capelloni” e canzoni di protesta. Comunque quasi tutta la stampa batté la strada del “cantante solo, incompreso, forse depresso e inacidito per il mancato successo”. Certamente il mondo della canzone, dopo quel tragico fatto, non fu più lo stesso. Nel 1972 nacque a Sanremo il Club Tenco e nel 1974 vi si tenne la prima “Rassegna della canzone d’autore”. Il Club Tenco (presieduto e fondato da A. Rambaldi), per statuto, si impegna a promuovere e diffondere un nuovo tipo di canzone, fuori dalle strategie delle case discografiche e della musica di consumo. Una canzone rivolta alla parte più sensibile e impegnata della società civile, già frutto di una vitalità socio- culturale, segno attuale dei tempi. E veniamo alla drammatica vicenda di P. Pasolini, ucciso barbaramente nella notte tra l’1 e il 2 novembre 1975. Gli occulti mandanti e le circostanze dell’omicidio non furono mai del tutto chiarite. Anche in questo caso l’impatto fu notevole soprattutto sulle componenti della società civile più sensibili e culturalmente attive. Buona parte della stampa, dopo aver riconosciuto o semplicemente riportato con distacco il valore dell’impegno artistico e intellettuale di Pasolini, si soffermò soprattutto sugli aspetti da “cronaca nera”. La stampa più retriva e moralista trattò il caso come “maturato negli ambienti omosessuali”. Per il resto ci si limitò con poche eccezioni a descrivere le scelte di vita di Pasolini. Si perse così (volutamente, sia chiaro), l’occasione per una discussione non solo sulla statura artistica di Pasolini ma su ciò che, come giornalista, scriveva su quotidiani e riviste importanti come “Il corriere della sera”, “Il tempo”, “Panorama”, “Rinascita”, “Il mondo” ecc, oltre a dichiarazioni rilasciate in interviste, anche televisive.
Quella rivoluzione chiamata Luigi Tenco. Fascinoso, anticonformista, ombroso. Ma anche ironico e traboccante di creatività, capace di sfidare la morale con canzoni che facevano pensare. Cinquant'anni fa, il 27 gennaio 1967, il cantautore pose fine alla sua vita con un colpo di pistola. Lasciando però una grande eredità alla nostra canzone, scrive Alberto Dentice il 26 gennaio 2017 su "L'Espresso". Se non fosse mai andato al festival di Sanremo, oggi Luigi Tenco avrebbe 78 anni, la stessa età di Celentano e chissà, forse sarebbe anche lui un insopportabile gigione. Invece, il 27 gennaio del 1967, 50 anni fa, con un colpo di pistola Tenco pose fine alla sua vita tormentata assicurandosi un posto nel paradiso dei “forever young”, accanto a Janis Joplin, Jimi Hendrix, Jim Morrison, Kurt Cobain e altre leggende del rock morte giovani e preservate perciò dagli acciacchi del tempo e dell’età. Che si sia trattato di suicido, di un fatale incidente come capitò a Johnny Ace (leggenda del R&B fulminato nel 1954 da un colpo partito per sbaglio mentre giocava con la sua pistola) o di omicidio eseguito su commissione di oscuri mandanti come quello di Pier Paolo Pasolini, il dibattito è ancora aperto. Una mole impressionante di libri e di inchieste giornalistiche ne hanno evidenziato a più riprese l’inconsistenza: si legga in proposito la nuova aggiornata biografia di Aldo Colonna, “Vita di Tenco” (Bompiani), che arriva ad adombrare una responsabilità del vicino di stanza, Lucio Dalla. La versione del suicidio sembrerebbe a tutt’oggi accettata con rassegnata perplessità dalla stessa famiglia del cantautore, rappresentata dai due figli del fratello, Valentino Tenco, e dalla loro madre. Suicidio o omicidio? Non è un dubbio da poco. Cambiando il finale, sarebbe tutto un altro film. E il mito dell’artista “maudit” che si toglie la vita per protestare contro l’ottusità e la corruzione che infestano il tempio della musica leggera ne uscirebbe ridimensionato. Dell’eredità spirituale e artistica di Tenco, nel frattempo ha continuato a occuparsi, nel segno dell’indipendenza e di una mission creativa scevra da compromessi con il famigerato “mercato”, la Rassegna a lui dedicata, fondata proprio a Sanremo da Amilcare Rambaldi, gran signore e appassionato conoscitore di musica popolare. Il Premio Tenco aprì le porte nel 1974, nel pieno della stagione d’oro della canzone d’autore. Poi nel ’95 Rambaldi ci ha lasciato e la manifestazione ha cominciato a perdere un po’ dell’allegria e dello spirito dilettantesco, nel senso migliore del termine, che ne avevano caratterizzato gli esordi. Le mitiche serate post festival trascorse all’osteria assistendo alle sfide in ottava rima tra Guccini e Benigni sono un ricordo. Anche il Tenco ha aperto le porte al nuovo e ha esteso il concetto di canzone d’autore fino ad abbracciare l’hip hop, la canzone dialettale, la world music e il pop all’insegna di quella contaminazione tra i generi che siamo portati a considerare il suggello della contemporaneità. L’orgoglio della diversità artistica è rimasto un punto fermo anche per Enrico De Angelis, il direttore artistico che ne ha guidato le sorti fino a poche settimane fa, coadiuvato da un ristretto comitato di esperti e appassionati. Per celebrare i 50 anni dalla scomparsa, l’edizione 2016, la quarantesima, ha previsto un gran finale tutto dedicato a Luigi Tenco. Titolo: “Come mi vedono gli altri… quelli nati dopo”. Sul palco fra gli altri anche l’istrionico Morgan che per Tenco ha una vera adorazione. Gli ha dedicato il prossimo album e una canzone: «Luigi Tenco / scappato eternamente / oltre lo spazio, le luci e il tempo / perché lui si sente /vivo / fatalmente/ solo nel momento in cui non è». Ma quanti lo ascoltano, quanti fra i giovani musicisti e i cantanti oggi conoscono Tenco? La risposta forse arriverà il 28 gennaio ad Aosta, quando sul palco del Teatro Splendor in ricordo del cantautore saliranno altri giovani protagonisti della canzone d’autore. Fra gli altri proprio il toscano Motta, cui è stato assegnato il recente premio Tenco. E che mentre si appresta a cantare il suo “Una brava ragazza”, ammette di conoscerlo poco. Ma appunto, chi era Luigi Tenco? Certo è che quel gesto estremo, notava anni fa Lietta Tornabuoni su La Stampa, «lo aveva confermato per quel che Tenco era sempre apparso all’euforico, quattrinaio e prepolitico mondo della musica leggera dei primi anni Sessanta: un guastafeste». E chissà se Carlo Conti e Maria De Filippi decideranno di commemorare l’anniversario al prossimo Sanremone. Perché la sua ombra continua a dividere come quella di un angelo sterminatore. Le cronache del tempo tramandano il ritratto di un anticonformista dal carattere ombroso e introverso ma assai consapevole del proprio fascino, jeans e maglione nero d’ordinanza, lo sguardo sprezzante del giovane arrabbiato a mascherare una profonda fragilità. Insomma, è uno che se la tira. Oltretutto il Nostro è un lettore accanito, adora Pavese e in una canzone, “Quasi sera”, cita addirittura versi di Bertolt Brecht. Quanto basta perché alla fama di intellettuale si sommi quella più sospetta di comunista. Oggi non ci farebbe caso nessuno, ma nell’Italia pre-sessantotto che vuole essere ricca, spregiudicata e ottimista basta questo per essere guardato con diffidenza, specie nell’ambiente ridanciano e superficialotto della discografia. All’immagine del pessimista introverso da sempre fa da contraltare quella del Tenco amante della vita, traboccante creatività e perfino spiritoso, bravissimo a raccontare barzellette, con un debole per le zingarate. Dalle testimonianze di chi l’ha conosciuto, insomma, Tenco risulta essere stato tutto e il contrario di tutto. Ma sulla sua missione ha idee chiarissime: «Anche la canzone può servire a far pensare». Convinto che si debba cantare l’amore con un linguaggio nuovo, fare a pezzi i luoghi comuni, la rima baciata, il verso tronco, la retorica imperante. Sì: «Mi sono innamorato di te», ma solo «perché non avevo niente da fare». Nei primi anni Sessanta, ovviamente, non è il solo artista impegnato a rinnovare il linguaggio della canzone. Tenco è meno musicista di Bindi, meno romantico di Paoli, non ha l’aplomb aristo-maledetto di De André, ma proprio lui, genovese d’adozione (è nato a Cassine in provincia di Alessandria) è il più politico del gruppo. Nel 1962, “Cara maestra”, il “j’accuse” contro l’ipocrisia di certi precetti morali impartiti a scuola e in chiesa, gli era valso due anni di esilio dalla tv. Intanto, nella musica e non solo in quella, sta cambiando tutto. L’avvento di Bob Dylan, dei Beatles, dei Rolling Stones ha impresso al mondo un’accelerazione bestiale. Tenco, appena sbarcato alla Rca, la sua nuova casa discografica, scopre il Piper Club, il tempio romano del beat e dei capelloni, dove oltre ai Rokes, all’Equipe 84, a Patty Pravo si possono ascoltare i Primitives, i Bad Boys e molti altri gruppi rock blues inglesi sconosciuti ma bravissimi. E perfino divinità del Rhythm’ n’Blues come Otis Redding, Wilson Pickett, Sam & Dave. Tenco a differenza di Bindi, di Paoli, di Endrigo, di Lauzi, che hanno la bussola puntata verso la Francia di Brassens, guarda più all’America. Nasce come sassofonista, viene dal jazz e ha trovato in Paul Desmond il suo modello. Come se non bastasse, sussurra «Quando il mio amore tornerà da me…» con lo stesso timbro vellutato di Nat King Cole e in questo come in altri suoi lenti da mattonella farciti con overdose di violini - pensiamo a “Lontano, lontano” o a “Ti ricorderai” - riesce a toccare come pochi le corde della malinconia. Proprio al Piper, però, il Nostro deve rendersi conto che il conflitto, ormai, non è più fra destra e sinistra, quanto piuttosto una questione generazionale. Da una parte i giovani, dalla parte opposta tutti gli altri. Lui a 25 anni si sente già vecchio, e quando nel 1966 scoppia la polemica contro i capelloni, è tra i primi a schierarsi: «Gli argomenti preferiti di certa gente sono che i capelloni non lavorano, che non si lavano, che sono ignoranti; bene, a questo punto io mi proclamo un capellone, mi sento uno di loro». L’ondata dei beat, delle canzoni di protesta lo vedrà in prima linea, anche se, a onor del vero, il contributo di Tenco alla causa, “Ognuno è libero”, non si distingue per originalità. Chissà cosa pensano davvero di lui i giovani che oggi nei dischi infilano cover delle sue canzoni per accattivarsi la giuria del premio Tenco. I cinquant’anni dalla morte cadono mentre De Angelis si dimette dal Club denunciando che l’iniziale «professionalità» si sta trasformando in «professionismo», e gli eredi litigano con i gestori del museo-omaggio di Ricaldone, rei di aver esposto una gigantografia del cantante. E intorno a Tenco tira aria di maretta.
