Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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L’ITALIA

 

DEI MISTERI

 

SECONDA PARTE

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 

 

INDICE PRIMA PARTE

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

INTRODUZIONE.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

IL MISTERO DELLE SCORRIBANDE TURCHE.

IL MISTERO DELL’INVASIONE BARBARICA DEL MERIDIONE D’ITALIA.

IL MISTERO DELLA BORSA SCOMPARSA DI MUSSOLINI.

IL MISTERO DELLA MORTE DI MUSSOLINI.

IL MISTERO DELLE FOIBE.

IL MISTERO DI SALVATORE GIULIANO.

IL MISTERO DI MORO E DELLA STRATEGIA DELLA TENSIONE.

IL MISTERO CIRO CIRILLO.

IL MISTERO DELLE STRAGI. IL TRENO ITALICUS.

IL MISTERO DELLE STRAGI. L’AEREO DC-9 ITAVIA.

IL MISTERO DELLE STRAGI. MILANO. PIAZZA FONTANA.

IL MISTERO DELLE STRAGI. LA STAZIONE DI BOLOGNA.

IL MISTERO DELLE STRAGI MAFIOSE. PALERMO, MILANO, FIRENZE, ROMA.

IL MISTERO DI ILARIA ALPI.

IL MISTERO DI GIANCARLO SIANI.

IL MISTERO DI WALTER TOBAGI.

IL MISTERO DI MINO PECORELLI.

IL MISTERO DI GIORGIO AMBROSOLI.

IL MISTERO DI LUIGI BISIGNANI.

IL MISTERO DI RINO GAETANO.

IL MISTERO DI MARCO PANTANI.

IL MISTERO DI DENIS BERGAMINI.

IL MISTERO LUIGI TENCO E PIER PAOLO PASOLINI.

IL MISTERO DI GIANNI VERSACE.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

I MISTERI DELLA BASILICATA. TERRA DEI DELITTI IRRISOLTI. DA ELISA CLAPS A TOGHE LUCANE, DA ANNA ESPOSITO AD OTTAVIA DE LUISE, FINO AI FIDANZATINI ED AL CARABINIERE DI POLICORO.

IL MISTERO DELLA MOBY PRINCE.

IL MISTERO DI SIMONETTA FERRERO.

IL MISTERO DI LIDIA MACCHI.

IL MISTERO DI EMANUELA ORLANDI.

IL MISTERO DI SERENA MOLLICONE.

IL MISTERO DI MARTA RUSSO.

IL MISTERO DI SIMONETTA CESARONI.

IL MISTERO DEL FENOMENO DELLA BLUE WHALE, OSSIA DELLA BALENA BLU (GIOCO)

IL MISTERO DELLE SUPERNOTES. I 100 DOLLARI FALSI…MA BUONI.

IL MISTERO DI ETTORE MAJORANA.

IL MISTERO DEL MOSTRO DI FIRENZE.

IL MISTERO DI LICIO GELLI.

IL MISTERO DI SIENA. DAVID ROSSI.

COMPLOTTISTI? IL MAGISTRATO PAOLO FERRARO, MELANIA REA E LE SETTE DI STATO.

 

  

SECONDA PARTE

 

I MISTERI DELLA BASILICATA. TERRA DEI DELITTI IRRISOLTI. DA ELISA CLAPS A TOGHE LUCANE, DA ANNA ESPOSITO AD OTTAVIA DE LUISE, FINO AI FIDANZATINI ED AL CARABINIERE DI POLICORO.

"Poteri invisibili. Viaggio in Basilicata tra affari, mafie, omicidi e verità sepolte". Il libro di Don Marcello Cozzi. Politica e malaffare, istituzioni e potere, massoneria e mafia, delitti irrisolti e persone scomparse: sono le trame criminali che emergono dalla Basilicata per delinearsi in queste pagine, cariche di un significato che però oltrepassa i confini regionali. Si tratta di storie che hanno destato l'attenzione dei media: parliamo di "Toghe Lucane", che ha chiamato in causa magistrati e forze dell'ordine, o della tangentopoli petrolifera "Total Gate", che ha coinvolto politici e imprenditori, ma anche della branca locale di "Calciopoli". Oppure di vicende note come l'omicidio di Elisa Claps - con le coperture che ne hanno ritardato lo svelamento - e dei "fidanzati di Policoro". Accanto a queste inchieste finite nella cronaca nazionale, questo libro ci racconta che negli ultimi anni le persone svanite nel nulla in Basilicata sono tante. E segue un filo che lega fatti e nomi, che diventano qui frammenti sparsi di un'unica narrazione. Storie di oggi che richiamano storie di ieri, accomunate dalla mancanza di verità. Perché anche dove è chiaro il volto dei sicari, sono sconosciuti i nomi dei mandanti, e quelli di chi ha depistato rimangono solo un sospetto. E così l'autore, nel ridare vita a indagini archiviate troppo in fretta, ci rivela che quella che sembrava un'isola felice è intrisa della stessa quotidianità che fa dell'Italia uno dei paesi più corrotti dell'occidente.

Da Toghe lucane allo scandalo del Totalgate passando per la calciopoli e i basilischi. E’ il nuovo libro di Don Marcello Cozzi su delitti e impunità in Basilicata, scrive Leo Amato su “Il Quotidiano della Basilicata”. Abbandonare «quel sorriso disincantato e un po’ supponente che si riserva al dietrologo che si è lasciato trasportate dalla sua stessa fantasia». E sostituirlo con «una smorfia preoccupata» per la Basilicata. E’ di Carlo Lucarelli la chiave di lettura autentica dell’ultimo libro di don Marcello Cozzi, il sacerdote potentino animatore del Cestrim, della fondazione antiusura Interesse Uomo e vicepresidente nazionale di Libera, nomi e numeri contro le mafie. Si intitola “Poteri invisibili: Viaggio in Basilicata tra affari, mafie, omicidi e verità sepolte (Editore Melampo, 17 euro)”, e a firmare la prefazione è stato proprio l’autore di Blu Notte e di tanti gialli che hanno appassionato centinaia di migliaia di lettori. Poteri invisibili è dell’ideale continuazione di Quando la mafia non esiste, uscito nel 2008 in una Basilicata diversa, in cui il furore di inchieste come Toghe lucane lasciava intravedere il crollo di un sistema di potere politico-giudiziario. Da allora molto è cambiato: Toghe lucane si è risolta con l’archiviazione della maggior parte delle accuse e l’assoluzione per le restanti. Alcuni degli inquirenti sono finiti al posto degli imputati, come pure i giornalisti che più si erano esposti raccontando il “sistema” ipotizzato e le sue misfatte. Alcuni dei misteri che avvolgevano le coscienze di tanti lucani onesti si sono risolti, in tutto o in parte. Come l’omicidio dell’avvocato Francesco Lanera a Melfi, o la “scomparsa” di Elisa Claps. Mentre altri “casi” sono balzati agli onori delle cronache: dalle corruttele all’ombra delle trivelle della Valle del Sauro, al complotto per delegittimare il pm Henry John Woodcock. Passando per la calcio-connection tra sport e malavita all’ombra dello stadio di Potenza, e i processi sui rapporti tra politica e basilischi, che hanno visto la prima condanna per concorso esterno in associazione mafiosa di un amministratore lucano. Ecco perché occorreva riprendere il filo di quel discorso aggiornando la rassegna di notizie dal fronte del contrasto alla malavita. Senza fare distinzioni tra crimine organizzato e colletti bianchi. Con spirito enciclopedico, per non dire di guida tra le “imprese” dei nemici della legalità e le vicende dove i confini tra bianco e nero sono irriconoscibili e per questo sfuggenti, se non addirittura inquietanti. Don Cozzi non rinnega mai la sua scelta di campo, che continua a costargli non poco in termini di critiche e querele per diffamazione. Ripercorre anche i passaggi più controversi delle dichiarazioni di collaboratori di giustizia come Rino Cappiello, che sono stati smentiti nei fatti, ma continuano ad alimentare sospetti fintanto che i processi non avranno accertato come sono andate veramente le cose. A cominciare dagli autori materiali, dai mandanti e dal movente del duplice omicidio Gianfredi, il 27 aprile del 1997. Don Cozzi si domanda se si possa parlare di un caso davvero chiuso dopo le dichiarazioni di due pentiti come il melfitano Alessandro D’Amato e il boss potentino Antonio Cossidente. Il primo ha raccontato di aver sparato mentre il secondo di aver organizzato l’agguato per «dare un segnale» della nascita della quinta mafia. Un segnale che facesse clamore a Potenza, come in Calabria dove i padrini di San Luca avrebbero dovuto concedere il loro benestare alla nascita di una “famiglia” tutta lucana. A febbraio la procura di Salerno dopo 4 anni alla ricerca di riscontri alle loro dichiarazioni ha spiccato dei mandati di arresto per i vertici del vecchio “clan” dei basilischi, incluso il boss Gino Cosentino che nel 2007 si era pentito ma non aveva mai ammesso di aver dato l’ordine, e continua a dirsi innocente mentre da più di un anno gli è stato revocato il programma di protezione con tutti i benefici annessi. Anche il Tribunale del Riesame ha sposato la tesi degli inquirenti, accogliendo anche l’appello contro l’unica ordinanza chiesta dal pm ma respinta dal gip. Eppure i dubbi di Don Cozzi restano e a suo avviso per la procura di Salerno «ci sarà ancora tanto da lavorare». Così tra la seconda edizione delle “Toghe lucane”, sugli autori dell’anonimo che prendeva di mira Woodcock, e l’epilogo della prima condotta dal pm Luigi De Magistris, ritornano nomi di magistrati come Vincenzo Tufano, Giuseppe Chieco, Iside Granese, Gaetano Bonomi, Felicia Genovese e il marito Michele Cannizzaro. Ritornano imprenditori, pochi in realtà, come i Vitale e Giovanni Castellano, assieme al policorese Franco Ferrara, coinvolto nello scandalo soprannominato Totalgate sugli appalti pilotati per le estrazioni di petrolio a Corleto Perticara e dintorni. Ritornano i politici come Filippo Bubbico e Salvatore Margiotta, assieme ad Agatino Mancusi, Luigi Scaglione e Rocco Lepore, coinvolti nelle inchieste sui voti dei clan. Ritornano le «tracce dei grembiuli», che sarebbero le ombre di massoni più o meno in sonno e dei loro affari. E ancora avvocati, poliziotti ed ex 007 coinvolti in intrighi e tentativi di “azzoppare” il lavoro dei buoni. Don Cozzi rinuncia ai toni da anatema, ma a chi parla di complottismi e dietrologie senza senso attribuendole a giornalisti e magistrati, anche se soltanto in maniera indiretta, replica mostrando nuovi elementi, nuovi spunti, indizi che vanno nella stessa direzione. Ed è come se li sfidasse a confrontarsi su questi. E non mancano le vittime ancora senza giustizia: come Vincenzo De Mare e Maria Antonietta Flora. Il vicepresidente di Libera Basilicata affida ai “Poteri invisibili” nomi e trame mai svelate prima, che sono state a lungo sul tavolo degli inquirenti, ma non hanno trovato i riscontri necessari per finire in un aula davanti al Tribunale. «La storia di sempre». Abbastanza per far rabbrividire anche un habituè delle atmosfere più noir come Carlo Lucarelli, riuscendo a risvegliare la sua coscienza civile.

Qualcuno pensa: forse è arrivato il momento di affermare tutta la verità, nient’altro che la verità; altri pensano che forse sia meglio attendere non si sa che cosa; altri ancora hanno paura, scrive Oreste Roberto Lanza su “Basilicata Notizie”. E se poi? Altri vorrebbero fare il passo ma non sanno gestire gli effetti consequenziali; molti altri sanno, ma, come dei codardi, girano l’angolo e si nascondano per non farsi individuare. Ognuno di noi sta per arrivare al bivio, parlare o non parlare; restare fermi o incamminarsi definitivamente nel fare chiarezza del nostro tempo, delle cose che succedono intorno a noi, dire la nostra in maniera chiara. Nelle ultime pagine di un bellissimo libro, “Poteri Invisibili, viaggio in Basilicata, tra affari, mafie, omicidi e verità sepolte”, edito da Melampo, di don Marcello Cozzi, Vice Presidente nazionale Libera, lucano, sacerdote, impegnato da decenni nell’educazione alla legalità e nel contrasto alle mafie si legge: “…. Si limita semplicemente a raccontare perché chi non sa, sappia, perché i distratti aprano gli occhi e perché i superficiali vadano oltre la crosta delle apparenze …. a chi prova a mettere nero su bianco per aiutare chi è senza memoria o quanti dimenticano con troppa facilità.” Penso che l’autore voglia, in fin dei conti, dire chi narra, chi ricorda e scrive deve cercare sempre la verità. L’autore mi è apparso un prete vero che fa il suo dovere scrivendo di una verità amara ma da brivido, una verità che disegna la Basilicata come un luogo dove da decenni sembrano insediatisi e consolidatisi poteri invisibili che hanno deturpato e messo in ginocchio la storia e la cultura di questa bellissima regione. Sono storie misteriose che hanno da prima degli anni settanta sino e oltre il 2010 contaminato e indebolito il tessuto sociale della Lucania, e in alcuni casi sembra averla portata al silenzio e all’oblio smisurato. Con atti giudiziari alla mano, i morti non sono scomparsi e svaniti nel nulla. Come Maria Antonietta Flora, di Lagonegro, che scompare il 10 novembre 1984 senza far più ritorno a casa e senza aver trovato un briciolo di verità; o come Domenico Di Lascio ucciso l’11 gennaio 1989 che finisce con il proscioglimento l’11 novembre 2008 di tre indagati; Maria Antonietta Ottavia  De Luise sparita il 12 maggio 1975 a Montemurro e mai più ritrovata; dove sono, si chiede l’autore, Alfonso Bisogno e Giuseppe Di Pietro o Nicola Bevilacqua, di Lauria scomparso la sera del 17 maggio 2006; che fine ha fatto Antonio Potenza scomparso il 17 dicembre 1969 a Rionero In Vulture; Mario Milone, Tiziano Fusilli, Giuseppe Forastieri, Anna Maria Mecca di Avigliano, Petronilla Vernetti di Melfi. I nomi e cognomi indicati dall’autore lasciano intendere la misura del pericolo e di quanto sia grosso il dilemma dell’invisibilità dei poteri oscuri. Ma di queste persone svanite, l’autore ne fa un canovaccio, cornice per vedere meglio dentro un quadro composto di circostanze non chiare, persecuzioni, giustizia sospesa e dolosamente omissiva frutto probabilmente della commistione con la politica e i poteri invisibili o forse massonici. Il libro fonda le sue radici su alcuni pilastri fondamentali: la morte non chiara dei così chiamati fidanzatini di Policoro, Luca e Marirosa avvenuta il 23 marzo 1988, Toghe Lucane e Toghe lucane Bis, la cupola del petrolio, il fallimento del Potenza Calcio e il caso famoso di Elisa Claps. Sono casi, circostanze, avvenimenti da forti brividi quasi come se stessimo vedendo un film di genere thriller. La logica non riesce a dare una spiegazione ben definita, ma leggendo sotto le righe, guardando oltre la nostra onesta e leale visuale, si può forse vedere il virus che da decenni inquina la nostra società, la nostra Lucania. Era la notte tra il 23 e 24 marzo 1988, poco dopo l’una i carabinieri di Policoro trovano i corpi senza vita di due giovani nel bagno dell’appartamento della famiglia Andreotta, in via Puglia 75. Si tratta di Luca Orioli e Marirosa Andreotta. In verità, precisa l’autore, era stata la mamma di lei la prima a ritrovare i cadaveri. Circostanza, questa, che nel corso delle indagini, l’autore evidenzierà al lettore, di come la mamma si accorgerà che i cadaveri erano stati rimossi dalla loro iniziale posizione. È il 16 ottobre 2013 quando il gip Rosa Bia decide che tutto sia archiviato. Si chiede l’autore …. E i corpi spostati?  E le contraddizioni dei testimoni? Le perizie false? Silenzio assoluto. La frase De Magistris che dice “ho perso ma non mi sono perso” all’indomani della sentenza del Csm che condanna il giudice napoletano (ora Sindaco di Napoli) a lasciare le indagini su Toghe Lucane e la procura di Catanzaro per fare ritorno nella sua città. In “nome del popolo italiano, la sezione disciplinare del Csm dichiara il dottor Luigi De Magistris responsabile delle incolpazioni e gli infligge la sanzione della censura. Dispone il trasferimento ad altra sede e altre sezioni.” Cosi l’autore riporta il contenuto del dispositivo letto dall’allora vicepresidente Nicola Mancino che attualmente deve rispondere in qualche aula di giustizia di essere stato presumibilmente un partecipante all’accordo sta Stato e mafia. Ma cosa avrà portato, evidenzia Cozzi, il procuratore generale della Suprema Corte di Cassazione, Vito D’Ambrosio a dire di De Magistris “non è il modello di magistrato a cui s’ispira la nostra Costituzione?” Forse l’aver, De Magistris, presumibilmente, come evidenzia lo stesso autore, chiamato in causa magistrati e forze dell’ordine, politici e massoni? L’aver scoperchiato una cupola di persone e personaggi, giudici compiacenti e avvocati pronti a nascondere la verità nell’interesse del gruppo? Da “Poseidone “ a “Why Not” a Toghe Lucane ecco chi è stato De Magistris. Provate a leggere da pag 28. Tutto inizia con la denuncia di un certo Nicola Piccenna, presidente del consorzio Anthill (società per azioni operante nel settore della telefonia e delle telecomunicazioni) e tutto finisce il 19 marzo 2011 quando il gip del Tribunale di Catanzaro Maria Rosa Di Girolamo dispone l’archiviazione di Toghe Lucane perché, come riporta l’autore, il provvedimento dice “l’impianto accusatorio è lacunoso e le prove insufficienti”, e dice ancora  il magistrato “qualunque approfondimento d’indagine ..vista la mole di elementi probatori già acquisiti non porterebbe da nessun altra parte.” Ma non finisce qui, pochi mesi altri due magistrati chiedono allo stesso Gip che aveva archiviato Toghe lucane di riaprire il fascicolo almeno per alcuni, come il sostituto Bonomi e la dirigente della polizia Fasano e per l’ormai ex Procuratore generale di Potenza Tufano che aveva gridato alla sua assoluzione in toghe Lucane e che a giugno 2012 nel bis di Toghe Lucane è rinviato a giudizio. Poi l’enorme interesse sul petrolio lucano che tuttora vive alla luce del sole, e che l’autore nel suo capitolo lo definisce la cupola del petrolio. E’ l’affare legato alla realizzazione di un grande centro Oli che la Total aveva bandito il 31 marzo 2007 e che Francesco Ferrara, imprenditore di Policoro, voleva a tutti costi aggiudicarsi. Un centro oli da inserire in quella località cosi chiamata Tempa Rossa (tra Corleto Perticara e Gorgoglione) dove era stato individuato un grande giacimento di petrolio, dalla capacità, si legge nelle righe del libro, individuato dagli esperti di circa 130 milioni di barili di oli il giorno. Da qui si arriva alla busta “D” che deve essere cambiata a quella già presentata. 14 gennaio 2008 Ferrara vince l’appalto! Vi lascio il brivido di leggere le pagine finali di questa storia che ha dell’incredibile, ma sicuramente mette i brividi alla vostra e nostra onestà e paura, alla nostra coscienza di liberi lucani. Vi lascio sfogliare le pagine del fallimento del Potenza calcio, dell’allora presidente Postiglione con amicizie discutibili con boss locali, con agganci politici non chiari con affari e scommesse clandestine che porteranno il sodalizio calcistico potentino al fallimento e all’arresto di Postiglione il 23 novembre 2009 e il rinvio a giudizio nel dicembre 2012 per associazione per delinquere finalizzata alla truffa e alla frode sportiva, e non, come evidenzia l’autore, per mafia. Ho lasciato per ultimo, ma non per ultimo, il caso di Elisa Claps. L’autore sintetizza in ben 24 pagine una drammatica vicenda che ha addolorato i cuori onesti della nostra gente lucana. “Sai mamma ho saputo una cosa brutta, in questura c’è qualcuno che conosce la verità su Elisa; quella ragazza scomparsa da diversi anni qui a Potenza sa che è stata uccisa e sa pure, dove è sepolta.” A parlare è Anna Esposito da cinque anni commissario Capo della Digos di Potenza. L’autore dice che era tra il 2000 e il 2001 quando prende il telefono e si confida con la mamma Olimpia Magliano. Anna Esposito è trovata morta il 12 marzo 2001 impiccata. Suicida. I genitori al momento della richiesta di Archiviazione del Giudice De Luca, dichiarano, come riporta Marcello Cozzi, che conoscendo la figlia mai avrebbe fatto una cosa del genere. Elisa Claps mori assassinata il 12 settembre 1993 probabilmente, come pone l’accento Cozzi, tra le 11,30 e le 13,10. E il suo corpo misteriosamente occultato nella chiesa della Trinità di Potenza. Il corpo è ritrovato la mattina del 17 marzo 2010. Alla fine la saliva sulla maglia di Elisa (reperto 44) incastra Restivo senza appello. Questi i fatti. Il libro è un documento eccezionale dove le storie raccontate sono fatti veri che non hanno mai trovato la verità perché, come dice l’autore, “dove è chiaro il volto dei sicari, sono sconosciuti i nomi dei mandanti e di quelli che hanno depistato.” Il libro è un contenitore inesauribile di nomi eccellenti notabili e funzionari di alto livello professionale, avvocati e dirigenti di giustizia che si sono serviti, in molti casi, probabilmente, della politica sporca per arricchire se stessi e foraggiare il loro desiderio di potere. Una cosa l’autore, vuole dirci: non è questa la vera Lucania, essa, invece, è composta di persone oneste e leali che mettono a disposizione la loro professionalità e le loro competenze al servizio di una grande Lucania. Questi, però, sono a oggi una minoranza.

Alfonso Bisogno aveva 38 anni quando è scomparso misteriosamente insieme al suo assistente, Giuseppe Di Pietro. Noto imprenditore, Alfonso Bisogno era soprattutto conosciuto per essere a capo della BSA srl, Bestiame Selezionato Allevamento, un'azienda fiorente nel settore dell'allevamento con sede a Giulianova in Abruzzo dove si era trasferito in seguito al matrimonio. Nella cittadina abruzzese lo aveva raggiunto suo fratello, allora diciottenne, per aiutarlo nella gestione del lavoro. La famiglia era originaria del beneventano. La BSA forniva capi di bestiame selezionato a molte aziende del centro sud d'Italia. A parte il passa parola tra gli allevatori, una buona fonte di pubblicità per l'azienda era costituita dai veterinari di zona che suggerivano agli allevatori interessati le aziende a cui rivolgersi. Gli allevatori ricevevano contributi dallo Stato per l'acquisto di capi selezionati. Un volume d'affari notevole, che, col senno del poi, poteva fare gola a molti. Sul finire degli anni 70 si rivolse alla BSA anche un'azienda della provincia di Potenza. Alfonso Bisogno aveva appuntamento con qualcuno legato a quell'azienda a Castel Lagopesole quel 29 giugno 1981. In quella data si teneva inoltre una grossa fiera del bestiame a cui l'uomo avrebbe dovuto partecipare. Alfonso Bisogno si era mosso da Giulianova di buon mattino con Giuseppe Di Pietro a bordo della sua Mercedes 3000 nuova di fabbrica. Non tornarono più a casa. Alfonso Bisogno non rivedrà più i suoi due figli di 3 e 5 anni e la sua giovane moglie. L'auto dell'uomo fu trovata completamente bruciata su una piazzola di sosta sulla Salerno-Reggio Calabria, poco distante dallo svincolo per Potenza, 8 giorni più tardi.

Potenza tra delitti e consorterie. Misteri noir e lotte di potere, scrive Alberto Statera su “La Repubblica”. Passi il Basento, scali a ottocentodiciannove metri sul livello del mare Potenza, da due secoli il capoluogo regionale più alto d'Italia, dove come dice il proverbio "a Santa Caterina la neve sova a spina", e pensi di trovarti nel "reality show" più appassionante dell'anno. Belle "gnocche" come qui non si sono mai viste - così dice il barista che serve il caffè a giudici, avvocati e giornalisti vicino al palazzo di Giustizia - Lele Mora che sgambetta in passerella al comando di una coorte di ragazze squittenti e prorompenti. E poi il ciglioso piemme biondo che fa impazzire il mondo e tanti "Vipps", che Mina, signora un po' snob, su "La Stampa" ha ribattezzato "Pipps". E invece altro che "vallettopoli" e "puttan tour". Appena arrivi in cima alle scale di Potenza, che il sindaco Vito Santarsiero chiama la "città verticale", ti senti risucchiato in un cupo romanzo gotico: potere, politica, soldi, speculazioni, sesso e assassinii. Altro che veline. Sì, perché in questo ex borgo montanaro, voluto capoluogo regionale da Giuseppe Bonaparte nel 1806, che vide tra i suoi cittadini Giustino Fortunato, vagheggiatore della nascita di una moderna borghesia imprenditoriale nel Mezzogiorno, in questa capitalina di 69 mila abitanti, tra monti bellissimi, ma di una bruttezza palazzinara che fa male all'anima, c'è un tasso di omicidi irrisolti che dev'essere proporzionalmente il più cospicuo d'Italia. Non tanto gli omicidi di camorra, di mafia, di 'ndrangheta, che pure qui arrivano ma che altrove non si contano neanche più. Ma casi in cui s'intrecciano potere, politica, massonerie, magistratura, corruzioni, abusi, sesso e droga. Tanti misteri alla Montesi. Chi non ricorda il caso di Wilma Montesi? La ragazza fu trovata morta sulla spiaggia di Torvajanica, litorale di Roma, dopo una notte di festini. Quella morte aprì una partita all'ultimo sangue nella Democrazia cristiana, con le dimissioni del ministro degli Esteri Attilio Piccioni, per i sospetti sul figlio Piero, musicista e viveur, che in realtà quando Wilma fu uccisa si trovava in Costiera Amalfitana con Alida Valli, sua amante del momento, come poi testimoniò l'ex ministro Paolo Emilio Taviani. Lo scandalo favorì l'ascesa nel partito di Amintore Fanfani. Emilio Colombo, ex presidente del Consiglio, ex ministro in decine di governi, tuttora venerata icona cittadina e nume tutelare di Potenza, era giovane, ma di quell'epoca ha sicura memoria. Qui, oggi come allora, la partita incrocia i partiti, ma non è solo politica, coinvolge pezzi rilevanti di magistratura e di società, la nuova borghesia locale fatta soprattutto di burocrati, non quella sognata da Giustino Fortunato, né quella contadina dell'Ottocento e del Novecento dei Ricciuti, dei Lioy, dei Santangelo, dei d'Errico, dei Lacava. A incrementare le inchieste incrociate c'è un Robin Hood locale "antimagistratura corrotta". Si chiama Nicola Picenna e non ha requie da quando nel marzo 2003 il Tribunale civile di Matera, presieduto da Iside Granese, dichiarò il fallimento del consorzio Anthill, di cui era presidente, fondato dal banchiere Attilio Caruso per partecipare alla gara per la concessione delle licenze telefoniche Umts. Sali a Potenza, sulla scala mobile più lunga d'Europa, piccolo ma rivendicato orgoglio cittadino che ti porta al centro della città, e subito ti raccontano dell'omicidio dei coniugi Gianfredi, Giuseppe e Patrizia, ammazzati a fucilate otto anni fa davanti ai figlioletti. Un mistero irrisolto, uno dei tanti. Prendi il caffè in via Pretoria, vicino a Palazzo Biscotti, dove abitò Giovannino Russo, gloria giornalistica cittadina, e ti intrattengono sul giallo di Elisa Claps. Sedicenne, mora, carina, alta un metro e cinquantacinque, scomparve una domenica, il 12 settembre 1993. Fu sospettato Danilo Restivo, il ragazzo che aveva appuntamento con lei. Ma tutto finì nel nulla. Salvo che, trasferitosi in Inghilterra, il giovanotto di ottime relazioni familiari a Potenza, manifestò lo stesso vizietto che, a quel che disse la polizia, coltivava a casa: tagliare ciocche di capelli a signore e signorine, per strada, in autobus, ovunque gli capitasse. Scotland Yard, passati gli anni, è ancora lì a studiare il profilo psicologico dell'uomo sospettato per l'assassinio britannico di Heather Barnett, vicina di casa del sospetto potentino, trovata morta con una ciocca in mano. A Potenza si narra che il cadavere di Elisa, mai più ritrovato, fu sciolto nell'acido o incorporato nella colonna di cemento di un palazzo di undici piani. Ma soprattutto si strologa sulle connivenze, di cui "Chi l'ha visto", i giornali locali e i capannelli di via Pretoria parlano con ridondanza di nomi e cognomi. Il "parrucchiere" sarebbe stato protetto da Michele Cannizzaro, attuale direttore dell'ospedale San Carlo e marito di Felicia Genovese, magistrato di Potenza, ora trasferita dal Csm e indagata per aver archiviato una denuncia contro esponenti dei Ds e della Margherita, in cambio - questa l'accusa - della nomina del marito all'ospedale. Il pentito Gennaro Cappiello sostenne che il marito della Genovese fu anche il mandante del duplice omicidio Gianfredi. Ma l'inchiesta è stata archiviata e il pentito, considerato inattendibile dalla procura di Salerno, denunciato per calunnia. Tanti anni dopo, innescato dalle inchieste a raffica del pm anglo-napoletano Henry John Woodcock, che agiscono come una sorta di moltiplicatore d'interesse per le antiche vicende, in cima alla città delle scale, che ancora dibatte su un antico stemma raffigurante un "leone gradiente su di una scala" (ma i leoni salgono le scale?) torna l'incubo degli omicidi insoluti. Non solo Elisa e i Gianfredi, anche i "fidanzatini di Policoro" uccisi nel 1988. Policoro, sulla costa jonica, è oggi in qualche modo l'epicentro, il luogo epitomico, dell'inestricabile "Basilicata connection", che copre come una nevicata di Santa Caterina l'intera regione e fa lacrimare nel Duomo San Gerardo, patrono di Potenza, e l'arcivescovo Agostino Superbo, indignato non solo per le vergogne locali, ma per i "modelli di vita" dell'Italia televisionara scoperchiati da Henry John. E' lì, a Policoro, che carabinieri e Guardia di Finanza hanno messo i sigilli al villaggio turistico "Marinagri", un complesso di alberghi, ville, marina, del valore di 200 milioni di euro, costruito su terreno demaniale, per il quale è indagata, anche in inchieste connesse su un "gruppo di potere" trasversale, un bel pezzo di giustizia e di politica regionale. Non solo Felicia Genovese, col marito direttore dell'ospedale, ma anche, tra gli altri, i procuratori potentini Giuseppe Galante e Giuseppe Chieco, il presidente del Tribunale di Matera Iside Granese, l'ex presidente della Regione e attuale sottosegretario diessino nel governo Prodi Filippo Bubbico, l'attuale presidente della Regione Vito De Filippo, della Margherita, il senatore Emilio Nicola Buccico, di An, ex componente del Consiglio superiore della Magistratura e candidato a sindaco di Matera alle elezioni del prossimo maggio, la responsabile dell'Agenzia del Demanio Elisabetta Spiz, all'anagrafe moglie di Marco Follini, ex leader dell'Udc appena "scisso" dal socio Pierferdinando Casini, il cui nome ha aleggiato nei pettegolezzi fioriti ai margini delle inchieste televisionarie di Woodcock. Almeno tre, per quel che ne sappiamo, i tronconi dell'inchiesta "Basilicata connection" che pericolosamente s'intersecano: filone sanità, incentrato sulla coppia Cannizzaro - Genovese, filone banche per finanziamenti della Banca Popolare del Materano, Gruppo Popolare dell'Emilia, al presidente del tribunale di Matera, filone speculazione edilizia per "Marinagri" di Policoro. Ma, tra i tanti filoni, torna cupo dal passato, con un'inchiesta riaperta dalla procura di Catanzaro, l'assassinio dei "fidanzatini di Policoro", Luca e Mariarosa, che Carlo Vulpio ha dettagliatamente ricostruito sul "Corriere della Sera". Ventun'anni di età entrambi, trovati morti nella vasca da bagno, si disse che i due ragazzi furono folgorati per il cattivo funzionamento dello scaldabagno. Nessuno fece l'autopsia. Ma, riesumati i corpi otto anni dopo, si ebbe la quasi certezza che i fidanzati in realtà siano stati prima uccisi e poi gettati nella vasca da bagno. "La vicenda - disse in Parlamento l'allora ministro della Giustizia Piero Fassino - ha risentito in modo determinante dell'insufficienza degli accertamenti espletati". Perché furono così insufficienti gli accertamenti espletati? Perché la ragazza, Mariarosa, aveva confessato in una lettera al fidanzato Luca: "Amore mio, spero che resterai accanto a me anche quando ti confesserò una piccola parte di me, che voglio cancellare per sempre". La parte da cancellare erano festini con personaggi potenti, serate allegre di sesso e droga, ben retribuite, che facevano tremare mezza Basilicata. Quelle serate, secondo la pentita Maria Teresa Biasini, sarebbero state frequentate, tra gli altri - come hanno riferito le cronache - dal giudice del Csm Nicola Buccico, dall'avvocato Giuseppe Labriola, segretario provinciale di An, e da un giudice "dai capelli bianchi e dagli occhi di ghiaccio", l'unico di cui il nome non viene fatto esplicitamente. Chi era? Per saperlo basterebbe ascoltare le chiacchiere da bar di via Pretoria. Ma la vicenda è stata archiviata a Potenza perché priva di ricontri. Buccico, magistrato del Csm e senatore di An, per parte sua, prima difende come avvocato la famiglia dell'assassinato, poi diventa avvocato del pubblico ministero Vincenzo Autera, quello che per l'omicidio dei due ragazzi aveva chiesto l'archiviazione. Strilla il segretario diesse della Basilicata Piero Lacorazza: si complotta contro la dignità di un'intera Regione. Gli risponde sul "Riformista" Emanuele Macaluso: finiamola con la retorica, l'intreccio tra "nuova classe" e poteri locali è politico e coinvolge anche Diesse e Margherita. Il sindaco di Potenza è della Margherita ed è il più "preferenziato" d'Italia, con il 75 per cento dei voti. Lui, Vito Santarsiero, estimatore dell'antico leader Emilio Colombo, non parla di complotti. Enumera appassionatamente i lavori "cantierizzati", le mostre straordinarie aperte in città, come quella di De Chirico, perché "la cultura viene prima di tutto" in una città che ha sofferto dell'immensa "incultura urbanistica" prima e anche dopo il terremoto del 1980, che pure tanti fondi condusse qui per una ricostruzione dissennata. Ci parla dell'area industriale, della Pittini Siderurgica, delle aziende di prefabbricati, del debito che ha ereditato, 150 milioni di euro che solo di interessi gli costa 10 milioni all'anno, del "piano metropolitano" messo a punto con nove comuni vicini per lo sviluppo economico dell'area. Ma qualcosa ha da dire anche su "vallettopoli": "Sei milioni di euro di costo per le intercettazioni telefoniche a Potenza mi sembrano francamente un'enormità, basta fare il confronto con la cifra infinitesimale che si spende a Matera. Io rispetto il magitrato Woodcock, ma credo anche che la giustizia abbia delle priorità, che ci debba essere una gerarchia nel perseguimento dei reati. Allora mi piacerebbe finalmente sapere non solo quale Vip in mutande ha fotografato Corona, chi c'era sulla barca in navigazione nei pressi di Capri col transessuale, quale ragazza amministrava Lele Mora. Mi piacerebbe anche sapere che cosa si fa contro la droga, che qui dilaga, che cosa contro l'usura, contro la mafia, che incede dalle regioni limitrofe. E possibilmente che fine ha fatto Elisa Claps, perché, diciamolo, questa città è ancora scossa da quello e dagli altri omicidi impuniti. Potenza ha bisogno di serenità per poter fare ciò che le serve: lavoro, tutela dell'ambiente, qualità della vita, riqualificazione urbana". Sessantamila miliardi di vecchie lire piovvero dopo il terremoto del 1980 e 18 mila si fermarono qui in Basilicata. Il 60 per cento per un'industria mai nata o fallita, il 40 per recuperare abitazioni che hanno perpetuato uno scempio urbanistico che viene da lontano, da quando nella prima parte del secolo scorso approdarono qui invano gli architetti Piacentini e Quaroni a progettare il manicomio. E manicomio urbanistico fu. Tanto che la "riqualificazione" sembra oggi una missione impossibile anche per gli architetti Giuseppe Campos Venuti e Federico Oliva, chiamati in città dal sindaco Santarsiero. Quanto all'industria, se si tolgono la Fiat di Melfi e il polo dei salotti nel materano, ce ne sono scarse tracce in una terra strappata alla pastorizia con un profluvio di incentivi. Nonostante il fiume di denaro pubblico, il valore aggiunto per abitante è di poco più di 16 mila euro, l'ottantaduesimo posto nella classifica italiana, la disoccupazione è pari a circa un terzo della popolazione attiva residente. C'è il petrolio della Val d'Agri, ma sembra che l'oro nero lucano, che copre più o meno il dieci per cento del fabbisogno energetico nazionale, qui sia vissuto più che come un'occasione, soprattutto come un fastidio. Ne sa qualcosa l'ex presidente della Regione e attuale sottosegretario allo Sviluppo economico Filippo Bubbico che ha dovuto difendersi anche dall'accusa di aver consentito l'estrazione nella Val d'Agri: "Le ricerche - ha spiegato - avvenivano da molto tempo, c'erano concessioni minerarie risalenti agli anni Cinquanta. Ma solo nel 1996 il governo nazionale ha autorizzato l'Eni a sfruttare i giacimenti petroliferi della Val d'Agri. In quella situazione nessuno avrebbe potuto fermare l'attività petrolifera. Noi abbiamo scelto di non perderci nella disputa nominalistica petrolio sì, petrolio no e abbiamo faticosamente trovato il modo di portare l'Eni e il governo al tavolo delle trattative per tutelare l'ambiente e creare opportunità per la Basilicata". Ciò di cui oggi la Basilicata non difetta sono i sottosegretari: oltre a Bubbico, dispone di Mario Lettieri all'Economia e di Gianpaolo D'Andrea alle Riforme, entrambi della Margherita. Altri tempi rispetto a quelli di Colombo e di Angelo Sanza, quando Potenza, borgo montanaro a ottocento e più metri sul livello del mare, comandava a Roma. Altri tempi, di pastorizia, clientele sì, quasi una patria. Ma non c'era "Potenza noir".

Non sono poche le persone innocenti scomparse in Basilicata. Probabilmente sono state uccise e i loro cadaveri occultati. Fa riflettere il dato che buona parte di loro erano donne: non ci riferiamo soltanto a Elisa Claps, i cui resti alla fine sono stati "fortunatamente" ritrovati, ma il nostro pensiero va anche a Maria Antonietta Flora, uccisa a Lagonegro nell'84 e alla piccola Ottavia De Luise, uccisa a Montemurro nel '75. Un continuo femminicidio a cui non possiamo assistere impotenti, anche perché la nostra regione non merita una macchia simile. È per questo motivo che Libera Basilicata e l'Associazione Telefono Donna chiedono fortemente agli organi competenti di approfondire e scavare ulteriormente nell'inchiesta relativa alla scomparsa di Ottavia De Luise. Il recente libro dedicato alla piccola Ottavia, scritto dai giornalisti Fabio Amendolara ed Emanuela Ferrara, ci sembra dia degli spunti investigativi di non poco conto sui quali pensiamo si possa ulteriormente lavorare per arrivare alla verità. Perché davvero nulla, nemmeno gli aspetti più banali, venga trascurato, e perché alla fine si possa davvero dire che tutte le strade sono state percorse. Lo dobbiamo alla piccola Ottavia, lo dobbiamo alla comunità di Montemurro e lo dobbiamo alla famiglia della bambina perché anch'essa possa avere la possibilità di portare un fiore sui suoi poveri resti.

Il boss ucciso e i misteri del caso Claps giallo nella città dei 21 delitti irrisolti, scrive Attilio Bolzoni su “La Repubblica”. Potenza. Lontana, abituata a nascondersi, una delle città più misteriose d'Italia sta cercando di cancellare tutte le tracce che portano a un morto. In apparenza un delitto di mafia, in realtà un omicidio che nessuno vuole scoprire. Uno dei tanti in questa Potenza incastrata fra le montagne, gelosissima della sua intimità, capace di ingoiare ogni segreto. Morti senza un movente, morti senza un colpevole, morti senza una tomba. Dall' alto dei suoi 819 metri sul livello del mare che le danno il primato di capoluogo di regione più in quota, Potenza che in un'altra epoca era il reame di Emilio Colombo, per una volta capo del governo e per altre ventuno ministro della Repubblica è bivio di trame e scorribande di spie, porto franco per notabili impastati con il crimine, terra avvelenata da faide e condannata a non sapere mai nulla dei suoi misfatti. Un altro record, dopo quello dell'altitudine, nella Basilicata degli almeno 21 casi insoluti degli ultimi trent' anni, come in un noir senza fine con un cadavere dietro l'altro e con indagini immancabilmente destinate all' archivio. Là in cima, chiusa e isolata come una fortezza, Potenza protegge se stessa occultando tutto. L' ultimo "cold case" ripescato è un regolamento di conti che ha troppe verità. Una fucilata in bocca a Pinuccio Gianfredi per farlo tacere. Pinuccio, malavitoso e confidente dei servizi segreti, ucciso il 29 aprile del 1997 - il quindicesimo anniversario dell'agguato è fra qualche giorno - insieme alla moglie Patrizia e sotto gli occhi di due dei tre loro bimbi. Liquidato da frettolose investigazioni come vittima di uno scontro fra bande nemiche, la sua vicenda è raccontata con quattro differenti versioni da quattro pentiti che accusano o si autoaccusano ma che vengono reputati tutti abbastanza credibili. Due, come Gianfredi, erano anche loro informatori degli apparati di sicurezza. Pasticcio o intrigo? Comunque siano andate le cose nella città dove niente è mai quello che sembra qualcuno adesso dice che Pinuccio Gianfredi è stato ammazzato perché sapeva tanto sulla scomparsa di Elisa Claps, la ragazza riesumata diciassette anni dopo in un sottotetto della chiesa della Santissima Trinità. Qualcuno giura che c' entra anche con lo strano suicidio di una poliziotta, trovata soffocata nella sua casa nella primavera del 2001. «Sono convinto che l'omicidio di Gianfredi abbia coperture di Stato e sia legato ai colpevoli ritardi nell' individuazione di Danilo Restivo come assassino di Elisa e alla morte del funzionario della Digos Anna Esposito», spiega Marcello Cozzi, il sacerdote di Libera che con la sua tenacia e al fianco della famiglia Claps non ha mai mollato per avere la verità sulla sorte della ragazza. Don Marcello, che ogni tanto riceve minacciose buste con proiettili e visite di ladri che non rubano mai niente, parla di inchieste insabbiate, di informative sparite, di testimoni d'accusa pilotati. Intorno all' omicidio di Pinuccio Gianfredi è in subbuglio la Potenza delle consorterie, delle logge, dei circoli dove s'incontrano gli eredi dei "Basilischi" (l'organizzazione criminale della Basilicata legata alla 'ndrangheta) con personaggi del sottobosco della politica, avvocati marchiati dal famigerato "concorso esterno", imprenditori da mucchio selvaggio. E poi ci sono le spie. Ce ne stanno dappertutto a Potenza. Chissà che ci faranno tutte queste spie fra le vette dell'Appennino? «Non l'abbiamo mai capito, certo è che qualsiasi cosa accada qui diventa subito mistero», risponde Fabio Amendolara, il cronista de La Gazzetta del Mezzogiorno che da dodici anni segue le contorte vicende giudiziarie potentine e le ingarbugliate piste che costruiscono sopra ogni delitto. Da indagini che si rincorrono fra Potenza e Salerno dove sono approdate, le spie coprono, sviano, depistano. È capitato dopo la scomparsa di Elisa ed è capitato dopo l'omicidio di Pinuccio. E probabilmente anche con Anna Esposito, la poliziotta che era a capo della Digos di Potenza e che un giorno di marzo di undici anni fa "è stata rinvenuta impiccata" con una cintura alla maniglia di una porta. La poliziotta faceva indagini "parallele" e solitarie sul delitto Gianfredi e sulla scomparsa di Elisa. In quel gorgo sono scivolati perfino Felicia Genovese, il pubblico ministero che ha condotto le inchieste sulla morte di Pinuccio e sulla sparizione della Claps. E suo marito Michele Cannizzaro, un ras della Sanità lucana addirittura indicato da uno di quei quattro pentiti come mandante dell'omicidio di Pinuccio. Prosciolti già in istruttoria da ogni accusa tutti e due, il pm e il marito. Scagionati anche tutti i collaboratori di giustizia che li avevano accusati o si erano autoaccusati, scagionati i mandanti presunti. Come sempre, a Potenza, il colpevole è ignoto. E Pinucccio è morto per una guerra di mafia che non è mai scoppiata. È l'incubo dei casi irrisolti che ritorna sempre, quia Potenza. Incubo che ha avuto inizio il 12 maggio del 1975 con la scomparsa a Montemurro di Ottavia De Luise, una bambina forse vittima di pedofili. Mai scoperto nulla. Come per i fidanzatini di Policoro, Luca Orioli e Marirosa Andreotta, due universitari trovati morti nel bagno di casa della ragazza il 23 marzo del 1988. Una scarica elettrica la causa ufficiale della loro morte, prima. Il monossido di carbonio, poi. Un incidente domestico dove sono state cancellate tracce di sangue e - come si legge nelle carte giudiziarie - «con lo stato dei luoghi modificato e i corpi manipolati». Mai scoperto nulla. Come per Alfonso Bisogno e Giuseppe Di Pietro, commercianti scomparsi nelle campagne di Filiano nel 1981. Come per Tiziano Fusilli, ucciso da due pallottole il 22 maggio del 1989. Tiziano era un ragazzo di 28 anni, qualche precedente per droga ma intanto aveva cambiato vita. Mai scoperto nulla. Come per Vincenzo De Mare, un autotrasportatore ammazzato a fucilate il 26 luglio del 1993. Come per Nicola Bevilacqua, scomparso a Lauria nel maggio del 1983. Due settimane dopo che il ragazzo era svanito nel nulla, a casa di Nicola è arrivata una lettera. Lui diceva che stava bene, rincuorava la sorella, annunciava che prima o poi sarebbe tornato. Non è più tornato. La lettera non l'aveva scritta Nicola. La Basilicata delle tenebre si è inghiottito pure lui.

Repubblica scrive della città dei 21 delitti irrisolti, il sindaco Santarsiero risponde su “Il Giornale Lucano”. Potenza. "una visione di città che non meritiamo". Non si è fatta attendere la risposta pubblica del sindaco Santarsiero a quanto scritto ieri da Repubblica relativamente alla cità dei misteri, dei 21 delitti irrisolti (che ci sono ma riguardano tutta la regione). Un quadro molto scuro di un posto che sicuramente di certa cronaca non può farsi vanto ma che forse, come afferma lo stesso primo cittadino, è stato descritto attraverso “una visione di città che non meritiamo, lontana dalle vere sensibilità di una comunità che, come tutte, vive i tanti problemi e le tante contraddizioni del nostro tempo ma che mai è venuta meno sui valori fondanti dei principi di legalità e di condanna di ogni reato. Tutt’altro che omertosi e chiusi a coprire omicidi abbiamo sempre espresso condanna senza appello nei riguardi di qualsiasi colpevole come abbiamo sempre e solo chiesto alla Magistratura la verità, anche la più scomoda, e la giustizia, la più esemplare. Ecco perché oggi siamo indignati e non accettiamo giudizi frettolosi e scorciatoie mediatiche di ogni tipo che alimentano solo odi, divisioni, immagini distorte. Consideriamo essenziale il ruolo dei mass media nelle vicende delittuose di ogni tipo e nei processi di crescita delle sensibilità civili, soprattutto nel nostro Mezzogiorno; ecco perché rivendichiamo giudizi e letture equilibrate e giuste. Servono inchieste vere e non già scoop ad orologeria o, peggio ancora, a richiesta.  Su ogni evento citato da Repubblica, ivi compresi quelli estranei alla comunità potentina, la nostra posizione senza tentennamenti e senza protagonismi è stata quella della ferma condanna del reato e della richiesta alla Magistratura di conoscere la verità. Chiediamo anzi che anche laddove vengono espressi dubbi sull’azione della stessa Magistratura, vi sia chiarezza, perché noi vogliamo verità e certezza di Istituzioni e di diritto. Il tema del femminicidio è stato trattato a Potenza, quasi in solitudine, come in nessuna parte d’Italia, così come la condanna di ogni atto di violenza a minori o al bene pubblico. Invitiamo a Potenza, ospite del Sindaco, il giornalista di Repubblica che ha redatto l’articolo, Attilio Bolzoni per conoscerci meglio, parlare con tutti per avere ogni cognizione di causa, e per comprendere che quell’altitudine e quella collocazione geografica sono per noi motivi di orgoglio, come motivo di orgoglio è la nostra storia, millenaria, centrata sulla lotta per la libertà e democrazia, purtroppo poco conosciuta in un Paese dalle storie ufficiali e non reali. Umilmente vorremmo far conoscere ciò al nostro Paese. La città che ha saputo risorgere dopo l’ennesimo terremoto con la sua forza e la sua dignità non si lascerà intimidire da quanti, per motivi che non appartengono alla costruzione del nostro futuro e del bene comune, anche essi tutti da chiarire, puntualmente avvalorano la tesi di una Città e di una Basilicata in noir ad ogni costo. Nel contempo abbiamo piena consapevolezza di dover continuare un percorso di crescita civile e del capitale sociale e di chiara condanna di ogni forma di reato e di abuso che possa interessare qualsiasi contesto, dalla scuola alla pubblica amministrazione.  Potenza ha bisogno sì di riscatto ma di riscatto dalla marginalità, dalla mancanza di un disegno strategico per il Mezzogiorno, da una storia del Paese troppo squilibrata, dalla mancanza di occupazione e prospettive per i suoi giovani.”

Scanzano. Vincenzo De Mare, autotrasportatore, sarebbe stato ucciso per aver rifiutato un carico di rifiuti. Omicidio a sfondo radioattivo. Indagini della procura antimafia a 13 anni dal delitto, scrive Il Quotidiano della Basilicata il 02/11/06. Un autotrasportatore viene ucciso con due colpi di fucile da caccia, forse una lupara. Un ispettore di polizia indaga sul delitto, ma quando la sua pista lo porta verso persone "importanti" viene trasferito in Calabria. Un carico di bidoni, contenenti rifiuti chimici, viene rinvenuto nei magazzini abbandonati di un'azienda agroalimentare. Tredici anni di misteri finiscono sulla scrivania di un magistrato antimafia proprio quando un ex boss della 'ndrangheta butta giù un memoriale che parla di rifiuti, spie e omicidi. Anno 1993, Vincenzo De Mare fa l'autotrasportatore conto terzi. Lavora anche con la "Latte Rugiada", azienda agroalimentare che ha i depositi in località Terzo Cavone (la stessa località dove il governo Berlusconi molti anni dopo avrebbe voluto impiantare il sito unico di stoccaggio per i rifiuti nucleari ndr.). Il 26 luglio, un killer lo aspetta nel suo podere di campagna. Spara due colpi e lo uccide. Anno 1994, l'ispettore Francesco Ciminelli - in forza al Commissariato di Scanzano prima di conquistare uno strano trasferimento in Calabria - mette il naso tra le bolle d'accompagnamento e i fogli di viaggio di Vincenzo De Mare. Tra questi ce ne sono alcuni di Terzo Cavone. Anno 2004, i carabinieri della compagnia di Policoro trovano tra i ruderi dell'azienda di Terzo Cavone 15 bidoni di plastica con materiale di risulta proveniente da industrie chimiche. Il caso viene ufficialmente riaperto. Felicia Genovese è un magistrato che non lascia trapelare indiscrezioni. In parallelo conduce l'inchiesta sulla presunta fuga di materiale nucleare dal centro di ricerche Enea (Ente per le nuove tecnologie, l'energia e l'ambiente) della Trisaia, a pochi chilometri da Rotondella. Ipotesi di reato: nel centro c'è stata una produzione illecita - non registrata in contabilità - di materiale radioattivo. Poi è arrivato il pentito, Francesco Fonti da Bovalino (Rc). Interrogato qualche anno prima, negli stessi uffici della Direzione distrettuale antimafia aveva dichiarato: «Sono collaboratore di giustizia dal 1994. Prima di tale scelta ero organico al clan mafioso dei Romeo di San Luca. Durante tutto l'arco della mia esperienza criminale, pur avendo dimorato a Melfi, non sono mai venuto in contatto con esponenti di organizzazioni criminali con base operativa in Basilicata». Poi, però, nel memoriale sostiene di essere entrato in contatto con Domenico Musitano, detto 'u fascista, in soggiorno obbligato a Nova Siri. Originario di Platì (Rc), viene indicato dal pentito come l'organizzatore del primo viaggio di rifiuti verso la Basilicata. Prima di portare a compimento il suo incarico viene ucciso in un agguato davanti al palazzo di giustizia di Reggio Calabria, dove si era recato per un'udienza. E' in questo scenario che potrebbe inserirsi l'omicidio di Vincenzo De Mare? Gli investigatori - per ora - sospettano che abbia rifiutato il trasporto di un carico di rifiuti. Uno sgarro che potrebbe aver pagato a caro prezzo. I carabinieri di Policoro - delegati per l'indagine - avrebbero ascoltato nuovamente la moglie. Ma ci sarebbero - particolare non confermato ancora da alcuna fonte ufficiale - anche altre persone sentite a sommarie informazioni testimoniali. E che la malavita lucana si occupasse di rifiuti lo sostengono anche i servizi segreti. «Secondo acquisizioni informative - si legge in una relazione del Sisde - le aggregazioni lucane hanno fatto registrare processi di consolidamento e di emulazione delle organizzazioni di stampo mafioso, con le quali mantengono importanti collegamenti. Sono emersi all'attenzione alcuni gruppi che sembrano aver compiuto un salto di qualità, pure attraverso il controllo di società operanti nella gestione del ciclo dei rifiuti». Sono gli anni delle inchieste importanti. A Matera, il sostituto procuratore Francesca Macchia scopre un traffico di rifiuti speciali stoccati in vari centri della Lombardia e destinati allo smaltimento finale in Basilicata. I rifiuti - sulla carta - venivano regolarmente avviati allo smaltimento in discariche autorizzate dalla Regione, ma la destinazione era solo apparente poiché i gestori - interrogati in fase d'indagine - negavano di averli ricevuti. Rientra tutto, poi, nella grande inchiesta di Nicola Maria Pace: rifiuti, spie e omicidi. Il magistrato in un'intervista aveva spiegato a un giornalista: «I servizi segreti sanno di cosa stiamo parlando io e lei in questo momento». Tutto sarebbe poi confluito nell'inchiesta della procura antimafia. Rifiuti, spie e omicidi.

Misteri lucani: Maria Antonietta Flora. Aveva 27 anni e insegnava in una scuola materna di Lagonegro, quando Maria Antonietta Flora scomparve, la sera del 10 novembre del 1984.  Era sposata con un dipendente dell’Enel e madre di due bambini piccoli. La donna era uscita di casa poco prima delle 19 con la sua automobile, un’Autobianchi A 112 di colore blu. Da quel momento in poi se ne persero le tracce. La donna avrebbe detto che usciva per andare a fare un’iniezione. Il giorno dopo l’automobile venne ritrovata in una piazzola di sosta dell’autostrada Salerno – Reggio Calabria, tra gli svincoli Sud e Nord di Lagonegro. Nell’automobile c’erano macchie di sangue, ma della donna nessuna traccia. Nonostante il cadavere non sia stato mai ritrovato, da subito maturò la convinzione che la donna fosse stata uccisa. I sospetti portarono al fermo di un giovane commerciante di carni di Lagonegro che divenne il principale indagato perché era invaghito della donna e avrebbe insistito per avere degli incontri amorosi con lei. Le indagini appurarono che il giovane l’aveva incontrata proprio quella sera nei pressi dello svincolo di Lagonegro Sud dell’autostrada. A confermarlo anche un suo amico. Sulla base di questi indizi, il giovane macellaio venne arrestato. Si ipotizzava che la donna avrebbe respinto le sue avances e per questo sarebbe stata uccisa. Dopo aver scontato due anni di carcere l’uomo venne dichiarato innocente dalla Corte d’Assise di Potenza. La sentenza fu confermata anche in secondo grado. In realtà si indagò anche su altri fronti che portavano ad un intreccio tra il passionale e interessi economici perché Maria Antonietta Flora avrebbe avuto una relazione con Domenico Di Lascio, noto imprenditore della zona, ucciso anche lui cinque anni dopo la scomparsa della maestra. Sembra che Di Lascio stesse per intestare alcuni beni a Maria Antonietta. Tutto poi, però, è rimasto senza spiegazione.

Misteri lucani, ancora irrisolto il caso della maestra Flora, scrive Pino Perciante su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. «Chi conosce la verità su mia sorella me la deve venire a dire. Quello che mi racconterà rimarrà tra me e questa persona. Non succederà nulla». Sembrano le parole di Filomena Iemma, la mamma di Elisa Claps. Ma questa volta chi parla è Rossana, sorella di Maria Antonietta Flora, la giovane maestra di Lagonegro scomparsa nel nulla 25 anni fa. Rossana dice di non credere nella giustizia perché sono passati venticinque anni senza che sia successo nulla. Ora che si pensa di far luce sui tanti misteri irrisolti della Basilicata, Rossana spera si possa far luce anche su quello di sua sorella. Maria Antonietta Flora scompare la sera del 10 novembre del 1984. All’epoca aveva 27 anni e insegnava in una scuola materna di Lagonegro. Sposata con un dipendente dell’Enel e madre di due bambini piccoli, la donna esce di casa poco prima delle 19 con la sua automobile: un’Autobianchi A 112 di colore blu. Da quel momento in poi se ne perdono le tracce. La donna avrebbe detto che usciva per andare a fare un’iniezione. Il giorno dopo l’automobile viene ritrovata in una piazzola di sosta dell’autostrada Salerno – Reggio Calabria, tra gli svincoli Sud e Nord di Lagonegro. Nell’automobile ci sono macchie di sangue, ma della donna nessuna traccia. Nonostante il cadavere non sia stato mai ritrovato, da subito la convinzione è che la donna sia stata uccisa. I sospetti portano al fermo di un giovane commerciante di carni di Lagonegro che diventa il principale indagato perché era invaghito della donna e avrebbe insistito per avere degli incontri amorosi con lei. Le indagini appurano che il giovane l’aveva incontrata proprio quella sera nei pressi dello svincolo di Lagonegro Sud dell’autostrada. A confermarlo anche un suo amico. Sulla base di questi indizi, il giovane macellaio viene arrestato. Si ipotizza che la donna avrebbe respinto le sue avances e per questo sarebbe stata uccisa. Ma quando ormai l’uomo ha scontato due anni di carcere viene dichiarato innocente dalla Corte d’Assise di Potenza. La sentenza viene confermata anche in secondo grado. In realtà si indagò anche su altri fronti che portavano ad un intreccio tra il passionale e interessi economici perché Maria Antonietta Flora avrebbe avuto una relazione con Domenico Di Lascio, noto imprenditore della zona, ucciso anche lui cinque anni dopo la scomparsa della maestra. Sembra che Di Lascio stesse per intestare alcuni beni a Maria Antonietta. Tutto poi, però, è rimasto senza spiegazione. “Ma io non mi sono rassegnata – dice Rossana -. Sono convinta che all’epoca le indagini sono state fatte in maniera molto approssimativa. Io non mi rivolgerei mai alla legge non metterei mai il caso in mano alla legge. Per questo sono delusa dalla legge e non mi rivolgerei mai alla giustizia. Per questa ragione dico che se qualcuno ha visto o sentito qualcosa qualcuno, spero che, in un momento di umanità, possa venire da me a raccontarmi la verità perché se mia sorella è morta ha diritto ad una degna sepoltura”. In Rossana oggi è presente la stessa rabbia di 25 anni fa, se non di più, ed è aumentata anche la voglia di sapere, nonostante del caso di sua sorella si sia parlato poco rispetto ad altri. «In 25 anni non si è mai parlato di mia sorella e questo non è certo dipeso solo dal volere di noi familiari. Potete capire il nostro trauma. Se ne dicevano tante di cose cattive su di lei, ma di buono mai niente. Certo, ci sono stati periodi in cui con la mia famiglia abbiamo avuto paura, perchè sicuramente dietro questa vicenda vi è qualcosa di brutto. Abbiamo cercato di proteggere i figli di Maria Antonietta, all’epoca molto piccoli. Ma ci siamo sentiti abbandonati da tutti, oltre che dalla giustizia anche dai nostri paesani. Maria Antonietta non è stata mai ricordata come persona o donna. L’otto marzo scorso grazie al professor Melchionda e a don Marcello Cozzi mia sorella è stata ricorda pubblicamente per la prima volta dopo venticinque anni. Tornando alla legge, all’epoca abbiamo dato tutte le informazioni possibili per arrivare alla verità, ma ci siamo resi conto che venivano messi in campo degli episodi che deviavano il percorso da noi indicato. Questo ci ha fatto molto male e ci ha isolati ancora di più, ed in noi è venuta meno la fiducia nella legge. Ma non mi arrendo. Credo nella giustizia divina e, quindi, sono convinta che prima poi la verità salterà fuori come è successo per Elisa Claps, e cioè non per merito della legge».

Lascia intravedere verità oscure Rossana Flora nella lettera data alla Gazzetta del Mezzogiorno per ricordare sua sorella, Maria Antonietta, scomparsa nel nulla 27 anni fa a Lagonegro. Non è la prima volta da quando la vicenda è tornata alla ribalta, anche sull’onda mediatica del caso Claps. Infatti, di recente, don Marcello Cozzi, proprio durante la manifestazione svoltasi il 10 novembre scorso a Lagonegro per ricordare la giovane maestra, si è detto convinto che il corpo di Maria Antonietta, sebbene non vi siano prove, si trovi proprio a Lagonegro. A suo dire, converrebbe andare a scavare nella località «Cazzivella», dove la donna sarebbe stata vista per l’ultima volta prima che di lei si perdesse ogni traccia. Ecco la lettera.

Ciao sorellina, sono trascorsi tantissimi anni ma il ricordo di te è nitido. I tuoi bei lineamenti, quegli occhi grandi, espressivi. Una persona intelligente, colta, di una dolcezza straordinaria, non per niente insegnavi ai bambini piccoli. Questo nessuno lo sa, non si sono mai chiesti chi eri. Una mamma giovanissima, che si dedicava ai suoi figli con amore e dedizione. Poi un giorno... Con la nascita si ha diritto alla vita, a te l'hanno tolta a soli 27 anni. Ero ritornata il giorno stesso da Salerno, dove per motivi di salute ero stata ricoverata un bel periodo. Sentii bussare alla porta violentemente, nostra sorella con poche e precise parole mi comunicò la tua scomparsa. Da quel preciso istante l'inizio del calvario. Disperazione, rabbia, impotenza, un dolore lancinante. Perchè? Cosa ti hanno fatto? Dove ti hanno portata o buttata come un animale? Ricerche vane e inutili. Sottoposti a continui interrogatori come se fossimo stati noi gli indagati. Non c'è stato un minimo di rispetto. Notizie buttate lì infangandoti con vera cattiveria, senza tener conto nemmeno della sofferenza dei tuoi bimbi, che da quel giorno non hanno più pronunciato la dolce parolina «mamma». Quanta solitudine. Ricordo persone, che puntando il dito per indicare dicevano: «ecco, quella è la sorella della scomparsa», non ci chiamavano neanche più per nome. La poca delicatezza nell'esprimere la propria immaginazione «l'hanno bruciata viva» o «è stata messa in un pilastro di cemento» ecc... Spaventoso. Il tempo passava ma di te nessuna traccia. Indagini depistate, procuratori pronti a lottare ma allontanati dalla mattina alla sera, tracce che portavano alla verità, sparite. Perchè? Non volevano trovarti. Iniziarono a morire le prime speranze quando furono trovate tracce di sangue nella tua macchina. Tutti i giorni le mie domande erano le stesse «perchè? quanto male ti hanno fatto quelle bestie che si sono accanite su di te, giovane donna? quanto hai sofferto? quanta paura e terrore». La morte è liberatoria, il non sapere è una condanna a morte che non arriva mai. Il dolore più grande è che hanno fatto di tutto per toglierti la dignità infangandoti senza dare importanza a quello che realmente era accaduto. Pensa chi ti ha giudicato, un «avvocato» di Lagonegro che, al processo a Potenza, senza tener conto della presenza di tuo marito e dei tuoi familiari ti ha descritto «una donna alla portata di tutti». Mi viene da ridere! Oggi dov'è questa persona che ti ha giudicato? Avevo solo 18 anni, da sola non sarei stata in grado di smuovere una montagna. Ascolta questo grazie a Don Marcello Cozzi ed il professor Melchionda, due persone a me care, ho cercato di ricordarti, di sensibilizzare la gente di Lagonegro, in occasione dell'8 marzo «festa della donna» con una manifestazione intitolata «una mimosa per Mariantonietta». Pensa la mia gioia dopo 25 anni potevo finalmente salire su di un palco e dire a tutti ciò che avevo dentro e finalmente parlare di te come persona, come donna, come madre. C'era la mamma della piccola Elisa, altri familiari di persone scomparse, persone di Potenza, Nemoli, Lauria. E i lagonegresi e i politici del paese? A vedere una sfilata di moda. Pochi i tuoi paesani a partecipare ma quei pochi mi hanno trasmesso tanta solidarietà. Questo è il tuo paese che ha dimenticato troppo presto una sua figlia. A testa alta continuerò a parlare di te, dolce sorellina. Ricordo le nostre lunghe chiacchierate, le sigarette fumate alla finestra. Il destino ha voluto che non mi trovassi li con te, forse sarebbe andata diversamente. L'ultima immagine che ho di te è di quando sulle scale di casa di mamma, mentre partivo per l'ospedale di Salerno, mi hai detto tra le lacrime «vai tranquilla, andrà tutto bene, ti chiamerò tutti i giorni». Quanto ho amato quella sorella che tanto si preoccupava per me. Chi avrebbe immaginato che al mio rientro... Adesso sono io a dirti con le lacrime agli occhi «un giorno sapremo la verità» avrai una dignitosa sepoltura e finalmente ti porterò quella mimosa. Tu vivrai sempre in me. Ti amo. Ciao sorellina, a presto. Rossana

Clamoroso: si riapre il caso della maestrina scomparsa, scrive Pino Perciante su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il colpo di scena è clamoroso e potrebbe riscrivere per intero l’ultimo capitolo di uno dei tanti misteri lucani. I carabinieri di Lagonegro sono in possesso di elementi per far riaprire, dopo trent’anni, il caso di Mariantonietta Flora, la maestra di Lagonegro, scomparsa nel nulla la sera del 10 novembre del 1984. La notizia è stata confermata ieri mattina negli ambienti giudiziari. Il procuratore Vittorio Russo a breve si metterà al lavoro per valutare se le novità raccolte dai carabinieri sono tali perché quel fascicolo chiuso trent’anni fa senza una verità oggi possa essere riaperto. Tutto è coperto, comprensibilmente, dal segreto più assoluto. Nessun commento, quindi. Bisogna approfondire. Bisognerà fare delle valutazioni anche alla luce del risultato del processo che ci fu a suo tempo e che si concluse con l’assoluzione dell’unico imputato. La svolta clamorosa, però, è sul tavolo. E in un attimo i fatti di quel 10 novembre di trent’anni fa tornano sotto i riflettori. Non ci sono ancora indagati ma è presumibile che presto ce ne possano saranno in base alle novità che potranno emergere dalle indagini. Che più di qualcosa non fosse andato proprio come avevano ricostruito le indagini ufficiali dell’epoca lo si è sempre detto e soprattutto scritto. Interviste e inchieste giornalistiche, nel tempo, hanno messo in fila circostanze, fatti e dettagli in contraddizione tra di loro, se non letteralmente privi di senso. Ed è proprio partendo da quei dettagli che le indagini dei carabinieri sono ripartite. Ieri mattina i militari hanno informato degli elementi raccolti il procuratore di Lagonegro che ora dovrà valutare se far partire la nuova inchiesta. Il lavoro della procura non sarà facile. Come detto occorrerà ripartire nell’inchiesta tenendo conto degli sviluppi che hanno portato alle conclusioni del processo già celebrato. La nuova indagine riparte anche da un inchiesta condotta dalla Gazzetta qualche anno fa su alcuni «buchi» nelle indagini svolte all’epoca. Lacune sottolineate, più volte, anche dall’associazione «Libera». Tra queste, il sangue nell’auto che non fu mai chiarito con certezza a chi appartenesse. Il perito dell’epoca concluse parlando solo di «elevata probabilità». Poteva trattarsi del gruppo «zero», ossia quello della Flora. A ciò si aggiungono le impronte non prelevate. Ci sono poi le versioni contrastanti dei vari testimoni e indagati che prima dicono, poi ritrattano, poi ridicono.

«Sto guardando le carte e poi deciderò se chiedere al gip di riaprire il fascicolo», dice il procuratore capo di Lagonegro Vittorio Russo, scrive Pino Perciante su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Le carte a cui fa riferimento il magistrato sono quelle del caso della scomparsa di Maria Antonietta Flora, la maestrina di Lagonegro. Si riaccendono, quindi, i riflettori della magistratura sulla vicenda della maestrina sparita nel nulla un quarto di secolo fa. Il capo della Procura di Lagonegro dice che deve guardare le carte, ma in pratica la nuova indagine è già iniziata e si stanno muovendo anche i carabinieri per capire se ci sono gli estremi perché quel fascicolo chiuso senza una verità possa essere riaperto. Il tutto sulla scia delle notizie pubblicate una settimana fa dalla Gazzetta, in cui si faceva riferimento, in particolare, ad alcuni «buchi» nelle indagini svolte all’epoca. Lacune sottolineate anche da don Marcello Cozzi, referente di Libera in Basilicata. Tra queste, il sangue nell’auto che non fu mai chiarito con certezza a chi appartenesse. Il perito dell’epoca concluse parlando solo di «elevata probabilità». Poteva trattarsi del gruppo «zero», ossia quello della Flora. A ciò si aggiungono le impronte non prelevate. Ci sono poi le versioni contrastanti dei vari testimoni e indagati che prima dicono, poi ritrattano, poi ridicono. Sono questi gli elementi contenuti negli articoli pubblicati una settimana fa che hanno spinto il capo della Procura di Lagonegro, Vittorio Russo, a cominciare un’attenta rilettura dei fascicoli del caso Flora per capire se c’è ancora la possibilità, dopo 26 anni, di venire a capo di uno dei tanti misteri lucani. Nonostante il corpo della donna non sia stato mai ritrovato, la convinzione degli investigatori, da subito, è che la donna sia stata uccisa. I sospetti portano all’arresto del commerciante di carni Biagio Riccio, di Lagonegro, con il quale la Flora da tempo si sentiva per telefono. I due si sarebbero incontrati proprio la sera in cui la donna è scomparsa (sabato 10 novembre 1984), anche se lui sostiene di averla incontrata il giorno prima. La donna avrebbe respinto le avances di Riccio che in un impeto passionale l’avrebbe uccisa. Quando l’uomo ha ormai scontato due anni di carcere viene dichiarato innocente. Dopo la sua assoluzione tutto è rimasto senza una spiegazione e il caso a poco a poco si è chiuso fino all’archiviazione. Ma ora non si esclude che possa essere riaperto. Gli investigatori sperano che salti fuori anche qualche elemento nuovo che possa attribuire nuovo smalto alle piste investigative seguite nel 1984. Se Maria Antonietta è stata uccisa, chi poteva volere la morte di una giovane maestra elementare sposata con un impiegato dell’Enel? In realtà la vita di Maria Antonietta non era così tranquilla come poteva sembrare. Maria Antonietta, oltre a sentirsi con Riccio, era anche l’amante del noto imprenditore Domenico Di Lascio, ucciso anche lui a distanza di cinque anni. A Maria Antonietta, l’uomo stava intestando alcuni beni perché i due avevano deciso di andare a vivere insieme. Ma non è da escludere che la donna possa aver visto o sentito qualcosa che non doveva e per questo sia stata fatta sparire. La scomparsa della donna è stata spesso accostata all’assassinio di Domenico Di Lascio. Anche qui ci sono dei alti oscuri. La sera in cui viene ucciso, l’11 gennaio del 1989, Di Lascio si trova nel suo mobilificio al Lago Sirino per controllare i documenti aziendali con gli incassi della giornata. Gli esecutori del delitto non avrebbero forzato alcuna porta per entrare. Avevano le chiavi? Inoltre anche il calibro delle pistole utilizzate (una 6. 35 e una 7. 65) farebbe pensare non proprio all’opera di professionisti del crimine. Ma questo potrebbe essere anche un tentativo di depistaggio.

C'è un nesso tra l'omicidio di Di Lascio e la scomparsa di Maria Antonietta Flora? Si chiede Pino Perciante su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. C’entra qualcosa il caso di Maria Antonietta Flora con l’omicidio di Domenico Di Lascio, avvenuto a Nemoli, cinque anni dopo la scomparsa della giovane maestra? Difficile dirlo, anche perché le indagini non sono approdate a nulla in tutti questi anni, sia in un caso che nell’altro. Fatto sta che la sera dell’11 gennaio 1989 Domenico Di Lascio si trova nell’ufficio vendite del suo mobilificio dove è solito trattenersi per controllare i documenti aziendali con gli incassi della giornata. L’uomo sta parlando a telefono con una donna con cui da tempo aveva una relazione sentimentale, quando all’improvviso due persone entrano e fanno fuoco. I tre colpi di pistola che gli vengono sparati contro appartengono a due armi diverse: una calibro 6. 35 e una calibro 7. 65. Dall’altra parte del telefono si sente solo un forte rumore. E subito scatta l’allarme. La donna con cui Di Lascio stava parlando a telefono, chiama al bar dell’albergo di proprietà di Di Lascio a avverte: “Salite sopra. E’ successo qualcosa a don Mimì”. Partono i soccorsi. Lo spettacolo è agghiacciante. Domenico Di lascio è riverso a terra in una pozza di sangue. Prima di perdere i sensi pronuncia qualche parola e, a gesti, forse lascia capire che sono state due persone a sparargli. La corsa in ospedale poi il coma e infine in poco tempo la morte: il 5 febbraio, dopo essere stato ricoverato nell’ospedale San Carlo di Potenza. A Lagonegro gli investigatori si mettono al lavoro la stessa notte dell’agguato. La pista che per prima viene seguita riporta la mente indietro nel tempo di cinque anni, alla scomparsa di Maria Antonietta Flora perché nel corso delle indagini gli investigatori appurano che Domenico Di Lascio aveva una relazione con la giovane maestra, scomparsa il 10 novembre del 1984. Di Lascio però non fu mai coinvolto nell’inchiesta sulla scomparsa della Flora. Cosa accade però la notte dell’11 gennaio del 1989? Gli investigatori procedono per tentativi, ma non si giunge a nessuna conclusione. Nel 2003 sembra arrivare la svolta nel giallo del Lago Sirino con l’arresto di tre pregiudicati campani accusati di essere i responsabili dell’omicidio dell’imprenditore nemolese. Gli investigatori erano giunti ai tre salernitani sulla base delle rivelazioni di un collaboratore di giustizia. Ma nel mese di novembre del 2008 il giallo del Lago Sirino è di nuovo senza soluzione: il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Potenza proscioglie i tre pregiudicati campani. Tutto daccapo. L’omicidio Di Lascio ancora oggi resta senza colpevoli. Uno dei tanti misteri lucani.

Manca solo un tassello - quello sul quale è scritto il nome del mandante (che gli investigatori credono avere a portata di mano) - per considerare chiuso il caso dell'omicidio di Domenico Di Lascio, ucciso la sera dell'11 gennaio 1989 nell' ufficio vendite del suo mobilificio, a Nemoli (Potenza), cinque anni dopo la scomparsa di Maria Antonietta Flora, con la quale l'imprenditore aveva avuto una relazione sentimentale extraconiugale, scrive “Informazione Campania”. I carabinieri del comando provinciale di Potenza hanno arrestato nel Salernitano tre uomini, considerati gli esecutori del delitto: Antonio Nobile, di 63 anni, di Giffoni Valle Piana, che è agli arresti domiciliari e ingaggiò i due sicari: Giovanni Ferraioli (54), di Siano, e Felice Fortunato (50), di San Marzano sul Sarno. Furono proprio Ferraioli e Fortunato - secondo l'accusa - ad entrare la sera dell'11 gennaio dell'89 nel mobilificio di Di Lascio e a sparargli contro alcuni colpi con pistole calibro 6,35 e 7,65. Quest'ultima arma si inceppò e solo dalla prima partirono due proiettili: uno colpì l'imprenditore al braccio sinistro, l'altro - quello mortale - alla testa. Di Lascio morì il 5 febbraio nell'ospedale di Potenza, senza riprendere conoscenza. Le indagini non portarono a nulla: sospetti, ma niente di concreto. Di Lascio fu ferito mentre parlava al telefono con una donna con la quale aveva avviato una relazione extraconiugale: fu lei a sentire dei rantoli e a chiedere aiuto. L'imprenditore non riuscì a dire nulla, forse fece soltanto capire ai suoi soccorritori, con un gesto, che erano stati in due a sparargli. L'omicidio dell'imprenditore si intrecciò subito con un altro ''giallo'', tuttora irrisolto: la scomparsa di Maria Antonietta Flora. La sera del 10 novembre 1984 (cinque anni prima del delitto Di Lascio) la donna, insegnante elementare, sposata e madre di tre figli, esce di casa, a Lagonegro (Potenza), per andare dal padre. Sparisce nel nulla: la sua auto viene ritrovata ferma su una piazzola di sosta dell'autostrada Salerno-Reggio Calabria. All' interno, alcune macchie del sangue della donna. Nient' altro. Flora aveva una relazione con Domenico Di Lascio e fu inevitabile - quando l'imprenditore fu ucciso - mettere accanto le due vicende e cercare punti di contatto. Su entrambe, pero, il tempo passato ha portato il silenzio, tanto più che l'uomo accusato di aver ucciso Maria Antonietta Flora, un giovane ragioniere che la corteggiava, fu assolto dopo due anni di detenzione. La svolta arriva nel 2001. Un collaboratore di giustizia parla del delitto Di Lascio con un magistrato della Procura della Repubblica di Salerno: un anno fa, ripete le stesse cose e, anzi, le approfondisce e le spiega con il pubblico ministero della Procura della Repubblica di Potenza, Claudia De Luca. Il pentito racconta che era stato ingaggiato per uccidere Domenico Di Lascio: l'uomo intasca 25 milioni di lire ma quando è tutto pronto per sparare all'imprenditore viene arrestato. Mentre è in carcere, Di Lascio viene ucciso. Rimesso in libertà, il collaboratore di giustizia apprende i particolari del delitto e chi lo aveva eseguito (per circa 30 milioni). Sul movente, De Luca e il maggiore Nazzareno Zolli, comandante del reparto operativo del comando provinciale di Potenza dei Carabinieri, hanno detto ai giornalisti di non poter aggiungere nulla: di sicuro, Di Lascio è stato ucciso per impossessarsi del suo vasto patrimonio. Ma le indagini sono orientate ora nella famiglia dell'imprenditore: la gelosia (scatenata dalle diverse relazioni extraconiugali di Di Lascio) può avere avuto un ruolo nella vicenda: ''Abbiamo buoni elementi'', si è limitata a dire De Luca. Ma le indagini tendono a ripercorrere anche la scena del delitto e i personaggi che si mossero attorno a Di Lascio quella sera: per i killer fu troppo facile arrivare all'ufficio vendite, sparare all'imprenditore e sparire nel nulla. Forse, qualcuno li aiutò.

Quando Di Lascio sospettò della moglie, continua Pino Perciante. Domenico Di Lascio sospettò della moglie per la scomparsa di Maria Antonietta Flora. E’ quanto emerge dalla sentenza di secondo grado che scagiona Biagio Riccio. Nei giorni successivi alla scomparsa della maestra, l’uomo, secondo il suo stesso racconto, avrebbe tormentato la moglie ritenendola responsabile dell’accaduto. Emerge anche che la moglie di Di Lascio avversava la relazione extraconiugale del marito in ogni modo, giungendo anche a importunare per telefono la maestrina e, allo stesso tempo, cercando nel marito della giovane maestra un alleato nell’azione di disturbo. Ma Di Lascio le aveva ribadito più volte la propria irremovibile decisione di andare a vivere con Maria Antonietta. La moglie dell’imprenditore, sempre secondo quanto emerge dalla sentenza della Corte d’Assise d’Apello, conferma le parole del marito sostenendo di aver fatto di tutto per ostacolare la relazione extraconiugale del coniuge, salvo poi rassegnarsi successivamente. E dal quel momento non aveva telefonato più alla Flora, mentre i contatti con il marito della maestra sarebbero cessati circa 6-7 mesi prima di quel sabato 10 novembre 1984. Si tratta però solo di sospetti che emersero all’epoca. Perché la moglie di Di Lascio non è stata mai coinvolta nell’inchiesta sulla scomparsa della maestra. E gli accertamenti sul suo conto, effettuati dagli inquirenti, non sono approdati a nulla. Il 10 novembre del 1984 Maria Antonietta Flora, che allora aveva 27 anni, sposata, due figli, sparisce nel nulla. Intorno alle 19 di quel giorno esce di casa diretta all’abitazione dei suoi genitori per farsi praticare un’iniezione dalla cognata. Ma in realtà a casa dei genitori non arriverà mai. Alle 17. 30 di quello stesso giorno a casa della Flora arriva una telefonata misteriosa raccolta da uno dei due figli della donna al quale una voce dall’altro lato della cornetta dice: «Sono papà, passami mamma». L’auto della donna, una A 112, viene rinvenuta alle 13.30 dell’11 novembre del 1984 ferma in una piazzola di sosta della corsia nord dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, in località “Carconi”. All’interno ci sono tracce di sangue sullo sportello lato guida, sul blocco di accensione dell’auto, sul bordo superiore dello sportello lato guida all’interno e all’esterno, sul paraurti posteriore sinistro. Stranamente nessuna traccia di sangue viene rinvenuta sull’asfalto circostante. Due agenti di custodia in transito sull’autostrada notano l’auto «non più tardi delle 20.40». Alle 13. 05 due agenti che transitavano in servizio di pattuglia si fermano su segnalazione del marito e del padre di Maria Antonietta giunti nel frattempo sulla piazzola di località “Carconi”. Il marito della maestra alle 3. 20 della notte aveva già denunciato la scomparsa della moglie. Il pm di Lagonegro, dopo il sequestro della A 112, dispone la perizia sulle macchie di sangue. Nel frattempo arrivano anche alcune telefonate di natura estorsiva al marito della maestra. Altre due telefonate in cui ignoti affermano di avere una donna nelle loro mani arrivano ad una radio privata il 12 novembre. Ma l’ipotesi di un rapimento viene scartata. Così come sembra improbabile una fuga. Dopo alcuni mesi gli investigatori appurano l’esistenza di una relazione tra la Flora e Riccio. Il 3 febbraio del 1986 per la prima volta i carabinieri ventilano l’ipotesi di un coinvolgimento di Riccio nell’omicidio. È l’ultima persona a vedere la giovane maestra viva in località Cazzivella. Vengono disposte intercettazioni telefoniche sulle sue utenze e su quelle di alcuni suoi amici. Comincia a questo punto il valzer delle cose dette, ritrattate e poi ancora confermate che porterà sotto inchiesta anche un amico di Riccio, Guerino Buldo per favoreggiamento personale. Anche lui sarà assolto. Per i giudici della Corte d’Assise d’Appello di Potenza la scomparsa di Maria Antonietta Flora e l’omicidio di Domenico Di Lascio, colpito da arma da fuoco l’11 gennaio del 1989, non sono collegati. I difensori della parti nel processo che si svolse a carico di Riccio e Buldo avevano chiesto di unire i due fascicoli. Ma nelle motivazioni della sentenza pronunciata il 22 novembre del 1991, la Corte osserva, in via preliminare, che «non sussistono palesi e concreti elementi di collegamento» tra le due vicende.

Le confidenze del pentito, scrive Fabio Amendolara su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. «Quell’omicidio dovevo commetterlo io per cinquanta milioni di lire». Mario Ursolino, ex boss del clan Tempesta di Angri, svela ai magistrati della Procura antimafia di Salerno che una donna aveva commissionato l’omicidio di Domenico Di Lascio, l’imprenditore del Lago Sirino ucciso a colpi di pistola nel suo ufficio 21 anni fa. Le dichiarazioni di Ursolino, mai pubblicate prima, sono contenute in un verbale che la Gazzetta ha potuto consultare. Il magistrato che lo interroga è Luigi D’Alessio, uno dei pm del pool che indaga sull’omicidio di Elisa Claps. «Ci tengono molto a questo omicidio di Lagonegro», dice Ursolino. Il pm gli chiede: «Ma lo avete commesso voi?». Lui risponde: «Io ci sono andato... sono andato a valutare... lo dovevo commettere io... la fortuna è che poi sono stato arrestato e non ho potuto». Ma chi contattò Ursolino per commissionargli l’omicidio? Racconta il pentito: «Mi chiamò una persona di mia fiducia e mi chiese se volevo fare un lavoretto a Lagonegro per cinquanta milioni di lire. Mi dice che c’era questa persona che aveva un mobilificio... che era un... un femminaiuolo». Ma chi voleva la morte di Mimì Di Lascio? Secondo Ursolino «una donna... c’era una donna che se lo voleva togliere di torno». Il movente? «Gelosia», dice il pentito. Ma anche per soldi: «Questo aveva macchine, aveva tutto... un mobilificio tanto grande... questo era miliardario». Ursolino partecipa al sopralluogo. Studia i movimenti di Mimì. Ma prima di commettere il delitto viene arrestato. Quelli che aveva indicato come suoi complici sono stati processati e assolti. La donna di cui parlava, però, venuto meno Ursolino, potrebbe aver ingaggiato altri killer. È tra le amanti di Mimì il mandante?

Elisa Claps, 23 anni di mistero su cui ha osato Amendolara. Ne parliamo col cronista che indagò sul caso, risultando scomodo anche alla Procura. Aveva solo 16 anni quando, il 12 settembre del 1993, scomparve nella sua Potenza. Il suo corpo fu ritrovato 17 anni dopo, nel 2010, nel sottotetto della chiesa della Santissima Trinità, nel capoluogo lucano. Per la sua scomparsa e la sua morte è stato riconosciuto colpevole l'amico Danilo Restivo, scrive Leonardo Pisani su “Il Mattino di Foggia” il 12 settembre 2016. Le indagini non hanno mai convinto del tutto Fabio Amendolara che dalle pagine de "La Gazzetta del Mezzogiorno" si spinse talmente oltre le nebbie di quel mistero da suscitare la pesante reazione degli inquirenti che lo accusarono di aver rivelato informazioni riservate (la stessa accusa prefigurata dall'art. 326 del Codice Penale per la violazione dei segreti di Stato) e disposero nel 2012 la perquisizione della redazione del giornale e della casa del cronista, sottoponendolo ad un interrogatorio in Questura durato sei ore. Nel ricordare la tragica fine di Elisa, la disponibilità di Fabio ci offre anche l'opportunità di approfondire l'importanza del giornalismo investigativo che lo impegna a scandagliare, sulle pagine di "Libero", tanti altri misteri di cronaca italiana; per ultimo il suicidio sospetto del brigadiere Tuzi a Arce, in Ciociaria, a cui ha dedicato il suo recente libro "L'ultimo giorno con gli Alamari".  

Amendolara, il 12 settembre 1993 scompare Elisa Claps. Una data che è una ferita a Potenza ma non solo ed è una ferita ancora aperta.

«È una ferita aperta perché la giustizia non ha saputo dare risposte logiche e convincenti. Non basta consegnare alla piazza il mostro Danilo Restivo per dire il caso è chiuso, rassegnatevi, metteteci una pietra sopra. Finché non verrà fatta luce su chi ha coperto Restivo, permettendo che i resti di Elisa rimanessero per 17 anni nel sottotetto della chiesa della Trinità, la ferita non potrà rimarginarsi»

Ti sei occupato del caso e Elisa è ritornata poi in altre indagini che hai svolto: notizie false, depistaggi, poi il ritrovamento nella Chiesa della Trinità. Questo pone due domande: per prima cosa, come mai tante verità negate e, seconda cosa poi, il giornalismo investigativo ha ancora senso in Italia? Spesso si assiste alla spettacolarizzazione delle tragedie ma non alla ricerca della verità.

«La spettacolarizzazione fa male alle inchieste giudiziarie tanto quanto a quelle giornalistiche. Il giornalismo investigativo, quello vero, quello che scova nuovi testimoni, che segnala errori e omissioni nelle indagini, che impedisce agli investigatori di girarsi dall'altra parte e di chiudere gli occhi, ha ancora senso e va riscoperto. Ecco, se ci sono tante verità negate dipende anche dal fatto che la stampa molla i casi troppo presto. Senza pressione mediatica gli investigatori si sentono liberi di non agire».

Quanti casi ancora irrisolti e cito solo la nostra Basilicata: la piccola Ottavia De Luise di Montemurro e Nicola Bevilacqua di Lauria. Ma esiste una giustizia di serie A e una giustizia di serie B?

«Purtroppo esiste. Era così ai tempi della piccola Ottavia ed è così ancora oggi»

Allo stesso tempo: esiste una copertura mediatica di serie A per alcuni casi e l’indifferenza per altri?

«Le Procure e gli investigatori dettano la scaletta. Grazie alle fughe di notizie si tengono buoni i giornalisti che, così, ottenuta in pasto la classica velina, non cercheranno notizie scomode. L'informazione è facile da orientare»

Però, Fabio, domanda brutale: trovi difficoltà nelle tue inchieste?

«Le difficoltà che trovano tutti i giornalisti che non si accontentano delle verità preconfezionate. Nel caso di Elisa Claps ad esempio avevo dimostrato che la Procura di Salerno aveva temporeggiato troppo nel chiedere l'arresto di Restivo ma anche che aveva fatto scadere i termini delle indagini preliminari tenendo fermo il fascicolo. La reazione è stata dura: una perquisizione in redazione, nella mia auto e nella mia abitazione. Risultato: mi hanno messo fuori gioco per un po'. Tutte le mie fonti erano scomparse, per paura di essere scoperte»

Penso al tuo ultimo libro: «L’ultimo giorno con gli Alamari: il suicidio sospetto del brigadiere Tuzi a Arce in Ciociaria”. Anche quando lo hai presentato in Basilicata o in Puglia ha attirato attenzione; quindi alla fine il lettore o il pubblico è sensibile a queste tematiche di giustizia negata o, addirittura, di mancanza di vere indagini ufficiali? 

«I cittadini non si accontentano mai di false verità o di ricostruzioni illogiche e contraddittorie. Finché non si fornisce loro una ricostruzione credibile - sia essa giudiziaria o anche giornalistica - continueranno a porsi domande su come sono andate davvero le cose. Il caso Claps ne è un esempio lampante. A sei anni dal ritrovamento ci sono ancora manifestazioni pubbliche per chiedere verità e giustizia. E ci saranno finché la storia non verrà raccontata in tutti i suoi particolari».

Il Caso Donato Cefola, scritto da Fabio Amendolara l'11 agosto 2016. Barile, 1997, 11 novembre. Un uomo con il volto coperto fa salire su un furgone un ragazzino di 16 anni, lo uccide con un colpo di pistola alla nuca e butta il corpo in un dirupo a quattro chilometri dal paese. Poi chiede il riscatto al padre. Sono passati quasi 20 anni. A Donato Cefola hanno intitolato uno stadio e un premio letterario. Ma la Basilicata l’ha dimenticato. Ogni volta che c’è un incontro pubblico sulla legalità saltano fuori i nomi dei casi che hanno ferito al cuore questa regione. Tutti. Tranne quello di Donato. E a dire il vero è l’intera stagione dei sequestri ad essere stata cancellata dalla storia. In quanti ricordano il rapimento di Paul Getti Junior? E quello dell’imprenditore di Massafra Cataldo Albanese ritrovato poi a Metaponto? E quello dell’industriale di Legnano Vittorio Colombo? Hanno tutti a che fare in qualche modo con la Basilicata. Come il “rapimento” del gioielliere siciliano Claudio Fiorentino, il cui riscatto viene recuperato a Maratea nel serbatoio di un’auto guidata da un diplomatico maltese (intrigo ancora tutto da esplorare). Nulla in comune con il caso del piccolo Donato, rapito invece da balordi con l’aiuto di un commerciante in disgrazia che era anche un vicino di casa. Era coinvolta anche una “telefonista”, una donna che – stando alla ricostruzione fatta all’epoca dagli investigatori – avrebbe attirato Donato nella trappola. Uno dei sequestratori improvvisati uccide Donato, “involontariamente”, disse durante il suo interrogatorio. Poi cercò di giustificarsi dicendo che i mandanti erano criminali di Cerignola. Nei fascicoli di quell’inchiesta non c’è traccia di criminalità organizzata. C’è la prova invece della follia di chi voleva rapire Donato per chiedere un riscatto e invece l’ha ucciso. A Barile si precipitano gli inviati dei grandi quotidiani nazionali. Le cronache sono di Fulvio Bufi sul Corriere della Sera e di Pantaleone Sergi su Repubblica (uniche tracce online di quanto accadde 19 anni fa). Donato raggiunge Venosa, dove frequenta il secondo anno di ragioneria, insieme al papà (che lavora lì in banca). Lì entra in scena “l’uomo del Fiorino”. L’amico, al bar Prago, gli parla forse di una donna, una donna che da 15 giorni “insegue” per telefono Donato. Lo studente cade nella rete. Sale sul Fiorino e va incontro alla morte. Sul tragitto spunta l’uomo con passamontagna e pistola. Donato viene legato e imbavagliato. Poi viene buttato nel vano di carico. Riconosce anche l’uomo col passamontagna, tenta di liberarsi, minaccia, tanto che il rapitore ha paura – è la ricostruzione del quotidiano la Repubblica – e lo uccide con un colpo alla nuca a sangue freddo? Oppure, come raccontano i due fermati, il colpo parte accidentalmente? Sta di fatto che i due portano il cadavere in località Catavatta di Barile. Senza però demordere tentano di ottenere un riscatto. Uno dei due, nel primo pomeriggio, mette un foglietto sotto il tergicristalli della Panda del papà di Donato: “Prepara quattrocento milioni o venderemo tuo figlio ai trafficanti di organi umani”. Tre stili di scrittura, tre penne di colore diverso, verde rosso e blu. Scatta l’allarme. Il vicino di casa di Donato viene bloccato. Stretto al muro delle contestazioni ammette. Crolla anche il complice e si arriva al cadavere. Donato è stato ucciso da balordi. Il caso è chiuso. Per sempre.

Breve storia della procura di Potenza. Quella famosa per Henry John Woodcock, il controverso magistrato che per anni ne è stato il simbolo, e che secondo Renzi «non arriva mai a sentenza», scrive “Il Post” il 6 aprile 2016. Nel corso dell’ultima direzione nazionale del PD, il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha fatto un commento molto duro sulla procura di Potenza, quella che sta conducendo le indagini sulle infrastrutture petrolifere della Basilicata che hanno portato alle dimissioni del ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi. «Le indagini sul petrolio in Basilicata si fanno ogni quattro anni», ha detto Renzi: «E non vanno mai a sentenza». Proprio mentre parlava, i giudici del tribunale di Potenza erano in riunione da oltre tre ore. Poco dopo le 16 hanno annunciato la sentenza di un’inchiesta sugli appalti legati al petrolio iniziata nel 2008. Sono state condannate nove persone: ex dirigenti della società petrolifera Total, imprenditori e politici locali. Altre 18 sono state assolte. Poco dopo Renzi ha precisato che intendeva dire che le sentenze partite da Potenza non vanno mai a “sentenza definitiva”. Dopo otto anni dall’inizio delle indagini il processo è arrivato soltanto al primo grado e buona parte delle condanne saranno probabilmente prescritte. Il tribunale di Potenza, infatti, è uno dei più lenti d’Italia, ma anche uno di quelli più sotto organico. Con il 62,7 per cento di processi penali che durano più di due anni, Potenza è al 131° posto sui 133 tribunali che hanno risposto al censimento della giustizia penale realizzato nel 2014 dal ministero della Giustizia. Ma Potenza è anche uno dei tribunali con la percentuale più alta di incarichi scoperti. A novembre del 2014 mancavano a Potenza otto magistrati: il 24 per cento della pianta organica prevista: la media nazionale è al 14 per cento. Potenza è il 110° tribunale con più posti vacanti su 139. A Potenza, inoltre, parecchie indagini finiscono con l’archiviazione ancora prima di arrivare al processo: i giudici per le indagini preliminari (GIP) archiviano il 74,3 per cento delle indagini. In questa classifica, Potenza è in “buona compagnia” insieme a tribunali molto più prestigiosi: i GIP del tribunale di Roma, per esempio, archiviano più o meno la stessa percentuale di procedimenti e quelli del tribunale di Torino una percentuale addirittura superiore. La situazione di Potenza è simile a quella di molti altri piccoli tribunali del sud. Secondo Leo Amato, giornalista del Quotidiano della Basilicata che segue la cronaca giudiziaria, in Basilicata c’è un problema in più: il petrolio. «C’è un grosso divario tra le forze di cui dispone il tribunale di Potenza e la dimensione delle risorse che circolano nella regione». L’estrazione petrolifera e la presenza di grandi società internazionali portano grossi afflussi di denaro e spesso, nel clima clientelare della politica locale, si è sospettato che questi soldi fossero stati usati in maniera illecita. Le indagini su questi temi però sono complicate e i processi lo sono ancora di più: «A Potenza non ci sono le risorse per affrontare un maxi-processo come per esempio quello dell’ILVA di Taranto. È giusto chiedere che si arrivi a una sentenza in fretta, ma allora bisogna organizzarsi per tempo e far sì che a Potenza ci sia un collegio giudicante con le risorse per poter fare udienza ogni due settimane». Ma la procura di Potenza non è diventata famosa per la lunghezza dei suoi processi: la sua fama è legata a quella di Henry John Woodcock, un magistrato che, arrivato 17 anni fa, trasformò una piccola città della provincia meridionale in uno dei principali capoluoghi della cronaca giudiziaria italiana. Henry John Woodcock ha 49 anni ed è nato a Taunton, nell’Inghilterra occidentale. Figlio di un professore di inglese e di una donna italiana, è cresciuto a Napoli dove ha iniziato la sua carriera nella giustizia. Nel 1999 fu nominato al suo primo incarico: sostituto procuratore presso la procura della Repubblica del tribunale di Potenza. Quello della Basilicata è un distretto giudiziario piccolo e apparentemente poco movimentato: in tutta la regione ci sono una media di 4-5 omicidi l’anno. Con 67 mila abitanti, un’unica linea ferroviaria a binario unico, nessuna autostrada e l’aeroporto più vicino a cento chilometri di distanza, Potenza è una città isolata e sonnolenta, dove esistono ancora dinamiche che sembrano arcaiche in gran parte del resto del paese. «Qui il magistrato ha ancora un ruolo sociale importante», racconta Fabio Amendolara, collaboratore del quotidiano Libero che da 16 anni segue il tribunale della città. «Appena insediati, c’è la corsa a portarli in giro come in una processione della statua della Madonna». A Potenza, come in molti altri luoghi del sud, politica e imprenditoria locali intrecciano spesso relazioni clientelari. Dal dopoguerra fino ad anni molto recenti, la regione è stata governata dalla stessa classe dirigente, espressione di poche famiglie locali. Anche la magistratura a volte finisce con il far parte di queste reti di potere. «Spesso in queste relazioni non c’è nulla di penalmente rilevante», spiega Amendolara, anche se per due volte la procura di Catanzaro, competente per indagare sui giudici di Potenza, ha ritenuto che si fossero verificati dei reati. La prima inchiesta – “Toghe Lucane”, portata avanti da Luigi de Magistris, oggi sindaco di Napoli – si è risolta in un nulla di fatto. La seconda, “Toghe Lucane-bis”, è diventata un processo che è in corso ancora oggi. Quando arrivò a Potenza, «Woodcock era scollegato da questi sistemi: tutto quello che trovava lo iscriveva nel registro degli indagati», racconta Amendolara. Nei dieci anni che trascorse alla procura di Potenza, Woodcock indagò comandanti provinciali della Guardia di Finanza, dei Carabinieri, persino un capo divisione del SISDE, il servizio segreto civile. Indagò magistrati, avvocati e politici locali. Nel 2006 il giornalista delCorriere della Sera Marco Imarisio lo descrisse così: «Uno che lavora dalle 7 del mattino alle 22, e raggiunge l’ufficio in sella alla sua Harley Davidson, pioggia o neve non importa, deciso ad applicare il suo metodo. Da una scintilla lucana, l’immane incendio. Woodcock parte da reati commessi in loco e poi allarga, allarga a tutta la Penisola». Furono proprio le inchieste di portata nazionale a renderlo un personaggio noto in tutto il paese. La più famosa è quella che i media ribattezzarono “Vallettopoli”, iniziata nel 2006 in seguito alle indagini sulla gestione di alcune slot machines: arrivò a coinvolgere decine di personaggi pubblici come Salvo Sottile, portavoce dell’allora ministro degli Esteri Gianfranco Fini, il manager televisivo Lele Mora, il fotografo Fabrizio Corona e Vittorio Emanuele di Savoia. Le accuse erano disparate: dall’associazione a delinquere finalizzata alla corruzione nella gestione di casinò e slot machines, allo sfruttamento della prostituzione, fino al peculato per aver utilizzato auto pubbliche per trasportare showgirl. Buona parte dell’inchiesta, costituita da migliaia e migliaia di pagine disordinate, dove atti e intercettazioni si accumulavano alla rinfusa, finì stralciata o archiviata. Diversi filoni furono sottratti alla procura di Potenza per incompetenza territoriale. Vittorio Emanuele fu prosciolto dal tribunale di Como e assolto da quello di Roma, insieme a numerosi altri imputati. Altri, come Sottile, furono condannati. Molte sue altre inchieste seguirono un percorso simile, come le cosiddette “Vallettopoli 2″, “Vipgate” e “Somaliagate”. Le ordinanze con cui chiedeva gli arresti erano quasi sempre lunghe e disordinate. Le sue inchieste, a pochi mesi dall’inizio, arrivavano a coinvolgere decine di persone con accuse di reati disparate. A differenza di altri magistrati molto noti all’epoca, come lo stesso De Magistris, gran parte delle inchieste di Woodcock sono arrivate a processo: cioè sono state ritenute “solide” da almeno un giudice terzo, ma quasi altrettanto spesso i suoi imputati sono stati assolti o prescritti oppure le inchieste sono state spostate in altre procure per ragioni di competenza territoriale. «Errori ne faceva tanti», racconta Amendolara, «si innamorava di molte tesi, arrivava all’arresto e poi si perdeva. In alcune cose ci aveva visto giusto. Come nel caso “Tempa Rossa” di questi giorni, dove sono coinvolte persone che lui era stato il primo a indagare». Altri commentatori sono meno teneri nei suoi confronti. Per molti la sua abitudine di allargare continuamente il raggio delle indagini, invece che concentrarsi su un aspetto e cercare di arrivare a una condanna, era un segno di narcisismo e di amore per l’attenzione mediatica che gli procuravano. Sul sito Cinquantamila, il giornalista Giorgio dell’Arti ha raccolto alcune delle critiche più dure che sono state rivolte a Woodcock. Nel 2007 il giornalista Filippo Facci scrisse sul Giornale: «Le sue inchieste più note sono state una collezione di incompetenze territoriali, nomi altisonanti assolti, ministri prosciolti, valanghe di richieste d’arresto ingiustificate». Mattia Feltri, che oggi lavora alla Stampa, scrisse: «Si potrebbe dire che Woodcock ha fra le mani la stessa indagine da sempre. Insomma, ne comincia una e da questa ne scaturisce un’altra e così via». Di certo c’è che Woodcock iniziò molte più indagini di quante avrebbe mai potuto portare a compimento. Quando fu trasferito alla DDA di Napoli, nel 2009, a Potenza lasciò decine di fascicoli aperti; i magistrati rimasti a Potenza, raccontano i giornalisti che seguono la cronaca giudiziaria locale, “tremavano” all’idea di dover mettere mano alle migliaia di pagine confuse che aveva lasciato dietro di sé. «C’è un’era prima e un’era dopo Woodcock», dice Amendolara. Oggi in molti pensano che la stagione di Woodcock, con i suoi lati positivi e quelli negativi, sia terminata. Tra gli altri lo pensa il senatore Salvatore Margiotta, indagato da Woodcock nel 2008, quando il magistrato chiese alla Camera l’autorizzazione ad arrestarlo per corruzione. Il suo processo è durato otto anni e lo scorso 26 febbraio, Margiotta, oggi senatore del PD, che dichiara di essere favorevole allo sfruttamento del petrolio in Basilicata, è stato assolto per insussistenza del fatto. In un’intervista al Corriere della Sera, Margiotta ha detto: «Ho stima degli attuali magistrati della procura di Potenza e penso che dietro l’inchiesta Tempa Rossa non ci sia la volontà di alzare un polverone politico».

Io chiedo conto. Non è successo niente (di Rosario Gigliotti del 15 aprile 2015). L’altro giorno ero anch’io in aula a testimoniare nel processo a don Marcello Cozzi, accusato di diffamazione nei confronti del dott. Cannizzaro e della dott.ssa Genovese. E anch’io, come Gildo, ho detto che accostare i “fatti inquietanti” che avevano riguardato nel passato il dott. Cannizzaro alla vicenda di Elisa Claps, di cui si era occupata in qualità di pm sua moglie, la dott.ssa Felicia Genovese, era un’insostenibile forzatura. Che davanti a quella chiesa il 12 settembre 2010, il primo anniversario della scomparsa (e della morte) di Elisa dopo il ritrovamento del suo corpo, avremmo dovuto solo tacere. E ho visto il dott. Cannizzaro commuoversi per questo atto di pacificazione….…. Questo forse avrei dovuto dire, questo forse avrebbero gradito i miei 5500 concittadini che avrebbero voluto il dott. Cannizzaro come sindaco della città. E chissà quanti altri. Ma Gildo non lo ha detto. Io non l’ho detto. Perché mi sono ricordato, e ho ricordato, le parole di De André con cui quasi 10.000 giovani potentini accompagnarono la grande manifestazione all’indomani del ritrovamento di Elisa: “anche se voi vi credete assolti siete lo stesso coinvolti”. E mi sono ricordato dei volti dei familiari delle vittime delle mafie (e dei silenzi) con cui abbiamo camminato lungo le strade di Potenza il 19 marzo 2011, molti dei quali ancora in cerca di verità e giustizia. Quello stesso giorno giungeva la notizia dell’archiviazione dell’inchiesta Toghe Lucane. Ancora una volta, come sempre, per dire: “non è successo niente”. Ed oggi, come allora, se la verità non arriva, se gli omicidi sono morti accidentali, se i veleni di ogni genere si spandono nella terra fertile e comprano o uccidono corpi e menti, abbiamo un modo per rimanere in pace: dire ad alta voce “non è successo niente”. Cari amici, questa volta “mi piace” è per dire che, invece, qualcosa è successo e che noi chiediamo conto. Io come allora chiedo conto. E lo faccio riprendendo, e confermando parola per parola, ciò che scrissi all’indomani dell’archiviazione di Toghe Lucane. Sono le domande a cui il mio amico Giulio Laurenzi ha prestato il suo tratto di artista. Sono domande purtroppo ancora attuali, perché fino a quando la luce non arriverà dove le ombre corrompono le menti e minano la fiducia nelle istituzioni dovremo continuare a chiedere verità e giustizia… o dirci e dire che non è successo niente. Perché in quel “voi che vi credete assolti" non ci sono solo la dott.ssa Genovese o il dott. Cannizzaro, ma ci siamo tutti noi, che dobbiamo scegliere da che parte stare.

Felicia Genovese. Ha svolto la funzione di pm presso la Direzione distrettuale antimafia di Potenza. Attualmente magistrato in servizio presso il Tribunale di Roma. Si è occupata del caso di Elisa Claps. Vincenzo Tufano. E' stato procuratore generale presso la corte d'Appello di Potenza. Emilio Nicola Buccico. E' stato sindaco di Matera, senatore della Repubblica e membro laico del CSM. […] E allora, ormai lontani dalle aule dei tribunali e dalle ordinanze che allontanano inequivocabilmente ogni ipotesi di responsabilità penale da tutti gli indagati, io chiedo conto.

Chiedo conto alla dottoressa Felicia Genovese degli atti elementari che non ha compiuto, attraverso i quali si sarebbero evitati quasi 18 anni di sofferenze alla famiglia di Elisa Claps.

Chiedo conto al dottor Tufano di non aver assunto alcuna iniziativa istituzionale nei confronti della dottoressa Genovese, pm della direzione distrettuale antimafia, per verificarne la compatibilità di sede e di funzione, neanche quando divennero di dominio pubblico fatti inquietanti, a prescindere dalla loro rilevanza penale: suo marito, Michele Cannizzaro, si trovava a casa delle vittime il giorno prima dell’omicidio, di chiaro stampo mafioso, dei coniugi Gianfredi, sul quale la stessa Genovese aveva indagato per sei mesi senza astenersi; il dott. Cannizzaro era iscritto alla massoneria ed aveva avuto contatti telefonici con esponenti della ‘ndrangheta; in passato persone legate alla criminalità organizzata calabrese erano state viste dai carabinieri a casa sua, in Calabria, durante un lauto pasto; tutti fatti sui quali l’Autorità Giudiziaria di Salerno ha disposto l’archiviazione.

Chiedo conto all’avvocato Buccico di quale deontologia professionale lo abbia portato, nel corso dell’inchiesta sulla misteriosa morte dei “fidanzati di Policoro”, dopo essere stato in un primo momento il legale della famiglia di Luca Orioli, ad assumere la difesa di coloro che gli Orioli avevano accusato di negligenza in quelle stesse indagini.

Chiedo conto all’avvocato Labriola del trattamento riservato ai genitori di Luca Orioli, facendo pagar loro anche il tempo delle domande disperate di un papà e di una mamma a cui era stato strappato un figlio.

Chiedo conto a quei personaggi che si incontrano nell’ombra come in un film, insieme, ci raccontano, per delle battute di caccia. Me li immagino, tronfi e rossicci, al sole e al vento del sud, quella meravigliosa costa ionica su cui progettavano la loro piccola Venezia. Loro, padroni della terra, dei fiumi, del mare e delle persone.

Io so, ma non ho le prove, diceva Pasolini, con il coraggio e l’intelligenza di un uomo libero. Ed oggi che le 509 pagine di Toghe Lucane sono solo, per alcuni, atti di una storia da dimenticare, posso dire anch’io: io so, ma non ho le prove…P.S. In verità, al testo di Rosario Gigliotti, io personalmente avrei da aggiungere solo una conclusione diversa: "Io so ed ho le prove. E queste prove le ho fornite in centinaia di esposti, denunce e querele formali presentate alle Procure della Repubblica, alle Procure Generali presso le Corti d'Appello, alla Procura Generale presso la Suprema Corte di Cassazione, al Ministro della Giustizia, al Consiglio Superiore della Magistratura. Anche di questo io chiedo conto, del silenzio e della neghittosità che ha consentito ad un manipolo di magistrati, qualche avvocato ed alcuni funzionari di Polizia Giudiziaria di perseguitare impunemente la libertà di stampa e d'informazione provocando sofferenze e terribili offese…senza peraltro riuscire a spegnerla.

La lettera di Piccenna: ciò che Di Consoli ignora su Toghe lucane. Egregio direttore, mi risolvo a scriverti questa lettera aperta dopo aver letto l'intervista pubblicata recentemente dal tuo giornale all'intellettuale lucano Andrea Di Consoli, giornalista e scrittore di fama. In origine, avevo in animo di confutare gran parte delle tesi sostenute da Andrea ma, procedendo, mi son reso conto che l'opera diventava monumentale e quindi inutile. Vedi, direttore, commentare Toghe Lucane non può prescindere dal conoscerla e “pacificare gli animi” non può risolversi nell'abusato “chi ha dato, ha dato; chi ha avuto, ha avuto”. Né può costituire valido supporto l'estrema sintesi che opera Andrea (e molti altri con lui) riducendo tutta quella ponderosa inchiesta fatta di duecentomila pagine, 118 faldoni e non ricordo più quanti Cd al decreto di archiviazione. Veramente si pensa che qualcuno dotato di buonsenso possa accontentarsi di una archiviazione ottenuta dal Pm Capomolla dopo aver smembrato l'inchiesta e distribuito gli atti d'indagine in procedimenti stralcio che ne hanno frantumato la logica e diluito la valenza probatoria? Non si tratta di esprimere opinioni, come se si parlasse della formazione dell'Italia Football club, ma di prendere atto del giudizio che ne ha dato la Procura Generale di Catanzaro. Il Pm Eugenio Facciolla si è spinto a scrivere che “il Giudice ha violato la Legge” quando ha archiviato lo stralcio “Marinagri” e su questa base ha proposto appello. No, Toghe Lucane non è del tutto “archiviata” ma, anche se così fosse, non si può lasciar credere a quei (troppo) pochi lucani che leggono i giornali che non vi fossero elementi ed evidenze degne almeno di giudizio politico che, come sostiene anche Di Consoli, è dovere formulare ed utilizzare per trarne conseguenze operative. Il “disastro Basilicata” ha precisi responsabili, nomi e cognomi che non possono passare alla storia come i migliori politici di questa martoriata regione. Dimentica (Di Consoli) gli slogan di recenti campagne elettorali? Chi crede che abbia inventato “Basilicata che bello!” oppure “La Basilicata che sa governare”. Chi crede che abbia inventato “Basilicata, isola felice”? Ignora (Di Consoli) che il Sostituto procuratore Felicia Genovese è stato trasferito e destinato a funzioni collegiali perché non si astenne (come prevede la Legge) dal trattare vicende giudiziarie che riguardavano Filippo Bubbico ed altri assessori e funzionari regionali mentre il di lei marito (Dottor Cannizzaro) concorreva per la nomina a Direttore generale del San Carlo? Ignora che il Sostituto procuratore Felicia Genovese è stata trasferita perché omise di iscrivere nel registro degli indagati Giuseppe Labriola e ne ottenne in cambio il sostegno di Emilio Nicola Buccico, allora membro del Csm, per diventare consulente esterno della commissione antimafia? Ignora che quel Pm omise di sequestrare, nonostante le istanze ed i solleciti della polizia inquirente, i vestiti sporchi del sangue di Danilo Restivo e di chissà cos'altro, ritardando di quasi vent'anni l'inchiesta sulla tragica morte di Elisa Claps? Ignora che Felicia Genovese e Michele Cannizzaro hanno querelato per diffamazione il giornalista che aveva raccontato della incompatibilità della prima a trattare vicende in cui aveva un ruolo non trascurabile il secondo ed hanno dovuto soccombere al lapidario giudizio del Gup Dottor Antonio Giglio: “... la notizia riportata dall'articolista era vera: la dottoressa Genovese si astenne “non prima ... di richiedere l'archiviazione del procedimento a carico dei datori di lavoro di suo marito e solo dopo il rigetto dell'archiviazione”. Molte altre cose, ignora Di Consoli ma ciò non toglie che possa stimare chi gli pare ed augurarsi quanto di meglio per le persone che più gli piacciono. Però l'informazione giornalistica è altra cosa dall'esprimere un giudizio o manifestare la propria opinione. L'informazione è raccontare fatti e rendere noti documenti che il lettore deve poter conoscere per formarsi una sua propria idea, nel caso di specie della Basilicata. Una terra ricca di risorse e povera di uomini coraggiosi. Dove l'amministrazione della giustizia è confusa con l'esercizio delle opinioni e la legalità si vuol far credere sia un'utopia da cavalieri un po' svitati. Fortunatamente, c'è qualcuno che resiste. Che paga un prezzo molto più alto di quello cui Andrea dichiara di essersi sottratto, ma che lo paga con levità, senza piagnucolii e martirologi. Perché una fondamentale verità esperienziale occorre tener presente prima di iniziare un'intrapresa: una vera battaglia comporta un vero prezzo da pagare. C'è spazio per tutti, ma solo a questa condizione. Il resto sono chiacchiere da bar o da intellettuali ateniesi. La rivoluzione dei vecchi: ma siamo completamente impazziti?

Non fermiamo le parole. Non smettiamo di ricercare la realtà. Libertà d'informazione a pieno regime: blitz nella redazione di Basilicata24. Non è la prima volta che accade in Basilicata, dove la libertà di informazione va avanti a pieno regime: la prima redazione ad essere perquisita fu quella de Il Resto, nei giorni scorsi è toccato a Basilicata24, scrive Karakteria. Qualsiasi motivo possa esserci all'origine della perquisizione, che ci auguriamo non abbia finalità intimidatorie e persecutorie nei confronti di chi (caso raro in regione) svolge libera informazione, quello di perquisire la redazione di un organo di informazione ci sembra in ogni caso un caso grave, una scena che si può immaginare in un regime sovietico o fascista, ma che ci risulta difficile rivivere in Basilicata a distanza di pochi anni e rivolta di nuovo a soggetti scomodi ai patronati consolidati. Ci risulta difficile immaginare che i giornalisti del quotidiano online possano essere implicati in spaccio di stupefacenti o di armi o di plutonio, abbiano potuto nascondere un cadavere in una chiesa per 20 anni senza che "nessuno" se ne accorgesse, escludiamo altresì che i giornalisti possano essere sospettati di tangenti petrolifere, coinvolti in un traffico di rifiuti o in un giro miserabile di scontrini e francobolli, bachi da seta o megavillaggi, pale eoliche o pannelli fotovoltaici; ci pare improbabile sospettare che abbiano sversato veleni nelle acque potabili, abbiano causato crolli di ponti e vittime o magari siano artefici di un giro di raccomandazioni e concorsi truccati o siano loro che incendiano mezzi e terre nel metapontino, boschi e pinete nel Pollino...Allora perchè, in una regione afflitta da crimini, speculazioni, corruzioni, usurpazioni, ingiustizie di ogni sorta, perquisire la redazione di un giornale? Per la seconda volta perquisire un altro giornale di inchiesta in Basilicata, dove notoriamente non è che ne siano esistiti mai più di due o tre. Questa è una domanda che dovrebbe far sobbalzare l'ordine dei giornalisti, tutti i lucani e tutti gli italiani. Una domanda, non un sospetto di nessuno genere e rivolto a nessuno, perchè noi non conosciamo i fatti. Ci spaventano però gli effetti, ci mettono in allarme i modi, ci impongono a reagire i contesti. Aspettando la risposta e che qualche sedere sobbalzi, noi per il momento proponiamo l'articolo di Giusi Cavallo, di Basilicata24: "Non volevamo rendere pubblica l’azione “violenta” che uomini della Questura di Potenza hanno condotto a danno della nostra Redazione il 4 luglio. In questi giorni, però, abbiamo cercato di capire, abbiamo indagato, e finalmente abbiamo capito. Ce lo aspettavamo, siamo in Basilicata. Eccoci dunque a raccontarvi quanto è accaduto. Almeno dieci poliziotti, quella mattina, presidiano la Redazione e ci impediscono di lavorare. Montano apparecchi che sembrano essere rilevatori di intercettazioni ambientali. Non aspettano neanche l’avvocato. La stessa mattina altri poliziotti perquisiscono l’abitazione del collega Finizio e sequestrano carte e computer. Che cos’erano quegli apparecchi? Ebbene siamo curiosi di ascoltare quelle eventuali registrazioni. E se sono rilevatori di intercettazioni ambientali, chi e da quando ha intercettato giornalisti e confidenti nella nostra Redazione? E perché? Perché sono stata allontanata dalla Redazione e tenuta sotto stretta osservazione dai poliziotti? Se qualcuno ha indagato o sta indagando sulle minacce che abbiamo subito in questi mesi, ci faccia sapere come mai inseguirebbe noi e non i veri delinquenti. Ci faccia sapere il pm Piccininni perché è lei, proprio lei, ad occuparsi del nostro caso? Si, proprio lei che nel libro “Sia fatta ingiustizia”, scritto da me e dal collega Finizio, viene accusata di negligenze, superficialità e anomalie nella vicenda giudiziaria raccontata nel volume. E ci facciano sapere i poliziotti che sono piombati in redazione, come mai tanto interesse e ironia su quel libro di cui hanno chiesto anche copia? Qualcuno di loro è citato in quelle pagine, ma di certo non per essere encomiato! Probabilmente, e me lo auguro, per causa di quel libro è aperto un procedimento del Csm nei confronti della Piccininni. Ad ogni modo onestà intellettuale avrebbe imposto una astensione da parte del pm nell’assumere il fascicolo relativo alla nostra vicenda. Proprio lei.  Si sappia che abbiamo fatto le nostre indagini, che abbiamo ipotizzato cose gravi, e gli ultimi accadimenti sembrano confermarlo. Racconteremo tutto al momento opportuno. Nel pomeriggio del 4 luglio la sottoscritta è stata convocata dinanzi al pm Piccininni. Al mio avvocato non è stato consentito di assistere al colloquio con il magistrato che, prima di avviare la fonoregistrazione, mi ha rivolto un monito, a mio giudizio, psicologicamente intimidatorio. Che cosa mi ha detto il pm? “Lei non è indagata, ma se non dice la verità sarà indagata”. Quale verità, quella che avrebbe voluto sentire? Non mi intimoriscono certi metodi inquirenti. Gli ambienti nebulosi e ambigui di questa città e di questa regione, i protagonisti del malaffare, sia io che il mio giornale li abbiamo sempre denunciati e continueremo a farlo. Qualcuno dovrà rispondere ai cittadini e alla Giustizia. Prima o poi.

Per quanto detto è doveroso dare spazio anche alla Curia di Potenza, attaccata dalla stampa di sinistra sul caso Claps. La Curia rompe il silenzio. Una lettera ai parroci di Potenza. Dall’Ufficio comunicazioni sociali dell’arcidiocesi di Potenza-Muro Lucano-Marsiconuovo un invito a prendere coscienza sugli ultimi eventi che hanno investito in particolar modo l’arcivescovo Agostino Superbo, senza puntare il dito contro nessuno, scrive Alessia Giammaria su “Il Quotidiano web”. “Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”. Comincia con la citazione tratta dal Vangelo di Giovanni, la lettera che l’Ufficio comunicazioni sociali dell’arcidiocesi di Potenza-Muro Lucano-Marsiconuovo, ha spedito nella giornata di ieri al presbiterio locale. Al centro di questo documento - più che un dossier è una rassegna stampa di articoli usciti sui quotidiani regionali e nazionali con qualche commento - la nota vicenda Claps. Non è un atto di accusa contro nessuno. Questo è giusto ribadirlo ma «ci è sembrato - è scritto nella lettera - che fosse giunto il “tempo favorevole” quantomeno per riflettere su quanto sta succedendo nella nostra diocesi». Un invito a prendere coscienza sugli ultimi eventi che hanno investito in particolar modo l’arcivescovo Agostino Superbo, senza puntare il dito contro nessuno. «Lungi da questo ufficio giudicare il lavoro giornalistico e della magistratura - è scritto nella lettera - è doveroso portare alla vostra conoscenza tutta una serie di fatti certi, dimostrati e scritti sui media che, speriamo, possano dipanare dubbi, incertezze e perplessità che la tragedia della morte della povera Elisa Claps ha portato prima di tutto nella sua famiglia (a cui deve andare la nostra preghiera) e poi in tutta la Chiesa potentina con il suo carico di accuse e polemiche». Perchè adesso e non prima? L’arcivescovo - riprende la nota - da una parte «non è voluto mai scendere in polemica con nessuno. Su questo ha voluto mantenere un profilo basso incontrando chiunque avesse chiesto di parlare riferendo tutto ciò di cui era a conoscenza» dall’altra “doveva essere sentito dalla magistratura nell’ambito del processo». La rassegna stampa inizia con un articolo uscito proprio su “Il Quotidiano” il 17 giugno scorso, giorno della sua testimonianza nell’ambito del processo alla donne delle pulizie, in cui è scritto ciò che  Superbo ha sempre sostenuto e cioè che è venuto a conoscenza del ritrovamento di un cadavere all’interno della Chiesa della Santissima Trinità la mattina del 17 marzo 2010 (la certezza che si trattasse di Elisa l’ha saputa nel pomeriggio dello stesso giorno come ha avuto modo di spiegare durante il suo esame testimoniale) e che ha saputo da don Wagno che era salito nel sottotetto solamente due giorni dopo e cioè il 19 marzo. Circostanze non tenute nascoste, ma segnalate immediatamente agli investigatori già il 20 marzo 2010. La cosiddetta inchiesta bis che vuole far luce sul ritrovamento, parte infatti, proprio dalla segnalazione dell’arcivescovo che ha prima invitato don Wagno ad andare a raccontare tutto alla polizia per poi recarsi lui stesso in questura e nel medesimo giorno a dire ciò di cui era a conoscenza. Il primo giornale a pubblicare il verbale di Superbo del 20 marzo integralmente è stato “Il Quotidiano”. Questo documento, riportato nella rassegna stampa dell’Ufficio comunicazioni sociali, è datato il 15 settembre 2011. Quasi tre anni fa. Come a dire che le parole dell’arcivescovo sono sempre state sotto gli occhi di tutti. La rassegna stampa si sofferma anche su alcuni sopralluoghi che gli inquirenti fecero all’interno della Trinità nel 2001 (ne parla un articolo di Repubblica del 28 marzo 2010) e del 9 novembre 2007 (sono riportati due articoli uno della “Gazzetta” e uno de “Il Quotidiano”). Non è un jaccuse nei confronti di chi investigò allora e non andò a ispezionare anche il sottotetto, piuttosto è la testimonianza che nessuno, tantomeno il parroco di allora don Mimì Sabia, ha mai vietato agli inquirenti di ispezionare la chiesa. Il documento dell’Ufficio comunicazioni sociali si sofferma anche su quelle parole dette da Superbo che sono entrate nell’occhio del ciclone suscitando una scia di polemiche. Dal caso “cranio e ucraino”, all’incontro che ha tenuto con i sacerdoti a Satriano il giorno del rinvenimento del corpo. Anche su questi fatti ritenuti da una parte dell’opinione pubblica “imbarazzanti”, l’Ufficio chiarisce la posizione dell’arcivescovo. Sul primo episodio si tratta di un dialogo avuto con don Don Wagno il giorno dopo il ritrovamento e cioè il 18 marzo (circostanza messa nero su bianco nel verbale del 20 marzo), su Satriano (nell’ambito della sua testimonianza è stato messo in dubbio che ci sia stato un incontro nel paese del Melandro visto che i tabulati delle celle telefoniche di Superbo in possesso del pm agganciavano solo Potenza e Tito n.d.r.) la questione è stata chiarita il 17 giugno, nell’ambito del processo, dall’avvocato delle donne delle pulizie - che invece era in possesso anche dei tabulati integrali - la quale porta a conoscenza della corte che il cellulare dell’arcivescovo ha agganciato anche la cella di Satriano. Altra questione affrontata nel documento, è la denuncia presentata da parte della famiglia nei confronti di Superbo. Non una notizia nuova. Anzi è piuttosto datata ma sarebbe ancora pendente. Ne parlò nell’agosto del 2012 il settimanale “Panorama”. I Claps accusavano l’arcivescovo - è scritto nell’articolo - di false dichiarazioni al pm, occultamento di cadavere chiedendo per questo anche un risarcimento danni. Risarcimento danni richiesto dai legali una prima volta nell’ambito del processo Restivo ma rigettato da gup, una seconda volta tramite una lettera del marzo 2012 in cui si invitava Superbo a “risolvere bonariamente la vertenza” per il “danno ingiusto risarcibile” “prodotto alla famiglia Claps”. La richiesta ritenuta dall’ufficio legale dell’arcidiocesi «frutto di un evidente travisamento degli atti» è stata rimandata al mittente. Il documento si conclude con ciò che ha dichiarato Gildo Claps nell’ambito della sua testimonianza sempre del 17 giugno e cioè che: «La Chiesa - sono le parole usate durante l’udienza e riportate dai media - ha seppellito mia sorella sotto le menzogne» e su quello che ha sempre detto l’arcivescovo fin dal suo primo verbale datato 20 marzo 2010. Quella che per l’Ufficio comunicazioni sociali, riprendendo le parole dell’Arcivescovo sempre del 17 giugno 2014 scorso è «la sola e unica verità».

DALLA CORRUZIONE SESSUALE AL COMUNE, AI PROCESSI INGIUSTI, FINO AL CASO DI ELISA CLAPS.

Favori negli appalti a Melfi, ai domiciliari il sindaco Valvano. Ecco dove hanno portato le indagini della Dda, scrive “Il Quotidiano della Basilicata”. L'accusa è quella di aver messo in piedi «un sistema di malaffare all’interno del Comune di Melfi, con l'obiettivo - hanno spiegato gli inquirenti in conferenza stampa - di ottenere l’assegnazione di appalti e lavori pubblici in favore di imprese amiche o segnalate da amici o da politici del posto». L'accusa è quella di aver messo in piedi «un sistema di malaffare all’interno del Comune di Melfi, con l'obiettivo - hanno spiegato gli inquirenti in conferenza stampa - di ottenere l’assegnazione di appalti e lavori pubblici in favore di imprese amiche o segnalate da amici o da politici del posto». A beneficiarne, secondo gli investigatori, soprattutto alcune imprese riconducibili alla famiglia Caprarella. Il sindaco di Melfi, Livio Valvano, è tra le persone colpite da misure cautelari. Per Valvano sono stati disposti gli arresti domiciliari, mentre per D'Amelio, funzionario responsabile dell’area Infrastrutture e Mobilità del medesimo ente, è stato deciso l'arresto in carcere. L'inchiesta è coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Potenza ed è stata portata avanti dalla Polizia di Stato. «L’ordinanza - hanno aggiunto in conferenza il procuratore Luigi Gay e il pm Francesco Basentini - rappresenta l’epilogo di una vasta, complessa e articolata attività d’indagine condotta dal personale della Polizia di Stato di Potenza, snodatasi su molteplici fronti (attività di captazione sia telefoniche che ambientali, attività di acquisizione documentale, assunzione di sommarie informazioni), che ha consentito di acquisire una lunga e concreta serie di elementi oggettivi in ordine ad ipotesi di turbata libertà del procedimento di scelta del contraente, induzione indebita a dare o promettere beni ed utilità ed intestazione fittizia di beni ed altre utilità». Le indagini - hanno aggiunto gli investigatori - hanno scoperchiato un sistema che portava l'amministrazione «all'adozione di bandi ad hoc e illeciti affidamenti diretti, o ancora l’approvazione di perizie di varianti per lavori pubblici in corso d’opera in favore di imprese riconducibili alla famiglia degli imprenditori». Uno dei casi citati dagli inquirenti è legato a ribassi eccessivi in sede di gara. Come accaduto, per esempio, nel caso degli appalti per 36 alloggi e per la scuola “Nitti”: i lavori sono stati aggiudicati con ribassi anomali del 37,138% e del 38,650%, «che hanno portato nelle casse delle imprese e società facenti capo agli indagati oltre 6.000.000 di euro». Con la famiglia Caprarella e con le società e le imprese edili riconducibili alla stessa – quali ad esempio la “I.C.E.M. srl” di Melfi – il funzionario comunale, hanno detto ancora gli investigatori -  aveva avuto concreti e documentati rapporti economici già dal 2011, quando con le sorelle hanno venduto alla società un appezzamento di terreno edificabile sito in Melfi, per la somma di 75.000 euro.  «La compravendita del terreno veniva stipulata da parte del funzionario comunale indagato e delle sue sorelle dopo che lo stesso aveva già assunto l’incarico di direttore dei lavori per la realizzazione dei “36 alloggi” di edilizia popolare, la cui esecuzione era già in corso da parte della società “Caprarella Emilio s.r.l.». La prima reazione “politica” alla misura cautelare che ha interessato il primo cittadino del Comune di Melfi arriva dall’alto esponente socialista Bobo Craxi che su Twitter scrive “Forza Livio Valvano. Amministratore onesto e capace che ha risollevato Melfi”.

Corruzione sessuale al Comune di Potenza. Assessori nel mirino, scrive Fabio Amendolara su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. «Corruzione» in cambio di favori sessuali. Le ragazze, molto giovani, tra i 20 e i 25 anni, venivano «offerte» dagli imprenditori. E finivano nelle camere da letto di due assessori del Comune di Potenza. «Non sono escort», spiegano gli investigatori che hanno scoperto un sistema per pilotare gli appalti. Intrecci tra imprenditori, politici e funzionari comunali con l’obiettivo di favorire un’impresa «amica» in cambio di soldi, viaggi e notti in albergo con escort. Ma anche con ragazze in cerca di un posto di lavoro. È il secondo capitolo dell’inchiesta «Vento del Sud». «Presto ci saranno sviluppi», aveva annunciato il procuratore facente funzioni Laura Triassi. E gli investigatori si sono messi a setacciare le relazioni dei due assessori e degli imprenditori che li contattavano. La Procura di Potenza, diretta da Laura Triassi, ha messo le mani su un sistema finalizzato a convogliare lavori pubblici verso un numero ristretto di aziende, potendo contare anche sulla complicità di funzionari e amministratori locali. Il raggio d’azione dell’operazione coinvolge Potenza, Pietragalla, Avigliano e Brienza. Su richiesta del pubblico ministero antimafia Francesco Basentini, il gip del tribunale potentino, Rosa La Rocca, una settimana fa tre provvedimenti di custodia cautelare ai domiciliari. Si tratta del consigliere comunale di Potenza, Rocco Fiore (Pd), di 38 anni – candidato «renziano» alle primarie del Pd per la scelta del segretario nazionale e dei candidati al Parlamento – indagato, però, nella carica di responsabile dell’Ufficio tecnico del Comune di Avigliano; Giuseppe Brindisi, 53 anni, dirigente del Comune di Potenza e segretario regionale della Basilicata dei Verdi; l’imprenditore Bartolo Santoro, 36 anni, amministratore dell’omonima azienda edile. È stato disposto, invece, il divieto di dimora nei Comuni di residenza per il consigliere e assessore comunale di Avigliano, Emilio Colangelo, per l’assessore comunale di Pietragalla, Canio Romaniello e per l’architetto del Comune di Brienza, Michele Giuseppe Palladino, mentre l'imprenditore Donato Colangelo, del capoluogo lucano, dovrà rispettare l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria. Sono stati inviati anche tredici avvisi di conclusione delle indagini per imprenditori, amministratori locali e funzionari tra i quali i sindaci di Pietragalla, Rocco Iacovera, e Brienza, Pasquale Scelzo, e l’assessore comunale del Pd di Avigliano Donato Sabia. Sono accusati, a vario titolo, di aver creato un meccanismo grazie al quale controllare le varie fasi delle gare d’appalto in provincia, decidendo a priori chi doveva aggiudicarsi i lavori. Come al Comune di Potenza: dove la «merce» di scambio per gli appalti erano giovani ragazze.

L'inchiesta sugli appalti truccati da un "cartello occulto" si allarga, scrive invece “Basilicata 24”. Dopo gli arresti disposti dal gip del tribunale di Potenza, scattati all'alba del 21 febbraio scorso, ecco che si apre un altro filone: quello della corruzione sessuale. Secondo gli inquirenti, infatti, imprenditori interessati ad accaparrarsi alcuni lavori pubblici, offrivano giovani ragazze a due assessori del comune capoluogo della Basilicata. Le ragazze usate come merce di scambio dagli imprenditori non sarebbero state vere e proprie escort ma giovani in cerca di lavoro finite però in un giro al limite della prostituzione. L'inchiesta sugli appalti truccati lo scorso 21 febbraio aveva portato all'arresto di tre persone e all'esecuzione di altre tre misure cautelari tra divieti di dimora e obbligo di firma. Ai domiciliari erano finiti Rocco Fiore, responsabile dell'Ufficio tecnico del Comune di Avigliano e consigliere comunale del Pd a Potenza; Giuseppe Brindisi dirigente al Comune di Potenza e segretario regionale dei Verdi; l'imprenditore Bartolo Santoro. Per l'assessore del Comune d Avigliano, Emilio Colangelo, per il suo omologo al Comune di Pietragalla, Canio Romaniello il gip ha disposto il divieto di dimora nelle rispettive cittadine di residenza. Tra gli altri indagati, che in tutto sono 21, ci sono anche il sindaco d Brienza e un altro assessore comunale di Avigliano.

Già. E la giustizia come risponde?

Giustizia lumaca a Potenza, processi dal gennaio 2014 rinviati sino al 2021, scrive Fabio Amendolara su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. «Gli avvocati sono troppi». Il distretto conta quasi 2.500 avvocati. E la Corte d’appello di Potenza è in affanno. I giudici «hanno avuto modo di rilevare che almeno il 15 o 20 per cento delle nuove iscrizioni riguarda vertenze che non hanno ragione di esistere». È questa la causa dei rinvii al 2021 dei procedimenti civili in appello. Almeno secondo il presidente della sezione civile Ettore Nesti. Il giudice invita i colleghi a un dibattito «caratterizzato dai toni pacati». Gli interventi non sono mancati. Il presidente della Camera penale di Basilicata Savino Murro ha scritto al presidente del Tribunale per segnalare che da quando c’è stato l’accorpamento con Melfi e Sala Consilina i problemi legati alle udienze sono cresciuti. E l’altro giorno uno dei consiglieri dell’ordine degli avvocati, Carmela Gioscia, ha inviato ai colleghi una lunga lettera. «Non ha avuto alcun senso dichiarare di aderire alla proclamata astensione per poi rimanere inerti il giorno in cui tanti Colleghi, in ogni parte di Italia, organizzavano presidi, forme alternative e coinvolgenti di proteste, e, soprattutto, affrontavano i problemi dell’Avvocatura e della giustizia stessa, con adesioni di rilievo della magistratura più attenta, la quale, mettendo da parte le divergenze legate alle rispettive funzioni, ha condiviso le giuste proteste». Secondo l’avvocato Gioscia «vedere che il legislatore ha previsto, per esempio, che per dar torto in appello basti un’udienza, mentre per dar ragione si può aspettare anche un paio di lustri, partendo dal presupposto che in entrambi i casi il giudice dovrebbe studiare il processo, scopre l’intento di scoraggiare il ricorso alla giustizia, violando palesemente il diritto di difesa e operando incostituzionali, palesi disparità di trattamento. E scoraggiare il ricorso alla giustizia è una forma di negazione della giustizia stessa ed è cosa inconcepibile per uno Stato che si proclama civile, democratico, moderno e, soprattutto, di diritto. Arrivare, poi, a immaginare un pagamento aggiuntivo per scoprire le ragioni di una decisione, è poi aberrante, oltre che anticostituzionale. Pensare ad una forma di responsabilità solidale dell’avvocato con il cliente per lite temeraria è inaccettabile, ma non per garantire una irresponsabilità dell’avvocato, bensì per evitare una lesione della sua dignità professionale e perché ciò lo farebbe diventare parte in un giudizio in cui parte non è, minimizzando e riducendo il suo ruolo di difensore. In Basilicata, poi, i problemi aumentano, perché a quelli di tutti, si aggiungono i problemi di una giustizia lenta in maniera inaccettabile, con una parte dei magistrati ufficialmente schierati contro l’avvocatura, che ritengono troppo numerosa, di scarsa qualità e capace solo di alimentare un inutile contenzioso. Questo giudizio, contenuto in una nota ufficiale spedita a tutti gli ordini di Basilicata, merita una risposta precisa perché ingiusto, inopportuno e soprattutto perché mina alle basi quel concetto di terzietà assoluta, senza contare che è un giudizio che presuppone, finanche, una sorta di infallibilità che, non può essere di chi, per legge, emette provvedimenti comunque riformabili, e spesso riformati». Sono gli avvocati a intralciare la giustizia? «Questo giudizio - sostiene l’avvocato - è intollerabile, gratuito e rispondente a deplorevole demagogia, malcelato tentativo di addossare la maggiore responsabilità del cattivo funzionamento della giustizia e dell’eccessiva durata dei procedimenti giudiziari principalmente agli avvocati, senza tenere in alcuna considerazione il servizio da loro reso quotidianamente per assicurare a tutti una effettiva difesa e le risorse economiche che costantemente l’avvocatura immette per tentare di ovviare alle gravi carenze di mezzi, strumenti e perfino materiali d’uso comune, i cui oneri dovrebbero essere assicurati dai pesanti costi richiesti per l’accesso alla giustizia. Con totale svilimento della funzione difensiva, determinato e reso ancor più sensibile, quanto intollerabile, dalla pratica giudiziaria quotidiana, nella quale all’avvocato si chiede di assumere un ruolo di supplenza rispetto alle carenze organizzative degli uffici».

E poi il caso Claps.

Potenza, caso Claps: riaperto il caso della poliziotta "suicida". La donna fu trovata morta impiccata alla maniglia della porta del bagno del suo alloggio il 12 marzo 2001, scrive TGcom24. Quello di Anna Esposito è un suicidio dai molti lati oscuri: la donna, 35 anni, dirigente della Digos della Questura di Potenza, fu trovata impiccata il 12 marzo 2001 alla maniglia della porta del bagno nel suo alloggio nella caserma Zaccagnino. Solo la perseveranza dei familiari ha permesso che a distanza di dodici anni il caso sia stato riaperto. Ora l'ipotesi di reato è quella di omicidio volontario. Quella di Anna da subito era stato catalogato come un suicidio anomalo, a partire dalle modalità. La donna, come racconta il quotidiano "La Stampa", sembrava seduta a terra, ma il corpo era sospeso di pochi centimetri e l'ansa di scorrimento del cinturone invece che nella parte posteriore del collo era sul lato destro. A destare perplessità anche alcuni elementi scoperti durante le indagini effettuate subito dopo la morte della poliziotta: le pagine mancanti dalla sua agenda, l'abito da sera che era stato trovato sul letto, come se la donna si stesse preparando per uscire, e, soprattutto il fatto che l'abitazione e l'ufficio di Anna fossero stati "perquisiti" da qualcuno prima dell'arrivo della polizia. Un altro inquietante sospetto, anche se al momento escluso dalla procura, sarebbe venuto dall'ipotesi di un collegamento con il caso Claps: Gildo Claps, fratello di Elisa, scomparsa nel 1993 e ritrovata cadavere nel sottotetto della chiesa della Santissima Trinità di Potenza, ha raccontato infatti di una telefonata ricevuta proprio da Anna Esposito per fissare un appuntamento. L'incontro sarebbe dovuto avvenire il giorno stesso della morte della poliziotta. Secondo la madre di Anna, la figlia le avrebbe rivelato che qualcuno nella Questura di Potenza sapeva dove fosse sepolta Elisa.

Elisa Claps: riaperte le indagini sulla morte di Anna Esposito: è stato un omicidio? Si chiede Daniele Particelli. A distanza di quasi 13 anni la Procura di Potenza ha deciso di riprendere in mano i fascicoli sulla morte di Anna Esposito, la dirigente della Digos della Questura di Potenza trovata morta all’età di 35 anni il 12 marzo 2001 in quello che fin dai primi istanti era sembrato un caso anomalo di suicidio. La famiglia della donna ha chiesto per anni la riapertura del caso, sostenendo che Anna Esposito fosse stata uccisa e anche grazie all’inchiesta giornalistica di Fabio Amendolara, ora agli atti della Procura, il caso si può considerare riaperto. L’ipotesi di reato è omicidio volontario. Il corpo senza vita della donna, madre di due figlie, fu rinvenuto legato alla porta del bagno dell’alloggio nella caserma Zaccagnino e qui cominciano i particolari oscuri. Scrive oggi La Stampa: Anna sembrava seduta a terra, ma il corpo era sospeso di pochi centimetri, l’ansa di scorrimento del cinturone (lungo poco meno di un metro) era sul lato destro invece che nella parte posteriore del collo. Anche nella perizia chiesta dal pm Marotta, e depositata a dicembre scorso, gli esperti che hanno visionato le foto scattate nell’alloggio di servizio e durante l’autopsia hanno palesato le loro perplessità. Tanti altri elementi fanno pensare che non si sia trattato di un suicidio. Anna, ne sono certi i suoi familiari, non aveva motivi per togliersi la vita. Nell’abitazione, sul letto, gli inquirenti hanno rinvenuto un abito da sera, segno che la donna si stava preparando per uscire. E, ancora, il fatto che l’alloggio fosse stato “perquisito” prima dell’arrivo degli inquirenti. Mancano all’appello, inoltre, alcune pagine del diario in cui Anna Esposito era solita annotare la propria vita e i propri spostamenti. Di quelle pagine, ad oggi, nessuna traccia. A questo si aggiungono le minacce che la donna riceveva costantemente ormai da tempo e, non ultimo, il collegamento col caso di Elisa Claps, la giovane uccisa a Potenza il 12 settembre 1993 e ritrovata cadavere nel marzo 2010. Esposito, lo ha rivelato sua madre qualche tempo dopo, era convinta che nella Questura di Potenza qualcuno sapeva dove la ragazzina era stata sepolta. Un altro particolare inquietate, proprio collegato a Elisa Claps. Quel tragico 12 marzo 2001, Esposito avrebbe dovuto incontrare Gildo Claps, fratello della giovane uccisa, ma poche ore prima di quell’appuntamento venne trovata cadavere. Gli elementi per sospettare un omicidio mascherato da suicidio ci sono, ora spetta agli inquirenti il compito di chiarire i punti oscuri e, nel caso in cui dovesse venir accertato l’omicidio, identificare il responsabile.

Caso Claps, sospetti sul suicidio della poliziotta. Potenza, si indaga sulla morte di Anna Esposito. Quel giorno doveva incontrare il fratello di Elisa, scrive Antonio Salvati su “La Stampa”. Quando ne scoprirono il corpo, accanto c’era una penna ma nessun biglietto. Nella sala da pranzo, su un tavolo, un vestito da sera, nero, e un paio di scarpe eleganti. Il letto era in ordine e la luce del comodino illuminava due cellulari e due biglietti ferroviari. È la mattina del 12 marzo del 2001. Anna Esposito, 35 anni, dal 1998 dirigente della Digos della questura di Potenza, viene ritrovata senza vita nel suo alloggio all’interno della caserma Zaccagnino. Ha passato la domenica con le due figlie a Cava dei Tirreni, nel Salernitano, cantando a squarciagola canzoni di Gigi D’Alessio. Poi, stando alla versione ufficiale, torna a Potenza e con il cinturone della sua divisa si impicca alla maniglia della porta del bagno. Suicidio, furono le conclusioni delle indagini che durarono qualche mese. Ora, a distanza di dodici anni, il suo caso è stato riaperto, grazie alla tenacia dei familiari e a un’inchiesta giornalistica di Fabio Amendolara (raccolta nel libro «Il segreto di Anna») messa agli atti della Procura di Potenza. L’ipotesi di reato è omicidio volontario e gli investigatori (il procuratore facente funzioni Laura Triassi ora ha in mano il fascicolo in seguito al recente trasferimento del pm Sergio Marotta che ha ottenuto la riapertura del caso) hanno riletto le carte di un’inchiesta dai tanti lati oscuri. A partire dalle modalità di un suicidio che anche i medici legali indicarono come atipico: Anna sembrava seduta a terra, ma il corpo era sospeso di pochi centimetri, l’ansa di scorrimento del cinturone (lungo poco meno di un metro) era sul lato destro invece che nella parte posteriore del collo. Anche nella perizia chiesta dal pm Marotta, e depositata a dicembre scorso, gli esperti che hanno visionato le foto scattate nell’alloggio di servizio e durante l’autopsia hanno palesato le loro perplessità. Lo stesso pubblico ministero che allora curò le indagini (il pm Claudia De Luca) scrisse nelle tre pagine di motivazioni alla chiusura del caso che «occorre però rappresentare che dei passaggi non chiari nella vicenda fattuale comunque restano». Come, ad esempio, i biglietti del treno e le rubriche dei due telefoni cellulari. E quelle pagine dell’agenda (Anna teneva un diario quotidiano dove annotava in maniera minuziosa tutta la sua giornata) strappate in tutta fretta e mai ritrovate. E l’abito da sera? E i messaggi di minacce che la poliziotta riceva continuamente? Senza contare, poi, che «l’abitazione era stata già rovistata da una serie di persone presenti che aveva proceduto anche a raccogliere alcuni elementi di prova - scrisse il pm De Luca - Così come era già stato rovistato, a parere di chi scrive, l’ufficio della dottoressa Esposito in Questura». Ma c’è dell’altro: Gildo Claps, fratello di Elisa, la ragazza scomparsa nel 1993 e ritrovata cadavere nel sottotetto della chiesa della Santissima Trinità di Potenza, riferì di una telefonata in cui Anna Esposito chiedeva un appuntamento. Incontro mai avvenuto perché fissato il giorno stesso in cui fu trovata senza vita. Un anno dopo la scoperta del cadavere di Elisa Claps, la madre di Anna, rivelò a Gildo che la figlia le avrebbe confidato che nella Questura di Potenza qualcuno sapeva dove la ragazzina era stata sepolta. I sospetti sui collegamenti tra i due episodi sono stati esclusi la scorsa estate dalla procura di Salerno che ha rispedito gli atti in Basilicata per la competenza territoriale. 

Si apre il 4 febbraio 2014 un nuovo capitolo del caso Claps. Un tassello importante che potrebbe contribuire a fare chiarezza almeno su alcuni dei tanti interrogativi che aspettano una risposta da oltre vent’anni. Prende il via questa mattina in tribunale a Potenza, il processo nei confronti di Annalisa Lo Vito e Margherita Santarsiero, le donne delle pulizie della Chiesa della Santissima Trinità accusate di false dichiarazioni al pubblico ministero per aver mentito sul ritrovamento del corpo di Elisa nel sottotetto, avvenuto ufficialmente il 17 marzo del 2010. Un processo frutto dell’inchiesta bis della procura di Salerno sull’omicidio della sedicenne potentina, relativa proprio alle circostanze che portarono alcuni operai a ritrovare i resti di Elisa Claps in un angolo buio e sporco del sottotetto della Chiesa dove la giovane era stata vista per l’ultima volta. Un processo iniziato nei mesi scorsi a Salerno davanti al giudice Antonio Cantillo, ma poi trasferito nel capoluogo lucano per competenza territoriale. Ad occuparsene sarà un giudice onorario (Got) e non un magistrato. Un ulteriore “anomalia” portata anche all’attenzione del presidente del Tribunale di Potenza, perchè da questo processo, soprattutto grazie ad una lunga lista di testimoni, la famiglia Claps si augura di sciogliere i dubbi che ancora restano sul ritrovamento del cadavere di Elisa. La scelta è stata però confermata e questa mattina il processo dovrebbe prendere regolarmente il via. L’attenzione si concentrerà proprio sulla lista dei testimoni, nella quale dovrebbero trovare spazio anche il vescovo Agostino Superbo e il Questore di Potenza, Romolo Panico.

Caso Claps, parla Danilo Restivo. L'unico indagato per la morte della studentessa di Potenza si difende: "Credevo fosse viva". «Sono rimasto colpito, perché ho sempre ritenuto che Elisa fosse viva da qualche parte». A parlare è Danilo Restivo, l'unico indagato per la morte della giovane studentessa di Potenza scomparsa e uccisa nel 1992. L'uomo, che si è sempre professato innocente, ricorda la ragazza e ripercorre vecchi momenti davanti alle telecamere di "Quarto grado", in onda domenica 16 maggio su Retequattro. Restivo descrive Elisa come «una buona d'animo, gentile e sensibile».  E si difende: «Ho detto tutto quello che sapevo e che ho fatto quella domenica pur non essendo stato creduto per qualche imprecisione dettata dallo stato d'animo di quando venivo interrogato per la prima volta in vita mia in questura dai poliziotti e anche quando ho fatto la dichiarazione alla tv». Sul trattamento che gli hanno riservato i media si dice «disgustato dal modo di fare informazione e giornalismo di certi individui della televisione ed anche della carta stampata che, pur di fare audience e vendere copie di giornali, nemmeno controllano o se le inventano le fonti della notizia».

Londra non vuole criminali, e si riaccende il caso Claps, come scrive Pierangelo Maurizio su Libero: Se l’Italia è la culla del diritto, la Gran Bretagna è certamente la patria dei diritti. Eppure, senza che questo susciti scandali, petizioni e titoloni, non ci hanno pensato un attimo. Gli inglesi vogliono rimandarci Danilo Restivo, l’ex ragazzo di Potenza, ora uomo di 42 anni, che sta scontando una condanna definitiva ad un minimo di 40 anni in una prigione di massima sicurezza del Regno Unito, per uno degli omicidi più atroci, l’omicidio di Heather Barnett, e condannato in Italia a 30 anni per l’uccisione di Elisa Claps, trovata nel sottotetto della chiesa della Santa Trinità a Potenza 17 anni dopo che era sparita. Le autorità britanniche hanno avviato la procedura di, letteralmente, “deportazione”, equivalente alla nostra espulsione dal territorio nazionale. Hanno avuto le prime notizie ancora incomplete i difensori italiani, il professor Alfredo Bargi e l’avvocato Marzia Scarpelli. «Siamo in contatto con la collega che in Inghilterra segue il caso. Siamo in attesa di ricevere la documentazione e la traduzione degli atti. Di certo è una procedura abbastanza insolita» dichiara Alfredo Bargi, il legale che insieme a Marzia Scarpelli ha difeso Restivo nel processo d’appello a Salerno per l’omicidio di Elisa. Ma è una vicenda, comunque si concluda, destinata a far discutere. E pure parecchio. La “deportazione” è un provvedimento di natura amministrativa ed è avviata dal Home Office, il ministero dell’Interno. L’udienza preliminare si è già tenuta di fronte al Tribunale dell’immigrazione un paio di settimane fa. La prossima udienza – quella decisiva – è prevista per aprile 2014; poi la sentenza di primo grado. Nel sistema giudiziario anglo-sassone i ricorsi non sono automaticamente accolti; nel giro di alcuni mesi la procedura dovrebbe concludersi e per Danilo Restivo il rischio è piuttosto elevato di essere rispedito in Italia, sulla base di recenti norme britanniche, secondo le quali la patria dell’habeas corpus non considera illegittimo rimpatriare i criminali. Senza complimenti. E senza la permanenza (fino a 18 messi) nei nostri Cie. Ed è la riflessione di carattere generale. Nel caso specifico a difendere Restivo e ad opporsi alla “deportazione” è l’avvocato Gabriella Bettiga. Quella che si vuole applicare al detenuto italiano se non è eccezionale, nel senso che non è fuori dalle regole, è una misura – a detta di tutti gli esperti – certamente non usuale. Dal 2007 il Regno Unito ha dato un deciso giro di vite. Dopo furiose polemiche sul fatto che delinquenti stranieri usciti dal carcere continuassero a godere dell’accoglienza inglese, è stato stabilito che la “deportazione” scatti automaticamente, a pena scontata, per coloro che provengono dai Paesi europei. Per i cittadini europei invece la procedura non è affatto automatica. Può essere avviata dall’Home Office, generalmente finita la pena, in caso di gravi reati e per motivi di sicurezza nazionale, ordine pubblico o salute pubblica. E qui emergono le due anomalie. Restivo è ben lontano dall’aver espiato la condanna, prima all’ergastolo “senza più possibilità di uscire” poi ridotta ad un minimo di 40 anni. L’altra obiezione sollevata dai difensori è la seguente: «Ci chiediamo: quale pericolo rappresenta Restivo se è richiuso in un carcere di massima sicurezza?». Il delitto di Heather Barnett per la sua ferocia tuttora resta una ferita per la tranquilla cittadina di Bournemouth, nel Sud dell’Inghilterra. Alla vittima furono tagliati i seni, adagiati accanto alla testa, l’assassino fece in modo che il suo corpo martoriato nel bagno fosse ritrovato dai figli al ritorno da scuola. «Tu sei un assassino freddo e calcolatore, tu hai macellato la loro madre» disse il giudice a Danilo Restivo. La condanna particolarmente dura aveva un doppio scopo: dimostrare che lo Stato esercita in modo esemplare l’azione penale e risarcire delle sofferenze subite i familiari della vittima. Ora invece le autorità britanniche hanno una certa urgenza di farlo tornare in Italia. Una delle tante stranezze nella lunga storia del “caso Restivo”. Che inevitabilmente riaccenderà in Italia le polemiche. Visto che i due processi, con il rito abbreviato cioè a porte chiuse, che lo hanno condannato a Salerno a 30 anni, hanno aperto più dubbi di quanti ne abbiano risolti. Uno per tutti: quando fu realmente ritrovato il cadavere di Elisa nella chiesa? Chi sapeva e ha taciuto?

In occasione del 21° anniversario dell'omicidio di Valerio Gentile, al Laboratorio Urbano di Fasano si ricorderà la storia di un'altra giovane vita spezzata nel fiore dei suoi anni: quella di Elisa Claps, sedicenne lucana scomparsa nel 1993 e ritrovata cadavere solo nel 2010. L'appuntamento, in programma per venerdì 14 marzo 2014, alle ore 18.30, sarà dedicato alla presentazione del volume "Per Elisa. Il caso Claps: 18 anni di depistaggi, silenzi e omissioni", scritto da Gildo Claps, fratello della ragazza, e da Federica Sciarelli, giornalista e conduttrice del programma televisivo Chi l'ha visto. Il volume, edito da Rizzoli, analizza nel dettaglio il brutale 'caso Claps', ripercorrendo la vicenda dall'inizio e portando in luce anche le verità nascoste nei lunghi anni di ricerca e di giustizia. Il fratello di Elisa, nonchè coautore del volume, sarà intervistato da Chiara Spagnolo, giornalista de La Repubblica.

Gildo Claps candidato a sua insaputa. Avanza su Fb il nome del fratello di Elisa. Giulio Laurenzi, vignettista potentino, ha lanciato sul social network la candidatura del fratello di Elisa Claps a sindaco di Potenza, scrive "Il Quotidiano della Basilicata". La proposta sta raccogliendo parecchi consensi. L'8 febbraio 2014 verrà reso noto un primo elenco di sostenitori. UNA candidatura «a sua insaputa», per offrire un candidato sindaco alternativo ai nomi che solitamente circolano. Un appello pubblico «per chiedere a Gildo Claps di candidarsi sindaco della città di Potenza. Per chi, come me, si sentirebbe rappresentato dalla sua forza, intelligenza e tenacia.  Prendo il coraggio a due mani e ci provo, a sua insaputa. Giulio Laurenzi». Così Giulio Laurenzi, vignettista potentino ormai proiettato al nazionale, prova a offrire la sua alternativa. Tra le varie candidature che si vanno palesando in questi giorni, quindi, questa potrebbe essere una di quelle in grado di vivacizzare la campagna elettorale, perchè Claps è considerato un rappresentante forte della società fuori dai partiti. Una proposta che per ora porta solo la firma di Laurenzi, ma che su Facebook - è stata creata la pagina “Gildo Claps sindaco” - sta già raccogliendo diversi consensi. In effetti già cinque anni fa la candidatura di Gildo Claps venne avanzata. Lui stesso, però, dopo poco tempo ritirò la candidatura dopo che qualcuno l’aveva accusato di strumentalizzare la vicenda di sua sorella Elisa. Ma stavolta le cose potrebbero andare diversamente. E benchè non si sappia ancora cosa Gildo Claps pensi di questa candidatura, sono in molti a ritenere su Fb he questa potrebbe essere la proposta migliore. Per il momento si raccolgono le firme per l’appello: un primo elenco sarà reso pubblico il prossimo 8 febbraio.

Un gruppo di cittadini di Potenza ha proposto la candidatura a sindaco, nelle amministrative che si svolgeranno in primavera, di Gildo Claps, il fratello di Elisa, la ragazza uccisa nel 1993, il cui corpo è stato ritrovato nel sottotetto della Chiesa della Santissima Trinità nel 2010, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La proposta è nata dal fumettista Giulio Laurenzi, ed è stata illustrata stamani a Potenza, nel corso di un incontro. L'idea, ha spiegato Laurenzi, è nata in un pomeriggio domenicale «nel mio negozio di fumetti, durante un’iniziativa, in un momento di pausa: ho acceso il pc e ho lanciato l’appello in rete, su Facebook. Il mio timore era di restare solo ma i contatti sono stati tantissimi». Sono già un centinaio, in pochi giorni, le firme ricevute: la pagina Facebook ha raccolto 800 adesioni e ventimila contatti. «Domani proporremo a Gildo - ha concluso – la nostra iniziativa e poi lo lasceremo decidere, ma tutto si svolgerà in trasparenza, perchè abbiamo diritto a un sindaco onesto, e soprattutto sarà un segnale per la città».

“Pronto sono Papa Francesco”. Una voce rassicurante, calorosa e paterna. Una sensazione che mamma Filomena non provava da molti anni e che l’ha fatta sorridere dopo tanto tempo, scrive Mara Risola su “La nuova del Sud”. Come un raggio di sole che fa capolino tra nuvoloni neri durante la tempesta. La notizia della telefonata che Papa Francesco ha fatto nei giorni scorsi a Filomena Iemma, madre della giovane studentessa potentina, Elisa Claps, scomparsa a Potenza il 12 settembre del 1993 il cui cadavere è stato ritrovato il 17 marzo 2010 nel sottotetto della Chiesa della Trinità di Potenza, ha trovato conferma nelle parole della stessa signora Iemma. Intervistata da Paolo Fattori, giornalista del noto programma televisivo “Chi L’ha visto”, mamma Filomena ha raccontato ai microfoni di Rai 3 la sua personale esperienza. L’intervista, andata in onda lo scorso mercoledì, ha permesso alla madre di Elisa di esternare il suo riconoscimento nei confronti di un gesto che mai si sarebbe aspettata. Papa Francesco ha fatto quello che la Chiesa Cattolica doveva fare da tempo. Aiutare la famiglia Claps non solo a trovare la verità, ma a riconciliarsi con un’Istituzione verso la quale per circostanze legate alla morte di Elisa e al suo ritrovamento, la famiglia Claps non riusciva più ad avere fiducia. E lo ha fatto in un momento molto delicato, il 20 gennaio alle ore 19, Papa Bergoglio ha composto il numero di cellulare di Filomena, due giorni prima la morte di Antonio Claps, padre di Elisa. Un uomo che ha sofferto in silenzio per la perdita di una figlia e soprattutto per l’assenza di verità. E senza quella verità ha raggiunto Elisa in cielo lo scorso 22 gennaio.