«Ecco perché Tenco fu ucciso» Il libro-inchiesta riapre il caso, scrive Monica Bottino, Sabato 23/02/2013, su "Il Giornale". «Quando molti giornalisti mi chiedono se esiste il delitto perfetto, io gli rispondo di sì: è l'omicidio Tenco». Il criminologo Francesco Bruno ne è convinto. Nella notte del 27 gennaio 1967, durante il Festival di Sanremo, avvenne quello che a 46 anni di distanza resta ancora uno dei grandi misteri italiani. Mistero, sì. Nonostante due sentenze della magistratura dicano che Luigi Tenco si è suicidato, sono tanti e insoluti i dubbi su quella notte. E non solo. A tentare di far luce su quello che è per molti un «cold case» sono due giornalisti d'inchiesta: Nicola Guarnieri e Pasquale Ragone che hanno pubblicato il libro «Le ombre del silenzio. Suicidio o delitto? Controinchiesta sulla morte di Luigi Tenco» (edizioni Castelvecchi), proprio con la prefazione del professor Bruno. Un lavoro ponderoso che è il risultato di quattro anni di ricerche nei faldoni giudiziari, alla riscoperta di interviste dell'epoca con le persone che a vario titolo furono coinvolte nella vicenda. E nuove testimonianze. A rendere straordinario il libro non c'è solo la capacità degli autori di raccontare una storia vera come fosse un noir, ritmandola di colpi di scena e rivelazioni clamorose, ma anche e soprattutto la pubblicazione di testimonianze e materiali inediti rinvenuti nell'aula bunker della corte di Assise di Sanremo. Un lungo lavoro di ricerca che gli autori hanno portato avanti scavando tra archivi e faldoni, fino a scovare per la prima volta il foglio matricolare e alcune lettere di Luigi Tenco, documenti finora mai pubblicati. Il lettore viene assalito da molti dubbi di fronte a un quadro inquietante e alle troppe incongruenze che emergono dalle carte stesse. Alla fine emergono anche altre domande: perché Tenco doveva morire? Quali segreti custodiva? E la richiesta degli autori alla magistratura, sulla base delle nuove prove emerse, è quella di aprire nuovamente il caso. Intanto è bene sapere che Luigi Tenco in quei giorni aveva paura. Di più. Temeva per la sua vita, dopo che poco tempo prima del festival, nei pressi di Santa Margherita due auto lo avevano stretto e avevano tentato di mandare la sua fuoristrada. Era stata la terza volta che attentavano alla sua vita, confidò a un amico. Fu a quel punto che decise di acquistare una pistola Walther Ppk7.65, abbastanza piccola da tenerla nel cruscotto della macchina. Secondo gli autori non fu questa la pistola che uccise Tenco perché non uscì mai dalla macchina. Nella stanza 219 del Savoy la polizia dirà di aver rinvenuto una Bernardelli, molto simile alla precedente, ma naturalmente non quella. Inoltre nel primo verbale stilato dalla polizia «alle ore tre» (e pubblicato nel libro) si parla di proiettili, di medicinali, ma non di arma. La pistola non fu repertata. Perché? Forse perché non c'era? Ma andiamo avanti. È assodato che il cadavere fu condotto all'obitorio subito dopo il ritrovamento dai necrofori, che poi furono richiamati e costretti a riportarlo nella stanza dove fu rimesso nella posizione che aveva al momento del ritrovamento, per consentire alla polizia di scattare le fotografie e di eseguire i rilievi non fatti prima. Non fu eseguita l'autopsia. Il cadavere di Tenco non fu svestito né lavato, ad eccezione del viso. Non fu nemmeno fatto lo «stub», ovvero il test che prova se una mano ha tenuto la pistola che ha sparato. Nulla. Perché? A distanza di molti anni, a fronte di molti dubbi, nel 2006 la salma di Tenco fu riesumata. Gli esami furono - secondo gli autori - incompleti anche in questo caso. Ma ci furono esperti che si dissero convinti che la pistola che aveva ucciso Tenco avesse un silenziatore, poiché la ferita sul cranio non era a stella, ma rotonda. Ma il silenziatore non fu mai trovato. Inoltre nel 2006 non furono fatti accertamenti sui vestiti, gli stessi che l'uomo indossava al momento della morte e che avrebbero almeno dovuto avere le tracce dello sparo. Il lettore verrà condotto attraverso uno dei misteri irrisolti con dovizia di particolari e una documentazione ricca, sebbene un piccolo appunto (magari in vista di una ristampa) va fatto per la poca chiarezza delle immagini fotografiche stampate sulla carta ruvida, e in bianco e nero anche nella ricostruzione. Resta il fatto che il libro-inchiesta non solo pone questioni, ma fornisce al lettore anche una possibile chiave di lettura degli avvenimenti che culminarono in quella notte maledetta. C'è la pista argentina, per dirne una, ma si parla anche di mafia marsigliese, e di eversione di estrema destra. E anche del potere delle case discografiche a Sanremo. Non possiamo svelare di più, per non togliere il piacere di una lettura coinvolgente che attraversa fatti e personaggi della nostra storia. «Gli esami svolti nel 2006 dall'Ert non chiariscono tutti i punti oscuri e la tesi del suicidio non combacia con diversi elementi», scrive ancora Bruno nella prefazione. La soluzione al mistero è ancora lontana. Ma questo libro è un passo avanti.
Se sono eroi, noi stiamo dall'altra parte. Celebrano i loro miti come fossero dei santi, ma non possono riscrivere la storia, scrive Alessandro Gnocchi, Martedì 03/11/2015, su "Il Giornale". L'Italia è sempre generosa nel celebrare i suoi eroi. A patto che abbiano manifestato, in parole e opere, una visione del mondo diversa da quella liberale. Possibilmente opposta, ma va bene anche un generico contributo in favore del conformismo (di sinistra). La cronaca ci offre tre casi molto diversi. Partiamo dal più vistoso, le celebrazioni di Pier Paolo Pasolini, ucciso il 2 novembre 1975 all'Idroscalo di Ostia. Chi si aspettava nuove interpretazioni e contributi critici è rimasto deluso. Il poeta, lo scrittore, il regista non interessano. Si è glorificato il Pasolini che sapeva tutto senza avere le prove di nulla ma voleva comunque processare la Democrazia cristiana. Al massimo si è fatto un po' di complottismo sull'omicidio, per dire che sono stati i fascisti, i poteri occulti, i servizi segreti. Senza prove, naturalmente, perché anche i biografi di Pasolini «sanno» e tanto basta. Pasolini dunque è ridotto a santino anti-capitalista, per via del suo marxismo. Se bisogna forzare la storia, non è un problema: non abbiamo letto grandi rievocazioni dell'ostracismo da parte del Partito comunista; né articoli vibranti sul poeta che simpatizzava con i poliziotti dopo gli scontri di Valle Giulia. La forzatura della storia, anzi: la riscrittura, è parsa evidente alla morte di Pietro Ingrao. I «coccodrilli» cantavano la democraticità del suo comunismo ed esaltavano il suo ruolo di eretico all'interno di Botteghe Oscure. Peccato che Ingrao fosse direttore dell'Unità quando il quotidiano definì «un putsch controrivoluzionario» l'insurrezione di Budapest del 1956. Ingrao stesso firmò l'editoriale in lode dell'invasione sovietica. Molti anni dopo, il presunto eretico pronunciò un discorso durissimo contro i «dissidenti» del Manifesto. Meno male che li considerava politicamente «figli suoi». Elogi sperticati anche per Giulia Maria Crespi, ex proprietaria del Corriere della Sera, in occasione della pubblicazione della sua autobiografia (Il mio filo rosso, Einaudi). Vittorio Feltri ha già ricordato, su queste colonne, che fu proprio la «zarina» a licenziare Giovanni Spadolini per spostare il quotidiano a sinistra. Piero Ottone divenne direttore, Indro Montanelli fondò il Giornale. Nel 2016 cade il ventennale della morte di Renzo De Felice. La sua biografia di Mussolini faceva a pezzi il mito dell'antifascismo. Lo storico sapeva e aveva anche le prove ma fu sottoposto a un linciaggio intellettuale. (Per coincidenza, la feroce campagna di delegittimazione segue di pochissimo l'io so di Pasolini). Vedremo se l'Italia sarà capace
Quarant’anni fa, il 16 maggio 1974, Pier Paolo Pasolini scriveva sul Corriere della Sera uno dei suoi editoriali che ancora oggi restano nell’immaginario continuando a farci interrogare sul cuore del "caso italiano", scrive Luciano Lanna su "Le cronache del garantista". Il tema era oggettivamente pasoliniano: "Il fascismo degli antifascisti". E il ragionamento che il poeta vi svolgeva era la continuazione di quanto andava spiegando da oltre un mese, a cominciare dall’editoriale "Gli italiani non sono più quelli", del 10 giugno, a quello su "Il potere senza volto", del 27 giugno, sino alle note riflessioni sulla rivoluzione antropologica e l’omologazione in Italia, dell’il luglio. Si tratta di alcuni degli articoli che verranno poi raccolti in un libro nel novembre 1975 nell’ultima opera pubblicata in vita da Pasolini: Scritti corsari. In tutti quegli articoli l’autore denunciava il fatto che nessuno in Italia si mostrava in grado di comprendere quanto stava realmente accadendo: «Una mutazione della cultura italiana, che si allontana tanto dal fascismo che dal progressismo socialista». In realtà, precisava Pasolini, era in atto un fenomeno devastante e inarrestabile di mutazione antropologica conseguente alla trasformazione del sistema di Potere: «L’omologazione culturale che ne è derivata riguarda tutti: popolo e borghesia, operai e sottoproletari. Il contesto sociale è mutato nel senso che si è estremamente unificato. La matrice che genera tutti gli italiani è or- mai la stessa…». Sino al passaggio più importante: «Non c’è più dunque differenza apprezzabile, al di fuori di una scelta politica come schema morto da riempire gesticolando, tra un qualsiasi cittadino italiano fascista -e un qualsiasi cittadino italiano antifascista. Essi sono culturalmente, psicologicamente e, quel che è più impressionante, fisicamente, interscambiabili…». E anche guardando ai giovani che in quel 1974 si chiamavano e venivano definiti "fascisti", Pasolini spiegava che si trattava di una definizione puramente nominalistica e che portava fuori strada: «È inutile e retorico – concludeva fingere di attribuire responsabilità a questi giovani e al loro fascismo, - nominale e artificiale. La cultura a cui essi appartengono è la stessa dell’enorme maggioranza dei loro coetanei». Il problema, semmai, era il nuovo Potere, non ancora rappresentato simbolicamente e dovuto alla omologazione della classe dominante, il quale stava omologando la società italiana. Si trattava – annotava preoccupato Pasolini – di un una omologazione repressiva, pur se ottenuta attraverso l’imposizione dell’edonismo e della joie de vivre». E la strategia della tensione ne era a suo avviso una spia significativa che ne svelava l’altra faccia della medaglia…Pasolini insomma, in totale controtendenza rispetto agli altri intellettuali suoi contemporanei, invitava a cogliere e contrastare il volto disumano del nuovo potere piuttosto che a rimuovere il problema rispolverando un antifascismo fuori contesto e fuori tempo massimo. «E bisogna avere il coraggio – aggiungeva – di dire che anche Berlinguer e il Pci hanno dimostrato di non aver capito bene cos’è successo nel nostro paese negli ultimi dieci anni». Perché infatti, si domandava il poeta, rilanciare trent’anni dopo la fine della guerra e del fascismo un’offensiva antifascista (che oltretutto portava fuori strada) invece di aggredire dalle fondamenta il nuovo potere senza volto, magari con le sembianze di una società democratica e di massa, «il cui fine è riorganizzazione e l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo»? E in questo passaggio Pasolini aggiungeva un’autocritica inedita e importante: «In realtà – confessava ci siamo comportati coi fascisti (parlo soprattutto di quelli giovani) razzisticamente. Non nascondiamocelo: tutti sapevano, nella nostra vera coscienza, che quando uno di quei giovani decideva di essere fascista, ciò era puramente casuale, non era che un gesto, immotivato e irrazionale… Ma nessuno ha mai parlato con loro o a loro. Li abbiamo subito accettati come rappresentanti inevitabili del Male. E magari erano degli adolescenti e delle adolescenti diciottenni, che non sapevano nulla di nulla…». Chissà quanto si sarebbe scongiurato di quanto è avvenuto dopo in termini di messa in moto dell’antifascismo militante, della conflittualità destra/sinistra e dello stesso spontaneismo armato successivo – se si fosse dato ascolto, allora, a Pasolini? Ma la storia non si fa con i "se" e quanto lui scriveva oggi vale soprattutto come controcanto a una vicenda ancora tutta da analizzare storiograficamente. Importante, inoltre, il fatto che il succo dell’articolo del 16 luglio riguardasse il "silenzio" mediatico e politico sui vincitori del referendum del 13 maggio, Marco Pan- nella e i radicali. Di fronte all’affermazione crescente di un potere a vocazione totalitaria – che si reggeva sul patto Dc-Pci-Confindustria-cultura consumista – i radicali apparivano a Pasolini come il solo fenomeno irriducibile ed eccedente. «Nessuno dei rappresentanti del potere – annotava – sia del governo che dell’opposizione, sembra neanche minimamente disposto a compromettersi con Pannella e i suoi. La volgarità del realismo politica sembra non poter trovare alcun punto di connessione col candore di Pannella, e quindi la possibilità di esorcizzare e inglobale il suo scandalo». Il Partito Radicale e il suo leader Marco Pannella erano, spiegava il poeta, i reali vincitori del referendum sul divorzio del 12 maggio e proprio questo non gli veniva perdonato da nessuno. Ma, «anziché essere ricevuti e complimentati dal primo cittadino della Repubblica, in omaggio alla volontà del popolo italiano, volontà da essi prevista, Pannella e i suoi compagni – scriveva Pasolini – vengono ricusati come intoccabili. Invece che apparire come protagonisti sullo schermo della televisione, non gli si concede nemmeno un miserabile quarto d’ora di tribuna libera». Antifascismo pretestuoso e fuori tempo massimo, da un lato, e censura della presenza radicale, dall‘altro. Una domanda è inevitabile: quanto c’è, quarant’anni dopo, di continuità con quella logica del potere?