Adottiamo questa città, iniziando dai suoi parchi. Non è solo colpa degli altri: i rifiuti li lasciano i cittadini, scrive Antonella Giacummo su “Il Quotidiano della Basilicata”. Se noi cittadini provassimo a prenderci cura della città? Siamo così abituati a dare la colpa agli altri che abbiamo perso la capacità di prenderci, da cittadini, le nostre responsabilità. E così, vedendo la sporcizia delle nostre strade o dei nostri parchi, senti dire: “Che schifo questo Comune, paghiamo solo tasse per avere rifiuti da tutte le parti”. Breve passeggiata all’interno del Parco di Macchia Romana dedicato a Elisa Claps. E’ un luogo davvero bello, come in città ce ne sono pochi. C’è verde, alberi, tanto spazio per passeggiare, correre. Però poi ti colpisce l’incuria. Perchè tutto quel verde è sporcato da ogni genere di rifiuto. Ci sono bottiglie, buste di patatine, cartoni della pizza, piatti e bicchieri. Insomma, evidentemente quelli che il parco lo frequentano, pranzano e cenano in quel luogo. Ma siccome devono aver insegnato loro che ciò che è pubblico non è “roba nostra”, dopo aver banchettato buttano lì a terra quanto non serve. Non solo: siccome devono trovare particolarmente divertente la distruzione del parco, ti capita di trovare anche le lattine dentro le fontane che da poco sono state sistemate, dopo diversi atti vandalici. Allora una considerazione: è davvero sempre colpa del Comune se è tutto rotto o sporco? Io credo di no. E ribadisco che se il fazzoletto sporco lo butto a terra invece che nel cestino sono io l’incivile, non il Comune. E se fra qualche mese quel parco, come altri in città, sarà in condizioni ancora peggiori, se le fontane non funzioneranno o le altalene saranno spezzate, la colpa sarà anche nostra che non abbiamo saputo vigilare su un bene pubblico. Essere cittadini significa avere rispetto e cura per quello che è di tutti. E non è un modo di dire: un parco è un bene che erediteranno i prossimi cittadini se saremo in grado di insegnare loro la cura per ciò che non ci appartiene in maniera individuale. La “cosa pubblica” è un privilegio che dovremmo essere in grado di custodire e proteggere. Se non siamo in grado di farlo allora non siamo cittadini. E non abbiamo neppure il diritto di sbraitare contro amministratori e politici vari. E faccio allora una proposta: adottiamola questa città. Ne siamo parte, viviamola ma proteggendola. E proviamo, da cittadini, a riprenderci quello come altri spazi. Non aspettiamo che arrivi il Comune - che forse non arriverà - armiamoci di sacchi e guanti e riprendiamoci la nostra città e i suoi spazi. Se non saremo in grado di farlo rischiamo di restare i più infelici d’Italia per sempre.

ELISA CLAPS: RESTIVO COLPEVOLE? FORSE!

L’hanno cercata per ben 17 anni, fino a quando i suoi resti furono trovati il 17 marzo del 2010, nel sottotetto della chiesa della Trinità di Potenza, scrive Fabio Amendolara su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Lì dove - la Corte d’assise d’appello lo ha confermato - Elisa fu uccisa da Danilo Restivo. Ed è proprio il luogo del delitto che lo incastra. In cento pagine i giudici della Corte d’assise d’appello di Salerno spiegano perché hanno deciso di confermare la condanna a 30 anni di carcere per l’omicidio di Elisa Claps, la studentessa di Potenza scomparsa e uccisa il 12 settembre del 1993. I giudici hanno respinto in modo fermo la tesi del difensore di Restivo - l’avvocato Alfredo Bargi - che sosteneva di «cogliere nelle pagine della sentenza di primo grado (emessa dal giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Salerno Elisabetta Boccassini a seguito di rito abbreviato, ndr) una propensione valutativa di tipo colpevolista fatalmente influenzata dal clima mediatico-giudiziario in cui si è sviluppata la vicenda procedimentale prima e processuale poi, per un lunghissimo arco di tempo (circa 18 anni)». Questa pressione mediatica «avrebbe portato inevitabilmente a dirigere le indagini solo su Restivo, trascurando percorsi alternativi che orientavano verso personaggi di maggiore spessore». Il difensore ha contestato anche la prova scientifica: quella traccia di Dna di Restivo trovata sulla maglia che indossava Elisa il giorno della scomparsa. Spiegano i giudici: «La decisione di un caso giudiziario complesso non è mai affidato a un solo elemento di prova, il quale, pur dotato di una eclatante valenza dimostrativa, sia tale, da solo, di orientare in maniera decisiva chi giudica verso la condanna o l’assoluzione». E il Dna trovato sulla maglia «pur non avendo una valenza dimostrativa assoluta - spiegano i giudici - certamente può acquistare molta importanza se posto in relazione a tutti gli altri segmenti del compendio probatorio». Restivo insomma è stato condannato «non per una prova regina», scrivono i giudici, ma «per una serie di indizi dotati della stessa valenza». Per i giudici di Salerno la circostanza che inchioda l’imputato «è il luogo del ritrovamento del cadavere»: il sottotetto della chiesa della Trinità. Proprio il posto in cui vittima e imputato si erano visti il giorno della scomparsa. «È questa evenienza fattuale - sostengono i giudici - adeguatamente collegata in maniera causale, spaziale e temporale agli spostamenti del carnefice e della vittima sino alle 11,30 di quel 12 settembre del 1993 che attinge fortemente la posizione di Restivo, laddove, fino a quel momento, una serie di gravi indizi emersi dalle indagini conducevano a lui ma, obiettivamente, non erano tali da far ritenere raggiunta la prova della sua colpevolezza». È rispetto a questo dato storico che - valutano i giudici - «la prova genetica rappresenta un grave indizio di “chiusura”, un forte elemento di “rafforzamento” del convincimento di responsabilità». Paradossalmente, sostengono le toghe salernitane, «se i resti di Elisa fossero stati rinvenuti in un altro stabile la posizione di Restivo sarebbe stata più difendibile». E ancora: «Altri indizi - si legge nella sentenza - Restivo li ha disseminati anche nell’immediato post delictum. L’imputato infatti non ha saputo giustificare in maniera credibile un taglio che aveva alla mano sinistra». Anna Esposito: riaperto il caso sul suicidio della poliziotta "che sapeva tutto su Elisa Claps". Il fratello della Claps aveva rivelato: "Sapeva dov'era sepolto il corpo".

Anna Esposito fu trovata impiccata alla maniglia della porta il 12 marzo 2001. Commissario capo, dirigente della Digos della questura di Potenza, madre di due bambine, ci furono diverse indiscrezioni secondo le quali l'agente sapeva dove era sepolta Elisa Claps. Altro caso che tenne l'Italia col fiato sospeso: il corpo della ragazza fu trovato 16 anni dopo la scomparsa e dell'omicidio venne infine accusato Danilo Restivo. Sul caso di Anna, al pm Sergio Marotta furono concessi 6 mesi per le indagini, in base all'ipotesi di omicidio volontario. Alla fine l'archiviazione: si è trattato di suicidio. A poco valse il fatto che imbrigliarsi alla maniglia di una porta è uno strano modo per suicidarsi, che i piedi toccavano a terra, che la fibbia della cintura si trovava sulla parte anteriore del collo e non dietro, come sarebbe stato normale. E inascoltate furono anche le dichiarazioni del fratello della Claps a Chi l'ha visto, quelle in cui raccontava che Anna avrebbe confidato alla mamma dov'era il cadavere di Elisa Claps, solo pochi giorni prima di morire. Le indagini si fermarono, perché nulla era emerso dalle relazioni amorose di Elisa con un giornalista, dalla vita familiare della ragazza e dalle ultime ore di vita prima che venisse trovata nel suo appartamento nella caserma Zaccagnino. Ma ora le indagini si riaprono. Dopo che un'inchiesta aveva stabilito l'inesistenza di collegamenti con il caso Claps, sono emersi nuovi elementi. La nuova indagine riparte da un'inchiesta svolta dalla Gazzetta del Mezzogiorno su particolari mai sviluppati dopo la morte di Anna Esposito e sulle carte depositate a Salerno, riguardanti il caso Claps e la condanna di Restivo a trent'anni di carcere.

COME E’ MORTA ANNA ESPOSITO?

«Il segreto di Anna» era legato ad Elisa Claps, scrive Ver.Med. su “Il Tempo”. C’è una penna, accanto a un corpo esanime, immobile perché il soffio di vita non c'è più. Lei è «fredda. Pallida. Il suo volto è sereno, ma il corpo è già rigido». Non c’è però un foglio su cui scrivere. C’è inoltre un diario dove la vittima era solita appuntare, puntuale, tutto ciò che le accadeva, ogni giorno. Mancano delle pagine. Quattro. Stracciate con violenza e magari in velocità, anche. A lanciare l’allarme del dubbio, alcuni pezzettini di carta ancora attaccati agli anelli di metallo. È la mancanza a creare sospetti. E non solo. C’è il cappellano della Questura, don Pierluigi Vignola, a lui Anna aveva confessato un tentativo non riuscito di suicidio. Ma «il 14 marzo Anna è stesa sul tavolo dell’obitorio». Il modus operandi della vittima può essere lo stesso? La signora Olimpia Magliano, mamma di Anna, rivela una confidenza fattale dalla figlia: nella Questura di Potenza qualcuno sapeva dove era stata sepolta Elisa Claps. La ragazza scomparsa e uccisa a Potenza il 12 settembre del 1993. L'assassino? Danilo Restivo. C’è la chiesa della Santissima Trinità poi, dove i fedeli si recano per ricongiungere l’anima a Dio. È proprio lì, nel sottotetto, che il 17 marzo del 2010 è stato ritrovato il corpo della giovane. «Il segreto di Anna» (EdiMavi, pag. 80 euro 13,00) di Fabio Amendolara è un libro inchiesta su un suicidio sospetto: la misteriosa morte di Anna Esposito e gli intrecci con la scomparsa di Elisa Claps. Nell’appartamento di servizio all’ultimo piano della caserma Zaccagnino di Potenza in via Lazio, il 12 marzo del 2001 viene ritrovato il corpo del commissario della Digos. Strangolata da qualcuno che conosceva e poi appesa per il collo con una cinta, alla maniglia della porta del bagno, per simulare un suicidio. «Il corpo è sospeso di pochi centimetri. Il cappio le gira attorno al collo, ma non è serrato e le segna a malapena la pelle». La dottoressa Romeo, Di Santo, Cella e l’ispettore Paradiso, quattro poliziotti esperti, ritrovano il suo corpo, ma non si accorgono del «rigor mortis», strano. I sospetti vanno allontanati dalla Questura. Nella sua prefazione Gildo Claps, fratello di Elisa, racconta la telefonata ricevuta da Anna Esposito il giorno prima della sua morte. «Quello che so con certezza è che tante coincidenze insieme portano inevitabilmente a considerare plausibili anche le supposizioni più ardite». Abbiamo un obbligo morale, portare alla luce la verità. Anna e Elisa, due donne, avevano un sogno nel loro futuro, la vita.

Il segreto di Anna, la poliziotta del caso Claps. Fu trovata impiccata. Caso archiviato: suicidio. Ora si torna a indagare: per omicidio, scrive Nino Materi su “Il Giornale”. Il caso Claps è un cubo di Rubik insoluto. Quando ti illudi che i quadretti siano ormai tutti della stessa tinta, ecco spuntare un colore fuori posto. E allora sei costretto a ricominciare. Per mesi, per anni. Senza certezze, se non quella che Danilo Restivo è in carcere e lì resterà a lungo. Restivo dopo aver ucciso Elisa Claps «espatriò» in Inghilterra dove massacrò un'altra poveretta. Domanda angosciante: almeno questo secondo delitto poteva essere evitato? Ed è qui che si innesca un giallo nel giallo. Nel 2001 (cioè 9 anni prima del ritrovamento del cadavere della studentessa potentina nel sottotetto della chiesa della Santissima Trinità di Potenza) il corpo del commissario di Polizia, Anna Esposito, viene trovato «impiccato» alla maniglia di una porta del suo appartamento. Benché gli stessi inquirenti parlino subito di «suicidio anomalo», il caso viene archiviato, evidenziando come possibile movente del «gesto estremo» una non meglio precisata «crisi sentimentale». Ma dietro quella morte c'è forse ben altro di un amore contrastato, di una situazione familiare complessa (ma non certo drammaticamente disperata): dietro quella morte c'è, forse, un collegamento con Elisa Claps che, all'epoca della morte della di Anna Esposito, era scomparsa già scomparsa nel nulla da otto anni. Della studentessa potentina si perdono le infatti le tracce la domenica mattina del 12 settembre 1993, mentre il cadavere delle poliziotta viene ritrovato il 12 marzo 2001. Otto anni durante i quali i sospetti su Danilo Restivo sono tanti, ma non suffiecienti ad arrestarlo; il cerchio su Restivo si stringerà infatti solo successivamente al ritrovamento del cadavere di Elisa avvenuto «ufficialmente» il 17 marzo 2010. Il commissario Esposito, pochi giorni prima della sua morte, telefonò al fratello di Elisa, dicendogli di avere «novità» sulla vicenda della ragazza. Un incontro che non avvenne mai, Anna non ne ebbe il tempo... È questo l'elemento chiave attorno al quale ruota il documentato libro inchiesta, «Il segreto di Anna» (EdiMavi), del giornalista della Gazzetta del Mezzogiorno, Fabio Amendolara. Pagine e pagine di presunte «discrepanze nei rapporti giudiziari della polizia e falle investigative». Sullo sfondo le «coincidenze» che collegherebbero la morte del commissario all'omicidio della giovane Elisa. Usatissima nel libro è la parola «depistaggio». La stessa che ha contraddistinto - non senza ragione - l'intera odissea della famiglia Claps che la sua battaglia l'ha sempre combattuta (e vinta) con tenacia e dignità. Ma nel caso Claps sono ancora tante le cose che ancora restano in penombra. Ma non è mai troppo tardi per far entrare la luce. Per questo va salutata con favore la decisione della magistratura lucana di riaprire il fascicolo sulla morte del commissario Anna Esposito. Suo padre ha sempre urlato: «Mia figlia non si sarebbe mai tolta la vita...». E allora non resta che un'altra ipotesi: omicidio, la nuova pista su cui la Procura della Repubblica di Potenza ha deciso di indagare. Qual era il «segreto» che Anna voleva svelare al fratello di Elisa? Chi aveva interesse a chiudere la bocca della poliziotta?

Il cubo di Rubik continua ad avere un colore fuori posto. Il suicidio di Anna Esposito, sapeva dov’era Elisa Claps: l’inchiesta di Fabio Amendolara, scrive Filomena D'Amico su"Stile Firenze”. Anna Esposito, un commissario di polizia di 35 anni viene trovata impiccata alla maniglia della porta del bagno nel 2001 nel suo appartamento a Potenza, il caso venne archiviato da subito come suicidio. Ma i dubbi dei familiari, le discrepanze nelle indagini, le prove mai esaminate e quella strana connessione con la vicenda di Elisa Claps hanno imposto la riapertura del caso dopo 12 anni. Nella sua inchiesta giornalistica, oggi diventata un libro, Fabio Amendolara rilegge tutti gli atti e le deposizioni, ricostruisce le sequenze di quella tragica mattina, appunta una per una le anomalie, gli indizi tralasciati e gli interrogativi mai risolti; finché la sua indagine non si imbatte in un’inquietante coincidenza che lega Anna al caso dell’adolescente scomparsa nel 1993 e  ritrovata cadavere il 17 marzo del 2010 nel sottotetto della Chiesa di Santissima Trinità in quella stessa città, Potenza. E’ da qui che prende le mosse il suo libro il “Segreto di Anna” presentato alla Biblioteca dell’Orticoltura di Firenze. Benché dopo anni il colpevole dell’omicidio di Elisa Claps, Danilo Restivo, sia stato assicurato alla giustizia, ancora oggi sulla vicenda permangono fitti coni d’ombra e domande ancora in cerca di risposte. Nel 2009 proprio indagando sul caso Claps, Amendolara cronista di nera della Gazzetta del Meggiorno, scova un’informativa redatta da un sottoposto del commissario Esposito, nel documento il vice sovrintendente scriveva che da una fonte confidenziale aveva appreso che i resti del corpo di Elisa erano nella Chiesa della Trinità di Potenza. Siamo nel marzo del 2001, 19 giorni dopo la morte di Anna e 9 anni prima del ritrovamento del corpo di Elisa nel sottotetto della chiesa.

Chi è Anna Esposito? Anna è un commissario capo della Polizia, dirigente della Digos a Potenza con un matrimonio alle spalle e due figli che vivono col padre a Cava dei Tirreni in provincia di Salerno. E’ qui che Anna ha trascorso il week end, l’ex marito riferirà che era serena. Il pomeriggio di domenica rientra a Potenza, sale su all’ultimo piano della caserma nell’appartamento a lei assegnato, ciondola per casa, fa una telefonata alla madre alle 19:40 poi sceglie un vestito nero, calze nere e scarpe eleganti quella sera c’è una festa e lei è stata invitata. La ritroveranno il lunedì mattina a Potenza con il cinturone della divisa legata al collo e appeso alla maniglia del bagno, il corpo semi seduto a terra con i glutei sollevati di pochi centimetri dal pavimento. La polizia di Potenza si orienta senza troppi dubbi sul suicidio, nemmeno la singolare definizione di impiccamento atipico scritta nero su bianco nella relazione dei medici legali da nuovo impulso alle indagini. Una turbolenta storia d’amore appena conclusa e poi quella voce, quella confidenza fatta in un confessionale, di un precedente tentativo d’omicidio sono elementi sufficienti per convincere gli inquirenti. Eppure in quella stanza dove Anna ha trovato la morte una domenica di fine inverno sono molte le cose che non tornano. Il letto non è disfatto e la luce della lampada è ancora accesa, dunque tutto deve essere accaduto dopo il tramonto. Fabio Amendolara nella sua inchiesta mette in fila le anomalie, le contraddizioni e le falle investigative: nell’ appartamento quella mattina c’è un via vai di agenti, ispettori, medici; nessuno di loro pensa ad isolare l’area per preservare le prove. A un certo punto, una collega di Anna tenta persino una manovra di rianimazione sul corpo del commissario manomettendo così la posizione originaria del corpo. Non ci sono foto di come fu effettivamente ritrovata Anna, quando la Polizia Scientifica entra nell’appartamento il corpo della poliziotta è già stato slegato. Accanto al letto tra gli oggetti personali della donna gli ispettori registrano la presenza di due biglietti ferroviari, perché due? Qualcuno aveva viaggiato insieme ad Anna quel pomeriggio? A fianco al corpo una penna ma nella stanza non fu ritrovato nessun biglietto; circostanza alquanto anomala per una come Anna che invece aveva l’abitudine di appuntarsi tutto in un’agenda da cui non si separava mai. Da quella agenda ad anelli sono state sottratte delle pagine, strappate con l’imperizia di chi non si preoccupa di sfilare poi i residui di carta. Non è mai stata fatta un esame grafico sull’agenda che potesse rivelare cosa vi fosse scritto nelle pagine che mancano. In caserma i colleghi della Esposito erano a conoscenza che il commissario riceveva di frequente degli strani biglietti minacciosi; Anna se li ritrovava sulla scrivania dell’ufficio, infilati sotto la porta o anche dentro la borsa. Eppure di questi strani episodi non c’è traccia nel fascicolo d’inchiesta né furono mai prelevate le impronte per compararle con quelle sulla scena del crimine.

Cosa c’entra Anna Esposito con il caso di Elisa Claps?

La città è la stessa, Potenza; il primo vero anello di congiunzione tra i due casi è la figura di un sacerdote, Don Pierluigi Vignola il cappellano della Questura.  Il quale sembra sapere particolari riservati della vita della Esposito e dettagli importanti dell’inchiesta che riguarda la sua morte. Don Vignola racconta, Don Vignola omette, spesso a seconda dell’interlocutore. Racconta agli inquirenti di aver raccolto in confessione una confidenza agghiacciante da parte di Anna: quel suicidio con quelle stesse modalità lei lo aveva già tentato un mese prima. Ma Don Vignola è anche colui che nel 1993 il giorno dopo la scomparsa di Elisa celebrò messa nella Chiesa della Santissima Trinità in sostituzione di Don Mimì Sabia, partito per Fiuggi.  Circostanza che il prelato ha sempre smentito. Ma il sentiero che da Anna conduce dritto in quella chiesetta di Potenza e al terribile omicidio della Claps è costellato di indizi e coincidenze. Gildo Claps, fratello di Elisa, possiede una scuola d’Inglese, un giorno del 2001 riceve una telefonata: è Anna Esposito che vuole avere delle informazioni su un corso che vorrebbe seguire; non vuole parlarne per telefono. “Le dispiace se passo a trovarla?” chiede Anna. L’appuntamento è per il lunedì pomeriggio dopo il lavoro. La domenica sera Anna muore. Dopo la morte di Anna la signora Olimpia Magliano, mamma di Anna, rivela a Gildo Claps una confidenza fattale dalla figlia: nella Questura di Potenza qualcuno sapeva dove era stata sepolta Elisa Claps. La ragazza scomparsa e uccisa da Danilo Restivo a Potenza il 12 settembre del 1993. L’inchiesta sulla morte di Anna Esposito è stata riaperta e anche grazie al lavoro di Fabio Amendolara emergono oggi nuovi dettagli su questo giallo; una telefonata sarebbe arrivata al 118 prima dell’irruzione dei poliziotti nella appartamento del loro dirigente, forse potrebbe essere questa la chiave del mistero.

Potenza, nuovo giallo su poliziotta morta: «Aveva costole rotte», scrive Fabio Amendolara su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. «Difficile stabilire con certezza se le ecchimosi trovate siano precedenti alla morte». Ma è necessario un approfondimento su alcune costole fratturate. Verrà effettuato nei laboratori dell’Università di Chieti. Il professor Francesco Introna, medico legale che si occupa della seconda autopsia sul corpo di Anna Esposito - il commissario della polizia di Stato morto nella caserma Zaccagnino di via Lazio a Potenza il 12 marzo del 2001 in circostanze mai chiarite - lo ha detto in modo chiaro. È questo il risultato dell’esame effettuato l’altro giorno all’Università di Bari con i consulenti tecnici della Procura, della famiglia Esposito e dell’indagato (il giornalista Luigi Di Lauro, ex compagno della poliziotta che si dichiara innocente). È sulle fratture, quindi, che si concentra l’attenzione dell’equipe del professor Introna. Bisogna accertare con precisione scientifica se quelle fratture costali siano state prodotte da una colluttazione. «Bisogna controllarle bene queste fratture e bisogna contestualizzarle - ha detto uno dei consulenti della famiglia Esposito - ma le fratture costali prodotte da un impiccamento da bassa altezza sono un elemento dubbio». «Oggi è incauto se non irresponsabile giungere ad affrettate conclusioni», chiosa uno dei periti dell’indagato (accompagnato dall’avvocato Leonardo Pinto). Il caso all’epoca fu chiuso in fretta ritenendo provato il suicidio. Il commissario fu trovato con la cintura stretta attorno al collo e legata alla maniglia della porta del bagno. La riesumazione della salma è stata disposta dai magistrati della Procura di Potenza Francesco Basentini e Valentina Santoro. Anna è stata trovata impiccata alla maniglia della porta del bagno del suo alloggio con una cintura stretta attorno al collo. L’ipotesi è che si sia trattato di una messinscena. Anna potrebbe essere stata soffocata e poi appesa alla maniglia della porta con una cintura per simulare il suicidio. È giunto a queste conclusioni anche il consulente tecnico della Procura - Giampaolo Papaccio, professore di istologia ed embriologia medica della Seconda università degli studi di Napoli - che ha analizzato le fotografie della prima autopsia. La presenza di macchie ipostatiche in punti anomali del corpo farebbe supporre che Anna sia stata appesa dopo la sua morte. La letteratura medica prevede che le ipostasi - delle macchie violacee che si formano sui cadaveri - nei casi di impiccamento vadano a fissarsi sulle mani e sui piedi. Nel caso di Anna - stando alle fotografie della prima autopsia - le macchie ipostatiche si sono formate anche in altre aree. È uno dei tanti aspetti scientifici da approfondire.

Potenza, morte di Esposito scoperta macchia sul viso, continua Fabio Amendolara. Una macchia rotonda giallastra con un punto rosso molto evidente nella parte superiore, tra l’arco del sopracciglio e l’attaccatura dei capelli: proprio sulla tempia sinistra. A guardarla nell’unica foto in cui compare - che la Gazzetta può pubblicare in esclusiva - sembra una contusione. È come se Anna Esposito - il commissario della polizia di Stato morto il 12 marzo del 2001 in circostanze mai chiarite (il caso era stato chiuso in fretta come suicidio e riaperto un anno fa, dopo un’inchiesta giornalistica della Gazzetta, con l’ipotesi di omicidio volontario) - fosse stata colpita proprio in quel punto. Quel particolare non è stato descritto in nessun documento dell’inchiesta. Non compare nelle informative degli investigatori e neppure negli atti del sopralluogo effettuato dalla polizia scientifica, nonostante sia ben visibile in una delle foto di primo piano scattate mentre il corpo senza vita della poliziotta era poggiato sul tavolo d’acciaio dell’obitorio. Il caso all’epoca fu chiuso in fretta come suicidio. Anna fu trovata legata alla maniglia della porta del bagno del suo alloggio, nella caserma della polizia di Stato di via Lazio a Potenza, con una cintura stretta attorno al collo. Con molta probabilità, quindi, l’attenzione degli investigatori si concentrò sul collo della vittima. Gran parte delle informazioni riportate nei documenti investigativi, infatti, riguarda il segno lasciato dalla fibbia della cintura sulla pelle della donna. E furono ben descritte le dimensioni del «solco latente» disegnato dal cuoio sulla gola. «Impiccamento atipico incompleto» lo definirono i medici-legali che effettuarono l’autopsia. Atipico perché la fibbia della cintura non si posizionò - come prevede la letteratura medica - sulla nuca della vittima ma sul lato del collo. E incompleto perché mancò quella sospensione necessaria a permettere lo strozzamento. Tutti gli accertamenti investigativi e scientifici si concentrarono su questi aspetti. Quella piccola contusione all’epoca forse apparve ininfluente. Oggi, però, superata l’ipotesi del suicidio - grazie anche a una consulenza medico-legale disposta dopo la riapertura dell’inchiesta coordinata dai magistrati della Procura di Potenza Francesco Basentini e Valentina Santoro - potrebbe trasformarsi in un dettaglio importante. Ancora oggi potrebbe essere utile accertare se quel livido stampato sulla tempia della poliziotta le sia stato provocato prima o dopo la morte. Ma cosa potrebbe aver prodotto quel segno sulla pelle? Un pugno sferrato da una mano con infilato un anello al dito? Oppure Anna è stata colpita con un oggetto? Al momento si tratta di ipotesi che la nuova inchiesta, però, non potrà ignorare.

Giallo Esposito, spunta un’impronta mai comparata, scrive Fabio Amendolara su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Proprio sotto la piastra metallica che fissa la maniglia alla porta del bagno c’era un’impronta digitale che all’epoca fu «isolata» dagli investigatori della polizia scientifica. A quella maniglia 13 anni fa è stata trovata legata con una cintura stretta al collo Anna Esposito, il commissario della polizia di Stato morto in circostanze mai chiarite nella caserma della polizia di via Lazio a Potenza. Quell’impronta digitale all’epoca fu ignorata perché la Procura procedeva per l’ipotesi di suicidio. Un anno fa il caso è stato riaperto - dopo un’inchiesta giornalistica della Gazzetta e la richiesta di riapertura avanzata dai familiari - e ora la Procura ipotizza l’omicidio volontario. Mentre il professor Francesco Introna - che ha ricevuto incarico dai magistrati Francesco Basentini e Valentina Santoro di far luce sulle cause della morte della poliziotta - torna l’interesse su quell’impronta digitale mai comparata. Sulla porta del bagno all’epoca è stata cosparsa polvere di alluminio per «esaltare» le possibili tracce. «Un frammento di impronta - scrivono gli investigatori della polizia scientifica nel verbale di sopralluogo - asportato con adesivo nero dalla superficie esterna dell’imposta del bagno di servizio, in prossimità del bordo destro e sotto la piastra di fissaggio della maniglia di apertura» è tra gli atti finiti in archivio. «Il frammento - si legge nel rapporto giudiziario - è stato prelevato due volte al fine di poterne migliorare le qualità morfologiche e di nitidezza». Già all’epoca, quindi, la qualità dell’impronta era stata migliorata. Oggi le nuove tecniche di laboratorio con molta probabilità potranno permettere ulteriori miglioramenti. Il caso all’epoca fu chiuso in fretta ritenendo provato il suicidio. La poliziotta fu trovata con la cintura stretta attorno al collo e legata alla maniglia della porta del bagno. «Suicidio atipico incompleto», fu definito dai medici-legali. «Atipico» perché la fibbia della cintura fu trovata al lato del collo della poliziotta e la letteratura medica prevede che nella gran parte dei casi la fibbia debba posizionarsi sulla nuca. E «incompleto» perché era mancata la sospensione necessaria a permettere lo strozzamento (il corpo di Anna toccava con i piedi il pavimento e parzialmente anche con i glutei). Ora il professor Introna - che la scorsa settimana ha eseguito la nuova autopsia - sta cercando di accertare con precisione scientifica se Anna è stata appesa alla maniglia della porta quando era già morta.

Potenza, giallo Claps. Ex questore «frainteso» sugli innocenti depistaggi, continua Fabio Amendolara. I chiarimenti dell’ex questore di Potenza Romolo Panìco sugli «innocenti depistaggi», la conferenza stampa «congiunta» convocata «solo dal vescovo» e poi annullata, le sue due relazioni di servizio sul ritrovamento di Elisa Claps (la studentessa scomparsa e uccisa il 12 settembre del 1993, i cui resti sono stati ritrovati «ufficialmente» il 17 marzo del 2010). E le novità sugli operai, emerse durante il processo a Potenza e non durante l’inchiesta della Procura di Salerno, confermate parzialmente in aula dall’imprenditore Antonio Lacerenza. I due testimoni hanno risposto alle domande del pubblico ministero Laura Triassi e a quelle degli avvocati Giuliana Scarpetta (legale della famiglia Claps) e Maria Bamundo (che difende le signore delle pulizie, Margherita Santarsiero e Annalisa Lo Vito, accusate di aver detto il falso al pm di Salerno Rosa Volpe). «Le ulteriori contraddizioni emerse durante l’udienza di ieri confermano che il ritrovamento è stato solo una messinscena», commenta Gildo Claps, fratello di Elisa al termine dell’udienza. La frase «innocenti depistaggi» - pronunciata dal questore Panìco immediatamente dopo il ritrovamento - «fu detta male e io esposi un concetto in maniera banale, ovvero che una parte delle indagini, subito dopo la scomparsa della ragazza, fu anche depistata da elementi frutto della fantasia». Lo ha ripetuto: «Ho esposto un mio concetto in modo errato, banale, e mi sono pentito di averlo spiegato in questa maniera. Intendevo dire – ha precisato Panico – che subito dopo la scomparsa di Elisa non ci furono solo reali depistaggi, come quelli di Danilo Restivo. Furono forniti agli investigatori anche elementi frutto di fantasia che determinarono errori nelle indagini, ma non erano depistaggi voluti». E i depistaggi, innocenti e meno innocenti, sono continuati dopo il ritrovamento. La famiglia Claps ne è convinta. Nel corso di una precedente udienza è emerso che c’era un quarto operaio la mattina del ritrovamento (nell’inchiesta della Procura di Salerno questo importante particolare non era stato accertato). Ieri mattina si è appreso che ora è un dipendente della ditta Lacerenza (l’impresa incaricata dalla Diocesi di effettuare i lavori nel sottotetto). Ma al contrario di quanto emerso precedentemente il testimone sostiene che non è stato il quarto uomo a trovare i resti di Elisa. La ricostruzione dell’imprenditore - che lascia molti punti interrogativi - è questa: da un paio di sopralluoghi emerse la necessità di risistemare il terrazzo della chiesa, allagato per l’ostruzione di una grondaia, ma non il sottotetto. L’umidità in chiesa «non era in corrispondenza con l’angolo nel sottotetto» in cui è stata trovata Elisa. «Vidi che la porta del sottotetto - ha sostenuto Lacerenza - era aperta e chiesi di chiuderla e pulire la grondaia antistante e per questo mi sono rivolto a un’altra ditta specializzata in queste cose, ma fu l’operaio a scegliere di ispezionare anche l’abbaino, e mi chiamò terrorizzato spiegandomi di aver trovato uno scheletro». Sulla presenza del quarto operaio l’imprenditore ha spiegato di averlo saputo solo dalle recenti cronache giornalistiche, chiedendo poi spiegazioni: «Fu chiamato – ha concluso – solo per recuperare alcuni attrezzi ma mi hanno spiegato che non è salito sul sottotetto, e lui stesso me lo ha confermato quando di recente l’ho incontrato, suggerendogli anche di recarsi in Questura per precisare i dettagli di questa vicenda». L’imprenditore ha detto che il quarto uomo è arrivato sul posto quando i resti di Elisa erano già stati ritrovati. L’altro operaio - è la versione di Lacerenza - avrebbe perso tempo a cercare i grattini per il parcheggio. Ma se l’umidità non era in corrispondenza con l’angolo del sottotetto in cui era nascosta Elisa perché fu necessaria quell’ispezione? Perché se i dipendenti appartenevano a un’altra ditta chiamarono Lacerenza e non il loro datore di lavoro? La chiesa della Trinità ha un parcheggio riservato, perché il quarto operaio perse tempo a cercare dei grattini per il parcheggio? Sono gli ulteriori interrogativi a cui il processo dovrà cercare di rispondere.

Omicidio Claps. Don Noel: mai salito nel sottotetto, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Don Akamba Noel, sacerdote di origine congolese, ha retto la Chiesa della Santissima Trinità di Potenza tra ottobre 2007 e luglio 2008, in sostituzione di don Mimì Sabia, malato in quei mesi (e morto a marzo del 2008), ma «non è mai salito nel sottotetto dell’edificio» dove nel 2010 fu trovato il cadavere di Elisa Claps. È uno degli elementi emersi nel corso del processo per falsa testimonianza a due donne che si occupavano delle pulizie nella chiesa, che si sta svolgendo a Potenza. Don Noel è stato nominato «cooperatore parrocchiale» dal vescovo di Potenza, monsignor Agostino Superbo, il 4 ottobre 2007: a febbraio dell’anno successivo ha ricevuto poi l’incarico di «amministratore parrocchiale». Rispondendo alle domande dell’avvocato della famiglia Claps, Giuliana Scarpetta, don Noel ha spiegato che «in quei mesi andavo solo a celebrare la messa la mattina e il pomeriggio» senza «occuparmi di altro» e senza «mai aver dato istruzioni o compiti a nessuno, nemmeno alle donne delle pulizie», dicendo di non ricordarsi delle due donne imputate nel processo. Il sacerdote ha quindi raccontato di aver visto del materiale di risulta nel cortile «ma non mi sono mai chiesto l’origine di quel materiale», evidenziando quindi di non sapere «che una parte fu usata per rompere la vetrina di un negozio nei pressi della Trinità». «Ho solo chiesto – ha aggiunto – ad alcuni ragazzi che venivano in chiesa di ripulire il giardino perchè era sporco, e questo fu fatto, ma non davo mai compiti a nessuno, e in molti avevano le chiavi dell’edificio». La storia di Elisa «l'ho appresa dalla stampa», ma «non ne ho parlato mai con nessuno», nemmeno con don Mimì Sabia, precisando «solo di sapere che l’accesso nel sottotetto non era permesso, perchè era sotto sequestro, e mi hanno spiegato che era a causa delle indagini»; quando il cadavere fu ritrovato, nel 2010, il sacerdote era in Congo e fu informato da un «amico sacerdote, don Rodrigo», che adesso vive in Sardegna «spiegandomi che avevano trovato una ragazza morta nella Trinità», ma anche in questo caso «non ne ho mai parlato con nessuno successivamente». Al termine dell’udienza la madre di Elisa, Filomena Iemma, ha fermato don Noel e gli ha detto ironicamente «grazie per tutte le fandonie che hai detto oggi».

Una lettera è rimasta nell’appartamento del parroco, al secondo piano della chiesa della Trinità di Potenza, per 17 anni. Come Elisa. Continua Fabio Amendolara. Anche lei è rimasta per 17 anni chiusa in quella chiesa, ma nel sottotetto. Il giorno del ritrovamento dei resti di Elisa è stata trovata anche la lettera. Come se i due ritrovamenti fossero in qualche modo legati l’uno all’altro dal destino. Su un foglio beige manoscritto, indirizzato alla famiglia Claps, c’erano poche parole impresse con grafia d’altri tempi e inchiostro nero. Frasi di circostanza e un particolare che lasciava intendere che Elisa era andata via. Che si era allontanata di sua volontà. E invece era proprio lì. In quella chiesa. Nel sottotetto, poco più sopra dell’appartamento in cui è stata conservata quella lettera rivolta alla famiglia Claps, ma mai spedita. In basso, sulla destra, una sigla: «D. S.». Gli investigatori hanno sospettato subito di lui. Del parroco. E lo hanno scritto: «Verosimilmente è una lettera di don Domenico Sabìa, conosciuto da tutti come don Mimì». La grafia - sono le valutazioni fatte dagli investigatori durante la repertazione del documento - è la stessa di quella impressa sull’agenda personale del parroco e sulle ricevute dei pagamenti per le piccole spese che il sacerdote conservava in Canonica. La segnalazione della Squadra mobile di Potenza - all’epoca diretta dal vicequestore aggiunto Barbara Strappato - è arrivata poco dopo in Procura a Salerno. Ma, a quanto pare, non è finita tra gli atti dell’in - chiesta. Né tra quelli del processo. «Noi non sappiamo nulla di quella lettera», conferma Gildo Claps, fratello di Elisa. E aggiunge: «Non ne siamo mai stati informati». Era un particolare irrilevante? La data: «19 settembre 1993». Elisa era stata uccisa da una settimana. In quel momento però in città a Potenza tutti sapevano che era solo scomparsa. Tutti tranne Danilo Restivo che, per la giustizia, è l’assassino. E, forse, tranne chi l’ha aiutato a restare nell’ombra per 17 anni. Gli uomini che hanno fornito «le coperture» denunciate da anni dalla famiglia Claps e che ormai non sta cercando più nessuno. Gli investigatori hanno provato a capire se quella lettera, diventata un reperto giudiziario, fosse in qualche modo collegata alla morte di Elisa. E hanno ricostruito gli spostamenti di don Mimì che proprio il pomeriggio di quel 12 settembre era partito per Fiuggi. Il viaggio per le terme era prenotato da tempo. Ma don Mimì era dovuto tornare di corsa a Potenza il 16 per la convocazione in Questura. Disse velocemente di non conoscere Elisa, di conoscere appena Danilo e di non essersi accorto di nulla quella domenica mattina (confermò gli stessi particolari successivamente durante il processo per la falsa testimonianza di Restivo). Don Mimì sarebbe poi ripartito il 17 per completare le terme e avrebbe fatto rientro a Potenza il 24. Quando scrisse la lettera indirizzata ai Claps, quindi, era a Fiuggi. Il sacerdote potrebbe anche averla scritta successivamente, retro-datandola al 19 settembre. E anche se l’ipotesi del depistaggio è la prima che è venuta in mente a chi ha potuto leggere il documento, è difficile credere che in realtà quella lettera fosse rivolta a chi l’avrebbe trovata successivamente. Ma perché impegnarsi a scrivere una lettera per poi non spedirla? E perché conservarla per tutto quel tempo? Sono domande a cui - dopo 21 anni - sarà difficile rispondere.

Luigi Di Lauro, giornalista Rai, indagato per omicidio di Anna Esposito, scrive “Blitz Quotidiano”. C’è un indagato nell’inchiesta sulla morte di Anna Esposito, la commissaria di polizia di Potenza che indagava sulla scomparsa di Elisa Claps e che è stata trovata impiccata con una cintura alla maniglia della porta di casa il 12 marzo del 2001. L’uomo è Luigi Di Lauro, 48 anni, giornalista Rai di Potenza, riferisce Francesco Viviano su Repubblica. Di Lauro è stato iscritto nel registro degli indagati con l’ipotesi di reato di “omicidio volontario”. L’ipotesi degli inquirenti è che Anna Esposito sia stata uccisa per “motivi passionali”. Di Lauro prima di sposarsi aveva avuto una lunga e tormentata relazione con Esposito, separata e madre di due bambini. Ricorda Viviano che “Di Lauro, alcuni giorni dopo il “suicidio”, era stato sentito come “persona informata dei fatti” fornendo un alibi “non molto convincente”. Secondo le perizie dei medici legali la donna era morta tra le 21 e le 22 del 12 marzo del 2001 e il giornalista aveva sostenuto di avere incontrato il commissario lasciandola a casa intorno alle 20″. L’iscrizione nel registro degli indagati di Di Lauro è una vera e propria svolta che arriva in una inchiesta in cui non sono mancati, scrive Viviano, “buchi e reticenze anche da parte di alcuni colleghi del commissario Esposito: quelli che senza un motivo plausibile, quel giorno di 13 anni fa andarono nella casa di servizio della Questura di Potenza dove abitava la donna “perché aveva ritardato di qualche ora in ufficio”, inquinando così la scena del delitto senza avvertire il magistrato”. Agli atti dell’inchiesta c’è anche un dettagliato rapporto dell’ex capo della Mobile di Potenza che evidenzia “omissioni nella precedente indagine che fu incredibilmente archiviata come “suicidio”. Ma un suicidio impossibile: il cappio al collo con una cintura di cuoio fissata sulla maniglia di una fragile porta dell’appartamento, a un metro e tre centimetri di altezza, con il bacino della vittima che sfiorava il pavimento. Quando i colleghi di Anna entrarono in casa sfondando la porta, fecero molti errori, e il magistrato di turno trovò tutto sottosopra: cassetti rovistati, anche in ufficio e soprattutto l’agenda personale di Anna con le pagine strappate”.

Il giallo dell’autocensura si abbatte sulla trasmissione “Chi l’ha visto?” in merito al caso di Anna Esposito, la dirigente della Digos di Potenza, trovata morta in casa nel marzo del 2001. Da subito si pensò al suicidio, scrive Luca Cirimbilla su "L'Ultima Ribattuta". Ora, dopo 13 anni, la procura di Potenza ha aperto un fascicolo per omicidio e, secondo “Chi l’ha visto?” una persona risulta iscritta nel registro degli indagati. Senza specificare chi. A fare il nome e cognome, ci ha pensato ieri il giornalista de la Repubblica, Francesco Viviano. Il sospettato è Luigi Di Lauro, giornalista Rai, volto noto del Tg3 della Basilicata che ha avuto una relazione con Anna Esposito. Davvero una strana mancanza per una trasmissione come “Chi l’ha visto?” che da sempre si contraddistingue per dare notizie esclusive ed in anteprima, molto spesso anche decisive per le indagini. La trasmissione sin dal suo debutto ha contribuito allo sviluppo di molti casi, spesso sostituendosi alle autorità competenti. Anna Esposito venne trovata in casa impiccata con una cinta stretta al collo annodata alla maniglia della porta del bagno. Tutto ha fatto pensare, in questi anni, appunto, al suicidio, ma ci sono ancora troppi dubbi. A ricostruire la dinamica del ritrovamento del cadavere è stata proprio l’ultima puntata della trasmissione condotta da Federica Sciarelli.  Eppure stavolta sembra che “Chi l’ha visto?” abbia preferito mantenere un certo riserbo nelle indagini. La donna trovata morta in casa sua, all’interno del palazzo-caserma a Potenza, aveva avuto 2 figlie dal matrimonio. Poi arrivò la separazione dal marito e la frequentazione con un uomo. Per la sua morte la Procura di Potenza aprì un fascicolo per istigazione al suicidio. Dieci mesi dopo il decesso il pm Claudia de Luca chiese l’archiviazione del caso, nonostante avesse evidenziato alcuni passaggi poco chiari. Tra le incongruenze, riportate dal padre della vittima intervistato da “Chi l’ha visto?”, ci sarebbe un chewing-gum risultato ingoiato dalla vittima attraverso l’autopsia effettuata sul corpo. Questo farebbe presupporre a uno strangolamento improvviso, prendendo la donna alle spalle, da qualcuno che la vittima conosceva molto bene. A chiamare in causa Di Lauro ci sarebbero alcuni sms scambiati con Anna Esposito due giorni prima della morte. “Sai che ti amo anch’io” le scrisse. Il giornalista Rai, ora sposato, cominciò a frequentare la Esposito quando aveva già una relazione. Proprio il padre della Esposito ha sottolineato come non sia stato effettuato il rilevamento di Dna sulla cinta o l’analisi delle unghie della vittima, in caso di tentativo di difesa. Ad escludere il suicidio ci sarebbe anche la frattura della cricoide, una cartilagine che molto difficilmente si può rompere in un soggetto esile come quello di Anna Esposito e attraverso la dinamica di un suicidio come quello in cui la donna è stata ritrovata, ovvero impiccata da una bassa altezza come la maniglia di una porta. Alcuni colleghi, inoltre, hanno raccontato come la Esposito, nel periodo in cui frequentava Di Lauro, avesse mostrato numerosi segni di violenza sul corpo. L’ex marito e alcuni amici, invece, hanno ricordato che la vittima raccontò loro dei maltrattamenti subiti dall’allora fidanzato e che lui pretendeva prestazioni sessuali molto particolari. Perché la trasmissione della Sciarelli ha chiuso la ricostruzione senza dire il nome dell’iscritto nel registro degli indagati? Un caso di apparente suicidio si è dunque riaperto, ma un alone di mistero si sta riversando sulla strana censura che, questa volta, si è autoimposta la trasmissione “Chi l’ha visto?”.

Come è morta Anna Esposito, commissario capo, dirigente della Digos della Questura di Potenza trovata, il 12 marzo 2001, esanime nel suo appartamento di servizio nella caserma Zaccagnino del capoluogo lucano? Suicidio, sentenziò l’archiviazione dell’inchiesta. Dodici anni dopo le indagini, però, sono ripartite. Il gip del tribunale lucano Michela Tiziana Petrocelli ha dato al pubblico ministero, Sergio Marotta, sei mesi per indagare. Ipotesi: omicidio volontario.

Anna Esposito, nata a Cava de’ Tirreni (Salerno), 35 anni, separata, due bambine, era alla guida della «squadra politica» della questura potentina dal 1998. Prima donna ad assumere quell’incarico. Venne trovata con la gola imbrigliata in un cinturone assicurato a una maniglia di una porta. Uno strano modo per suicidarsi. La stessa autopsia, che confermò nello strangolamento la causa della morte, non potè non far rilevare l’atipicità di quel suicidio: perché i piedi della donna toccavano il pavimento, perché l’ansa di scorrimento della cinta (che misurava solo 93 centimetri) era posta anteriormente sul lato destro, mentre più normalmente avrebbe dovuto disporsi nella parte posteriore del collo. Vicino al cadavere fu trovata una penna, ma nessun foglio. Né biglietti con una qualche traccia che potesse spiegare il suicidio. Le indagini della procura di Potenza misero a soqquadro la vita professionale e personale di Anna Esposito. In particolare furono passate al setaccio le ore antecedenti al momento presunto della morte.

Furono vagliate diverse posizioni, in particolare di un giornalista con cui Anna aveva avuto una storia d’amore. Ma nulla portò a una direzione diversa da quella del suicidio. E così l’inchiesta fu archiviata. Restarono molte domande senza risposte e molti dubbi. E ad alimentare il giallo si aggiunse una dichiarazione fatta da Gildo Claps, il fratello di Elisa, uccisa a Potenza il 12 settembre 1993 da Danilo Restivo, alla trasmissione «Chi l’ha visto?». «La mamma di Anna Esposito - disse in tv Gildo Claps - mi ha detto che la figlia alcuni giorni prima di morire le aveva confidato che in Questura qualcuno sapeva dove fosse sepolta Elisa». Una dichiarazione che fece partire un’inchiesta della Procura di Salerno, dove c’erano le indagini sul caso Claps. Inchiesta che tuttavia ha stabilito l’inesistenza di collegamenti con il caso Claps. La nuova indagine riparte dalle carte rientrate da Salerno e da un’inchiesta giornalistica della Gazzetta del Mezzogiorno su particolari mai sviluppati dopo la morte di Anna Esposito. Sono in tanti sulla scena del crimine quel lunedì mattina di 12 anni fa, scrive Fabio Amendolara su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Sono testimoni preziosi di un’inchiesta difficile: quella sulla morte del commissario della polizia di Stato Anna Esposito. L’altro giorno la Procura di Potenza ha ottenuto dall’ufficio gip - come svelato ieri dalla Gazzetta - il «via libera» per la nuova inchiesta. Ora la Procura ha sei mesi di tempo per risolvere il giallo. I primi ad arrivare nell’alloggio del commissario quella mattina sono tre ispettori della Digos e il dirigente dell’Ufficio del personale della Questura di Potenza. Ognuno di loro scriverà una relazione di servizio al capo della Squadra mobile. A coordinare le operazioni di sopralluogo all’epoca c’è una collega di Anna, anche lei è commissario: Teresa Romeo. Scrive: «Preciso che al momento del ritrovamento il corpo era in posizione quasi supina, con le spalle lato anteriore e le mani appoggiate alla porta del bagno, mentre le gambe erano in direzione del corridoio, inoltre la cinghia di cuoio era legata con un solo nodo alla maniglia della porta». Anche gli ispettori Gianfranco Di Santo e Antonio Cella descrivono ciò che hanno visto nell’alloggio del commissario Esposito: «Le spalle erano addossate alla porta del bagno con le gambe distese in direzione del corridoio e stretto al collo abbiamo notato una cintura per pantaloni in cuoio legata alla maniglia della porta del bagno». Nelle due relazioni di servizio le spalle di Anna sono appoggiate alla porta del bagno e le gambe sono distese in direzione del corridoio. Se così fosse la borchia di ferro della cintura si sarebbe posizionata dietro alla nuca della vittima. Ma nella relazione medica l’impiccamento viene descritto come «atipico» proprio perché il segno della borchia non è alla nuca, ma «posta anteriormente sul lato destro». I tre poliziotti hanno visto male? O sbagliano i medici? Il pubblico ministero della Procura di Potenza, Claudia De Luca, che all’epoca archiviò il caso come «suicidio», si accorse della contraddizione e convocò nel suo ufficio il commissario, i due ispettori che hanno firmato la relazione di servizio e un terzo ispettore che era presente al momento del ritrovamento ma che, però, non sottoscrisse l’informativa. Davanti al magistrato la versione dei poliziotti-testimoni cambia. E cambia anche la posizione in cui è stata trovata Anna. Ecco la nuova versione del commissario: «Anna aveva una cintura stratta al collo con un lato annodato intorno alla maniglia della porta del bagno e la spalla sinistra e la testa poggiate sulla porta. Sono rimasta colpita dai pugni chiusi e dall’espressione del volto che mi sembravano determinati». Le spalle non sono più appoggiate alla porta. Nella descrizione spariscono le gambe «in direzione del corridoio» e compaiono due nuovi particolari: i pugni chiusi e l’espressione del volto «determinata». Cambia anche la descrizione dell’ispettore Cella: «Ho notato la Esposito per terra nelle vicinanze della porta del bagno, con una cintura al collo legata da un lato alla maniglia della porta, con la spalla sinistra poggiata sulla porta, la testa leggermente chinata all’indietro». La testimonianza dell’ispettore Di Santo, su questo punto, è identica a quella del collega: cintura legata da un lato al collo e da un lato alla maniglia della porta del bagno, la testa leggermente chinata all’indietro. Di Santo aggiunge il particolare delle gambe: stese per terra. L’ispettore Mario Paradiso, invece, pur avendo scassinato la porta dell’alloggio e nonostante fosse entrato per primo, sostiene di non aver visto il corpo del commissario: «Non ho visto materialmente la posizione in cui è stata trovata la vittima prima che fosse slegata dalla cintura». Sono passati solo quattro giorni dal sopralluogo e resoconti e relazioni sembrano non combaciare completamente con lo stato dei luoghi. La posizione del volto in linea con la maniglia della porta avrebbe favorito lo scivolamento della cintura. Inoltre, la borchia di ferro della cintura, come dimostrano le fotografie della Scientifica e la relazione medica, si è posizionata sul lato destro del collo. Se tutto fosse andato come descritto al magistrato dai poliziotti-testimoni, la borchia - chiudendosi la cintura a mo‘ di cappio - si sarebbe posizionata sulla guancia sinistra e non sulla destra o, al limite, al centro della gola. Sbrogliare questo intoppo potrebbe far ripartire l’inchiesta.

E poi lo scandalo dei rimborsi. Per 40 dei 42 tra ex assessori, consiglieri regionali in carica e non, imprenditori e professionisti indagati per i rimborsi «scroccati» alla Regione Basilicata la Procura di Potenza ha depositato al gip la richiesta di rinvio a giudizio. Esclusi due consiglieri regionali che erano presenti nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari: Enrico Mazzeo Cicchetti ed Erminio Restaino. A loro due si aggiungono Prospero De Franchi e Gaetano Fierro, le cui posizioni erano già state stralciate dal procedimento principale e archiviate. Oltre ai pranzi, agli spuntini, ai viaggi, alle caramelle, alle sigarette, ai soggiorni in camere d’albergo matrimoniali con «persone non autorizzate» e al parquet di casa ci sono le cene politiche in giorni in cui contestualmente si documentano spese effettuate a centinaia di chilometri di distanza. Ci sono richieste di rimborso per cancelleria e per le gomme dell’auto. Ci sono i viaggi con la famiglia o con l’amica spacciati per «missioni» nei ministeri romani. Spese domestiche, regali, ricariche telefoniche. «Peculato», lo chiama il procuratore della Repubblica di Potenza Laura Triassi. È l’inchiesta sulla rimborsopoli che ha messo in ginocchio il consiglio regionale.

PER NON DIMENTICARE. STORIE DI ORDINARIA FOLLIA.

“La colpa di Ottavia. La bambina che nessuno ha cercato”. Di Sarah Scazzi tanto si è parlato. Finalmente un libro dedicato alla scomparsa di Ottavia De Luise. Scomparsa a 12 anni, in un libro la ricostruzione dei fatti. Ottavia De Luise svanì nel nulla a Montemurro nel 1975. Accadde il 12 maggio 1975, Ottavia uscì da scuola e non tornò mai a casa. In un paese piccolo, dove tutti si conoscono. Sembra un nuovo caso Claps. Per 35 anni di lei non si è saputo più nulla, fino a che il ritrovamento di Elisa Claps non ha fatto tornare alla luce quest’altra storia, meno famosa, così dimenticata. Ora, la novità. In un pozzo non lontano dal paese sono stati trovati quelli che la polizia scientifica ha definito “reperti”. Il pozzo cisterna è proprio nella zona dove alcune lettere anonime, in passato, avevano suggerito di cercare Ottavia. Ed ecco la storia. A Montemurro in Basilicata, il 12 maggio del 1975 scomparve una bambina, Ottavia De Luise, di appena 12 anni. Era la più piccola di otto fratelli e da qui deriva il nome di Ottavia. Il pomeriggio del 12 maggio del 1975 Ottavia stava giocando con la cugina, a pochi metri da casa. Giunta l’ora di rincasare, la cugina racconta di averla vista incamminarsi verso casa. Solo pochi metri, ma proprio in questo breve tragitto si sono perse le tracce della bambina. Dopo qualche ora, verso le 17.00, non vedendo la figlia, la madre chiese al fratello della piccola di andare a cercarla nella piazza del paese.

Quando il ragazzo tornò senza alcuna notizia della sorellina, la famiglia si mise in allerta. All’epoca, nel piccolo borgo di appena 1500 persone, c’era solo un carabiniere. In aiuto e supporto alle indagini, dopo ben più di venti giorni arrivarono dei poliziotti con dei cani: come prevedibile non emerse nulla. Le prime 48 ore sono le più importanti. Solitamente, trascorsi due giorni, le probabilità di trovare un minore in vita diminuiscono in maniera vertiginosa. La famiglia, all’epoca dei fatti, segnalò a quell’unico carabiniere, un possibile sospettato: un uomo che viveva da solo, e che già in passato aveva approcciato con Ottavia, invitandola in casa. Ma l’abitazione di questa persona non venne mai perquisita. Nel corso degli anni alla famiglia arrivarono due lettere anonime: la prima fu consegnata ai carabinieri e vennero interrogate delle persone. La seconda giunse ad uno dei fratelli della ragazza e il contenuto era chiaro: Ottavia De Luise fu violentata e uccisa. Nel corso di questi anni nessuno fu indagato, nessun magistrato si occupò di questa scomparsa, fino all’archiviazione del caso. Poi ci chiediamo perchè scompaiono così tanti ragazzi? La risposta secondo me sta nel mancato esercizio da parte della magistratura di svolgere il proprio compito in tempi brevi.

Ottavia De Luise scompare da Montemurro il 12 maggio del 1975.

Era una bambina di 12 anni. Le indagini della prima ora furono condotte male e senza interesse. Qualcuno in paese ebbe il coraggio di definire la 12enne una di "facili costumi". Uno stupido pregiudizio che fece archiviare la scomparsa della ragazzina in men che non si dica. Un libro scritto a quattro mani da Fabio Amendolara, giornalista de La Gazzetta del Mezzogiorno ed Emanuela Ferrara, anch'ella giornalista, ricostruisce la vicenda nei minimi dettagli alla luce anche delle nuove indagini aperte nel 2010 dalla procura di Potenza. Indagini che però, ad oggi non hanno dato alcuna risposta ai familiari della piccola. "La colpa di Ottavia" è il titolo del libro di Amendolara e Ferrara. Ottavia De Luise ha 12 anni ed è l'ultima di otto fratelli. Scompare nel nulla il 12 maggio del 1975 in un piccolo borgo della Basilicata, Montemurro. A oltre 35 anni dalla scomparsa, questo libro, nella forma di una breve inchiesta giornalistica, presenta una serie di documenti (riportati in modo integrale), testimonianze e prove che mettono in luce tutto ciò che si poteva fare e non è stato fatto. Su questa vicenda, che ha segnato anche sul piano simbolico la Basilicata, purtroppo non ci sono ancora verità. Questo libro, presentato dalla conduttrice di "Chi l'ha visto?" Federica Sciarelli, non si limita a ricostruire la cronaca di quella scomparsa. Ma è una indagine contraria alle numerose versioni ufficiali e ufficiose, spesso diverse tra loro, se non addirittura opposte e contrastanti, presentate fino a oggi. Che fine ha fatto Ottavia De Luise, la bambina scomparsa nel 1975? Il “viggianese” poteva essere l’unico sospettato? Sono state seguite davvero tutte le piste? O forse le indagini sono state approssimate perchè Ottavia era “una poco di buono” e quindi indegna di sforzi investigativi? La tragica storia di Ottavia, scomparsa nel nulla a Montemurro nel 1975, potrebbe sembrare lontana: sono passati troppi anni e il suo mondo, paese dell’entroterra lucano, arretrato, isolato, fissato per sempre nel tempo, ci appare distante, sbiadito come la vecchia foto che la ritrae, unica traccia rimasta di quella vita spezzata. Eppure il libro di Fabio Amendolara ed Emanuela Ferrara, con sobrietà ed efficacia, ci permette di riattraversare quella vicenda, facendoci avvertire tutta l’attualità del dolore e degli interrogativi che impietosamente ci pone. Perché nessuno ha mai cercato Ottavia De Luise? Questo si chiede Stefano Nazzi.

Quando Ottavia De Luise sparì, il 12 maggio1975, l’Italia era molto diversa da quella di oggi. Il referendum sul divorzio c’era stato da un anno, di legge sull’aborto non si parlava nemmeno. C’era Paolo VI, allora, e quell’anno era Anno Santo. Ottavia aveva 12 anni, scomparve a Montemurro, in Basilicata, un vecchio villaggio proprio in mezzo alla regione. Ci vivono oggi meno di 1.500 persone.

Ottavia uscì da scuola, venne vista lungo quella che chiamano strada per Armento, un paese vicino. Poi più nulla. La cercarono poco e male. Il fatto è che Ottavia, nell’Italia di allora, in quel vecchio villaggio, era vista come una poco di buono. Una che stava con i grandi, gli adulti. Oggi quegli adulti verrebbero arrestati per pedofilia, per abusi. Allora si chiudeva un occhio: era Ottavia la “mela marcia”. Dicevano che si facesse dare 100 lire per farsi toccare. Era bella, dice chi se la ricorda, bionda, e alta per la sua età. Poi, improvvisamente, 35 anni dopo, qualcuno è tornato a cercare. È stata la scoperta del corpo di Elisa Claps, poco lontano, a Potenza, a spingere il fratello di Ottavia, Settimio, a chiedere che si riaprissero le indagini. Negli anni erano anche arrivate un paio di lettere anonime: “Cercate in quella tenuta”, era scritto. Non doveva essere difficile capirci qualcosa se in pochi giorni di ricerche sono stati trovati alcuni reperti, in una cisterna proprio nella zona dove Ottavia venne vista l’ultima volta. E qualcuno ha anche iniziato a ricordare qualcosa. Perché in un paese di 1.500 abitanti è come stare seduti in un cinema grande, alla fine le facce rimangono impresse. Così a Montemurro, figuriamoci, si conoscono tutti. E volete che qualcuno non sapesse chi erano quei grandi che passavano il tempo con Ottavia? No, qualcuno sapeva. Tanti, probabilmente. Così ci si è ricordati di un uomo, lo chiamavano il “viggianese”: lui pagava un cono gelato a Ottavia per toccarla; quando fu interrogato, dopo la scomparsa della ragazzina, era pieno di graffi ma la cosa finì lì. In paese da tempo pensavano che fosse morto. Non lo è: vive a Torino, ha 87 anni, è malato. Magari lui non c’entra nulla, chissà: erano tanti gli adulti di Ottavia, uno di loro era il proprietario del terreno dove si trova la cisterna dei reperti. Intanto Settimio, il fratello della ragazzina, ha denunciato il comandante della stazione dei carabinieri di allora. Dice che non indagò affatto, che lasciò correre. Perché Ottavia era una poco di buono. Luisa, la mamma della ragazzina, oggi non vive più a Montemurro, sta al nord, anche lei a Torino. L’unica cosa che vuole, che ha sempre voluto, è seppellire sua figlia. Trovarla e seppellirla. Lei l’ha sempre pensato che Ottavia era morta. Speriamo che ci riesca, che possa farle quel funerale che sempre sognato. Le mamme di solito sognano un matrimonio per la figlia, Luisa De Luise è stata costretta a sognare un funerale. E speriamo che con Ottavia si seppellisca quell’Italietta falsa e codarda che in 35 anni non l’ha mai voluta cercare. Nulla ha però a che vedere con la vicenda il successivo arresto del fratello di Ottavia, Settimio. I Carabinieri di Marsicovetere hanno arrestato a Villa d’Agri Settimio De Luise, di 52 anni, accusato di stalking e di atti persecutori nei confronti della ex moglie, scrive “Il Giornale Lucano”. Da tempo l’uomo molestava l’ex compagna, e per questo a suo carico era stato emesso un più volte disatteso divieto di avvicinamento. La donna, a causa dell’atteggiamento dell’ex marito, delle minacce e delle ingiurie, ha subìto un perdurante stato ansioso e ha temuto per la sua incolumità, al punto da cambiare le sue abitudini di vita.

De Luise, che dopo l’ennesima violazione dell’ordine restrittivo è ora ai domiciliari, è fratello di Ottavia, la bambina di Montemurro comparsa il 12 maggio 1975, a 12 anni e senza lasciare traccia, ma non vi è alcun legame tra la vicenda che pochi giorni fa ha compiuto 37 anni di mancate risposte e l’accusa di stalking.

Altro libro che racconta i misteri lucani è “Sia fatta ingiustizia-La storia vera di Giuseppe, scritto da Giusi Cavallo, giornalista professionista, direttore della testata giornalistica “Basilicata24” e Michele Finizio che di quella testata è il direttore editoriale. In questo libro scoprirete una storia incredibile. Vera. Non ancora finita. Lui è Giuseppe Satta, giovane ingegnere sposato, con due bambini. Una vita familiare felice, senza problemi particolari. Il lavoro, la casa, la pizza, le vacanze, il pranzo dai suoceri e dai genitori, le feste, la passeggiata in via Pretoria. Un giorno, anzi una sera, all’improvviso tutto si rompe, senza un apparente motivo. La vita di Giuseppe si capovolge, inspiegabilmente. L’uomo entra nel tunnel della disperazione, ma non perde la forza per reagire. Subirà umiliazioni, violenze psicologiche, ingiustizie, ma non mollerà. A farne le spese sarà soprattutto suo figlio, due anni e mezzo, adesso nove. Ma è Giuseppe che vogliono colpire, piegare, annientare.

Perché? E, innanzitutto, chi? Giuseppe ha pestato piedi importanti, ha messo in pericolo interessi inconfessabili, ha osato chiedere giustizia, ha violato l’Olimpo? Qualcosa non quadra, anzi nulla.

Sotto l’apparente vicenda di una separazione coniugale si nasconderebbe un intrigo inimmaginabile, dal ricamo quasi perfetto, ordito nel bosco dei poteri grandi e piccoli. Hanno distrutto una famiglia, hanno rovinato due bambini, forse irrimediabilmente. Hanno tenuto al palo un uomo, costringendolo a difendersi da accuse infamanti, incarcerato nel paradosso dei processi giudiziari, sgretolato dall’angoscia di perdere il suo bambino per sempre. Intanto la sua famiglia l’hanno fatta a brandelli. Chi è il colpevole? Quale il movente? C’è un libro, scrive Michele Finizio. Racconta una storia vera, paradossale, ma incarnata nella realtà. Per me che l’ho scritto insieme con Giusi Cavallo, è uno scompiglio leggerlo. Perché? A volte è difficile credere alla verità. Vorresti una bella menzogna rassicurante, una stronzata ansiolitica per continuare a guardare il mondo con gli occhi dell’ingenuo. O forse con gli occhi dell’imbecille. Spesso ti chiedi perché devi essere tu a raccontare certe storie, a denunciare prepotenze, violenze, abusi. Già, perché tu? Perché noi? Cara Giusi, forse ci denunceranno. Sai, le solite intimidazioni. Quei poteri di carta pesta indurita dallo sputo della falsa indignazione, potrebbero farcela pagare. Ma come potevamo negare il nostro aiuto a Giuseppe? Lui ha cercato noi, non a caso. E questo deve essere ragione di orgoglio. Intanto lui ha già pagato e sta ancora pagando il prezzo dell’assurdo. O forse paga il prezzo del coraggio. Intanto Giuseppe è sull’orlo del bivio. Lui che crede nella giustizia è stato azzannato dall’ingiustizia. Lui che crede nelle istituzioni è stato dilaniato dai palazzi del Potere. Lui che crede nell’amore è stato tradito dall’odio cinico e improvviso. Poi ha creduto in noi, nel nostro alito narrativo, nel nostro autentico respiro giornalistico. Ed ecco il libro. L’ultima speranza di Giuseppe e del suo bambino. Se questa vicenda invaderà la cronaca e sfonderà la coscienza delle donne e degli uomini, forse salveremo un bambino e suo padre. In fondo è una storia d'amore. Leggetelo, questo libro. Disponibile a breve: “Sia fatta ingiustizia-La storia vera di Giuseppe”. La vicenda si svolge a Potenza. Una vita familiare felice, senza problemi particolari. Il lavoro, la casa, la pizza, le vacanze, il pranzo dai suoceri e dai genitori, le feste, la passeggiata in via Pretoria. Un giorno, anzi una sera, all’improvviso tutto si rompe, senza un apparente motivo. La vita di Giuseppe si capovolge, inspiegabilmente. L’uomo entra nel tunnel della disperazione, ma non perde la forza per reagire. Subirà umiliazioni, violenze psicologiche, ingiustizie, ma non mollerà. A farne le spese sarà soprattutto suo figlio, due anni e mezzo, adesso nove. Ma è Giuseppe che vogliono colpire, piegare, annientare. Perché? E, innanzitutto, chi? Giuseppe ha pestato piedi importanti, ha messo in pericolo interessi inconfessabili, ha osato chiedere giustizia, ha violato l’Olimpo? Qualcosa non quadra, anzi nulla. Sotto l’apparente vicenda di una separazione coniugale, si nasconderebbe un intrigo inimmaginabile, dal ricamo quasi perfetto, ordito nel bosco dei poteri grandi e piccoli. Hanno distrutto una famiglia, hanno rovinato due bambini, forse irrimediabilmente. Hanno tenuto al palo un uomo, costringendolo a difendersi da accuse infamanti, incarcerato nel paradosso dei processi giudiziari, sgretolato dall’angoscia di perdere il suo bambino per sempre. Intanto la sua famiglia l’hanno fatta a brandelli. Chi è il colpevole? Quale il movente?

La domanda a Giusy Cavallo sorge spontanea: che ne pensa della giustizia in Italia? «La famosa frase "avere fiducia nella magistratura" non è universalmente valida. – risponde sul suo giornale web - Non se vivi in Basilicata e magari denunci che un lago è inquinato. E' da un po' di tempo che mi occupo di storie giudiziarie, a mio avviso, al limite del paradossale. Indagati, senza reato, o reati senza indagati. Procedure applicate a piacimento. Codici e leggi usate ad personam. O peggio ancora assassini lasciati liberi d'uccidere una seconda, terza volta. In Basilicata, più che altrove, potrebbe capitare che se commetti un reato la passi liscia, se stai dalla parte della giustizia ti fanno vedere i sorci verdi. E' il caso di Maurizio Bolognetti, segretario dei Radicali lucani, e di Giuseppe Di Bello, tenente della Polizia Provinciale. Domani, mercoledì 6 giugno, entrambi sono attesi dinanzi al gup di Potenza che, rinvii permettendo, dovrà decidere se mandarli a processo o no. Rei di aver rivelato, analisi alla mano, la presenza di inquinamento nel Lago del Pertusillo. Se i due finiranno alla sbarra si dovranno difendere per aver denunciato che l'invaso valdagrino è inquinato. Paradossale se si tiene conto del fatto che, intanto che le indagini hanno fatto il loro corso, nel lago si sono verificate diverse e consistenti morìe di pesci, sono emerse (da un'inchiesta di Basilicata24) presunte pressioni della Regione Basilicata sull'Istituto superiore di Sanità che stava svolgendo analisi dell'invaso affinchè l'istituto romano "soprassedesse". A tutto ciò va aggiunta l'ammissione dell'Arpab che il lago oltre ad essere eutrofizzato presenta tracce di idrocarburi. Ma intanto Bolognetti e Di Bello domani vanno in tribunale. Nonostante tutto. E allora mi chiedo, ancora una volta, perchè dovrei avere fiducia in una magistratura che invece di indagare sull'inquinamento del Pertusillo, indaga due persone che denunciano l'inquinamento di un invaso la cui acqua serve per uso umano oltre che la Basilicata anche la Puglia? Io in questa magistratura, non posso avere fiducia. Non posso, se mi viene il dubbio che certi magistrati o non si leggono le carte, o non hanno mai letto, in vita loro, un libro di Diritto. E soprattutto non posso avere fiducia in una magistratura/giustizia che perseguita chi ha denunciato fatti certificati e provati. Per concludere, e perchè non mi si tacci d'essere eversiva o peggio ancora berlusconiana: di magistrati che fanno bene il loro lavoro per fortuna è piena l'Italia.

Così come è piena la storia di magistrati che c'hanno rimesso la vita per amore della verità e della giustizia. Ma questa è un'altra storia. Dopo che Giuseppe Di Bello, tenente della polizia Provinciale di Potenza mi ha informato che il prefetto di Potenza gli ha revocato la qualifica di agente di pubblica sicurezza, ho provato attimi di smarrimento. – continua Giusi Cavallo - Si, perchè conosco Peppe, il tenente, che "ne ha fatte di tutti i colori". Eh già. La divisa che indossa l'ha riempita d'onore e di significato. Senza guardare in faccia a nessuno. E questo probabilmente non è piaciuto granchè.

Ma andiamo con ordine. Prima di tutto ricordiamo chi è Giuseppe Di Bello. Tenente della Polizia Provinciale di Potenza. E' un vero rompi balle. Se ne va in giro a far sequestrare discariche piene di rifiuti pericolosi e illeciti; denuncia truffe in agricoltura, aria inquinata da un termovalorizzatore. E' uno che anche quando non è in servizio non si fa i cavoli suoi. Tant'è che un bel giorno gli viene in mente, mentre non è in servizio, e come componente di un'associazione ambientalista, di andare a fare delle analisi alle acque del Pertusillo.

Il lago artificiale della Val d'Agri, in cui si specchia il grande Centro Oli di Viggiano. Siamo nel gennaio 2010. Di Bello, in compagnia di Maurizio Bolognetti, segretario dei Radicali lucani, (che ha commissionato e pagato le analisi), apprende che le acque del Pertusillo sono inquinate. Sulla base della convenzione di Arhus quei dati vengono diffusi. Finiscono anche sulla stampa. Interviene la magistratura. Si, ma per indagare Di Bello e Bolognetti. Per la procura di Potenza i due hanno rivelato segreti d’ufficio. E cioè il “decadimento delle acque dell’invaso del Pertusillo". Insomma hanno fatto male ad informare i lucani e soprattutto i pugliesi che quell'acqua la bevono. Di Bello viene prima sospeso dal suo incarico e poi spostato ad altre mansioni. Viene mandato in servizio al museo provinciale di Potenza. Dove tutt'ora lavora. Il 6 giugno 2012, arriva la condanna per aver rivelato il cattivo stato delle acque del Pertusillo. Violazione di segreto d'ufficio. Per il tenente di Bello due mesi e venti giorni di reclusione sanciscono pubblicamente la sua colpa. Nonostante tutto Peppe, non si ferma nè si abbatte. Continua a rompere le scatole. Se ne va, in compagnia di un geologo nell'area dell'ex Liquichimica di Tito Scalo, dove insiste una vasca di fosfogessi, scarti di lavorazioni di concimi chimici e di fanghi industriali di cui non s'è mai capita la provenienza. Sono anni che il tenente Di Bello si occupa di quel cimitero industriale in cui è rimasto solo veleno. Prima se ne occupa da ufficiale della polizia provinciale, poi lo fa come libero cittadino membro dell'associazione Ehpa, che si occupa appunto di ambiente. Anche in questo caso la denuncia del cittadino Di Bello ha un effetto deflagrante. Almeno sui cittadini di quella zona.

Nell'area è presente radioattività. Fermo, Di Bello non sa stare. E veniamo alla revoca della qualifica di agente di pubblica sicurezza notificata a Di Bello, giovedì 13 dicembre 2012. Ecco i passi più raccapriccianti: "Considerato il reiterato comportamento tenuto dal Di Bello che pur sottoposto al vaglio della magistratura"...Soffermiamoci sulla locuzione "reiterato comportamento". Ebbene, cosa avrebbe reiterato Di Bello? Da quasi tre anni è in servizio al Museo provinciale. Ah ma forse quel reiterato si riferisce al fatto che il cittadino Di Bello se ne va in giro a fare analisi, a denunciare inquinamento, radioattività e veleni vari? E leggete poi quest'altro passaggio della revoca: " ...la responsabilità di agente di p.s. della polizia provinciale richiede il possesso, in chi ne è investito, di requisiti di prestigio, generale stima in pubblico, trasparente condotta, anche allo scopo di mantenere inalterata la fiducia che i cittadini devono nutrire nei suoi confronti..." Ecco a questo proposito giova ricordare a sua eccellenza il prefetto Nunziante che lo stesso Di Bello è colui il quale ha denunciato il decadimento delle acque del Pertusillo; colui che ha denunciato presenza di radioattività a Tito Scalo, sempre per informare la gente. E' colui il quale nel 2005 trasmise la notizia di reato riguardante la presenza di fanghi tossici nell'area industriale di Tito Scalo all'ex pm di Potenza Woodcock. Ecco mi fermo qui per non rischiare di fare l'agiografia di una persona che mi ripete quasi come un mantra "io non ho fatto altro che il mio dovere di funzionario di polizia e di cittadino". Ecco chi è l'uomo che secondo il Prefetto di Potenza non è più degno di stima dei cittadini, perchè dalla condotta poco trasparente. Caro Prefetto, se lei vive nel mondo, deve sapere che il tenente Di Bello gode di enorme fiducia da parte dei cittadini. E dovrebbe anche sapere che sono le istituzioni a non godere ormai più della fiducia dei cittadini. Noi, giornalisti di questa testata, revochiamo la qualifica di rappresentanti delle istituzioni a tutti coloro che hanno contribuito a revocare la qualifica di agente di pubblica sicurezza a Giuseppe Di Bello.» E sulla libertà di stampa e le ritorsioni su chi racconta la verità il direttore di “Basilicata 24” dice: «“Relazioni troppo strette e poco trasparenti tra l’autorità politica e i giornalisti sono un pericolo per la società pluralista". E’ quanto ha dichiarato il segretario generale del Consiglio d’Europa, Thorbjorn Jagland, in occasione della Giornata mondiale per la Libertà di Stampa. La libertà di stampa non è un diritto che si esercita a gettoni. Questo lo dico io. E' un diritto che è tra i fondamentali di uno Stato democratico e civile. Ma è purtroppo un diritto calpestato, ancora oggi, in alcune aree del mondo. Sono ancora troppi i giornalisti uccisi o minacciati a causa del loro lavoro. Ci sono poi casi meno eclatanti, ma pur sempre gravi, di limitazione della libertà di espressione e di critica. La minaccia di "adire alle vie legali". Il modus operandi è sempre lo stesso. Ti telefonano, ti scrivono, ti diffidano. Metodo tipico di persone non abituate alla critica e che di fronte ad un giornalista che si permette di criticare, si fanno prendere dal "ci vediamo in tribunale". Ebbene con tutti i "ci vediamo in tribunale" sentiti negli ultimi tempi prevedo che la mia agenda nei prossimi mesi sarà fittissima. Vi racconto solo l'ultimo "ci vediamo nelle sedi competenti". Appena ieri. Un amministratore che non ha gradito quello che abbiamo scritto sul suo operato mi ha annunciato al telefono, di aver segnalato il caso all'ufficio legale del suo Comune.

Passano meno di dieci minuti e alla telefonata del sindaco, che poi vi racconto, segue quella di un avvocato, il quale, convinto che il solo titolo legale mi farà mettere sull'attenti, "esige" di parlare con il giornalista che ha scritto quel pezzo. E "vuole" sapere chi è.

"Perchè- tiene a sottolineare- quando chiama agli altri giornali parla con chi vuole". Dico che può dire a me, che sono il direttore, ma niente. Esige di parlare col fustigatore che intanto non è in redazione. Anche la telefonata con l'avvocato non si conclude bene. Seconda minaccia, nel giro di pochi minuti, di portarmi in tribunale e addirittura di farmi radiare dall'albo dei giornalisti. Lei, l'avvocato, conosce il presidente dell'ordine della Basilicata - mi dice - lo informerà di questo mio "illecito giornalistico" che senza dubbio verrà punito! Chissà perchè neanche questa minaccia mi spaventa. Ah l'oggetto del contendere qual era? Un pezzo scritto sulle lacrime di coccodrillo di un sindaco che non saprei se definire maschilista o maleducato. Il nostro infatti esordisce al telefono con un esagerato "dottoressa" per poi passare, quando gli dico che può parlare con me, ad un tono del tipo "si va bene squinzietta togliti dalle palle e passami il giornalista che ha scritto l'articolo". Inutile il mio tentativo di ricordare, anche al sindaco, che essendo io il direttore di Basilicata24 può dire a me. Mi liquida dicendomi che, stando così le cose lui non può parlare con un giornale non serio. E mi sbatte il telefono in faccia. Maleducato o banalmente maschilista? (stai a vedere che mi denuncia anche per questo! Me lo dirà il solito maresciallo dei carabinieri che ormai da qualche mese mi chiama per l'identificazione in caserma). Di sicuro c'è che il sindaco incazzato non è abituato alle critiche, ancor più se vengono da "sconosciuti giornalisti" poco interessati a far comunella (in gergo giornalistico si chiamano marchette) e così finisce che reagisce di pancia. Per tornare alle cose serie: noi di Basilicata24 festeggiamo la XIX Giornata per la libertà di stampa ricordando tutti quei colleghi che questa libertà l'hanno pagata a caro prezzo. Il resto, come diceva Totò, sono "bazzecole, quisquilie e pinzellacchere".»

LA LUCANIA DEI MISTERI.

Di ingiustizia a Potenza ne parla Massimo Brancati su “La Gazzetta del Mezzogiorno”: Condannato a due mesi per aver denunciato gli inquinanti negli invasi. Sospeso due mesi dal servizio per poi essere «parcheggiato» al museo restando comunque in carico alla polizia provinciale. E, dulcis in fundo, la condanna a due mesi e 20 giorni di reclusione, trattato come un comune delinquente. La colpa del tenente della polizia provinciale Giuseppe Di Bello? Aver reso noto dati coperti da «segreto d’ufficio» sulla qualità delle acque del Pertusillo, Montecotugno e Camastra, da cui emergeva la presenza di metalli pesanti e inquinanti. Sulla scia di quel monitoraggio che, secondo l’accusa, avrebbe ricevuto «sottobanco» dall’Arpab, Di Bello - con l’aiuto di un chimico e di Maurizio Bolognetti, leader dei Radicali lucani e tra i finanziatori del progetto - decise di effettuare in proprio dei prelievi dagli invasi per verificarne lo stato di salute. Un’operazione che, sempre a parere dell’accusa, il tenente avrebbe fatto durante il proprio servizio e con mezzi e risorse dell’ente. È un teorema che ha determinato la sua condanna, ma Di Bello non ci sta e parla di un complotto.

Punto primo: le analisi - dice - non le ha ricevute dall’Arpab, ma direttamente dalla direzione generale del dipartimento Ambiente della Regione.

Può dimostrarlo?

«Certo. Il giudice ha in mano la copia di quei dati da cui si evince che sono stati inviati il 5 gennaio 2010 alle 18.10 dal numero di telefono 0971.669065 che corrisponde all’utenza del dipartimento».

Ma l’accusa continua a dire che lei ha ricevuto quei documenti dall’Arpab. Perché?

«Perché così sostengono l’incriminazione di aver rivelato dati coperti da segreto d’ufficio. Una volta giunti alla Regione l’ente ha il dovere di renderli di pubblico dominio. Ad ogni modo, come dice la convenzione di Aarhus, qualsiasi notizia che riguarda la salute e l’ambiente non può essere nascosta alla cittadinanza».

Lei dice che il dipartimento, consegnandole i risultati di quel monitoraggio, le avrebbe chiesto di divulgarli. Ma c’era bisogno della sua intermediazione per farlo? La Regione poteva benissimo pubblicarli autonomamente...

«È vero. Ma sinceramente non so perché sia stato chiamato in causa proprio io. Dopo sei giorni dalla ricezione del fax è partita la denuncia nei miei confronti da quegli stessi uffici. Col senno di poi devo pensare ad una trappola».

Ricapitoliamo i fatti. Il 5 gennaio 2010 riceve i dati, il 6 compie un primo giro tra gli invasi e il 21 effettua i prelievi. Ha fatto tutto durante l’orario di servizio?

«Macché. Sono andato a fare i campionamenti a bordo della mia auto e autofinanziando l’iniziativa. Non ero in servizio».

L’accusa, però, continua a sostenere il contrario...

«Sul foglio di presenza, accanto alla data, c’è una «r» che sta per riposo e non per reperibilità come dice il giudice. Il mio cartellino orologio conferma quanto dico».

Insomma, sta dicendo che ingiustizia è fatta...

«Ingiustizia cominciata quando mi hanno sospeso dal servizio per due mesi. È stato un abuso di autorità nei miei confronti. E poi penso alla vicenda giudiziaria che riguarda Fenice. Sono coinvolti dirigenti della mia stessa amministrazione e della Regione ai quali non è stato fatto un provvedimento disciplinare, né sono stati sospesi. Chi divulga informazioni sull’inquinamento viene bastonato e perseguitato, chi «copre» e mette in cassaforte dati sulla presenza di sostanze pericolose per l’ambiente e la salute la passa franca. E, per di più, viene difeso in tribunale con i soldi pubblici».

Perché si sarebbero accaniti contro di lei?

«Sono il capro espiatorio di uno scontro politico sulla qualità delle acque, ma anche la vittima di un sistema che sull’ambiente preferisce il silenzio alla verità».

E’ risaputo che a Potenza non si naviga nell’oro e nel benessere, ma che aumentino sempre di più i poveri non è un fatto puramente statistico. Si percepisce. Basta guardare ai tanti cittadini che si rivolgono alla Caritas, alle parrocchie e alle altre «sentinelle» della solidarietà sparse nel capoluogo, come i sei gruppi Vincenziani. La vera novità di quest’ultimo periodo è che tra chi chiede una mano non ci sono più soltanto disoccupati, senza tetto, emarginati o extracomunitari, ma impiegati, operai, professionisti, avvocati, categorie che nell’immaginario collettivo sono al riparo da problemi economici: aumentano in maniera esponenziale le persone che si rivolgono alla diocesi di Potenza per avere un aiuto, per una bolletta che non si riesce a pagare. La situazione, insomma, sta diventando davvero incandescente e l’intero sistema della solidarietà, di fronte alle pressanti richieste, rischia di andare in tilt. Secondo l’Istat il 22,5% delle famiglie lucane arriva a fine mese con molta difficoltà. Il 29,1% delle famiglie, in particolare non riesce a sostenere spese impreviste, il 26,2% non ha soldi per vestiti, il 14,2% dichiara di non aver avuto soldi per le spese mediche, il 12,9% non riesce a riscaldare la casa adeguatamente, il 12,3% è stata in arretrato con le bollette, il 5,8% non ha avuto soldi per spese alimentari. 800 famiglie potentine vivono con un reddito (saltuario) che non tocca i 300 euro mensili, mentre sono ben 364 i nuclei familiari che non hanno alcun reddito. Le famiglie residenti nel capoluogo sono all’incirca 15.000. Quelle indigenti, dunque, risultano essere il 5,5% (percentuale sottostimata rispetto alla situazione reale), di cui ben l’11,5% abita nel quartiere di Bucaletto. All’interno degli 800 nuclei familiari che vivono tra stenti e disperazione, 111 lamentano problematiche abitative, circa il 13%. Il 15,5% (129 famiglie) ha problemi familiari (separazione, divorzio, allontanamento, conflittualità); il restante 55,9% ha un reddito inadeguato rispetto alle normali esigenze di vita (famiglie monoreddito, pensionati, vedovi, lavoro part-time, lavoro nero). L’1,4% ha avuto o ha problemi di detenzione e giustizia; il 3,5% problemi di dipendenza da droga o da alcol e il 2,2% ha all’interno della famiglia un disabile. Il grado d’istruzione è molto basso (licenza elementare, media inferiore, analfabetismo) nel 3,4% dei casi, e nel 5,3% delle famiglie vi sono persone affette da gravi patologie. Ma c’è un dato che rende il quadro ancora più allarmante: tra le persone che chiedono una mano alla Caritas o alle parrocchie aumenta paurosamente il numero di impiegati, operai, professionisti, avvocati, e non più solo disoccupati, senza tetto, emarginati o extracomunitari. Le motivazioni sono disparate ma crescenti. Michele Basanesi, presidente della Caritas di Potenza, ritiene che “la povertà, sul nostro territorio sta diventando una vera e propria emergenza, di cui si parla troppo poco e ancor di meno sono le iniziative volte alla diminuzione del fenomeno. Sta aumentando moltissimo il numero di persone che si rivolge a noi, una mole di richieste che non riusciamo a soddisfare in pieno, anche perché i prezzi sono aumentati, compreso quelli dei generi alimentari, e le risorse sono limitate. Ci dobbiamo rendere conto che affidarsi solo alle istituzioni è sbagliato. Gli enti hanno problemi di bilancio. Dobbiamo mobilitarci tutti: chi sta bene, non ha problemi economici dovrebbe farsi carico delle problematiche di quanti vivono con pochi spiccioli in tasca”.

La Basilicata è una terra anonima, che non desta interesse ai media nazional popolari. Non si sa quanto questo sia voluto dagli stessi lucani. Questo terra è coperta da una coltre di magia e di mistero, ma anche di trame oscure. Carmela Formicola ha dedicato un pezzo su “La Gazzetta del Mezzogiorno: 20 anni di intrecci nella Basilicata degli affari oscuri.

Misteri lucani. Ce n’erano di belli, un tempo. A cominciare dal fantasma della dolce Abufina che nelle notti di luna s’affacciava alla finestra del torrione superstite del castello di Grottole. O il fascinoso affresco nella chiesa di San Nicola a Pietragalla, chiesa medievale con dipinto un cactus, tipica pianta americana. Però in quell’epoca l’America non era ancora stata scoperta... Ecco, questi erano i misteri lucani: leggende, dicerie, magia. Quando il veleno comincia a spargersi? La data è approssimativa, anni Novanta, presumibilmente. Quando, in altri termini, cominciano a triangolare criminalità organizzata, poteri forti e pezzi delle istituzioni, è una pagina di storia ancora tutta da scrivere. Anni Novanta. Preceduti da un decennio fondamentale per la Basilicata: il 23 novembre 1980 il terremoto semina paura, lutti e distruzione. Un’intera popolazione in ginocchio, macerie, città transennate. E subito dopo un formidabile fiume di denaro che comincia a scorrere copioso, miliardi e miliardi di lire, fondi pubblici che in parte risollevano la comunità, in parte finiscono altrove e, soprattutto, diventano l’occasione formidabile per trasformare la terra dell’arretratezza contadina nel piccolo laboratorio dell’industria e dell’innovazione.

Nasce l’Università, poi nascerà la Fiat.

TERRA DI CONQUISTA - Ma la scintilla è scoccata. La Basilicata è diventata un territorio appetibile. Ci sono i soldi, le opportunità, qualche politico compiacente, qualche imprenditore senza scrupoli. In questo humus non può non attecchire anche il crimine organizzato. Inchieste giudiziarie sulle grandi distrazioni di fondi pubblici, sulla corruzione, sulle incompiute e le cattedrali nel deserto? Poche e inefficaci. Di quell’esperienza non rimane nulla, nessuna giustizia. Forse i germi di una magistratura sospetta nascono in questa stagione.

LE FAMOSE TOGHE LUCANE - Facciamo subito le doverose differenze: ci sono magistrati in prima linea, che scavano scavano e non concedono sconti. E ci sono altro tipo di toghe. C’è perfino un pubblico ministero, Luigi de Magistris, nella Procura di Catanzaro, che ipotizza l’esistenza di una «cupola ». L’inchiesta viene ribattezzata «toghe lucane». Secondo De Magistris un «comitato d'affari» composto da politici, magistrati, avvocati, imprenditori e funzionari avrebbe governato grosse operazioni economiche in Basilicata. La guardia di Finanza, nei primi mesi del 2007, perquisisce le abitazioni e gli uffici del sottosegretario allo Sviluppo economico, Filippo Bubbico (Ds, già presidente della Regione Basilicata), del procuratore generale di Potenza, Vincenzo Tufano, dell'avvocato Giuseppe Labriola e della dirigente della Squadra mobile di Potenza. Luisa Fasano. Abuso d'ufficio, corruzione in atti giudiziari e associazione per delinquere, truffa aggravata sono i reati contestati a vario titolo. L'inchiesta ipotizza «una logica trasversale negli schieramenti», il «collante degli affari», un gruppo di potere che, ciascuno al suo livello, contribuisce nella spartizione della torta. Ma l’allora ministro della Giustizia, Clemente Mastella, chiede al Csm il trasferimento cautelare d'urgenza di De Magistris, per irregolarità nella gestione del caso «Toghe lucane». E nel marzo 2011 l'intera inchiesta viene archiviata dal gup di Catanzaro che definisce l'impianto accusatorio «lacunoso» e tale da non presentare elementi «di per sé idonei» a esercitare l'azione penale.

DOSSIERAGGIO - Ma i veleni sono tutt’altro che finiti. Perché nella Procura potentina nel frattempo è al lavoro Henry John Woodcock, le cui inchieste mettono a rumore mezza Italia. Nel febbraio del 2009 un esposto anonimo, con tanto di tabulati relativi a telefonate fra Woodcock e la giornalista Federica Sciarelli, denuncia le rivelazioni che il pm napoletano avrebbe fornito in anteprima alla conduttrice di «Chi l’ha visto?» nonché al giornalista Michele Santoro, conduttore di «Annozero». La denuncia si rivela infondata.

Ma nel frattempo la Procura di Catanzaro apre il fascicolo ribattezzato «Toghe lucane bis». Cosa si sospetta, questa volta? Che sia la stessa Procura generale di Potenza ad aver ispirato l’esposto. Avvisi a comparire vengono notificati all’ex procuratore generale di Potenza, Vincenzo Tufano (ora in pensione), ai sostituti procuratori generali Gaetano Bonomi e Modestino Roca e all’ex sostituto procuratore della Repubblica, Claudia De Luca, poi trasferita a Napoli con lo stesso Woodchok. Nell’inchiesta compare anche il nome di un ex agente del Sisde, Nicola Cervone. «Toghe lucane bis» teorizza che qualcuno abbia in effetti tentato di delegittimare sia Woodcock sia l’altro sostituto procuratore potentino, Vincenzo Montemurro, autori delle inchieste sugli intrecci tra politici e criminalità lucana.

I SERVIZI SEGRETI - L’inchiesta si è chiusa con la richiesta di rinvio a giudizio degli indagati. L’udienza preliminare si terrà il prossimo 15 giugno 2012. Se esista realmente un gruppo di potere che orienta le indagini e gestisce le informazioni in modo improprio, lo dirà la storia processuale. Ma torniamo a Nicola Cervone. Il nome dello 007 compare in altri oscuri capitoli delle vicende lucane degli ultimi vent’anni. Perché sono gli stessi servizi segreti a comparire come le ombre cinesi dietro al duplice omicidio di Giuseppe Gianfredi, vicino agli ambienti della criminalità) e di sua moglie Patrizia Santarsiero, uccisi a Potenza nel 1997 dinanzi agli occhi dei figli (uccisi perché? È ancora tutto da chiarire). E l’ombra dei servizi segreti s’affaccia, ancora, sulla vicenda torbida di Elisa Claps, la studentessa potentina scomparsa nel 1993 il cui cadavere è stato ritrovato nel sottotetto della Chiesa della Trinità nel marzo 2010. Dell’omicidio è stato ritenuto colpevole Danilo Restivo. L’ex Sisde aveva perfino tenuto un dossier sulla vicenda Claps, dossier poi svanito nel nulla. E un altro dossier dei servizi che ipotizzava l’esistenza di una «struttura parallela d’intelligence » si ritrova nella disponibilità sia di Cervone sia del sostituto procuratore generale Gaetano Bonomi, sì, ancora lui. Nel dossier si teorizza che giornalisti vicini ad agenti segreti, ex investigatori della Guardia di finanza, ufficiali dei carabinieri e magistrati della Procura potentina si sarebbero scambiati informazioni per colpire i loro nemici.

Bonomi viene perfino intercettato mentre parla dei suoi rapporti con gli uomini dell’Aisi (l’ex Sisde) con i quali stanno facendo «un servizio insieme».

LE COINCIDENZE - Ma c’è ancora un filo rosso o un’inquietante coincidenza. Nella prima inchiesta di De Magistris sulle toghe lucane finisce anche Felicia Genovese, il pm della vicenda Claps (che avrebbe orientato le indagini lontano da Danilo Restivo) e pm del duplice omicidio Gianfredi. Suo marito, il medico Michele Cannizzaro, viene nominato direttore generale del più grande ospedale della Basilicata, nomina politica, si sa. A nominarlo un gruppo di politici che sua moglie aveva sotto inchiesta e per i quali avrebbe poi chiesto l’archiviazione. Un teorema che era costato alla Genovese un’accusa di abuso d’ufficio, poi dissoltasi in un’assoluzione. Felicia Genovese è anche autrice di una clamorosa inchiesta sulla centrale di ricerca nucleare Trisaia di Rotondella, l’altro mistero della Basilicata felix. Si sospetta tra l’altro che i vertici della centrale abbiamo acquisito e trasferito in Iraq plutonio e altro materiale nucleare utilizzabile a scopo bellico, facendo nel frattempo sparire scorie radioattive che non dovevano essere trovate nella centrale dell’Enea. In realtà sulla Trisaia ci sono almeno trent’anni di inchieste giudiziarie. Agenti segreti, faccendieri, presunti emissari delle guerriglia sahariana e quelle 64 barre di uranio irraggiate custodite nell’ex Centro Enea. L’ennesimo mistero.

Da Potenza a Napoli: una storia di ordinaria stupidità tutta italiana. Magistrati "contro" che lasciano la sede giudiziaria di Potenza per ritrovarsi tutti a Napoli. Claudia De Luca, ex sostituto procuratore della Repubblica di Potenza e poi in servizio nella sede giudiziaria di Napoli, è stata condannata a un anno e sei mesi di reclusione per l'accusa di peculato, che gli era stata mossa nell'ambito dell'inchiesta conosciuta come "Toghe lucane". La sentenza – scrive l’Agi e tutta la stampa - è stata emessa dal giudice dell'udienza preliminare di Catanzaro, Antonio Rizzuti, al termine del giudizio abbreviato che è valso alla De Luca lo sconto di pena di un terzo, e nell'ambito del quale il pubblico ministero Gerardo Dominijanni aveva chiesto una condanna ad un anno e quattro mesi. La contestazione di peculato fu mossa all'imputata dall'allora sostituto procuratore della Repubblica di Catanzaro Luigi de Magistris, titolare di "Toghe lucane", perché lei avrebbe utilizzato il telefono di servizio per scopi personali. La De Luca, in particolare, secondo le accuse - del 2009 la richiesta di rinvio a giudizio formulata dal pm Vincenzo Capomolla che ha ereditato Toghe lucane dal collega de Magistris - avrebbe effettuato con il cellulare di servizio 65 telefonate, nel periodo tra maggio e ottobre del 2003, al numero telefonico 899 a pagamento per un servizio di cartomanzia. Nell'inchiesta sarebbero emerse anche diverse telefonate effettuate dal magistrato allora in servizio a Potenza, sempre con il telefono del turno, su numeri strettamente personali e, in particolare, oltre 16.000 contatti nel periodo tra il 20 aprile 2005 e il 22 aprile 2007 sul numero di cellulare del marito. A queste, si aggiungerebbero altre telefonate, effettuate sempre con il cellulare del turno, ad altre persone vicine all'imputata. La De Luca è attualmente tra le persone indagate nell'inchiesta denominata "Toghe lucane bis", e destinataria di uno degli avvisi a comparire emessi dalla Procura di Catanzaro che sta conducendo l'inchiesta, relativa a presunti gravi illeciti commessi tra gli altri da alcuni magistrati in servizio in Basilicata. Nell'inchiesta "Toghe lucane bis" sono ipotizzati, complessivamente, la violazione della legge sulle associazioni segrete, l'associazione a delinquere, la corruzione in atti giudiziari, l'abuso di ufficio. "Toghe lucane bis" ha preso le mosse da un presunto complotto finalizzato a calunniare l'allora sostituto procuratore di Potenza Henry John Woodcock (poi pm a Napoli) che, insieme al suo collega Vincenzo Montemurro, ora in servizio alla Procura di Salerno, indagavano sugli intrecci tra politici e criminalità lucana.

A tal proposito dalla stampa (Il Domani della Calabria) si viene a sapere che la Procura di Catanzaro ha notificato 13 avvisi di conclusione delle indagini preliminari nei confronti di magistrati, carabinieri, poliziotti e di un ex agente segreto del Sisde, indagati nell’ambito dell’inchiesta "Toghe lucane bis". I magistrati calabresi - il procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli e il sostituto Simona Rossi - ipotizzano che negli uffici della Procura generale di Potenza si era costituita e operava una società segreta, in violazione della legge Anselmi, finalizzata a delegittimare il lavoro dell’ex pm di Potenza Henry John Woodcock (poi in servizio alla Procura di Napoli) e di altri magistrati del capoluogo lucano. I promotori della società segreta, secondo l’accusa, sono l’ex procuratore generale di Potenza, Vincenzo Tufano e i sostituti procuratori generali Gaetano Bonomi e Modestino Roca. Con l’aiuto del colonnello dei carabinieri Pietro Gentili, e del vice questore aggiunto Luisa Fasano, reperivano notizie riservate sui magistrati della Procura che poi venivano usate per delegittimarli. Nell’inchiesta sono coinvolti anche l’ex sostituto procuratore Claudia De Luca (poi in servizio a Napoli), l’ex agente del Sisde Nicola Cervone, poi divenuto cancelliere al tribunale di Melfi (Potenza), quattro ufficiali di polizia giudiziaria (Antonio Cristiano, Consolato Roma, Leonardo Campagna e Angelo Morello), l’imprenditore Ugo Barchiesi e l’autista della Procura generale di Potenza, Marco D’Andrea. Le indagini hanno avuto inizio dopo una lettera di calunnia ai danni di Woodcock e del suo braccio destro, l’ispettore di Polizia Pasquale Di Tolla. Ad organizzare il presunto complotto, secondo l’accusa, sarebbe stato Bonomi con la complicità degli altri magistrati della Procura generale di Potenza. Nel febbraio del 2009 fu preparato un esposto anonimo con i tabulati telefonici di Woodcock e quelli dei giornalisti Federica Sciarelli e di Michele Santoro. Il tutto era finalizzato, secondo la Procura di Catanzaro, ad avviare verifiche disciplinari nei confronti di Woodcock. Già in passato la Procura calabrese, con l’ex pm Luigi De Magistris (poi sindaco di Napoli), aveva indagato su un presunto comitato d’affari del quale avrebbero fatto parte magistrati, politici ed imprenditori. I trenta indagati di quell’inchiesta chiamata Toghe Lucane, sono stati prosciolti il 19 marzo scorso.

Potenza tra delitti e consorterie. Misteri noir e lotte di potere.

Questo tema ha destato l'attenzione di Alberto Statera ed Attilio Bolzoni che ne hanno scritto su "La Repubblica". Così come si sono occupati dei misteri di Potenza tanti altri giornalisti.

Già Potenza, capoluogo della regione Basilicata (Lucania).

Passi il Basento, scali a ottocentodiciannove metri sul livello del mare Potenza, da due secoli il capoluogo regionale più alto d'Italia, dove come dice il proverbio "a Santa Caterina la neve sova a spina", e pensi di trovarti nel "reality show" più appassionante dell'anno. Belle "gnocche" come qui non si sono mai viste - così dice il barista che serve il caffè a giudici, avvocati e giornalisti vicino al palazzo di Giustizia - Lele Mora che sgambetta in passerella al comando di una coorte di ragazze squittenti e prorompenti. E poi il ciglioso piemme biondo che fa impazzire il mondo e tanti "Vipps", che Mina, signora un po' snob, su "La Stampa" ha ribattezzato "Pipps". E invece altro che "vallettopoli" e "puttan tour". Appena arrivi in cima alle scale di Potenza, che il sindaco Vito Santarsiero chiama la "città verticale", ti senti risucchiato in un cupo romanzo gotico: potere, politica, soldi, speculazioni, sesso e assassinii. Altro che veline. Sì, perché in questo ex borgo montanaro, voluto capoluogo regionale da Giuseppe Bonaparte nel 1806, che vide tra i suoi cittadini Giustino Fortunato, vagheggiatore della nascita di una moderna borghesia imprenditoriale nel Mezzogiorno, in questa capitalina di 69 mila abitanti, tra monti bellissimi, ma di una bruttezza palazzinara che fa male all'anima, c'è un tasso di omicidi irrisolti che dev'essere proporzionalmente il più cospicuo d'Italia.

Non tanto gli omicidi di camorra, di mafia, di 'ndrangheta, che pure qui arrivano ma che altrove non si contano neanche più. Ma casi in cui s'intrecciano potere, politica, massonerie, magistratura, corruzioni, abusi, sesso e droga. Tanti misteri alla Montesi. Chi non ricorda il caso di Wilma Montesi? La ragazza fu trovata morta sulla spiaggia di Torvajanica, litorale di Roma, dopo una notte di festini.

Quella morte aprì una partita all'ultimo sangue nella Democrazia cristiana, con le dimissioni del ministro degli Esteri Attilio Piccioni, per i sospetti sul figlio Piero, musicista e viveur, che in realtà quando Wilma fu uccisa si trovava in Costiera Amalfitana con Alida Valli, sua amante del momento, come poi testimoniò l'ex ministro Paolo Emilio Taviani. Lo scandalo favorì l'ascesa nel partito di Amintore Fanfani. Emilio Colombo, ex presidente del Consiglio, ex ministro in decine di governi, tuttora venerata icona cittadina e nume tutelare di Potenza, era giovane, ma di quell'epoca ha sicura memoria. Qui, oggi come allora, la partita incrocia i partiti, ma non è solo politica, coinvolge pezzi rilevanti di magistratura e di società, la nuova borghesia locale fatta soprattutto di burocrati, non quella sognata da Giustino Fortunato, né quella contadina dell'Ottocento e del Novecento dei Ricciuti, dei Lioy, dei Santangelo, dei d'Errico, dei Lacava. A incrementare le inchieste incrociate c'è un Robin Hood locale "antimagistratura corrotta". Si chiama Nicola Picenna e non ha requie da quando nel marzo 2003 il Tribunale civile di Matera, presieduto da Iside Granese, dichiarò il fallimento del consorzio Anthill, di cui era presidente, fondato dal banchiere Attilio Caruso per partecipare alla gara per la concessione delle licenze telefoniche Umts. Sali a Potenza, sulla scala mobile più lunga d'Europa, piccolo ma rivendicato orgoglio cittadino che ti porta al centro della città, e subito ti raccontano dell'omicidio dei coniugi Gianfredi, Giuseppe e Patrizia, ammazzati a fucilate anni fa davanti ai figlioletti. Un mistero irrisolto, uno dei tanti. Prendi il caffè in via Pretoria, vicino a Palazzo Biscotti, dove abitò Giovannino Russo, gloria giornalistica cittadina, e ti intrattengono sul giallo di Elisa Claps. Sedicenne, mora, carina, alta un metro e cinquantacinque, scomparve una domenica, il 12 settembre 1993. Fu sospettato Danilo Restivo, il ragazzo che aveva appuntamento con lei. Ma tutto finì nel nulla. Salvo che, trasferitosi in Inghilterra, il giovanotto di ottime relazioni familiari a Potenza, manifestò lo stesso vizietto che, a quel che disse la polizia, coltivava a casa: tagliare ciocche di capelli a signore e signorine, per strada, in autobus, ovunque gli capitasse. Scotland Yard, passati gli anni, è ancora lì a studiare il profilo psicologico dell'uomo sospettato per l'assassinio britannico di Heather Barnett, vicina di casa del sospetto potentino, trovata morta con una ciocca in mano. A Potenza si narra che il cadavere di Elisa, mai più ritrovato, fu sciolto nell'acido o incorporato nella colonna di cemento di un palazzo di undici piani. Ma soprattutto si strologa sulle connivenze, di cui "Chi l'ha visto", i giornali locali e i capannelli di via Pretoria parlano con ridondanza di nomi e cognomi. Il "parrucchiere" sarebbe stato protetto da Michele Cannizzaro, attuale direttore dell'ospedale San Carlo e marito di Felicia Genovese, magistrato di Potenza, ora trasferita dal Csm e indagata per aver archiviato una denuncia contro esponenti dei Ds e della Margherita, in cambio - questa l'accusa - della nomina del marito all'ospedale. Il pentito Gennaro Cappiello sostenne che il marito della Genovese fu anche il mandante del duplice omicidio Gianfredi. Ma l'inchiesta è stata archiviata e il pentito, considerato inattendibile dalla procura di Salerno, denunciato per calunnia.

Tanti anni dopo, innescato dalle inchieste a raffica del pm anglo-napoletano Henry John Woodcock, che agiscono come una sorta di moltiplicatore d'interesse per le antiche vicende, in cima alla città delle scale, che ancora dibatte su un antico stemma raffigurante un "leone gradiente su di una scala" (ma i leoni salgono le scale?) torna l'incubo degli omicidi insoluti. Non solo Elisa e i Gianfredi, anche i "fidanzatini di Policoro" uccisi nel 1988. Policoro, sulla costa jonica, è oggi in qualche modo l'epicentro, il luogo epitomico, dell'inestricabile "Basilicata connection", che copre come una nevicata di Santa Caterina l'intera regione e fa lacrimare nel Duomo San Gerardo, patrono di Potenza, e l'arcivescovo Agostino Superbo, indignato non solo per le vergogne locali, ma per i "modelli di vita" dell'Italia televisionara scoperchiati da Henry John.

E' lì, a Policoro, che carabinieri e Guardia di Finanza hanno messo i sigilli al villaggio turistico "Marinagri", un complesso di alberghi, ville, marina, del valore di 200 milioni di euro, costruito su terreno demaniale, per il quale è indagata, anche in inchieste connesse su un "gruppo di potere" trasversale, un bel pezzo di giustizia e di politica regionale. Non solo Felicia Genovese, col marito direttore dell'ospedale, ma anche, tra gli altri, i procuratori potentini Giuseppe Galante e Giuseppe Chieco, il presidente del Tribunale di Matera Iside Granese, l'ex presidente della Regione e sottosegretario diessino nel governo Prodi Filippo Bubbico, il presidente della Regione Vito De Filippo, della Margherita, il senatore Emilio Nicola Buccico, di An, ex componente del Consiglio superiore della Magistratura e candidato a sindaco di Matera, la responsabile dell'Agenzia del Demanio Elisabetta Spiz, all'anagrafe moglie di Marco Follini, ex leader dell'Udc "scisso" dal socio Pierferdinando Casini, il cui nome ha aleggiato nei pettegolezzi fioriti ai margini delle inchieste televisionarie di Woodcock. Almeno tre, per quel che ne sappiamo, i tronconi dell'inchiesta "Basilicata connection" che pericolosamente s'intersecano: filone sanità, incentrato sulla coppia Cannizzaro - Genovese, filone banche per finanziamenti della Banca Popolare del Materano, Gruppo Popolare dell'Emilia, al presidente del tribunale di Matera, filone speculazione edilizia per "Marinagri" di Policoro. Ma, tra i tanti filoni, torna cupo dal passato, con un'inchiesta riaperta dalla procura di Catanzaro, l'assassinio dei "fidanzatini di Policoro", Luca e Mariarosa, che Carlo Vulpio ha dettagliatamente ricostruito sul "Corriere della Sera". Ventun'anni di età entrambi, trovati morti nella vasca da bagno, si disse che i due ragazzi furono folgorati per il cattivo funzionamento dello scaldabagno. Nessuno fece l'autopsia. Ma, riesumati i corpi otto anni dopo, si ebbe la quasi certezza che i fidanzati in realtà siano stati prima uccisi e poi gettati nella vasca da bagno. "La vicenda - disse in Parlamento l'allora ministro della Giustizia Piero Fassino - ha risentito in modo determinante dell'insufficienza degli accertamenti espletati". Perché furono così insufficienti gli accertamenti espletati? Perché la ragazza, Mariarosa, aveva confessato in una lettera al fidanzato Luca: "Amore mio, spero che resterai accanto a me anche quando ti confesserò una piccola parte di me, che voglio cancellare per sempre". La parte da cancellare erano festini con personaggi potenti, serate allegre di sesso e droga, ben retribuite, che facevano tremare mezza Basilicata. Quelle serate, secondo la pentita Maria Teresa Biasini, sarebbero state frequentate, tra gli altri - come hanno riferito le cronache - dal giudice del Csm Nicola Buccico, dall'avvocato Giuseppe Labriola, segretario provinciale di An, e da un giudice "dai capelli bianchi e dagli occhi di ghiaccio", l'unico di cui il nome non viene fatto esplicitamente. Chi era? Per saperlo basterebbe ascoltare le chiacchiere da bar di via Pretoria. Ma la vicenda è stata archiviata a Potenza perché priva di riscontri. Buccico, magistrato del Csm e senatore di An, per parte sua, prima difende come avvocato la famiglia dell'assassinato, poi diventa avvocato del pubblico ministero Vincenzo Autera, quello che per l'omicidio dei due ragazzi aveva chiesto l'archiviazione. Strilla il segretario diesse della Basilicata Piero Lacorazza: si complotta contro la dignità di un'intera Regione. Gli risponde sul "Riformista" Emanuele Macaluso: finiamola con la retorica, l'intreccio tra "nuova classe" e poteri locali è politico e coinvolge anche Diesse e Margherita. Il sindaco di Potenza è della Margherita ed è il più "preferenziato" d'Italia, con il 75 per cento dei voti. Lui, Vito Santarsiero, estimatore dell'antico leader Emilio Colombo, non parla di complotti. Enumera appassionatamente i lavori "cantierizzati", le mostre straordinarie aperte in città, come quella di De Chirico, perché "la cultura viene prima di tutto" in una città che ha sofferto dell'immensa "incultura urbanistica" prima e anche dopo il terremoto del 1980, che pure tanti fondi condusse qui per una ricostruzione dissennata. Ci parla dell'area industriale, della Pittini Siderurgica, delle aziende di prefabbricati, del debito che ha ereditato, 150 milioni di euro che solo di interessi gli costa 10 milioni all'anno, del "piano metropolitano" messo a punto con nove comuni vicini per lo sviluppo economico dell'area. Ma qualcosa ha da dire anche su "vallettopoli": "Sei milioni di euro di costo per le intercettazioni telefoniche a Potenza mi sembrano francamente un'enormità, basta fare il confronto con la cifra infinitesimale che si spende a Matera. Io rispetto il magistrato Woodcock, ma credo anche che la giustizia abbia delle priorità, che ci debba essere una gerarchia nel perseguimento dei reati. Allora mi piacerebbe finalmente sapere non solo quale Vip in mutande ha fotografato Corona, chi c'era sulla barca in navigazione nei pressi di Capri col transessuale, quale ragazza amministrava Lele Mora. Mi piacerebbe anche sapere che cosa si fa contro la droga, che qui dilaga, che cosa contro l'usura, contro la mafia, che incede dalle regioni limitrofe. E possibilmente che fine ha fatto Elisa Claps, perché, diciamolo, questa città è ancora scossa da quello e dagli altri omicidi impuniti. Potenza ha bisogno di serenità per poter fare ciò che le serve: lavoro, tutela dell'ambiente, qualità della vita, riqualificazione urbana". Sessantamila miliardi di vecchie lire piovvero dopo il terremoto del 1980 e 18 mila si fermarono qui in Basilicata. Il 60 per cento per un'industria mai nata o fallita, il 40 per recuperare abitazioni che hanno perpetuato uno scempio urbanistico che viene da lontano, da quando nella prima parte del secolo scorso approdarono qui invano gli architetti Piacentini e Quaroni a progettare il manicomio. E manicomio urbanistico fu. Tanto che la "riqualificazione" sembra oggi una missione impossibile anche per gli architetti Giuseppe Campos Venuti e Federico Oliva, chiamati in città dal sindaco Santarsiero. Quanto all'industria, se si tolgono la Fiat di Melfi e il polo dei salotti nel materano, ce ne sono scarse tracce in una terra strappata alla pastorizia con un profluvio di incentivi. Nonostante il fiume di denaro pubblico, il valore aggiunto per abitante è di poco più di 16 mila euro, l'ottantaduesimo posto nella classifica italiana, la disoccupazione è pari a circa un terzo della popolazione attiva residente. C'è il petrolio della Val d'Agri, ma sembra che l'oro nero lucano, che copre più o meno il dieci per cento del fabbisogno energetico nazionale, qui sia vissuto più che come un'occasione, soprattutto come un fastidio. Ne sa qualcosa l'ex presidente della Regione e sottosegretario allo Sviluppo economico Filippo Bubbico che ha dovuto difendersi anche dall'accusa di aver consentito l'estrazione nella Val d'Agri: "Le ricerche - ha spiegato - avvenivano da molto tempo, c'erano concessioni minerarie risalenti agli anni Cinquanta. Ma solo nel 1996 il governo nazionale ha autorizzato l'Eni a sfruttare i giacimenti petroliferi della Val d'Agri. In quella situazione nessuno avrebbe potuto fermare l'attività petrolifera. Noi abbiamo scelto di non perderci nella disputa nominalistica petrolio sì, petrolio no e abbiamo faticosamente trovato il modo di portare l'Eni e il governo al tavolo delle trattative per tutelare l'ambiente e creare opportunità per la Basilicata". Ciò di cui oggi la Basilicata non difetta sono i sottosegretari: oltre a Bubbico, dispone di Mario Lettieri all'Economia e di Gianpaolo D'Andrea alle Riforme, entrambi della Margherita. Altri tempi rispetto a quelli di Colombo e di Angelo Sanza, quando Potenza, borgo montanaro a ottocento e più metri sul livello del mare, comandava a Roma. Altri tempi, di pastorizia, clientele sì, quasi una patria. Ma non c'era "Potenza noir".

Il caso di Elisa Claps non è l’unico e nemmeno il più recente. La storia di Potenza è costellata di delitti misteriosi e soprattutto irrisolti. Alcuni poi portano al delitto della sedicenne scomparsa nel 1993. Uno di questi ha come vittima Pinuccio Gianfredi, malavitoso e confidente dei servizi segreti ucciso con una fucilata in bocca il 29 aprile 1997. All’inizio si parlò di regolamento di conti ma qualcuno di recente ha collegato questo delitto con la vicenda Claps: pare che Pinuccio sapesse qualcosa. Un’altra morte misteriosa riguarda una poliziotta, anche lei coinvolta in qualche modo con Elisa Claps. Anna Esposito è stata ritrovata morta in casa nel marzo 2001: un suicidio strano e anche misterioso. Avvenuto mentre conduceva indagini solitarie e parallele sulla morte di Gianfredi e sulla scomparsa di Elisa. Parla chiaro Don Marcello Cozzi, sacerdote di Libera da sempre al fianco della famiglia Claps: “Sono convito che l’omicidio Gianfredi abbia coperture di Stato e sia legato ai colpevoli ritardi nell’individuazione di Danilo Restivo come assassino di Elisa e alla morte del funzionario della Digos Anna Esposito”.

«Lontana, abituata a nascondersi, una delle città più misteriose d'Italia sta cercando di cancellare tutte le tracce che portano a un morto. In apparenza un delitto di mafia, in realtà un omicidio che nessuno vuole scoprire». Comincia così l'inchiesta che "La Repubblica" dedica al capoluogo a tutta pagina. Attilio Bolzoni, uno delle più influenti e prestigiose firme del giornalismo italiano, da anni alle prese con cronaca nera, storie di mafia, importanti casi giudiziari, ha deciso di raccontare «la città dei 21 delitti irrisolti».

Quello su cui concentra l'attenzione è il caso Gianfredi. Un delitto che descrive come «uno dei tanti in questa Potenza incastrata fra le montagne, gelosissima della sua intimità, capace di ingoiare ogni segreto». Parte dal delitto Gianfredi per innestare quelli di Elisa Claps, la scomparsa di Nicola Bevilacqua (Lauria), il giallo dei fidanzatini di Policoro, Luca e Marirosa. Ancora, l'assassinio di Tiziano Fusilli nel capoluogo e la scomparsa, 35 anni fa, della piccola Ottavia De Luise a Montemurro. Tra tutti questi delitti, a guardare bene - emerge nell'impietoso ritratto - un filo c'è: è Potenza questo filo, è la città «bivio di trame e scorribande di spie, porto franco per notabili impastati con il crimine, terra avvelenata da faide e condannata a non sapere mai nulla dei suoi misfatti». Potenza ne esce a pezzi.

Potenza, lontana, abituata a nascondersi, una delle città più misteriose d’Italia, sta cercando di cancellare tutte le tracce che portano ad un morto. In apparenza un delitto di mafia. In realtà un omicidio che nessuno vuole scoprire. Uno dei tanti in questa Potenza incastrata tra le montagne, gelosissima della sua intimità, capace di ingoiare ogni segreto. Morti senza un movente, morti senza un colpevole, morti senza una tomba. Dall’alto dei suoi 819 metri sul livello del mare che le danno il primato di capoluogo di regione più in quota, Potenza – che in un'altra epoca era il reame di Emilio Colombo, per una volta capo del Governo e per altre ventuno Ministro della Repubblica – è bivio di trame e scorribande di spie, porto franco per notabili impastati con il crimine, terra avvelenata da faide e condannata a non sapere mai nulla dei suoi misfatti. Un altro record, dopo quello dell’altitudine, nella Basilicata degli almeno 21 casi insoluti degli ultimi trent’anni, come un noir senza fine con un cadavere dietro l’altro e con indagini immancabilmente destinate all’archivio. Là in cima, chiusa ed isolata come una fortezza, Potenza protegge se stessa occultando tutto. L’ultimo “cold case” ripescato è un regolamento di conti che ha troppe verità. Una fucilata in bocca a Pinuccio Gianfredi per farlo tacere. Pinuccio, malavitoso e confidente dei servizi segreti, ucciso il 29 aprile del 1997 insieme alla moglie Patrizia e sotto gli occhi di due dei tre loro bimbi. Liquidato da frettolose investigazioni come vittima di uno scontro tra bande nemiche, la sua vicenda è raccontata con quattro differenti versioni da quattro pentiti che accusano o si autoaccusano, ma che vengono reputati tutti abbastanza credibili. Due, come Gianfredi, erano anche loro informatori degli apparati di sicurezza. Pasticcio o intrigo? Comunque siano andate le cose, nella città dove niente è mai quello che sembra, qualcuno adesso dice che Pinuccio Gianfredi è stato ammazzato perché sapeva tanto sulla scomparsa di Elisa Claps, la ragazza riesumata diciassette anni dopo in un sottotetto della chiesa della Santissima Trinità. Qualcuno giura che c’entra anche con lo strano suicidio di una poliziotta, trovata soffocata nella sua casa nella primavera del 2001. «Sono convinto che l’omicidio di Gianfredi abbia coperture di Stato e sia legato ai colpevoli ritardi nell’individuazione di Danilo Restivo come assassino di Elisa Claps ed alla morte del funzionario della Digos, Anna Esposito», spiega Don Marcello Cozzi, il sacerdote di Libera che con la sua tenacia ed al fianco della famiglia Claps non ha mai mollato per avere la verità sulla sorte della ragazza. Don Marcello, che ogni tanto riceve minacciose buste con proiettili e visite di ladri che non rubano mai niente, parla di inchieste insabbiate, di informative sparite, di testimoni d’accusa pilotati. Intorno all’omicidio di Pinuccio Gianfredi è in subbuglio la Potenza delle consorterie, delle logge, dei circoli dove s’incontrano gli eredi dei “Basilischi” (l’organizzazione criminale della Basilicata legata alla “ndrangheta) con personaggi del sottobosco criminale della politica, avvocati marchiati dal famigerato “concorso esterno”, imprenditori da mucchio selvaggio.

E poi ci sono le spie. Ce ne stanno dappertutto a Potenza. Chissà che ci faranno tutte queste spie fra le vette dell’Appennino? «Non l’abbiamo mai capito», risponde Fabio Amendolara, il cronista de “La Gazzetta del Mezzogiorno” che da anni segue le contorte vicende giudiziarie potentine e le ingarbugliate piste che costruiscono sopra ogni delitto. Da indagini che si rincorrono fra Potenza e Salerno dove sono approdate, le spie coprono, sviano, depistano. E’ capitato dopo la scomparsa di Elisa ed è capitato dopo l’omicidio di Pinuccio. E probabilmente anche con Anna Esposito, la poliziotta della Digos di Potenza e che un giorno di Marzo del 2001 “è stata rinvenuta impiccata” con una cintura alla maniglia di una porta. La poliziotta faceva indagini parallele e solitarie sul delitto Gianfredi e sulla scomparsa di Elisa. In quel gorgo sono scivolati perfino Felicia Genovese, il pubblico ministero che ha condotto le inchieste sulla morte di Pinuccio e sulla sparizione della Claps. E suo marito Michele Canizzaro, un ras della Sanità lucana, addirittura indicato da uno dei quattro pentiti come mandante dell’omicidio di Pinuccio. Prosciolti già in istruttoria da ogni accusa tutti e due, il pm ed il marito. Scagionati anche tutti i collaboratori di giustizia che li avevano accusati o si erano autoaccusati, scagionati i presunti mandanti. Come sempre, a Potenza, il colpevole è ignoto. E Pinuccio è morto per una guerra di mafia che non è mai scoppiata. E’ l’incubo dei casi irrisolti che ritorna sempre, qui a Potenza. Incubo che ha avuto inizio il 12 maggio del 1975 con la scomparsa a Montemurro di Ottavia De Luise, una bambina forse vittima di pedofili. Mai scoperto nulla.

Come per i fidanzatini di Policoro, Luca Orioli e Marirosa Andreotta, due universitari trovati morti nel bagno di casa della ragazza il 23 marzo del 1988. Una scarica elettrica la causa ufficiale della loro morte, prima. Il monossido di carbonio, poi. Un incidente domestico dove sono state cancellate tracce di sangue e – come si legge nelle carte giudiziarie – «con lo stato dei luoghi modificato e i corpi manipolati». Mai scoperto nulla. Come per Alfonso Bisogno e Giuseppe Di Pietro, commercianti scomparsi nelle campagne di Filiano nel 1981. Come per Tiziano Fusilli, ucciso da due pallottole il 22 maggio del 1989. Tiziano era un ragazzo di 28 anni, qualche precedente per droga, ma intanto aveva cambiato vita. Mai scoperto nulla. Come per Vincenzo De Mare, un autotrasportatore ammazzato a fucilate il 26 luglio 1993. Come per Nicola Bevilacqua, scomparso a Lauria nel maggio del 1983. Due settimane dopo che il ragazzo era svanito nel nulla, a casa di Nicola è arrivata una lettera. Lui diceva che stava bene, rincuorava la sorella, annunciava che prima o poi sarebbe tornato. Non è più tornato. La lettera non l’aveva scritta Nicola. La Basilicata delle tenebre si è inghiottito pure lui.

Ottavia De Luise. A Montemurro in Basilicata, il 12 maggio del 1975 scomparve una bambina, Ottavia De Luise, di appena 12 anni. Era la più piccola di otto fratelli e da qui deriva il nome di Ottavia. Il pomeriggio del 12 maggio del 1975 Ottavia stava giocando con la cugina, a pochi metri da casa. Giunta l'ora di rincasare, la cugina racconta di averla vista incamminarsi verso casa. Solo pochi metri, ma proprio in questo breve tragitto si sono perse le tracce della bambina. Dopo qualche ora, verso le 17, non vedendola figlia, la madre chiese al fratello della piccola di andare a cercarla nella piazza del paese. Quando il ragazzo tornò senza alcuna notizia della sorellina, la famiglia si mise in allerta. All'epoca, nel piccolo borgo di appena 1500 persone, c'era solo un carabiniere. Dopo venti giorni arrivarono dei poliziotti con dei cani per agevolare le indagini: purtroppo non emerse nulla. Nel corso degli anni alla famiglia arrivarono due lettere anonime: la prima fu consegnata ai carabinieri e vennero interrogate delle persone. La seconda giunse ad uno dei fratelli della ragazza e il contenuto era chiaro: Ottavia De Luise fu violentata e uccisa. Nel corso di questi anni nessuno fu indagato, nessun magistrato si occupò di questa scomparsa, fino all'archiviazione del caso.

Dopo il caso di Elisa Claps, un nuovo «cold case» verificatosi sempre in Basilicata, sale alla ribalta delle cronache. Portando a nuovi, clamorosi, sviluppi. I vigili del fuoco, in collaborazione con gli agenti della polizia scientifica, hanno ritrovato il 4 maggio 2010 dei «reperti» all'interno di un pozzo-cisterna a Montemurro (Potenza), nell'ambito delle indagini sulla scomparsa di Ottavia De Luise, il 12 maggio 1975, quando la bambina aveva 12 anni: il ritrovamento è stato annunciato nel corso della trasmissione di Raitre di lunedì scorso «Chi l'ha visto?», che aveva «riaperto» il caso nelle puntate precedenti. Il pozzo-cisterna si trova all'esterno di una masseria ed è stato svuotato: all'interno oggetti e «reperti», forse resti umani, consegnati poi a un medico legale che dovrà analizzarli, come ha confermato all'Ansa la dirigente della squadra mobile di Potenza, Barbara Strappato. Le indagini sono cominciate con i rilievi planimetrici e la perlustrazione dei luoghi in cui Ottavia fu vista per l'ultima volta. Secondo la ricostruzione di «Chi l'ha visto?» il pozzo-cisterna, a pochi metri dal centro abitato, si trova in una delle zone indicate in alcune lettere anonime inviate alla famiglia De Luise, in cui si spiegava che la bambina «era stata violentata, uccisa, e poi nascosta». Le analisi successive condotte dal professor Franco Introna nell'Istituto di medicina legale di Bari avrebbero accertato che i reperti trovati sono resti animali. Dopo la scomparsa della De Luise, nel 1975, i primi rilievi furono effettuati dall'unico carabiniere in servizio all'epoca nel paese. Alcune settimane dopo furono inviati a Montemurro dei poliziotti con i cani. Il caso fu successivamente archiviato, per essere poi riportato alla ribalta da articoli di stampa e da «Chi l'ha visto?», nell'ambito dei servizi sull'omicidio di Elisa Claps. Nel corso degli ultimi anni ci sono state alcune lettere anonime che ipotizzano la pista del delitto ad opera di ignoti pedofili. Nel paese del resto c'è chi conosce la verità, dato che nelle lettere si afferma che la ragazza è stata violentata e uccisa. Nelle missive si dice anche che la bambina veniva abusata da anziani del paese in cambio di soldi. L'ultima persona a vedere viva la piccola Ottavia fu una signora che affermò di averla vista vicino alla parrocchia del Carmine, sulla strada per Armento, e che la piccola era diretta ad una masseria del luogo. Il caso è riaperto. Sulla scomparsa di Ottavia De Luise, 12 anni di Montemurro, avvenuta il 12 maggio del 1975, sono ripartiti gli accertamenti. E non solo sulla carta. A Montemurro c‘è stata la prima intensa giornata di lavoro su quel «mistero» che per 35 anni è rimasto nel silenzio, senza indagini e senza nemmeno gli onori della cronaca. Direttamente sui luoghi della scomparsa sono andati il pm Sergio Marotta che ha ripreso in mano quel fascicolo chiuso un anno dopo la scomparsa con dentro appena 55 pagine di accertamenti, il capo della Squadra Mobile, Barbara Strappato, e il commissario capo, Antonio Mennuti, questi ultimi reduci dai colloqui col fratello di Ottavia, Settimio De Luise. In pratica, sembra che sul caso De Luise si sia deciso di ripartire con il «metodo Claps» ossia analizzare tutto come se i fatti si fossero appena verificati. Così la folta squadra investigativa (c’erano altri sei uomini della Mobile e due della Scientifica) è arrivata di buon ora sulla «scena del delitto» per partire dalla ricognizione dei luoghi, poi si sono acquartierati nei locali del Comune di piazza Giacinto Albini dove hanno iniziato a sentire i racconti di alcuni dei testimoni dell’epoca, a partire dalle stesse persone i cui nomi compaiono negli atti di indagine datati 1975. Il magistrato e il capo della Mobile, in particolare, hanno voluto eseguire in prima persona un sopralluogo a poca distanza dagli uffici comunali, nei pressi di quella Chiesa del Carmine che da Montemurro porta verso Armento, e in particolare in un appezzamento di terreno nei pressi della chiesa. Un luogo ripreso e fotografato dagli uomini della scientifica, che sembra essere un luogo chiave del mistero di Ottavia. Lì, infatti, la ragazza è stata vista per l’ultima volta da Maria Cirigliano, una donna del paese che raccontò la cosa ai carabinieri. Pioveva e Maria le chiese dove andava. La ragazza rispose che doveva avvisare una famiglia residente in una vicina masseria che dall’abitazione che avevano in paese usciva acqua. La donna le consigliò di chiamarli gridando e avvisarli, per non bagnarsi a causa della pioggia, e la ragazza rispose che «era meglio andarci di persona». E si incamminò. Ma non è solo per questo che «la via del Carmine» è un luogo chiave della vicenda. «Ottavia - raccontò qualche giorno dopo la scomparsa sua madre - mi aveva confidato che il “viggianese” l’aveva invitata più volte ad “andare verso la strada del Carmine”».

E gli stessi carabinieri, all’epoca, conclusero che la ragazzina si era avviata su quella strada «perchè doveva incontrare qualcuno». Così l’attività di ricognizione fatta dagli investigatori ha ripercorso i momenti della scomparsa, avvalendosi anche della presenza di alcuni testimoni. Si è partiti dalla piccola casa della famiglia De Luise, in paese, da dove il 12 maggio 1975 Ottavia uscì alle 16.

Quel giorno niente dopo scuola, si poteva andare a giocare con gli amici in quella piazza Giacinto Albini che dista appena una settantina di metri da casa. Lì incontrò alcuni suoi coetanei, tra cui la cugina, Lucia Rotundo, che lasciò alle 16.30. «Ora io vado in campagna a trovare il “viggianese” - le avrebbe detto a quanto riportato in un verbale dell’epoca - non dire niente a papà e mamma». Così si diresse verso la strada del Carmine per non tornare più. E da lì, 35 anni dopo, ripartono le ricerche.

Luciano De Luise, fratello di Ottavia, la bambina scomparsa a Montemurro (Potenza) il 12 maggio 1975, quando aveva 12 anni, parlando durante la trasmissione di Raitre “Chi l’ha visto?”, ha espresso la speranza che la sorella sia “ancora viva”, anche se poco prima aveva criticato le affermazioni di una cugina sulle ultime ore conosciute della sorella, domandandosi “chi vuole ‘coprire’”.

Durante la trasmissione si è parlato anche di Giuseppe Alberti, soprannominato “il viggianese”, che aveva definito Ottavia De Luise “una scostumata” e che fu interrogato e fatto visitare dall’allora pm di Potenza, Antonino De Marco. Alberti, che abitava in una casa forse meta della bambina il giorno che quest’ultima scomparve e che il 29 agosto 1975 si trasferì a Torino, aveva detto di essere stato colpito da una crisi epilettica e di essersi così procurato delle lesioni in varie parti del corpo. Il pm lo incriminò per atti di libidine ma, anche per la mancata denuncia da parte della famiglia di De Luise, allora richiesta dalla legge, non si arrivò mai al processo. “Chi l’ha visto?” ha proposto anche il caso di Alfonso Bisogno, un commerciante di bestiame scomparso a Castel Lagopesole di Avigliano (Potenza) nel 1981, insieme a un suo collaboratore, Giuseppe Di Pietro. La loro automobile fu trovata bruciata il giorno dopo, sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria, e subito rottamata.

L’uomo – ha raccontato il fratello, Salvatore – era andato a Lagopesole partendo da Giulianova (Teramo), dove aveva sede la sua azienda – per riscuotere 20 milioni per aver venduto capi di bestiame a una cooperativa. Alcuni dirigenti di quest’ultima raccontarono di avergli dato invece circa 75 milioni: due di loro furono arrestati per omicidio e occultamento di cadavere, ma poi, è stato detto durante la trasmissione televisiva, il processo non proseguì.

Che fine ha fatto Ottavia De Luise, la bambina scomparsa nel 1975? Il “viggianese” poteva essere l’unico sospettato? Sono state seguite davvero tutte le piste? O forse le indagini sono state approssimate perchè Ottavia era “una poco di buono” e quindi indegna di sforzi investigativi?

Testimoni mai sentiti, qualche alibi mai controllato. Le falle dell’indagine giudiziaria sulla scomparsa di Ottavia De Luise, la ragazzina di Montemurro scomparsa nel 1975, sono state ricostruite nella sala del Cestrim a Potenza dai giornalisti Fabio Amendolara ed Emanuela Ferrara durante la “prima” del libro inchiesta "La colpa di Ottavia" edito dalla Edimavi. I giornalisti, rispondendo alle domande di don Marcello Cozzi (moderatore dell’incontro), hanno spiegato perchè le indagini nei confronti del “viggianese” e di Andrea Rotundo, i due sospettati per la scomparsa della ragazzina, non hanno dato alcun esito. “Il viggianese, forse, alla fine avrebbe confessato anche gli abusi su Ottavia – hanno spiegato – ma ha un alibi all’ora della scomparsa di Ottavia”. E Rotundo? Secondo i giornalisti “è stato un abbaglio”.

Sono state seguite davvero tutte le piste? O forse le indagini sono state approssimate perchè Ottavia era “una poco di buono”, così era stata definita all’epoca nel rapporto giudiziario dei carabinieri, e quindi indegna di sforzi investigativi? “36 anni fa – hanno detto i giornalisti – è andata così. Il carabiniere che si occupò dell’indagine la definì una poco di buono. Ci sorprende che la magistratura molli ancora una volta adesso. E’ troppo facile dire “è stato il viggianese”.

E’ morto e non può difendersi. Noi riteniamo, e le indichiamo nel libro, che ci siano altre piste che non sono state mai approfondite. E ci sono testimoni che non sono stati convocati. Testimoni importanti. Come il ragazzo con l’automobile sportiva che osservava con insistenza Ottavia nella piazza del paese pochi istanti prima che sparisse. Perchè quell’uomo non è mai stato chiamato dagli investigatori?”.

L’avevamo detto: il caso della scomparsa di Ottavia De Luise sembra il copione di un brutto film. Ottavia sparì il 12 maggio 1975 a Montemurro, un centinaio di chilometri da Potenza. Montemurro è un paesino di 1.500 abitanti. Ora che si sono mesi a cercare sul serio il corpo di Ottavia, sulla scia del caso di Elisa Claps, non è stato difficile ritrovare alcuni reperti in un pozzo proprio nel luogo dove la ragazzina, che aveva 12 anni, fu vista per l’ultima volta. Si è scoperto poi che in paese, Ottavia attirava allora “voci e pettegolezzi” perché, si diceva, si intratteneva con adulti. E cioè, in pratica, tradotto oggi, alcuno adulti si approfittavano di lei, la molestavano. In particolare un uomo, Giuseppe Alberti, detto il “viggianese”, era stato visto speso vicino a Ottavia. Tanto che la mamma della ragazzina gli aveva intimato di non avvicinarsi più a sua figlia. Quando Ottavia scomparve il “viggianese” fu interrogato e vennero riscontrati sul suo corpo ecchimosi e lividi e in particolare un graffio sul braccio destro della lunghezza di un centimetro e mezzo. Non solo, 35 anni fa, la cugina di Ottavia, Lucia Rotundo, che ancora oggi vive in paese, testimoniò che il viggianese pagava Ottavia per farla spogliare e toccarla nelle parti intime. Oggi ritratta tutto e dice che a indurla a fare quelle dichiarazioni furono i carabinieri. Ma i colpi di scena non finiscono. Si pensava che Giuseppe Alberti fosse morto da tanti anni. Non è così: vive a Torino, ha 87 anni. La polizia segue la pista legata al suo nome, ma conduce scavi anche nella proprietà dei Rotundo, dove si trova il pozzo nel quale sono stati individuati i reperti. Intanto, Settimio De Luise, fratello di Ottavia, ha denunciato per favoreggiamento Giuseppe Nitto, allora comandante della stazione dei carabinieri di Montemurro (la polizia l’ha interrogato in un luogo segreto).

Secondo Settimio, Nitto fece di tutto per insabbiare una storia la cui soluzione era a portata di mano già 35 anni fa.

In Lucania si può venire uccisi, giovanissimi e restare occultati ed ignorati, per anni.

Come funziona la “giustizia” (g minuscola non a caso) a Potenza? Dire Potenza è come dire Italia. Bene lo spiega Walter Vecellio su Notizie Radicali ripreso da “Libero Quotidiano” e tema trattato anche da “La Gazzetta del Mezzogiorno”.

Sei anni di indagini per capire che la pistola era giocattolo.

Clamoroso caso di malagiustizia in provincia di Potenza: più di un lustro per capire che l'arma non avrebbe potuto nemmeno sparare.

Correva l’anno 2006. Il 29 settembre, per l’esattezza. Il luogo: Ruvo del Monte, comune, informano i manuali di geografia, in provincia di Potenza, «situato a 638 metri sul livello del mare, nella zona Nord Occidentale della Basilicata, ai confini con l’Irpinia». A Ruvo del Monte vivono circa milleduecento persone; è da credere si conoscano tutti. E più di tutti, i locali carabinieri, che con il locale sacerdote, evidentemente sono a conoscenza di tutto quello che accade, si fa, si dice. Dovrebbero, si suppone, anche conoscere due fratelli gemelli, Domenico e Sebastiano. Dovrebbero conoscerli bene, perché in paese non deve certo essere sfuggito il fatto che patiscono gravi ritardi mentali. Quando il 29 settembre del 2006 i carabinieri, frugando nella casa dei due fratelli trovano una rivoltella, hanno evidentemente fatto il loro dovere, sequestrandola.

Ed è quello che prescrive la legge, quando viene redatto un rapporto che riassume l’accusa in un paio di righe: «Detenzione illegale di arma». I carabinieri si suppone conoscano le armi; se sostengono che si tratta di una pistola fabbricata prima del 1890, si suppone sappiano quello che dicono. E cosa si fa, in casi del genere? Si istruisce un processo; un processo per detenzione di arma illegale che si conclude nel 2012. La sentenza: «Non luogo a procedere». E come mai, nel 2006 la detenzione illegale di arma sei anni dopo diventa «non luogo a procedere»? Come mai, nei fatti e in concreto, il giudice di Melfi assolve pienamente i due fratelli?

Perché la pistola non è una pistola; perché non si può detenere illegalmente un’arma che non è un’arma. Perché la pistola che si diceva «fabbricata prima del 1890» in realtà è una pistola giocattolo. I due fratelli l’avevano detto con tutto il fiato che avevano in gola: «Non è un’arma, è un giocattolo». Niente da fare.

«Detenzione di arma illegale». Bastava guardarla, quell’«arma illegale»: «Si vedeva subito che era finta, con quella foggia bizzarra che ricalca quelle strette alla cintura dei conquistadores spagnoli del ‘500». Per i carabinieri era «un’arma illegale». I carabinieri come mai erano entrati a casa dei due fratelli? Cercavano oggetti sacri rubati al cimitero del paese. Qui si può immaginare la scena: chi può introdursi in un cimitero per rubare? Degli spostati. E in paese, tutti lo sanno, i due fratelli con la testa non ci sono del tutto.

Allora andiamo da loro. Si bussa alla porta, loro aprono. «Si può?».

«Prego, accomodatevi». Ecco. E lì, in bella vista «l’arma illegale».

Subito in caserma, per l’interrogatorio di rito. Poi l’avviso di garanzia. Passano i giorni, le settimane e i mesi, e arriva l’imputazione: articolo 687 del codice di procedura penale, che punisce appunto la detenzione illegale di armi: dai tre ai dodici mesi, 371 euro di ammenda. Si chiudono le indagini preliminari, c’è il rinvio a giudizio. Finalmente qualcuno pensa di rivolgersi a un perito. Naturalmente è l’avvocato dei due fratelli, non ci pensano né i carabinieri né il Pubblico Ministero. Racconta l’avvocato: «All’apertura della busta contenente la presunta arma idonea a offendere, presenti io, il giudice e il perito tutto si è risolto in una risata. Non c’è stato nemmeno bisogno di una analisi approfondita: una colata unica, un simulacro da bancarella».

Secondo i carabinieri possedevano un’arma ad avancarica prodotta prima del 1890. Una pistola non denunciata e, per questo motivo, clandestina. Un capo d’imputazione di due righe dattiloscritte proprio sotto i loro nomi e sotto il simbolo della Repubblica italiana riassume l’accusa: «Detenzione illegale di arma». Ma era un giocattolo. Loro lo hanno detto, ribadito e dimostrato. Nonostante ciò hanno subìto un lungo ed estenuante processo che si è concluso dopo sei anni con l’assoluzione. È una disavventura giudiziaria quella che racconta la sentenza di «non luogo a procedere» scritta dal giudice di Melfi Amerigo Palma. Gli imputati erano due ragazzi di Ruvo del Monte: Domenico e Sebastiano Suozzi, classe 1973, gemelli. Sul faldone che contiene i numerosi documenti (informative, note inviate dai carabinieri al pubblico ministero, notifiche) finiti tra gli atti dell’inchiesta un cancelliere ha annotato: «Processo Suozzi più uno». Da qualche settimana quel raccoglitore di fascicoli è finito nell’archivio della Procura di Melfi.

Conteneva anche la consulenza di un perito balistico che il difensore dei due ragazzi, l’avvocato Giustino Donofrio del foro di Melfi, è stato costretto a chiedere per evitare che la situazione diventasse ulteriormente rischiosa per i suoi assistiti. «Si vedeva a prima vista che era un giocattolo», conferma chi ha potuto vedere l’arma. Eppure nel 2006 ci fu un sequestro. E i due ragazzi rischiarono l’arresto. La riproduzione - che non è neanche di pregio - era ben esposta sul caminetto della loro abitazione di Ruvo del Monte. I carabinieri della locale stazione la scambiarono per un’arma vera e funzionante e gliela portarono via. Cominciò così per i due ragazzi il lungo calvario giudiziario. Prima l’avviso di garanzia. Poi la convocazione per l’interrogatorio. Poi l’avviso di conclusione delle indagini preliminari. E nonostante l’interrogatorio e le memorie presentate la Procura chiese di rinviare a giudizio i due indagati. È stato allora che l’avvocato ha chiesto di sottoporre il giocattolo a perizia per stabilire la sua natura e la funzionalità.

Scrive il giudice nella sua sentenza: «Il perito, verificato il reperto a lui consegnato nel corso dell’udienza, ha concluso che non si tratta di un’arma ma di un mero simulacro inerte». Un giocattolo. Che i due ragazzi potranno esporre di nuovo sul camino. Dopo sei anni di processo.

UN COVO DI SERPENTI ?!?

Dopo 18 anni Danilo Restivo è stato condannato a 30 anni per l'omicidio di Elisa Claps. I suoi legali annunciano che faranno appello, ma la mamma della giovane chiede ora a Restivo: "Dimmi chi ti ha coperto".

Danilo Restivo, che sta già scontando l'ergastolo in Inghilterra per l'omicidio della sarta Heather Barnet (trovata uccisa nel 2002 con modalità simili, si capirà in seguito, a quelle di Elisa Claps) è stato condannato a 30 anni, massimo della pena per un processo con rito abbreviato, per l'assassinio della giovane studentessa di 16 anni, scomparsa da Potenza il 12 settembre 1993 e ritrovata cadavere, nel sottotetto della Chiesa della Santissima Trinità del capoluogo lucano, il 17 marzo 2010. Danilo Restivo ha avuto anche l'interdizione perpetua dai pubblici uffici e la libertà vigilata per tre anni dopo l'espiazione della pena, oltre all'obbligo di pagare 700mila euro di risarcimento provvisionale. Sollievo per i familiari di Elisa Claps, che finalmente, dopo tanti anni, ottengono "giustizia", come spiega la mamma della giovane Filomena, perché è da sempre che sono convinti della colpevolezza di Restivo. Anche per questo la mamma di Elisa Claps afferma che il magistrato "che ha condotto le prime indagini" si dovrebbe "fare un esame di coscienza". Danilo Restivo, infatti, era stato già condannato a poco più di due anni per falsa testimonianza riguardo al caso di Elisa Claps, ma circa 18 anni fa non si riuscì ad arrivare a questa verità accertata ora in ambito processuale. Per la famiglia Claps molti sono ancora i misteri che ruotano attorno alla morte di Elisa, a partire da quelli definiti come "complici morali". Mamma Filomena spiega infatti che ora non ci può essere "perdono", e si appella a Danilo Restivo: "Ora prendi carta e penna e scrivimi la verità, dimmi chi ti ha coperto". Perché la famiglia Claps è convita che qualcuno sapesse da tempo dell'omicidio della figlia, e di dove si trovasse il suo corpo. "E' la verità sulla Chiesa che voglio e che deve venire fuori a tutti i costi" precisa la mamma di Elisa Claps. La Diocesi di Potenza aveva anche chiesto di costituirsi parte civile nel processo, ma il loro legale, Antonello Cimadomo, ha spiegato che la richiesta è stata respinta "perché il giudice ha riscontrato una potenziale conflittualità con le nuove indagini in corso sul ritrovamento del cadavere". Sembra infatti che sia stato aperto un fascicolo "a latere" per capire se oltre a Danilo Restivo qualcun altro ha delle responsabilità in merito al delitto Claps. Il Mattino ricorda poi che ci sarebbero delle conferme riguardo un dossier scomparso sulla morte di Elisa Claps, dove un ex agente del Sisde, scrive il quotidiano che l'ha intervistato, afferma: "L'informativa sul delitto Claps c'era, la firmai io. E' dell'ottobre '97. C'era un prete che sapeva".

Dalla Gazzetta del mezzogiorno si scopre che sul delitto Elisa Claps spunta la massoneria.

Cercavano qualche elemento che potesse aiutarli a sbrogliare l’intricato giallo del ritrovamento dei resti di Elisa Claps nel sottotetto della chiesa della Trinità di Potenza (avvenuto il 17 marzo del 2010, a 17 anni di distanza dal delitto), quando hanno scoperto che uno dei sacerdoti intercettati era in contatto con esponenti di una loggia massonica segreta. Dalle chiacchierate telefoniche di don Pierluigi Vignola gli investigatori della Direzione investigativa antimafia di Salerno non sono riusciti a comprendere «quali siano con precisione i suoi reali interessi». 

Gli investigatori della Dia di Salerno segnalano alla Procura - è quanto trapela dall’inchiesta bis del caso Claps, quella che sta cercando di accertare cosa c’è dietro al ritrovamento dei resti di Elisa e quale sia il reale coinvolgimento di appartenenti alla curia potentina - i contatti con un personaggio di Nola, in provincia di Napoli, «con precedenti per la violazione della legge Anselmi», quella che vieta la costituzione di società segrete. Ma anche con altri «appartenenti alla massoneria italiana» o comunque «legati ad ambienti massonici».

E, nonostante fino a quel momento non siano emersi «elementi attinenti alle indagini», per «acquisire ulteriori elementi» il caposezione della Dia di Salerno, Claudio De Salvo, da qualche giorno passato alla Squadra mobile, chiede ai magistrati di poter continuare a intercettare il telefono del sacerdote potentino. È il 13 aprile del 2010. Nell’informativa l’ex capo della Dia scrive anche che «da interrogazione della banca dati Sdi (un sistema informatico a cui possono accedere le forze di polizia, ndr) si rileva a carico dell’interlocutore del sacerdote una segnalazione della Squadra mobile di Benevento, all’interno della quale viene deferito anche don Vignola. Non si conosce però l’esito che hanno avuto queste indagini». Ma quando i pm Rosa Volpe e Luigi D’Alessio inoltrano al gip la richiesta di proroga qualcosa s’inceppa. Il giudice Attilio Franco Orio rileva che l’atto inviato dalla Procura è arrivato in ritardo e le attività di captazione vengono disattivate. Per gli investigatori era «evidente - si legge in un documento dell’inchiesta bis sull’omicidio Claps - quanto sia rilevante e indispensabile per la corretta e completa ricostruzione dei fatti, che non sono solo quelli relativi al giorno dell’omicidio ma anche quelli inquietanti relativi al decorso di ben 17 anni durante i quali il cadavere della ragazza si è decomposto nel sottotetto, captare ogni possibile comunicazione che possa interessare sia gli appartenenti al clero coinvolti nel ritrovamento, sia altri collegati, come don Vignola, viceparroco allorché era in vita don Mimì Sabia». Ma ormai era troppo tardi.

Ma a Potenza sembra esserci un covo di serpenti. Le inchieste di Fabio Amendolara sul "La Gazzetta del Mezzogiorno” lo confermano.

Era sorto un contenzioso tra l’Arma dei carabinieri e la Procura di Potenza. Molti ufficiali erano finiti in inchieste giudiziarie che dal comando regionale giudicavano «troppo lunghe». Il generale Emanuele Garelli, ex comandante regionale, preparò un esposto. E il ministero della Giustizia incaricò la Procura generale di effettuare un’indagine conoscitiva. Il sostituto procuratore generale Gaetano Bonomi, indicato dai magistrati di Catanzaro che hanno coordinato l’inchiesta bis sulle toghe lucane - il procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli e il sostituto Simona Rossi - come il promotore di una società segreta che cercava di delegittimare il lavoro della Procura di Potenza, avrebbe «usato» quell’indagine amministrativa per «cagionare - si legge in uno dei capi d’imputazione contenuti nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari notificato nei giorni scorsi ai 13 indagati - un danno ingiusto all’ex capo della Procura Giuseppe Galante».

Come? «Ha suggerito - si legge negli atti dell’inchiesta di Catanzaro - che il colonnello Nicola Improta gli richiedesse la copia di alcuni atti, facendo riferimento alla documentazione redatta dal procuratore Galante, in modo da consentire ai carabinieri di predisporre delle consapevoli ed efficaci controdeduzioni e di non “essere al buio”».

Ma Bonomi avrebbe «garantito» anche «di fornire al colonnello Improta copia della documentazione a lui giunta dal ministero della Giustizia e attinente alla relazione inviata al ministero da Galante, affinché i carabinieri potessero conoscere gli addebiti loro mossi dal procuratore di Potenza».

E ancora: «Ha garantito - scrivono i magistrati calabresi - al colonnello Improta che avrebbe ricevuto i verbali con le dichiarazioni rese da due ufficiali dei carabinieri che smentivano l’esposto del generale Emanuele Garelli».

Per «sistemare» l’indagine amministrativa, infine, Bonomi avrebbe «suggerito» al colonnello Improta «di irrobustire l’impianto accusatorio a fronte di quanto riferito dai due sottufficiali».

Secondo i magistrati di Catanzaro «suggerì» anche «le prove da preparare a sostegno delle loro accuse nei confronti di magistrati della Procura di Potenza e concordò con il comandante interregionale dei carabinieri le modalità di svolgimento degli accertamenti delegati alla Procura generale».

Il tutto per colpire l’ex capo della Procura Galante che, secondo i magistrati di Catanzaro, dopo poco si sarebbe lasciato decadere dall’incarico non presentandosi in ufficio (proprio a causa dei procedimenti disciplinari partiti con le segnalazioni della Procura generale). A quella poltrona pare mirasse proprio Bonomi.

E ancora dalla Gazzetta del Mezzogiorno si scopre che avevano «mappato» gli uffici investigativi della Questura di Potenza e spiato l’ex questore Vincenzo Mauro. «Attività di dossieraggio», la definiscono gli investigatori in un documento dell’inchiesta bis sulle toghe lucane che la Gazzetta ha potuto consultare. 

C’era un «disegno prestabilito - secondo gli investigatori - contro il sostituto commissario Antonio Mennuti e l’ispettore Pasquale Di Tolla». Il primo era in servizio alla Sezione criminalità organizzata della Squadra mobile. Il secondo era il braccio destro del pm Henry John Woodcock e vittima anche dell’esposto anonimo firmato dal «dottor Sicofante». Secondo i magistrati di Catanzaro - il procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli e il sostituto Simona Rossi - anche nel dossier sugli assetti della Questura c’è la mano di Nicheo Cervone, l’ex 007 del Sisde che avrebbe passato l’esposto calunnioso ai danni di Woodcock a Leonardo Campagna, un poliziotto di Foggia che, poi, l’avrebbe materialmente spedito. Secondo gli investigatori è «emerso un disegno criminoso verosimilmente finalizzato a delegittimare e depotenziare il lavoro della polizia giudiziaria» delegata da Woodcock per indagini molto delicate.

La poliziotta al telefono - Il vicequestore aggiunto Luisa Fasano, all’epoca capo della Squadra mobile di Potenza, si lamenta al telefono del fatto che il sostituto commissario Mennuti sia stato, «dopo il suo iniziale allontanamento», completamente «riabilitato» proprio dal questore Mauro che, a suo dire, «prima l’aveva fatto fuori e poi tirandosi indietro l’aveva fatto rientrare nei giochi». Questo comportamento, secondo Luisa Fasano, «aveva molto contrariato il procuratore generale». Spionaggio - Nel dossier sequestrato a casa dell’ex 007 vengono descritte proprio queste dinamiche. «La Questura di Potenza - si legge nel documento - nei primi mesi dell’incarico del questore aveva subìto pochi ma importanti avvicendamenti. Il principale di questi aveva interessato il passaggio di Mennuti (considerato uomo vicino al pm Vincenzo Montemurro, ndr) da responsabile dell’ufficio anticrimine ad addetto all’ufficio di gabinetto del questore». Poi, in linea con i commenti telefonici della poliziotta - ma molto probabilmente si tratta solo di una coincidenza - chi ha scritto il dossier commenta: «Da alcuni mesi Mennuti è stato ricollocato in un ufficio operativo come responsabile di una sezione della Digos. Grazie a questo incarico si occupa di tutte le tematiche relative al mondo politico e di fenomeni delinquenziali destabilizzanti connessi ad associazioni o gruppi quali, ad esempio, la massoneria». 

È questo che preoccupava la società segreta che, secondo i magistrati di Catanzaro, era guidata dal sostituto procuratore generale di Potenza Gaetano Bonomi e alla quale aveva preso parte, sempre secondo l’accusa, anche Luisa Fasano? Oppure era l’ispettore Di Tolla il vero obiettivo del «dossieraggio»? Si legge nel documento sequestrato a casa dell’ex 007: «Contemporaneamente a questi accadimenti, l’ispettore principale della polizia stradale di Potenza, Di Tolla, ha chiesto e immediatamente ottenuto il passaggio alla Squadra mobile. Di Tolla è da sempre il principale fiduciario di un magistrato della Procura potentina (Woodcock, ndr). Così, oggi, di fatto, si è creato un canale diretto fra due magistrati e due uffici operativi della Questura». Nicrospie in questura - Ma chi fu a chiedere e ottenere i due trasferimenti? «Da notizie attinte da fonte inconsapevole prossima al questore - è scritto nel dossier - i due trasferimenti sono stati richiesti in modo pressante e perentorio dal procuratore Giuseppe Galante (che si lasciò decadere a seguito delle accuse di alcuni suoi colleghi. Nell’inchiesta bis sulle toghe lucane è parte offesa)». 

Anche il questore era stato spiato? E chi è quella fonte inconsapevole?

È probabile che l’ufficio del questore sia stato anche intercettato. Luisa Fasano, infatti, confida al suo interlocutore telefonico che il nuovo questore, Romolo Panìco, subentrato a Vincenzo Mauro, prima di insediarsi nella sua stanza ha dovuto fare «una bonifica ambientale». Erano state installate delle microspie? E da chi? È questo che dovranno accertare gli investigatori.

Dalla “Gazzetta del Mezzogiorno” del 1 novembre 2011. Al sostituto procuratore generale Gaetano Bonomi qualcuno aveva promesso un posto all’ispettorato del ministero della Giustizia. All’ex agente del Sisde Nicheo Cervone, invece, dissero che sarebbe diventato consulente del Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica diretto da Massimo D’Alema.

In cambio - secondo i magistrati della Procura di Catanzaro che ritengono di aver scoperto una società segreta che si riuniva al terzo piano del palazzo di giustizia di Potenza, sede della Procura generale - avrebbero dovuto delegittimare alcuni sostituti procuratori in servizio a Potenza: Henry John Woodcock, Vincenzo Montemurro, Anna Gloria Piccininni e Laura Triassi.

Perché? Curavano alcune indagini, sostengono il procuratore aggiunto di Catanzaro Giuseppe Borrelli e il sostituto Simona Rossi, che davano fastidio agli ambienti politici.

Nel caso di Woodcock fu preparato un esposto anonimo firmato con lo pseudonimo «Sicofante» e consegnato all’ispettore della polizia di Stato Leonardo Campagna che lo spedì - secondo gli investigatori - su ordine dell’ex 007 del Sisde. L’esposto - secondo la Procura - conteneva calunnie (per i giudici del Tribunale del Riesame di Catanzaro erano notizie diffamatorie) nei confronti del magistrato anglonapoletano e del suo braccio destro, l’ispettore della polizia di Stato Pasquale Di Tolla. I due erano accusati di aver passato atti dell’inchiesta «Totalgate» al principale indagato e di intrattenere rapporti telefonici con alcuni giornalisti. Ma Bonomi e Modestino Roca, l’altro sostituto procuratore generale indagato, avrebbero «agito» anche con i «poteri ispettivi» che la Procura generale può esercitare nei confronti della Procura della Repubblica.

«Un’intimidazione», secondo gli investigatori di Catanzaro. Perché da quel momento i pm Woodcock, Montemurro, Triassi e Piccininni, hanno lavorato sotto la costante minaccia di «sanzioni».

Le notizie contenute nell’esposto anonimo, ma anche altre «riservate» che circolavano negli uffici investigativi venivano rese pubbliche al fine di rendere vane le indagini. Per la rivelazione di notizie che dovevano rimanere segrete sono indagati i carabinieri Consolato Roma e Antonio Cristiano (ex militari in servizio all’aliquota di polizia giudiziaria, poi trasferiti). E un maresciallo della Guardia di finanza, Angelo Morello. Secondo i magistrati di Catanzaro sono stati loro a fornire le informazioni (contenute in indagini di cui si stavano occupando) all’ex agente segreto. Altre notizie venivano reperite, secondo l’accusa, dal vicequestore aggiunto Luisa Fasano (all’epoca capo della Squadra mobile di Potenza) e dal colonnello Pietro Gentili (ex comandante dell’aliquota di Pg dei carabinieri di Potenza, poi responsabile della sicurezza di un villaggio turistico del Metapontino) e fornite direttamente a Bonomi e Roca.

Ma chi ha promesso a Bonomi un posto all’ispettorato del ministero? E chi disse a Cervone che sarebbe entrato al Copasir? Al centro del complotto pare ci sia un politico lucano. Gli investigatori l’hanno intercettato mentre parlava con Cervone e ritengono di aver accertato che avesse relazioni anche con Bonomi. È stato lui a promettere quelle importanti postazioni in cambio della delegittimazione dei magistrati scomodi? È quello che gli investigatori stanno cercando di accertare.

Su “Libero news” la risposta piccata di Bonomi. A Luigi De Magistris gliene hanno dette di tutti i colori, soprattutto durante la sua prima vita, quella di magistrato. Ma «viscido ectoplasma» è uno di quegli epiteti che difficilmente si dimenticano. Specie se a pronunciarlo è un altro magistrato, uno di peso, come il sostituto procuratore generale di Potenza Gaetano Bonomi. È lui l’uomo al centro dell’inchiesta Toghe Lucane bis, che avrebbe ordito - secondo la procura di Catanzaro - un complotto per screditare il pm Henry John Woodcock, organizzandosi addirittura in un’associazione segreta con altre toghe, con funzionari di polizia e servizi segreti deviati. Insomma, una riedizione (per quel che ne è dato di capire sinora) della vecchia indagine di De Magistris, l’unica che ha concluso ma non l’unica ad esser annegata nel nulla.