Pasolini e quella profezia sugli antifascisti, scrive Giuseppe Papalia il 13 settembre 2017. «Nulla di peggio del fascismo degli antifascisti» scriveva Pier Paolo Pasolini sulle pagine del Corriere della Sera, nell’ormai lontano 16 luglio 1974, in Scritti Corsari.
Pasolini al «Corriere della Sera», scrive Valerio Valentini su "Quattrocentoquattro.com" il 26 febbraio 2014. Voler comprendere a pieno l’esperienza giornalistica di Pier Paolo Pasolini al «Corriere della Sera» implica necessariamente il tener conto anche di quelle che furono le reazioni agli articoli che lui scrisse in quegli anni. Gli Scritti corsari e le Lettere luterane sono la testimonianza di un dialogo che Pasolini intessé con l’intera società a lui contemporanea: ascoltare un solo protagonista di quel colloquio, costringerlo ad una monologante ripetitività, rischia di svilire lo spessore di un intellettuale che, solo se studiato tenendo conto della pluralità delle voci che con lui dibatterono, può essere adeguatamente compreso. Non solo. Rileggere gli interventi di Pasolini nel contesto generale del panorama giornalistico di quegli anni, rivela un altro importante elemento. E cioè come il modo di lavorare, da parte di Pasolini, fu enormemente condizionato dagli atteggiamenti assunti dai suoi colleghi in reazione ai suoi articoli, e come il confronto che egli volle instaurare con i suoi interlocutori gli risultò funzionale a collocare in una particolare posizione – estrema e controversa – la propria figura di intellettuale all’interno del dibattito politico contemporaneo.
PASOLINI AVEVA RAGIONE.
16 giugno 1968. La poesia dell’autore delle “ceneri di Gramsci”: Il Pci ai giovani di Pier Paolo Pasolini.
Mi dispiace. La polemica contro il Pci andava fatta nella prima metà del decennio passato. Siete in ritardo, cari.
Non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati: peggio per voi.
Adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi quelli delle televisioni) vi leccano (come ancora si dice nel linguaggio goliardico) il culo. Io no, cari.
Avete facce di figli di papà.
Vi odio come odio i vostri papà.
Buona razza non mente.
Avete lo stesso occhio cattivo.
Siete pavidi, incerti, disperati (benissimo!) ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati: prerogative piccolo-borghesi, cari.
Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti.
Perché i poliziotti sono figli di poveri.
Vengono da subtopaie, contadine o urbane che siano.
Quanto a me, conosco assai bene il loro modo di esser stati bambini e ragazzi, le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui, a causa della miseria, che non dà autorità.
La madre incallita come un facchino, o tenera per qualche malattia, come un uccellino; i tanti fratelli; la casupola tra gli orti con la salvia rossa (in terreni altrui, lottizzati); i bassi sulle cloache; o gli appartamenti nei grandi caseggiati popolari, ecc. ecc.
E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci, con quella stoffa ruvida, che puzza di rancio furerie e popolo. Peggio di tutto, naturalmente, è lo stato psicologico cui sono ridotti (per una quarantina di mille lire al mese): senza più sorriso, senza più amicizia col mondo, separati, esclusi (in un tipo d’esclusione che non ha uguali); umiliati dalla perdita della qualità di uomini per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare).
Hanno vent’anni, la vostra età, cari e care.
Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia.
Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete!
I ragazzi poliziotti che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione risorgimentale) di figli di papà, avete bastonato, appartengono all’altra classe sociale.
A Valle Giulia, ieri, si è così avuto un frammento di lotta di classe: e voi, cari (benché dalla parte della ragione) eravate i ricchi, mentre i poliziotti (che erano dalla parte del torto) erano i poveri.
Bella vittoria, dunque, la vostra! In questi casi, ai poliziotti si danno i fiori, cari.
Stampa e Corriere della Sera, News- week e Monde vi leccano il culo.
Siete i loro figli, la loro speranza, il loro futuro: se vi rimproverano non si preparano certo a una lotta di classe contro di voi! Se mai, si tratta di una lotta intestina.
Per chi, intellettuale o operaio, è fuori da questa vostra lotta, è molto divertente la idea che un giovane borghese riempia di botte un vecchio borghese, e che un vecchio borghese mandi in galera un giovane borghese.
Blandamente i tempi di Hitler ritornano: la borghesia ama punirsi con le sue proprie mani.
Chiedo perdono a quei mille o duemila giovani miei fratelli che operano a Trento o a Torino, a Pavia o a Pisa, /a Firenze e un po’ anche a Roma, ma devo dire: il movimento studentesco (?) non frequenta i vangeli la cui lettura i suoi adulatori di mezza età gli attribuiscono per sentirsi giovani e crearsi verginità ricattatrici; una sola cosa gli studenti realmente conoscono: il moralismo del padre magistrato o professionista, il teppismo conformista del fratello maggiore (naturalmente avviato per la strada del padre), l’odio per la cultura che ha la loro madre, di origini contadine anche se già lontane.
Questo, cari figli, sapete.
E lo applicate attraverso due inderogabili sentimenti: la coscienza dei vostri diritti (si sa, la democrazia prende in considerazione solo voi) e l’aspirazione al potere.
Sì, i vostri orribili slogan vertono sempre sulla presa di potere.
Leggo nelle vostre barbe ambizioni impotenti, nei vostri pallori snobismi disperati, nei vostri occhi sfuggenti dissociazioni sessuali, nella troppa salute prepotenza, nella poca salute disprezzo (solo per quei pochi di voi che vengono dalla borghesia infima, o da qualche famiglia operaia questi difetti hanno qualche nobiltà: conosci te stesso e la scuola di Barbiana!)
Riformisti!
Reificatori!
Occupate le università ma dite che la stessa idea venga a dei giovani operai.
Quando Pasolini si faceva raccomandare da fascisti e Dc, scrive di Giuseppe Pollicelli il 2 novembre 2016 su “Libero Quotidiano”. Occupandomi da anni dell’assassinio di Pier Paolo Pasolini, sono profondamente convinto che la verità giudiziaria - l’allora diciassettenne Pino Pelosi unico artefice dell’uccisione del poeta - non coincida con ciò che davvero accadde a Ostia nella notte tra l’1 e il 2 novembre del 1975. Sono però profondamente convinto anche di un’altra cosa: in troppi rendono da tempo a Pasolini un cattivo servizio adulterando una verità non meno importante, quella sulla sua persona. Costoro, per una forma perniciosa d’amore, misconoscono uno dei tratti fondanti della personalità pasoliniana: quella contraddittorietà che Pasolini stesso tante volte ebbe a rivendicare. L’ultimo esempio di «mistificazione a fin di bene» lo si è avuto sabato scorso con l’uscita all’interno di “Alias”, l’inserto culturale del “Manifesto”, di un articolo intitolato “Quando Pasolini era precario”. Ne è autore Giovanni Giovannetti, fotografo (suoi sono alcuni tardi ritratti, peraltro bellissimi, proprio di Pasolini), saggista e anche editore tramite l’agenzia Effigie. Il pezzo si occupa dei primi anni romani di Pasolini, il 1950 e il 1951, nei quali lo scrittore, vivendo una situazione di precarietà economica, cerca comprensibilmente di trovare qualcuno che lo raccomandi per fargli ottenere un impiego di tipo intellettuale. Questi tentativi del giovane Pier Paolo erano già noti, ma avendo avuto accesso ad alcune missive inedite conservate presso il Gabinetto Vieusseux di Firenze, Giovannetti menziona nel suo articolo un individuo di cui finora non era emerso il ruolo decisivo nel procurare a Pasolini un posto di insegnante presso la scuola media “Francesco Petrarca” di Ciampino. Questa persona, di cui parleremo fra poco, si chiama Casimiro Fabbri. Vale intanto la pena far notare come Giovannetti, nel suo articolo, tenda a ribaltare l’essenza dei fatti soprattutto quando ricostruisce le richieste di raccomandazione rivolte da Pasolini ad alcuni esponenti della Democrazia cristiana, e i tentativi di questi ultimi di esaudirle. Nel 1950, per esempio, Pasolini contatta Giovan Battista Carron, un deputato democristiano nativo del Veneto ma residente a Udine, il quale prova a raccomandarlo al friulano Cristiano Ridomi, all’epoca presidente della Rai. Sarà poi la volta di Tiziano Tessitori, anch’egli friulano, senatore della Dc e futuro ministro. Questi cerca dapprima di raccomandare nuovamente Pier Paolo in Rai, poi prova a sistemarlo alla Treccani, sempre informando il poeta dei suoi tentativi. I quali si riveleranno vani, ma indubbiamente ci sono stati. Il fatto che non siano andati a buon fine, però, è ciò a cui si appiglia Giovannetti per lasciar intendere che, se c’è qualcuno da deplorare, non è Pasolini bensì i suoi interlocutori democristiani, inattendibili e inconcludenti. «Se è vero che furono i democristiani a muoversi in orbita clientelare per Pasolini», scrive Giovannetti, «è altrettanto vero che nulla di concreto Pasolini ne ricavò». Come si è accennato, c’è però qualcuno da cui Pasolini ottenne un aiuto concreto, e questo qualcuno ha nome Casimiro Fabbri. Cosa ha fatto Fabbri per Pasolini? È proprio Giovannetti ad averlo meritoriamente scoperto. Scrive ancora il fotografo: «Lo stipendio fisso verrà lo stesso, grazie, si direbbe, al ferrarese Casimiro Fabbri, funzionario del ministero della Pubblica Istruzione nonché poeta, che a Pasolini sembra lanciare l’agognato salvagente». E se Pasolini, in alcune righe autobiografiche, scriverà che la sua assunzione alla scuola di Ciampino è merito del poeta e ispettore scolastico abruzzese Vittorio Clemente, ciò si spiega con il fatto (lo ricostruisce ancora Giovannetti) che Fabbri e Clemente erano molto amici. Resta da capire chi fosse Casimiro Fabbri. Sul suo conto le notizie sono scarse: uomo di lettere e poeta, era nato a Ferrara nel 1907 ed è morto a Roma nel 1964. Quel che è certo è che Fabbri era stato un intellettuale organico al regime fascista. Lo comprovano alcuni suoi interventi recuperabili nella rivista “Il Libro Italiano”, edita dal Ministero dell’Educazione Nazionale e dal Ministero della Cultura Popolare. Sul n. 10 dell’ottobre 1940 c’è persino un suo scritto dedicato alla discussa figura di Cornelio Di Marzio, esponente di spicco del fascismo e tra i firmatari delle cosiddette leggi razziali. Dal momento che una non piccola parte della classe dirigente fascista approdò indenne alla Repubblica, i trascorsi di Fabbri non devono stupire. Né, a nostro avviso, deve suscitare troppo scandalo che Pasolini si sia giovato, in un frangente di particolare necessità, dei buoni uffici di costui. Ma essendo passati, nel 1951, solo pochi anni dal crollo del fascismo, non è francamente credibile che un uomo come Pasolini non fosse al corrente della parabola professionale ed esistenziale di Casimiro Fabbri. Il quale, per di più, aderì nel dopoguerra al Movimento Sociale, sostenendo la corrente che faceva capo a Giorgio Almirante (segretario della Fiamma dal giugno del 1947 al gennaio del 1950). Eppure Pasolini non ne rifiutò il supporto. Così come, nel 1960, non si tirò indietro di fronte alla possibilità di scrivere sulla rivista “Il Reporter”, finanziata dal Msi. Tutte condotte che possono benissimo essere riferite a quella spiazzante mancanza di linearità che Pasolini per primo reputava un elemento decisivo di sé. Il problema, appunto, è che troppi «pasoliniani» sembrano voler privare Pasolini dei suoi dati di umanità, come se non di un uomo si trattasse ma di un dio. Umanità che, nel bene e nel male, era invece in Pasolini debordante. Ed è infatti riemersa anche in un articolo che, come quello di Giovannetti, ha provato a negarla.