L’ex pm, more solito, ha visto in questa nuova inchiesta la prosecuzione del suo lavoro, parlandone pubblicamente e attaccando i suoi vecchi indagati. Chi non conosce la Toghe Lucane originale, immagina che si tratti di chissà cosa: naufragò platealmente per ragioni intrinseche all’indagine stessa, non certo per i cosiddetti «influssi esterni» per bloccare De Magistris. Ora Bonomi, in una esilarante lettera inviata al Quotidiano della Basilicata, ridicolizza sia De Magistris, sia Woodcock che l’intera indagine fotocopia partorita nelle stanze del procuratore aggiunto calabrese Borrelli. Con sprezzante ironia, affibbia alla loggia da lui creata, secondo le accuse, il nome di «PP», laddove si intenda «Propaganda Potenza». Ma è quando arriva il turno dell’ex pm che il piatto si fa forte: «Mi aspettavo da sempre che viscidi ectoplasmi di un recente passato pur raggiunti, a vario titolo, da sanzioni documentate e motivate, che oggi qualcuno tenta goffamente di far apparire come conseguenze di complotti, tentassero di rialzare la testa per riacquistare una dignità fondatamente perduta in modo irreversibile, ma sono certo che anche stavolta i loro convulsi ed agitati spasmi di avvoltoi non conseguiranno alcun risultato favorevole».

Qui c’è da giurare che finirà a carte bollate. Aspetto che non sembra preoccupare il sostituto procuratore generale di Potenza, tant’è che nella lettera al quotidiano ne ha per tutti, a partire proprio dal pm anglo-napoletano e dalla sua amica Federica Sciarelli. Eccone un passaggio significativo: «Non ho come parenti soggetti nobili (conti, principi etc), o eventualmente appartenenti alle alte gerarchie della chiesa (cardinali, vescovi) e tantomeno ho amici, più o meno intimi, nel clero locale o nella "intellighentia" lucana, disposti a cantare le mie lodi. Sono solo un magistrato che ha sempre operato e tutt’ora opera in silenzio, senza simpatie per il clamore mediatico, che, in quanto tale, non dispone di molti supporters neanche tra i giornalisti, tra i quali purtroppo non figura nessuna mia amica e nessun amico».

Per gli insabbiamenti giudiziari e la censura a Potenza sulla Gazzetta del Mezzogiorno del 9 gennaio 2011 è uscito un editoriale del direttore Carlo Bollino.

"Dopo che per mesi il mondo dell’informazione aveva protestato, urlato e manifestato contro i rischi della legge bavaglio, riuscendo infine nell’intento di congelare in parlamento la bozza liberticida, scopriamo che la libertà di stampa rimane a rischio anche senza quella legge. Basta toccare i poteri forti o anche meno: perché se scrivi e lavori in Basilicata basta sfiorare la storia di Danilo Restivo per cacciarti nei guai. Questo giovanotto, a dispetto del numero di omicidi dei quali è accusato o anche solo sospettato, continua evidentemente a godere di ampie tutele se è stato sufficiente scandagliare un po’ nei retroscena della sua personalità deviata, per mobilitare procura di Salerno e squadra mobile e far finire sotto inchiesta il giornalista che ha osato scrivere di lui. È come se contro il desiderio collettivo di giustizia continuasse a infrangersi l’onda lunga dell’immunità che al di là di ogni ragionevole decenza ha consentito a Danilo Restivo di farla franca dal 1993 al 2010, quando finalmente l’evidenza degli indizi a suo carico (alcuni risalenti addirittura a tredici anni prima) si è trasformata in un mandato di arresto internazionale. Ecco, il nostro collega Fabio Amendolara, travolto da un impeto investigativo che in 17 anni non si era mai visto manifestarsi con altrettanta urgenza contro gli assassini di Elisa Claps, si era limitato a scrivere questo: a ricostruire, dettaglio dopo dettaglio, tutte le prove raccolte dal 1993 ad oggi nei confronti del giovane rampollo lucano. E con la logica trasparente che deve sempre ispirare il lavoro di un cronista, a chiedersi in un breve editoriale pubblicato ieri in edizione di Basilicata «cos’altro servisse per arrestare prima Danilo Restivo». Tutte le prove erano raccolte in un’informativa redatta dalla squadra mobile di Potenza nel 2008, ma che la procura di Salerno aveva ritenuto insufficienti ad incriminare Restivo, chiedendone così l’archiviazione. Salvo poi ripescare lo stesso documento due anni dopo, in seguito al ritrovamento del corpo di Elisa nel sottotetto della chiesa di Potenza, e in base a quelle stesse prove chiedere e ottenere l’arresto. Strano oltre che imbarazzante. La procura di Salerno ha così ordinato alla polizia di Potenza di rintracciare Fabio Amendolara che è stato raggiunto dagli agenti mentre come ogni giorno faceva i suoi giri in città a caccia di notizie, e insieme con lui hanno perquisito giornale, casa e auto, sequestrandogli le carte sulle quali lavorava, incluso l’intero archivio sul caso Claps, e accompagnandolo infine in questura dove per altre 4 ore lo hanno sottoposto ad interrogatorio. Senza che nel frattempo gli fosse concessa la possibilità (anzi: il diritto) di mettersi in contatto con i suoi colleghi, né con la sua giovane moglie. Ora, che un giornalista possa finire nel mirino della giustizia per una qualunque rivelazione di segreto istruttorio ci sta pure: diciamo che è un infortunio del mestiere, per nulla imbarazzante giacchè semmai è la prova-provata che stava scrivendo la verità. Ma è sul metodo che dissentiamo. Su questa sproporzionata esibizione di forza che in 17 anni – e ricordarlo oggi appare grottesco – non è mai stata usata nei confronti del presunto assassino. Al quale, tanto per dire, rientrato a casa dal suo ultimo incontro con Elisa della quale si erano appena perse le tracce, procura e polizia dell’epoca consentirono di far sparire la giacca forse macchiata proprio dal sangue della ragazzina. Ed era solo l’inizio di una imbarazzante inchiesta che infatti non approdò a nulla. Ecco, è paradossale che una vicenda giudiziaria condizionata per 17 anni da depistaggi e omertà nella quale anche il silenzio dell’informazione ha avuto un pesante ruolo colpevole, debba giungere al suo epilogo con l’incriminazione di chi invece sta tentando di contribuire alla chiarezza, e se non è sospetto è certamente inopportuno che tanto accanimento nei confronti di un giornalista si sia manifestato adesso, e proprio intorno a questo caso. Sulla tragica fine di Elisa Claps e sulle lacunose indagini che ne sono seguite sembrava finalmente strappato il bavaglio, ed è per questo che suscita stupore e indignazione scoprire che oggi qualcuno ritrovi invece il coraggio di impugnarlo. Con il corpo della disgraziata 16enne di Potenza che attende tuttora di essere sepolto. E mentre chi indaga deve ancora dar prova di saperle restituire, fino in fondo, la Giustizia che merita."

Ma i dubbi e le ombre non mancano. Omicidio Claps. Perito: quella maglia ignorata da Pascali. Su La Gazzetta del Mezzogiorno. Una «diabolica» coincidenza di negligenze o i tasselli di un complotto? Tutto è cominciato con il mancato sequestro degli abiti sporchi di sangue di Danilo Restivo; si è proseguito lasciandosi deviare da depistaggi (tutt’altro che innocenti), fino al giallo del ritrovamento del cadavere, scoperto ufficialmente il 17 marzo del 2010, tra visioni di un «ucraino» (così inteso, in verità il prete brasiliano al suo superiore parlava di cranio ndr) nel sottotetto e ricostruzioni contraddittorie delle donne delle pulizie. L’ultima puntata del caso Claps: la scoperta dei Ris del Dna riconducibile a Restivo sulla maglia indossata da Elisa svela l’ennesimo «buco nero» dell’inchiesta. Perché il prof. Vincenzo Pascali, autore della prima perizia, ha ignorato la maglia tra i reperti da esaminare? Chiunque, anche chi non mastica «medicina legale», avrebbe preso in considerazione quell’indumento per cercare tracce biologiche. Il lavoro del genetista dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, lo ricordiamo, aveva riscontrato profili genetici isolati che non corrispondevano col Dna di Restivo, consegnando alla Procura di Salerno un dossier «impalpabile» ai fini delle indagini. La magistratura campana ha avuto il merito di non accontentarsi di quei risultati, sfiduciando, di fatto, Pascali e affidando ai Ris il compito di una nuova perizia. Ma se oggi, con la scoperta del Dna riconducibile a Restivo, si è arrivati ad una svolta dell’inchiesta lo si deve soprattutto a Patrizia Stefanoni, dirigente della sezione di genetica forense del servizio di Polizia scientifica e consulente del pubblico ministero. È lei che ha evidenziato le carenze della perizia di Pascali. 

Un ex agente del Sisde, il vecchio servizio segreto civile, si occupò dell’omicidio di Elisa Claps, commesso a Potenza il 12 settembre del 1993. E firmò un dossier che nel 1997 svelava la verità sul delitto. «La ragazza era stata uccisa dalla persona verso cui venivano condotte le indagini». Questo era più o meno il contenuto di quel documento investigativo. La «Gazzetta del Mezzogiorno» - che all’epoca (il 31 ottobre del 1997) pubblicò in esclusiva alcune indiscrezioni contenute nel dossier del Sisde - è riuscita a rintracciare l’ex agente segreto in una località che, per ragioni di sicurezza, verrà omessa. L’ex «barba finta» ora svela: «Un prete sapeva dell’omicidio». Lo definisce «un personaggio a latere» dell’inchiesta. Uno che non aveva preso parte al delitto ma che, probabilmente, «sapeva». Un «prete». Giacca di pelle e lunghi baffi bianchi, l’ex agente segreto ha l’aria di uno di quei detective da serial tv americano (all’incontro era presente un inviato del Tg5). Seppure senza mai scriverne il nome, gli 007 nel 1997 puntarono il dito contro Danilo Restivo (in quel momento indagato per il reato di «false informazioni rese al Pubblico ministero»), condannato recentemente all’ergastolo in Inghilterra per il delitto della sarta Heather Barnett e da sempre il sospettato numero uno per l’omicidio Claps. Ma nel trovare conferme gli agenti del Sisde appresero anche altro. Da altri informatori e molto probabilmente all’interno della Chiesa.

Perché i servizi segreti si sono occupati della scomparsa di una ragazza? E con quali risultati? «Il succo dell’informativa è che la scomparsa della ragazza era dovuta al fatto che la Claps era stata uccisa a Potenza. E che il presunto autore era la persona sempre considerata tale. L’informativa diceva che Elisa era stata uccisa il giorno stesso della scomparsa, il 12 settembre del 1993. Ce ne occupammo perché avevamo un informatore e per dare degli input agli investigatori».

E all’epoca c’era già un’altra ipotesi: qualcuno sapeva che il delitto era avvenuto in chiesa. «Noi parlammo di un personaggio a latere. Una persona che doveva sapere dell’uccisione».

Un personaggio a latere? «Ma sì, diciamo che era un prete».

Il vecchio parroco della chiesa della Trinità (luogo del delitto, in cui 17 anni dopo la scomparsa sono stati trovati i resti di Elisa) don Mimì Sabia? «Questo non lo so».

Il suo nome comunque non era nell’informativa? «No, non c’era».

C’era qualche altro nome? «Di solito quelle note informative non contengono nomi».

In quel dossier c’era comunque quanto bastava per risolvere il mistero di Elisa e per attirare l’attenzione sulla chiesa della Trinità. Quell’informativa, però, non arrivò mai agli investigatori dell’epoca. Ed Elisa è stata ritrovata ufficialmente solo il 17 marzo del 2010. Ben 17 anni dopo il giorno dell’omicidio.

E sempre dalla Gazzetta del Mezzogiorno. «Se il rapporto sul caso Claps è stato scritto non può essere sparito». Nicheo Cervone è l’ex agente del Sisde che entrò in contatto con Gildo Claps, fratello di Elisa, qualche anno dopo la scomparsa. Dice di non aver mai lavorato al caso Claps per il vecchio servizio segreto civile ma di aver parlato con Gildo solo «per amicizia». E sostiene che il suo ex collega - che ha svelato in esclusiva alla Gazzetta e al Tg5 l’esistenza di un’informativa che nel 1997 dava indicazioni precise sul delitto (la Gazzetta ne anticipò in esclusiva alcuni contenuti) - è l’unico a poter ricostruire i contenuti di quel dossier. «Che comunque non può essere scomparso».

Agente Nicheo, lei si è mai occupato dell’omicidio Claps?

«Voglio precisare che Nicheo è il nome con cui mi chiamano parenti e amici, non quello di copertura. E non mi sono mai occupato del caso Claps».

Il delitto più intricato commesso a Potenza non l’appassionava?

«I servizi segreti di solito non si occupano di queste cose».

Lei, però, a Gildo alcune domande sulla scomparsa della sorella le ha fatte.

«Ho conosciuto Gildo in modo casuale e diventammo amici. Mi dispiace che pensi che io possa aver tradito la sua amicizia».

Glielo presentò qualcuno?

«Ricordo che fu un maresciallo dei carabinieri in servizio al Reparto operativo di Potenza».

Fu il maresciallo Vincenzo Anobile (l’unico, tra i carabinieri, che si occupò del caso Claps)?

«Francamente non ricordo se fu lui oppure un altro maresciallo che conoscevo».

E s’informò sul caso Claps?

«Gli chiesi della scomparsa della sorella e, aggiungo, non avrei perso occasione per avere anche una sola notizia sul caso Claps. E questo per l’amicizia che mi lega a lui. Purtroppo non è così. Non me ne occupai. Per il Sisde seguivo esclusivamente faccende di criminalità organizzata».

Però fu lei a dire a Gildo che quel dossier non esisteva.

«Quando uscirono le notizie sul giornale mi chiamò perché voleva incontrarmi. Lo invitai a casa dei miei genitori e lì gli dissi la verità, ovvero che per quanto ne sapevo io non c’era nessun dossier».

Quindi dell’informativa del 1997, mi pare di capire, non sa nulla?

«Io sono stato a Potenza fino al 1996, poi ho lavorato in Puglia. Con l’ufficio di Potenza in quegli anni non ho avuto contatti».

E prima del 1997 nessuno le ha mai chiesto di occuparsi del caso?

«Anche prima del 1997 mi occupavo di criminalità organizzata».

E di quel dossier non ha mai neanche sentito parlare?

«Ripeto: per quanto ne so non c’è nessun dossier».

A noi risulta il contrario.

«Se hanno scritto un rapporto quando io non c’ero non posso saperlo. Dalle foto che ho visto sulla Gazzetta mi sembra di riconoscere la persona che è stata intervistata. Non ne faccio il nome per non incorrere in una rivelazione del segreto di Stato. Per la posizione che ricopriva all’epoca nel Sisde, la persona fotografata è l’unica a sapere se era stato fatto un rapporto. Mi sembra strano, conoscendo i meccanismi del Sisde, che sia sparito».

Allora cosa è accaduto?

«Cosa è accaduto non lo so. Ma posso dire che se per uno strano caso informatico il rapporto fosse sparito, il suo contenuto non sarebbe difficile da ricostruire».

L’impressione è che qualcuno abbia voluto che non arrivasse in Procura.

«Io so solo che la persona che riconosco in foto è la stessa che dopo gli articoli della Gazzetta andò in Procura per dire che non c’era nessun rapporto dei servizi segreti. Oggi la cosa più importante sarebbe sapere chi è o chi sono gli informatori alla base di quella nota informativa. Solo così si potrebbe arrivare a capire se ci fu una reale o una eventuale volontà di depistaggio».

Qualcuno sapeva la verità su Elisa Claps, in Questura a Potenza, molto prima della terribile scoperta nel sottotetto della chiesa della città?

Così sembrerebbe, da quanto emerso da una rivelazione fatta dalla mamma di una poliziotta appunto di Potenza, morta nel 2001 in circostanze mai chiarite secondo i familiari. Proprio questo disse infatti la donna, Anna Esposito, all'epoca commissario di polizia nel capoluogo della Basilicata, poco prima di morire, parlando con sua madre, come è stato raccontato in tv alla trasmissione di Rai3 "Chi l'ha visto?". 

Anna Esposito avrebbe detto che qualcuno in Questura sapeva la verità su quella ragazzina scomparsa. Le avrebbe confidato che qualcuno già sapeva che Elisa era stata uccisa e sapeva anche dove si trovava il corpo. Solo adesso però quel racconto di Anna è stato rivelato dalla mamma a Gildo Claps, fratello di Elisa, che lo ha raccontato a Rai3. 

Anna Esposito morì poco dopo aver fatto questa confidenza scottante alla mamma, nel 2001. Sembrò un suicidio, ma il papà della donna, Vincenzo, è convinto che non fu Anna a togliersi la vita. Si trattò di mobbing? Un procedimento giudiziario dice che Anna aveva confidato a don Pierluigi Vignola, cappellano della Questura, di aver tentato il suicidio in passato. Perché don Pierluigi non lo disse a nessuno?, si chiede il papà di Anna, che ha incontrato più volte quel prete subito dopo la morte della figlia. 

Sarebbe stato proprio don Vignola a raccontare a papà Vincenzo di atteggiamenti strani da parte dei colleghi nei confronti della commissaria, di lettere anonime, di pagine strappate dalle sue agende. E, sempre stando alle parole di Vincenzo Esposito, lo stesso prete avrebbe consigliato al padre della commissaria di mandare un esposto anonimo alla magistratura per denunciare i colleghi di Anna. A che scopo? Un nuovo tassello che si aggiunge alla già intricata vicenda di Elisa Claps, che si fa sempre più complessa.

Anna Esposito era un commissario della polizia di Stato. Lavorava a Potenza e coordinava l’ufficio della Digos. È morta in circostanze misteriose il 12 marzo del 2001. «Fu suicidio», secondo la Procura. Ma suo padre Vincenzo, da sempre, sostiene che sia stata uccisa. E ora che sono emersi sinistri collegamenti con il caso di Elisa Claps - la ragazza scomparsa il 12 settembre del 1993 a Potenza e uccisa, secondo i magistrati della Procura di Salerno, da Danilo Restivo, condannato a 30 anni di carcere per il delitto - vuole vederci chiaro. La sua ex moglie, la mamma di Anna, inoltre, ricorda che sua figlia le confidò che in Questura a Potenza c’erano poliziotti che conoscevano il luogo in cui era nascosto il corpo di Elisa (i resti della ragazza sono stati trovati il 17 marzo del 2010 nel sottotetto della chiesa della Trinità a Potenza da alcuni operai mandati lì a riparare un’infiltrazione d’acqua. Ma quella, per la famiglia Claps, è stata solo una «messinscena»).

Gildo Claps si è ricordato che qualche giorno prima di morire quella poliziotta lo chiamò chiedendogli un appuntamento. «Non ho fatto in tempo a incontrarla», dice alla Gazzetta del Mezzogiorno. E non immaginava che la triste storia di quella poliziotta potesse incrociarsi con quella di sua sorella. Poi ha saputo che uno dei sacerdoti intercettati dalla Procura di Salerno per l’inchiesta bis sul caso Claps - quella sulle coperture e i depistaggi che, secondo la Procura, avrebbero aiutato l’assassino di Elisa a eludere le indagini per 17 anni - don Pierluigi Vignola, cappellano della polizia di Stato segnalato per sinistri contatti con appartenenti a una società segreta, aveva avuto un strano ruolo anche nel caso del commissario Esposito. E si è insospettito. Don Vignola racconta al magistrato che indagava per «induzione al suicidio» che il commissario Esposito, in confessione, gli aveva detto che qualche settimana prima aveva tentato di uccidersi stringendosi una cintura al collo. Proprio la stessa modalità che avrebbe usato poi per togliersi la vita.

Ma perché don Vignola non avvisò la famiglia (con cui intratteneva anche buoni rapporti di amicizia)? Non le aveva creduto? Ecco cosa annota il magistrato: «Stupisce non poco il fatto che il cappellano, deputato alla cura spirituale del personale della polizia di Stato, non abbia manifestato, se non a un superiore, almeno alla famiglia o a qualche collega o amica della Esposito di starle vicino, di non perderla di vista in quel particolare grave momento di sofferenza».

Il sacerdote, invece, consiglia al padre di Anna di scrivere un esposto anonimo (le indagini, quando don Vignola incontra Vincenzo Esposito, erano ormai chiuse e il caso era stato archiviato come suicidio). È una strana strategia quella suggerita dal sacerdote. Chi avrebbe dovuto accusare il padre della poliziotta? Don Vignola, sentito in Procura, nega. Poi, davanti all’evidenza - e dopo le contestazioni degli investigatori che sospendono l’interrogatorio per permettere al sacerdote di consultarsi con un legale - confessa: «Rettificando quanto da me detto in precedenza - si legge nel verbale che ha firmato in Procura don Vignola – voglio rappresentare che potrei essere stato io stesso a suggerire a Vincenzo Esposito di scrivere una lettera anonima alla Procura contenente richieste che a mio avviso servivano più a confortare il mio interlocutore che a consentire di scoprire nuovi scenari».

Quegli scenari, però, subito dopo li descrive al pm: «C’erano persone (don Vignola fa anche i nomi di alcuni poliziotti) che manovravano in qualche modo la vita di questa ragazza». Era vero? Cosa aveva appreso il cappellano della polizia sul conto di queste persone? Oppure era stata Anna a riferirgli di quei minacciosi messaggi anonimi che spesso trovava sulla sua scrivania in Questura? E quanto hanno influito sulla decisione di farla finita? Sempre che sia andata davvero così. Il papà di Anna è convinto che il caso vada riaperto. E ora anche Gildo Claps sospetta che scavando in questa storia possa uscire qualche altra verità sull’omicidio di sua sorella: «In quanti sapevano che era in quel sottotetto?»”. È quello che dovranno accertare gli investigatori.

E’ una vita apparentemente felice e realizzata quella di Anna Esposito. Una donna forte, determinata e decisa. Anna era capo della Digos di Potenza e aveva due splendide figlie che vivevano con i nonni a Cava de’ Tirreni. Improvvisamente il 12 marzo del 2001 i genitori ricevettero una chiamata che li avvisa che la donna si era suicidata, impiccandosi con una cintura alla maniglia della porta del bagno della sua casa a Potenza. La famiglia però non crede assolutamente a questa versione. Il commissario di polizia intervenuto in casa di Anna aveva subito slegato la donna con “la speranza di trovarla viva”, ha riferito il padre di Anna, che però era morta ben 10 ore prima. Secondo i periti però questo sarebbe un “suicidio anomalo, ma possibile”, contrariamente alla versione di Enzo Esposito (papà di Anna) che sostiene invece che la cinghia della cintura si dovrebbe trovare nella nuca e non all’altezza della mandibola, come invece era successo per Anna. Un altro aspetto su cui è necessario fare chiarezza è il disordine che è stato trovato nella casa dell’ispettore Esposito, come se qualcuno cercasse qualcosa di preciso. Nei mesi precedenti la morte, Anna riceveva costantemente biglietti anonimi di minaccia. Anna potrebbe essere stata indotta al suicidio? C’è inoltre un’altra stranissima coincidenza che lega la vicenda di Anna alla morte di Elisa Claps. La famiglia Esposito era molto amica di Don Vignola, il parroco che forse saprebbe molte cose sull’omicidio di Elisa. Don Vignola avrebbe dichiarato di aver visto segni di una cinghia sul collo di Anna qualche mese prima della sua morte, come se la donna avesse già tentato il suicidio, senza però riuscirci. Il padre di Anna è molto contrariato dal comportamento del parroco che avrebbe notati segni del genere senza manifestare le sue preoccupazioni alla famiglia Esposito o alle amiche di Anna. Don Vignola in un incontro con Enzo Esposito ha suggerito al padre di Anna di scrivere alla Procura una lettera anonima sulla morte della figlia, e si propone pure per aiutarlo. La mamma di Anna ha nei giorni scorsi contattato Gildo Claps, il fratello di Elisa, raccontandogli le confidenze fatte dalla figlia qualche giorno prima di morire. Anna aveva detto alla mamma che in Questura qualcuno sapeva che fine avesse fatto Elisa Claps, chi l’aveva uccisa e dove si trovava il suo corpo.

Chi ha potuto vederla la descrive come una cintura di cuoio lunga poco meno di un metro. «Quasi nuova». O, comunque, che non «presentava i segni che un nodo, dopo dieci ore di tensione con un peso rilevante, avrebbe dovuto lasciare». Sulle cause del decesso, «asfissia da strozzamento», sembra che non ci siano dubbi. È la dinamica, così come ricostruita all’epoca dagli investigatori, che rende ancor più misteriosa la morte del commissario della polizia di Stato Anna Esposito, la poliziotta che forse aveva appreso dove era stato nascosto il corpo di Elisa Claps e che è morta nel 2001 in circostanze mai del tutto chiarite (l’inchiesta è stata archiviata un anno dopo). Il corpo, senza vita - stando alle ricostruzioni contenute nelle informative degli investigatori che per primi entrarono nell’alloggio del commissario - era seduto sul pavimento. La cinghia di cuoio, con la fibbia di metallo stretta alla gola della poliziotta, era attaccata, dall’altro capo, alla maniglia della porta del bagno. Sia il dottor Rocco Maglietta, sia il professor Luigi Strada, che hanno effettuato l’autopsia, definiscono l’impiccamento «atipico». Perché l’ansa di scorrimento era posta «anteriormente, sul lato destro». Un impiccamento tipico, messo in atto in modo certo dal suicida, «avrebbe portato - spiegano i medici - automaticamente l’ansa di scorrimento a disporsi nella parte posteriore del collo». Nonostante la trazione sia durata per più di dieci ore (i medici fanno risalire la morte alle 23 del 11 marzo 2001. La cintura è stata slacciata alle 9.30 del 12 marzo), e con un peso di circa 65 chilogrammi, chi ha visto la cintura ricorda che «non presentava i segni del nodo».

Anche la lunghezza - poco meno di un metro - appare incompatibile con le modalità del suicidio.

«Lo sviluppo minimo del nodo (ovvero la parte della cintura impegnata dal nodo). - si legge negli atti dell’inchiesta, di cui la Gazzetta del Mezzogiorno è in possesso - doveva essere di circa 24 centimetri». La circonferenza intorno al collo «era di 41». La poliziotta si sarebbe uccisa, quindi, con meno di 30 centimetri di corda, da un’altezza - quella della maniglia - di 103 centimetri da terra. Se le cose sono davvero andate così i piedi del commissario toccavano il pavimento e, solo per pochi centimetri, non toccavano a terra anche i glutei. Ecco come i poliziotti intervenuti sul posto descrivono la posizione: «Le gambe - scrivono nella relazione di servizio - sono leggermente piegate all’altezza delle ginocchia verso sinistra, tanto che i piedi poggiano sul pavimento, rispettivamente quello destro con la parte interna del tallone, quello sinistro con la faccia esterna».

La causa della morte «È dovuta a un’asfissia acuta e meccanica». Che poteva essere stata procurata solo ed esclusivamente dalla cintura? Scrive il dottor Maglietta: «Si è parlato di impiccamento incompleto in quanto il corpo non era totalmente sospeso, bensì in posizione semiseduto, con le natiche sospese». Nella casistica medico-legale, precisa il dottor Maglietta, «è chiaramente indicativa di una volontà suicida». Nonostante le mani libere e i piedi che toccano il pavimento? È un aspetto che le indagini dell’epoca non hanno chiarito completamente.

Il collega ha sentito dire che aveva tentato il suicidio; il sottoposto ha raccontato che gli aveva confidato «di aver fatto una cosa brutta di cui però si era pentita»; il sacerdote ha svelato di aver già visto sul collo della ragazza «i segni della fibbia della cintura». Testimonianze che hanno involontariamente portato gli investigatori verso un’unica conclusione: Anna Esposito - il commissario della polizia di Stato che forse sapeva di Elisa Claps e che è morta in circostanze mai chiarite - si è suicidata.

Nonostante ci fossero dubbi e aspetti oscuri. Nonostante una consulenza dei medici che effettuarono l’autopsia descrisse il suicidio - Anna Esposito fu trovata impiccata con una cintura di cuoio attaccata alla maniglia di una porta - come «atipico», perché i piedi della donna toccavano il pavimento. E nonostante quanto dichiarò in Procura il dottor Rocco Maglieta, medico-legale, che definì la possibilità che la poliziotta avesse già tentato il suicidio «inverosimile». L’inchiesta è finita in archivio.

L’ispettore Mario Paradiso lavorava all’ufficio del personale. Il 12 marzo del 2001 entrò nell’alloggio del commissario Esposito. Dice agli investigatori: «Non mi spiego questo gesto, anche perché la Esposito era sempre gentile e disponibile. Solo successivamente sono venuto a conoscenza di problemi familiari, sentimentali ed economici e ho appreso dal cappellano della Questura che la Esposito gli aveva confessato di aver tentato il suicidio già in precedenza». Ma questo particolare l’ispettore quando lo apprende? Prima del suicidio? Oppure dopo il 12 marzo? L’ispettore Paradiso verbalizza quattro giorni dopo il ritrovamento del corpo del commissario. E nessuno gli pone questa domanda.

L’ispettore Antonio Cella lavorava nell’ufficio diretto dal commissario Esposito: la Digos. L’ispettore conferma agli investigatori che il suo dirigente gli riferiva «particolari della sua famiglia» e anche delle sue relazioni amorose. E il precedente tentativo di suicidio? Dice l’ispettore: «Non mi ha detto espressamente di aver tentato il suicidio, ma mi ha riferito di aver fatto una cosa brutta di cui però si era liberata».

Don Pierluigi Vignola all’epoca era il cappellano della Questura di Potenza. Riferisce al magistrato di aver saputo che il commissario Esposito aveva confidato anche ad altre persone quello che aveva detto a lui in confessione: la poliziotta aveva già tentato il suicidio. Ma con chi si era confidata Anna Esposito? Dice il sacerdote: «Erano delle giocatrici di pallavolo di Potenza». Che, però, non risultano tra i testimoni dell’inchiesta. Poi il sacerdote aggiunge: «Il mese prima avevo io stesso visto sul collo di Anna i segni della fibbia della cintura che indossava e che aveva utilizzato per il tentativo di suicidio. Non mi riferì però perché avesse scelto quelle modalità». E lui non glielo chiese?

Il dottor Maglietta, con argomenti scientifici, smentisce al magistrato la «teoria» del precedente tentativo di suicidio. Dice: «Secondo me è inverosimile. Avrebbe dovuto avere segni di ecchimosi per almeno cinque o sei giorni abbastanza evidenti, trattandosi di una cintura larga. Segni che qualcuno avrebbe dovuto notare». Qualcuno oltre al sacerdote.

ESCLUSIVO - IL CASO ELISA CLAPS IN TOGHE LUCANE di Rita Pennarola [29/03/2010] su La Voce delle Voci La Voce lo scriveva già a settembre 2008.

“Il ritrovamento del corpo di Elisa Claps riapre una fra le pagine più incandescenti ed inedite dell'inchiesta Toghe Lucane, condotta dall'allora pm di Catanzaro Luigi De Magistris. A settembre 2008 la Voce aveva dedicato in esclusiva un articolo di copertina alle minuziose ricostruzioni della Procura di Salerno, cui si erano rivolti De Magistris ed i magistrati oggetto delle sue indagini. Ripubblichiamo i brani da cui emerge il collegamento fra Toghe Lucane e la scomparsa della ragazza. Con l'ombra della massoneria.

Una pagina inquietante si apre, nell'inchiesta Toghe Lucane, sulla misteriosa scomparsa della giovane Elisa Claps, avvenuta a Potenza il 12 settembre 1993. Il caso torna infatti alla luce su iniziativa dei pm Luigi Apicella e Gabriella Nuzzi che, per riscontrare ulteriormente la correttezza delle attività investigative condotte da Luigi De Magistris, assumono importanti riscontri in merito alle indagini condotte da quest'ultimo a carico di Felicia Genovese e del marito Michele Cannizzaro, iscritto alla Massoneria, coinvolti - secondo quanto emerge dall'inchiesta Toghe Lucane - nel caso Elisa Claps. Seguiamo la ricostruzione dei pubblici ministeri salernitani. Nel 1999 il collaboratore di giustizia Gennaro Cappiello rivela come un fiume in piena particolari sulla scomparsa della ragazza, verbalizzando dinanzi al pubblico ministero della Dda di Potenza Vincenzo Montemurro. Secondo Cappiello (il quale dichiarava di aver appreso le notizie sul caso Elisa Claps da un mercante d'arte di Potenza, Luigi Memoli), a causare la morte della ragazza era stato il giovane Danilo Restivo. Il fatto sarebbe avvenuto presso la scala mobile in costruzione a quell'epoca. Sempre stando alla versione fornita dal pentito, Maurizio Restivo, padre di Danilo, «implicato nell'indagine e poi condannato per false informazioni al pubblico ministero, aveva, per il tramite del Memoli, contattato il Cannizzaro accordandosi per la somma di 100 milioni di lire affinchè intervenisse sulla moglie, dottoressa Genovese, titolare delle indagini riguardanti il caso della scomparsa della Claps». In seguito alle verbalizzazioni di Cappiello, il caso Claps passa alla Procura di Salerno, competente ad indagare sulle presunte omissioni o violazioni della Genovese. Veniva accertato che quel 12 settembre 1993 Danilo Restivo era stato effettivamente in compagnia della giovane poco prima della scomparsa. Cosa fece il pm Genovese, che era all'epoca titolare dell'inchiesta sulla scomparsa di Elisa? «Le articolate indagini esperite dalla Procura di Salerno consentivano di ricondurre la scomparsa della giovane Elisa Claps ad una morte violenta, ma non anche ad individuare nel Restivo Danilo l'autore del fatto criminoso. Invero, si acclarava che il giorno 12 settembre 1993, Restivo Danilo, effettivamente, era stato in compagnia della giovane poco prima della scomparsa; che quel giorno stesso era stato medicato presso il locale nosocomio per alcune lesioni, prodotte, a suo dire, per un'accidentale caduta, ma, verosimilmente, frutto di una colluttazione. L'esame dell'attività investigativa svolta e coordinata dalla Procura di Potenza, in persona del pubblico ministero Dr. Genovese, evidenziava, tuttavia, che nella immediatezza della notizia della scomparsa, alcuna perquisizione era stata disposta né sulla persona del Restivo Danilo, né presso l'abitazione familiare ovvero altri luoghi nella sua diretta disponibilità». Il 27 gennaio 2000 depone dinanzi al pm di Salerno l'avvocato Giuseppe Cristiani, legale della famiglia Claps, il quale fra l'altro fornisce elementi circa la comune appartenenza alla massoneria di Cannizzaro e di Maurizio Restivo, padre di Danilo. Le indagini avviate all'epoca dalla Procura salernitana su questa vicenda non consentirono di «individuare nel Restivo Danilo l'autore del fatto criminoso» ed anche l'operato della Genovese venne considerato corretto. Strettamente collegato alla scomparsa di Elisa Claps era però quanto il pentito Cappiello verbalizzò in seguito sul duplice omicidio di stampo mafioso dei coniugi Giuseppe Gianfredi e Patrizia Santarsiero, avvenuto a Potenza il 29 aprile ‘97. Cappiello sosteneva di avere appreso quelle notizie da Saverio Riviezzi, un pregiudicato di Potenza che era stato contattato da alcuni calabresi, fra cui un certo Aldo Tripodi, uno degli esecutori dell'omicidio, per quella duplice esecuzione. Secondo il racconto del collaboratore di giustizia ai pm della Direzione Antimafia, «mandante dell'omicidio dei coniugi Gianfredi-Santarsiero era - seguiamo ancora la ricostruzione di Cappiello, così come riportata dal documento di Apicella e Nuzzi - Cannizzaro Michele, marito del sostituto procuratore dottoressa Genovese, che aveva inizialmente curato le indagini relative al duplice omicidio in questione». Quanto al movente, «il Cappiello lo riconduceva ai rapporti che il Gianfredi aveva avuto con il Cannizzaro Michele aventi natura finanziaria, assumendo che tale ultimo era un grosso giocatore d'azzardo, rapporti bilanciati da favori giudiziari di cui il Gianfredi godeva per il tramite della moglie del Cannizzaro». Comincia dunque una lunga serie di indagini che la Procura di Salerno avvia per riscontrare le dichiarazioni di Cappiello. «Gli esiti - spiegano oggi nell'ordinanza Apicella e Nuzzi - non consentivano di ritenere acquisite fonti di prova idonee a ricondurre agli indagati i gravi fatti delittuosi iscritti a loro carico. Emergevano, tuttavia, dalle investigazioni svolte alcune significative circostanze atte a delineare il particolare contesto ambientale di consumazione dei fatti delittuosi, la condotta tenuta dalla dottoressa Genovese nelle prime investigazioni, la personalità del marito dottor Cannizzaro, le frequentazioni ed i suoi legami con ambienti criminosi - in particolare, con Gianfredi Giuseppe, vittima del duplice omicidio - i contatti con esponenti della criminalità organizzata calabrese, i suoi interessi economici che, allora, come oggi, non potevano, comunque, non apparire “inquietanti” in relazione alla natura dell'attività svolta dalla moglie dottoressa Genovese, designata all'incarico di sostituto procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia di Potenza, nell'ambito, cioè, del medesimo luogo di consumazione degli accadimenti delittuosi». Dopo lunghe indagini, il pentito Cappiello sarà considerato dall'autorità giudiziaria di Salerno “inattendibile”. Eppure, ad offrire uno scenario sorprendentemente simile delle due vicende (Claps e Gianfredi), era arrivata la testimonianza di un prete-coraggio della diocesi di Potenza: don Marcello Cozzi. La giovane, quel fatale giorno del 1993, aveva battuto mortalmente la testa per sottrarsi ad un tentativo di violenza messo in atto da Danilo Restivo, il cui padre, per coprire le responsabilità del ragazzo, avrebbe contattato il dottor Cannizzaro; questi a sua volta si sarebbe rivolto a Giuseppe Gianfredi, che avrebbe fatto sparire il cadavere con l'aiuto dei fratelli Notargiacomo, titolari di un'officina meccanica, che avevano pertanto la disponibilità di acido in grado di dissolvere il cadavere. Anche stavolta le indagini furono archiviate. Si segnala intanto ancora un particolare: da alcuni accertamenti della Guardia di Finanza di Catanzaro era emerso che Luigi Grimaldi, dirigente della Squadra Mobile di Potenza all'epoca delle indagini sulla scomparsa di Elisa Claps, dopo aver ricoperto l'incarico di dirigente amministrativo presso l'Università di Salerno, svolgeva l'incarico di dirigente amministrativo presso l'Azienda Ospedaliera San Carlo di Potenza, dove Michele Cannizzaro era direttore generale. Per concludere questa vicenda va segnalato che, sentito come teste a ottobre 2007 nel corso delle indagini sull'operato di De Magistris, ai colleghi Nuzzi ed Apicella il pubblico ministero di Potenza John Woodcock ha raccontato d'aver chiesto a marzo 2007 di astenersi in un procedimento a carico, fra gli altri, di Michele Cannizzaro in ragione del contenuto di una intercettazione telefonica fra la moglie di Cannizzaro Felicia Genovese ed il procuratore generale Vincenzo Tufano, «nella quale venivano usate espressioni particolarmente volgari sulla giornalista (Federica Sciarelli, che più volte nel corso della trasmissione “Chi l'ha visto” si è occupata del caso Elisa Claps, ndr) e sul suo rapporto di amicizia con il magistrato (Woodcock, ndr)». Quest'ultimo riferiva inoltre «di altri emblematici tentativi di indebita strumentalizzazione del suo rapporto personale con la giornalista Federica Sciarelli, riconducibili al medesimo gruppo di soggetti indagati dal pubblico ministero De Magistris nel procedimento Toghe Lucane». IL CSM “AMICO”. Il 4 marzo 2008 De Magistris chiede alla Procura salernitana che indaga sul suo conto (e che poi lo proscioglierà, aggiungendo ipotesi di gravi addebiti a carico dei suoi principali denuncianti), di rendere testimonianza spontanea. Dalla lunga verbalizzazione emerge, fra l'altro, l'allucinante spaccato sul ruolo del Csm così come si evince direttamente dalla lettura dell'intercettazione telefonica intercorsa il 28 febbraio 2007 tra Felicia Genovese ed un altro noto esponente di Magistratura Indipendente, Antonio Patrono, presidente della prima Commissione del Consiglio Superiore della Magistratura, deputata a verificare l'apertura di una pratica di trasferimento per incompatibilità ambientale di De Magistris. La conversazione avviene il giorno successivo all'esecuzione delle perquisizioni nell'ambito del procedimento Toghe Lucane. Nel commentare con Patrono le sue vicende giudiziarie, Genovese sollecita l'interessamento di altri componenti del Csm tra cui Giulio Romano, della sua stessa corrente, e Cosimo Ferri. «Tra i nominativi richiamati nella conversazione - tengono a sottolineare Apicella e Nuzzi - vi è quello del dottor Giulio Romano, componente della Sezione Disciplinare del Csm e relatore della sentenza emessa nei confronti del dottor De Magistris»."

Toghe Lucane, ma anche Calabresi, ma anche Salernitane, ma anche... Insomma toghe italiane. Qualcuno si meraviglia che il sostituto procuratore a Crotone applicato a Catanzaro per prendersi cura del procedimento penale “Toghe Lucane”, abbia chiesto l'archiviazione per la maggior parte degli indagati. Oggi, non quando fu chiamato ad assumere l'incarico, possiamo finalmente dirlo: sapevamo che sarebbe finita così; e non ci voleva la scienza infusa per arrivarci. Dopo che un paio di ministri (della cosiddetta Giustizia), un paio di Procuratori Generali presso la Suprema Corte di Cassazione, il Presidente della Repubblica, il vice-Presidente del CSM, ed una pletora di magistrati, avvocati, parlamentari, indagati, associati per delinquere ed anche per altro, avevano fatto carte false per trasferire Luigi de Magistris ad altra sede proprio quando stava per definire i rinvii a giudizio di “Toghe Lucane”, beh, era così difficile immaginare che il suo sostituto sarebbe stato scelto con cura affinché risolvesse il problema? A dirlo un anno fa ci avrebbero subissato di querele, oggi è un'evidente ovvietà. Un cittadino si è recato di buonora dal PM. Da Matera a Catanzaro (300Km) ci vogliono oltre quattr'ore, superando i limiti di velocità ogni volta che la strada lo permette. Il cancelliere preposto agli atti ha subito messo le mani avanti: “il fascicolo non è ancora pronto. Torni appena dopo il ricevimento dell'avviso”. Ma un avviso, con tanto di ampi stralci virgolettati era su tanti giornali. E così insistendo e sollecitando il Procuratore Capo (Dr. Lombardo) in qualche modo l'atto di archiviazione salta fuori. Ecco svelato l'arcano. Il PM ha spezzettato l'inchiesta in tanti piccoli e piccolissimi stralci, ciascuno con un pezzo delle 200 mila pagine originarie e delle decine di capi d'imputazione. Ed il pezzo che possiamo guardare, piccolo piccolo, è sufficiente per capire tutto il resto anche senza vederlo. Mancano le prove certe del reato, dice il PM, si chiede l'archiviazione. Per forza, signor PM, le prove che nel caso specifico sono le conversazioni fra un indagato per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari e una sospettata di far parte della medesima associazione) si trovano (forse) in qualche altro pezzettino o stralcio che dir si voglia. Ammesso che, in cotanto spezzatino, non siano andate “smarrite”. Forse sarà sfortunato il PM oppure è semplicemente disattento. Dovrebbe aver letto, fra gli atti recenti, che alcune delle parti offese avevano potuto accedere a tutto il fascicolo (quando era ancora un blocco granitico) e quindi saranno in grado di produrre le “prove” mancanti in sede di opposizione alla richiesta archiviazione. Certo è che una associazione per delinquere, quale era quella fra magistrati, politici ed imprenditori ipotizzata in “Toghe Lucane”, può continuare tranquillamente a delinquere proprio perché tanti magistrati di Matera, Potenza, Catanzaro e, perché no, Salerno, continuano ad ignorare persino le denunce formalmente presentate e documentate. Ma anche...

IL MISTERO DELLA MORTE DEI FIDANZATI DI POLICORO

Olimpia e Filomena sono due donne toste. Anzi, sono due mamme toste. Nessuno le ha mai viste piangere. Il loro è infatti un dolore che ha superato il territorio di confine delle lacrime. Una frontiera dell'anima inesplorabile per chi non ha vissuto la stessa tragedia di Olimpia e Filomena: perdere un figlio in situazioni drammatiche. E misteriose. Un sentiero disperato lungo il quale queste due madri coraggio si sono incontrate spesso. Diventando amiche. Filomena è l'ormai «famosa» mamma di Elisa Claps; Olimpia è invece la «sconosciuta» madre di Luca Orioli. La storia di Elisa Claps la conoscono tutti. Quella di Luca pochi «addetti ai lavori». Il 23 marzo 1988 Luca Orioli e la sua fidanzata Marirosa Andreotta furono trovati morti in circostanze mai chiarite. Tra depistaggi e amnesie (che ricordano sinistramente il caso Claps) mamma Olimpia - da oltre 20 anni, quasi 30 - combatte in nome di una verità negata. Nei motori di ricerca del web questo ennesimo mistero lucano è archiviato come il «giallo dei fidanzati di Policoro».

I cadaveri di Luca e Marirosa erano nella vasca da bagno di casa. «Morti folgorati in acqua». Anzi, no, «morti per inalazione di ossido di carbonio». E se invece fosse stato un omicidio? La mamma di Luca ne è sempre stata convinta.

Ora, dalla risepoltura della salma di Luca Orioli nel cimitero di Policoro ad opera della Procura della Repubblica di Matera, la signora Olimpia chiede formalmente l'intervento dei Ris a mezzo di una lettera inviata al comandante generale dell'Arma dei Carabinieri, generale Leonardo Gallitelli, per chiarire gli ulteriori punti oscuri emersi in questi ultimissimi giorni, compreso il terrificante sospetto che la salma alla quale è riferita l'autopsia condotta dal professor Introna non sia quella di Luca Orioli.

Il Giornale è venuto in possesso del testo della lettera. Che pubblichiamo integralmente:

«Esimio Comandante Generale dell'Arma dei Carabinieri Gen. Leonardo Gallitelli, è con grande fiducia e speranza che rivolgo a Lei questo mio appello. Sono Olimpia Fuina, madre di Luca Orioli, morto nell'88 a Policoro, in situazione tuttora volutamente misteriosa. L'anno scorso sono state riesumate per la seconda volta le salme di Luca e Marirosa (cosiddetti Fidanzatini di Policoro). Oltre ai numerosissimi depistaggi e insabbiamenti che costellano il caso, ci sono perizie truccate, riconosciute reati e fatti prescrivere. Al tutto si aggiunge l'inquietante mistero della sparizione degli organi interni (visceri, fegato, polmoni, cuore, lingua, trachea, osso ioide) e dei vestiti che Luca indossava al momento della morte, conservati nel cimitero di Policoro e misteriosamente ricomparsi, non si sa quando, presso l'Istituto di Medicina Legale dell'Università La Sapienza di Roma, peraltro mai incaricato di procedere a perizia su tali reperti. Gli stessi, nel tentativo ultimo di prelevarli da Roma e consegnarli direttamente ai familiari, come se non si trattasse di preziosi elementi di indagine per una definizione certa di morte, sono risultati persino privi di un elenco. Agli atti non esiste nessun verbale che certifichi né la presa in consegna di tali reperti, né i relativi esiti.

Dopo la permanenza di quasi un anno presso l'Istituto di Medicina Legale di Bari, e, con le indagini ancora in corso, la Procura di Matera decide di ritumulare frettolosamente le salme senza spiegare le ragioni di una tale scelta, noncurante della contro-perizia redatta da tre autorevoli Professori dell'Università di Siena che smontano radicalmente quella di Ufficio, argomentandola adeguatamente e documentandola con una ricca letteratura scientifico-medico-legale. Un mio timore è che in quella bara possa non esserci il corpo di mio figlio, ragione per cui non posso accettare l'invito pressante e minaccioso di prenderlo in consegna.
Me lo fa pensare il fatto che dagli atti relativi all'ultima perizia di ufficio non risulta l'analisi del DNA con i confronti dei familiari che ne possano determinare l'assoluta certezza.

Me lo fa pensare, inoltre, il fatto che il corpo radiografato presenta agglomerati, non meglio definiti, che sarebbero propri di un corpo di anziano.

Luca aveva 20 anni.

Chiedo e mi auguro, alla presenza di un'Italia intera, che con me chiede e aspetta giustizia, che Lei voglia coinvolgere gli esperti dell'Arma dei RIS, per far piena luce sui troppi punti oscuri mai affrontati seriamente, spesso banalizzati, ignorati o, alcuni, addirittura, mai presi in considerazione.

Lei rappresenta la mia ultima fondata speranza.

Confido nel Suo noto impegno a difesa del diritto di tutti e di ciascuno.

Non è possibile accettare una perizia, dimostrata scientificamente falsa, inutile sotto il profilo tecnico, decisamente dannosa per la verità.

Indubbiamente è una verità che scomoda molte poltrone.

Non è possibile pensare che un PM, non volendo approfondire la parte scientifica, con la scusa di non averne la competenza, rifiuti totalmente il confronto e il riscontro oggettivo delle due perizie, così fortemente contrastanti, facendo serio riferimento alla letteratura scientifica di relativo supporto da cui invece far scaturire la dovuta competenza come io stessa, misera mortale, ho potuto maturare.

Occorre solo intelligenza e volontà a farlo. E' ciò a cui io ho dovuto fare ricorso per combattere un sistema avverso alla difesa del diritto giusto.

Non è possibile accettare a "scatola chiusa" una verità che avrebbe tutti i requisiti per essere considerata preconfezionata. Lo dice il fatto che la porta dichiarata grandemente aperta dalla madre della ragazza, venga poi considerata chiusa dall'ultima perizia. Lo dice inoltre il fatto che persino l'ipotesi fantasiosa della morte, avanzata dal Prof. Introna, è fallace anche sotto il profilo logico.

Secondo quest'ultima ricostruzione, i due ragazzi sarebbero entrati nel bagno, avrebbero chiuso la porta per fare l'amore (un gesto superfluo poichè in casa non c'era nessuno), la ragazza si sarebbe sentita male e sarebbe caduta, Luca avrebbe cercato di aiutarla, cadendo anche lui, e, stranamente, questa volta la porta è socchiusa. Chi l'avrebbe socchiusa? Luca mentre moriva? E poteva Luca morire di monossido di carbonio con la porta semiaperta? Avrebbe potuto prima di morire, socchiudere la porta e distendersi in maniera composta millimetrando l'esiguo spazio disponibile? E' possibile che una caduta bassissima, dolce, come quella che si sarebbe verificata, a loro dire, a brevissima distanza dal rubinetto e dalla mensola, entrambi ritenuti probabili oggetti contundenti, possa aver procurato una ferita lacero-contusa di 14 cm, all'epoca? E come mai non c'è traccia di sangue? E come mai una caduta così lacerante non avrebbe fatto cadere i flaconcini sistemati sulla mensola accanto al rubinetto? Può un PM ignorare cose così gravi e giustificare quanto accaduto quella notte, e durante il corso di 24 anni, continuando ad addurre le irresponsabilità (tante) alla superficialità, alla non professionalità, all'età giovane degli inquirenti avvicendatisi nel gioco al massacro della verità? Qualora ciò fosse possibile, credo, come cittadina che paga le tasse, di poter pretendere che tali professionalità non possano continuare ad occupare quei posti. La cosa grave è che lo Stato possa continuare anch'Esso ad ignorare una vicenda così scabrosa, che calpesta il diritto del cittadino, annienta la dignità della persona oltre che del dolore, e offende pesantemente la sua stessa Costituzione. Lo Stato ha il dovere di assicurare piena efficienza ai suoi cittadini.

Lo esigo. Lo pretendo.

Gli italiani hanno diritto e bisogno di sapere "perché".

.....Si difendono i poteri forti?....

Vorrei poterlo non pensare.

Ma Qualcuno mi aiuti a farlo.

E' l'Italia, quella che segue con attenzione e con forte coinvolgimento emotivo le vicende dei suoi connazionali, che vuole saperlo, con me. E' dovuto.

La verità che, così convenientemente si vorrebbe difendere esclusivamente nelle aule di tribunali, se tale, non può temere la piazza né i mass media, che grande mano invece stanno dando alla ricerca della verità.

La scienza non è un'opinione, ed io non posso accettare la chiusura del caso, ancora una volta, per approssimazioni gratuite e infondate non solo scientificamente ma anche oggettivamente secondo i fatti presenti agli atti. Solo chi teme il confronto e un probabile affronto alla propria professionalità, preferisce le aule di tribunale e rinuncia ad informare le folle che attendono da anni una tesi attendibile, sotto il profilo scientifico, e, condivisibile sotto il profilo logico.

A chiusura del caso serve infatti una "tesi" scientifica che è ancora possibile cercare sui miseri resti (se sono quelli) sbranati finora dal potere onnipotente indiscriminato e inoppugnato dell'Istituzione preposta ad accertarne invece la verità.

Confidando in un Suo intervento La saluto cordialmente».

È un giallo che dura da quasi un trentennio e che ora è diventato anche uno scontro fra periti. Fa ancora discutere il caso dei «fidanzatini di Policoro», Luca Orioli e Marirosa Andreotta, trovati morti nel marzo del 1998. Dopo due riesumazioni, dopo l'ultima autopsia che indica nel monossido di carbonio la morte dei due giovani, la madre di Luca Orioli, Olimpia Fuina, continua a non credere alle ragioni accidentali ed insiste nell'indicare agli inquirenti un'ipotesi di morte violenta.

Una vicenda giudiziaria nata con un peccato originale: quando i corpi furono trovati l'autopsia non fu fatta. Da quel momento è stato tutto un susseguirsi di indagini ed accertamenti che non hanno mai placato la sete di verità della signora Fuina. L'esito dell'autopsia del professor Francesco Introna, della Medicina legale di Bari, è contrastato dalle contro-perizie di altri consulenti secondo i quali il monossido riscontrato non è in quantità letali. La mamma di Luca Orioli ha messo in atto azioni clamorose. Prima si è incatenata al cimitero di Policoro per evitare la ri-tumulazione dei resti del figlio. E adesso arriva a chiedere di verificare che quel corpo appartenga realmente al suo Luca.

Non erano più ragazzini e probabilmente la loro relazione si era interrotta, ma sono diventati per tutti i ''fidanzatini di Policoro''. Luca Orioli e Marirosa Andreotta erano due ragazzi che si volevano bene, frequentavano la parrocchia e gli amici, andavano all'Università e guardavano alla vita con fiducia. Vennero trovati morti il 23 marzo 1988 in casa di Marirosa Andreotta, nudi: la ragazza giaceva nella vasca da bagno, il ragazzo era disteso per terra. A trovarli fu la madre della ragazza, la signora Giannotti, di ritorno a casa da un concerto a Matera. Il caso dei due ragazzi prende la piega che non avrebbe dovuto prendere. Si fa strada l'ipotesi del fatto accidentale. Nella stanza c'è una stufetta caldobagno. Si pensa ad un malfunzionamento dell'apparecchio da cui è partita una scarica elettrica. L'elettrocuzione - si pensò - ha dunque causato un arresto cardiocircolatorio. Il caso viene chiuso subito. Questa frettolosità indusse a non compiere l'autopsia. E' questo il punto che ha lasciato una serie di interrogativi. I mancati accertamenti post-mortem hanno infatti tolto dei punti fermi alla vicenda, facendo venir meno gli elementi di certezza sulle cause e alimentando i dubbi. Anche il governo nel 2000 lo ha confermato. Rispondendo ad un'interrogazione parlamentare del deputato Vincenzo Sica, l'allora Guardasigilli Piero Fassino dichiarava che ''la complessa vicenda ha risentito in modo determinante dell'insufficienza degli accertamenti espletati nel corso dell'esame esterno dei cadaveri''.

Così successivamente, quando l'esame della stufetta non ha dato particolari riscontri, si è fatta strada l'ipotesi di un avvelenamento da monossido di carbonio sprigionato da una caldaia. Si pensò anche ad uno scherzo finito in tragedia.

L'autopsia viene fatta a distanza di anni, con la prima riesumazione. Sui cadaveri dei due giovani ci sono dei segni che invece avrebbero dovuto far propendere per l'annegamento, anche segni di fratture. Inoltre Luca Orioli ha un testicolo lesionato. Ma anche in questo caso qualcosa non va: non funziona la tac per esami radiologici. I dubbi rimangono.

I primi sospettati escono dall'indagine e vengono prosciolti tutti coloro (medici, periti, magistrati) che sono stati indagati per negligenze o per errori nell'attività di indagine o di consulenza. E ci sono poi gli altri elementi del giallo.

Una lettera di Marirosa Andreotta alimenta altri scenari. Si parla di un segreto («una piccola parte di me che voglio cancellare per sempre») che tale resterà. Poi le foto: alcune fanno pensare ad una manomissione del luogo del ritrovamento che in effetti è stato alterato. Ma troppo tempo è trascorso.

Un'inchiesta nata male, già archiviata, poi riaperta e di nuovo destinata all'archiviazione. Così aveva deciso la Procura, che si stava orientando sull'ipotesi del soffocamento, ma su richiesta di Olimpia Fuina, che si è opposta, l'indagine non è stata chiusa ed anzi il giudice ha coattivamente stabilito di riesumare i corpi. Fatto avvenuto il 17 dicembre scorso. Poi l'autopsia. Ma la battaglia legale continua. «Non mi sento sola - afferma Olimpia Fuina - sento aumentare l'affetto delle persone. Io continuo questa battaglia perchè le contro-perizie hanno stabilito che la quantità di monossido riscontrata nell'autopsia è assolutamente non letale. Lo dicono i periti e la letteratura scientifica. Per questo mi sono opposta alla ri-tumulazione perchè voglio altri accertamenti. Ho chiesto al comandante dei carabinieri, Gallitelli, l'intervento dei Ris».

Per la madre di Luca i misteri intorno a questa vicenda non si dipanano, tutt'altro. A cominciare dall'inquietante denuncia della mancanza degli organi interni del ragazzo, tra cui l'osso ioide, forse scomparsi nella precedente riesumazione ma anche su questo non c'è certezza. E tutto questo non aiuta la ricerca della verità, anzi alimenta i sospetti. Olimpia Fuina nella lettera a Gallitelli avanza un'ipotesi ancora più inquietante. «Quel corpo - dice - potrebbe non essere quello di Luca perchè non è documentato negli atti l'esame del dna. Sembra essere quello di un anziano».

Per tenacia la signora Fuina somiglia molto ad un'altra mamma coraggio della Basilicata, Filomena Claps, che attende da 20 anni di conoscere tutta la verità sull'omicidio della figlia Elisa e non solo la condanna del responsabile, Danilo Restivo, condannato a Salerno a 30 anni. Ma, se nel caso Claps l'autopsia di Introna è stata «vangelo», nel caso-Policoro invece viene messa in dubbio. Sulle inquietanti ipotesi avanzate, il professor Introna, contattato, ha detto: «Non rispondo, perchè su questi fatti il confronto può avvenire solo nelle aule di giustizia, altrimenti si creano confusione e illazioni». «Abbiamo fatto l'autopsia sulla salma di Luca e restituito la salma di Luca. È tutto documentato. Ci sono i filmati dei carabinieri». Sono parole del prof. Franco Introna, direttore dell'Istituto di medicina legale dell'Università di Bari e perito della Procura di Matera nell'indagine sulla morte dei “fidanzatini di Policoro”. Due morti, quelle di Luca Orioli e di Marirosa Andreotta, al centro, dal 23 marzo 1988, di perizie contrapposte. Da qui l'ennesima inchiesta e le risultanze del docente barese. Risultanze oggetto di critiche cui Introna non aveva risposto. La “goccia” è stata la lettera di Olimpia Fuina, madre di Luca, inviata al comandante generale dell'Arma dei carabinieri: temo che nella bara tumulata nei giorni scorsi a Policoro possa non esserci il corpo di mio figlio, ha scritto la donna che da 23 anni insegue la verità sulla morte del suo Luca.

«Quando la salma è stata stumulata c'erano i carabinieri, i consulenti di parte - risponde ora alla Gazzetta il prof. Introna - nella bara c'era il corpo di un ragazzo che aveva già subito una riesumazione. Abbiamo fatto le indagini e conservato la salma. Attese le controdeduzioni, abbiamo risposto per cui il pm ci ha chiesto di riconsegnare i corpi. I carabinieri hanno filmato tutto».

In questa vicenda, però, le cose inverosimili sono state tante. Ad esempio, i vestiti, i visceri, l'osso ioide fratturato, non sono stati trovati alla seconda riesumazione. Un mistero.

«Nessun mistero. Il prof. Giancarlo Umani Ronchi ha scritto che l'osso ioide era sano prima della prima riesumazione e che lo ha rotto lui nel corso delle operazioni. I vestiti, poi, sono stati ritrovati».

La famiglia Orioli chiede di analizzarli per verificare tracce di dna. «Sono inservibili. Sono stati conservati malissimo. Troveremmo miriadi di dna. Ma non vi ho trovato lesioni da arma da taglio o da fuoco».

La sua perizia, che riconduce le due morti al monossido di carbonio (CO), è stata contestata dai nuovi periti di Olimpia Fuina. «Non so se chi ha fatto quelle critiche ha interesse a farlo. Se fossero persone preparate saprebbero che il monossido di carbonio si attacca al sangue nell’80 per cento e nel 20 per cento alle globine muscolari. Abbiamo cercato il monossido nei muscoli. E l'abbiamo trovato. Poi, nella putrefazione si forma tutto tranne il monossido. E la tecnica da noi usata è l'unica che libera il monossido distruggendo le mioglobine. Sono stupefatto dalla critiche».

Ma la porta del bagno era aperta. Come poteva concentrarsi il monossido? «La porta del bagno aperta è in una seconda testimonianza. In una prima è chiusa. I due ragazzi portano una stufetta elettrica nel bagno poiché i riscaldamenti sono chiusi. Si spogliano nudi. Perchè devono tenere la porta aperta? Poi aprono l’acqua calda. E quello scaldacqua non era a norma. Fanno scorrere l’acqua calda e si sviluppa vapore, ma anche verosimilmente monossido di carbonio».

Quella caldaia ha funzionato per altri 2-3 anni senza intossicare nessuno. «Io non faccio l’ingegnere. Può essere che tirando l’acqua calda al massimo sia andata in sovrafunzione».

E la concentrazione di CO differente in Luca e Marirosa? «Lei è morta annegata dopo aver battuto la testa. Lui ha cercato di tirarla fuori, ma non ce l’ha fatta ed è morto per avvelenamento».

Perché non fare i nuovi esami a Foggia come chiesto da Olimpia? «Non sono necessari. I dati sono chiari».

Prof. Introna, come finirà? «Non ne ho la più pallida idea. Ma non creiamo castelli in aria.

Tranquillizziamo la povera madre che ha tutta la nostra comprensione, ma diciamole la verità».

I dubbi di Olimpia Fuina-Orioli e la perizia dell'anatomopatologo, Francesco Introna. Su questi due elementi si è intrecciata la disputa più recente sulla morte dei Fidanzatini di Policoro, Luca Orioli (figlio di Olimpia) e Marirosa Andreotta, trovati morti a Policoro il 23 marzo del 1988 nel bagno della casa della ragazza. La mamma di Luca, con un nuovo pool di periti, ha avanzato sospetti sulla perizia di Introna, la donna, tra gli altri aspetti, ha messo in discussione che la salma analizzata fosse quella del figlio (ipotesi respinta da Introna che ha fatto riferimento all'esistenza dei filmati dei Carabinieri che hanno documentato tutto). Nella sua perizia, l'anatomopatologo ha ricostruito i fatti, fatte le puntualizzazioni del caso, evidenziato alcune riserve e cautele, spiegate le modalità con cui è stato ricercato il monossido di carbonio, il gas killer che avrebbe ucciso Luca e indotto in Marirosa un malessere tale da determinare la caduta della ragazza, durante la quale si sarebbe verificato l'urto nucale contro la manopola del rubinetto, e l'annegamento terminale avvenuto nella vasca. Luca, stando alla perizia, avrebbe tentato di soccorrere la fidanzata, ma era astenico, anche lui aveva inalato il gas killer. Ha provato a prendere Marirosa da una gamba ma è sopravvenuto il coma: si accascia a terra fino alla morte.

LA RICOSTRUZIONE

- La madre di Marirosa quando entrò in casa trovò il riscaldamento centralizzato in funzione. Circostanza che “meravigliò” la signora: Marirosa, in casa, avrebbe dovuto spegnerlo. Nel corridoio vide il riflesso della luce proveniente dal bagno, sentì distintamente il rumore del caldobagno in funzione e, aperta la porta, notò il corpo della figlia all'interno della vasca con la testa sommersa. Istintivamente azionò la manopola per il deflusso dell'acqua dalla vasca. (Rapporto 142/2 CC Policoro, deposizione acquisita alle ore 00,30 del 24.3.1988). In altri documenti processuali (missiva del 19.5.1995 inviata al P.M.) la porta del bagno parrebbe essere stata descritta come socchiusa.

- La temperatura ambientale in casa era elevata al momento dell'arrivo di Luca Orioli e Marirosa Andreotta perché l'impianto autonomo di riscaldamento, posto in “manuale”, era in funzione.

- L'impianto autonomo di riscaldamento presentava caldaia e bruciatore in un vano tecnico esterno alla casa (Perizia Strada).

- La temperatura nel bagno al momento del rinvenimento delle salme era elevata (stimata sui 30°C perizia Lattarulo Sansotta + perizia Giordano). Al momento del rinvenimento delle salme, nel bagno vi era un termosifone in attività (connesso con l'impianto centralizzato della casa cfr perizia Lattarulo Sansotta) ed un termoventilatore elettrico (caldobagno) in funzione con l'interruttore del termostato inserito sul “Manual” a 1000 Watt e regolazione della temperatura fissata sul valore massimo possibile (valore 6) (CFR verbale dei CC, perizia Strada).

- L'impianto elettrico era funzionante e non vi era stato alcun cortocircuito.

- Le indagini successive evidenziarono una perfetta funzionalità sia dell'impianto elettrico che del Caldobagno che non mostrò alcuna potenzialità di dispersione elettrica, neanche in seguito a test esasperati. (Cfr Perizia Valecce, ctp Pugliese)

- Anche gli accertamenti sull'impianto elettrico parrebbero aver la normalità dello stesso.

- La caldaia per il solo riscaldamento dell'acqua era posizionata nel bagno, al di sopra della vasca e presentava oggettivi segni di affumicatura (documentati iconograficamente) in corrispondenza della ispezione della fiammella pilota (cfr documentazione iconografica perizia Strada, consulenza UACV 2009).

- L'impianto per il riscaldamento dell'acqua non era a norma per l'assenza nel vano ove era locata la caldaia (bagno), di alcun sistema di ventilazione esterna (cfr Consulenza Strada-Mastrantonio)

- Nessuna perizia tecnica fu mai disposta sullo stato e sul funzionamento della caldaia a gas presente nel bagno per il riscaldamento dell'acqua nell'immediatezza degli avvenimenti ovvero prima che la stessa fosse spostata.

- La giacca di Luca Orioli era appesa ad una sedia in cucina

- Non è chiaro chi posizionò i jeans di Luca sul bacino per occultare i genitali, né ci è dato sapere dove fossero locati i Jeans prima di essere posti sui genitali dell'Orioli.

- Dalla documentazione iconografica parrebbe che almeno la scarpa destra ed uno o due calzini dell'Orioli fossero nel bagno.

- Non ci è dato sapere dove fossero i vestiti di Marirosa indossati all'arrivo a casa.

- Il pigiama celeste a tuta, uno slip bianco, un paia di collant, la maglietta intima di Marirosa, le ciabatte, l'orologio, il reggiseno ed un bracciale erano variamente disposti in sostanziale ordine, nell'interno del bagno.

- Al pari del bagno oltre alla scarpa destra e a un calzino era presente la camicia e la maglietta intima dell'Orioli.

Sulla base di questi dati circostanziali e alla “luce dei seguenti paletti di riferimento medico legale: “il fungo mucoso per la salme rinvenute può essere considerato un segno fortemente indicativo per un annegamento […] Nella intossicazione da monossido di carbonio il fungo schiumoso è di raro riscontro e ove presente è connesso con l'edema polmonare dovuto, in parte, anche all'azione tossica del CO sugli alveoli polmonari; nell'intossicazione mortale da CO, il lasso di tempo intercorrente fra l'esposizione al gas e la perdita di conoscenza dipende dalla concentrazione di CO nell'aria inalata […] Dalla perizia Fedele-Mastrantonio si evince che in presenza di una caldaia a gas contraddistinta da un malfunzionamento ipotizzato lieve, sarebbero stati sufficienti 50 minuti di esposizione continuativa per indurre una sintomatologia significativa nei due giovani in assenza di particolare attività fisica. La concentrazione ambientale di CO, direttamente proporzionale ai di tempi di funzionamento de all'entità del malfunzionamento della caldaia, il tempo di esposizione e l'attività fisica espletata, rappresentano le tre principali variabili dipendenti interconnesse ne determinismo degli eventi […]. Tutto ciò supponendo comunque che la porta del bagno era chiusa o socchiusa.

Da queste premesse, Introna ha scritto che: "Luca e Marirosa si recano insieme in casa Andreatta e decidono di fare la doccia insieme. La casa è già calda, ma Marirosa non spegne il riscaldamento verosimilmente per creare una condizione confortevole anche dopo il bagno. Luca inizia a spogliarsi in cucina e sposta il caldobagno nel bagno dove lo accende a mezza potenza in posizione manual. Verosimilmente viene aperto il rubinetto dell'acqua calda e chiusa la porta sì da favorire nell'interno del bagno un piacevole ambiente caldo-umido. Marirosa verosimilmente si spoglia in camera sua ed entra nel bagno con il pigiama a mò di tuta. Entrambi i ragazzi chiudono o socchiudono la porta e iniziano a spogliarsi mentre la vasca si sta riempendo. Marirosa entra nella vasca con acqua calda e mentre sta in piedi, apre il doccino ed inizia a docciarsi. La caldaia continua ad essere in attività. Luca non entra nella vasca e dopo essersi spogliato aiuta Marirosa. Non è dato sapere né quanto tempo i due ragazzi trascorrono nel bagno con la caldaia in attività, né cosa fanno nel frattempo certo è che abbondanti schizzi d'acqua finiscono sul pavimento del bagno. La vasca continua a riempirsi. Non ci è dato sapere quando la caldaia smette di funzionare per la chiusura del rubinetto dell'acqua calda. Del tutto attendibilmente ad un certo punto Marirosa inizia a sentirsi male, verosimilmente con la doccia ancora in funzione, perde conoscenza e cade nella vasca, verosimilmente offrendo le spalle al muro su cui è locata la caldaia. In fase di caduta impatta il capo contro la manopola del rubinetto procurandosi la ferita lacera a livello occipitale. Luca cerca di aiutarla, chiude il rubinetto dell'acqua, cerca di estrarla dalla vasca tirandola per la gamba destra, altra acqua cade sul pavimento ma Luca è astenico, fiacco a causa del CO inalato e si accascia al suolo ove, in coma continua ad inalare CO fino alla morte, mentre Marirosa muore annegata nella vasca da bagno. La porta, verosimilmente socchiusa consente quindi di disperdere la concentrazione ambientale di CO negli ambienti circostanti".

LA RICERCA DEL GAS KILLER. Le salme di Luca e Marirosa presentavano strutture muscolari ancora riconoscibili sebbene mummificate. (Deciso viraggio peggiorativo con evoluzione verso la prescheletrizzazione e mummificazione dei tessuti molli residui). Per questo motivo il sistema di indagine scelto da Introna è stato quello di cercare il CO legato alla mioglobina mediante metodi di microdiffusione e fissazione. La tecnica è diversa da quella scelta da Umani Ronchi e De Zorzi nel 1996 quando fu eseguita la prima autopsia. Anche gli esiti sono diversi. Si legge nella perizia: “Alla luce della negatività delle indagini condotte dal prof Umani Ronchi e dei campioni biologici disponibili si è effettuata un'indagine mediante ricerca elettiva del CO inglobato nei tessuti muscolari profondi mediante reazione chimica con cloruro di palladio in soluzione acida. L'indagine così condotta, su ileopsoas e sul muscolo femorale, ha costantemente evidenziato nella salma di Luca Orioli la presenza di di CO in misura media di 0,702 per cento grammi di tessuto muscolare testato”. Valori più modesti sono stati ritrovati nel corpo di Marirosa: 0.06 g%. Quanto basta per “supporre concretamente che anche Andreotta Marirosa inalò monossido di carbonio prima di morire”.

Toghe lucane: Il racconto di un boss a de Magistris e il giallo sulla morte dei «fidanzatini». Da “Il Corriere della Sera”: «Policoro, il pm incontrò l' indagato».

L'inchiesta Toghe lucane, quella che non si è riusciti a togliere al pm di Catanzaro, Luigi de Magistris, è come una palla di gomma. Più si cerca di spingerla sott' acqua, più l'acqua la respinge verso l'alto con la stessa forza. L' ultima clamorosa rivelazione, che riporta in primo piano il caso di Luca Orioli e Marirosa Andreotta (i «fidanzatini di Policoro» uccisi il 23 marzo 1988), è il racconto di Salvatore Scarcia, tra i più noti capiclan della mafia del Metapontino. Scarcia è stato interrogato da De Magistris nel carcere di Melfi, in cui sta scontando una condanna per associazione mafiosa. Ma non è un «pentito», quindi ciò che ha detto - e che secondo il pm ha trovato già parecchi riscontri - non gli procurerà alcuno sconto di pena. Scarcia, in rapporti molto confidenziali con il patron di Marinagri, Vincenzo Vitale (indagato a Catanzaro come tutti gli altri protagonisti del racconto di Scarcia), ha detto tante cose inquietanti. Tra queste, ha parlato dettagliatamente, descrivendo persino tipo e colore delle auto, e fotografando tutto e tutti, di un «summit» tenuto nell'estate del 2000 nell'azienda di piscicoltura Ittica Valdagri, nella foce del fiume Agri, dove poi sarebbe sorto il villaggio vacanze Marinagri, assegnatario di un contributo di 26 milioni di euro di fondi europei. Racconta Scarcia: «Era una domenica mattina. Avevo saputo che ci sarebbe stata una riunione importante. E intorno alle 10 circa mi appostai nei pressi dell'Ittica Valdagri... Vidi arrivare una Fiat Croma bianca con quattro persone a bordo: l'autista, il pm di Potenza, Felicia Genovese, suo marito Michele Cannizzaro e il colonnello dei carabinieri Pietro Gentili. Poi, con una Mercedes scura, arrivarono il pm di Matera, Vincenzo Autera, e il dottor Giuseppe Galante (capo della procura di Potenza) e una terza persona che non ho riconosciuto. Da un'altra Mercedes, di colore chiaro, scesero l'imprenditore Gino Lavieri e Walter Mazziotta, banchiere (in realtà, bancario) di Policoro. Infine, arrivarono altre due auto, una Golf bianca e una Thema Ferrari amaranto, ciascuna con due persone a bordo. Tutti entrarono nell'ufficio di Vitale». A questo punto, Scarcia esce allo scoperto e bussa alla porta dell'ufficio. Va ad aprirgli Vitale. «Gli chiesi di farmi entrare - racconta - e lui diventò pallido. Gli dissi che già sapevo chi c'era dentro, lo forzai ed entrai. Così mi feci vedere da tutti. Intuii che stavano progettando qualcosa di grosso a livello economico. Autera è socio di Marinagri attraverso un prestanome ed era tra quelli che aveva partecipato ai festini a luci rosse che si facevano da quelle parti. Lui, Galante e Genovese cercarono di calmarmi e mi dissero che mi avrebbero aiutato economicamente, se io in zona non mettevo bombe e non facevo attentati. Poi con discorsi un po' strani mi dissero se potevo far qualcosa a Mario Altieri (ex sindaco di Scanzano Jonico), perché dove ci trovavamo doveva venire un "paradiso terrestre", così mi dissero, e invece per colpa di Mario Altieri il tutto era stato bloccato». Scarcia a questo punto non ci sta, arretra, teme di poter essere prima usato e poi incastrato. E così viene anche minacciato. «Guarda che ti facciamo arrestare quando vogliamo, mi dicono». Scarcia abbozza e se ne va. Ma lì, quella domenica mattina, aveva visto, seduti intorno allo stesso tavolo, Vincenzo Autera, il pm che senza aver nemmeno disposto l'autopsia dei cadaveri dei fidanzatini chiese l'archiviazione del caso, e Walter Mazziotta, che nel 1994 finisce indagato proprio per l'omicidio di Luca e Marirosa. Negli anni successivi, Autera, imputato di aver affermato il falso sulla morte dei fidanzatini, verrà prosciolto a Salerno. Mentre il vicepretore Ferdinando Izzo, delegato di Autera, e accusato come lui, verrà assolto a Matera: grazie alla bravura di Nicola Buccico, ex sindaco di Matera ed ex membro laico del Csm, che dopo essere stato il legale della famiglia di Luca Orioli diventa il difensore del vicepretore Izzo. L' inchiesta «Toghe lucane», condotta dal pm Luigi de Magistris, ipotizza un «comitato d'affari» composto da magistrati, politici e imprenditori Le accuse L'ipotesi è il condizionamento di investimenti e nomine pubbliche. Coinvolti anche cinque magistrati.

COME E’ MORTO GIUSEPPE PASSARELLI?

Nella vita, così come nei fatti di giustizia se il buon giorno non si vede dal mattino, meglio lasciar perdere, non si caverà mai un ragno dal buco. Se quattro archiviazioni non son degne di convincere…allora si passerà per mitomani o pazzi: Salerno 2013, Castrovillari 1998, 2001, 2010.

Il suicidio di Giuseppe Passarelli, carabiniere di Policoro (Mt) morto nella caserma di Cassano allo Ionio (Cs) nel 1997, non convince. Indagarono i suoi stessi colleghi. A 16 anni dall'inchiesta restano molte zone d'ombra e aspetti mai chiariti. Hanno chiuso il caso come suicidio, ma restano molte zone d'ombra. La famiglia di Giuseppe Passarelli, carabiniere di Policoro (Mt) morto in circostanze mai chiarite nella caserma dei carabinieri di Cassano allo Ionio (Cs), chiede la verità, scrive Fabio Amendolara.

I fatti risalgono al 23 marzo del 1997. Passarelli, dopo il periodo di addestramento, era stato spedito per la sua prima esperienza lavorativa a Cassano sullo Jonio. Quel giorno si trovava nell’archivio, doveva trovare un fascicolo. Ma in quell’archivio viene trovato agonizzante ferito con un colpo di pistola esploso a qualche centimetro di distanza dal suo cranio. Trasportato prima all’ospedale di Castrovillari, poi a quello di Cosenza, decedeva il giorno dopo. Il caso è stato archiviato per ben tre volte dalla procura di Castrovillari come “suicidio”.

Policoro, caso Passarelli: confermata l'ipotesi suicidio, scrive l'11 Dicembre 2013 “La Nuova del Sud”. Ancora un’archiviazione per il caso di Giuseppe Passarelli, il giovane carabiniere di Policoro morto nella caserma di Cassano allo Jonio, in provincia di Cosenza, il 23 marzo del 1997. Il gip del tribunale di Salerno, Bruno De Filippis, infatti, nella giornata di ieri ha accolto la richiesta formulata dal pubblico ministero lo scorso 24 ottobre. Per il tribunale campano il ventenne carabiniere lucano morì suicida, ma questa versione non è mai stata accettata dalla famiglia di Giuseppe Passarelli che da anni conduce una battaglia per arrivare alla piena verità. La decisione di ieri, però, rappresenta l’ennesima delusione e segue le altre tre precedenti archiviazioni decise dalla procura di Castrovillari nel 1998, nel 2001 e nel 2010. Al tribunale di Salerno, però, erano state evidenziate proprio delle presunte “omissioni” da parte dei magistrati calabresi, accusati dai familiari del carabiniere di non aver compiuto tutti gli atti di indagini finalizzati ad accertare le cause della morte di Giuseppe Passarelli. Per il gip, tuttavia, l’azione penale nei confronti dei magistrati non può essere proseguita a causa dell’intervenuta prescrizione. E comunque, sempre secondo il giudice, “l’ulteriore ed inusuale terza riapertura delle indagini dimostra la volontà della procura di esaminare con ogni scrupolo i fatti”. Il giovane di Policoro fu trovato in fin di vita nell’archivio della caserma calabrese, dove era in servizio da soli venti giorni. Fu trasportato in ospedale e morì qualche ora dopo a causa di un colpo di pistola esploso a qualche centimetro di distanza dal suo cranio. Tanti i dubbi emersi in questi anni, a partire dall’assenza di impronte sulla pistola e di tracce di polvere da sparo sul braccio del carabiniere e i graffi sulle scarpe che hanno fatto pensare ad un trascinamento. Dubbi che forse non verranno mai chiariti.

Come è morto Giuseppe Passarelli? Il 24 marzo 1997 nell'archivio della Caserma dei Carabinieri di Cassano allo Jonio, un carabiniere di Policoro (MT), Giuseppe Passarelli, si sarebbe sparato con un colpo di pistola alla nuca morendo dopo circa tre ore di agonia. Ufficialmente si parlò di suicidio, ma la famiglia non si è mai rassegnata perché questa storia presenta davvero tante contraddizioni. A partire, per esempio, dalle modalità dell'evento alle incongruenze tra non pochi passaggi del referto autoptico e alcune testimonianze sulle ore immediatamente precedenti la morte del giovane militare. Non a caso, tra l'altro, lo stesso giudice che ha disposto l'ultima archiviazione pur affermando l'assenza di qualunque indizio che potesse far pensare ad un omicidio, ha comunque parlato di "una serie di elementi che destano perplessità e sconcerto e che non vi è una dimostrazione scientifica" che si sia trattato di un suicidio.