La «rivoluzione antropologica in Italia». Il 10 giugno 1974 il «Corriere della Sera» pubblica in prima pagina Gli italiani non sono più quelli. Si tratta dell’intervento che, più d’ogni altro, affronta in maniera programmatica quello che è il vero filo conduttore di tutta la saggistica corsara e luterana: la mutazione antropologica degli italiani. Ed è anche lo scritto che, più d’ogni altro, riesce a calamitare attenzioni e polemiche, aprendo un dibattito che si trascinerà per mesi. Questo grazie ad una scelta consapevole di Pasolini, il quale propone una lettura di due eventi che hanno entusiasmato e scioccato l’opinione pubblica – la vittoria del “no” nel referendum del 12 maggio e la strage di Piazza della Loggia del 28 dello stesso mese – che si distacca radicalmente da quella fornita dal resto degli intellettuali, soprattutto da quelli di sinistra. Per quanto riguarda il referendum – il cui esito è stato salutato con toni trionfalistici dagli osservatori marxisti – Pasolini critica innanzitutto il Pci, che pur risultando formalmente vincitore nella campagna contro l’abrogazione della legge sul divorzio, ha dimostrato – coi suoi iniziali tatticismi e con i suoi tentativi di mediazione per non inimicarsi il Vaticano – “di non aver capito bene cos’è successo nel nostro paese negli ultimi vent’anni”. Pasolini, che aveva tra l’altro pronosticato in due precedenti occasioni la vittoria del fronte divorzista, è senza dubbio felice dell’esito del referendum: lui stesso lo definisce “una vittoria, indubitabilmente”, e nella Lettera luterana a Italo Calvino, scritta pochi giorni prima di morire, si ricorderà di questo successo e lo inserirà tra i meriti che rendono la borghesia di allora migliore rispetto a quella di dieci anni prima. Tuttavia, in Gli italiani non sono più quelli, Pasolini si chiede polemicamente se questa vittoria, oltre ad essere un affermazione del progressismo laico, non stia anche a dimostrare la perdita, da parte del popolo italiano, di tutti quei valori che lo mantenevano puro nella sua fedeltà ad una cultura millenaria, la quale non concepiva modelli a cui aderire che non fossero quelli ormai radicati nella coscienza comune. A soppiantare un certo bigottismo e una certa arretratezza culturale delle masse italiane – che Pasolini ha ben presenti, ma in questo momento tace – non sarebbe stato, in verità, un reale progresso delle coscienze, o quantomeno non in misura preponderante: a sconsacrare quei valori arcaici sarebbe intervenuto piuttosto un nuovo “Potere” transnazionale, dai connotati non ancora molto chiari, e rispondente alle logiche del capitale. E se questo è lo stato dei fatti, almeno per Pasolini, allora non si tratta per nulla di un trionfo: gli Italiani dimostrano di essersi affrancati da un vecchio potere clericale e antidemocratico per obbedire ad un altro potere ancor più repressivo. In un contesto simile le varie categorie sociali canoniche a cui gli Italiani sentono di appartenere perdono qualsiasi valore. E questo, a livello politico, provoca pericolose incomprensioni e anomalie profonde, che Pasolini ritiene indispensabile investigare per comprendere la nuova realtà che si sta generando: L’omologazione «culturale» […] riguarda tutti […]. Non c’è più dunque differenza apprezzabile – al di fuori di una scelta politica come schema morto da riempire gesticolando – tra un qualsiasi cittadino italiano fascista e un qualsiasi cittadino italiano antifascista. È così che Pasolini passa ad analizzare l’altro avvenimento preso in considerazione nell’incipit del suo articolo. Per lo scrittore è troppo sbrigativo derubricare quanto è accaduto a Piazza della Loggia soltanto ad atto terroristico ascrivibile ad una precisa minoranza politica di estrema destra. La responsabilità fattuale della strage ricade, è vero, su un manipolo di terroristi, ma la cultura di questi criminali è in realtà, al di là di differenze puramente nominali, il prodotto della stessa mutazione antropologica che ha portato gli Italiani a sbarazzarsi dei valori clericali e a votare “no” al referendum.
Le reazioni ad analisi così deliberatamente provocatorie sono altrettanto veementi. Il settimanale «L’Espresso» organizza subito una tavola rotonda, alla quale prendono parte Sciascia, Moravia, Fortini, Colletti e Fachinelli, per discutere dell’effettivo significato della vittoria dei “no” al referendum e delle osservazioni espresse al riguardo da Pasolini. Il resoconto della discussione, pubblicato il 23 giugno, è introdotto da un fondo redazionale dai toni mordaci, e dal titolo beffardo: È nato un bimbo: c’è un fascista in più, sotto l’occhiello Gli italiani secondo Pasolini. Nelle poche righe d’apertura viene rimproverata a Pasolini una vaga solidarietà morale con gli attentatori di Piazza della Loggia, e si arriva addirittura a supporre che Almirante e Rauti abbiano trovato, nello scrittore bolognese, “un nuovo Plebe”, facendo riferimento al responsabile culturale del Msi di quegli anni.
Alberto Moravia, nel suo intervento intitolato Lascia che ti spieghi la differenza tra noi due e…, si affianca ai molti intellettuali che ritengono sterile l’analisi di Pasolini a livello politico. Essa “ha senz’altro”, secondo Moravia, “un suo valore di verità”, ma soltanto “sul piano esistenziale cioè premorale e preideologico”. Moravia isola un passo, in particolare, di Gli italiani non sono più quelli: il passo in cui Pasolini ha inteso mostrare come l’opposizione ideologica tra fascisti e antifascisti sia ormai priva di un reale significato, chiedendosi ironicamente se Giancarlo Esposti, “nel caso che in Italia fosse stato restaurato, a suon di bombe, il fascismo, sarebbe stato disposto ad accettare l’Italia della sua falsa e retorica nostalgia”, ovvero a rinunciare a tutte le “conquiste dello «sviluppo»”, le quali vanificano, soltanto attraverso la loro presenza, “ogni misticismo e ogni moralismo del fascismo tradizionale”. Moravia ribatte che, indipendentemente dall’omologazione culturale in atto, Esposti era a tutti gli effetti un fascista. E se pure, non lasciandosi corrompere da un’ipotetica mutazione antropologica, avesse obbedito con più rigore all’ideologia cui si dichiarava fedele, non avrebbe mutato in alcun modo, “neppure un poco”, il corso della storia. Anzi, in quel caso avrebbe contribuito a mantenere lo status quo, dal momento che, come il passato dimostra, “fascismo e conservazione sono sinonimi”. Eppure Pasolini non sta affatto, come in quei giorni molti ipotizzano, e come Moravia sembra adombrare, ricercando nei fascisti degli alleati per attuare una sorta di reazione anticapitalista e anticonsumista. Per Pasolini, piuttosto – ed è lui stesso a chiarirlo, proprio a Moravia, in un’intervista concessa a «Il Mondo» l’11 luglio – è preoccupante pensare che il nuovo Potere ha del tutto stravolto la grammatica ideologica preesistente, così che ormai le scelte politiche, “innestandosi in questo nuovo humus culturale”, hanno un significato totalmente diverso rispetto a quello che avevano fino a qualche anno prima. “Sotto le scelte coscienti, c’è una scelta coatta, «ormai comune a tutti gli italiani»: la quale ultima non può che deformare le prime”. Ma smettila di dire che la storia non c’è più è il titolo del contributo alla tavola rotonda di Franco Fortini. Il quale, a più riprese e in molti suoi saggi, continuerà per tutta la sua carriera a sostenere che, nel ruolo di osservatore e teorico politico, Pasolini abbia espresso il peggio di sé e che infatti “una delle operazioni di bonifica intellettuale e politica in Italia debba cominciare con la demolizione rappresentata da Pasolini politico”. Tuttavia, nella circostanza attuale, non si mostra affatto in totale disaccordo con le osservazioni del collega; ritiene anzi del tutto plausibile che la vittoria del fronte progressista al referendum possa in realtà costituire un’ingannevole concessione di quello che Pasolini addita come il “nuovo Potere”. “La tolleranza repressiva e «progressista» è solo una delle armi del capitalismo moderno”, argomenta Fortini, ribadendo che “ad una condizione socioeconomica di sviluppo […] può corrispondere benissimo la peggiore repressione sanfedista”. La critica che però egli muove a Pasolini, anche alla luce dei loro pregressi attriti, verte sulla convinzione, espressa in Gli italiani non sono più quelli, secondo la quale nella nuova fase storica che si sta inaugurando sia necessario vedere una catastrofe. “Sulle ceneri gramsciane”, ironizza Fortini, già vent’anni fa si diceva che la nostra storia era finita. Credo invece finita la mia, non la nostra”. Laddove Pasolini constata un collasso, Fortini è convinto invece di vedere nient’altro che un nuovo modo di declinare la dialettica politica, che è in perenne e costante mutazione per adeguarsi ai nuovi rapporti di forza dettati dal capitalismo. Si tratta quindi di due approcci per certi versi analoghi alla medesima realtà: semplicemente, Fortini sembra poter con più tranquillità fare i conti col nuovo, Pasolini no. E lo spiega nella lunga intervista a «Il Mondo» dell’11 luglio. Penso che il breve intervento di Fortini potrebbe essere da me utilizzato a mio favore […]. Solo che l’accanimento di Fortini a voler stare sempre sul punto più avanzato di ciò che si chiama storia – facendo ciò molto pesare sugli altri – mi dà un istintivo senso di noia e prevaricazione. Io smetterò di «dire che la storia non c’è più» quando Fortini la smetterà di parlare col dito alzato.
L’unico partecipante alla tavola rotonda organizzata da «L’Espresso» che si dichiara sostanzialmente d’accordo con l’analisi di Pasolini è Leonardo Sciascia. Entrerei in contraddizione con me stesso se dicessi di non essere d’accordo con l’articolo di Pasolini […]. Forse la mia visione delle cose […] è meno radicale della sua, nel senso che mi pare di non dover perdere di vista il fascismo come fenomeno di classe, di una classe; ma la paura più profonda è tanto vicina alla sua. E riferendosi a organizzazioni terroristiche di segno opposto rispetto a quelle ritenute responsabili della strage di Brescia, Sciascia offre un’ulteriore dimostrazione della validità della tesi di Pasolini. L’azione delle “Brigate rosse” è stata intesa e spiegata in tanti modi, tranne che in quello più ovvio: e cioè come il modo di preparare o di cominciare a fare una rivoluzione. […]. È possibile parlare ancora di rivoluzione se il gesto rivoluzionario è temuto nell’ambito stesso delle forze che dovrebbero generarlo non solo per la risposta del gesto controrivoluzionario, che potrebbe facilmente e sproporzionatamente arrivare, ma anche perché in sé, intrinsecamente, rivoluzione? Non c’è dunque da pensare, e da riflettere? E mi pare sia, appunto, quel che fa Pasolini. Può anche sbagliare, può anche contraddirsi: ma sa pensare con quella libertà che pochi oggi riescono ad avere e ad affermare.
1. Le antologie che raccolgono la quasi totalità degli articoli che Pasolini scrisse, sul «Corriere» e su altri quotidiani, tra il gennaio del 1973 e l’ottobre del 1975.
2. Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, Milano, Garzanti 2008, pp. 39-40.
3. Si tratta di un articolo pubblicato su «Il Mondo» il 28 marzo, e di un intervento – rimasto inedito fino al suo inserimento negli Scritti corsari – richiesto a Pasolini del settimanale comunista «Nuova Generazione», che però si rifiuterà di pubblicarlo.
4. Pasolini, Scritti corsari, cit., p. 41.
5. Ibidem.
6. È nato un bimbo: c’è un fascista in più, «L’Espresso», 23 giugno 1974
7. Ibidem.
8. Giovane militante di Ordine Nero rimasto ucciso durante uno scontro a fuoco con le forze dell’ordine sull’altopiano di Rascino il 30 maggio 1975.
9. Pasolini, Scritti corsari, p. 42.
10. È nato un bimbo: c’è un fascista in più.
11. Pasolini, Scritti corsari, pp. 57-58.
12. Franco Fortini, Attraverso Pasolini, Torino, Einaudi 1993, p. 205.
13. È nato un bimbo: c’è un fascista in più.
14. Ibidem.
15. Sul concetto di “fine della storia” e sulle polemiche al riguardo trascinatesi per quasi due decenni tra Pasolini e Fortini, cfr. Fortini, Attraverso Pasolini (in particolare Introduzione, pp. XII-XIII), e Scotti, “Una polemica in versi”: Fortini, Pasolini e la crisi del ’56«Studi Storici», LXV (2004), n.4, passim
16. Pasolini, Scritti corsari, p. 58.
17. È nato un bimbo: c’è un fascista in più.
18. Ibidem.
Con la morte di Pino Pelosi, addio alla verità sul delitto Pasolini. Condannato come unico autore dell'assassinio, malato di cancro, con lui se ne va la speranza di conoscere come andarono davvero i fatti nel 1975, scrive il 21 luglio 2017 Chiara Degl'Innocenti su "Panorama". Con la morte Pino Pelosi se ne va l'unica possibilità di scoprire tutta la verità sul delitto di Pier Paolo Pasolini. Chiamato dalla malavita romana Pino la rana, Giuseppe Pelosi aveva appena 17 anni quando la notte del 2 novembre 1975, venne fermato alla guida dell'auto di Pasolini che era stato brutalmente ucciso all’Idroscalo di Ostia. In quell'auto furono trovate tracce del sangue del poeta ed altri indizi che portarono direttamente a Pelosi che, fermato, si assunse la responsabilità del omicidio. Il racconto fu conciso, ma non privo di buchi neri, lacune e aspetti oscuri. Il giovane infatti disse di aver opposto resistenza alle avances di Pasolini reagendo con violenza picchiando fino a uccidere. Ma la bestiale aggressione apparve inverosimile consumata da parte di un ragazzino mingherlino come Pino. Fermato dalla polizia il giovane, inoltre, era stato trovato privo di tracce di sangue e fango, mentre il corpo di Pasolini appariva massacrato da una furia disumana. Nonostante tutto questo Pino Pelosi venne condannato, in un primo momento per omicidio "in concorso con ignoti" e nel 1979, in via definitiva, a 9 anni e 7 mesi di carcere come "unico autore" del delitto Pasolini. Nel 2005 Pino Pelosi ritrattò la sua versione. Dal nulla spuntarono fuori che sarebbero state tre persone ad uccidere il poeta. Ma poiché una vera e propria ricostruzione definitiva dei fatti di quella notte non vi fu mai, ora con la morte di Pelosi questo vuoto resterà incolmabile.
«Se volete la verità su Pasolini, chiedete a Johnny lo zingaro», scrive Simona Musco il 22 luglio 2017 su "Il Dubbio". Intervista all’avvocato Nino Marazzita, legale della famiglia Pasolini nei processi che hanno portato alla condanna di Pino Pelosi, morto giovedì a 58 anni. «Se volete la verità sull’omicidio di Pier Paolo Pasolini dovete trovare Johnny lo zingaro e chiederla a lui». Non ci sono vie alternative: chiunque ipotizzi l’esistenza di una storia segreta, custodita chissà dove, è solo alla ricerca «di pubblicità». A dirlo è Nino Marazzita, legale della famiglia Pasolini nei processi che hanno portato alla condanna definitiva di Pino Pelosi, morto giovedì a 58 anni, dopo una lunga malattia, unico a pagare per la morte dello scrittore, ammazzato nella notte tra l’1 e il 2 novembre del 1975 all’Idroscalo di Ostia. Non che si sappia tutto su quel delitto: mancano gli altri esecutori e senza quelli, dice Marazzita, non si conosceranno neanche i mandanti. Ma l’altro possibile custode di quel segreto è scappato a giugno scorso. Giuseppe “Johnny” Mastini, condannato all’ergastolo per omicidi e rapine, «aveva un legame con Pelosi che nessuno ha mai voluto approfondire». Perché, dice l’avvocato, «la procura non voleva la verità». Marazzita parte da qui, dalla cassetta di sicurezza di cui parla Alessandro Olivieri, difensore di Pelosi. «Sono totalmente convinto dell’innocenza di Pelosi – aveva dichiarato -. Una parte delle informazioni non sono state date e sono gelosamente custodite in una cassetta di sicurezza, perché sono troppo forti. Lui non se l’è mai sentita di diffonderle per paura che qualcuno potesse toccare lui o i suoi familiari. La verità non è morta con Pelosi. Ma è talmente pesante e difficile da poter raccontare con semplicità». Parole che Marazzita etichetta come «balle»: Pelosi è morto e solo Mastini può raccontare qualcosa. Ma gli indizi che portavano a lui non sono mai stati considerati. E lo stesso Pelosi manifestava l’ansia febbrile di nascondere ogni collegamento. «Due elementi portano a Johnny. Quando Pelosi viene arrestato non si dà pace per aver perso l’anello con la croce militare regalatogli da Mastini, perché capisce che può collegarlo a lui. È vero che aveva 17 anni – spiega – ma aveva un’astuzia incredibile. Era capace di vanificare immediatamente una domanda capziosa e il collegamento ossessivo che aveva fatto con quell’anello poi ritrovato sul luogo dell’omicidio la diceva lunga. Mastini era claudicante, per una ferita ad una gamba dopo aver ucciso un poliziotto. Nella macchina di Pier Paolo fu trovato un plantare, che poteva appartenere ad una sola persona, ma la mia richiesta di fare un esperimento giudiziale per vedere se fosse suo non fu mai accolta». Non c’è però «alcun dubbio» che sia stato Pelosi ad uccidere Pasolini. L’allora 17enne fu fermato la notte stessa a Ostia, alla guida dell’auto del poeta, un’Alfa Gt 2000 grigia metallizzata. Accusato di furto, confessò di avere rubato l’auto, raccontando, durante l’interrogatorio, di essere stato abbordato da Pasolini e di averlo investito involontariamente dopo una colluttazione a colpi di bastone per aver prima accettato e poi rifiutato una prestazione sessuale. E, inizialmente, disse di aver fatto tutto da solo. Il primo processo davanti al tribunale dei minori, presieduto dal fratello di Aldo Moro, Carlo Alfredo Moro, lo vide condannato per omicidio in concorso con ignoti. «Quella sentenza fu un capolavoro giudiziario – spiega Marazzita – Dice che non fece tutto da solo e non è vero che la sentenza d’Appello negasse la presenza di complici. I giudici di secondo grado non se la sentirono di dire con certezza che ci fosse qualcun altro, ma non lo esclusero. E anche Pelosi ammise che c’erano dei complici durante l’intervista con la Leosini, seppur ampiamente pagato». Secondo il legale, la procura generale, nel condurre le indagini, «dimostrò chiaramente l’intento di non approfondire ma di voler bloccare l’inchiesta. Quando il giudice Moro, che aveva capito che non funzionava niente in quelle piccole indagini fatte in 45 giorni, disse che era certa la presenza di altri, la procura generale impugnò subito la sentenza, senza nemmeno attendere le motivazioni – ha aggiunto -. Questo è stato il segnale che non volevano indagare, perché se si fosse risalito agli esecutori materiali allora si sarebbe potuto arrivare ai mandanti, che potrebbero essere anche uomini delle istituzioni. Negli anni ho chiesto la riapertura del caso cinque volte, perché le indagini vere non sono mai state fatte». Tra i nomi poi attribuiti ai complici di Pelosi furono fatti anche quelli dei fratelli Franco e Giuseppe Borsellino, alias Braciola e Bracioletta, trafficanti di droga e militanti nell’Msi. Un poliziotto infiltrato li aveva anche sentiti vantarsi di quel delitto ma uscirono dalle indagini dopo aver dichiarato ai magistrati di essersi inventati tutto per fare i duri. «Di loro parla solo dopo la loro morte (negli anni 90, ndr) – dice il legale – Erano ormai innocui, mentre Johnny era ed è ancora pericoloso e rimane l’unico a poter entrare nelle indagini sulla morte di Pier Paolo». Marazzita non la esclude. «Potrebbe capitare l’occasione, con magistrati seri, capaci di approfondire. In quel caso, con l’autorizzazione di Graziella Chiarcossi (la nipote, ndr), la chiederei. E vorrei approfondire i rapporti tra Pelosi e Mastini, perché e quanto si vedevano, se avevano commesso reati insieme», ha aggiunto. E la cassetta di sicurezza? «Non esiste. Perché non è uscita fuori prima?». L’ultimo cenno è al suo rapporto con Pelosi. «Mi vedeva come un nemico. Aveva paura delle mie domande. Poi, con gli anni, incontrandomi spesso ha finito per considerarmi uno di famiglia». Ma non abbastanza da spiegare perché Pasolini è morto. «Quello non lo sapremo mai».
Pier Paolo Pasolini e il mistero di Petrolio nel film La macchinazione di David Grieco. Arriva in sala il 24 marzo la pellicola che racconta la stesura del libro e la morte misteriosa dello scrittore. Nel ruolo del protagonista, Massimo Ranieri. Mentre il regista fu assistente alla regia di PPP, scrive il 14 marzo 2016 "L'Espresso". «A un certo punto avrò bisogno del tuo aiuto, Alberto», parla così al telefono con Moravia il Pasolini di David Grieco, nella clip in anteprima del film La macchinazione, dal 24 marzo nelle sale: «Non so neanche io cosa sto scrivendo, vado avanti come posseduto da un demonio, ho già superato le 400 pagine e forse arriverò a 2000». «Per ora posso dirti il titolo: Petrolio», continua la conversazione tra Moravia e Pasolini, cioè Massimo Ranieri, a cui è toccato il delicato compito di raccontare gli ultimi giorni di vita dell’intellettuale, impegnato nel montaggio di Salò e le 120 giornate di Sodoma e nella stesura del romanzo uscito postumo, atto di accusa che riprende il libro Questo è Cefis, uscito nel 1972 ma subito scomparso dagli scaffali, in cui un informato autore sotto pseudonimo ricostruisce «l’altra faccia dell’onorato presidente», l'altra faccia di Eugenio Cefis, presidente dell’Eni dopo la morte di Mattei e poi della Montedison, indicato come «il vero capo della P2». Salò, Petrolio, la relazione con Pino Pelosi, giovane sottoproletario romano che ha legami con il mondo criminale della capitale. Il 2 novembre 1975, Pasolini morirà a Ostia. E Grieco, già assistente del cineasta e poeta, con il suo film si pone la domanda: «Chi ha ucciso Pier Paolo Pasolini?»