Diciannove anni di ricerca della verità sul caso della morte del carabiniere ausiliario Giuseppe Passarelli, scrive “L’Eco di Basilicata" il 25 marzo 2016. Il carabiniere ausiliario Giuseppe Passarelli di Policoro aveva solo diciannove anni quando morì dopo ore di agonia in seguito ad un colpo di pistola alla nuca sparata da alcuni centimetri di distanza. Diciannove anni pieni di dolore per la sua famiglia che continua a cercare la verità sulla sua morte e di sapere cosa sia successo al loro caro figlio quel giorno nella caserma di Cassano allo Jonio (CS) mentre era in servizio con altri commilitoni. Era la sua prima destinazione ed era arrivato da appena venti giorni. Tre archiviazioni sul caso, chiuso come suicidio, ma tantissimi sono i dubbi sollevati non solo dai periti di parte e dalla famiglia.

Un perito della stessa Procura di Castrovillari parla nella sua relazione di corpo trascinato a terra e su terreno, luogo non compatibile con il luogo dell’accaduto.

Negativo lo stub sulla mano di Giuseppe, cosa improbabile se fosse stato lui stesso a sparare quel colpo.

Nessuna impronta digitale sull’arma ritrovata, come se fosse stata ripulita.

Tanti i dubbi relativi alla certezza che a sparare sia stata effettivamente l’arma in dotazione a Giuseppe.

Il documento attestante la corresponsione tra una determinata arma e chi la detiene, con un unico numero di matricola, la cosiddetta scheda di armamento della pistola di Giuseppe è inesistente perché danneggiata. Questo implicherebbe che non vi sia certezza alcuna sulla corresponsione che quell’arma da cui è partito il colpo sia inequivocabilmente quella in dotazione a Giuseppe.

Giuseppe era in servizio eppure la sua divisa era sporca di terriccio, né ai familiari è stata consegnata la cravatta della divisa.

Le macchie di sangue fuoriuscito dopo lo sparo sono presenti sulla camicia della divisa ma quelle sulla giacca risulterebbero trasudate dall’interno della stessa verso l’esterno.

Troppe risultano le contraddizioni a cui ancora non vi sono risposte certe, che alimentano dubbi su dubbi su quanto accaduto e che meriterebbero approfondimenti ulteriori per restituire la certezza della Verità. Continueremo a chiederla affiancando i familiari di Giuseppe.

Un'altra morte dai contorni “misteriosi” nel centro del Metapontino torna di attualità, scrive "La Gazzetta del Mezzogiorno" del 25 marzo 2015. Quella di Giuseppe Passarelli, trovato senza vita, a 20 anni, il 24 marzo del 1997 nell’archivio della Caserma dei carabinieri di Cassano allo Jonio (CS). Giuseppe, che era di Policoro, fu rinvenuto esanime con un colpo di pistola alla nuca. E ieri, in occasione di un altro anniversario senza verità e giustizia dopo quello di Luca Orioli e Marirosa Andreotta, i coordinamenti provinciali di Matera e di Cosenza dell'Associazione antimafia Libera hanno diffuso un comunicato dal titolo “Come è morto Giuseppe Passarelli?” Un interrogativo che pesa come un macigno a 18 anni dallo svolgersi del tragico evento. “Ufficialmente – ha sostenuto Libera - si parlò di suicidio, ma la famiglia non si è mai rassegnata perché questa storia presenta davvero tante contraddizioni. A partire, per esempio, dalle modalità dell’evento alle incongruenze tra non pochi passaggi del referto autoptico e alcune testimonianze sulle ore immediatamente precedenti la morte del giovane militare. Non a caso, tra l’altro, lo stesso giudice che ha disposto l’ultima archiviazione, il 10 dicembre 2013, presso il tribunale di Salerno, pur affermando l’assenza di qualunque indizio che potesse far pensare ad un omicidio, ha parlato di “una serie di elementi che destano perplessità e sconcerto e che non vi è una dimostrazione scientifica” che si sia trattato di un suicidio”. Una decisione molto controversa come quelle alla base delle altre tre archiviazioni sul caso disposte dalla Procura di Castrovillari nel 1998, 2001 e 2010. Tante le anomalie, infatti, emerse durante le indagini tecniche: nessuna impronta sulla pistola, nessuna traccia di polvere da sparo sul braccio, il terriccio sulla camicia e sui pantaloni cosi come i graffi sulle scarpe quasi fosse stato trascinato. Anomalie che hanno gettato ombre su una morte per tantissimi aspetti assurda. Ed è proprio per questi motivi che i coordinamenti provinciali di Libera di Matera e di Cosenza, sulla scia del tema della XX giornata nazionale in memoria di tutte le vittime innocenti di mafia, “La verità illumina la giustizia”, insieme alla famiglia Passarelli hanno chiesto che anche su questa storia si faccia completamente luce perché Giuseppe abbia finalmente giustizia. Dopo 18 lunghi anni da quel giorno in cui egli perse, tragicamente, la vita.

S’infittisce il mistero: sulla pistola non c’erano tracce lasciate dal militare. Fu ripulita? Scrive Fabio Amendolara il 19 gennaio 2013 su "La Gazzetta del Mezzogiorno". Sulla pistola trovata accanto al corpo non c’erano le impronte digitali della vittima e sulle braccia non sono state trovate tracce di polvere da sparo. Il caso, però, è stato chiuso come suicidio. I pantaloni e la camicia d’ord i n a n z a erano sporchi di terra. «Tipiche imbrattature che di solito si trovano sugli indumenti di soggetti strascinati per terra», secondo uno dei consulenti tecnici che si è occupato 15 anni fa della misteriosa morte, nell’archivio della caserma dei carabinieri di Cassano allo Ionio (Cs), di Giuseppe Passarelli, 20 anni, carabiniere ausiliare di Policoro. «Ritengo che quelle imbrattature di terra siano state causate dal trascinamento del corpo di mio figlio dopo il ferimento mortale», sostiene Antonio Passarelli, il papà di Giuseppe nell’esposto con cui chiede la riapertura delle indagini alla Procura di Salerno (sono passati oltre tre mesi e il fascicolo non è stato ancora assegnato al magistrato che dovrà occuparsi del caso). Antonio, dopo 15 anni e tre inchieste giudiziarie finite nel nulla, ha deciso di andare in Procura a Salerno – competente territorialmente sui magistrati calabresi – per chiedere di riaprire le indagini sulla morte di suo figlio e di accertare se chi ha indagato finora lo ha fatto fino in fondo. Sarebbe la quarta inchiesta. Le altre tre risalgono al 1998, al 2001 e al 2010. La Procura di Castrovillari è giunta sempre alla stessa conclusione: Giuseppe si è suicidato con un colpo di pistola. «Ma ci sono decine di elementi che dimostrano il contrario», sostiene il papà. «A questo punto – secondo Passarelli – pongo il seguente interrogativo: come poteva sporcarsi di terriccio la camicia di mio figlio se all’atto del suo ferimento indossava la giacca? La stessa giacca che indossava al momento del suo arrivo in ospedale». Il sospetto è che qualcuno probabilmente coinvolto nel delitto abbia alterato la scena del crimine. E ripulito la pistola. Ma Giuseppe potrebbe anche essere morto altrove e poi portato nell’archivio della caserma. «C’è una sola spiegazione- scrive papà Antonio nella sua istanza alla Procura di Salerno – mio figlio non indossava la giacca al momento dell’uccisione, solo successivamente gli è stata messa addosso. Contraddicendo con ciò quanto detto dai testimoni». Ma perché dei carabinieri avrebbero dovuto mentire? «Hanno cercato in tutti i modi di farci credere che è stato un suicidio – sostiene il padre del carabiniere morto – ma per noi quel colpo alla testa glielo ha sparato qualcuno». Se il carabiniere ausiliario Giuseppe Passarelli è stato ucciso nell’archivio della caserma di Cassano allo Ionio nel 1997 e se qualcuno ha cercato di coprire l’omicidio ora dovrà accertarlo la Procura della Repubblica di Salerno.

La famiglia del Carabiniere Passarelli chiede che si riapra il caso, scrive "La Gazzetta del Mezzogiorno" il 17-10-2012. Nel ‘97 la sua morte, a 20 anni, fu archiviata come suicidio. «Hanno cercato in tutti i modi di farci credere che è stato un suicidio, ma per noi quel colpo alla testa glielo ha sparato qualcuno. Ora diteci chi è stato». Antonio Passarelli è il papà di Giuseppe, il carabiniere ausiliario di Policoro morto nel 1997 in misteriose circostanze nell’archivio del comando stazione carabinieri di Cassano allo Ionio, in provincia di Cosenza. Antonio, dopo 15 anni e tre inchieste giudiziarie finite nel nulla, ha deciso di andare in Procura a Salerno – competente territorialmente sui magistrati calabresi – per chiedere di riaprire le indagini sulla morte di suo figlio e di accertare se chi ha indagato finora lo ha fatto fino in fondo. Sarebbe la quarta inchiesta. Le altre tre risalgono al 1998, al 2001 e al 2010. La Procura di Castrovillari è giunta sempre alla stessa conclusione: Giuseppe si è suicidato con un colpo di pistola. «Ma ci sono decine di elementi che dimostrano il contrario», sostiene il papà in un documento giudiziario depositato l’altro giorno in Procura a Salerno. La sera del 22 marzo del 1997 Giuseppe chiama la mamma e l’avvisa che il giorno successivo sarebbe arrivato a Policoro per l’ora di pranzo. La mattina del 23 marzo termina il turno di servizio alle 6. Ma non parte per Policoro. Alle 9 chiama a casa e dice alla madre che è stato trattenuto dai suoi superiori in caserma. E aggiunge: «Mamma non posso parlare, ti spiego quando torno». Ma non è più tornato. Spiega il padre: «Giuseppe è rimasto in caserma, senza far nulla, dalle 6 di quella domenica fino alle 14 del lunedì successivo, ora in cui ha ripreso servizio». Perché gli viene revocato il permesso per tornare a casa se poi resta senza incarico per 32 ore? «A questo punto – sostiene il padre nella sua richiesta di riapertura delle indagini – è lecito pensare che mio figlio possa essere stato trattenuto in caserma perché era stato già pianificato il suo omicidio». Qualcuno voleva evitare che Giuseppe parlasse con i suoi familiari? Qualcuno che era a conoscenza delle preoccupazioni che negli ultimi tempi impensierivano il carabiniere ausiliario. «È possibile – sostiene Antonio Passarelli – che mio figlio alcuni giorni prima della sua morte possa aver scoperto qualcosa di sporco o di illegale che accadeva in caserma». È per questo che gli è stata tappata la bocca? Antonio se lo chiede da 15 anni. Soprattutto da quando ha appreso che sulla pistola trovata accanto al corpo di Giuseppe non c’erano impronte digitali. Ripulite? Non c’erano neanche le sue di impronte. Le dichiarazioni imprecise dei colleghi di Giuseppe hanno reso il giallo ancora più ingarbugliato. La Procura di Salerno dovrà cercare di sbrogliarlo.

La morte di Giuseppe Passarelli ancora avvolta nel mistero, scrive venerdì 27 maggio 2011 Gabriele Elia (fonte il Quotidiano della Basilicata). La recente manifestazione regionale di “Libera” ha riportato d’attualità le morti sospette lucane. Ma nel centro jonico una di queste è rimasta nel dimenticatoio e lontana dalla luce dei riflettori delle cronache. E a ricordarla indirettamente c’è stato fino a qualche settimana fa il necrologio affisso in città dove i parenti ricordano che nessuno potrà mai restituire loro la giovane vita del figlio, ma la giustizia sì, almeno questa è la loro speranza. Quattordici anni di silenzi accompagna il decesso di Giuseppe Passarelli, la cui morte è ancora avvolta nel mistero proprio come quella dei fidanzatini Luca e Marirosa ancora tutta da decifrare. Passarelli era un giovane animato da sani principi morali che come sogno aveva quello di fare il carabiniere. E c’era riuscito entrando nell’Arma come ausiliario. Dopo il periodo di addestramento era stato spedito per la sua prima esperienza lavorativa a Cassano sullo Jonio (città calabrese tristemente conosciuta a Policoro perché risiede Antonio Francese, sotto inchiesta per la morte di Francesco Mitidieri avvenuta nel 2005 sempre a Policoro). Da pochi giorni arrivato non ha fatto nemmeno in tempo a conoscere l’ambiente che il 24 marzo del 1997 decedeva nell’ospedale di Cosenza, dopo un primo ricovero in quello di Castrovillari. Per ben tre volte la magistratura di Castrovillari ha archiviato l’inchiesta come suicidio. Tesi che non ha convinto del tutto i familiari che gridano giustizia e vogliono la verità su un ragazzo che non avrebbe mai commesso un atto del genere dopo che si era avverato un sogno per lui. E poi ci sono alcuni lati oscuri tutti da chiarire: la pistola non era a contatto con la tempia, come da rilievi del perito della procura, ma stava a diversi centimetri di distanza; gli esami della perizia stub hanno dato esito negativo per Giuseppe, nel senso che non sono state rilevate tracce sulla mano di polvere da sparo; la giacca della divisa si presentava sporca di sangue solo all’interno. E poi ancora l’ordine di servizio ricevuto il giorno prima dal comandante quando aveva già programmato di tornare a Policoro la domenica delle palme per una licenza, avendo già avvisato la madre. Ebbene quel giorno Giovanni venne trattenuto in caserma senza un perché, e oltretutto senza fare nulla forse perché lo volevano punire per qualcosa che aveva visto o sentito? E poi il giorno successivo il maresciallo di turno, che faceva le veci del comandante, gli intima di andare in archivio a prendere un fascicolo. Giuseppe non lo trova e ritorna al piano di sopra. Il maresciallo gli dice di non perdersi d’animo e di guardare meglio tra i faldoni di pregiudicati e cittadini che avevano avuto a che fare con la caserma di Cassano. Lontani da occhi indiscreti mentre Giuseppe rovistava tra gli armadi dello scantinato semibuio, parte un colpo di pistola fatale per il militare. A nulla servono gli aiuti sanitari e quando arriva nel vicino ospedale è troppo tardi. Da allora i familiari a più riprese chiedono la verità. Quella ufficiale non viene giudicata attendibile dai familiari anche per il “conflitto di interessi” esistente tra quella caserma dei Carabinieri e la procura di Castrovillari, competente per territorio, che avrebbe omesso alcuni dettagli fondamentali. E l’archiviazione del caso non è suffragata da validi motivazioni, anzi si presenta lacunosa per i motivi suddetti. E’ possibile supporre che Giuseppe si sia trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato vedendo nella piccola caserma un giro poco pulito che potrebbe avergli decretato una fine insperata.

IL MISTERO DELLA MOBY PRINCE.

Moby Prince, la Commissione d’inchiesta: ora tocca ai giudici, scrive Gaetano Pecoraro il 23 febbraio 2018 su "Le Iene". L’intervento dopo il servizio di Gaetano Pecoraro e i nuovi elementi che mettiamo a disposizione. Dopo il nostro servizio sulla tragedia del Moby Prince andato in onda mercoledì scorso, interviene anche la Commissione parlamentare d’inchiesta sul disastro che ha provocato 140 morti nel 1991. Mentre noi aggiungiamo nuovi elementi utili per le indagini. “Uno dei servizi della trasmissione Le Iene era dedicato alla tragedia del traghetto Moby Prince. Il servizio cercava di approfondire alcune questioni ancora poco chiare agli occhi dell’opinione pubblica", ha dichiarato il presidente della Commissione, Silvio Lai. "A tal riguardo voglio ricordare che per permettere una completa e rigorosa ricostruzione dei fatti abbiamo trasmesso alla Procura, per competenza, gli atti relativi al lavoro della Commissione. Peraltro la Procura di Livorno ha già aperto mesi fa un fascicolo”. La Commissione d’inchiesta, nella relazione finale presentata il 24 gennaio in Senato aveva evidenziato alcuni punti fermi: la sera del 10 aprile 1991 quando il traghetto Moby Prince si scontrò fuori Livorno con la petroliera Agip Abruzzo non c’era nebbia in mare, come sostenuto dalle inchieste della magistratura. La Commissione ha criticato molti punti delle sentenze a cui si è arrivati finora, in 26 anni, e le gravi negligenze nei soccorsi. Oltre al servizio andato in onda, noi de Le Iene abbiamo deciso di fornire altri elementi utili a capire cosa sia successo veramente quella notte. Mettiamo così a disposizione di tutti, per la prima volta in versione integrale, le registrazioni del canale radio 16 (il canale d’emergenza) con le comunicazioni avvenute dalle ore 22 alle ore 24 della notte del 10 aprile 1991. Pubblichiamo inoltre gli atti della Commissione d’Inchiesta. Il servizio della Iena Gaetano Pecoraro di mercoledì solleva dubbi in particolare su un punto: quello del carico della petroliera (scarica qui il documento). Dalle registrazioni delle comunicazioni radio tra la petroliera Agip Abruzzo e i soccorritori, emerge che a incendiarsi non sia stato il petrolio greggio (che è anche il carburante delle navi) ma della nafta, un derivato del petrolio utilizzato dai motori diesel. “Capitaneria, c’è la nafta incendiata in mare!”, dice il comandante della petroliera Agip nelle registrazioni. I soccorritori rispondono: “Cioè, che cosa è incendiato in mare? La nafta?”. “Sì, una nave ci è venuta addosso, la nafta è andata a mare e ha preso fuoco!”. La cosa è appunto strana, perché a riversarsi in mare sarebbe dovuto essere il greggio trasportato e non la nafta. Anche i soccorritori cercano di capire meglio: “Ma sta uscendo nafta da voi o dalla nave che è venuta addosso a voi?”. E il comandante della petroliera Agip risponde chiaramente: “Da noi”. Questo dato è confermato dalle condizioni del corpo dell`unico marinaio del Moby Prince morto per annegamento, a cui è stata trovata nafta nella trachea e sui vestiti (scarica qui un estratto della deposizione del responsabile delle autopsie sulle vittime e la ricostruzione del recupero del cadavere nella sentenza del Tribunale di Livorno). Da dove arrivava tutta quella nafta? Un’ipotesi viene sempre dalle registrazioni radio. Emerge, infatti, che a incendiarsi sia stato anche il locale pompe: “Sono Paoli, vedevo che dal locale pompe esce parecchio fumo”, dice il comandante della Sicurezza Agip ai soccorritori. Che rispondono: “è il locale pompe, c’eravamo proprio noi a tirarci dell’acqua sopra”. Il punto fondamentale è che, se la petroliera stava pompando fuori nafta, vuol dire che lì ci doveva essere anche un’altra imbarcazione che la stava ricevendo. E se lì c’era una terza nave, magari è per la sua presenza imprevista e non per la nebbia che il traghetto non è riuscito a evitare la petroliera. La Commissione parlamentare, del resto, parla in più punti di un ostacolo che avrebbe “portato il comando del traghetto a una manovra repentina per evitare l’impatto, conducendo tragicamente il Moby Prince a collidere con la petroliera”. Molti, troppi dubbi sono ancora aperti su questa tragedia, e noi de Le Iene stiamo continuando la ricerca di ogni elemento che possano portare alla verità. Continua quindi la nostra indagine, che vedrete in onda prossimamente con nuovi sviluppi. 

Moby Prince, familiari vittime: "Pensavano a salvare la stagione turistica, ma vaffa...", scrive Marco Billeci il 4 gennaio 2018 su Repubblica Tv. "Noi per ventisette anni abbiamo chiesto verità e giustizia e nessuno ci ha ascoltato, questa é la tragedia più dimenticata di Italia. Ed é vergognoso ascoltare ancora un comandante della capitaneria dire che Livorno gli deve essere grata perché ha salvato la stagione turistica, ma vaffa...!". Così Loris Rispoli - presidente dell'associazione dei familiari delle vittime della Moby Prince - nel suo intervento durante la presentazione della relazione finale della commissione d'inchiesta parlamentare sull'incidente tra una petroliera e il traghetto Moby Prince avvenuto nel 1991 a largo del porto di Livorno, in cui persero la vita 140 persone. E per Angelo Chessa, figlio del comandante del traghetto: "La relazione della commissione ci restituisce fiducia nello stato dandoci ragione su quello che abbiamo sempre detto, compreso il fatto che l'equipaggio non ha avuto nessuna colpa ma anzi ha fatto di tutto per salvare i passeggeri".

Moby Prince: tra errori e depistaggi. "Niente nebbia" e le accuse della commissione alla capitaneria di Livorno. Oggi in Senato, le conclusioni di due anni di lavori per fare luce sulla più grande sciagura del mare dal dopoguerra avvenuta a Livorno nel 1991. L'Agip Abruzzo non doveva essere in quel posto. E sui passeggeri: "Qualcuno poteva essere salvato", scrive Laura Montanari il 24 gennaio 2018 su "La Repubblica". Non è stata la nebbia la causa della collisione fra il Moby Prince e la petroliera Agip Abruzzo. E quest’ultima era in un posto dove non poteva stare. C'era un radar alla stazione piloti, perché la capitaneria non l'ha usato per sapere chi era coinvolto nell'incidente, non una "bettolina" del mare, ma un traghetto pieno di passeggeri diretto in Sardegna? Azzera molte delle "verità" rimaste nelle carte precedenti, cancella certezze e consegna nuovi scenari e qualche interrogativo senza risposta, la commissione parlamentare d’inchiesta sulla tragedia del Moby Prince. 140 morti nelle fiamme che si sono scatenate sul traghetto il 10 aprile 1991 salpato alle 22,03 e schiantatosi contro la petroliera alle 22,25 quando viene lanciato il Mayday che nessuno ascolta: "Moby Prince, Moby Prince siamo entrati in collissione...". Quasi due ore senza soccorsi, come in preda a un'amnesia collettiva, e sul traghetto si legge ora, "qualcuno poteva essere salvato". Perché non è vero, dicono i periti, che sono morti tutti nel giro di trenta minuti. E questo punto aggiunge tragedia alla tragedia. Gli errori. Oggi al Senato la commissione presieduta da Silvio Lai (Pd) consegnerà la relazione finale ai familiari delle vittime, a quelli che in tutto questo tempo si sono battuti per una verità diversa da quelle processuali che puntavano l'indice sulla nebbia o su un errore umano. «Due anni di lavoro sono serviti alla commissione per fissare alcuni punti fermi che in tanti anni erano rimasti in secondo piano». Per esempio il fatto che il comando dell'Agip Abruzzo (348 metri, 82mila tonnellate di petrolio greggio) «non ha posto in essere condotte pienamente doverose», la sagoma del traghetto «era inconfondibile dal ponte della petroliera e fu percepita con precisione». E allora perché non venne dato subito l’allarme? Perché i soccorsi si sono concentrati tutti e soltanto sulla petroliera e sul suo equipaggio? Dalle 161 pagine redatte dai parlamentari dopo 73 sedute, emergono forti le responsabilità della capitaneria di porto di Livorno: «ci fu impreparazione e inadeguatezza nei soccorsi». Il personale aveva un addestramento adeguato? ci si interroga nel rapporto.

I misteri. La relazione della commissione parlamentare, nella premessa, ammette che a distanza di tanto tempo non sono stati risolti tutti i dubbi, ad esempio resta un mistero il tragitto compiuto dall’Agip Abruzzo: «ci sono punti non congruenti sulle attività della petroliera e sul tragitto compiuto prima di arrivare a Livorno. Veniva da un porto egiziano come sostenuto ufficialmente, aveva fatto scalo in Sicilia come appreso dalla commissione o proveniva da un altro porto ancora come risulta dalla documentazione acquisita dai Lloyd?».

La capitaneria. Una parte importante dell’inchiesta riguarda la vicenda assicurativa e uno strano accordo firmato in fretta e furia, due mesi dopo la tragedia, fra Navarma e Snam-Agip e custodito alle Bermuda (è stato recuperato dalla guardia di finanza) rimasto finora sconosciuto: le parti si accordano per non attribuirsi reciproche responsabilità. Altra anomalia: "appare anche il fatto che a fronte di una valorizzazione a bilancio Navarma 1991 del traghetto Moby Prince per circa 7 miliardi di lire, il traghetto stesso è stato assicurato per 20 miliardi di lire, come sul fatto che l’assicurazione ha liquidato i 20 miliardi per la perdita totale del traghetto nel febbraio del 1992, quando erano ancora in corso le indagini preliminari, con Achille Onorato, in quanto armatore Navarma, indagato. Il fatto è stato certamente favorito dall’accordo armatoriale del giugno 1991 Snam/Agip/Padana/Skuld".

Nel mare. C’è poi il capitolo delle ricerche infondo al mare dove giacciono ancora i resti degli scafi, piccole parti di entrambi. Recuperarli, dice la commissione, può servire a stabilire l’esatto luogo dell’impatto e a questo lavora la Marina. "Possono aiutare a stabilire l'esatto punto della collisione". Un elemento importante ai fini dell'esatta ricostruzione della dinamica. La Marina militare ha già effettuato un sopralluogo e si pensa di ispezionare il fondale con nuovi strumenti tecnologici, come per esempio i robot sottomarini. Legata ai soccorsi c’è la questione di quanto potevano essere sopravvissute le persone a bordo del traghetto in fiamme. Si diceva al massimo 30 minuti, ma diversi fra testimoni e periti tendono ad allungare i tempi, in certe aree della nave e questo elemento non è un dettaglio: significa che soccorsi migliori avrebbero potuto salvare delle vite.

L'impatto. L'impatto del traghetto con la petroliera è delle 22,25.  La commissione in base alle testimonianze raccolte esclude la nebbia come causa e anche la velocità. Di certo la Moby ad un certo momento vira di 30 gradi: perché? Una delle ipotesi è che vi fosse stata una esplosione a bordo. Secondo alcune perizie la Moby trasportava esplosivo ad uso civile. "Il Ministro degli Interni Vincenzo Scotti, in un appunto del Capo del Dipartimento della Pubblica Sicurezza, Prefetto Parisi inviato alla sua attenzione il 28 gennaio 1992, conferma la presenza di tracce di esplosivo «a uso civile» rinvenute in un locale a prua del traghetto. In un altro appunto lo stesso Prefetto Parisi aveva riferito al Ministro Scotti di tracce di tritolo e di nitrato di ammonio rinvenute nei locali di alloggiamento dei motori elettrici delle eliche di prua del traghetto". Esclusa la pista terroristica, escluse nuove ispezioni dal momento che il Moby è stato smembrato appena tre anni dopo l'incidente: l'ipotesi più probabile resta quella di un'avaria al timone. Di certo dopo la collisione il Moby resta incastrato all'interno della petroliera e per disincagliarsi fa una retromarcia.

Le reazioni. "Siamo arrivati a conclusioni unanimi. Lo abbiamo fatto senza lasciarci trascinare dalle suggestioni. Sulle concretezze appurabili abbiamo ricostruito i fatti e le dinamiche dell'incidente. Le prime evidenze alle quali siamo approdati sono totalmente diverse da come, allora, furono appurate. Non c'era la nebbia e le vittime non morirono tutte entro 30 minuti. Due certezze che in sede giudiziaria furono i pilastri delle sentenze di assoluzione". Lo dice il senatore Silvio Lai (Pd), presidente della Commissione d'inchiesta sul disastro del Moby Prince, che oggi ha presentato la relazione finale. "Al tempo stesso riteniamo di poter affermare - spiega il senatore Pd - che sia intervenuta un disturbo della navigazione per il Moby Prince unitamente alla posizione di divieto di ancoraggio per l'Agip Abruzzo. Il coordinamento delle operazioni di soccorso è risultato inadeguato ed è avvenuto con colpevole ritardo così come il comando della petroliera non pose in essere condotte pienamente doverose rispetto all'altra nave. Sono state inoltre trovate palesi incongruenze sulle attività dell'Agip Abruzzo e sul tragitto compiuto prima di arrivare a Livorno". "La Commissione - prosegue Lai - ritiene altresì che l'attività di indagine della Procura di Livorno, sottesa al processo di primo grado, sia stata carente e condizionata da diversi fattori esterni. In particolare appare aver avuto un indubbio effetto condizionante il fatto che le indagini siano state svolte utilizzando memorie provenienti da chi aveva gestito soccorsi od anche limitandosi a riscontrare perizie medico legali legate esclusivamente alla riconoscibilità dei corpi. Cosi come colpisce l'accordo assicurativo dopo soli due mesi dall'evento tra gli armatori delle due navi". "Consegneremo - conclude Lai - alla Procura della Repubblica gli atti e la relazione finale cosi come trasparentemente ogni documento dell'inchiesta sul Moby Prince, anche secretato, sarà disponibile a tutti. Il lavoro della Commissione ha gettato le basi per dissolvere la nebbia attorno alla tragedia".

MOBY PRINCE/ Nuove verità 26 anni dopo il disastro: nessuno provò a salvare i 140 passeggeri. Moby Prince, la nuova testimonianza che smentisce la verità processuale a 26 anni dalla sciagura: la Commissione parlamentare d'inchiesta ha concluso i lavori, scrive il 4 gennaio 2018 Emanuela Longo su "Il Sussiadiario". Dall'intenso lavoro della Commissione d'inchiesta sul drammatico incidente della Moby Prince emerge anche un'altra terribile verità, a distanza di 26 anni dalla sciagura ed ha a che fare proprio con le 140 vittime dell'incidente. Secondo le due sentenze che hanno chiuso il caso senza alcun colpevole, i passeggeri del traghetto avrebbero avuto solo 20 minuti di vita. Nella realtà però, le cose sarebbero andate diversamente: dallo scontro con la petroliera sono trascorse interminabili ore prima dell'arrivo dei soccorsi. A provarlo sarebbero i vari elementi raccolti dalla Commissione d'inchiesta, a partire dalla consulenza di un medico legale secondo la quale i 140 passeggeri avrebbero respirato per ore il fumo. Ci sarebbe inoltre l'immagine di un uomo che dopo molte ore sarebbe salito sul ponte della nave per chiedere aiuto, prima di essere carbonizzato in pochi minuti. Fino a quel momento, però, si suppone sia stato in un luogo sicuro. Ed ancora, dalle foto scattate dai vigili del fuoco, c'è fuliggine sulle auto e le orme di molte mani. Secondo i periti, anche dopo che le fiamme furono domate molte persone si spostarono in cerca di un luogo sicuro. A rafforzare tale tesi, la testimonianza di Alessio Bertrand, unico sopravvissuto: "Quando mi hanno soccorso ho detto che c’erano ancora persone vive". La conclusione, drammatica, è che nessuno tentò di salvare i 140 passeggeri. (Aggiornamento di Emanuela Longo)

NUOVA TESTIMONIANZA: “NON C’ERA NEBBIA”. Lo scorso dicembre la Commissione parlamentare d'inchiesta ha ufficialmente concluso i suoi lavori in riferimento alla sciagura del Moby Prince, il traghetto che la sera del 10 aprile 1991 si scontrò con la petroliera Agip Abruzzo. Nella collisione morirono 140 persone ma per 26 lunghi anni, quanto accaduto nel porto di Livorno ha rappresentato dei maggiori misteri italiani. Oggi, come spiega il quotidiano La Stampa, dopo il lavoro della Commissione d'inchiesta si fa sempre più concreta la necessità di riscrivere da zero la storia sulla drammatica vicenda, anche alla luce alcune nuove certezze emerse nel corso del lungo lavoro. A ribaltare l'ormai superata versione processuale, sarebbe ora la testimonianza di Guido Frilli che già all'epoca dei fatti aveva spiegato agli inquirenti ciò che aveva realmente visto la notte del disastro, sebbene il suo verbale non entrò mai nel fascicolo d'indagine. Frilli ha poi ribadito la sua verità anche al cospetto della Commissione d'inchiesta: "Quella notte in rada non c’era nebbia, lo ribadisco. Sono stato alla finestra fino all’una del mattino e vedevo con chiarezza ciò che stava accadendo". Le sue parole andrebbero così a smentire definitivamente l'ipotesi della nebbia che secondo i magistrati aveva rappresentato la principale causa del disastro del Moby Prince, del quale non si conoscono ancora dinamiche esatte e cause. La stessa versione fornita da Frilli, spettatore involontario, era stata fornita anche dall'ex pilota del porto di Livorno, dall'avvisatore marittimo e da due ufficiali della Guardia costiera. Lo stesso Frilli ha sottolineato come anche nei giorni successivi all'incidente si fosse recato in Capitaneria riferendo l'assenza di nebbia.

MOBY PRINCE: TERMINATI I LAVORI DELLA COMMISSIONE D'INCHIESTA. Il racconto emerso dal testimone in Commissione parlamentare d'inchiesta non era mai emersa prima e solo adesso, a lavori ormai conclusi, arriva la conferma che le indagini condotte negli anni passati sarebbero state superficiali e poco fedeli a quanto realmente accaduto. Il lavoro della Commissione presieduta da Silvio Lai del Pd è durato 25 mesi durante i quali si sono susseguite 72 audizioni, tutte mirate a fare luce su quanto avvenuto la notte del 10 aprile 1991. Per la relazione finale occorrerà ancora attendere alcuni giorni ma quanto emerso assume una così elevata importanza da rendere concreta l'apertura di una nuova inchiesta. Ed è proprio questo ciò che sperano i parenti delle vittime che da anni cercano la verità su quanto accaduto 26 anni fa: "Non so se arriveremo mai alla verità totale. Di certo, l’esito delle audizioni dimostra che a provocare il dramma non è stata la distrazione dell’equipaggio. Non credo che sarà mai possibile, ma sarebbe utile capire anche le cause dell’impatto", ha dichiarato Luchino Chessa, figlio del comandante del traghetto.

Moby Prince, tutte le carte su menzogne e omissioni. La relazione: 2 mesi dopo la strage intesa tra compagnie per la rinuncia a indennizzi, scrive Marco Imarisio il 23 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". «La Commissione si dichiara stupita che a 26 anni dal disastro della Moby Prince molte dichiarazioni rese in sede di audizione siano convergenti nel negare evidenze o nel fornire versioni inverosimili dell’accaduto». La nebbia che non c’è mai stata faceva comodo a tutti. Doveva esserci, ad ogni costo. Per costituire un alibi, per dare la colpa ai morti che non potevano più difendersi. E coprire così sotto una coltre di bugie le responsabilità, le negligenze, le convenienze, di quasi tutti i soggetti coinvolti nella tragica notte della Moby Prince. Dieci aprile 1991, il traghetto che si schianta contro la petroliera Agip Abruzzo all’uscita dal porto di Livorno. Centoquaranta vittime. Nessun responsabile. «L’attività di indagine della Procura è stata carente e condizionata da diversi fattori esterni». Come le «enormi pressioni cui sembra essere stata oggetto». 

I lavori. Non si salva nessuno, nella bozza di relazione finale della Commissione parlamentare di inchiesta sulle cause del più grande disastro della marineria italiana nel dopoguerra, che domani a Roma presenterà le proprie conclusioni. Neppure la magistratura dell’epoca. In due anni di lavoro, i parlamentari guidati dal senatore Silvio Lai hanno avuto spesso la sensazione di essere presi per i fondelli dai testimoni che avevano convocato. Non si sono rassegnati. Quesiti, consulenze tecniche, perizie. Non tutti i punti oscuri sono stati chiariti. «Ma affermiamo con sicurezza di aver raggiunto una ricostruzione decisamente più vicina alla realtà storica. Non tutta la verità ma di sicuro una verità più ricca». Al punto che la Procura di Livorno ha già aperto una nuova inchiesta, «atti relativi contro ignoti». Dice Loris Rispoli, presidente di «140», l’associazione delle vittime, che si tratta di un risarcimento. «I pm lavorarono malissimo. Speriamo che ora si possa chiarire davvero, partendo dal lavoro della Commissione». 

Le novità. Sono elencate in cinque punti. 1) «Si esclude che la nebbia sia stata la causa delle tragedia... Non c’è stato, prima del disastro, un fenomeno atmosferico di generale riduzione della visibilità in rada». 2) «Il comando della petroliera non ha posto in essere condotte pienamente doverose». Il traghetto rimase incagliato per alcuni minuti nella motocisterna. «C’era il tempo per valutare la situazione e dare le corrette comunicazioni ai soccorritori». 3) «Dalla Capitaneria di porto di Livorno non partirono ordini precisi per chiarire entità e dinamica dell’evento e per ricercare la seconda imbarcazione». Ovvero la Moby Prince. I soccorsi si concentrarono soltanto sulla petroliera. «Ci fu impreparazione e inadeguatezza». 4) «Ci sono punti non congruenti», questo l’eufemismo usato dai relatori, «sulle attività della petroliera e sul suo tragitto compiuto prima di arrivare a Livorno».

L’accordo. «Ci si è chiesti se la rapidità con cui si è giunti ad accordi fra compagnie e armatori non abbia contribuito da subito ad abbassare il livello di attenzione sulla tragedia». Il quinto e ultimo punto è anche il più scabroso. Ci è voluto l’intervento della Guardia di finanza per recuperare il documento da un broker delle isole Bermuda, dov’era custodito. Il 18 giugno ‘91, a Genova, viene siglato un accordo tra Navarma, proprietaria di Moby Prince, e Snam-Agip spa, armatore della petroliera. Le due parti rinunciano a qualunque pretesa di indennizzo reciproco. Sono passati appena due mesi dalla strage. Ancora non si sa nulla. Ma non si attendono gli esiti dell’inchiesta della magistratura, appena agli inizi. «In solo due mesi, gli armatori e le loro compagnie assicuratrici si accordarono per non attribuirsi reciproche responsabilità, non approfondendo eventuali condizioni operative o motivazioni dell’incidente attribuibili ad uno dei due natanti». I parlamentari sottolineano come Moby Prince fosse assicurata con una estensione della polizza ai «rischi di guerra», benché navigasse solo nell’alto Tirreno. L’armatore Vincenzo Onorato ha detto che la pratica era abituale. I consulenti della commissione sostengono che invece «non era giustificata». «Anomalo appare anche il fatto che a fronte di una valorizzazione a bilancio del 1991 di circa 7 miliardi di lire, il traghetto fosse assicurato per 20 miliardi, cifra liquidata nel febbraio del 1992. A indagini preliminari ancora in corso». 

Le cause. La commissione parla di «una possibile alterazione della navigazione» della Moby Prince. L’allora ministro dell’Interno Vincenzo Scotti ha riferito di un appunto della Polizia che confermava le tracce di esplosivo «a uso civile» rinvenute nel locale a prua del traghetto. Ma dal lavoro della commissione non emergono conferme. Solo l’ipotesi, corroborata dal fatto che prima dell’impatto le luci d’allarme della Moby Prince erano accese, di «un evento inatteso» sul traghetto, che ha portato come conseguenza il blocco del timone. «Non si può quindi escludere un’avaria».

La petroliera. «Negli anni, sulla posizione dell’Agip Abruzzo sono state fornite plurime indicazioni quasi sempre incompatibili una con l’altra. I consulenti della commissione hanno individuato ben 19 diverse coordinate, punti dichiarati o rilevati prima o subito dopo la collisione». Le nuove indagini della Marina militare portano almeno qui alla verità. «La suddetta nave era in zona interdetta alla navigazione e in divieto di ancoraggio». Era dove non doveva essere, con un carico sconosciuto. Ma da dove arrivava? Snam ha sempre sostenuto che giunse direttamente dall’Egitto dopo 5 giorni di viaggio. Il sistema di controllo della Lloyd List Intelligence, al quale la commissione ha avuto accesso, racconta invece di soste mai dichiarate a Fiumicino e Genova, prima di Livorno. «La dichiarazione di provenienza fornita da Snam è in contrasto con i dati ufficiali». Un falso. «La commissione ritiene che il comportamento di Snam-Eni sia connotato di forte opacità». Tutti avevano qualcosa da nascondere, dopo quella notte. La Capitaneria di porto «non ha valutato la gravità della situazione», anche per «incapacità». Non è un dato da nulla, davanti a 140 vittime, molte delle quali erano ancora in vita dopo la collisione. Agip Abruzzo e Moby Prince avevano i loro segreti, e le loro compagnie un accordo segreto. Quindi più nebbia per tutti. Per coprire i morti, e soprattutto i vivi.

Moby Prince, l’ultima verità 26 anni dopo. Concluso il lavoro della Commissione d’inchiesta: “La nebbia un’invenzione, i 140 non furono soccorsi”. La Commissione parlamentare è stata istituita nel 2015 e a dicembre, dopo 72 audizioni, ha concluso il suo lavoro. Sul disastro restano ancora molti misteri e si ipotizza la trasmissione degli atti alla procura per una nuova inchiesta, scrive il 04/01/2018 Nicola Pinna su "La Stampa". Guido Frilli non è un fantasma spuntato fuori all’improvviso. Si fece vivo e parlò anche 26 anni fa, ma allora nessuno lo ascoltò. Provò persino a mettere per iscritto tutto ciò che aveva visto la notte del disastro, ma il verbale con la sua testimonianza non è mai finito nel fascicolo di un’indagine. Ora le cose cambiano. E non è un dettaglio. Quello che Guido Frilli ha visto dalla finestra della sua casa di Livorno è nero su bianco nel resoconto dell’ultima seduta della Commissione parlamentare d’inchiesta sul dramma del Moby Prince. «Quella notte in rada non c’era nebbia, lo ribadisco. Sono stato alla finestra fino all’una del mattino e vedevo con chiarezza ciò che stava accadendo». Ecco, questa è la pietra tombale sulla vecchia verità processuale. Una verità che però non ha mai chiarito la dinamica (e le cause) del drammatico scontro tra il traghetto Moby Prince e la petroliera Agip Abruzzo. A distanza di così tanto tempo la storia è quasi tutta da riscrivere, perché su uno dei grandi misteri italiani ora ci sono almeno tre nuove certezze. La più importante si basa (anche) sul racconto di Guido Frilli: di fronte alla Commissione d’inchiesta lo avevano detto anche altri e così sembra sgretolarsi l’ipotesi della nebbia, che per i magistrati era la causa principale del disastro. Prima dello spettatore involontario, una versione più o meno simile l’avevano data ai senatori l’ex pilota del porto di Livorno, l’avvisatore marittimo e persino due ufficiali della Guardia costiera. «Nei giorni successivi all’incidente - ha sottolineato Frilli - mi sono presentato in Capitaneria per riferire della perfetta visibilità in rada e della totale assenza di nebbia». Di un racconto così prezioso non si era mai saputo nulla, ma dal lavoro della Commissione d’inchiesta (presieduta da Silvio Lai del Pd) viene fuori che le indagini sono state superficiali e le conclusioni poco fedeli alla realtà dei fatti. La relazione finale sulle 72 audizioni fatte in 25 mesi di lavoro verrà presentata tra qualche giorno, ma insieme alla questione della nebbia ci sono altri due passaggi che consentono di riscrivere la storia. E che lasciano aperta l’ipotesi di una imminente trasmissione degli atti alla procura per sollecitare l’apertura di una nuova inchiesta. Quello che i parenti delle vittime chiedono da anni: «Non so se arriveremo mai alla verità totale - dice Luchino Chessa, figlio del comandante del traghetto -. Di certo, l’esito delle audizioni dimostra che a provocare il dramma non è stata la distrazione dell’equipaggio. Non credo che sarà mai possibile, ma sarebbe utile capire anche le cause dell’impatto».  La sopravvivenza dei 140 del Moby Prince e l’organizzazione dei soccorsi sono gli altri due punti su cui saltano fuori i nuovi dettagli. A rileggere le due sentenze che hanno chiuso il caso senza colpevoli, i passeggeri del traghetto appena partito da Livorno e diretto a Olbia avrebbero avuto solo 20 minuti di vita. Ma in realtà, dal momento dello scontro con la petroliera, a bordo della nave sono trascorse ore interminabili e drammatiche. E le prove messe insieme dalla Commissione d’inchiesta sono diverse. Una è la consulenza di un medico legale (ancora secretata) che ha chiarito un particolare su cui già c’era qualche indizio: i 140 hanno respirato per ore il fumo. In più c’è l’immagine di quell’uomo che dopo molte ore sale sul ponte della nave per chiedere aiuto: in pochi minuti il suo corpo è stato carbonizzato e questo dimostra che fino a quel momento era stato in un luogo sicuro. Infine, ci sono le foto scattate dai vigili del fuoco, entrati per primi nel garage del traghetto: sulle auto coperte di fuliggine (che si deposita quando le fiamme sono spente) ci sono le orme di tante mani. E questo per i periti significa che quando il rogo era stato domato dentro la nave arroventata parecchie persone ancora si spostavano alla ricerca di un luogo sicuro. La testimonianza del mozzo Alessio Bertrand, unico sopravvissuto del Moby Prince, rafforza la nuova certezza: «Quando mi hanno soccorso ho detto che c’erano ancora persone vive». Il capitolo soccorsi è quello che nelle prime indagini non è mai stato affrontato, ma negli atti degli interrogatori fatti dalla Commissione c’è una pesante ammissione dell’allora comandante del porto, Sergio Albanese: «Il traghetto era un corollario, ci siamo concentrati sulla petroliera». A salvare i 140 passeggeri, dunque, nessuno ci ha provato. 

Disastro Moby Prince, 26 anni dopo un'altra verità. La testimonianza di Guido Frilli, scrive Paolo Salvatore Orrù su "Tiscali News". Il disastro del Moby Prince avvenne la sera del 10 aprile 1991, quando il traghetto e la petroliera Agip Abruzzo entrarono in collisione nella rada del porto di Livorno.  In seguito all'urto si sviluppò un incendio che causò la morte delle 140 persone tra equipaggio e passeggeri, si salvò solo Alessio Bertrand, un giovane mozzo napoletano. Sono passati quasi 27 anni da quella immane tragedia, eppure la verità è ancora di là da venire. Lo scorso dicembre, con l’audizione di Guido Frilli da parte commissione d’inchiesta del Senato presieduta da Silvio Lai (Pd), è stato possibile intravedere sprazzi di luce. Frilli ha infatti sostenuto che in rada non c’era assolutamente un filo di nebbia (che sinora era stata considerata la vera colpevole della tragedia). Lui è un testimone oculare: all'epoca dei fatti abitava sul lungomare di Livorno proprio davanti al luogo del disastro. Si legge nel resoconto della commissione di inchiesta: “affacciatosi alla finestra quella notte, ebbe la percezione di una perfetta visibilità tanto che vide la sagoma della petroliera con alcune persone che correvano lungo il ponte, mentre un altro corpo, avvolto dal fumo nero, si muoveva poco più a nord”. Particolari che potevano essere osservati, vista la distanza, solo con l'assenza di nebbia. Il testimone, per confermare la perfetta visibilità, ha detto che l'isola di Gorgona era “perfettamente visibile”. Dalle dichiarazioni del cittadino livornese si evince un altro particolare mai emerso prima. E cioè che l'Agip Abruzzo era illuminata in maniera anomala e risultava molto vicina alla costa (oggi le navi sono ancorate a una distanza maggiore dalla terraferma ndr). Il testimone ha anche ricostruito la dinamica dell'incendio sulla petroliera percepita dal terrazzo della sua casa: sarebbe stata caratterizzata “da denso fumo che si sollevava dal ponte cui seguirono grandi bagliori di fiamme”. Peraltro, conferma Frilli, non vide altri natanti fra la costa e la petroliera, e non si è sentito di escludere la presenza di un elicottero. Frilli ha precisato che il traghetto era avvolto da un fumo denso e scuro, mentre il fumo che saliva dalla petroliera era più chiaro e si muoveva lentamente in direzione verso ovest - nord ovest. E ha ricordato particolari agghiaccianti, come quella una figura umana di piccole dimensioni, con una maglietta bianca, che correva sul ponte della petroliera. Quella maglietta poteva essere quella di Bertrand. Che un anno fa, interrogato dalla commissione d’inchiesta, aveva asserito tutto il contrario da quanto sostenuto da Frilli.  A lui infatti il timoniere della Moby Prince aveva detto che la collisione era avvenuta a causa della fitta nebbia. “Incontrai il timoniere, gli chiesi cos’era successo e mi disse: c’era nebbia e siamo finiti contro un’altra nave”. Bertrand però dice anche che lui la nebbia non la vide, gliela comunicò il timoniere, Aniello Padula. Moby Prince, una vicenda complessa. Per ora si può fare affidamento solo sulla verità processuale, che ravvisò come possibile causa dello scontro l’errore umano da parte dell'equipaggio del Moby: tutte le commissioni d'inchiesta e tutti i processi, fino all'ultima archiviazione disposta dalla Procura di Livorno nel 2010, censurano il comportamento della plancia del Traghetto, comandata da Ugo Chessa, defunto anch'egli nella tragedia. L'imprudenza del Comandante, per i giudici non ha certo determinato la tragedia nei suoi mortali sviluppi, tuttavia ha contribuito a non evitarla. Tra le accuse rivolte all'equipaggio del Moby Prince si elencano: il mal funzionamento di alcuni apparati di sicurezza a bordo della nave; l'aver fatto scendere prima del dovuto il pilota del porto Federico Sgherri; la mancata dovuta attenzione nelle procedure di uscita dal porto; la velocità troppo elevata in fase di uscita; l'aver lasciato aperto il portello del traghetto in fase di navigazione. Tra le cause della disattenzione è stato indicato più volte erroneamente, anche dagli organi di stampa dell'epoca, il fatto che l'equipaggio potesse essere distratto dalla gara di ritorno della semifinale di Coppa delle Coppe tra la Juventus e il Barcellona. Questa ipotesi è stata però decisamente respinta dalla testimonianza del superstite Bertrand, il quale, durante vari interrogatori, ha più volte dichiarato di aver personalmente portato alcuni panini in plancia comandi e che il personale di guardia si trovasse al proprio posto nella gestione del traghetto. Per Luchino Chessa, figlio del comandante Moby e portavoce familiari vittime, la commissione di inchiesta sta facendo ‘un grade lavoro’. Alla giornalista di tiscali.it, Paola Pintus, che lo aveva intervistato aveva spiegato: “la Commissione d'inchiesta sta facendo un gran lavoro e sta raggiungendo dei risultati insperati fino a un po’ di tempo fa. All'esame ci sono dei dati di fatto che stanno scompaginando le vecchie carte processuali e stanno riscrivendo tutto quello che era stato costruito in precedenza". Se 27 anni vi sembrano pochi.

MOBY PRINCE. NON FU NEBBIA KILLER, RESTA SOLO QUELLA GIUDIZIARIA. Scrive il 2 settembre 2017 Paolo Spiga su "la Voce delle Voci ". Non fu la nebbia. Questa la fondamentale acquisizione operata dalla commissione parlamentare d’inchiesta che indaga sulla strage del Moby Prince, quando nella notte del 10 aprile 1991 morirono bruciate 140 persone. Uno dei peggiori buchi neri della nostra storia, una delle più colossali tragedie italiane rimaste senza risposta e, soprattutto senza colpevoli, a ben 26 anni da quei fatti. Inchieste che hanno regolarmente girato a vuoto, nulla di fatto in tutti i gradi di giudizio, depistaggi a non finire. L’unica speranza adesso resta in questa commissione varata circa un anno fa e comunque approdata a qualche significativa conclusione. Come ad esempio il fatto che la nebbia – considerata da sempre la causa numero uno – non c’entra un bel niente. Almeno questo, per ora. “Era una notte chiara e luminosa”, hanno sempre raccontato le cronache. E invece nei fascicoli giudiziari quei chiarori si trasformano in nebbia impenetrabile, che rende ancor più invisibili le mani assassine che hanno provocato la tragica collisione. Ricordiamo che eravamo proprio nel giorno del rompete le righe per l’invasione americana in Iraq, con un gigantesco via vai di navi a stelle e strisce soprattutto in quell’area di costa toscana, dove si trovava la strategica postazione di Camp Derby. E sono non pochi i racconti di traffici più che sospetti di armi, di trasbordi di materiale bellico effettuati proprio in quelle acque. Così fa rilevare la relazione presentata dalla commissione presieduta dal Pd Silvio Lai: “le differenze emerse e il confronto con gli atti acquisiti consentono di ipotizzare scenari differenti rispetto a quelli che sono stati definiti nel corso delle diverse fasi processuali e negli anni successivi”. Più nello specifico, a proposito della nebbia – sic – killer, ecco le novità. In una comunicazione radio captata dalla petroliera Agip Abruzzo prima dell’impatto con il Moby Prince, emerge una frase, “Livorno ci vede, ci vede con gli occhi”, che lascia poco spazio all’ipotesi di una nebbia fitta. Agli atti, poi, c’è un’altra comunicazione captata, quella di un aereo in atterraggio a Pisa che “vede distintamente l’area del disastro pochissimo tempo dopo la collisione tra le due imbarcazioni”. Non è finita. Perchè il cosiddetto “video D’Alesio”, ripreso pochissimo tempo dopo l’impatto con una telecamera amatoriale da un’abitazione che si affaccia lungo la rada – viene scritto nella relazione – “mostra un’immagine chiara della scena che rende dubbiosi riguardo l’ipotesi della nebbia. Su questo argomento la commissione ha avanzato precise domande agli auditi e in primo luogo agli ufficiali dell’Agip Abruzzo. Stante quanto premesso – viene aggiungo dai commissari presieduti da Silvio Lai – le ricostruzioni dei marittimi della petroliera sulla presenza di nebbia in rada consentono di ridimensionare sensibilmente, fino ad escluderla, la rilevanza di tale fenomeno”. La nebbia meteo si è diradata. Farà lo stesso quella giudiziaria?

IL MISTERO DI SIMONETTA FERRERO.

Milano, 1971: Simonetta Ferrero uccisa nei bagni della Cattolica. Un seminarista entrò per chiudere il rubinetto e si trovò davanti alla terribile scena di un delitto: sulla porta e sulle pareti macchie di sangue, ditate e manate dappertutto, e per terra il corpo senza vita di una ragazza. Il giallo è tuttora irrisolto, scrive Dino Messina il 30 dicembre 2017 su "Il Corriere della Sera". La mattina di lunedì 26 luglio 1971 il seminarista padovano Mario Toso, 22 anni, entrò di buonora all’Università Cattolica per assistere alla messa delle otto. Finita la funzione salì al primo piano della scala G per vedere se c’erano comunicazioni che lo riguardavano nella bacheca dell’Istituto di scienze religiose. Ma si fermò, attratto dallo scrosciare insistente dell’acqua che proveniva da un bagno delle donne. Entrò per chiudere il rubinetto e si trovò davanti alla terribile scena di un delitto: sulla porta e sulle pareti macchie di sangue, ditate e manate dappertutto, e per terra, riverso sul fianco destro, il corpo senza vita di una ragazza. Il seminarista cercò qualcuno per dare l’allarme, ma non trovò nessuno. A chiamare la questura fu uno dei due custodi di turno, Mario Biggi. Il giovane religioso se ne tornò al seminario di Mirabello Monferrato, casualmente lo stesso istituto dei salesiani frequentato dalla vittima durante le scuole elementari. La polizia non fece fatica ad accertare che la ragazza distesa sul pavimento si chiamava Simonetta Ferrero, detta Munny, di cui i genitori avevano denunciato la scomparsa già dal sabato precedente. Il luogo del delitto, l’Università Cattolica, e la personalità della vittima, delineavano uno scenario del tutto insolito per gli inquirenti. Simonetta era una ragazza di 26 anni, bella ma non appariscente, bruna con gli occhi verdi, che si era laureata in Scienze politiche nell’ateneo di Largo Gemelli con una tesi sul concetto di premio nell’ordinamento costituzionale inglese. Il fatto che la facoltà da lei seguita fosse diretta dal costituzionalista Gianfranco Miglio, uno dei consiglieri del presidente della Montedison Eugenio Cefis, unito al vantaggio di essere figlia di un dirigente del gruppo, Francesco, ex commerciante di vini, aveva aperto le porte della Montedison alla giovane Simonetta, che a 26 anni si trovava a capo della sezione laureati. In pratica selezionava i più meritevoli. Di recente aveva respinto una decina di domande di assunzione e gli inquirenti seguirono anche questa traccia, ma la violenza dell’esecuzione lasciava pensare a un delitto passionale, o a una tentata violenza sessuale, che tuttavia l’aggressore non riuscì a portare a termine come venne dimostrato dall’autopsia. Escluso il movente di rapina, perché al dito la povera Simonetta aveva ancora l’anello d’oro e nel portafogli vennero trovati i trecento franchi francesi che aveva appena cambiato prima di partire con la famiglia per la Corsica. E allora? Al capo della squadra mobile Enzo Caracciolo e ai suoi uomini, che riferivano al magistrato Ugo Paolillo, lo stesso che era di turno due anni prima il giorno della strage di piazza Fontana, non restò altro che ricostruire le ultime ore di vita della giovane. Simonetta viveva con i genitori Francesco e Liliana, casalinga, e con le sorelle, Elena, biologa, assistente all’università Statale, ed Elisabetta, laureanda in biologia, in un appartamento di via Osoppo. Non ancora fidanzata, di abitudini piuttosto tradizionali per quei tempi tumultuosi, era volontaria della Croce Rossa e impegnata nel tempo libero anche con le Dame di San Vincenzo. La mattina di sabato 24 luglio, in una Milano calda e semideserta, Simonetta era uscita per cambiare le lire in franchi prima della partenza per la Corsica, era passata in una tappezzeria, poi in un negozio di estetista in via Dante, per la depilazione prenotata in vista delle vacanze al mare. Dopo aver comprato un dizionario italiano-francese, si era diretta verso la Cattolica: secondo alcune ipotesi per ritirare delle dispense nella libreria interna dell’ateneo, che aveva trovato chiusa, secondo altre proprio per fermarsi ai bagni che ben conosceva nell’ateneo che aveva frequentato per quattro anni. Una banale sosta per motivi fisiologici, che le costò cara. Simonetta entrò nell’ateneo dall’atrio principale di largo Gemelli, quindi attraversò due cortili prima di arrivare al terzo porticato da cui si accedeva ai bagni della scala G. Le lezioni e anche gli esami erano finiti, la facoltà in un sabato di fine luglio era semideserta, si sentiva solo il rumore dei martelli pneumatici azionati da un gruppo di operai che lavoravano proprio vicino al luogo del delitto. Un rumore che probabilmente coprì le urla disperate di Simonetta, mentre lottava con il suo aggressore prima di cadere trafitta da 32 pugnalate, sette delle quali, all’addome, al petto e al collo, mortali. Gli operai e i pochi studenti presenti nell’ateneo quella mattina furono interrogati. Ma le indagini presto si arenarono. Venne rintracciato un falso ingegnere navale sulla quarantina che frequentava la Cattolica con il solo scopo di importunare le studentesse. Fu segnalata la presenza di un giovane di 25 anni che aggrediva le ragazze con parolacce. Gli studenti pendolari sulla ferrovia Milano Saronno indicarono la presenza di un giovane che andava in giro a dire che preferiva le ragazze della Cattolica e mostrava un coltello a serramanico. Tutti questi personaggi, al pari di altri 300 possibili testimoni o portatori di una pur minima verità sulla morte di Simonetta, vennero interrogati senza risultato. Il principale sospettato rimaneva il seminarista Toso: perché era entrato in un bagno delle donne e perché era tornato precipitosamente in seminario? Gli inquirenti con trovarono prove a suo carico, così come nessuna prova venne trovata a carico di un giovane prete sospettato e trasferito, ma neppure indagato. Intanto, precipitosamente, il luogo del delitto venne ripulito. Non fu mai trovata l’arma del delitto. Come aveva fatto l’assassino a farla sparire e, soprattutto, come aveva potuto uscire dall’università, con i vestiti sporchi di sangue, senza che nessuno lo notasse? Furono commessi errori nell’indagine e non c’era all’epoca il test del dna, che avrebbe potuto aiutare a risolvere il caso utilizzando i pezzetti di pelle dell’aggressore rimasti nelle unghie di Simonetta. Intanto, si facevano avanti anche i mitomani. In questura arrivò una lettera dall’Emilia con «l’identikit dell’assassino», che in realtà si rivelò essere il ritratto dell’astronauta americano Alfred Warden, al comando della missione Apollo 15. Ventidue anni dopo, nel 1993, il questore Achille Serra ricevette una lettera anonima che puntava il dito contro un padre spirituale della Cattolica. I funerali di Simonetta Ferrero furono celebrati giovedì 30 luglio nella chiesa dei santi martiri Gervaso e Protaso in via Osoppo dallo zio della vittima, monsignor Carlo Ferrero, presidente dell’Istituto di scienze teologiche della Pro Deo di Roma, che l’aveva introdotta nell’Università Cattolica. La chiesa era piena, nessuna autorità presente, soltanto una grande delegazione della Croce Rossa. Dopo 46 anni la morte di Simonetta Ferrero rimane ancora un mistero.

IL MISTERO DI LIDIA MACCHI.

Lidia Macchi, sul corpo 4 capelli di un uomo sconosciuto: non è Binda. È la novità emersa martedì nell’aula gip del tribunale di Varese, dove i quattro periti hanno esposto i risultati della relazione. La ventenne fu uccisa nel 1987, il cadavere è stato riesumato trent’anni dopo in cerca di tracce di dna, scrive Roberto Rotondo il 9 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". Non sono stati trovati peli o capelli riconducibili all’imputato Stefano Bindasulla salma di Lidia Macchi, la studentessa ventenne uccisa nel 1987 le cui spoglie sono state riesumate per capire se vi fossero o meno elementi del dna riconducibili all’uomo accusato dell’omicidio. Spuntano però quattro capelli, senza bulbo, che i periti incaricati dal gip hanno trovato nella zona pubica: appartengono tutti alla stessa persona e secondo gli esperti non sono riconducibili né a Stefano Binda né a un familiare della ragazza uccisa. Sarebbero dunque di un altro uomo. È la novità emersa martedì nell’aula gip del tribunale di Varese, dove i quattro periti hanno esposto i risultati della relazione. Vi sarebbe «alta probabilità» che le formazioni pilifere - che data la lunghezza i periti indicano come capelli - siano rimaste sul corpo in seguito a un rapporto sessuale - il primo della sua vita, e consenziente - che la ragazza avrebbe avuto, quella notte, dopo essere uscita dall’ospedale di Cittiglio dove si era recata a far visita a un’amica, il 5 gennaio del 1987. Poche ore dopo fu uccisa a coltellate. «Sono contento, questi risultati dimostrano la mia innocenza», ha riferito Binda ai suoi difensori, gli avvocati Sergio Martelli e Patrizia Esposito. L’analisi è stata effettuata dall’anatomopatologa forense Cristina Cattaneo, dal colonnello del Ris di Parma Giampietro Lago, dal maggiore del Ris Alberto Marino e dalla professoressa Elena Pilli, del dipartimento di biologia evoluzionistica dell’università di Firenze. I periti, in aula, hanno definito la perizia come un «unicum» nel panorama forense, per l’enorme mole di materiale analizzato su un cadavere riesumato dopo 30 anni. Una volta trasportata la salma in laboratorio, gli esperti hanno dovuto attendere che i resti si asciugassero, poiché erano impregnati d’acqua. Dopo aver iniziata la disamina, sono stati rinvenuti 6mila piccolissimi reperti, tra peli e capelli, in particolare nella zona pubica. Il vestito con cui era stata avvolta la salma, un abito da sposa, ha protetto dal tempo i reperti. Gli esperti hanno diviso in cinque gruppi il materiale pilifero, e alla fine sono arrivati a isolare quattro peli senza bulbo che, analizzando il dna mitocondriale, non sono attribuibili né alla vittima né a elementi del suo nucleo familiare, né alle persone che hanno eseguito l'autopsia. La buona notizia per la difesa è che questi peli, probabilmente dell’assassino, di sicuro non appartengono a Stefano Binda. Secondo i periti la ragazza, sarebbe stata uccisa in un lasso di tempo compreso tra 30 minuti e 3 ore dalla fine del rapporto sessuale. Ora i periti dovranno replicare le loro conclusioni, esposte davanti al Gip nell’incidente probatorio, davanti alla corte d’assise nella prossima udienza. La salma, restituita ai familiari, assistiti dall'avvocato Daniele Pizzi, verrà riportata nel cimitero di Casbeno a Varese, dove si trova la tomba.

Lidia Macchi, il medico legale: «Non fu uccisa in quel bosco, e il rapporto sessuale fu consenziente». Il professor Mario Tavani, che effettuò l’autopsia, ha rivelato in aula alcuni aspetti finora non trapelati del suo rapporto del gennaio 1987. Nella Panda della studentessa solo due macchioline di sangue, nessuna traccia di terriccio sugli stivali, scrive Roberto Rotondo il 19 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera".  Lidia Macchi non fu uccisa in quel bosco. E mezz’ora prima di morire ebbe il suo primo rapporto sessuale, consensuale, in tutta probabilità con quello che poi divenne il suo assassino. Si complica ulteriormente il giallo della morte della studentessa di Cl, un «cold case» che, dopo 29 anni, è arrivato in corte d’Assise al termine dell’inchiesta effettuata dalla procura generale di Milano. Mercoledì è stato interrogato, in aula, il medico legale che all’epoca effettuò l’autopsia. Il professor Mario Tavani ha rivelato alcuni aspetti finora non trapelati del suo rapporto del 1987. Ha raccontato che, a esito della sua analisi, scoprì che Lidia Macchi non venne uccisa nel bosco di Cittiglio, a pochi metri dalla stazione ferroviaria, e che la ragazza quella notte, il 5 gennaio 1987, ebbe un rapporto sessuale consenziente. Dunque, non fu violentata, il suo corpo venne trasportato e inoltre fu uccisa dopo mezz’ora circa dal primo rapporto sessuale della sua giovane vita. Il professor Tavani ha chiarito in aula quale fosse, a suo parere, l’arma del delitto, e cioè un coltellino di marca «Opinel», con il quale l’omicida inflisse 29 coltellate, prima al collo, poi all’addome e infine sulla schiena, quando la ragazza era già in terra. Il tutto tra le 23 e le 4 di mattina. Va detto che l’ordinanza del gip che ha disposto l’arresto dell’imputato Stefano Binda, 49 anni, ammette che il rapporto sessuale fu probabilmente consenziente, ma avanza l’ipotesi che la costrizione avrebbe potuto essere non fisica, bensì effettuata con minaccia. Il medico legale tuttavia ha escluso che sul corpo della povera ragazza vi fossero lesioni da azioni di afferramento o per immobilizzazione o costrizione fisica. E anche sul luogo del delitto è stato molto deciso: «Nella Panda della vittima - ha riferito - non c’era alcuna traccia di sangue se non due macchioline. Quando si colpiscono delle arterie del collo, come è avvenuto in questo caso, escono quantità di sangue a fiotti, e lo schizzo va lontano. Ventinove coltellate sferrate in una macchina l’avrebbero imbrattata in una maniera incredibile. Inoltre intorno al corpo e nella terra non c’era sangue. Sono quasi certo – ha infine affermato il dottore – che sia l’amplesso che l’uccisione non si siano avvenute in quel luogo. E lo dimostra anche il fatto che negli stivali di Lidia non c’era polvere e nessun segno del terriccio». Nel pomeriggio sono stati ascoltati altri periti che hanno analizzati i reperti rimasti. Poche informazioni sono oggi utilizzabili. Ma una spicca. Il dna sul lembo della busta spedita ai parenti di Lidia - che contiene la lettera anonima che sarebbe attribuibile all’imputato - non è compatibile con quello di Binda. Non fu lui a leccarla. Rimane un rammarico: i vetrini con il liquido seminale dell’uomo che incontrò Lidia quella notte, furono distrutti per errore dal tribunale di Varese. I consulenti oggi in aula hanno affermato che se li avessero avuti, avrebbero detto con certezza se appartenevano o meno all’imputato.

IL MISTERO DI EMANUELA ORLANDI.

Emanuela Orlandi, la sorella Federica a "Chi l'ha visto?": spunta la pista del filmino a luci rosse, scrive il 29 Novembre 2018 Libero Quotidiano. Mentre si va affievolendo il clamore del ritrovamento di alcune ossa nel sottoscala di un edificio di proprietà della Santa Sede, il caso di Emanuela Orlandi riprende quota dopo che la sorella della ragazza scomparsa nel 1983 ha raccontato a Chi l'Ha Visto di Federica Sciarelli un episodio risalente a pochi giorni prima della sparizione di Emanuela. Federica Orlandi ha raccontato di una conversazione telefonica in cui la sorella le diceva che "le avrebbero dato un compenso di 300mila lire. Io le ho detto che era impossibile che le dessero quella cifra e così è finita la telefonata. Emanuela mi disse che questa persona avrebbe aspettato fuori dalla scuola di musica per sapere se avrebbe accettato il lavoretto da fare il sabato successivo. Nessuno poteva immaginare cosa poteva esserci dietro. Qualche giorno prima io ero sull'autobus e fui avvicinata da un uomo di nome Felix. Mi fermò chiedendomi se mi interessava fare la comparsa nel film Ultimi giorni di Pompei. Mi avrebbero pagato 100mila lire al giorno, ma io non accettai. Mi disse anche che mi avrebbe richiamato a casa, ma non lo fece", sono le parole di Federica.

Felix è lo stesso uomo di cui parla Alfredo nel messaggio di addio scritto prima di impiccarsi al cancello di una villa: "Sono uno studente universitario, mi sono presentato a un appuntamento per prendere materiale pubblicitario per un'offerta di lavoro. In un salottino hanno offerto a me e ad altre ragazze un aperitivo. Nel bicchiere c'era qualcosa che ha spinto le ragazze a spogliarsi e noi uomini, invitate da loro, a fare l'amore. Non mi sono accorto che ci stavano fotografando". Poco dopo, le immagini sono apparse su un giornale pornografico e il 29enne non ha retto.

Caso Orlandi-Gregori. La sorella di Mirella Gregori: “Basta con depistaggi. Sento che mia sorella è ancora viva”, scrive il 30 novembre 2018 secolo-trentino.com. La storia della scomparsa di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori è una triste vicenda (insoluta) di cronaca nera che nel corso degli ultimi decenni ha ciclicamente catalizzato l’attenzione mediatica attraverso i suoi sviluppi. Maria Antonietta Gregori, sorella di Mirella, è intervenuta ai microfoni di Radio Cusano Campus all’interno del programma radiofonico “La Storia Oscura”, commentando i risultati delle analisi effettuate sulle ossa umane ritrovate in una depandance della Nunziatura Apostolica a Roma. Gli esami hanno evidenziato che le ossa sarebbero riconducibili ad un uomo e sarebbero ben più antiche del 1964. Maria Antonietta Gregori durante l’intervista ha dichiarato: “La notizia del ritrovamento delle ossa la appresi da alcuni giornalisti che mi scrissero dei messaggi sul cellulare. Purtroppo le notizie che potrebbero riguardare mia sorella le apprendiamo sempre da altre persone e mai dagli inquirenti. Mi ha stupito molto anche il fatto dell’immediato abbinamento di quei resti con Mirella ed Emanuela Orlandi. Mi sono chiesta, perché? Chi ha detto questo? Come hanno fatto a tirare fuori i nomi di Mirella ed Emanuela? Per quale motivo? Comunque, noi aspettiamo sempre l’esito definitivo delle analisi sulle ossa visto che lo stesso professor Arcudi consulente del Vaticano continua a usare il condizionale in merito ai primi accertamenti. Solo l’esame del dna può darci delle certezze. E comunque noi faremo effettuare altre analisi in parallelo dalla nostra genetista Marina Baldi.” Proseguendo nel suo intervento la sorella di Mirella Gregori ha rincarato. “Vogliamo che le cose siano fatte bene, alla luce del sole, senza altri depistaggi o insabbiamenti. Come famiglie coinvolte abbiamo bisogno di pace dopo 35 anni, non è possibile andare avanti così. Io in tutti questi anni ho sempre pensato e sperato che mia sorella fosse ancora viva, non so dove si trovi ma dentro di me sento che è viva; però, se quelle ossa dovessero essere di Mirella, allora dopo tanta sofferenza metteremmo la parola fine a questa terribile storia che dura da 35 anni e soprattutto finalmente si aprirebbe un’indagine per arrivare alla verità.” Infine concludendo l’intervento Maria Antonietta Gregori ha voluto commentare il recente operato del Vaticano e della Procura nei confronti di questo triste caso insoluto aggiungendo: “La cosa che mi fa ben sperare è l’apertura nuova del Vaticano e della Procura nei confronti del caso della scomparsa di mia sorella e di quella di Emanuela Orlandi. Visto che in passato indagini vere e proprie sulla scomparsa di Mirella non sono mai state fatte, a causa, lo ripeto, di depistaggi, insabbiamenti e false piste. Speriamo si possa arrivare presto alla verità”. 

Emanuela Orlandi, Vittorio Feltri il 2 Novembre 2018 su Libero Quotidiano: "Se il suo assassino è un prete non si saprà mai". Una storia assurda che dura da 35 anni e non è ancora finita. È quella di Emanuela Orlandi, una quindicenne figlia di un dipendente del Vaticano, sparita nel 1983 e non più ricomparsa. Decenni trascorsi senza che si sia scoperto il motivo della morte di questa povera fanciulla. A distanza di tanto tempo passato inutilmente allo scopo di capire cosa sia successo alla ragazza in questione: silenzio da parte delle cosiddette autorità religiose, bocche chiuse, inquirenti incapaci, mistero assoluto. Ma come può accadere che una adolescente nata e cresciuta in Vaticano, non nel quartiere di San Lorenzo, sia stata rapita o uccisa (più probabile) in una piccola città teoricamente Santa e poi occultata in maniera tale da essere impossibile recuperarne il corpo? Con tutta la fantasia di cui disponiamo, non siamo in grado di decifrare l'arcano. Qualcuno sospetta che Emanuela sia stata violentata e soppressa da un prete più o meno altolocato. Forse, ciononostante non esiste una prova. Altre ipotesi si possono fare ma nessuna di esse è convalidata. Supposizioni. Ora, a distanza di parecchi lustri, saltano fuori alla Nunziatura Apostolica di via Po le ossa di una donna, che presto saranno esaminate per verificare se siano o no i resti della povera vittima di cui discettiamo. Non resta che attendere. Però qualora si venisse a sapere che lo scheletro è il suo, il giallo non sarebbe comunque risolto. Il recupero di un cadavere non dice chi sia l'eventuale assassino né può costituire la base di partenza per indagini che portino a comprendere cosa sia avvenuto e chi ne sia il responsabile. Questo per dire che Emanuela non avrà in ogni caso giustizia. Chiunque l'abbia ammazzata non sarà preso e processato perché è trascorso troppo tempo dall'epoca del delitto e chi lo ha commesso ha avuto facoltà di nascondere la mano omicida in forma perfetta. Rimane l'atroce sospetto che la giovane sia stata sacrificata da un prelato, cioè da una persona che viveva e frequentava lo Stato della Chiesa, lasciandosi andare a un istinto sessuale che definire schifoso è poco. Mi auguro che la presente ricostruzione sia sbagliata, ma non me ne viene in mente una più convincente. In effetti gli uomini, con o senza abito talare, sono purtroppo tutti uguali e capaci di dare il peggio di sé. Vittorio Feltri

Emanuela Orlandi e l’uomo dell’Avon, la sorella Federica: “Anch’io avvicinata da un personaggio ambiguo”. Si riapre la pista sessuale per il delitto Orlandi. A Chi l’ha visto? un’intervista in cui la sorella Federica racconta di essere stata avvicinata da Felix, personaggio noto negli anni ’80 a Roma, perché solito reclutare con l’inganno ragazzi e ragazze per l’industria del porno. È lo stesso che propose a Emanuela la vendita dei prodotti Avon prima che sparisse? Scrive il 29 novembre 2018 Angela Marino su Fanpage. Si torna sulla pista sessuale per la scomparsa di Emanuela Orlandi. Dopo che i medici legali hanno stabilito che non sono della studentessa sparita a Roma, 35 anni fa, le ossa ritrovate nei sotterranei della Nunziatura apostolica di Roma, Chi l'ha visto? ha proposto un servizio in cui si batte la pista del ‘sequestro a scopo di libidine'. Si tratta della prima ipotesi di reato per cui indagava l'allora pubblico ministero, Margherita Gerunda, il magistrato che decise di ritirarsi quando il caso venne fagocitato dalle teorie del complotto in Vaticano.

Felix e l'uomo dell'Avon sono la stessa persona? Al centro dell'inchiesta dell'epoca l'uomo che avvicinò Emanuela con un'offerta di lavoro prima che sparisse. "Le avrebbero dato un compenso di 300mila lire – dice la sorella Federica Orlandi, l'ultima ad aver parlato a telefono Emanuela, all'inviata di Chi l'ha visto? – Io le ho detto che era impossibile che le dessero quella cifra e così è finita la telefonata. Emanuela mi disse che questa persona avrebbe aspettato fuori dalla scuola di musica per sapere se avrebbe accettato il lavoretto da fare il sabato successivo (avrebbe dovuto vendere prodotti Avon a una sfilata, ndr.). Nessuno poteva immaginare cosa poteva esserci dietro. Qualche giorno prima io ero sull'autobus e fui avvicinata da un uomo di nome Felix. Mi fermò chiedendomi se mi interessava fare la comparsa nel film ‘Ultimi giorni di Pompei'. Mi avrebbero pagato 100mila lire al giorno, ma io non accettai. Mi disse anche che mi avrebbe richiamato a casa, ma non lo fece", conclude la sorella di Emanuela.

Nella storia un'altra vittima. Felix era lo stesso che fece quella strana proposta a Emanuela? Era l'uomo dell'Avon? A distanza di 35 anni sembra impossibile saperlo, tuttavia è probabilmente lo stesso Felix che compare in un'altra oscura vicenda romana, quella del suicidio di uno studente di nome Alfredo. Il ragazzo si è impiccato al cancello di una villa dopo che alcuni scatti privati che lo ritraevano mentre aveva rapporti con delle donne, erano finiti su una rivista porno. "Sono uno studente universitario – scriveva nel biglietto suicida – mi sono presentato a un appuntamento per prendere materiale pubblicitario per un'offerta di lavoro. In un salottino hanno offerto a me e ad altre ragazze un aperitivo. Nel bicchiere c'era qualcosa che ha spinto le ragazze a spogliarsi e noi uomini, invitati da loro, a fare l'amore. Non mi sono accorto che ci stavano fotografando". Una proposta di lavoro, droghe e un incontro finito in tragedia: è questa la vera storia di Emanuela Orlandi?