Il vero mistero su Pasolini è capire come il film di David Grieco abbia trovato posto in un cinema. Quanto volete per smettere? Per lasciare in pace Pier Paolo Pasolini? Tutto questo tempo sprecato per farlo diventare uno dei misteri d’Italia non sarebbe meglio adoperato per leggersi qualche poesia, magari sul vincitore dello Strega che nessuno ricorda l’anno dopo, peggio del vincitore al Festival di Cannes? Scrive Mariarosa Mancuso il 25 Marzo 2016 su "Il Foglio". Tanto tempo sprecato per farlo diventare un mistero d’Italia, ripetiamo volentieri, perché le cose sono andate al contrario: a furia di fare inchieste per stanare scomode verità, il caso si è ingigantito e l’intrigo si è complicato invece di sbrogliarsi. Fino al paradosso: il cugino Nico Naldini, di anni 87, uno che non ha mai voluto sentire parlare di congiure o di complotti (“incidente di percorso in una vita sregolata”, ha detto più volte) non viene invitato né agli anniversari né alle celebrazioni. Tutti hanno detto la loro, incluso Walter Veltroni. Massimo Ranieri ha la parte del poeta nel film di David Grieco “La macchinazione”, ora nelle sale: è bastato per aggiungersi alla lista dei deliranti. Dopo aver indossato un giubbotto scamosciato e girato la scena di una partita a calcio in borgata ha preso anche lui il numeretto e a gran voce ha chiesto la verità su Pasolini. Uno che si faceva tingere i capelli di nero dalla mamma, racconta il film, e non si capisce se lo scandalo sta nel nerofumo, o nella tintura casalinga con la boccetta comprata sugli scaffali del supermercato. Il complotto, o la congiura, o il grande mistero pasoliniano si estende nel film di David Grieco fino a comprendere la banda della Magliana (da “Romanzo Criminale” in poi si porta con tutto). Il mistero più grosso – su cui mancano le indagini – è sapere come mai un film come questo sia stato scritto, girato, distribuito in sala, senza che nessuno facesse la minima obiezione. Cinematografica, almeno, se non di sostanza fanta-criminale. Interessanti anche i retroscena: David Grieco avrebbe dovuto collaborare con Abel Ferrara, per il suo “Pasolini” presentato alla Mostra di Venezia nel 2014 (lo stesso anno del ripassino su Giacomo Leopardi inflitto da Mario Martone). Qualcosa andò storto, e per il gusto della scissione che caratterizza i cultori di Pier Paolo Pasolini - oltre che la sinistra italiana – ora si è fatto un film tutto suo (fa coppia con il volume – sempre firmato David Grieco – uscito da Rizzoli con il titolo “La macchinazione. Pasolini. La verità sulla morte”). La macchinazione è tanto arzigogolata che abbiamo vergogna perfino a raccontarla, tra Eugenio Cefis (“lo considero il demonio dell’Italia d’oggi”, testuale nel film), una sala da biliardo in periferia, il furto con richiesta di riscatto delle bobine di “Salò - Le 120 giornate di Sodoma”, pagine di “Petrolio” che correggono “bomba alla stazione Termini” in “bomba alla stazione di Bologna”. Però garantiamo che a vederlo è peggio.
Pier Paolo Pasolini, la storia e il mistero irrisolto della morte, scrive il 29 Ottobre 2015 Emilia Abbo. Pier Paolo Pasolini avvolto in un mistero. Andiamo a ripercorrere la storia del poeta e nello specifico il caso irrisolto della morte. Pasolini venne brutalmente ucciso all’idroscalo di Ostia la notte fra il primo ed il 2 novembre 1975, e pertanto in questi giorni si celebra il quarantesimo anniversario da quel tragico evento. La mattina del 31 ottobre, ad esempio, il ministro della cultura Dario Franceschini sarà a Pietralata, un quartiere che era molto caro allo scrittore. Significative personalità, anche vicine affettivamente allo scrittore (come ad esempio il suo biografo e cugino Nico Naldini, il suo vecchio amico Giancarlo Vigorelli, nonché l’italianista Guido Santato, che ne fu il più attento studioso) partono dalla convinzione che Pasolini divenne, in un certo senso, regista della sua stessa morte, a causa della vita sregolata e rischiosa che conduceva, e che includeva la frequentazione dei cosiddetti ‘ragazzi di vita’ delle periferie romane.
Il movente biografico: i “ragazzi di vita”. Attraverso la pubblicazione di un diario giovanile, uscito col titolo Il romanzo di Narciso (1946-7), Pasolini rivela ai lettori la propria omosessualità. Quando scriveva queste pagine lo scrittore bolognese viveva in Friuli, nei pressi di Casarsa (la località di cui sua madre era originaria) dove si era rifugiato all’indomani dell’otto settembre 1943, quando aveva rifiutato di consegnare le armi ai tedeschi. Il 1945 era stato un anno molto difficile per Pasolini, per via della perdita del fratello Guido (che era entrato nelle file del partigianato). Dopo la laurea, conseguita quello stesso anno con una tesi sul Pascoli, Pasolini trova un posto come insegnante nella scuola media di Valvassone, ma il 15 ottobre del 1949 verrà denunciato per corruzione di minorenni, perdendo la cattedra. Anche i dirigenti regionali del PCI, per i quali Pasolini collaborava dal 1947 sulle pagine del settimanale Lotta e lavoro, lo espelleranno dal partito. Per sfuggire allo scandalo, Pasolini si rifugia con la madre a Roma, dove giunge nel gennaio 1950. Il distacco dal mondo contadino friulano, che verrà da lui sempre mitizzato (non a caso, Pasolini compose poesie in dialetto casarsese), si accompagnerà ad una nuova presa di consapevolezza. Alla sua amica Silvana Mauri Ottieri confiderà infatti di sentire ormai sulla pelle il segno di Rimbaud o di Campana o di Wilde, e quindi di essere destinato ad un senso di emarginazione e condanna da parte della società. Giunto nella capitale, la madre prende servizio presso una famiglia come domestica, e Pasolini si adatta a fare il correttore di bozze ed a vendere i suoi libri nelle bancarelle rionali. Grazie al poeta Vittorio Clemente, nel dicembre 1951 trova un altro impiego come insegnante a Ciampino. Tuttavia, lo scrittore non riesce a fare a meno di frequentare l’ambiente periferico ed adolescenziale delle borgate, che divenne fonte di ispirazione per il suo romanzo Ragazzi di Vita (1955). Per questo libro Pasolini (accanto alla casa editrice Garzanti) venne processato, e solo grazie all’intervento di eminenti letterati come Giuseppe Ungaretti e Carlo Bo (che evidenziarono un senso di umana pietà misto a crudo realismo) lo scrittore venne assolto. Analoga sorte ebbe il romanzo Una vita violenta (1955) che intendeva essere una continuazione del suo progetto ‘sottoproletario’, portato avanti anche nei film Accattone (presentato al festival di Venezia del 1961) e Mamma Roma (interpretato nel 1962 da Anna Magnani). Anche in questi capolavori cinematografici i ragazzi delle borgate romane non hanno alcuna speranza di affrancamento o redenzione, e la morte diviene l’unica via d’uscita ad un destino di corruttiva miseria e disperazione. La frequentazione di piccoli malavitosi causerà a Pasolini altri problemi giudiziari. Nel giugno 1960, ad esempio, Lo scrittore verrà accusato di aver favoreggiato due ragazzi coinvolti in una rissa, e nel novembre dell’anno seguente vedrà il suo appartamento perquisito, poiché sospettato di una rapina a mano armata in un bar di San Felice Circeo. Il responsabile dell’omicidio Pasolini fu subito ritenuto il diciassettenne reo confesso Giuseppe Pelosi (soprannominato ‘Pino la rana’), già noto alle forze dell’ordine per vari furtarelli, e che venne dichiarato colpevole di omicidio doloso nella sentenza di primo grado. Alla sua versione dei fatti venne aggiunto il ‘concorso con ignoti’, poi inspiegabilmente smentito dalla corte d’appello il 4 dicembre 1976. Tuttavia, questa sentenza non é mai stata ritenuta davvero definitiva, anche perché nel corso del tempo si sono innalzate molte voci (fra cui quella della scrittrice Oriana Fallaci e del regista Marco Tullio Giordana) a sostegno dell’omicidio di gruppo, che lasciava spazio ad altri moventi oltre a quello di un diverbio fra un ‘ragazzo di vita’ ed il suo esigente cliente. Il fatto che il poeta, quella notte, fosse stato vittima anche (o soltanto) di terzi venne validato da vari indizi, come ad esempio l’esile corporatura di Pelosi, che al momento dell’arresto (avvenuto subito dopo il delitto) non aveva significative ferite o segni di colluttazione sugli abiti. La leggerezza e friabilità dell’arma del delitto (che fu identificata con una tavola di legno che serviva ad indicare il numero civico di un’abitazione) sarebbe stata incompatibile con le ferite che vennero selvaggiamente inferte, e che si addicevano ad un oggetto assai più pesante e contundente. Nel caso Pasolini, del resto, vi sono state, e fin dall’inizio, delle gravi negligenze, ed un articolo sull’Europeo del 21 novembre 1975 illustra chiaramente come la scena criminis venne inquinata. La polizia, accorsa sul posto verso le sette di mattina, non disperse la folla di curiosi, e non vennero nemmeno indicati i punti esatti dei vari ritrovamenti. La macchina di Pasolini rimase esposta ad una pioggia insistente, e dopo aver svolto le prime indagini venne rottamata. Sul luogo del delitto non giunse nemmeno un medico legale, e sull’adiacente campetto di calcio, che poteva offrire segni di plantari e pneumatici, venne giocata una partita. Alcuni oggetti (come ad esempio la camicia e gli occhiali che quella sera Pasolini indossava) vennero esposti al museo di criminologia di Valle Giulia, ed anche se in seguito sono stati analizzati con tecniche più moderne e sofisticate (lo stesso comandante del Ris di Parma, Nicola Garofalo, ha coordinato le perizie) i risultati rimangono comunque secretati, e non pienamente attendibili a causa delle negligenze che si verificarono nelle quarantotto ore che seguirono il delitto. Anche le più fresche testimonianze non ebbero il credito che meritavano. Assai emblematica rimane quella di un pescatore (immortalata in un prezioso film-documentario di Mario Martone) che sostenne di avere visto, quella tragica notte, una seconda auto accanto all’Alfa Romeo di Pasolini, ed udito voci di diverse persone, oltre al grido disperato dello scrittore che invocava sua madre. Presente agli atti è la versione della cugina del regista, Graziella Chiarcossi, secondo la quale il maglione che venne ritrovato sul sedile posteriore dell’auto non apparteneva a Pasolini. Ma non solo. Il proprietario della trattoria ‘Biondo Tevere’ ritenne che, quella sera, il poeta era in compagnia di un giovane che non aveva le stesse caratteristiche fisiche del diciassettenne di Guidonia. Inoltre, un ex-appuntato dei carabinieri, che indagava in borghese, mise in evidenza il coinvolgimento di due ragazzini siciliani (soprannominati ‘fratelli braciola’), che frequentavano lo stesso circolo ricreativo di Pelosi, e che morirono di malattia negli anni Novanta. Come se non bastasse, nel maggio 2008 lo stesso Pelosi decise di ritrattare, e sostenne, durante una trasmissione televisiva, che la sua unica responsabilità fu quella di avere investito accidentalmente il corpo già inerte di Pasolini, laddove il delitto vero e proprio venne materialmente eseguito da tre individui adulti. Aggiunse di aver taciuto fino a quel momento per non esporre i suoi ormai defunti genitori a ritorsioni. Nonostante questo, la vicenda non prese una vera e propria svolta, tanto che l’avvocato Nino Marazzita parla ancora oggi di ‘inerzia colpevole’ da parte degli inquirenti (Tusciaweb.it, 26 aprile 2014) e l’avvocato Guido Calvi (anch’egli incaricato dalla famiglia Pasolini all’epoca del delitto) ritiene che si sia voluta spegnere la voce del poeta con l’arma della diffidenza e con ‘risposte sconcertanti’ (Corriere.it, 4 maggio 2010).
Il movente cinematografico: le bobine di Salò. Fra le varie teorie sulla morte di Pasolini merita attenzione anche quella che si profilò grazie alla testimonianza del regista Sergio Citti, il quale asserì che, poche settimane prima dell’omicidio, Pasolini subì la sparizione di due bobine cinematografiche (quelle che in gergo sono chiamate ‘pizze’), ovvero di due copie del suo ultimo film, intitolato Salò. Citti sostenne che quella fatidica sera del primo novembre Pasolini doveva vedere dei loschi individui, ovvero i probabili autori del furto, e seppur questo incontro richiedesse un notevole coraggio, Pasolini era disposto ad affrontarlo lo stesso poiché ci teneva a recuperare l’insostituibile lavoro di montaggio, che era stato effettuato con la tecnica del ‘doppio’, ovvero girando le stesse scene anche da un’inquadratura diversa. Le bobine di questo film, furono probabilmente sottratte per il loro contenuto scabroso. Pasolini stesso sapeva che questa pellicola avrebbe suscitato reazioni anche per il suo significato sottilmente ideologico, poiché si creava una correlazione fra le tematiche dei romanzi di Sade e la dominazione di massa capitalistica (identificata al kantiano ‘male radicale’). Mentre girava questo suo ultimo film, forse Pasolini avvertiva l’avvicinarsi della sua morte. Non a caso, volle accanto a sé figure amiche, come l’attrice Laura Betti (nel ruolo di doppiatrice) e poi anche l’affezionato Ninetto Davoli e lo stesso Sergio Citti, per il quale fu questo film a rendere reali quelle paure che il regista aveva già allontanato con stoico distacco: La morte compie un fulmineo montaggio nella nostra vita: ossia sceglie i suoi momenti veramente significativi <…> e li mette in successione, facendo del nostro presente, infinito, instabile ed incerto, un passato chiaro, stabile, certo e dunque linguisticamente ben descrivibile (Pier Paolo Pasolini, Empirismo Eretico).