Il mistero irrisolto della scomparsa di Emanuela Orlandi. La sera del 22 giugno 1983, una ragazza di 15 anni spariva nel nulla dando vita a uno dei misteri più oscuri della storia italiana, ancora oggi irrisolto, scrive TPI il 30 Novembre 2018. Emanuela Orlandi scomparsa. Aveva 15 anni quando scomparve e aveva appena terminato il secondo anno del liceo. La sera del 22 giugno 1983 Emanuela Orlandi finì la sua lezione di flauto presso la scuola di musica Tommaso Ludovico da Victoria in piazza Sant’Apollinare, nel centro di Roma, e chiamò sua sorella per dirle che le era stato proposto un lavoro come promotrice di prodotti cosmetici. Fu l’ultima volta che la sua famiglia sentì la sua voce. Il mistero sulla scomparsa di Emanuela Orlandi negli anni ha visto le indagini seguire numerose piste. Alcune di queste hanno coinvolto lo Stato Vaticano, l’Istituto per le Opere di Religione (Ior), la Banda della Magliana, il Banco Ambrosiano, Mehmet Ali Ağca (il criminale turco responsabile dell’attentato del 1981 a Giovanni Paolo II), il governo italiano e i servizi segreti di diversi paesi. Il caso inoltre si è intrecciato a quella di un’altra ragazza romana, Mirella Gregori, anche lei quindicenne, che scomparve il 7 maggio 1983. Secondo una delle ricostruzioni dei fatti, dopo quella chiamata, Emanuela incontrò un’amica e le raccontò della proposta appena ricevuta, confidandole che prima di tornare a casa sarebbe rimasta ad aspettare l’uomo che le aveva offerto il lavoro. Un vigile urbano disse di averla vista salire su una Bmw. Da allora si persero le sue tracce. Emanuela era cittadina dello Stato Vaticano ed era figlia di un commesso della Prefettura della Casa Pontificia. Inizialmente si pensò a un tipico caso di ribellione adolescenziale e allontanamento volontario dalla famiglia, ma il caso Orlandi diventò presto uno dei più oscuri misteri della storia d’Italia. Nel corso delle indagini sono state seguite numerose piste che hanno coinvolto lo Stato Vaticano, l’Istituto per le Opere di Religione (Ior), la Banda della Magliana, il Banco Ambrosiano, il governo italiano e i servizi segreti di diversi paesi. Il suo caso si è intrecciato a quella di un’altra ragazza romana, Mirella Gregori, anche lei quindicenne, che scomparve il 7 maggio 1983. Il 23 giugno il padre sporse denuncia ai carabinieri e i giornali diffusero la notizia della scomparsa. Iniziarono ad arrivare subito delle telefonate, principalmente di sciacalli e mitomani. In seguito però si aprirono diverse piste. Per molti anni non ci sono state novità, fino al luglio del 2005, quando una telefonata anonima alla trasmissione televisiva Chi l’ha visto riaccese l’interesse su una vicenda ormai considerata irrisolvibile. “… Per trovare la soluzione del caso, andate a vedere chi è sepolto nella cripta della Basilica di Sant’Apollinare e del favore che Renatino fece al cardinal Poletti, all’epoca”, disse una voce maschile anonima. Con “Renatino” si riferiva a uno dei capi della Banda della Magliana, Enrico de Pedis. Successivamente si scoprì che in quella tomba – che fu aperta il 14 maggio del 2012 – furono ritrovati i resti di de Pedis ma non della Orlandi. Secondo il fratello Pietro Orlandi, il sequestro è un “proseguimento dell’attentato a Giovanni Paolo II, avvenuto il 31 maggio 1981”, da parte di Mehmet Ali Ağca, un criminale turco responsabile di aver sparato due colpi di pistola contro il Papa. Secondo l’avvocato Nicoletta Piergentili Piromallo, uno dei legali della famiglia Orlandi, Ali Ağca “da tempo continua a ripetere che sa dove è Emanuela Orlandi. Anche solo per fugare dubbi e interrogativi l’ex lupo grigio va ascoltato dalla magistratura italiana che da anni indaga sulla scomparsa della ragazza”. “…stiamo parlando di una inchiesta che va avanti ormai da quasi 32 anni. È evidente che c’è la volontà da parte di qualcuno di non arrivare alla verità: il Vaticano ha ostacolato le indagini senza rispondere alle varie rogatorie e impedendo l’acquisizione di alcune telefonate”, ha detto Pietro Orlandi nel febbraio del 2015, in occasione di una manifestazione davanti al palazzo di Giustizia a Roma con cui si ricordava il caso di Emanuela. Nonostante gli appelli della famiglia, il Vaticano non è mai intervenuto ufficialmente sul caso. Il 5 maggio del 2015 il capo della Procura della Repubblica di Roma, il Giudice Giuseppe Pignatone, ha chiesto l’archiviazione del caso, ritenendo che ormai non possano emergere nuovi elementi sulla vicenda. La famiglia di Orlandi ha lanciato una petizione per impedire l’archiviazione del caso di Emanuela Orlandi e i legali che se ne occupano hanno presentato ricorso, chiedendo di approfondire alcune piste. Finora alcuni esponenti della curia romana, che secondo gli avvocati della famiglia Orlandi potrebbero avere informazioni sul caso, non sono mai stati interrogati. La Procura ha inoltre chiesto l’archiviazione anche per il caso di Mirella Gregori. Alcuni mesi fa, il giornalista dell’Espresso Emiliano Fittipaldi ha pubblicato lunedì 18 settembre 2017 un documento, ricevuto da una fonte interna al Vaticano, che riapre il mistero dietro la scomparsa di Emanuela Orlandi, figlia di un commesso della Casa Pontificia e cittadina dello Stato Vaticano svanita nel nulla la sera del 22 giugno 1983 quando aveva 15 anni. Il caso della sparizione di Orlandi è al centro di un nuovo libro-inchiesta del giornalista intitolato Gli impostori, che uscirà tra qualche giorno. Fittipaldi, che ha già pubblicato una serie di inchieste sulla Santa Sede, non è in grado di provare l’autenticità del documento. Il suo formato sembra compatibile con quello di altre carte ricevute dal giornalista in passato, il suo contenuto è dettagliato e verosimile. Tuttavia, il documento non è protocollato (reca al suo interno una dicitura per cui la mancata protocollatura sarebbe stata esplicitamente richiesta) né sembra rispondere concretamente a numerosi interrogativi, ma il suo contenuto, qualora si trattasse di un documento realmente autentico, conterrebbe rivelazioni davvero incredibili. Il documento sembra mostrare infatti che nel periodo compreso tra il 1983 e il 1997 il Vaticano spese circa 483 milioni di lire per svolgere indagini sulla vicenda di Emanuela Orlandi, per effettuare il trasferimento di una persona nel Regno Unito, per pagare un alloggio in un ostello femminile di Londra e per una serie di visite mediche, alcune di tipo ginecologico. Si tratta di una scoperta molto importante perché il Vaticano ha sempre negato di avere informazioni ulteriori rispetto a quanto già condiviso con i giudici italiani che hanno condotto le indagini in questi ultimi trentaquattro anni. Ma vediamo in cosa consiste esattamente il documento. Si tratta di una lettera di cinque pagine datata marzo 1998 e firmata dal cardinale Lorenzo Antonetti, allora capo dell’Apsa (l’Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica). Risulta indirizzata ai monsignori Giovanni Battista Re, all’epoca sostituto per gli Affari generali della segreteria di Stato del Vaticano, e Jean-Louis Tauran, a capo della sezione “Rapporti con gli stati” che coadiuva il pontefice. La lettera è intitolata “Resoconto sommario delle spese sostenute dallo stato Città del Vaticano per le attività relative alla cittadina Emanuela Orlandi (Roma 14 gennaio 1968)” e dal suo testo si evince che avrebbe dovuto essere accompagnata da circa 200 pagine di fatture e ricevute che attesterebbero le spese compiute dal Vaticano per la giovane scomparsa, relative al periodo 1983-1997. Tuttavia queste fatture non erano contenute nel fascicolo consegnato a Fittipaldi. Qui sotto l’originale della lettera in possesso del giornalista:

La prima voce di spesa contenuta nel documento riguarda il pagamento di una “fonte investigativa presso Atelier di moda Sorelle Fontana” per 450mila lire. Nella sua ultima telefonata prima di sparire, Emanuela aveva detto alla sorella che le era stato proposto un lavoro come promotrice di prodotti cosmetici mentre si trovava a una sfilata delle stiliste Fontana.

C’è poi una spesa analoga anche per la preparazione di attività investigativa estera e uno “spostamento” per il Regno Unito, costato 4 milioni di lire. La rendicontazione prosegue con il pagamento delle rette di vitto e alloggio presso un ostello della gioventù per ragazze presso un istituto religioso di Londra.

Nella seconda e nella terza pagina, la nota racconta inoltre i costi sostenuti per l’“allontanamento domiciliare” di Emanuela tra febbraio 1985 e febbraio 1988. La lista prosegue con una serie di viaggi a Londra di esponenti della Curia, ma contiene anche una voce che recita “attività investigativa relativa al depistaggio”, spese mediche in ospedali e fatture per specialisti in ginecologia. Vengono poi citati altri due trasferimenti e relative rette di vitto e alloggio.

Una nuova voce che recita “allontanamento domiciliare” si riferisce invece al periodo tra aprile 1993 e luglio 1997. L’elenco si conclude con la spesa per “attività generale e trasferimento presso Stato Città del Vaticano, con relativo disbrigo pratiche finali”, come a significare che la pratica è considerata chiusa.

Indizi che lascerebbero pensare che Emanuela Orlandi non sarebbe stata rapita o uccisa, ma che il Vaticano la avrebbe allontanata da Roma e tenuta nascosta a Londra. Ciò che non è assolutamente chiaro è quale possa essere la ragione per cui ciò sarebbe potuto avvenire, ed è uno dei punti deboli del documento diffuso. Già altre fonti, prima del giornalista Fittipaldi, in occasione del processo denominato “Vatileaks” avevano parlato di un dossier del Vaticano sul caso Emanuela Orlandi, il cui contenuto era ancora sconosciuto. Tra queste, anche la famiglia Orlandi, che a giugno 2017 ha chiesto di riaprire il caso e incontrare il segretario di Stato Parolin per sapere in che modo la Santa Sede aveva seguito la vicenda. Dopo la sua pubblicazione, la Santa Sede ha definito “falso e ridicolo” il documento e l’ex sostituto per gli Affari generali della segreteria di Stato del Vaticano, Giovanni Battista Re, ha negato di aver mai ricevuto una rendicontazione delle spese relativa al caso Emanuela Orlandi. Secondo Fittipaldi, se anche il documento non dovesse essere autentico, testimonierebbe una spaccatura all’interno della Curia. Potrebbe, in particolare, essere stato costruito appositamente dopo il furto di marzo 2014 in un armadio blindato dell’ufficio della Prefettura degli Affari economici del Vaticano, per poi essere consegnato dai ladri insieme ad altri documenti veritieri.

Emanuela Orlandi e il doppio mistero delle ossa. I resti di donna, appena scoperti sotto i pavimenti della Nunziatura del Vaticano, ricordano la scomparsa degli scheletri nella cripta di Sant'Apollinare, nel 2012. Quando si scavò e..., scrive Gianluigi Nuzzi il 18 novembre 2018 su "Panorama". Ossa che riaffiorano all’improvviso e ossa che spariscono misteriosamente, forse per sempre. L’incredibile vicenda dei resti di donna rivenuti il 30 ottobre sotto i pavimenti della Nunziatura del Vaticano in via Po, a Roma, riapre il caso di Emanuela Orlandi, la figlia di un messo pontificio e residente in Vaticano che sparì il 22 giugno 1983 dopo una lezione di flauto traverso all’istituto Ludovico da Victoria, nel complesso immobiliare della basilica di Sant’Apollinare. Con tre domande rimaste per 35 anni senza risposta: chi ha sequestrato Emanuela? Chi e perché l’ha uccisa? E chi ha manomesso ogni indagine aperta in tutti questi anni? L’inchiesta è sempre stata soffocata non solo da silenzi omertosi, ma anche da autentici depistaggi, portati avanti da una variegata compagnia di giro tra mitomani, vecchi arnesi dei servizi segreti, calunniatori, depistatori professionisti. E proprio sulle ossa pende ancora uno degli interrogativi più emblematici di tutta la vicenda: dove sono finiti i 100-110 scheletri che si dovevano trovare proprio in quei sotterranei, ma che sono misteriosamente spariti? Per capirne qualcosa di più, e per scoprirlo, bisogna tornare al 2012: quando si decise di cercare i resti di Emanuela sotto la basilica di Sant’Apollinare, ritenendo che Enrico De Pedis, detto «Renatino», cioè il presunto cassiere della banda della Magliana ucciso da incensurato e amico di ferro del rettore di Sant’Apollinare, fosse non solo sepolto proprio lì sotto, ma anche tra i sequestratori della ragazza che frequentava la stessa chiesa. Siamo così nel maggio del 2012, quando gli agenti della polizia scientifica, armati di torce e guanti, scendono nei sotterranei di Sant’Apollinare. L’eco dei canti delle celebrazioni dalle navate in basilica dei numerari dell’Opus Dei, si fa via via più lontano: è appena percettibile quando i poliziotti scendono gli scalini che portano agli sterminati sotterranei. Gli inquirenti devono individuare rapidamente l’ossario segreto, per cercare il classico ago nel pagliaio: le ossa della povera Emanuela tra cunicoli, stanze murate e pozzi senza fondo. Insomma, un lavoro certosino. Si scopre che ossa e frammenti sono raccolti in casse di zinco accatastate lontano da occhi indiscreti: dietro pareti murate, in fondo a cunicoli e persino calate in pozzi neri. L’attività degli agenti dura settimane ma si rivela, almeno apparentemente, proficua: nel corridoio che porta alla stanza con la tomba mausoleo di De Pedis, e sotto la cripta, denominata «Grotta dei Martiri», spuntano decine di ossa. In particolare, vengono ritrovate 89 cassette e un sacco nero con resti umani murati nel locale di fronte alla tomba di De Pedis, altre 240 nel pozzo sotto la pavimentazione della cripta. In tutto, sono 409 le cassette che finiscono sui tavoli del laboratorio improvvisato sotto la basilica, dove gli agenti in tuta bianca lavorano fianco a fianco con la squadra della dottoressa Cristina Cattaneo, forse l’esperta più accreditata per datare corpi, ossa, estrarre Dna, e che ha seguito importanti storie di cronaca, come l’omicidio di Yara Gambirasio. Ma forse mai un caso così complicato. Per individuare le casse di zinco, la polizia batte palmo a palmo tutta la basilica, partendo dai sottotetti, scoprendo locali nemmeno mappati nelle cartine catastali, per passare alle stanze che ospitano gli organi, sino a sgabuzzini ricavati vicino alle aule, come quello ispezionato vicino all’attuale aula 201: la coincidenza è interessante, perché la stanza si trova a pochi metri dal quarto piano del palazzo adiacente: proprio la vecchia sede dell’istituto Ludovico da Victoria, la scuola di musica dove Emanuela nel 1983 andava a lezione. Per farsi aiutare in questo labirinto, la polizia interroga alcuni dipendenti e gli architetti che avevano seguito i lavori di ristrutturazione, dopo che nel 2002 erano stati progettate opere di risanamento dei sotterranei di Sant’Apollinare. Gli scavi, affidati con gara d’appalto alla ditta Castelli Re, erano partiti nel 2003. Tra i testimoni viene sentito Mario Pontesilli, dipendente della società Icar 99, la ditta incaricata inizialmente di recuperare le casse di zinco, e di raccogliere le ossa e i frammenti.  In tutto, vengono così recuperate 52.188 ossa, da passare al vaglio del Dna per verificare se ci siano anche quelle di Emanuela Orlandi. Una gran parte sono ossa frammentate, imbrattate di terriccio e riposte in 349 casse di zinco, altre invece si presentano pulite e con residui molli, ritrovate in altre 44 casse e corrispondenti agli scheletri di 35 individui, mentre in 16 altre casse ancora si trovano ossa fratturate e inglobate in concrezioni biancastre. Eppure è un lavoro incompleto, tale da determinare le «profonde riserve» della dottoressa Cattaneo, ben evidenziate nella sua consulenza consegnata agli inquirenti. Nella richiesta di archiviazione della Procura di Roma per l’indagine sull’omicidio di Emanuela, si legge che quelle riserve sono dovute «alla mancanza, stando alle testimonianze raccolte e in particolare quella di Matias T., di 100-110 scheletri appartenenti al gruppo ossa pulite».  In pratica, c’è il sospetto se non la certezza che «un cospicuo numero di scheletri» così prosegue il documento «sia stato rimosso in tempi diversi e comunque collocato in cassette poi non riposte in Sant’Apollinare».  Di fronte a questa situazione, però, la Procura decide di non approfondire. Perché? «Occorre evidenziare come proprio la descrizione fatta nella consulenza della tipologia di ossa e di conservazione degli scheletri appartenenti a questo gruppo, rinvenuti in cassette che contenevano anche parti di vestiti e targhette, lascia ipotizzare che anche quelli eventualmente mancanti appartengano a tale tipologia e che siano pertanto datate». La Procura però non è poi davvero così convinta che quei resti non vadano analizzati. Tanto che, almeno in una prima fase, cerca di informarsi se «nel corso dei lavori di risanamento vi fosse stato l’invio di cassette di zinco presso qualche altra struttura ma tale circostanza è stata esclusa». A questo punto, ci si trova in un vicolo cieco. E l’amara conclusione del documento firmato dal procuratore Giuseppe Pignatone è questa: «Non si è potuto ulteriormente approfondire tale eventualità, stanti anche obiettive difficoltà legate a una eventuale ricerca in altri ambienti ecclesiastici, con la quasi certezza di un esito negativo». Insomma, di quegli scheletri non sappiamo niente di più, e mai sapremo la verità. Alcuni operai giurano che c’erano, che li avevano visti; nessuno però si espone, nessuno sa dove siano finiti. Senza alcuna indicazione, provare a cercarli ora sarebbe un’attività dall’esito certamente negativo. Eppure 110 scheletri non sono pochi e l’amarezza nel team che andò a ispezionare la basilica ancora oggi è presente: «Fu un lavoro svolto con grande attenzione» afferma una nostra fonte, che partecipò all’attività «ma rimasto incompleto. Del resto, queste ossa non si possono cercare senza saper dove e a chi bussare». A meno che non saltino fuori un giorno, come è accaduto proprio in via Po, dove gli operai che stavano sistemando la cantina del custode della Nunziatura, sollevando le mattonelle e scavando per poche decine di centimetri hanno ritrovato quella tomba clandestina, conosciuta ora in tutto il mondo.  (Articolo pubblicato nel n° 47 di Panorama in edicola dall'8 novembre 2018)

Emanuela Orlandi: le tappe della sparizione (1983-2017). Dal rapimento il 22 giugno 1983 alle piste seguite che portarono negli anni ad Ali Agça, allo Ior di Marcinkus, alla Banda della Magliana fino alle recenti novità, scrive Edoardo Frittoli il 18 settembre 2017 su "Panorama". Il caso della scomparsa di Emanuela Orlandi tiene in sospeso l'Italia dal 22 giugno del 1983, da quando cioè la quindicenne cittadina vaticana non è più tornata a casa. Nel corso del tempo sono state molte le ipotesi e le teorie più o meno fantasiose che hanno collegato il mistero Orlandi prima all'attentato a Giovanni Paolo II, poi alla banda della Magliana e allo Ior infine a casi di pedofilia. Di questi giorni l'ultima novità: documenti (di cui deve essere ancora provata l'attendibilità) alla base di un libro del giornalista dell'Espresso Emiliano Fittipaldi che ne dimostrerebbero l'essere in vita almeno fino al 1997. Ecco dunque le tappe principali della cronistoria di uno dei gialli più intricati della storia italiana.

22 giugno 1983 - la scomparsa. Emanuela Orlandi, 15 anni, figlia di un funzionario del Vaticano, non fa rientro a casa dopo la lezione pomeridiana di musica. Sono le ore 19,00. L'ultima persona con cui ha un contatto telefonico è la sorella con la quale parla di una proposta di lavoro come promotrice di cosmetici per conto dell'atelier delle Sorelle Fontana che le sarebbe stato offerto quel giorno.

23 giugno 1983. Il padre di Emanuela formalizza la denuncia di scomparsa al commissariato "Trevi". Partono le ricerche.

25 giugno 1983. A casa della famiglia Orlandi giungono le prime telefonate di segnalazione. Tra le molte inattendibili, giunse anche quella del sedicenne Pierluigi, che sosteneva di aver incontrato Emanuela a Campo dei Fiori nel ruolo di promotrice di cosmetici. Fu tenuto in considerazione in quanto la descrizione della ragazza pareva molto dettagliata. Tre giorni dopo fu la volta di tale Mario, titolare di un bar sul tragitto che Emanuela percorreva quasi quotidianamente il quale sosteneva che la giovane gli avesse confidato l'intenzione di allontanarsi volontariamente dalla famiglia. L'ipotesi si rivelerà priva di fondamento. Contemporaneamente il cugino degli Orlandi e agente del Sismi Giulio Gangi si mette sul tracce dei testimoni che avrebbero visto Emanuela parlare nei pressi del Senato con un uomo sceso da una Bmw verde. Rintracciata le vettura, Gangi entra in contatto in un residence con una misteriosa donna che lo congeda freddamente. Poco dopo Gangi scopre che i superiori sono stati avvisati delle sue indagini. Gangi sarà allontanato dal caso ed epurato dai superiori dieci anni dopo i fatti.

5 luglio 1983. Giunge alla Sala Stampa vaticana la prima telefonata di un uomo con accento anglosassone chiamato L'Amerikano. Sostiene per la prima volta il legame tra il rapimento Orlandi e l'attentato a Giovanni Paolo II. La ragazza sarebbe nelle mani dei "Lupi Grigi" per essere scambiata con l'attentatore del Pontefice Ali Agça. Le 16 telefonate anonime non troveranno mai un riscontro reale nelle piste degli inquirenti.

1995. Dai rapporti dell'allora vicecapo del Sisde Vincenzo Parisi emergerebbe la figura di Paul Marcinkus, all'epoca presidente dello Ior, la banca vaticana legata alla vicenda del crack del Banco Ambrosiano e dell'omicidio di Roberto Calvi.

2005. Emerge la pista che legherebbe il rapimento Orlandi alla Banda della Magliana. La ragazza sarebbe stata rapita per ordine di Renato De Pedis, uno dei capi dell'organizzazione criminale su ordine del cardinale Marcinkus. Questa pista sarà indicata dalle testimonianze di Sabrina Minardi, ex moglie del calciatore Bruno Giordano la quale ebbe una relazione proprio con De Pedis. Secondo le testimonianze (rese poco affidabili dalla sua dipendenza dalla cocaina) la Minardi avrebbe confermato il coinvolgimento di De Pedis come esecutore e di Marcinkus come mandante. Emanuela non sarebbe stata uccisa subito bensì rinchiusa nei sotterranei di un appartamento del quartiere Monteverde Nuovo. Attendibile fu l'indicazione della Minardi che portò al ritrovamento della Bmw usata per il trasferimento della Orlandi, appartenuta a due personaggi effettivamente legati alla Banda della Magliana e al caso Calvi.

2011. Antonio Mancini, criminale pentito della banda della Magliana conferma ai giornalisti il coinvolgimento della banda, che avrebbe rapito Emanuela per ricattare lo Ior di Marcinkus in quanto reo di avere "bruciato" soldi delle attività illecite dell'organizzazione criminale nel crack del Banco Ambrosiano. Il fatto che De Pedis sia stato seppellito nella basilica di Sant'Apoliinare dimostrerebbe il ruolo di mediatore che il capo della banda ebbe nella restituzione del denaro del Banco Ambrosiano.

2012. È la volta della pista della pedofilia, aperta dal capo degli esorcisti americani Gabriele Amorth. Il prelato sostenne che Emanuela sarebbe stata coinvolta in un giro di festini a base di droga e sesso organizzati in Vaticano che avrebbero riguardato laici e prelati altolocati. Sarebbe rimasta uccisa accidentalmente ed il suo cadavere occultato. 

2014. Legata al caso Vatileaks è la vicenda della cassaforte svaligiata in Vaticano il 30 marzo contenente documenti amministrativi relativi alle spese dell'Apsa (Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica). Poco dopo il furto i documenti della cassaforte saranno restituiti in un plico.

Settembre 2017. Inizia a farsi strada l'ipotesi che Emanuela Orlandi sia rimasta in vita almeno sino al 1997, in quanto uno dei documenti amministrativi stilati in quell'anno fa specifica menzione alle spese sostenute per le "attività relative alla cittadina Emanuela Orlandi".

Pino Nicotri, "Emanuela Orlandi. La verità". Una messinscena durata venticinque anni, scrive Valeria Merlini il 5 giugno 2012 su "Panorama". La riapertura del caso di Emanuela Orlandi, con l’indagine a carico di Don Piero Vergari, sembra gettare nuove ombre su un’inchiesta tutt’altro che chiusa. Pino Nicotri fa il punto della situazione dopo le scottanti notizie di questi ultimi giorni e si riaprono le pagine del suo libro "Emanuela Orlandi. La verità " (Dalai editore). Nel caso di Emanuela Orlandi ci sono stati vari elementi che fanno capire che si tratta di una brutta storia, come tutti la conosciamo. Anche in questo caso, come spesso emerge dalle cronache, lo zio materno Mario Meneguzzi è stato sospettato dai magistrati. Mentre un giorno si trovava con l’agente del Sisde Giulio Gange, amico di famiglia al quale era stato chiesto aiuto per capire cosa fosse successo, l’agente da bravo poliziotto si accorge che lo zio è seguito da una macchina, quindi lo avverte salvo poi scoprire che si trattava di un’auto della polizia. Per quale motivo lo zio era pedinato? Anche se i sospetti si sono poi rivelati infondati, senza conseguenze a suo carico, non sarebbe stato male proseguire le indagini che erano iniziate a carico del Meneguzzi. In particolare, l’avvio delle indagini pare fosse partito in seguito all’ascolto di una registrazione di una conversazione telefonica tra lo zio e quelli che si spacciavano per i rapitori della nipote, in cui il Meneguzzi parla quasi senza coinvolgimento o pathos, cosa che aveva colpito molto i magistrati. Ma il dato curioso e molto indicativo per Nicotri è che a lanciare il primo allarme per la scomparsa di Emanuela sia stato Papa Wojtylain persona. Emanuela scompare il 22 giugno 1983 di sera, e i magistrati e gli inquirenti sono inizialmente convinti che si tratti di una scappatella amorosa o dettata dalla noia (in Italia ogni anno migliaia di minorenni scappano da casa, salvo poi per fortuna ritornano quasi tutti; quell’anno nel Lazio c’erano stati una settantina di casi simili). Improvvisamente il Papa la domenica del 3 luglio durante la preghiera dell’Angelus lancia un appello a coloro i quali abbiano una qualche responsabilità nel mancato rientro a casa della giovane Emanuela Orlandi. La cosa straordinaria è che il Papa è il primo che adombra un sequestro. Il Papa lo fa senza motivo, non c’era nulla che facesse sospettare, i genitori stessi sono stati presi alla sprovvista da quell’appello, racconta il papà di Emanuela, Ercole Orlandi. Ancor più alla sprovvista sono stati presi gli inquirenti e i magistrati. A questo punto l’autore chiede una riflessione: se Emanuela fosse stata davvero rapita, come il Papa ha dato ad intendere, cosa avrebbero fatto i rapitori una volta che il Papa lancia questa notizia terribile che ovviamente avrebbe scatenato polizia, carabinieri e servizi segreti non solo italiani, come in effetti è successo? Cosa avrebbero fatto i rapitori in questo caso, sapendo di non avere più scampo? O si sarebbero liberati dell’ostaggio lasciandolo andare o eliminandolo. Come è noto Emanuela Orlandi non è mai tornata a casa. Possiamo allora pensare che il Papa abbia scientemente fatto un atto che la condannava a morte? Non possiamo spingerci a tanto. Tanto più che il Papa ha fatto poi altri sette appelli e Pino Nicotri non vuole pensare che per un atto di buonismo il Papa abbia messo a repentaglio la giovane vita della ragazza. Quindi l’unica cosa dignitosa e rispettosa verso la figura del Papa è che già sapesse che Emanuela Orlandi non poteva avere più alcun danno da questi appelli perché ormai era morta. Ci sono poi una serie di casi aggiuntivi sbalorditivi. Che il Vaticano sapesse lo ha dimostrato Monsignor Francesco Salerno, che a quell’epoca si occupava del denaro del Vaticano. Monsignor Salerno interrogato dai magistrati italiani testimonia per iscritto che gli risultava che la segreteria di stato del Vaticano avesse un dossier probabilmente risolutivo sul caso Orlandi. Esiste anche un’intercettazione telefonica dell’autotelefono che possedeva l’ingegnere Raul Bonarelli, vice capo della vigilanza del Vaticano (quindi non terrorista turco, lupo grigio o banda della Magliana), in cui il giorno prima di essere interrogato come testimone dai magistrati riceve una telefonata dal Vaticano da parte di Monsignor Bertani, Cappellano di Sua Santità. Monsignor Bertani "consiglia" all’ingegnere di mentire alla deposizione che dovrà sostenere. Cosa che segnala che qualcosa da nascondere c’era… Oltre a Monsignor Bertani, attorno al Papa circolavano strani personaggi, tra cui il suo segretario, il Vescovo irlandese Magee (spedito poi a fare il Primate d’Irlanda ha dovuto dimettersi perché per anni aveva coperto i preti pedofili nella Chiesa). Altra cosa clamorosa che Nicotri scopre scrivendo il libro è che per chiedere di poter interrogare cittadini di uno Stato estero dal Parlamento italiano partono le cosiddette rogatorie internazionali. Rogatorie che quindi partivano per chiedere al Vaticano di poter interrogare alcuni cardinali sul caso Orlandi. Il responsabile dell’Ufficio legale del parlamento Italiano nella figura di colui che spediva le rogatorie internazionali per gli interrogatori era l’avvocato Gianluigi Marroni. Dal Vaticano qualcuno rispondeva negando il permesso agli interrogatori. Chi era questa figura che rispondeva negativamente? Era lo stesso Gianluigi Marrone che andava in Vaticano, si sedeva sulla poltrona di giudice unico del Vaticano (incarico concessogli allora da Nilde Iotti) e rispondeva alle sue stesse richieste di interrogatorio. Chi era poi nell’Ufficio Legale del Parlamento Italiano una delle segretarie di Gianluigi Marroni? Natalina Orlandi, una sorella di Emanuela Orlandi. La stessa Natalina costretta a tacere, a non reclamare mai pubblicamente perché il suo datore di lavoro si mandava delle richieste di interrogatorio a cui, una volta in Vaticano, negava l’autorizzazione al tentativo dei magistrati italiani di vederci chiaro sulla scomparsa della sorella. Insomma, Nicotri dimostra in diciotto punti la responsabilità del Vaticano non si sa se nella scomparsa di Emanuela Orlandi, ma sicuramente nel non voler far sapere cosa sia accaduto. Non si mente, non si tace per venticinque anni così accanitamente per proteggere una guardia svizzera per esempio, ma qualcosa di ben più grave ad un livello più elevato deve per forza essere successo. 

Il libro. I colpi di scena e le piste si susseguono a ritmo crescente, ma il tentativo di addossare la scomparsa di Emanuela Orlandi alla cosiddetta banda della Magliana, e in particolare al suo asserito capo Enrico De Pedis è ormai crollato. Fragorosamente crollato, ove per fragore si intende non solo quello dei mass media improvvisamente scatenati come una muta di cani da caccia sulla preda, ma anche quello dei martelli pneumatici che hanno praticamente demolito i sotterranei della basilica romana di S. Apollinare alla assurda ricerca dei resti della Orlandi come fossero la famosa “"pietra verde". Martelli pneumatici il cui ossessivo baccano pareva l’esplosione della rabbia non dei magistrati, che sapevano bene non avrebbero trovato nulla, ma dei telespettatori da curva sud che confondono l’uomo De Pedis con la figura del Dandy, il cinico protagonista di Romanzo criminale in versione libro, film e serie televisiva. Il tentativo di cambiare improvvisamente canovaccio e far passare per stupratore e assassino don Piero Vergari, l’ex rettore della basilica di S. Apollinare nei cui sotterranei De Pedis dorme il sonno eterno, è un boccone per palati grossi e amanti del macabro. Ma soprattutto destinato a chi è facilmente infiammabile in un’epoca in cui la Chiesa è sommersa dagli scandali per i troppi pedofili nel suo clero. In nessun Paese civile sarebbe stato permesso che un programma televisivo, in questo caso "Chi l’ha visto? ", potesse montare una campagna scandalistica durata ben sette anni basandosi su una telefonata anonima, del settembre 2005, supportata man mano da “supertestimoni”, prove e ricostruzioni fasulle. E in nessun Paese civile la magistratura si sarebbe arresa a una tale campagna fino a violare un intero cimitero antico posto, come costume non solo a Roma, nei sotterranei di una chiesa. "Riguardo al fatto di Emanuela Orlandi, per trovare la soluzione del caso, andate a vedere chi è sepolto nella cripta della Basilica di Sant’Apollinare", ha detto per telefono nel 2005 l’anonimo di "Chi l’ha visto?". La magistratura è andata "a vedere chi è sepolto nella cripta", De Pedis ovviamente, ma "la soluzione del caso" non c'è. Quella telefonata oltre che anonima era anche bugiarda. Come del resto anche le ultime "clamorose rivelazioni".

Emanuela Orlandi, perché dopo 32 anni la Cassazione chiude il caso. La corte ha giudicato inammissibile il ricorso della famiglia della quindicenne scomparsa nel 1983, scrive il 6 maggio 2016 "Panorama". La Cassazione, dopo 32 anni, mette una pietra sull'inchiesta per la scomparsa di Emanuela Orlandi, la quindicenne residente nella città del Vaticano, di cui si sono perse le tracce dal 22 giugno 1983. La sesta sezione penale della Cassazione ha giudicato inammissibile il ricorso della famiglia contro l'archiviazione dell'indagine della procura di Roma. Nell'ottobre scorso il gip aveva respinto l'opposizione, avanzata dai familiari di Emanuela e da quelli Mirella Gregori (scomparsa poche settimane prima), alla richiesta di archiviazione da parte del procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, e dei pm Simona Maisto ed Ilaria Calò. L'inchiesta vedeva sei indagati, tutti in qualche modo legati al bandito della banda della Magliana Enrico De Pedis (ucciso nel 1990): monsignor Pietro Vergari, ex rettore della basilica di Sant'Apollinare, Sergio Virtù, autista di Enrico De Pedis, Angelo Cassani, detto "Ciletto", Gianfranco Cerboni, ("Giggetto"), Sabrina Minardi, già supertestimone dell'inchiesta, e il fotografo Marco Accetti. La proclamata testimone, un ruolo nella scomparsa di Emanuela era stato ricoperto da personaggi di spicco del sodalizio criminale romano. A parlare di un legame tra il caso Orlandi e la banda della Magliana era già stato in passato il pentito Antonio Mancini, che riferì di un depistaggio fatto da De Pedis, uno dei capi della banda sepolto nella Cappella di Sant'Apollinare a Roma proprio in virtù di presunti legami con ambienti vaticani. Tesi smentita, negli anni scorsi, dallo stesso rettore della Basilica. Proprio dietro Sant'Apollinare c'era la scuola di musica frequentata dalla stessa Emanuela, ultimo luogo in cui fu vista la ragazza scomparsa. Contro di loro sia la procura sia il gip hanno ritenuto che non fossero stati raccolti sufficienti elementi probatori. E ora è arrivato il visto della Cassazione. Rimangono pendenti per Accetti, che nelle scorse settimane è stato sottoposto a perizia psichiatrica che l'ha giudicato capace di intendere e volere ed anche di stare in giudizio benché affetto da disturbi della personalità di tipo narcisistico ed istrionico, le accuse di calunnia e autocalunnia.

Emanuela Orlandi: La verità sta in cielo, il film di Roberto Faenza. 5 cose da sapere. Un viaggio tra i torbidi legami tra Vaticano, Stato e criminalità. "Contribuirà ad arrivare a una conclusione": la speranza di Pietro Orlandi, scrive Simona Santoni il 30 settembre 2016 su "Panorama". "La verità è raramente pura e non è mai semplice". Con questa frase di Oscar Wilde si apre La verità sta in cielo, il nuovo lavoro di Roberto Faenza che cerca di districare i sommi intrighi attorno alla sparizione di Emanuela Orlandi, portando a un passo dalla risposta ultima, senza però toccarla. "Ma questo film darà un contributo per arrivare all'ultimo atto, ne sono convinto", dice il fratello di Emanuela, Pietro Orlandi, che sul grande schermo interpreta brevemente se stesso. "Procura e Vaticano prenderanno in considerazione la scena finale, che è eloquente. Lo Stato è sempre stato succube del Vaticano. Di questo film mi piace che mette in evidenza il legame tra Stato, Chiesa e criminalità, di trent'anni fa e tuttora presente". La Cassazione nel maggio 2016 ha archiviato definitivamente l'inchiesta, ma né Orlandi né Faenza ci stanno. Dal 6 ottobre al cinema in almeno 250 copie con 01 Distribution, ecco 5 cose da sapere su La verità sta in cielo di Roberto Faenza.

1) 33 anni dopo a un metro dalla verità. Il 22 giugno 1983 Emanuela Orlandi, ragazzina di 15 anni, cittadina del Vaticano e figlia di un messo pontificio, sparisce nel centro di Roma. Inizia uno dei misteri più fitti della storia italiana, un caso irrisolto che ha implicazioni altissime, quasi "in cielo". Trentatré anni dopo Faenza decide di raccontarlo al cinema, facendo una ricostruzione di fatti, indagini (soprattutto giornalistiche) e depistamenti. Narrato su due piani temporali, gli anni Ottanta e il 2015, affascina nelle ambientazioni passate mentre è un po' didascalico e legnoso nel presente. Ma al di là del suo pregio artistico, La verità sta in cielo è un film utile, che serve a non dimenticare e a pretendere ancora risposte. "Mi sorprende che questa storia così avvincente non sia stata raccontata prima al cinema. Per me era una necessità farlo", dice Faenza, riunitosi insieme a parte del cast di fronte ai giornalisti milanesi. "Il film porta a un metro dalla verità. Manca un metro per arrivarci. La famiglia di Emanuela, e in particolare Pietro, sono stati fondamentali per me, mi hanno messo sulle tracce giuste". Era da molti anni che il regista di Sostiene Pereira e Prendimi l'anima voleva fare questo film, ma non aveva mai trovato i finanziamenti: "Quando è stato proposto a Rai Cinema sono rimasto sorpreso che abbiano avuto il coraggio di produrlo, dando prova del loro essere servizio pubblico. Non mi hanno mai limitato nella libertà o fatto problemi". 

2) Il coraggio delle donne. La verità sta in cielo si apre su quel maledetto 22 giugno 1983. Cabine telefoniche, jeans a vita alta, le targhe con su scritto "ROMA", papa Wojtyła in forma dopo l'attentato. Poi piombiamo nel 2015, lo scandalo di Mafia Capitale porta il capo di una rete televisiva (Shel Shapiro) a mandare una sua giornalista (Maya Sansa) a Roma a indagare di nuovo sul caso Orlandi. Questi sono gli unici personaggi di finzione del film, creati per poter riprender le fila di questa oscura vicenda. È attraverso le indagini ostinate di una redattrice di Chi l'ha visto?, Raffaella Notariale (interpretata da Valentina Lodovini), che Sabrina Minardi (Greta Scarano), ex moglie del calciatore della Lazio Bruno Giordano ma soprattutto compagna del boss Renatino De Pedis (Riccardo Scamarcio), rivela il diretto coinvolgimento di De Pedis nel rapimento di Sara Orlandi. "Credo che le donne siano più coraggiose", afferma Faenza. "Le ultime cose venute fuori sul caso Orlandi sono state ottenute per merito di donne. Il coraggio delle donne in questo film ha molta rilevanza". "Nel film rappresento quella parte d'Italia che non si arrende, che vorrebbe sapere", racconta Lodovini. "Non interpreto un personaggio di finzione ma una donna che per anni ha fatto una scelta e ricevuto anche minacce. Come cittadina mi sento molto grata a chi fa giornalismo d'indagine". 

3) Il potere della banda dei testaccini. Ne La verità sta in cielo sono soprattutto i testaccini guidati da De Pedis a tirare le trame torbide con i poteri alti. "Il film dice che la banda della Magliana come romanzata in libri e tv in realtà non è mai esistita, non aveva il vero potere", spiega Faenza, che ha scritto anche la sceneggiatura. "La vera banda è quella dei testaccini di De Pedis, di cui si sempre parlato meno perché avevano rapporti con senatori e uomini importanti. Se questo film ha un merito, è quello di aver demistificato la banda della Magliana". De Pedis, amico di prelati, politici, rappresentanti dell'alta società, è stato un latitante all'italiana, reperibile. Nel film, tra i suoi nascondigli, lo vediamo anche in un appartamento dei servizi segreti a Villa Borghese. Il suo corpo è stato sepolto fino al 2012 nella Basilica di Sant'Apollinare, nel cuore di Roma, proprio accanto alla scuola di musica frequentata da Emanuela. "In via del Pellegrino (dove è stato ucciso De Pedis, ndr) non volevano che girassimo perché ancora ci sono tanti amici di De Pedis", ricorda Faenza. "Un uomo ci ha detto: 'Era tanto un bravo ragazzo. Quando mi han rubato il motorino sono andato da lui, non dalla polizia, e me l'ha fatto riavere'". 

4) Rapporto torbido tra Vaticano, Stato, malavita. "C'è un legame tra esponenti della malavita e cardinali, specie monsignor Marcinkus (interpretato da Randall Paul, ndr), che sono legami tremendi, inconfessabili che nel film sollevano verità talmente terribili che sono sicuro scateneranno una infinità di polemiche", sostiene Faenza. "I prelati sono più vicini all'inferno che al paradiso", è una delle frasi del film. La sparizione di Emanuela Orlandi è anticipata da quella di Mirella Gregori e passa tra le macchinazioni dello Ior, la morte di Roberto Calvi (Anthony Souter), la malavita organizzata. 

5) Il finale e le speranza deluse da Papa Francesco. Nella scena finale (arresti qui la lettura chi vuole evitare lo spoiler) assistiamo a un incontro inquietante e a una promessa segreta. Un cardinale chiede a un procuratore che intervenga per spostare il corpo di De Pedis da Sant'Apollinare, macchia che riempie di vergogna la Chiesa. In cambio promette... il fascicolo sul caso Orlandi con le verità a conoscenza del Vaticano. Il corpo di De Pedis è stato trasferito. Il fascicolo è ancora secretato in Vaticano. "La scena finale è reale, non è una supposizione", dice Pietro Orlandi. "Chi finora ha detto di non saper nulla spero che darà risposte". Pietro, le cui figlie proprio in questi giorni hanno fatto parlare di sé partecipando alle audizioni di X-Factor, ha riposto inizialmente speranza in Papa Francesco. Quando l'ha incontrato, all'inizio del suo pontificato, gli ha detto: "Emanuela sta in cielo". "Quella frase mi ha fatto male", racconta Pietro. "Ho però sperato che si arrivasse a una conclusione, ma invece si è alzato un muro. Non ho più avuto alcuna risposta".

Papa Francesco: "C'è corruzione in Vaticano. Ma io sono in pace". E sugli abusi sessuali spiega: "Se non siamo convinti che questa è una malattia, non si potrà risolvere il problema", scrive il 9 febbraio 2017 "Panorama". "C'è corruzione in Vaticano. Ma io sono in pace. Se c'è un problema, io scrivo un biglietto a S.Giuseppe e lo metto sotto una statuetta che ho in camera mia". Lo afferma il Papa in un'intervista alla Civilità cattolica, pubblicata dal Corriere della Sera. Sugli abusi sessuali, spiega: "Se sono coinvolti religiosi, è chiaro che è in azione la presenza del diavolo che rovina l'opera di Gesù, tramite colui che doveva annunciare Gesù. Ma parliamoci chiaro: questa è una malattia. Se non siamo convinti che questa e' una malattia, non si potrà risolvere bene il problema".

Caso Orlandi, perché la "nota spese" della Santa Sede è falsa. Il dossier del giornalista Emiliano Fittipaldi riaccende l'attenzione sulla misteriosa sparizione. Ma il documento è scritto da qualcuno ignaro delle procedure in vigore in Vaticano, scrive Orazio La Rocca il 20 settembre 2017 su "Panorama". Può un documento apparentemente fasullo, più simile a una "patacca" che a uno scritto autentico, contribuire a fare chiarezza su un caso misterioso come la scomparsa di Emanuela Orlandi, la quindicenne cittadina vaticana sparita nel nulla il 22 giugno 1983? Anche se sembra un paradosso, la risposta forse potrebbe essere affermativa. Per il semplice fatto che è comunque buona cosa accendere i fari (e l'attenzione della stampa di tutto il mondo) su un testo che, pur facendo acqua da tutte le parti, ha ridestato l'interesse su una vicenda che, a 34 anni di distanza, è ancora avvolta nel mistero e corre seri rischi di essere gettata nel dimenticatoio.

La "nota spese" della Santa Sede per Emanuela Orlandi. Il documento in questione fa parte di un fantomatico dossier pubblicato nel libro Gli impostori - Inchiesta sul potere (edito da Feltrinelli) in uscita il 22 settembre, scritto da Emiliano Fittipaldi, giornalista del settimanale L'Espresso. Qui si fa riferimento a una presunta lettera datata 28 marzo 1998, recante il nome dattiloscritto del cardinale Lorenzo Antonetti, che in qualità di presidente dell'Apsa (Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica) presenta una sorta di nota spese sostenute dalla Santa Sede per il "mantenimento" all'estero di Emanuela Orlandi dal giorno del rapimento fino al 1997; una  considerevole somma di circa 500 milioni di lire per il sostentamento della ragazza, comprensivo persino di visite mediche e di un ricovero in una clinica inglese. Destinatari, la Segreteria di Stato nella persona dell'allora Sostituto (sorta di "ministro" degli Interni), il vescovo Giovanni Battista Re, e, per conoscenza, il ministro degli Esteri del Vaticano, il vescovo francese Jean-Louis Tauran. Entrambi futuri cardinali che, però, hanno immediatamente smentito di aver "mai letto e ricevuto una lettera simile". Smentite rilanciate anche dal portavoce papale Greg Burke - che parla di documentazione "falsa e ridicola" -, dalla stessa Segreteria di Stato e dall'arcivescovo Angelo Becciu, attuale "ministro" degli Interni del Vaticano, che avverte: "C'è poco da dire, è falso e basta. Un falso strano, tra l'altro basta vedere lo stile".

Ecco perché la "nota spese" è falsa e sa di fantapolitica. Basta infatti gettare un rapido sguardo al documento pubblicato ne Gli impostori per vedere che è stato scritto da qualcuno non certamente a conoscenza delle procedure e dello stile in vigore Oltretevere. Immaginare, ad esempio, che l'Apsa, che tra l'altro è la banca centrale della Santa Sede (mentre lo Ior, l'Istituto per le Opere di Religione, è lo “sportello” operativo solo Oltretevere), possa battere cassa alla Segreteria di Stato sa di fantapolitica. Come è impossibile che un cardinale (il defunto Lorenzo Antonetti) abbia commesso grossolani errori rivolgendosi all'allora arcivescovo Re chiamandolo “Sua Riverita Eccellenza”, mentre è prassi consolidata che la formula esatta è invece “Eccellenza reverendissima”. Oppure che abbia chiamato il vescovo francese Jean-Louis Tauran col nome spagnolo Luis. Errori certamente non ascrivibili al cardinale Antonetti (che per altro nel documento, privo di numero di protocollo, timbri, sigla della Santa Sede, non appare con la firma ma solo con nome e cognome dattiloscritti).

Nuovi "corvi" all'opera ai danni del papa? Il primo ad avanzare dubbi sul documento è lo stesso Fittipaldi, che prudentemente dice che "se non fosse vero" dimostrerebbe che in Vaticano starebbero ancora tramando bande di "corvi" ai danni del papa come già avvenuto con Benedetto XVI e Giovanni Paolo II. A detta del giornalista, il dossier proverrebbe dall'archivio di Lucio Vallejo Balda, il monsignore spagnolo segretario dell'ex Cosea (la commissione sulle riforme economiche vaticane istituita da papa Francesco) condannato insieme a Francesca Chaoqui, esponente della stessa Cosea, con l'accusa di aver trafugato i documenti che hanno dato vita nel 2015 alla cosiddetta Vatealiks 2. Dopo che monsignor Balda è stato trasferito in Spagna con quattro anni di condanna sulle spalle, ci sono ancora altri "corvi" in Vaticano pronti a tradire la Santa Sede, papa in testa? Può darsi, anche perché in tutti gli archivi dei dicasteri pontifici quasi ogni giorno vengono ammucchiati documenti falsi, lettere minatorie, testi apocrifi, anche presunte lettere encicliche (ai tempi di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI ce ne furono diverse, ma quasi sempre smascherate in tempo). E i quattro anni e mezzo di pontificato bergogliano non rappresentano certamente un'eccezione.

Non dimentichiamo Emanuela Orlandi. Peccato che i documenti falsi non aiutino ad arrivare alla verità su Emanuela Orlandi. Ma è sempre bene che, pur a 34 anni di distanza, non ci si dimentichi mai che una ragazzina di 15 anni la sera del 22 giugno 1983 non tornò a casa e che i suoi cari finora non hanno mai perso la speranza di rivederla. Anche solo per parlare di presunte false lettere.

35 anni di depistaggi: è la fine del mistero Orlandi? Intorno alla sparizione di Emanuela, il 22 giugno 1983, di confusione ce n’è stata tantissima, sin dai primi giorni, scrive Paolo Delgado l'1 Novembre 2018 su "Il Dubbio". A Roma si dice “caciara”. Vuol dire confusione, trambusto, chiasso assordante. Intorno alla sparizione di Emanuela Orlandi, il 22 giugno 1983, di caciara ce n’è stata tantissima, sin dai primi giorni. Un polverone fittissimo, una sagra dei depistaggi, delle rivelazioni clamorose ma traballanti e sempre prive di conferme, delle ricostruzioni ardite basate però su sabbie mobili. Nel corso dei decenni nel “caso Orlandi” c’è passato di tutto: l’attentato al papa Giovanni Paolo del 1981 e l’attentatore Ali Agca, i Lupi grigi turchi e i servizi segreti dell’est, la banda della Magliana e il Banco ambrosiano di Roberto Calvi l’appeso, fior di cardinali tra cui l’allora assessore agli Affari generali della segreteria di Stato vaticana Re e l’immancabile Paul Marcinkus, presidente dello Ior, la banca vaticana. Dire pezzi da 90 è ancora poco. Anche se la sparizione di quella ragazzina quindicenne ha tenuto banco per decenni sulle prime pagine dei giornali e in decine di programmi tv la realtà è che se ne sa pochissimo e quel poco che si dà spesso per acquisito è invece incerto. C’è stato davvero un sequestro, un rapimento finalizzato a chissà quale scopo? Nulla lo prova. Esiste davvero una connessione tra la scomparsa della cittadina vaticana, figlia di un funzionario della Santa Sede, che quella sera stava tornando a casa dalla lezione di musica a un passo dal Senato col suo flauto in borsa e quella di Mirella Gregori, figlia di un barista, scesa in strada per parlare con un mai individuato “amico” meno di due mesi prima e mai più ricomparsa? Impossibile dirlo. E’ un’ipotesi ma frutto forse solo della suggestione. Le due ragazze avevano la stessa età, sono svanite misteriosamente nell’arco di poche settimane, alcune telefonate dei presunti rapitori avevano collegato i due casi, ma erano impostori. Troppo poco per dirsi sicuri del nesso. La sera di quel 22 giugno Emanuela aspettava l’autobus con due amiche in Corso Rinascimento, di fronte palazzo Madama. Però all’ultimo momento scelse di non salire: «Troppo affollato, aspetto il prossimo». Con la testa la ragazza quella sera stava altrove. Uno sconosciuto la aveva abbordata, le aveva proposto un lavoretto ben remunerato, pubblicizzare cosmetici durante una sfilata delle Sorelle Fontana. Era tentata, ne aveva già parlato al telefono con la sorella che l’aveva però sconsigliata, poi con le amiche, altrettanto contrarie e sospettose. Avevano ragione loro. La ditta di cosmetici in questione di quell’offerta non sapeva niente. In compenso da quelle parti girava da un pezzo un tipo furbo che rimorchiava ragazze e ragazzine con quella promessa a fare da esca. Nei giorni successivi, quando la notizia corredata da foto era già sui principali quotidiani della capitale arrivano due telefonate, un ragazzo, “Pierluigi” e un uomo, “Mario”: il primo fornisce elementi credibili. Raccontano in telefonate distinte di aver visto la ragazza insieme a un’amica. “Mario” assicura che Emanuela se n’è andata volontariamente ma col progetto di tornare per il matrimonio della sorella. Nessuno li individua. Nessuno li trova. Il caso esplode il 3 luglio, quando è il papa in persona a parlarne rivolgendosi ai rapitori, durante l’Angelus. La giostra inizia a girare vorticosamente solo in quel momento. Arrivano a raffica telefonate con richieste di scambio tra la ragazza e Alì Agca, il ‘ lupo grigio’ che aveva sparato al papa. A chiamare è per 16 volte un uomo con marcato accento anglosassone, ma si fa sentire, meno spesso, anche un mediorientale. Fanno ritrovare nastri con una voce disperata che chiede aiuto. Ma non è Emanuela: è la registrazione di un film. Ancora nel novembre 1984 i Lupi grigi insistono e assicurano di avere nelle loro mani entrambe le ragazze. L’affare monta, inevitabilmente si intreccia con le ombre addensate su Marcinkus, rinvia allo scandalo del banco Ambrosiano e all’uccisione di Roberto Calvi. Ma sono fantasie. Le telefonate dei Lupi grigi sono in realtà orchestrate dalla Stasi tedesca e servono a confondere le acque per stornare dai servizi segreti i sospetti di aver organizzato l’attentato al papa. Di elementi che autorizzino a ipotizzare qualche collegamento tra la bambina romana e il banchiere impiccato sotto il ponte dei Frati neri a Londra non ce ne sono. Nel XXI secolo Emanuela Orlandi torna al centro delle cronache grazie a una telefonata, anche questa anonima, che arriva al programma di Raitre Chi l’ha visto?. Suggerisce di «andare a vedere chi è sepolto nella basicilica di sant’Apollinare a Roma e allude a un “favore” fatto da Enrico De Pedis, “Renatino” uno dei capi della Banda della Magliana ucciso nel 1990, al cardinal Poletti. Che a Sant’Apollinare sia sepolto tra santi e papi proprio lui, il temuto Renatino, lo sanno tutti e quando, sette anni dopo, la tomba verrà aperta saranno ritrovati solo i resti del bandito. Nel frattempo però si è scatena- ta una corsa in massa alla rivelazione. Antonio Mancini, “Accattone”, altro bandito della Magliana, ricorda di aver riconosciuto nel “Mario” che aveva telefonato subito dopo la scomparsa un bandito detto “Rufetto”, sodale appunto di Renatino. Ancora qualche anno e “Accattone” precisa: a rapire la ragazza era stata la banda, per farsi restituire dallo Ior i soldi investiti dai criminaloni attraverso l’Ambrosiano. A chiamare in causa Renatino era stata anche una sua ex amante, Sabrina Minardi, ex moglie di un calciatore della Lazio, Bruno Giordano. La donna è palesemente un po’ sbroccata. Confonde le date e squaderna ricostruzioni inverosimili ma dà anche indicazioni reali. E’ lei a far scoprire l’immensa grotta sotterranea a cui si accede dall’appartamento di una sua amica, Daniela Mobili, nella quale sarebbe stata tenuta segregata Emanuela prima di essere uccisa dallo stesso Renatino. E la Bmw sulla quale, secondo l’improbabile teste, l’autista di Renatino, “Sergio”, avrebbe caricato la ragazza, portata al Gianicolo già drogata dalla governante della Mobili. Ma non parla solo la Magliana. Si affaccia il lupo grigio in persona, Alì Agca: rapimento per conto del vaticano, anzi no corregge cinque anni dopo, a opera della Cia. Comunque «è viva e tornerà». Si affaccia padre Anorth, esorcista principe del Vaticano: Emanuela è morta nel corso di un festino a base di droga e sesso. Conferma due anni dopo il pentito di mafia Calcara, a cui un non meglio precisato boss avrebbe rivelato che la ragazza era finita male nel corso di un festino e le spoglie erano state occultate in Vaticano. Di sfuggita spunta un agente del Sismi: «È viva, sedata in un manicomio in Inghilterra». Impossibile dire quante di queste rivelazioni, mai supportate da elementi concreti, arrivino da mitomani, quante rispondano a logiche che con il caso Orlandi in sé non hanno nulla a che vedere, come il depistaggio organizzato negli anni ‘ 80 dalla Ddr, e quanto invece la confusione avesse il preciso obiettivo di rendere impossibile orizzontarsi, coprendo così i veri responsabili del fattaccio. Forse l’elemento più inquietante, proprio per la sua distanza dall’affaire internazionale che è stato ipotizzato e raccontato per decenni, arrivò dall’avvocato della famiglia Orlandi Gennaro Egidio che raccontò a Pino Nicotri, il giornalista che più e meglio di tutti si è occupato del caso: «I motivi della scomparsa ella ragazza sono molto più banali di quello che si è fatto credere. Il rapimento, il sequestro per essere scambiata con Agca? Ma no. La verità è molto più semplice, anzi, ripeto, è banale. Ma non per questo meno amara». Peccato che l’avvocato sia morto prima di poter spiegare le sue sibilline parole, anche se l’avvocato sospettava il coinvolgimento di una parente di Emanuela. Ma se tra una settimana l’esame del dna dovesse dire che le ossa ritrovate nella Nunziatura di via Po sono quelle della quindicenne scomparsa 35 anni fa il coinvolgimento di qualche pezzo grosso del Vaticano diventerebbe di fatto certo, e la “caciara” di questi decenni si rivelerebbe tutt’altro che casuale.

Servizi, Ior e Mafia: il caso Orlandi è il “complotto perfetto”. Il mistero della ragazza scomparsa nel 1983 forse vicino alla soluzione. Lunedì i risultati del dna sulle ossa trovate in Nunziatura, scrive il 3 Novembre 2018 "Il Dubbio". Per capire se quelle ossa sono davvero di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, bisognerà ancora attendere i tempi tecnici necessari alle perizie. Dicono dai sette ai dieci giorni. Ma qualcuno sostiene che dieci giorni siano un tempo abbastanza inspiegabile, per avere degli esiti che normalmente si hanno nella metà del tempo. Ma di “congetture”, in questo pezzo, ne metteremo già tante, quindi questa ce la risparmiamo. Una cosa però già si sa. Anzi, due. Le ossa, che sarebbero state trovate in due punti diversi dello stesso ambiente, un appartamento in ristrutturazione all’interno di Villa Giorgina, sede della Nunziatura Apostolica a Roma, appartengono a due corpi. Almeno uno di questi è una donna, conclusione a cui si può arrivare grazie ad una prima, sommaria, analisi del bacino. E secondo indiscrezioni, sarebbero ossa di corpi non ancora adulti. Non ci sarà ancora la conferma definitiva, quindi, ma ce n’è abbastanza per lasciarsi suggestionare dall’ipotesi che sì, quelle ossa potrebbero essere di Emanuela e Mirella. O di una delle due. E questo anche escludendo quello che sembra sia un equivoco delle ultime ore, riguardante Don Pietro Vergari, il sacerdote indagato in passato per la vicenda Orlandi, per essere stato colui che si fece promotore della sepoltura in Sant’Apollinare di Renatino De Pedis, uno dei capi della banda della Magliana. Ai tempi, indagando sul legame fra la criminalità romana e la scomparsa di Emanuela, saltò fuori il suo nome, ma la posizione del sacerdote venne poi archiviata. La figura di Don Vergari, nelle ore immediatamente successive al ritrovamento delle ossa a Villa Giorgina è stata nuovamente rievocata, perché si diceva avesse lavorato proprio alla Nunziatura Apostolica, anche se in un periodo successivo alla scomparsa di Emanuela. Tuttavia, dopo alcune ricerche, sembrerebbe che in realtà il sacerdote abbia prestato la sua opera pastorale presso la Penitenzeria Apostolica, allora guidata dall’arcivescovo francescano Gianfranco Girotti, e non alla Nunziatura. E sarebbe stato proprio lavorando a Regina Coeli che Don Vergari avrebbe conosciuto De Pedis. Chiarito questo aspetto, rimane la domanda iniziale: se fossero di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, quelle ossa? Intanto sarebbe interessante capire da quanto tempo si trovavano a Villa Giorgina. Da sempre? Oppure solo da poco? Sono state ritrovate casualmente oppure qualcuno ha voluto che fossero trovate? E nel caso della seconda ipotesi, chi e perché ha voluto farle trovare, proprio ora e proprio in un immobile di proprietà del Vaticano? Prima di tutto va fatta una considerazione: tutti i personaggi di grosso calibro, coinvolti da inchieste e indagini, nella scomparsa di Emanuela Orlandi, sono morti. E’ morto il cardinale Marcinkus, deus ex machina dello Ior. E’ morto, e sappiamo come, anche Roberto Calvi. E’ morto e sepolto, come già detto, anche Renatino De Pedis. E visto che nello storytelling di questa vicenda non ci siamo fatti mancare neppure la mafia, sono morti anche entrambi i dominus mafiosi del tempo, cioè Riina e Provenzano. Chiunque potesse sapere qualcosa, sulla scorta di ciò su cui si è indagato, è già passato a miglior vita. A parte Pippo Calò, il cassiere della mafia, che sta al 41 bis e che vorrebbe incontrare la famiglia Orlandi. Una richiesta fin qui negata dalle Istituzioni. Insomma, chiunque potesse sapere qualcosa o è morto o non è a piede libero. Ma ne siamo certi? Se invece qualcuno che sa e può dimostrare di sapere, calcasse ancora liberamente questa terra? E se magari, questo qualcuno, per motivi da scoprire, avesse fatto sapere a qualcun altro in Vaticano della sua esistenza, chiedendo qualcosa? Visto che abbiamo tirato in ballo la mafia, facciamo un esempio mafioso: quando si chiede il pizzo ad un negoziante, lo si fa all’inizio con le buone, in maniera anche conciliante. Poi, se il commerciante non si piega al racket, si passa alle minacce. E prima di mettere bombe al negozio, si lascia davanti alla saracinesca una bottiglia con dentro della benzina. Intimidazione. E se queste ossa fossero una bottiglia piena di benzina, lasciate su una delle tante porte del Vaticano? Se fossero un’intimidazione? Congetture e suggestioni, che oggi lasciano il tempo che trovano. Ma che magari, fra dieci giorni, avranno una sostanza e soprattutto una prospettiva diversa.

Era un giallo “normale”… Poi diventò un affare di Stato (Vaticano). La scomparsa di Emanuela Orlandi, da Marcinkus alla banda della Magliana, una storia di misteri e depistaggi sullo sfondo delle nuove rivelazioni del libro di Fittipaldi pubblicate dall’Espresso, scrive Paolo Delgado il 19 Settembre 2017 su "Il Dubbio".

C’è il terrorismo internazionale: l’attentato al papa, i Lupi grigi, la guerra santa del Papa guerriero ( e polacco) contro l’idra rossa, la Stasi che s’impiccia e depista per stornare gli sguardi dallo zampino di Bucarest nell’attentato del lupo Alì. C’è il nido di vespe finanziarie che ruotava intorno al Ior, con di mezzo il chiacchieratissimo banchiere di Dio Paul Marcinkus, il banco Ambrosiano, la loggia più famosa del mondo e di conseguenza qualche ombra sinistra, quella dei Frati Neri con il loro bravo impiccato, quella dell’attentato in cui al posto della vittima predestinata finì ammazzato il killer, nonché boss della Magliana Danilo Abbruciati.

E c’è la "bandaccia" naturalmente, tirata in mezzo dal pentito Antonio "l’Accattone" Mancini ma anche da Sabrina Minardi, ex moglie del calciatore dal piede dorato Bruno Giordano, ex amante o sedicente tale di ‘ Renatino’ De Pedis, il boss ripulito ammazzato in mezzo alla strada in pieno giorno, a Campo de’ Fiori, nel 1990 e destinato poi a riposare, sino alla recente cremazione, nella basilica di sant’Apollinare, con papi e santi ma per la verità anche con gente di meno nobili natali e senz’aureole di sorta. Testimoni discutibili, che non lesinano strafalcioni ma che, specie la Minardi, ogni tanto qualche riscontro lo hanno portato. Entrambi addossano al sepolto in sant’Apollinare la responsabilità del ratto senza specificarne però in modo sia pur minimamente convincente il movente.

C’è l’ombra perversa di festini a base di adolescenti ancora quasi bimbe per prelati porconi e fatali incidenti, e non è neppure tutto. Grotte sotterranee che permettono di deambulare sotto la Capitale, sussurri di salme accumulate nei ridenti giardini del Vaticano, legami ipotizzati pur se mai provati con altre scomparse misteriose, a partire da quella di un’altra ragazzina, Mirella Gregori, un mese e mezzo prima della sparizione della Orlandi. Materiale che al confronto I Misteri di Parigi vagheggiati da Eugene Sue sembrano segretucci da educande.

Il caso Orlandi è il vero grande giallo italiano. Lo resterebbe anche se, come sostiene il giornalista che più di ogni altro è andato a fondo nel fattaccio, Pino Nicotri, tutto questo clamore che da quasi 35 anni non si attenua fosse solo frutto di una perversa spirale mediatica, uno show troppo ghiotto, con audience troppo malata e rinnovatasi nel tempo per essere abbandonato. Perché anche in quel caso la somma di depistaggi, interferenze, intrecci poco districabili di bugie e verità basterebbero a rendere quella scomparsa l’evento forse più clamoroso nella storia criminale della Capitale e del Paese tutto. Le ultime a vedere viva Emanuela Orlandi, 16 anni non ancora compiuti, furono due compagne di corso nella scuola di musica di sant’Apollinare dove la ragazza faceva, pare, mirabili progressi con il flauto. Si incontrarono alla fermata dell’autobus di fronte al Senato intorno alle 19 del 22 giugno 1983. Emanuela raccontò di una allettante proposta di lavoro: 350mila lire per pubblicizzare una linea di prodotti di bellezza. Le suggerirono di stare in campana. Promise di decidere solo dopo aver chiesto il permesso a casa e in effetti telefonò alla sorella che le suggerì di aspettare e parlarne con i genitori. Poi le tre amiche si separarono e da quel momento di Emanuela non si è più saputo niente.

Era una ragazza tutta casa, scuola e Chiesa, dissero parenti e amici, impossibile sospettare qualche frequentazione equivoca. Quasi vent’anni dopo l’avvocato della famiglia, Gennaro Egidio, smentì: «I motivi della scomparsa sono molto più banali di quello che si è fatto credere. Contrariamente alle dichiarazioni dei familiari, Emanuela di libertà ne aveva molta». Le nuove indagini confermarono: Emanuela era una ragazza normale. Le capitava di saltare la scuola e firmarsi la giustificazione da sola. Tra i ragazzi un po’ più grandi che frequentava ce n’erano alcuni che usavano stupefacenti, o che andavano a rimorchio di ragazze per le strade da quel punto di vista ottimamente frequentate intorno al Vaticano, a uno era capitato pure di prostituirsi. Secondo il legale sarebbe stato casomai opportuno scandagliare meglio il giro di amicizie dalla zia paterna. Egidio promise a Nicotri di dire qualcosa in più su quelle frequentazioni di zia Anna a breve, ma era malato e spirò prima di farlo. Nulla di speciale, se non, forse, che l’identikit alla santa Maria Goretti ostacolò forse sul momento la pista più ovvia, quella di un rimorchio da parte dello sconosciuto che offriva soldi facili e soprattutto visibilità patinata finito in tragedia. Fu infatti facile appurare che non c’era nessuna ricerca di volti nuovi da parte di quella società di cosmetici e che, in compenso, il marpione e forse peggio aveva già provato ad adescare fanciulle in quel modo, e nella stessa zona, altre volte.

A rendere il caso qualcosa in più che non uno dei tanti casi di ragazze sparite che costellano da decenni le puntate di Chi l’ha visto? fu il papa in persona. Emanuela era cittadina vaticana e appena dieci giorni dopo, il 3 luglio, durante l’Angelus, Giovanni Paolo II lanciò un appello ai rapitori. Ne seguirono altri 7. Fu quell’appello a evocare la tempesta o si sarebbe prodotta comunque? Difficile, anzi impossibile dirlo. Di fatto, appena due giorni dopo, un uomo con accento americano telefonò in sala stampa vaticana per chiedere uno scambio con Alì Agca, il turco che nel 1981 aveva sparato al papa. Arrivarono altre telefonate: una a un’amica della giovane scomparsa: amica di fresca data, il cui numero di telefono Emanuela aveva segnato proprio poche ore prima di sparire. Altre 15 dall’’ Americano’ che i periti ipotizzarono potesse essere Paul Marcinkus, il cardinale al vertice della banca vaticana, lo Ior, in persona. Un anno dopo, tanto per restare in tema turco, arrivò anche la chiamata dei Lupi grigi, l’organizzazione in cui aveva militato Agca. Si scoprì poi che a chiamare erano invece i servizi tedeschi dell’est, per sviare dai colleghi bulgari il sospetto di aver organizzato l’attentato del 1981. A tirare in ballo la Magliana, già nel nuovo millennio, fu prima una telefonata anonima, poi Mancini, infine, e con dovizia di particolari Sabrina Minardi. Confusa, anche per via dei decenni di stupefacenti assunti nel frattempo, spesso incoerente, pasticciona sulle date, la (sedicente) ex amante di Renatino non si poteva né si può definire del tutto non credibile. Aveva parlato lei per prima di un rifugio sotterraneo che si prolungava per chilometri, al quale si poteva accedere da un appartamento nel quale sarebbe stata tenuta prigioniera Emanuela, e l’immenso sotterraneo, quasi una città sotto la metropoli, c’è davvero, con tanto di lago sotterraneo. Aveva raccontato di essere andata anche lei a prelevare la Orlandi, con una BMW, in quel 22 giugno 1983, e l’automobile è saltata fuori davvero, proprietà del faccendiere Flavio Carboni, uno dei ballerini impegnati nella danza macabra intorno a Roberto Calvi poco prima dell’impiccagione del banchiere sotto il Ponte dei Frati neri a Londra, passata poi a uno dei tanti che gravitavano intorno alla Banda più celebrata della storia criminale italiana. Inevitabilmente il dossier spuntato dal Vaticano ricaricherà le batterie del carrozzone mediatico. Autorizzerà sospetti, permetterà di lanciarsi in nuove ipotesi, attirerà picchiatelli e bugiardi meno disinteressati. Forse ha ragione Nicotri, convinto che di misterioso, in questo caso, ci sia solo il nome del bastardo che dopo aver attirato Emanuela in trappola l’ha ammazzata. Ma anche al netto dei mitomani e dei depistatori, che in questo caso sono stati davvero una legione, è difficile evitare la sensazione che qualcosa di misterioso, nel giallo della povera Emanuela, ci sia davvero.

Emanuela Orlandi, 35 anni di piste fasulle, ora anche Micromega abbocca, scrive Pino Nicotri il 29 giugno 2018 su "Blitz Quotidiano”. Emanuela Orlandi, 35 anni di piste fasulle, ora anche Micromega abbocca alla sirena Pietro. Ammettiamo per un attimo che l’ennesimo asserito colpo di scena del mistero sulla scomparsa di Emanuela Orlandi non sia la solita panna montata con clamore, ma inesorabilmente sempre destinata a sgonfiarsi. Ammettiamo cioè che davvero, come “rivela” Pietro Orlandi con soli 35 anni di ritardo, ma tacendo anche questa volta la fonte della nuova “notizia”, il Vaticano abbia nascosto la telefonata che ne annunciava l’avvenuto rapimento la sera stessa della scomparsa di Emanuela, cioè del 22 giugno 1983. Vedremo che l’eventuale averla nascosta è stato del tutto ininfluente, ma intanto ci sono comunque da fare varie considerazioni:

 1) – la telefonata in questione, se davvero è stata fatta, è più facile che sia opera depistatrice di chi ha sequestrato ed eliminato Emanuela per i purtroppo usuali motivi da cronaca nera anziché opera dei fantomatici rapitori intenzionati a ricattare papa Wojtyla per motivi politici o malavitosi. I motivi politici si voleva fossero la volontà di ottenere la liberazione del terrorista turco Alì Mehmet Agca, condannato all’ergastolo per avere sparato a Wojtyla nell’81 oppure la volontà ammorbidire l’impegno anticomunista di quel Papa. I motivi malavitosi si vuole consistessero nella volontà di ottenere la restituzione di soldi a dire di alcuni prestati per le varie attività anticomuniste del pontefice polacco, motivi ipotizzati quando ormai era chiaro che la pista “politica”, quale che essa fosse, era una bufala. Motivi TUTTI che comunque, chiacchiere a parte, non sono mai stati dimostrati. Stando a quanto dice Pietro Orlandi, la persona che avrebbe telefonato la sera del 22 giugno 1983 ha chiesto di parlare col papa. Ma come poteva ignorare che il papa anziché in Vaticano era nella natia Polonia la temibile organizzazione che si vuol fare credere abbia rapito Emanuela?  E’ infatti lo stesso Pietro Orlandi il primo a sostenere che, politica o malavitosa, si tratta di comunque un'organizzazione composta da spezzoni di servizi segreti vari, banca vaticana IOR, mafia, malavita romana, ecc.  La ha scritto in un suo libro e lo ha detto a Vanity Fair nel maggio 2011, lo ha infine ripetuto di recente a Micromega.  Un’organizzazione dunque che sicuramente, specie la banca IOR che è del Vaticano e ha la sede DENTRO il Vaticano, sapeva che Wojtyla NON era “in casa” bensì ancora in Polonia, dove si era recato soprattutto per sostenere la lotta anticomunista e antisovietica del sindacato Solidarnosc. Una motivazione, quella del viaggio, talmente politica ed eversiva per il regime comunista polacco, e per l’Unione Sovietica dalla quale la Polonia dipendeva mani e piedi, più che sufficiente per mettere Wojtyla sotto la lente di ingrandimento di vari servizi segreti, non solo italiani, e sapere passo passo dove fosse e cosa stesse facendo. E’ quindi assolutamente impossibile che i “rapitori” e il loro telefonista di questa ennesima “rivelazione” appartenessero alla fantomatica “organizzazione” temibile e tentacolare di cui parla con insistenza l’Orlandi.

 2) – Guarda caso, si tratta di un copione identico a quello messo in piedi l’anno successivo, 1984, da Mario Squillaro, lo zio di Stefania Bini, che dopo avere sequestrato e ucciso la giovane nipote ha sostenuto coi genitori che gli aveva telefonato qualcuno per dire che la ragazza era stata rapita. Anche lei da un gruppo di turchi che volevano una bella cifra per il riscatto.

3) – E sempre guarda caso, si tratta dello stesso depistaggio tentato da Sabrina Misseri, cugina di Sarah Scazzi, che dopo averla uccisa accecata dalla gelosia si è inventata che era stata rapita.

4) – Ad accompagnare Wojtyla nel viaggio in Polonia, compresa l’andata e il ritorno in aereo, c’era il suo amico polacco Jacek Palkiewicz, che il caso vuole fosse anche mio amico perché viveva in Veneto e lo avevo conosciuto per motivi di lavoro. Come ho scritto anche in libri, Jacek mi ha sempre ESCLUSO che nel viaggio di ritorno Wojtyla avesse avuto motivi di preoccupazione diversi dal temere eventuali complicazioni con le autorità polacche riguardo il decollo per il rientro a Roma: nessuna telefonata clamorosa dal Vaticano o da altrove riguardo “rapimenti” e affini, ma solo gioia per la riuscita del viaggio e la mancanza di pretesti di qualunque tipo da parte dei polacchi.

5) – E’ incredibile che qualunque affermazione snocciolata da Pietro Orlandi venga sempre immediatamente accolta come oro colato. E sì che di bidoni e di “verità” fasulle ne ha avvalorate ormai troppe. Vediamone in dettaglio alcune:

a – le rivelazioni e le promesse di Agca.

b – La pista di Luigi Gastrini alias il falso “007 Lupo Solitario”.

c – La pista del pentito della mafia Vincenzo Calcara.

d – La pista del fotografo romano Marco Fassoni Accetti, diventato famoso per avere “confessato” ai magistrati di avere organizzato lui il rapimento di Emanuela, della quale ha esibito agli Orlandi, che gli hanno creduto, un flauto che sosteneva essere quello della ragazza.

e – Le orge con uccisione finale di Emanuela ipotizzate da don Amorth, il famoso esorcista della Chiesa. Che ha riportato la pista delle orge in un suo libro, pubblicato dopo averne consegnato le bozze a Pietro Orlandi, che non ha avuto nulla di ridire; la stralunata pista delle tomba di Enrico De Pedis con dentro la “soluzione del mistero”, pista della quale era convinta anche la sorella Natalina Orlandi.

f – La pista della “supertestimone” Sabrina Minardi asserita “amante decennale di De Pedis” quando lei stessa ha ammesso che si sono frequentati per appena due anni, per giunta mente lei svolgeva la professione di prostituta d’alto bordo. A definire mitomane Sabrina Minardi, comunque smentita dalle indagini, è stata la sua stessa sorella Cinzia.

g –  Tralasciamo il fatto che De Pedis viene sempre automaticamente definito – a mo’ di riflesso pavloviano – “boss della banda della Magliana” quando invece è stato sempre assolto in tutti i gradi di giudizio perfino dall’accusa di esserne stato un semplice membro o gregario. Tant’è che quando nel febbraio ’90 venne ucciso era in regolare possesso di patente e passaporto. Tralasciamo.

Quello che però colpisce è l’astio verso la sua vedova, Carla di Giovanni, alla quale anche di recente Pietro Orlandi sulla rivista Micromega, ripetendo quando già detto a Vanity Fair 6 anni fa, ha attribuito dichiarazioni gravi per sostenere di fatto una combutta della donna col procuratore della Repubblica di Roma Giuseppe Pignatone. Le parole riportate non con precisione assoluta da Pietro Orlandi sono estrapolate – e tenute fuori contesto – dall’intercettazione di una telefonata della vedova a don Piero Vergari, ex rettore della basilica di S. Apollinare, che all’epoca di quella telefonata aveva ricevuto un avviso di garanzia per poter analizzare l’archivio del suo computer riguardo la faccenda “tomba di De Pedis/scomparsa di Emanuela Orlandi”. Che il telefono di don Vergari fosse sotto controllo era ovvio e ben noto anche ai diretti interessati. Che non per questo hanno rinunciato a sfoghi personali contro l’assurdità dell’inchiesta sulla tomba – inchiesta già condotta e archiviata nel 1997 – e contro il prolungarsi dell’intera inchiesta sul “rapimento” basata sulle farneticazioni autoaccusatorie del fotografo Marco Fassoni Accetti, finite con l’accusa di calunnia e autocalunnia. Da notare che l’infinito tiro a segno su De Pedis e sulla sua tomba ha procurato alla vedova anni certo non di divertimento, ma di dolore intenso.  Un po’ di humana pietas non guasterebbe. Specie da parte di chi si proclama cattolicissimo e nella Santa Sede ci ha lavorato e abitato una vita e tutt’oggi continua ad abitare nelle sue case. La vedova De Pedis in particolare era furiosa, comprensibilmente, perché chiedeva inutilmente ormai da anni al sostituto procuratore Giancarlo Capaldo di controllare il contenuto della bara del marito in modo da porre fine alle chiacchiere e poterne trasferire altrove la salma evitando il sospetto di una traslazione per nascondere chissà quale il contenuto. Ovvio lo sfogo liberatorio quando ha saputo dagli avvocati che Pigantone avrebbe ordinato a breve a Capaldo l’ispezione della bara, come in effetti poi avvenuto.

6) – Strano che Pietro Orlandi prenda per oro colato le “rivelazioni” più strampalate e rifugga invece ostinatamente da altre, per l’esattezza da tutte quelle che possono contraddire la vulgata del “rapimento” e riportare la scomparsa di Emanuela nel purtroppo solito alveo delle scomparse di minorenni. A partire da quanto affermato dallo stesso avvocato degli Orlandi, Gennaro Egidio, compresi i suoi sospetti sull’amico “misterioso” della zia Anna Orlandi;

7) – Anche ammesso che la telefonata “rivelata” da Pietro Orlandi pochi giorni fa sia stata fatta e che il Vaticano l’abbia nascosta, di cosa si lamentano Pietro e gli altri fan del “rapimento”? Forse che la pista fatta imboccare alle indagini non è stata proprio quella del rapimento?  La pista del rapimento è stata fatta imboccare grazie ai vari e imprudenti pubblici appelli di Wojtyla, ben otto a partire da quello del 3 luglio, grazie alle insistenze degli stessi Orlandi e grazie all’informativa alquanto sballata dell’allora Sisde fornita al magistrato Margherita Gerunda, che stava indagando su ipotesi più normali e realistiche e che per questo venne sostituita dopo poche settimane.

POST SCRIPTUM. Non è la prima volta che Pietro Orlandi riporta “rivelazioni” altrui evitando però di fare i nomi delle fonti. E’ già avvenuto almeno due volte ai danni di don Vergari per metterlo in cattiva luce.

– Ecco cosa ha dichiarato nel 2012, evitando come sempre di fare i nomi: “Che a Sant’Apollinare ci fossero giri strani e gravitasse un pezzo di malavita romana, non solo De Pedis con cui don Vergari era in confidenza, è purtroppo qualcosa di risaputo. Le amiche della scuola di musica di Emanuela mi dissero che suor Dolores, la direttrice, non le faceva andare a messa o cantare nel coro a Sant’Apollinare ma preferiva che andassero in altre chiese proprio perché diffidava, aveva una brutta opinione di monsignor Vergari”. Peccato però che i verbali delle deposizioni testimoniali di suor Dolores, il suo permettere che gli alunni del Da Victoria cantassero nel coro di S. Apollinare e gli atti giudiziari tutti smentiscano in blocco le affermazioni di Orlandi compresa la possibilità che le “rivelazioni” in questione, anche a volere ammettere che siano state davvero fatte, possano essere vere.

– A “Chi l’ha visto?” sempre Pietro Orlandi ha sostenuto che in Vaticano gli avevano detto che nelle stanze sotterranee della basilica di S. Apollinare “avveniva di tutto e di più”, con chiara allusione quanto meno a orge. Peccato che anche le fonti di queste affermazioni, ammesso che siano mai state fatte, siano rimaste anonime…Possiamo fermarci qui. Con una sola annotazione finale: che direbbe Pietro Orlandi se la stampa riportasse come oro colato le malignità che in Vaticano non risparmiano neppure lui e la sua famiglia? A partire dal fatto che coi primi stipendi pagatigli dallo IOR lui si è comprato una Maserati, acquisto ammesso e confermato.

IOR NAME IS 007: DA MARCINKUS A SCARANO, GLI INTRECCI TRA SERVIZI, MASSONI E VATICANO. L’inchiesta su monsignor 500 euro è l’ultimo di una lunga serie di misteri che vedono intrecci tra servizi segreti italiani, Vaticano e massoneria - La morte di Papa Luciani, che voleva riformare lo Ior, e quello scazzo con Villot - Il caso di Emanuela Orlandi, scrive Marco Mostallino per Lettera43.it il 3 luglio 2013. Tonache, barbe finte e grembiulini. La vicenda dell'Istituto opere religiose (Ior), la banca vaticana i cui vertici sono stati indotti alle dimissioni, si intreccia da 40 anni con gli affari e le manovre di monsignori, agenti segreti più o meno deviati, massoni e piduisti.

MONSIGNORI E MASSONI. Massone era monsignor Paul Markincus, presidente dello Ior tra il 1971 e il 1989, coinvolto negli scandali del Banco Ambrosiano e nelle misteriose morti di Michele Sindona e Roberto Calvi. Massone era anche monsignor Jean Villot, potente segretario di Stato all'epoca di Paolo VI e protagonista di un duro scontro sugli assetti della banca con Albino Luciani, il pontefice che intendeva rivoluzionare l'Istituto ma che morì prima di poter mettere mano alle riforme.

IL CASO SCARANO. E membri dei servizi segreti italiani erano - o forse sono ancora - il prefetto Francesco La Motta, incarcerato il 28 giugno scorso per il furto di fondi del Viminale passati sui conti Ior, e Giovanni Zito, il carabiniere fermato con l'accusa di aver fatto da spallone tra l'Italia e la Svizzera per muovere i quattrini di Nunzio Scarano, il vescovo arrestato proprio per i traffici di decine di milioni movimentati attraverso i canali riservati della banca vaticana. Marcinkus guidò lo Ior, coltivandone i legami con Calvi, Sindona e il capo della P2 Licio Gelli, fino a quando nel 1987 la magistratura italiana ne ordinò l'arresto per gli intrighi dell'Ambrosiano. Il monsignore massone trovò rifugio per quasi 10 anni prima tra le mura della Santa Sede, che non lo consegnò mai alla giustizia, poi di una piccola parrocchia statunitense, dove morì nel 1997 senza che l'allora papa, Giovanni Paolo II, aprisse mai i segreti della Chiesa agli investigatori italiani.