Il movente letterario: “Lampi su Eni”. Un’interessante teoria è quella legata alla cosiddetta ‘questione Eni‘, poiché direttamente riconducibile al lavoro letterario che l’autore, al momento della sua morte, stava svolgendo con la casa editrice Einaudi. Nel romanzo-inchiesta (rimasto incompiuto) Petrolio, che venne pubblicato postumo nel 1992 (e del quale restano 522 pagine) si delinea una lotta di potere che avviene nel settore petrol-chimico. La finzione del romanzo è riconducibile ad un reale fatto di cronaca, ovvero alla morte del presidente dell’Eni Enrico Mattei, che avvenne nel 1967, quando l’aereo su cui si trovava a bordo perse quota sulla campagna pavese. Pasolini giunse, con trent’anni di anticipo, alle stesse conclusioni del magistrato Vincenzo Calia, che chiese l’archiviazione del caso nel 2003. Per Pasolini la morte di Mattei non fu causata da un fatale incidente, ma semmai da un sabotaggio, da ricondursi agli intrighi dell’ambizioso personaggio che nel suo romanzo rappresenta Eugenio Cefis, il quale divenne presidente della Montedison nel 1971, dopo aver co-fondato l’Eni assieme allo stesso Mattei. Anche la scomparsa del giornalista Mauro de Mauro, che stava preparando un dossier per il regista Francesco Rosi (il quale decise di girare un film sul caso Mattei) potrebbe essere legata a qualche scottante notizia non dissimile dalla teoria portata avanti in Petrolio. Pasolini ebbe come sua fonte il libro Questo é Cefis, l’altra faccia dell’onorato Presidente, pubblicato nel 1972 sotto lo pseudonimo Giorgio Steimez, e che venne subito ritirato dalla circolazione, ma del quale Pasolini aveva una versione in fotocopia grazie al suo amico Elvio Facchinelli. Per Pasolini Mattei non era un un anacronistico utopista-statalista, ma piuttosto un lungimirante imprenditore, pieno di entusiasmo e di positive risorse, che aveva già evitato la vendita dell’Agip negli anni Quaranta. Mattei proponeva ai paesi arabi ed africani (principali produttori di greggio) condizioni più vantaggiose rispetto a quelle proposte dai trust anglo-americani del petrolio, mettendosi quindi in aperta competizione con le cosiddette ‘sette sorelle’, ovvero con le potenti multinazionali nella cui orbita atlantica Cefis voleva invece ricondurre l’economia della nostra nazione. Tuttavia, fu un capitolo in particolare, intitolato ‘Lampi su Eni’, che venne indicato come probabile movente della morte dello scrittore. Il 2 marzo 2010 il senatore Marcello Dell’Utri (all’epoca ancora in attesa di sentenza definitiva) sostenne, durante una conferenza stampa, di aver visto coi suoi occhi le pagine in questione, che si riteneva non fossero mai state scritte, e nelle quali sarebbero state fornite informazioni più specifiche sull’omicidio Mattei. Aggiunse che questo capitolo, altrimenti detto ‘appunto 21’, sarebbe stato sottratto dallo studio di Pasolini, ed avrebbe fatto la sua comparsa, nei giorni a venire, alla XXI fiera milanese del libro antico. Anche se questo in realtà non avvenne, su iniziativa dell’onorevole Walter Veltroni (il quale scrisse una lettera aperta all’allora ministro della giustizia Angelino Alfano) un nuovo fascicolo venne aperto sul caso Pasolini. Tuttavia, nulla di nuovo emerse a riguardo, anche se i legami di Cefis con la loggia massonica della P2 (che era implicata in quella ‘strategia della tensione’ della quale Pasolini parlava senza remore) davano adito ad altri nuovi ed inquietanti scenari.
Il movente giornalistico: il coraggio “corsaro”. Comprendere il delitto Pasolini é quindi impossibile se si prescinde dall’ideologia dello scrittore, che viene apertamente espressa nei suoi Scritti corsari (1972) dove, senza troppa arte diplomatica, vengono compiute dissacratorie incursioni nel mondo politico-istituzionale, ed anche nella società nel suo complesso. In questi scritti (che raccolgono soprattutto gli articoli giornalistici che Pasolini scrisse per il Corriere della Sera ed Il Tempo) la marxista critica al capitalismo (ed il conseguente rimpianto per la civiltà pre-industriale) vengono espressi in modo unico ed originale, sia per lo stile (assolutamente chiaro, lineare, coerente, inequivocabile) e sia per i costanti riferimenti alla propria esperienza. Pasolini traspone in schietti pensieri teorici (ed anche in polemici commenti) le sue personali e soggettive impressioni, i dettagli e le situazioni che vede e vive intorno a sé. Questi scritti sono quindi corsari sia per la coraggiosa genuinità dell’autore e sia perché evocano, seppur indirettamente, un mondo romanzesco ed avventuroso, creato per appassionare le giovani generazioni. Pasolini evidenzia come, negli anni Settanta, i giovani abbiano invece perso ogni vitale entusiasmo, ogni segno particolare, e si siano borghesemente omologati. Nella sua tendenza a contrapporre i tempi, Pasolini rievoca i capelloni degli anni Sessanta, che nulla avevano a che fare con quelli del decennio seguente, che hanno ormai perso la potenzialità semantica dei loro gesti ed atteggiamenti, ed anche ogni espressività e coloritura gergale. Secondo l’autore, si é dunque verificata una ‘mutazione antropologica’, poiché i giovani, nella loro ‘ansiosa volontà di uniformarsi’, non solo sono diventati simili nella loro ‘sottocultura’ esteriore, ma anche nel modo di parlare e di pensare (dal centro alla periferia, dal nord al sud, dallo studente all’operaio), cosicché anche le ideologie si confondono, ‘secondo un codice interclassista’. Pasolini ritiene che il maggior errore delle nuove generazioni sia stato quello di non aver mantenuto un dialogo coi loro padri, e quindi di non aver potuto (dialetticamente e non solo) superare i loro limiti, le loro colpe. Lo spirito di ribellione ha spinto i giovani a mettersi nelle mani di un ‘nuovo fascismo’ (definito consumistico-edonistico) assai peggiore del precedente, poiché deforma sottilmente le coscienze e mercifica i corpi. Per Pasolini, il fascismo mussoliniano dei padri era un fenomeno soprattutto ‘pagliaccesco’, poiché una volta tolte le uniformi e le divise tutti tornavano identici a prima, coi loro stessi valori e le loro stesse idee. Questo tipo di fascismo diventa per lui anche archeologico, poiché gli obsoleti comizi in piazza nulla avevano a che fare coi messaggi pubblicitari del nuovo bombardamento ideologico televisivo, che si instilla nell’anima in modo subdolo, imponendosi nel profondo: E’ in Carosello onnipotente che esplode in tutto il suo nitore, la sua assolutezza, la sua perentorietà il nuovo tipo di vita che gli italiani ‘devono’ vivere (Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, ed. Garzanti, 2015, p. 59). Pasolini riteneva che la manipolazione pubblicitaria rappresentasse la fine del linguaggio umanistico, e quindi che un nuovo modo di esprimersi (tecnico, pragmatico, standard) stesse prendendo piede. Lo slogan Jeans Jesus. Non avrai altri jeans all’infuori di me esemplifica il modo in cui la nuova civiltà ‘consumistica-edonistica’ ha strumentalizzato quella dimensione spirituale che prima apparteneva alla Chiesa. Seppur per Pasolini quest’ultima non sia incolpevole nella sua opulenza e nella sua lunga storia di potere, non merita comunque di venire spodestata da una tirannia che non ha alcun rispetto per quel messaggio che egli stesso volle rappresentare, in tutta la sua sublime semplicità, nel film Il Vangelo secondo Matteo (1964). Per Pasolini i giovani stanno dunque vivendo il più repressivo totalitarismo che si sia mai visto, poiché l’apparente libertà democratica che si respira non è stata ottenuta attraverso una rivoluzione popolare (come è avvenuto, ad esempio, nella Russia del 1917) ma è stata imposta dall’alto coi suoi modelli da seguire: Mai la diversità è stata una colpa così spaventosa come in questo periodo di tolleranza. L’uguaglianza non è stata infatti conquistata, ma è una falsa uguaglianza ricevuta in regalo (idem, p.60). Se il mondo contadino pre-industriale si basava su necessità primarie (come il pane che era già una benedizione ad averlo) la nuova società dei consumi, nel suo bisogno di perseguire il superfluo, non solo ha immiserito il paesaggio circostante (nel quale sono ormai scomparse le lucciole) ma anche la capacità di recepire, di sentire. Se quest’ultima fosse rimasta intatta, anche ‘una Seicento o un frigorifero, oppure un week-end ad Ostia’ potrebbero essere interpretati con poesia e passione, nello stesso modo in cui Leopardi interiorizzava ‘la natura e l’umanità nella loro purezza ideale’. Pasolini amava profondamente quel senso di ingenua spensieratezza che caratterizzava i non acculturati, e che ora vede soltanto umiliati. Simbolo di questa antica felicità dei ragazzi del popolo diviene il garzoncello del fornaio: Una volta il fornarino, o cascherino-come lo chiamiamo qui a Roma-era sempre, eternamente allegro: un’allegria vera, che gli sprizzava dagli occhi. Se ne andava in giro per le strade fischiettando e lanciando motti. La sua vitalità era irresistibile. Era vestito molto più poveramente di adesso: i calzoni erano rattoppati, addirittura spesse volte la camicia uno straccio. Però tutto ciò faceva parte di un modello che nella sua borgata aveva un valore, un senso. Ed egli ne era fiero. Al mondo della ricchezza egli aveva da opporre un proprio mondo altrettanto valido. Giungeva nella casa del ricco con un riso naturaliter anarchico, che screditava tutto: benché egli fosse magari rispettoso. Ma era appunto il rispetto di una persona profondamente estranea. E insomma, ciò che conta questa persona, questo ragazzo, era allegro. (idem, p.61). Secondo Pasolini, anche lo stragismo di quegli anni (fra cui l’attentato di Piazza Fontana a Milano del 12 dicembre 1969) è espressione della nevrosi che deriva dal conformismo. Per Pasolini i veri responsabili degli atti terroristici non erano dei giovani sbandati e senza validi punti di riferimento, ma semmai il sistema governativo nel suo complesso, poiché il fatto stesso di far parte del tessuto politico implica il corrompersi, il divenire conniventi. Pasolini, nel famoso articolo del 1974 Che cos’è questo golpe? afferma di conoscere i nomi dei veri responsabili delle stragi, ma di non poterli rivelare poiché (in quanto personalità estranea ai giochi di potere) non ha ‘né prove né indizi’, ma solo la certezza del suo intuito di uomo intellettuale, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentati di un intero quadro politico (idem, p.89). Pasolini riconduceva il termine stragismo anche alla pratica dell’aborto, che ritiene una tragedia demografica ecologica, ovvero uno minaccia alla sopravvivenza dell’umanità. Pasolini evidenzia che nell’ambito del ‘nuovo fascismo’ un figlio che nasce non è più considerato un dono di Dio, ma soltanto un fastidio, poiché prevale il timore dell’essere in troppi nella spartizione dei beni di consumo. Piuttosto che rinunciare ai propri capricci, si preferisce eliminare chi è più debole ed indifeso. Per Pasolini l’aborto è una colpa morale, un qualcosa che riguarda non la politica ma la coscienza individuale. La logica dell’eugenetica non ha nulla a che fare con la democraticità dello stato prenatale, con la sua piena ed incondizionata aderenza alla vita: Non c’è nessuna buona ragione pratica che giustifichi la soppressione di un essere umano, sia pure nei primi stadi della sua evoluzione. Io so che in nessun altro fenomeno dell’esistenza c’è un altrettanto furibonda, totale essenziale volontà di vita che nel feto. La sua ansia di attuare la propria potenzialità, ripercorrendo fulmineamente la storia del genere umano, ha un qualcosa di irresistibile e perciò di assoluto e gioioso. (idem, p.111). Sono parecchi gli articoli in cui Pasolini permalosamente se la prende coi suoi critici o detrattori, e che sono, a loro volta, intellettuali (spesso di sinistra come lui) e anche di tutto rispetto, come ad esempio Umberto Eco, Giorgio Bocca, Italo Calvino, Giuseppe Prezzolini, Franco Rodano, Maurizio Ferrara. Secondo Pasolini, anche il mondo intellettuale era chiuso nel suo ristretto snobismo: Io so bene, caro Calvino, come si svolge la vita di un intellettuale. Lo so perché in parte è anche la mia vita. Letture, solitudini al laboratorio, cerchie in genere di pochi amici e molti conoscenti, tutti intellettuali e borghesi. Una vita di lavoro e sostanzialmente per bene. Ma io, come il dottor Hyde, ho un’altra vita. Nel vivere questa vita, devo rompere le barriere naturali (e innocenti) di classe. Sfondare le pareti dell’Italietta, e sospingermi quindi in un altro mondo: il mondo contadino, il mondo sottoproletario e il mondo operaio (idem, p.52). Per Pasolini l’unico suo vero impegno diviene quello preso col lettore, che ritiene all’altezza di accettarlo nel bene e nel male, di accompagnarlo nelle sue più smodate ed indomite incursioni: Io non ho alle mie spalle nessuna autorevolezza: se non quella che mi proviene paradossalmente dal non averla e dal non averla mai voluta; dall’essermi messo in condizione di non aver niente da perdere, e quindi di non essere fedele a nessun patto che non sia quello di un lettore che io considero del resto degno di ogni più scandalosa ricerca (idem, p.83).
Alberto Moravia, durante la celebre orazione funebre in onore di Pasolini, mise in evidenza che era stato innanzi tutto perso un poeta, ovvero un qualcuno che nasce di rado nel corso dei secoli.
"<…> Piange ciò che ha
fine e ricomincia. Ciò che era
area erbosa, aperto spiazzo, e si fa
cortile, bianco come cera,
chiuso in un decoro ch’é rancore;
ciò che era quasi una vecchia fiera
di freschi intonachi sghembi al sole,
e si fa nuovo isolato, brulicante
in un ordine ch’é spento dolore.
Piange ciò che muta, anche
per farsi migliore. La luce
del futuro non cessa un solo istante
di ferirci: é qui, che brucia
in ogni nostro atto quotidiano,
angoscia anche nella fiducia
che ci dà vita, nell’impeto gobettiano
verso questi operai, che muti innalzano,
nel rione dell’altro fronte umano,
il loro rosso straccio di speranza."
(Pier Paolo Pasolini Il pianto della scavatrice, 1956)
Ninetto Davoli: "Il mio Totò segreto". I ricordi dell'attore che recitò negli ultimi film del Principe girati da Pasolini: "Pier Paolo mi disse che avrebbe potuto superare Chaplin", scrive Ilaria Urbani il 14 aprile 2017 su “La Repubblica”. "Totò senta...". "Dite Pasolini...". "Antonio si sciolga, faccia una "totolata"". Gli sembra ancora di averli davanti agli occhi sul set di "Uccellacci e uccellini". Ninetto Davoli, dopo mezzo secolo, ha ancora vivido il ricordo del confronto tra la più grande maschera del '900 e il regista corsaro. E nel racconto dell'ex ragazzo di borgata della baraccopoli Borghetto Prenestino, scoperto da Ppp, sembra di rivedere anche padre e figlio Innocenti in quell'infinito cammino in bianco e nero sul set di una pellicola considerata dallo stesso Pasolini "disarmata, fragile". E di ritrovare pure frate Ciccillo e frate Ninetto. Davoli, dalle borgate al set del capolavoro poetico e picaresco, svolta colta nella carriera del Principe. Un incontro epifanico con quell'attore che Ninetto fino ad allora vedeva al cinema con gli amici. Un sodalizio che proseguì ne "La terra vista dalla luna" da "Le streghe" e in "Che cosa sono le nuvole?", dal film ""Capriccio all'italiana", l'ultimo girato da Totò prima di morire il 15 aprile 1967.
Davoli, cosa ha significato per lei Totò?
"Avevo 16 anni, Totò è stato fondamentale per iniziare quest'avventura, mi ha incoraggiato davanti alla cinepresa, ha alleggerito questa esperienza. Successe tutto all'improvviso, era così surreale trovarmi a recitare con il grande Totò, uno che andavo a vedere al cinema come Stanlio e Ollio. Ma questa volta non dovevo pagare per vederlo, era lì con me, ed ero pagato per recitare con lui. Mi davano 100mila lire, a uno povero come me. Facevo il falegname, a casa eravamo in sei in una sola stanza, vivevamo con 5mila lire alla settimana".
Totò come si rapportava sul set con questo giovane esordiente?
"Come me veniva dalla povertà, lui dai quartieri scalcinati di Napoli, io dalle borgate romane, ideologicamente la pensavamo uguale. Il nostro fu uno scambio di semplicità, una vera complicità. Secondo Pier Paolo ci somigliavamo. Considerava Totò uno di strada come me, un non -intellettuale, anche se lo rispettava molto, gli dava del lei: "Totò senta", "Antonio ascolti"... ".
E Totò nei confronti di Pasolini?
"Anche Totò gli dava del voi: era intimorito da Pier Paolo, non improvvisava come faceva in genere, ma rispettava la sceneggiatura. Pier Paolo gli diceva: Antonio si sciolga, faccia una "totolata". C'era grande stima".
Pasolini racconta di aver scelto Totò per quella perfetta armonia tra l'assurdità clownesca tipica delle favole e l'immensamente umano...
"A Pier Paolo piacevano i film di Totò e diceva che avrebbe potuto superare Charlie Chaplin se l'avessero saputo "usare meglio", nel senso se avesse fatto più film d'autore".
Nel '66 Pasolini scrisse un film sull'utopia, "Le avventure del Re magio randagio", che lei doveva interpretare con Totò, ma poi non si fece in tempo e che poi ha ispirato un film di Sergio Citti...
"Sì, ma quella di Pier Paolo era una storia diversa, non c'entra con quella di Citti. Totò doveva essere il Re magio e io il suo aiutante. Con un dono partivamo da Napoli alla ricerca di Cristo che stava per nascere. Attraversavamo Roma, Milano, Parigi, New York e poi arrivavamo a Betlemme, ma trovavamo Cristo già morto. Dopo la scomparsa di Totò, Pasolini voleva Eduardo (il titolo diventò "Porno-Teo-Kolossal", ndr), ma poi è successo quello che è successo...".
Oggi chi è in grado di raccogliere l'eredità di Totò e Pasolini?
"Non esiste nessuno con quella potenza e quel coraggio. Totò e Pier Paolo vengono celebrati soprattutto da morti, ricordiamo che Totò veniva massacrato dai critici. Sono accomunati da un destino simile. Trovo giusto celebrare Totò a 50 anni dalla morte, ma mi chiedo perché non prima? Totò andrebbe studiato di più nelle scuole, così come Pier Paolo ed Eduardo".
IL MISTERO DI GIANNI VERSACE.
5 cose che (forse) non sai sull'omicidio Versace. La serie tv di Fox ha riportato a galla i misteri legati alla morte del grande stilista. Ma la famiglia..., scrive Eugenio Spagnuolo il 27 febbraio 2018 su "Panorama". Il 15 luglio 1997 veniva brutalmente ucciso a Miami Gianni Versace, mito assoluto della moda e ambasciatore dello stile italiano nel mondo: a sparargli il serial killer Andrew Cunanan, che sarebbe morto dopo qualche giorno. Come tutti i crimini impregnati di celebrità anche l’omicidio Versace si sarebbe presto ammantato di mistero, col suo grosso carico di depistaggi, colpi di scena e speculazioni più o meno riuscite. L’ultima in ordine di tempo è la serie tv prodotta da Ryan Murphy, in onda in questi giorni su Fox, che prevedibilmente non è piaciuta alla famiglia Versace e ha riaperto quello che ha tutte le caratteristiche del “caso”. Ma polemiche a parte, a vent’anni di distanza da quei tragici fatti perché se ne continua a parlare?
Il libro. Nel 1999, a due anni dal delitto, la giornalista Maureen Orth diede alle stampe il libro Vulgar Favors (pubblicato in Italia con il titolo Il caso Versace, da Tre60), dove ricostruiva il mistero dell’omicidio Versace, l’incontro dello stilista con il suo killer e quelli che secondo lei erano gli errori macroscopici della polizia di Miami. Il libro non passò inosservato, perché la Orth era (ed è ancora) firma di punta di giornali come il New York Times e Vanity Fair Usa, e si era fatta le ossa su inchieste importanti come quella sul divorzio tra Woody Allen e Mia Farrow e il traffico di droga in Afghanistan. Non era una turista del giornalismo, insomma. La serie tv prende spunto dal suo libro ed è bastato questo a ottenere una sconfessione della famiglia Versace, che ha diramato una nota ufficiale: “Ci rattrista vedere che tra i tutti i possibili ritratti della vita e della storia di Gianni, i produttori abbiano scelto di rappresentare la versione distorta creata da Maureen Orth”. La terza parte del libro è infatti interamente dedicata al privato dello stilista e alla sua famiglia, con un bel po’ aneddoti più o meno scioccanti (smentiti categoricamente dai Versace, ndr).
I sospetti. In realtà la Orth non è stata neppure la sola a mettere in discussione il modus operandi della polizia americana dopo l’omicidio. Basta rileggersi le cronache del tempo, per capirlo. A mettere in moto la fabbrica dei sospetti ha contribuito anche il fatto che l’assassino Cunanan di mestiere facesse l’escort, con clienti facoltosi e con molti contatti nei giri giusti: il mondo in cui si muoveva Versace non era poi così lontano dal suo.
La versione di D’Amico. Pur non approvando il contenuto dell’inchiesta di Maureen Orth e della serie tv, Antonio D’Amico, all’epoca compagno di Gianni Versace, ha più volte ribadito di non credere alla versione ufficiale della morte dello stilista. Così in un’intervista concessa al Giornale nel 2009: «…(il caso) è stato chiuso troppo velocemente. Non credo a niente di quello che hanno detto i giornali, a partire dalla teoria della mafia. Sono convinto che ci sia dietro altro. Qualcosa che però io non posso dimostrare, e di cui non voglio parlare. Io continuo ad avere questo dubbio: finché avrò vita, aspetterò che la verità venga a galla».
Il mistero Cunanan. Cunanan venne ritrovato morto suicida 10 giorni dopo il delitto in una casa galleggiante, ad appena due isolati dalla casa di Versace. Tutta la dinamica del ritrovamento fu messa in discussione. Perché uno scaltro serial killer, che era riuscito a far perdere diverse volte le sue tracce all’FBI sceglieva di rintanarsi per alcuni giorni in un luogo senza via di fuga, dove non sarebbero stati trovati neppure avanzi di cibo né tracce sul pavimento del colpo di pistola deflagrato da una potente calibro 40? È solo una delle mille domande che si rincorrono tra il libro della Orth e un documentario…
Il documentario di Chico Forti. Proprio così: a complicare ancora di più la vicenda, c’è la storia dell’imprenditore italiano Chico Forti, in carcere negli Usa dal 1998, per un omicidio che dice di non aver commesso. Della vicenda si sono interessati molti giornali italiani e la tesi innocentista è stata sposata anche dalla criminologa Roberta Bruzzone. Che c’entra tutto questo col caso Versace? Poco prima dell’arresto, Forti aveva prodotto e girato un documentario che metteva in luce diverse incongruenze della versione ufficiale della polizia di Miami. Lo ha raccontato lui stesso in un’intervista al quotidiano Libero, nel 2015, «Quando, finito di girare il filmato, ho visto che le reazioni erano forse un po’ più forti di quello che immaginavo, ho subito pensato che avrei rischiato qualcosa. Quello che mi è successo non è stata una sorpresa: non è che da un momento all’altro hanno scelto me tra mille, così a caso. Il mio rompere le scatole, il mio andare a cercare la verità in un momento in cui tutti volevano metterla sotto il tappeto è stato determinante. È stata una vendetta».