SCARANO B. Chi cercò di ripulire le istituzioni vaticane da imbrogli e malaffare fu Albino Luciani. Prima, nel 1972, da patriarca di Venezia, quando si recò in Vaticano per contrastare la decisione di Marcinkus di acquisire due banche venete legate al mondo cattolico. Poi, nel 1978, da papa.

LA MANO DI JEAN VILLOT. Non vi riuscì, poiché il capo dello Ior godeva della piena protezione del segretario di Stato dell'epoca, il cardinale Jean Villot. Il porporato francese era un uomo abile, scaltro, determinato e spregiudicato, messo a capo del governo della Santa Sede nel 1969 da Paolo VI. Membro della massoneria, conservò la carica anche con Luciani, l'uomo che appena eletto pontefice - come confessò egli stesso ai suoi collaboratori fatti giungere a Roma dal Veneto - si trovò subito attorno la terra bruciata creata dalla Curia vaticana.

LUCIANI E QUELLA MORTE SOSPETTA. Luciani era un uomo limpido e determinato: «Desidero che siano i vescovi e cardinali, con una loro rappresentanza, a decidere cosa fare dello Ior. Chiedo che le sue azioni siano tutte lecite e pulite e consone con lo spirito evangelico», disse. Prima di aggiungere, riferendosi a Marcinkus pur senza farne il nome, che «il presidente dello Ior deve essere sostituito, nel rispetto della persona: un vescovo non può presiedere e governare una banca». Ma accadde esattamente il contrario. A essere sostituito, dopo 33 giorni di pontificato, fu il papa. E a causa di morte. Taluni ipotizzarono che quel «rispetto della persona» non fu garantito a Luciani: il decesso venne classificato per cause naturali, ma nessuna autopsia fu mai eseguita.

PAPA LUCIANI. Tra le mani, il papa morto teneva alcune carte - notizia che il Vaticano sulle prime nascose - con appunti su un duro colloquio avvenuto poche ore prima con Villot, al quale aveva comunicato di voler cambiare i vertici dello Ior e di alcuni ministeri della Santa Sede, ricevendo in cambio il parere fortemente negativo dell'allora segretario di Stato.

I SERVIZI SEGRETI ITALIANI, TRA IOR E CRIMINALITÀ. Nelle vicende dello Ior, dell'Ambrosiano e nelle misteriose morti a esse legate i servizi segreti italiani spuntano spesso e volentieri. L'ombra degli 007 è calata sugli omicidi di Calvi e Sindona mentre, secondo alcune testimonianze, gli agenti italiani avrebbero svolto ruoli di mediazione tra i porporati e la banda della Magliana nel rapimento di Emanuela Orlandi.

CARLO CALVI CON LA MADRE E MICHELE E RINA SINDONA ALLE BAHAMAS. Ed è accertato da diverse indagini che uffici dello spionaggio italiano hanno spesso utilizzato conti coperti dello Ior per spostare soldi in maniera riservata. Le ultime due inchieste romane hanno poi rivelato che uomini dei servizi sono pesantemente coinvolti nei traffici illeciti che avvengono tramite la banca vaticana.

GLI EX AISI LA MOTTA E ZITO. Il prefetto La Motta, arrestato pochi giorni fa, prima di essere trasferito al Viminale è stato vicedirettore dell'Aisi, il servizio segreto per la sicurezza interna (una dalle agenzie che hanno sostituito Sismi e Sisde, i cui nomi erano diventati impronunciabili). Anche l'uomo accusato di aver trasportato i soldi di monsignor Scarano, il sottufficiale dei carabinieri Giovanni Zito, aveva lavorato per l'Aisi per poi tornare in forza all'Arma.

EMANUELA ORLANDI. Ma uno 007 è un po' come un prete: la sua scelta vocazionale lo accompagna per tutta la vita e le indagini di questi giorni dimostrano che i film di James Bond in fondo portano con sé una morale veritiera: quando indossi una barba finta, è difficile poi che qualche pelo, magari proprio dei più sporchi, non ti resti addosso per sempre.

Soldi, caso Orlandi, abusi: il nuovo libro di Nuzzi sui misteri del Vaticano. «Su Emanuela dì che non sai niente». Nella nuova inchiesta del giornalista Nuzzi, «Peccato originale», anche la denuncia dei chierichetti di San Pietro, sottoposti ad indebite attenzioni da parte dei loro superiori, scrive l'8 novembre 2017 Gian Antonio Stella su "Il Corriere della Sera". «Allo Ior dovresti evitare assolutamente di conoscere i nomi dei correntisti…». «E se invece dovessi chiedere i nomi dei clienti?». «A quel punto, amico mio, avrai quindici minuti per mettere in sicurezza i tuoi figli. A presto caro…». Basta questo scambio di battute tra Ettore Gotti Tedeschi sul punto di essere nominato presidente della Banca Vaticana e l’«apprezzato uomo delle istituzioni pragmatico e soprattutto molto ascoltato» che scodella al banchiere l’affettuoso «consiglio» dalle sfumature mafiose, a gettare una lama di luce sul nuovo libro di Gianluigi Nuzzi.

La fronda a Papa Francesco. Si intitola «Peccato originale», è edito da Chiarelettere e in 352 pagine il giornalista e scrittore, autore dei bestseller «Vaticano S.p.A.», «Sua Santità» e «Via Crucis» cerca di rispondere a sette domande rimaste in sospeso. Domande che, proprio perché irrisolte, vanno indietro anche di mezzo secolo. «È stato ucciso Albino Luciani? Chi ha rapito Emanuela Orlandi? Se la ragazza ormai “sta in cielo”, come afferma papa Francesco, il Vaticano ha delle responsabilità nell’omicidio, e quali sono? Perché le riforme per la trasparenza della curia, avviate prima da Joseph Ratzinger e adesso da Bergoglio, puntualmente falliscono o rimangono incompiute? Cosa blocca il cambiamento? E ancora: i mercanti del tempio continuano a condizionare la vita della Chiesa dopo aver avuto un ruolo nella rinuncia al pontificato di Benedetto XVI? Infine, la questione più drammatica: lo stallo nel quale sono cadute le riforme di Francesco è dovuto a chi non vuole questo Papa, dentro e fuori i sacri palazzi, e dunque ne ostacola l’opera riformatrice?». Per rispondere, spiega, ha seguito tre fili rossi: i soldi, il sangue, il sesso. Fili che «annodandosi tra loro costituiscono una fitta trama d’interessi opachi, violenze, menzogne, ricatti, e soffocano ogni cambiamento».

Il boss in basilica. E c’è davvero di tutto, nel libro. Dai conti correnti allo Ior di Eduardo de Filippo o di Anjezë Gonxe Bojaxhiu, (suor Teresa di Calcutta) alla dettagliata ricostruzione della riservatissima trattativa tra i vertici della magistratura romana e gli altissimi prelati che fecero sapere al procuratore Giancarlo Capaldo, che da anni indagava sulla scomparsa della Orlandi, del loro imbarazzo per la crescente «tensione massmediatica» a causa della presenza nei sotterranei di sant’Apollinare della tomba di Enrico «Renatino» De Pedis, il boss della banda della Magliana sospettato d’aver avuto un ruolo centrale nella sparizione della ragazza e sepolto lì in cambio di una donazione, pare, di 500 milioni di lire. Insomma, il «disagio» per «sospetti» e «pettegolezzi» era tale che se i giudici si fossero presi la briga di rimuover loro la salma, come raccontava il film di Roberto Faenza «La verità sta in cielo», il Vaticano dopo anni di reticenze avrebbe discretamente fornito tutto ciò che sapeva. Un patto che dopo la traslazione della salma e l’esame di 409 cassette e 52.188 ossa umane per cercare eventuali tracce della quindicenne sparita, sfumò com’è noto nel nulla.

Papa Luciani. Come nel nulla erano finiti i dubbi, le discussioni e le polemiche sulla morte di Albino Luciani, il «Papa che sorrise solo 33 giorni». Fu avvelenato? Probabilmente no, dice Nuzzi: piuttosto fu «schiacciato» dal peso dei problemi e più ancora dalla «verità tragica e indicibile» di quanto avveniva dentro lo Ior. Che lui avrebbe voluto riformare fin dal ‘72, quando da Patriarca di Venezia aveva avuto il primo scontro col potentissimo e spregiudicato cardinale Paul Marcinkus. Il quale, si legge in «Peccato originale», avrebbe liquidato sei anni dopo il neoeletto Giovanni Paolo I con parole sprezzanti: «Questo pover’uomo viene via da Venezia, una piccola Diocesi che sta invecchiando, con 90.000 persone e preti anziani. Poi, all’improvviso, viene catapultato in un posto e nemmeno sa dove siano gli uffici. (…) Si mette a sedere e il segretario di Stato gli porta una pila di documenti, dicendo: “Esamini questi!”. Ma lui non sa neppure da dove cominciare».

Scatole cinesi e conti esteri. In verità, i pasticci, le scatole cinesi e i labirinti azionari erano tali che avrebbe faticato a capirci non solo un Papa santo ma un revisore dei conti provetto. Basti dire che uno dei numerosi documenti in appendice al libro, del 23 marzo 1974, è la «contabilizzazione assegno n. 0153 s/FNCB NY, del valore di 50.000 dollari, emesso all’ordine: “S.S. Paolo VI per erogazione in relazione Esercizio 1973”. In basso nel documento si riporta il relativo addebito sul conto n. 051 3 01588, intestato “Cisalpine Fund”, che potrebbe far riferimento alla banca panamense Cisalpine, nel cui cda siederanno Paul Marcinkus con Roberto Calvi e Licio Gelli». Banca tirata in ballo in un incontro con Nuzzi dalla stessa vedova di Roberto Suárez Gómez, il «re della cocaina»: «Mio marito Roberto era felice di aver incontrato in Venezuela Calvi, perché disponendo di un garante di questo livello gli affari sarebbero andati molto meglio... con la cocaina immagino, non fu esplicito ma immagino fosse così... Calvi era socio di mio marito...».

La lobby gay. Ma le pagine destinate a sollevare più polemiche sono quelle dedicate al sesso. Dove sono ricostruiti gli scandali recenti come il gay party a base di cocaina interrotto dai gendarmi vaticani in un appartamento nello stesso palazzo del Sant’Uffizio o le confidenze di Elmar Theodor Mäder, l’ex comandante delle guardie svizzere («Esiste in Vaticano una lobby gay talmente potente da essere pericolosa per la sicurezza del pontefice») o ancora le amarezze di papa Francesco: «In Vaticano esiste una lobby gay. Nella curia ci sono persone sante, davvero, ma c’è anche una corrente di corruzione. Si parla di una lobby gay ed è vero, esiste». Ma Nuzzi va oltre. Pubblica un’intercettazione telefonica ad esempio tra il rettore della basilica di Sant’Apollinare all’epoca della scomparsa della Orlandi e un giovane seminarista nato in Birmania. Intercettazione strapiena di allusioni sessuali a dir poco imbarazzanti. Più ustionante ancora la testimonianza di un polacco (con nome, cognome e copia della lettera di denuncia) entrato dodicenne nel pre-seminario San Pio X a palazzo San Carlo (lo stesso in cui vivono cardinali come Tarcisio Bertone) dove le Diocesi indirizzano i ragazzini che «manifestano una predisposizione per il sacerdozio» e «partecipano come chierichetti alle funzioni religiose nella basilica di San Pietro». Incluse quelle celebrate dal Papa. E dove, stando a quanto raccolto in «Peccato originale», sarebbero avvenuti abusi denunciati ai superiori, su su nella scala gerarchica, senza che certe cose, purtroppo, venissero radicalmente cambiate. A essere allontanato, scrive anzi il giornalista, fu il chierichetto che chiedeva di allontanare chi molestava lui e il suo compagno di stanza. Accuse assurde? Si vedrà. Certo colpiscono le risposte rasserenanti e sdrammatizzanti di certi prelati chiamati a intervenire dopo queste denunce. Su tutte una «raccomandazione» al giovane polacco: «Ti auguro di riprendere serenità e docilità».

Emanuela Orlandi, spunta dossier shock, scrive il 18/09/2017 "Adnkronos.com". Nuovo documento choc sul caso di Emanuela Orlandi, la ragazzina 15enne, figlia di un commesso della Prefettura della Casa Pontificia, scomparsa in circostanze misteriose il 22 giugno del 1983. L'esistenza del dossier segreto emerge dal libro-inchiesta Gli impostori del giornalista Emiliano Fittipaldi. "E' un riassunto di tutte le note spese per un presunto 'allontanamento domiciliare' di Emanuela Orlandi", scrive su Facebook il cronista. "Ho trovato un documento uscito dal Vaticano. Ci ho lavorato mesi, e ho pubblicato un libro, Gli impostori, che uscirà tra qualche giorno", spiega. "Leggendo il resoconto - continua il giornalista nel post su Facebook - e seguendo le tracce delle uscite della nota, che l'estensore attribuisce al cardinale Lorenzo Antonetti, sembra che il Vaticano abbia trovato la piccola rapita chissà da chi, e che abbia deciso di 'trasferirla' in Inghilterra, a Londra. In ostelli femminili". "Per 14 anni - prosegue - le avrebbe pagato rette, vitto e alloggio, spese mediche, spostamenti. Almeno fino al 1997, quando l'ultima voce parla di un ultimo trasferimento in Vaticano e 'il disbrigo delle pratiche finali'". "Delle due l'una - osserva il giornalista - o il documento è vero, e apre squarci clamorosi e impensabili sulla storia della Orlandi. O è un falso, un apocrifo che segna una nuova violenta guerra di potere tra le sacre mura. Ma - conclude - chi può aver costruito un simile resoconto?". Fittipaldi torna a occuparsi di Vaticano con 'Gli impostori' dopo essere stato coinvolto due anni fa nel caso Vatileaks per il suo libro Avarizia. Messo sotto processo dal Vaticano con l'accusa di aver divulgato documenti top secret, il giornalista è stato prosciolto lo scorso anno "per difetto di giurisdizione". Il cardinale Giovanni Battista Re, il cui nome è comparso, insieme a quello del cardinale Jean-Louis Tauran tra i destinatari del documento, dichiara, intervistato da Stanze Vaticane, il blog di Tgcom24: "Non ho mai visto quel documento pubblicato da Fittipaldi, non ho mai ricevuto alcuna rendicontazione su eventuali spese effettuate per il caso di Emanuela Orlandi". Il cardinale Re, all'epoca era Sostituto per gli Affari Generali della Segreteria di Stato e avrebbe ricevuto questo dossier da parte dell'Apsa (L'Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica). Nessuna certezza sull'autenticità del documento che riporta la firma dattiloscritta del cardinale Lorenzo Antonetti, ma non quella autografa. Vaticano: "Documento Fittipaldi falso e ridicolo" - "Falso e ridicolo". Così, senza commentare oltre, il portavoce della Santa Sede Greg Burke definisce il documento pubblicato da Fittipaldi. "Il muro sta cadendo", scrive su Facebook Pietro Orlandi, fratello di Emanuela. Probabilmente un auspicio per Pietro che da sempre lotta per la verità su quanto accaduto alla sorella.

Caso Orlandi, c’è il giallo dei ricoveri Sul dossier l’ombra dei corvi. L’elenco di spese per gestire il caso sarebbe un avvertimento. Riferimenti diretti ad altri documenti allegati e ancora segreti, scrive Fiorenza Sarzanini il 18 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera". «Allontanamento domiciliare della cittadina Emanuela Orlandi»: così, nel dossier che circola in Vaticano, viene definita la scomparsa della giovane avvenuta il 22 giugno 1983. E tanto basta per accreditare l’ipotesi che quei cinque fogli con l’elenco delle spese per circa 500 milioni di lire attribuite alla Santa Sede per gestire la vicenda fino a luglio 1997, siano in realtà un avvertimento. La resa dei conti in una guerra interna cominciata con le rivelazioni dei «corvi» e continuata con i documenti pubblicati durante Vatileaks. Una possibilità avvalorata dal fatto che fossero stati rubati dalla cassaforte di monsignor Vallejo Balda — condannato come una delle «fonti» — e poi restituiti in un plico anonimo spedito alla Prefettura. Sono proprio le circostanze elencate nella relazione a sollevare nuovi dubbi e interrogativi su quello che invece è sempre stato considerato un rapimento di cui però rimane oscuro il movente.

Le ricevute allegate. Nel testo attribuito all’allora presidente dell’Apsa, l’amministrazione del patrimonio della sede apostolica, si parla di un «divieto postomi di interrogare direttamente le fonti incaricando esclusivamente il capo della gendarmeria vaticana», che all’epoca era Camillo Cibin. E subito dopo si specifica che il documento «non include l’attività commissionata da Sua Eminenza il cardinale Agostino Casaroli al “Commando 1” in quanto alcun organo a noi noto o raggiungibile è a conoscenza di quanto emerso e della quantità di denaro investita nell’attività citata». Sia Cibin, sia Casaroli sono morti. Ma molte persone che collaboravano con loro rivestono tuttora incarichi all’interno della Santa Sede. E forse proprio a loro si rivolge chi ha confezionato il dossier. Anche perché specifica che esistono «documenti allegati in originale per la parte relativa ai pagamenti per i quali è stata rilasciata quietanza», sottolineando che sono state effettuate spese «non fatturate». Una nota che suona come un messaggio in codice per far sapere che altre carte potrebbero essere rese note.

I due ricoveri. Nessuna tra le ipotesi formulate nel corso degli anni su che cosa sia accaduto alla giovane ha mai trovato riscontro, ma accreditare la tesi che possa essere stata «gestita» per 14 anni dalle gerarchie ecclesiastiche apre scenari inquietanti proprio su quanto può essere accaduto Oltretevere. Anche perché l’appello del 3 luglio 1983 pronunciato da Giovanni Paolo II, durante l’Angelus, escluse la pista di una fuga volontaria e confermò che il Pontefice potesse avere avuto informazioni su un coinvolgimento del Vaticano per la responsabilità di personaggi interni, oppure come destinatario del ricatto. Per questo suscitano interesse due «voci» del dossier che riguardano i ricoveri in strutture sanitarie della Gran Bretagna. Nella prima si parla di «spese clinica St Mary’s Hospital Campus Imperial College» di Londra per 3 milioni di lire. E subito dopo è citata la «dottoressa Leasly Regan, Department of Obstetrics & Gynaecology» senza specificare la spesa ma annotando invece che l’attività «economica a rimborso» è contenuta «nell’allegato 28».

Niente protocollo. Nel dossier «presentato in triplice copia per dovuta conoscenza a entrambi i destinatari» — che sono l’allora sostituto per gli Affari generali della Segreteria di Stato, il cardinale Giovanni Battista Re, e il sottosegretario Jean Louis Tauran — si sottolinea che «come da richiesta non si espleta la funziona di protocollazione». Un’altra circostanza che appare come un avvertimento. Di questo documento si parla ormai da svariati mesi tanto che la famiglia Orlandi aveva chiesto udienza al Segretario di Stato Pietro Parolin. Dalla Santa Sede hanno sempre negato che esistesse. Ora si scopre invece che era stato custodito nella prefettura della Santa Sede. Perché non si è confermato che circolava e si trattava di un falso? O forse qualcuno era convinto di essere riuscito a insabbiarlo.

Emanuela Orlandi, il giallo del nuovo dossier: "Oltre 483 milioni di lire spesi dal Vaticano per il suo allontanamento". Un documento shock esce dalla Santa Sede. È il cuore di un libro-inchiesta di Emiliano Fittipaldi, “Gli impostori”. Se è vero, apre squarci clamorosi sulla vicenda della ragazzina scomparsa nel 1983. Se falso, segnala uno scontro di potere senza precedenti nel pontificato di Francesco. Ecco un'anticipazione, scrive Emiliano Fittipaldi il 18 settembre 2017 su “L’Espresso". Prima di consegnarmi i documenti, la fonte aveva tergiversato per settimane. Nei primi due incontri, durante i quali avevo chiesto consigli su come raggiungere l'obiettivo, aveva escluso con fermezza di avere le carte che cercavo. "Le ho solo lette, se le avessi te le darei, figurati," aveva chiarito seccamente di fronte alle mie insistenze. Non ero convinto che dicesse la verità, ma tentai le strade alternative che mi aveva indicato. Capii presto che era fatica sprecata, e dopo un po' tornai alla carica. Alla fine, al terzo appuntamento, la fonte ha ammesso di avere il dossier. "Te li do solo perché credo che sia venuto il momento di far luce sulla storia." Al quarto incontro, avvenuto in un bar del centro di Roma, mi consegnò una cartellina verde. Me ne tornai a casa di corsa senza neanche guardarci dentro. Appena varcata la porta del mio studio, la aprii. C'erano dei fogli: una lettera di cinque pagine, datata marzo 1998. È scritta al computer o, forse, con una telescrivente, ed è inviata (così leggo in calce) dal cardinale Lorenzo Antonetti, allora capo dell'Apsa (l'Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica), ai monsignori Giovanni Battista Re e Jean-Louis Tauran. Al tempo, Giovanni Battista Re era il sostituto per gli Affari generali della segreteria di Stato della Santa Sede; Jean-Louis Tauran era il numero uno dei Rapporti con gli stati, un'altra sezione del dicastero della Curia romana che "più da vicino", come spiega il sito del Vaticano, "coadiuva il Sommo Pontefice nell'esercizio della sua suprema missione". Insomma, Re e Tauran erano nei vertici della Curia e, secondo l'estensore del documento, si sarebbero occupati direttamente della vicenda Orlandi. Il nome di Re era spuntato fuori già dalla lettura della prima sentenza istruttoria sul caso, firmata dal giudice Adele Rando nel 1997. La presunta missiva di Antonetti, come molte altre a cui ho avuto accesso nelle mie inchieste sulla Santa Sede, non era firmata a penna. Alla fine, l'autore chiariva che non era stata nemmeno protocollata, "come da richiesta".

Leggo il testo della prima pagina tutto d'un fiato. "Resoconto sommario delle spese sostenute dallo stato città del vaticano per le attività relative alla cittadina Emanuela Orlandi (Roma 14 gennaio1968),", è il titolo. "La prefettura dell'Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica ha ricevuto mandato di redigere un documento di sintesi delle prestazioni economiche resosi necessarie a sostenere le attività svolte a seguito dell'allontanamento domiciliare e delle fasi successive allo stesso della cittadina Emanuela Orlandi. "La sezione di riferimento, sotto la mia supervisione, ha provveduto a raccogliere il materiale attraverso gli attori dello Stato che hanno interagito con la vicenda. "Moltissimi limiti nella ricostruzione sono stati riscontrati nell'impossibilità di rintracciare documentazione relativa agli agenti di supporto utilizzati sul suolo italiano stante il divieto postomi di interrogare le fonti, incaricando esclusivamente il capo della Gendarmeria Vaticana in questo senso. "L'attività di Analisi è suddivisa in archi temporali rilevanti per avvenimenti e per spese sostenute. "Il documento non include l'attività commissionata da Sua Eminenza Reverendissima Cardinale Segretario di Stato Emerito Agostino Casaroli al 'Commando 1', in quanto alcun organo a noi noto o raggiungibile è a conoscenza di quanto emerso e della quantità di denaro investita nell'attività citata. "I documenti allegati (197 pagine) al presente rapporto sono presentati in originale per la parte relativa ai pagamenti per i quali è stata rilasciata quietanza, sono presentati in forma di resoconto bancario le quantità di denaro utilizzate e prelevate per spese non fatturate." La lettera che ho in mano sembra, o vuole sembrare, un documento di accompagnamento a una serie di fatture e materiali allegati di quasi duecento pagine che comproverebbero alla segreteria di Stato le spese sostenute per Emanuela Orlandi in un arco di tempo che va dal 1983 al 1997. Scorro rapidamente le fredde voci di costo elencate. Delineano scenari nuovi e oscuri su una vicenda di cui si è scritto e ipotizzato molto, e su cui il Vaticano ha sempre negato di avere informazioni ulteriori rispetto a quanto raccontato e condiviso con i giudici italiani che hanno investigato in questi ultimi trentaquattro anni. Il dossier sintetizza gli esborsi sostenuti dal Vaticano dal 1983 al 1997. La somma totale investita nella vicenda Orlandi è ingente: oltre 483 milioni, quasi mezzo miliardo di lire. L'elenco riempie pagina due, tre, quattro e, in parte, cinque del rendiconto. La prima voce riguarda il pagamento di una "fonte investigativa presso Atelier di moda Sorelle Fontana". La Orlandi, nell'ultima telefonata alla famiglia prima della sparizione, aveva in effetti detto che qualcuno le aveva proposto di pubblicizzare i prodotti di una marca di cosmetici, la Avon, durante una sfilata delle stiliste Fontana. Per la fonte, la Santa Sede aveva sborsato 450.000 lire. C'era un'altra spesa per la "preparazione all'attività investigativa estera" costata altre 450.000 lire, uno "spostamento" da ben 4 milioni di lire e, soprattutto, le "rette vitto e alloggio 176 Chapman Road Londra". Chi ha scritto il documento, come vedremo, aveva digitato male l'indirizzo: a quello giusto c'è la sede londinese dei padri scalabriniani, la congregazione dei missionari di San Carlo fondata nel 1887 da Giovanni Battista Scalabrini. Dagli anni sessanta gestiscono un ostello della gioventù destinato esclusivamente a ragazze e studentesse. Nel periodo 1983-1985, per le rette, erano stati versati 8 milioni di lire. Il prezzo giusto, mi dico, per ospitare una persona in quell'arco temporale (per dare un ordine di misura, nel 1983, secondo i dati storici della Banca d'Italia, lo stipendio medio di operai e impiegati era di circa 500.000, 600.000 lire nette al mese). La prima pagina si chiude con i costi per l'"indagine formale in collaborazione con Roma" (23 milioni) e con la misteriosa "attività di indagine riservata extra 'Commando 1', direzione diretta Cardinale Casaroli", per una cifra di 50 milioni di lire. Agostino Casaroli era il segretario di Stato che nella vicenda Orlandi ha avuto un ruolo importante, soprattutto all'inizio. La nota, nella seconda e nella terza pagina, racconta i costi sostenuti per l'"allontanamento domiciliare" di Emanuela nel periodo "febbraio 1985-febbraio 1988". Si elencano dispendiosi viaggi a Londra di esponenti vaticani di altissimo livello, soldi investiti per la "attività investigativa relativa al depistaggio", spese mediche in ospedali e fatture per specialisti in "ginecologia". Si parla di "un secondo" e di "un terzo trasferimento", di decine di milioni di lire per "rette omnicomprensive" di vitto e alloggio. Gli anni scorrono. Arrivo all'ultima pagina. Il documento segnala che il resoconto dei costi per le attività relative alla cittadina Orlandi e al suo "allontanamento domiciliare" si riferisce stavolta al periodo "aprile 1993-luglio 1997". Le voci del quadriennio sono solo tre: oltre alle solite rette (con "il dettaglio mensile e annuale in allegato 22") e ad altre "spese sanitarie forfettarie", figura il capitolato finale. Mi si gela il sangue: "Attività generale e trasferimento presso Stato Città del Vaticano, con relativo disbrigo pratiche finali: L. 21.000.000". La lista finisce qui, ma in fondo alla quinta pagina il mittente aggiunge una postilla. "Il presente documento è presentato in triplice copia, per dovuta conoscenza ad entrambi i destinatari, si rimanda a documentazione allegata sulle modalità di redazione. Non si espleta funzione di protocollazione come da richiesta. APSA è sollevata dalla custodia della documentazione allegata presentata in originale. In fede, Lorenzo Cardinale Antonetti. Stato Città del Vaticano, A.D. 1998, mese di marzo giorno 28." Smetto di leggere. Il documento, che esce certamente dal Vaticano, anche se non protocollato e privo di firma del suo estensore, pare verosimile. Ma quasi incredibile nel suo contenuto. Dunque, delle due l'una: o è vero, e allora apre per la prima volta squarci impensabili e clamorosi su una delle vicende più oscure della Santa Sede. O è un falso, un documento apocrifo, che mischia con grande abilità tra loro elementi veritieri che inducono il lettore ad arrivare a conclusioni errate. In entrambi i casi, il pezzo di carta che ho in mano è inquietante. Perché, fosse un documento non genuino, significherebbe che gira da almeno tre anni un dossier devastante fabbricato ad arte per aprire una nuova stagione di ricatti e di veleni in Vaticano. Chi e quando avrebbe costruito un simile documento, che come vedremo contiene dettagli, indirizzi, nomi e circostanze molto particolari che solo un soggetto "interno" alla Città Santa poteva conoscere così bene? Se non è davvero stato scritto dal cardinale Antonetti, chi l'ha redatto con tale maestria, e chi l'ha poi messo, anni fa, nella cassaforte della Prefettura?

Difficile rispondere ora a queste domande. Ma è chiaro che, se il documento fosse falso, la Gendarmeria guidata da Domenico Giani avrà parecchio da lavorare. Il report fasullo potrebbe essere rimasto nascosto per anni in qualche cassetto, mai usato (almeno fino ad ora) e infine dimenticato. O potrebbe essere stato costruito ad hoc più di recente, dopo il furto del marzo del 2014, e restituito dai ladri insieme ad altri documenti certamente veritieri. Ma se è così, perché monsignor Abbondi non ha detto davanti ai magistrati di papa Francesco che lo interrogavano sul contenuto del plico anonimo con i documenti rubati che era tornato, tra gli altri, anche un dossier sulla Orlandi che non aveva mai visto, e quindi forse fasullo? Perché ha parlato genericamente di carte "sgradevoli"?

È pure evidente, però, che il report non spiega chiaramente cosa sia accaduto alla ragazzina che amava le canzoni di Gino Paoli, né accusa con nome e cognome qualcuno di responsabilità specifiche sul rapimento e sulla fine di Emanuela. Per quanto incredibile, cerco di costringermi a pensare che il documento possa essere anche una lettera autentica. Il report di un burocrate, il cardinale Antonetti appunto, che rendiconta minuziosamente ai due destinatari tutte le spese sostenute per "l'allontanamento domiciliare" della Orlandi, spese divise per quattro archi temporali definiti. Una pratica obbligatoria nei servizi segreti di ogni Stato del pianeta: alla fine di un'operazione, anche quelle in cui vengono usati fondi neri, i responsabili devono presentare il consuntivo di ogni spesa effettuata ai superiori. La missiva è "presentata in triplice copia", come si usa fare da sempre in Vaticano anche per i documenti riservati (uno va ai destinatari dei vari dicasteri coinvolti, un altro resta nell'archivio dell'Apsa). Stavolta una copia è finita anche negli archivi della Prefettura degli affari economici, cioè il ministero della Santa Sede che aveva il compito di supervisionare le uscite dei vari enti vaticani. Non è una stranezza: nell'enorme armadio blindato che i ladri hanno aperto nel marzo del 2014 ci sono migliaia di documenti provenienti anche da altri enti vaticani. Tra cui, per esempio, le lettere di Michele Sindona spedite non in Prefettura, ma ai cardinali presidenti di pontificie commissioni. Fosse veritiero, dunque, il rendiconto datato marzo 1998, pur in assenza delle 197 pagine di fatture, darebbe indicazioni e notizie sbalorditive che potrebbero aiutare a dipanare la matassa di un mistero irrisolto dal 1983. Perché dimostrerebbe, in primis, l'esistenza di un dossier sulla Orlandi mandato alla segreteria di Stato, mai consegnato né discusso con le autorità italiane che hanno investigato per decenni senza successo sulla scomparsa della ragazzina. Perché evidenzierebbe come la chiesa di Giovanni Paolo II abbia fatto investimenti economici importanti su un'attività investigativa propria, sia in Italia sia all'estero, i cui risultati sono a oggi del tutto sconosciuti. Perché il dossier citerebbe un fantomatico "Commando1" guidato direttamente da Agostino Casaroli, potente segretario di Stato della Santa Sede, forse un gruppo di persone composto da pezzi dei servizi segreti vaticani (il corpo della Gendarmeria ha funzioni di ordine pubblico e di polizia giudiziaria, ma svolge anche lavoro di intelligence per la sicurezza dello stato) che ha preso parte alle attività successive alla scomparsa della ragazza. Ma, soprattutto, il resoconto diventa clamoroso quando mostra come tra il 1983 e la fine del 1984 il Vaticano, dopo indagini autonome, avrebbe investe in un primo "spostamento" la bellezza di 4 milioni di lire. Da allora il campo da gioco dei monsignori che si sarebbero occupati della vicenda di Emanuela si sposta in Inghilterra. In particolare, a Londra.

Possibile che Emanuela Orlandi sia stata ritrovata viva dal Vaticano e poi nascosta in gran segreto nella capitale inglese? Se non è così, e se il documento è autentico, a chi la Santa Sede ha pagato per quattordici anni "rette vitto e alloggio" elencate in un report che ha come titolo "Resoconto sommario delle spese sostenute dallo Stato Città del Vaticano per le attività relative alla cittadina Emanuela Orlandi" e per il suo "allontanamento domiciliare"? Come mai nella nota sulla ragazza viene indicato che il capo della Gendarmeria del tempo, Camillo Cibin, avrebbe sborsato la bellezza di 18 milioni di lire, tra il 1985 e il 1988, per andare avanti e indietro da Londra? Chi sarebbe andato a trovare qualche tempo dopo il medico personale di papa Wojtyla, Renato Buzzonetti, insieme a Cibin, "presso la sede l. 21", una "trasferta" da 7 milioni di lire? Perché e a chi, all'inizio degli anni novanta, il Vaticano avrebbe pagato spese sanitarie - come segnala ancora l'estensore dello scritto - per i controlli (o addirittura un ricovero) alla Clinica St. Mary, sempre a Londra? Chi è andata, sola o accompagnata, a farsi visitare dalla "dottoressa Leasly Regan, Department of Obstetrics & Gynaecology" dello stesso nosocomio un'unica "attività economica a rimborso" di cui il capo dell'Apsa non indica la spesa precisa, invitando a leggere i "dettagli in allegato 28"? (contattata da l'Espresso, la Regan nega di avere fatture a nome della Orlandi, e dice di non poter ricordare, dopo tanti anni, se ha curato una ragazza con le fattezze di Emanuela).

La storia, secondo il documento, non sembra finire bene. Perché la lista si conclude con un ultimo capitolato di spesa, sull' "attività generale e trasferimento presso Stato Città del Vaticano con relativo disbrigo pratiche finali". Il trasferimento è il quarto segnalato nel report: chi viene portato in Vaticano? Perché nel luglio 1997 la "pratica" di Emanuela Orlandi viene considerata chiusa?

A metà giugno del 2017 capisco, dal Corriere della Sera, che qualcun altro è a conoscenza del documento misterioso. La famiglia Orlandi ha infatti presentato un'istanza di accesso agli atti per poter visionare "un dossier custodito in Vaticano". Il quotidiano accredita che il fascicolo possa contenere resoconti di attività inedite fino al 1997, con dettagli anche di natura amministrativa svolta dalla segreteria di Stato ai fini del ritrovamento". Capisco che si tratta proprio del report che ho in mano. Il giorno dopo monsignor Angelo Becciu, sostituto per gli Affari generali della segreteria, nega l'esistenza di qualsiasi carta riservata: "Abbiamo già dato tutti i chiarimenti che ci sono stati richiesti. Il caso per noi è chiuso". Anche il cardinale Re interviene, assicurando che "la Segreteria di Stato" di cui nel 1997 lui era sostituto "non aveva proprio niente da nascondere. Essendo uno dei due destinatari della presunta lettera di Antonetti, decido di chiamarlo, e domandargli se ha mai ricevuto quel report sull’ "allontanamento domiciliare" di Emanuela Orlandi, e se in caso contrario quello che ho in mano è un report apocrifo che vuole inchiodarlo a responsabilità che lui non ha. L'inizio del colloquio è rilassato. Appena gli leggo il titolo, il cardinale, senza chiedermi nulla nel merito del documento, tronca improvvisamente la conversazione: "Guardi io non so di questo. E mi dispiace non poterla aiutare. Sono qui con altre persone". Clic.

La mia ricerca è iniziata nel febbraio del 2017. Leggendo il libro di Francesca Chaoqui e dell'ex direttore della sala stampa del Vaticano Federico Lombardi. Quest'ultimo ricordava come un testimone eccellente del processo che mi vedeva coinvolto, quello su Vatileaks 2, aveva parlato di alcuni documenti trafugati. Il test era monsignor Alfredo Abbondi, capo ufficio della Prefettura degli Affari economici. La parte più interessante del suo interrogatorio riguarda un misterioso furto avvenuto nelle stanze di quell'ufficio nella notte tra il 29 e il 30 marzo 2014. Dopo mezzanotte, qualcuno si era introdotto nel palazzo senza rompere alcuna serratura dei portoni di accesso, aveva sgraffignato qualche spicciolo negli uffici delle congregazioni ai primi piani dell'immobile e s'era poi concentrato sulla cassaforte e su uno soltanto dei dodici armadi blindati nascosti in una delle stanze della Prefettura, al quarto piano del grande edificio che si affaccia su piazza San Pietro. A don Abbondi, la mattina del 14 maggio 2016, i magistrati chiedono conto di quella singolare vicenda. Il prelato spiega che nell'ufficio esisteva "un archivio riservato che era sotto la responsabilità del segretario Balda", custodito inizialmente "in un armadio in una stanza vicina a quella del monsignore"; aggiunge che "dopo il furto, l'archivio riservato venne piazzato direttamente nella stanza di Vallejo". Quando il promotore di giustizia gli domanda cosa avessero rubato i ladri, Abbondi specifica che, se dalla piccola cassaforte "portarono via soldi e delle monete, dall'armadio blindato prelevarono invece dei documenti dell'archivio riservato... alcuni dei quali vennero poi riconsegnati in busta chiusa nella cassetta della posta del dicastero". Proprio così: alcune carte trafugate vennero rispedite in un plico anonimo, quasi un mese dopo lo scasso. Un dettaglio già raccontato da Gianluigi Nuzzi. Non solo. Il giornalista aveva pubblicato anche alcuni dei documenti restituiti alla Prefettura, tra cui diverse lettere mandate dal "Banchiere di Dio", Michele Sindona, a esponenti delle gerarchie vaticane, oltre a missive con riferimenti a Umberto Ortolani, fondatore - insieme a Licio Gelli - della loggia massonica deviata P2. "Cosa c'era nel plico?" chiede diretto il promotore di giustizia a don Abbondi. "Documenti di dieci, vent'anni fa, che di fatto non avevano più alcun valore," risponde il prelato. "Nel riordinare i fogli dopo l'effrazione, vidi che gli atti contenuti nell'archivio non erano tanto relativi alla sicurezza dello stato," ma a fatti che il monsignore definisce "sgradevoli". "Sgradevoli," ripeto tra me e me. Riponendo il libro mi domandai se, come ipotizzavano Abbondi e numerosi esponenti della Santa Sede, restituendo alcuni o tutti i documenti trafugati, i ladri avessero voluto lanciare un avvertimento, una minaccia, o se il furto nascondesse in realtà altre motivazioni. Certamente vi avevano collaborato persone informate dei segreti della Prefettura, visto che i banditi, violando un solo armadio blindato, erano andati a colpo sicuro. Di certo Abbondi fa intendere ai magistrati vaticani che i documenti ritornati dopo il furto non sono diversi da quelli che lui sapeva essere conservati nella cassaforte. Cominciai a leggere il volume della Chaouqui...Senza tanti giri di parole, la Chaouqui fa poi capire al lettore che, dalla discussione avuta quella mattina con il suo amico (i due in seguito diventeranno acerrimi nemici), aveva compreso che era stato lo stesso Balda a compiere l'effrazione, forse con il supporto di manovalanza esterna. Un'accusa pesantissima. Balda, che era già stato sentito dalla Gendarmeria insieme ad altri dipendenti dell'ufficio, ha sempre negato ogni addebito...L'avvocatessa calabrese - che nel 2014, ricordiamolo, era membro della Cosea e lavorava negli uffici della Prefettura che ospitavano la commissione - è uno dei pochissimi testimoni diretti di ciò che avvenne negli uffici dopo l'effrazione. E, come aveva fatto monsignor Abbondi in tribunale durante la sua deposizione, decide di raccontare nel suo libro il momento in cui tornano le carte sottratte un mese prima. Ma se il prete aveva parlato genericamente di documenti "sgradevoli", la Chaouqui entra nei dettagli, narrando in prima persona: "Alla fine i fascicoli ricompaiono, spediti da mano ignota agli uffici della Prefettura. C'è il dossier su un vescovo molto potente e sulle delicate questioni legate a un'eredità ricevuta quando era nunzio in Francia. Ci sono i resoconti delle spese politiche di Giovanni Paolo II ai tempi della Guerra fredda e di Solidarno??. C'è il carteggio tra il banchiere Michele Sindona e il faccendiere Umberto Ortolani, che il Vaticano avrebbe cercato in capo al mondo. C'è il file di Emanuela Orlandi e capisco il finale di una storia che deve rimanere sepolta"...Ora ho deciso di pubblicare il documento. Avessero ragione Becciu e il cardinale Re, il documento sarebbe certamente un falso. Sarebbe importante capire allora chi sono gli impostori che l'hanno architettato, e per quali oscuri motivi la storia di una ragazza scomparsa nel 1983 venga ancora usata per ricatti e lotte intestine della città sacra. Ma se le verosimiglianze impressionanti delle note spese del dossier fossero confermate da nuovi elementi determinati, il Vaticano e i suoi alti esponenti avrebbe mentito ancora una volta. E gli impostori sarebbero loro.

Emanuela Orlandi, perché dopo 32 anni la Cassazione chiude il caso. La corte ha giudicato inammissibile il ricorso della famiglia della quindicenne scomparsa nel 1983, scrive il 6 maggio 2016 Panorama. La Cassazione, dopo 32 anni, mette una pietra sull'inchiesta per la scomparsa di Emanuela Orlandi, la quindicenne residente nella città del Vaticano, di cui si sono perse le tracce dal 22 giugno 1983. La sesta sezione penale della Cassazione ha giudicato inammissibile il ricorso della famiglia contro l'archiviazione dell'indagine della procura di Roma. Nell'ottobre scorso il gip aveva respinto l'opposizione, avanzata dai familiari di Emanuela e da quelli Mirella Gregori (scomparsa poche settimane prima), alla richiesta di archiviazione da parte del procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, e dei pm Simona Maisto ed Ilaria Calò. L'inchiesta vedeva sei indagati, tutti in qualche modo legati al bandito della banda della Magliana Enrico De Pedis (ucciso nel 1990): monsignor Pietro Vergari, ex rettore della basilica di Sant'Apollinare, Sergio Virtù, autista di Enrico De Pedis, Angelo Cassani, detto "Ciletto", Gianfranco Cerboni, ("Giggetto"), Sabrina Minardi, già supertestimone dell'inchiesta, e il fotografo Marco Accetti. La parola testimone, un ruolo nella scomparsa di Emanuela era stato ricoperto da personaggi di spicco del sodalizio criminale romano. A parlare di un legame tra il caso Orlandi e la banda della Magliana era già stato in passato il pentito Antonio Mancini, che riferì di un depistaggio fatto da De Pedis, uno dei capi della banda sepolto nella Cappella di Sant'Apollinare a Roma proprio in virtù di presunti legami con ambienti vaticani. Tesi smentita, negli anni scorsi, dallo stesso rettore della Basilica. Proprio dietro Sant'Apollinare c'era la scuola di musica frequentata dalla stessa Emanuela, ultimo luogo in cui fu vista la ragazza scomparsa. Contro di loro sia la procura sia il gip hanno ritenuto che non fossero stati raccolti sufficienti elementi probatori. E ora è arrivato il visto della Cassazione. Rimangono pendenti per Accetti, che nelle scorse settimane è stato sottoposto a perizia psichiatrica che l'ha giudicato capace di intendere e volere ed anche di stare in giudizio benché affetto da disturbi della personalità di tipo narcisistico ed istrionico, le accuse di calunnia e autocalunnia.

Emanuela Orlandi: le tappe della sparizione (1983-2017). La scomparsa di Emanuela Orlandi: perché si riapre il caso. “Spesi dal Vaticano 483 milioni di lire per rette, vitto, alloggio e spostamenti della ragazza". Da un dossier pubblicato nel libro di Emanuele Fittipaldi, scrive il 18 settembre 2017 Chiara Degl'Innocenti su Panorama. “Ho trovato un documento uscito dal Vaticano. Ci ho lavorato mesi, e ho pubblicato un libro, Gli impostori, che uscirà tra qualche giorno. Un riassunto di tutte le note spese per un presunto ‘allontanamento domiciliare’ di Emanuela Orlandi”. Ben 483 milioni di lire. Così, su facebook Emiliano Fittipaldi ha postato una parte del suo articolo uscito su Repubblica e Il Corriere della Sera in cui rivela di essere in possesso di un “documento choc” sulla ragazzina che viveva nella Santa Sede, poi scomparsa nel 1983. “Leggendo il resoconto e seguendo le tracce delle uscite della nota, che l'estensore attribuisce al cardinale Lorenzo Antonetti, sembra che il Vaticano abbia trovato la piccola rapita chissà da chi, e che abbia deciso di trasferirla in Inghilterra, a Londra”, prosegue Fittipaldi.

Da quanto si legge nell’articolo, il giornalista de L’Espresso sostiene che quei documenti gli sono stati consegnati da una fonte che “dopo aver tergiversato per alcune settimane” al terzo appuntamento “ha ammesso di avere il dossier”. Per poi lasciarglielo al quarto incontro. "Te li do solo perché credo che sia venuto il momento di far luce sulla storia."

Il dossier. Una cartellina con cinque fogli. Il dossier in mano a Fittipaldi è una lettera di cinque pagine, datata marzo 1998. “Scritta al computer o, forse, con una telescrivente, ed è inviata (così leggo in calce) dal cardinale Lorenzo Antonetti, allora capo dell'Apsa (l'Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica), ai monsignori Giovanni Battista Re e Jean-Louis Tauran”. La lettera sembrerebbe, dice ancora il giornalista de L’Espresso, “un documento di accompagnamento a una serie di fatture e materiali allegati di quasi duecento pagine che comproverebbero alla segreteria di Stato le spese sostenute per Emanuela Orlandi in un arco di tempo che va dal 1983 al 1997”. Anni in cui la giovane sarebbe stata trasferita in ostelli femminili. Per 14 anni le sarebbero state pagate “rette, vitto e alloggio”, “spese mediche” e “spostamenti fino al 1997, quando l'ultima voce parla di un trasferimento in Vaticano e il disbrigo delle pratiche finali”. Soldi sborsati dalla Santa Sede che ammonterebbero a 483 milioni di lire e che vanno a infittire la trama della storia di Emanuela Orlandi e della sua scomparsa.

Chi sono i due monsignori della lettera. Ai vertici della Curia negli anni ‘90 c’erano Giovanni Battista Re, il sostituto per gli Affari generali della segreteria di Stato della Santa Sede, e Jean-Louis Tauran a capo dei Rapporti con gli stati che, come spiega il sito del Vaticano, "coadiuva il Sommo Pontefice nell'esercizio della sua suprema missione" e come tali i due “si sarebbero occupati direttamente della vicenda Orlandi” mentre il nome di Re era spuntato fuori già dalla lettura della prima sentenza istruttoria sul caso, firmata dal giudice Adele Rando nel 1997”.

Quando il caso Orlandi era stato chiuso. Il 6 maggio 2016 la Cassazione aveva confermato l’archiviazione dell’inchiesta secondo cui il caso di Emanuela Orlandi veniva definitivamente chiuso dal punto di vista giudiziario giudicando “inammissibile il ricorso della famiglia contro l’archiviazione” da parte della procura di Roma che nel maggio del 2015 aveva sostenuto che non erano emersi “Elementi idonei a richiedere il rinvio a giudizio di alcuno degli indagati”.

L’importanza del dossier. Come sostiene il Fittipaldi se il documento fosse vero quella pagine aprono “squarci clamorosi e impensabili sulla storia della Orlandi”. Se è un falso sarebbe “un apocrifo che segna una nuova violenta guerra di potere tra le sacre mura”.

Dal rapimento il 22 giugno 1983 alle piste che portarono negli anni ad Ali Agça, allo Ior di Marcinkus, alla Banda della Magliana fino alle recenti novità, scrive Edoardo Frittoli il 18 settembre 2017 su Panorama. Il caso della scomparsa di Emanuela Orlandi tiene in sospeso l'Italia dal 22 giugno del 1983, da quando cioè la quindicenne cittadina vaticana non è più tornata a casa. Nel corso del tempo sono state molte le ipotesi che hanno collegato il mistero Orlandi prima all'attentato a Giovanni Paolo II, poi alla banda della Magliana e allo Ior infine a casi di pedofilia. Di questi giorni l'ultima novità: documenti che ne dimostrerebbero l'essere in vita almeno fino al 1997. Ecco dunque le tappe principali della cronistoria di uno dei gialli più intricati della storia italiana.

22 giugno 1983 - la scomparsa. Emanuela Orlandi, 15 anni, figlia di un funzionario del Vaticano, non fa rientro a casa dopo la lezione pomeridiana di musica. Sono le ore 19,00. L'ultima persona con cui ha un contatto telefonico è la sorella con la quale parla di una fantomatica proposta di lavoro come promotrice di cosmetici per conto dell'atelier delle Sorelle Fontana che le sarebbe stato offerto quel giorno.

23 giugno 1983. Il padre di Emanuela formalizza la denuncia di scomparsa al commissariato "Trevi". Partono le ricerche.

25 giugno 1983. A casa della famiglia Orlandi giungono le prime telefonate di segnalazione. Tra le molte inattendibili, giunse anche quella del sedicenne Pierluigi, che sosteneva di aver incontrato Emanuela a Campo dei Fiori nel ruolo di promotrice di cosmetici. Fu tenuto in considerazione in quanto la descrizione della ragazza pareva molto dettagliata. Tre giorni dopo fu la volta di tale Mario, titolare di un bar sul tragitto che Emanuela percorreva quasi quotidianamente il quale sosteneva che la giovane gli avesse confidato l'intenzione di allontanarsi volontariamente dalla famiglia. L'ipotesi si rivelerà priva di fondamento. Contemporaneamente il cugino degli Orlandi e agente del Sismi Giulio Gangi si mette sul tracce dei testimoni che avrebbero visto Emanuela parlare nei pressi del Senato con un uomo sceso da una Bmw verde. Rintracciata le vettura, Gangi entra in contatto in un residence con una misteriosa donna che lo congeda freddamente. Poco dopo Gangi scopre che i superiori sono stati avvisati delle sue indagini. Gangi sarà allontanato dal caso ed epurato dai superiori dieci anni dopo i fatti.

5 luglio 1983. Giunge alla Sala Stampa vaticana la prima telefonata di un uomo con accento anglosassone chiamato L' Amerikano. Sostiene per la prima volta il legame tra il rapimento Orlandi e l'attentato a Giovanni Paolo II. La ragazza sarebbe nelle mani dei "Lupi Grigi" per essere scambiata con l'attentatore del Pontefice Ali Agça. Le 16 telefonate anonime non troveranno mai un riscontro reale nelle piste degli inquirenti.

1995. Dai rapporti dell'allora vicecapo del Sisde Vincenzo Parisi emergerebbe la figura del Cardinale Paul Marcinkus, all'epoca presidente dello Ior, la banca vaticana legata alla vicenda del crack del Banco Ambrosiano e dell'omicidio di Roberto Calvi.

2005. Emerge la pista che legherebbe il rapimento Orlandi alla Banda della Magliana. La ragazza sarebbe stata rapita per ordine di Renato De Pedis, uno dei capi dell'organizzazione criminale su ordine del cardinale Marcinkus. Questa pista sarà indicata dalle testimonianze di Sabrina Minardi, ex moglie del calciatore Bruno Giordano la quale ebbe una relazione proprio con De Pedis. Secondo le testimonianze (rese poco affidabili dalla sua dipendenza dalla cocaina) la Minardi avrebbe confermato il coinvolgimento di De Pedis come esecutore e di Marcinkus come mandante. Emanuela non sarebbe stata uccisa subito bensì rinchiusa nei sotterranei di un appartamento del quartiere Monteverde Nuovo. Attendibile fu l'indicazione della Minardi che portò al ritrovamento della Bmw usata per il trasferimento della Orlandi, appartenuta a due personaggi effettivamente legati alla Banda della Magliana e al caso Calvi.

2011. Antonio Mancini, criminale pentito della banda della Magliana conferma ai giornalisti il coinvolgimento della banda, che avrebbe rapito Emanuela per ricattare lo Ior di Marcinkus in quanto reo di avere "bruciato" soldi delle attività illecite dell'organizzazione criminale nel crack del Banco Ambrosiano. Il fatto che De Pedis sia stato seppellito nella basilica di Sant'Apollinare dimostrerebbe il ruolo di mediatore che il capo della banda ebbe nella restituzione del denaro del Banco Ambrosiano.

2012. È la volta della pista della pedofilia, aperta dal capo degli esorcisti americani Gabriele Amorth. Il prelato sostenne che Emanuela sarebbe stata coinvolta in un giro di festini a base di droga e sesso organizzati in Vaticano che avrebbero riguardato laici e prelati altolocati. Sarebbe rimasta uccisa accidentalmente ed il suo cadavere occultato. 

2014. Legata al caso Vatileaks è la vicenda della cassaforte svaligiata in Vaticano il 30 marzo contenente documenti amministrativi relativi alle spese dell'Apsa (Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica). Poco dopo il furto i documenti della cassaforte saranno restituiti in un plico.

Settembre 2017. Inizia a farsi strada l'ipotesi che Emanuela Orlandi sia rimasta in vita almeno sino al 1997, in quanto uno dei documenti amministrativi stilati in quell'anno fa specifica menzione alle spese sostenute per le "attività relative alla cittadina Emanuela Orlandi".

Era un giallo “normale”… Poi diventò un affare di Stato (Vaticano), scrive Paolo Delgado il 19 Settembre 2017 su "Il Dubbio". La scomparsa di Emanuela Orlandi, da Marcinkus alla banda della Magliana, una storia di misteri e depistaggi sullo sfondo delle nuove rivelazioni del libro di Fittipaldi pubblicate dall’Espresso. C’è il terrorismo internazionale: l’attentato al papa, i Lupi grigi, la guerra santa del Papa guerriero (e polacco) contro l’idra rossa, la Stasi che s’impiccia e depista per stornare gli sguardi dallo zampino di Bucarest nell’attentato del lupo Alì. C’è il nido di vespe finanziarie che ruotava intorno al Ior, con di mezzo il chiacchieratissimo banchiere di Dio Paul Marcinkus, il banco Ambrosiano, la loggia più famosa del mondo e di conseguenza qualche ombra sinistra, quella dei Frati Neri con il loro bravo impiccato, quella dell’attentato in cui al posto della vittima predestinata finì ammazzato il killer, nonché boss della Magliana Danilo Abbruciati. E c’è la bandaccia naturalmente, tirata in mezzo dal pentito Antonio l’Accattone Mancini ma anche da Sabrina Minardi, ex moglie del calciatore dal piede dorato Bruno Giordano, ex amante o sedicente tale di Renatino De Pedis, il boss ripulito ammazzato in mezzo alla strada in pieno giorno, a Campo de’ Fiori, nel 1990 e destinato poi a riposare, sino alla recente cremazione, nella basilica di sant’Apollinare, con papi e santi ma per la verità anche con gente di meno nobili natali e senz’aureole di sorta. Testimoni discutibili, che non lesinano strafalcioni ma che, specie la Minardi, ogni tanto qualche riscontro lo hanno portato. Entrambi addossano al sepolto in sant’Apollinare la responsabilità del ratto senza specificarne però in modo sia pur minimamente convincente il movente. C’è l’ombra perversa di festini a base di adolescenti ancora quasi bimbe per prelati porconi e fatali incidenti, e non è neppure tutto. Grotte sotterranee che permettono di deambulare sotto la Capitale, sussurri di salme accumulate nei ridenti giardini del Vaticano, legami ipotizzati pur se mai provati con altre scomparse misteriose, a partire da quella di un’altra ragazzina, Mirella Gregori, un mese e mezzo prima della sparizione della Orlandi. Materiale che al confronto I Misteri di Parigi vagheggiati da Eugene Sue sembrano segretucci da educande. Il caso Orlandi è il vero grande giallo italiano. Lo resterebbe anche se, come sostiene il giornalista che più di ogni altro è andato a fondo nel fattaccio, Pino Nicotri, tutto questo clamore che da quasi 35 anni non si attenua fosse solo frutto di una perversa spirale mediatica, uno show troppo ghiotto, con audience troppo malata e rinnovatasi nel tempo per essere abbandonato. Perché anche in quel caso la somma di depistaggi, interferenze, intrecci poco districabili di bugie e verità basterebbero a rendere quella scomparsa l’evento forse più clamoroso nella storia criminale della Capitale e del Paese tutto. Le ultime a vedere viva Emanuela Orlandi, 16 anni non ancora compiuti, furono due compagne di corso nella scuola di musica di sant’Apollinare dove la ragazza faceva, pare, mirabili progressi con il flauto. Si incontrarono alla fermata dell’autobus di fronte al Senato intorno alle 19 del 22 giugno 1983. Emanuela raccontò di una allettante proposta di lavoro: 350mila lire per pubblicizzare una linea di prodotti di bellezza. Le suggerirono di stare in campana. Promise di decidere solo dopo aver chiesto il permesso a casa e in effetti telefonò alla sorella che le suggerì di aspettare e parlarne con i genitori. Poi le tre amiche si separarono e da quel momento di Emanuela non si è più saputo niente. Era una ragazza tutta casa, scuola e Chiesa, dissero parenti e amici, impossibile sospettare qualche frequentazione equivoca. Quasi vent’anni dopo l’avvocato della famiglia, Gennaro Egidio, smentì: «I motivi della scomparsa sono molto più banali di quello che si è fatto credere. Contrariamente alle dichiarazioni dei familiari, Emanuela di libertà ne aveva molta». Le nuove indagini confermarono: Emanuela era una ragazza normale. Le capitava di saltare la scuola e firmarsi la giustificazione da sola. Tra i ragazzi un po’ più grandi che frequentava ce n’erano alcuni che usavano stupefacenti, o che andavano a rimorchio di ragazze per le strade da quel punto di vista ottimamente frequentate intorno al Vaticano, a uno era capitato pure di prostituirsi. Secondo il legale sarebbe stato casomai opportuno scandagliare meglio il giro di amicizie dalla zia paterna. Egidio promise a Nicotri di dire qualcosa in più su quelle frequentazioni di zia Anna a breve, ma era malato e spirò prima di farlo. Nulla di speciale, se non, forse, che l’identikit alla santa Maria Goretti ostacolò forse sul momento la pista più ovvia, quella di un rimorchio da parte dello sconosciuto che offriva soldi facili e soprattutto visibilità patinata finito in tragedia. Fu infatti facile appurare che non c’era nessuna ricerca di volti nuovi da parte di quella società di cosmetici e che, in compenso, il marpione e forse peggio aveva già provato ad adescare fanciulle in quel modo, e nella stessa zona, altre volte. A rendere il caso qualcosa in più che non uno dei tanti casi di ragazze sparite che costellano da decenni le puntate di Chi l’ha visto? fu il papa in persona. Emanuela era cittadina vaticana e appena dieci giorni dopo, il 3 luglio, durante l’Angelus, Giovanni Paolo II lanciò un appello ai rapitori. Ne seguirono altri 7. Fu quell’appello a evocare la tempesta o si sarebbe prodotta comunque? Difficile, anzi impossibile dirlo. Di fatto, appena due giorni dopo, un uomo con accento americano telefonò in sala stampa vaticana per chiedere uno scambio con Alì Agca, il turco che nel 1981 aveva sparato al papa. Arrivarono altre telefonate: una a un’amica della giovane scomparsa: amica di fresca data, il cui numero di telefono Emanuela aveva segnato proprio poche ore prima di sparire. Altre 15 dall’Americano che i periti ipotizzarono potesse essere Paul Marcinkus, il cardinale al vertice della banca vaticana, lo Ior, in persona. Un anno dopo, tanto per restare in tema turco, arrivò anche la chiamata dei Lupi grigi, l’organizzazione in cui aveva militato Agca. Si scoprì poi che a chiamare erano invece i servizi tedeschi dell’est, per sviare dai colleghi bulgari il sospetto di aver organizzato l’attentato del 1981. A tirare in ballo la Magliana, già nel nuovo millennio, fu prima una telefonata anonima, poi Mancini, infine, e con dovizia di particolari Sabrina Minardi. Confusa, anche per via dei decenni di stupefacenti assunti nel frattempo, spesso incoerente, pasticciona sulle date, la (sedicente) ex amante di Renatino non si poteva né si può definire del tutto non credibile. Aveva parlato lei per prima di un rifugio sotterraneo che si prolungava per chilometri, al quale si poteva accedere da un appartamento nel quale sarebbe stata tenuta prigioniera Emanuela, e l’immenso sotterraneo, quasi una città sotto la metropoli, c’è davvero, con tanto di lago sotterraneo. Aveva raccontato di essere andata anche lei a prelevare la Orlandi, con una BMW, in quel 22 giugno 1983, e l’automobile è saltata fuori davvero, proprietà del faccendiere Flavio Carboni, uno dei ballerini impegnati nella danza macabra intorno a Roberto Calvi poco prima dell’impiccagione del banchiere sotto il Ponte dei Frati neri a Londra, passata poi a uno dei tanti che gravitavano intorno alla Banda più celebrata della storia criminale italiana. Inevitabilmente il dossier spuntato dal Vaticano ricaricherà le batterie del carrozzone mediatico. Autorizzerà sospetti, permetterà di lanciarsi in nuove ipotesi, attirerà picchiatelli e bugiardi meno disinteressati. Forse ha ragione Nicotri, convinto che di misterioso, in questo caso, ci sia solo il nome del bastardo che dopo aver attirato Emanuela in trappola l’ha ammazzata. Ma anche al netto dei mitomani e dei depistatori, che in questo caso sono stati davvero una legione, è difficile evitare la sensazione che qualcosa di misterioso, nel giallo della povera Emanuela, ci sia davvero.

“Dietro l’altare”, il docu-film sugli abusi della Chiesa, scrive Francesca Spasiano il 26 luglio 2017 su "Il Dubbio". Una storia di violenze e insabbiamenti. Lucio Mollica racconta come è nato “Dietro l’altare”, il docu-film sui casi di pedofilia nella Chiesa. Una storia di violenze e insabbiamenti. Il lungo trascorso della Chiesa è costellato di capitoli bui e adesso lo scandalo degli abusi bussa alle porte del Vaticano. Se anche la commissione antipedofilia voluta da Papa Francesco si è rivelata insufficiente nell’affrontare la guerra alle tonache incriminate, sorge naturale lo scoramento dei più ottimisti. «Abbiamo un bisogno disperato di credere in papa Francesco. Il papa trasuda sincerità. È senz’altro un uomo buono. Quindi mettere in discussione le sue parole e misurare il loro divario con la realtà è stato più che uno sforzo intellettuale: uno sforzo emotivo, ancora più doloroso se l’argomento è quello degli abusi sui minori», racconta John Dickie nel presentare il suo ultimo lavoro, Dietro l’altare (Behind the altar), in onda stasera alle 21 in prima tv mondiale su LaF (Sky 139). Il documentario risponde alla crescente domanda di chiarezza sul tema della pedofilia, proprio mentre il dibattito sulle vicende di violenze sessuali investe la Santa Sede ai suoi vertici sulla scorta del caso George Pell. Il lavoro di inchiesta e investigazione internazionale realizzato dallo storico britannico riporta la preziosa testimonianza di vittime, esperti e religiosi: da Marie Collins a Padre Hans Zollner, entrambi membri della Pontificia Commissione per la tutela dei Minori. Il docu-film – diretto dal regista messicano Jesus Garces Lambert e prodotto da GA&A Productions con ZDF/Arte, EO, Witfilm in associazione con Effe tv e altre nove broadcast internazionali – è un viaggio verso la verità, dagli Stati Uniti d’America alla Francia, dal Vaticano all’Argentina attraverso la Storia della Chiesa fino alla rivelazione di casi sconosciuti. Ce lo racconta Lucio Mollica, tra gli autori del documentario insieme a Vania del Borgo e lo stesso John Dickie. Il team si era già consolidato nel lavoro di scrittura di “Chiesa Nostra”, uno speciale che svela il sodalizio tra Chiesa cattolica e criminalità organizzata.

Quale contributo apporta questo documentario al lavoro di indagine sui casi di pedofilia nella Chiesa?

«L’obiettivo di questo film era documentare quanto sta avvenendo sotto il papato di Francesco sul tema della lotta agli abusi sui minori. La sorpresa è che la Chiesa non ha davvero voltato pagina nonostante l’impegno promesso dal pontefice. Le aspettative deluse sono al centro del nostro lavoro».

Si esprime dunque un giudizio nei confronti dell’operato di Papa Francesco?

«Il papa ha più volte ribadito intransigenza contro quei preti protagonisti d’abusi e ha promesso tolleranza zero. Non abbiamo motivo di dubitare della sincerità delle sue parole, ha ancora il tempo per riprendere il cammino di riforme avviato da Benedetto XVI, ma episodi di pedofilia interni alla Chiesa continuano a verificarsi numerosi in ogni parte del mondo senza che vi sia una concreta assunzione di responsabilità e un intervento deciso. Se Papa Francesco non vuole vanificare la bontà dei suoi intenti deve correre ai ripari e schierarsi con provvedimenti severi».

Lo scandalo del Caso Pell ha coinvolto per la prima volta la Chiesa nelle sue più alte sfere, accentrando il dibattito sulle vicende di pedofilia, oggi più acceso che mai. Cosa si nasconde “dietro l’altare”?

«Sono molte le figure controverse tra la rappresentanza ecclesiastica. Si pensi al cardinale cileno Errazuriz chiamato a far parte del gruppo di 9 alti prelati che assistono papa Francesco nel governo della Chiesa Universale nonostante sia stato criticato dalle vittime per non aver condotto adeguatamente le indagini sul più noto caso di pedofilia del clero cileno. L’imperativo è rompere la coltre di silenzio. Molti episodi si sarebbero potuti evitare se si fosse prestato attenzione alle denunce dei parenti delle vittime, e se la Chiesa si fosse prestata a collaborare con le autorità giudiziarie».

Sappiamo che il lavoro di inchiesta condotto ha una portata internazionale. Come avete selezionato le tappe del viaggio?

«Il numero di vittime è davvero impressionante. Dopo un lungo lavoro di scrematura abbiamo selezionato le storie che ci sembravano più rappresentative del fenomeno di abusi e violenze diffuso in tutto il mondo. Siamo partiti dalla Francia, a Lione dove sono emersi episodi di abusi su almeno 70 bambini. Tornando in Italia, ci siamo soffermati sul caso di Don Inzoli, senz’altro rappresentativo della lentezza della burocrazia e della Chiesa nell’affrontare la lotta ai crimini sessuali. Preziosa la testimonianza di Marie Marie Collins, ex membro della Pontificia Commissione per la tutela dei Minori e a sua volta vittima, che ci ha raccontato come il percorso di riforme intrapreso abbia infine condotto alle sue dimissioni a cause delle resistenze incontrate in Vaticano. Negli Stati Uniti, siamo stati ad Altoona-Johnstown, in Pennsylvania, per un’inchiesta su centinaia di bambini vittime di abusi sessuali: a seguito degli scandali esplosi l’atteggiamento della procura è di tolleranza zero. Infine l’Argentina, il paese del Papa, con le prime ed esclusive interviste alle vittime di Padre Corradi, arrestato con l’accusa di aver abusato sessualmente di alcuni studenti sordomuti dell’Istituto Provolo di Mendoza».

Che tipo di resistenza avete incontrato nel corso della vostra ricerca?

«Il problema principale per chi conduce indagini di questo tipo è di dover confrontarsi con una Chiesa che si ostina a mantenere sotto silenzio tutto ciò che riguarda gli abusi sessuali. Questo vale sia per noi giornalisti, che per i legali delle vittime e soprattutto per i magistrati. Nel film raccontiamo il caso di un pm italiano che si è visto rifiutare dal Vaticano una rogatoria internazionale. I processi canonici sono sotto segreto pontificio, e per chi tradisce questa regola ci sono pene severissime. Omertà e silenzio sono al centro di un atteggiamento increspatosi negli anni».

Il tema degli abusi sui minori è prima di tutto un argomento fatto di sofferenza umana. Come raccontare la pedofilia?

«È stato molto difficile confrontarsi con storie così raccapriccianti, che vedono al centro i bambini. Definiamo spesso i protagonisti di queste vicende delle “vittime”, eppure io li appellerei “eroi”: nonostante il peso ditali sofferenze, trovano il coraggio di raccontare la propria storia e di sfidare la autorità, vittime ancora una volta. Mi piacerebbe segnalare tra le testimonianze raccolte il ruolo delle donne, sempre in prima linea nel rompere il silenzio. È forse proprio da loro che la Chiesa dovrebbe ricominciare per condurre la “rivoluzione” necessaria».

IL MISTERO DI SERENA MOLLICONE.

Delitto di Arce, la perizia del Ris conferma: "Serena Mollicone uccisa nella caserma dei carabinieri". I militari hanno analizzato i frammenti di legno recuperati nel corso della nuova autopsia sul nastro adesivo con cui erano stati bloccati mani e piedi della diciottenne uccisa nel 2001, scrive Clemente Pistilli il 27 settembre 2018 su "La Repubblica". Serena Mollicone è stata uccisa all'interno della caserma dei carabinieri di Arce. Al principale sospetto dei magistrati di Cassino, impegnati a distanza di 17 anni dall'omicidio a far luce sulla morte della ragazza, è arrivata ora la conferma dai carabinieri del Ris. Gli investigatori in camice bianco hanno ultimato la perizia sui frammenti di legno recuperati, nel corso della nuova autopsia effettuata sulla salma della vittima, sul nastro adesivo con cui erano stati bloccati mani e piedi della diciottenne e si sono convinti che quel materiale provenisse dai locali appunto della caserma. Il 1 giugno 2001 Serena Mollicone, 18enne di Arce, in provincia di Frosinone, uscì di casa per recarsi all'ospedale di Isola Liri e nel primo pomeriggio, rientrata nel suo paese, sparì. Il corpo della giovane studentessa venne trovato due giorni dopo da alcuni volontari della Protezione civile in un boschetto di Anitrella, frazione del vicino Monte San Giovanni Campano, con un sacchetto di plastica sulla testa, e le mani e i piedi legati. Venne presto indagato un carrozziere di Rocca d'Arce, con cui la diciottenne si sospettò avesse un appuntamento, Carmine Belli, ma l’uomo venne prosciolto in via definitiva ed è ora tra quanti invocano giustizia per Serena. Nel 2008 poi si verificò un altro episodio misterioso, il suicidio del carabiniere Santino Tuzi, che era tra i militari presenti in caserma il giorno della scomparsa della 18enne. Un dramma che ha portato gli investigatori a intensificare le nuove indagini intanto aperte per cercare di scoprire i colpevoli dell’omicidio. In Procura a Cassino si sono man mano convinti che la giovane sia stata picchiata a morte, dopo un violento litigio, all'interno della caserma dell'Arma di Arce, dove si era recata forse per denunciare strani traffici in paese, che sia stata portata agonizzante nel boschetto di Anitrella e che, scoperto che respirava ancora, sia stata soffocata. Un omicidio a cui avrebbe fatto seguito una serie di depistaggi. Sono stati così indagati, con le accuse di omicidio volontario e occultamento di cadavere, l'ex comandante della stazione di Arce, il maresciallo Franco Mottola, il figlio Marco e la moglie Anna, il luogotenente Vincenzo Quatrale per concorso morale nell’omicidio e per istigazione al suicidio del brigadiere Tuzi, e l'appuntato Francesco Suprano per favoreggiamento. Le indagini dei carabinieri di Frosinone, consegnata anche la perizia dei Ris, appaiono ormai concluse e a breve il sostituto procuratore Maria Beatrice Siravo dovrebbe tirare le somme. Forse l'ora della verità su uno dei peggiori cold case italiani è giunta.

Omicidio Mollicone: tutti gli indizi che portano alla caserma. La perizia dei Ris conferma la tesi investigativa: Serena sarebbe stata uccisa presso la sede dei Carabinieri di Arce, scrive Barbara Massaro il 28 settembre 2018 su "Panorama". Serena Mollicone sarebbe stata uccisa presso la caserma dei Carabinieri di Arce, nel frosinate. Ne sono convinti i Ris (Reparto Investigazioni Scientifiche) dell'Arma che hanno depositato in procura a Cassino gli esiti della perizia eseguita dopo la seconda autopsia sul corpo di Serena Mollicone, 18 anni, trovata senza vita in un boschetto di Fonte Cupa (oggi Fonte Serena) ad Anitrella, località a pochi chilometri da Arce nel 2001.

Cosa hanno scoperto i Ris. I Ris, su richiesta della procura, hanno analizzato alcune polveri di legno e vernice rilevate sul nastro adesivo con cui la diciottenne è stata legata, mani e piedi, prima di essere abbandonata nel boschetto dove, due giorni dopo, è stata trovata morta. Quelle stesse polveri sarebbero state ritrovate in alcuni ambienti della caserma e quindi quel nastro potrebbe provenire proprio dalla sede dei Carabinieri di Arce esattamente come i frammenti di legno rimasti attaccati al corpo della vittima. Quel legno proverrebbe, infatti, dalla porta della stanza della caserma dove la giovane (che si era presentata per sporgere denuncia) sarebbe stata uccisa. Nel novembre dello scorso anno un altro indizio aveva portato a credere che il luogo dell'omicidio potesse essere proprio la caserma. Le lesioni sul capo della vittima sarebbero, infatti, state compatibili con la frattura rinvenuta proprio sulla porta della caserma di Arce. A stabilirlo, in quel caso, era stata la consulenza medico scientifica firmata dalla Dottoressa Cristina Cattaneo e consegnata al procuratore capo di Cassino Luciano d’Emmanuele che, a 18 anni di distanza dai fatti, cerca di dare un nome all'assassino di Serena Mollicone insieme al sostituto procuratore Maria Beatrice Siravo. Quel documento unito alla perizia consegnata nella serata del 27 settembre 2018 in Procura potrebbe portare alla conclusione di uno dei più drammatici cold case della storia della cronaca italiana.

I fatti. Era il primo giugno 2001 quando Serena, studentessa diciottenne di Arce, venne vista entrare nella Caserma dei Carabinieri di Via Valle. A quanto pare (così sostiene da sempre suo padre Guglielmo Mollicone) avrebbe voluto denunciare qualcuno per qualcosa. Due giorni dopo quel primo di giugno il suo corpo sarebbe stato trovato senza vita in un boschetto di Fonte Cupa (oggi Fonte Serena) ad Anitrella, località a pochi chilometri da Arce. Era imbavagliata, legata e la sua testa era avvolta da un sacchetto di plastica. Sul corpo evidenti segni di lesioni, ma nessuna violenza carnale. Dopo 16 anni non è ancora chiaro cosa sia successo in quei due giorni e soprattutto non ha ancora un nome il suo o i suoi assassini. Nel frattempo sei persone sono state iscritte nel registro degli indagati. Il carrozziere Carmine Belli è stato processato e assolto, il brigadiere Santino Tuzi si è ucciso, il cadavere di Serena è stato riesumato e papà Guglielmo Morricone non ha mai smesso di chiedere giustizia per la figlia convinto che Serena da quella caserma di Arce non sia mai uscita uccisa per qualcosa che sapeva. Da sei anni, con l'accusa di omicidio volontario e occultamento di cadavere, sono indagati l'ex comandante dei Carabinieri Franco Mottola, suo figlio Marco e la moglie di Mottola.

La tesi dell'accusa. L'accusa sostiene che Serena quel giorno si sia recata in caserma per denunciare un giro di spaccio di droga che avrebbe coinvolto anche il figlio dell'allora comandante dei Carabinieri, Marco Mottola. La giovane è stata vista entrare dal brigadiere Tuzi che, nel 2008, dichiarerà: "Serena quel giorno è entrata in caserma per fare una denuncia, io ho chiamato l’appartamento del comandante e mi hanno detto di farla salire. Quando ho lasciato il lavoro intorno alle 14.30 Serena non era ancora uscita". In quel periodo di tempo l'aguzzino o gli aguzzini della ragazza l'avrebbero picchiata prendendola a pugni e calci e facendole sbattere il capo sulla porta d'ingresso della stanza. La Mollicone, priva di sensi, ma non ancora morta, sarebbe stata quindi legata e imbavagliata e portata nel boschetto di Fonte Cupa. Dopo una buona quantità di tempo qualcuno sarebbe tornato a verificare lo stato del corpo della ragazza rendendosi conto che era ancora viva e decidendo di metterle la testa all'interno di un sacchetto di plastica per ucciderla soffocandola. Il corpo è stato scoperto due giorni dopo.

Il suicidio Tuzi. Una serie di depistaggi, reticenze e omertà a lungo taciute hanno rischiato di far archiviare il delitto senza che nessuno fosse condannato. Una battuta d'arresto all'intero impianto accusatorio era stata data dal suicidio di Tuzi trovato morto nella sua auto ucciso da un colpo di pistola all'addome sparato dalla pistola d'ordinanza. La figlia di Tuzi, all'indomani della deposizione della perizia medica, rompe il silenzio e oggi al Messaggero dice: "Mio padre è stato ricattato, qualcuno gli ha prospettato ritorsioni contro figli e nipoti. Per questo, per anni, ha taciuto sulla morte di Serena". E poi ha aggiunto: "Quanto emerso dalla consulenza conferma a pieno la tesi sostenuta da anni da Guglielmo Mollicone: che Serena quel giorno si sarebbe recata in caserma. Per quanto concerne mio padre, credo che il suo silenzio, durato sette anni, sia stato il frutto di un senso di protezione nei confronti della famiglia. Qualcuno lo ha ricattato, non ho le prove ma è quello che abbiamo portato all'attenzione della Procura che ha riaperto le indagini sulla sua morte".

La fiducia di Mollicone. Anche Guglielmo Mollicone si è detto fiducioso dai dati emersi dalla consulenza: "A questo punto - commenta l'uomo assistito dall’avvocato Dario De Santis - mi aspetto che si arrivi presto a una svolta per sapere chi ha ucciso mia figlia. La procura di Cassino sta facendo un ottimo lavoro e sono sicuro che stavolta la strada è quella giusta". Per Francesco Germani, l’avvocato che assiste la famiglia Mottola, "Non c’è alcun elemento oggettivo a carico dei miei assistiti. Si è trattato di rilievi tecnici che ci vedono fiduciosi. Del resto, tutti gli accertamenti svolti in precedenza sono stati negativi". Il caso era stato riaperto nel 2016 su istanza della Procura di Cassino che ha chiesto la riesumazione del cadavere affinché fosse trasferito all'istituto di medica legale di Milano dove la Dottoressa Cattaneo l'ha analizzato per più di un anno.  La consulenza era stata disposta per accertare eventuali correlazioni tra la morte di Serena e la sua presenza il primo giugno nella caserma dei carabinieri di Arce. 

IL MISTERO DI MARTA RUSSO.

Giovanni Valentini: «Io, Pannella e il caso Tortora: ero l’unico garantista in redazione», scrive Rocco Vazzana il 15 Ottobre 2017 su "Il Dubbio". Quando era direttore dell’Espresso, Valentini invitò Pannella per parlare del caso Tortora, la redazione, che allora era decisamente colpevolista, minacciò quasi uno sciopero. Giovanni Valentini si considera un garantista da sempre. «Almeno dal 1972, quando per la Gazzetta del Mezzogiorno seguii la prima tranche del processo Valpreda insieme a Giampaolo Pansa, all’epoca alla Stampa, e al povero Walter Tobagi, che lavorava per il Corriere d’Informazione». Poi arrivò la direzione dell’Espresso e la vice direzione di Repubblica. Ma a furia di non puntare il dito contro gli imputati dei grandi processi mediatici, si guadagnò l’appellativo di “Penna rossa”. «Confondevano il mio garantismo con una sorta di innocentismo. Ma io, dal caso Valpreda a quello Marta Russo, non sono mai stato un innocentista, non ho mai sostenuto l’innocenza di un imputato, mi son sempre battuto solo per il diritto al giusto processo. E Valpreda fu accusato di una strage che non aveva compiuto», dice. «L’esposizione al pubblico ludibrio di un imputato, che avrebbe diritto alla presunzione di innocenza in base a un principio irrinunciabile di civiltà del diritto, corrisponde a una condanna. E ha ragione chi dice che non si può parlare di “gogna mediatica”, perché la gogna era una pena che veniva applicata dopo un processo, mentre adesso lo precede. Il sistema giudiziario italiano non tutela in modo sufficiente l’imputato». È un pozzo di aneddoti Valentini, testimone privilegiato dei grandi casi giudiziari degli ultimi cinquant’anni.

Direttore, tra i casi di cui si è occupato maggiormente c’è l’omicidio Marta Russo, su cui ha anche scritto un libro, “Il mistero della Sapienza”. Mise in dubbio l’impianto accusatorio…

«Io non ho mai sostenuto l’innocenza di Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro. Ho espresso in modo civile e continente un’opinione: le prove, per come erano state raccolte erano incerte, tardive e contraddittorie. Sono i tre requisiti in base ai quali, secondo il codice di procedura penale, scaturisce l’assoluzione, perché l’accusa non è riuscita a dimostrare la colpevolezza dell’imputato».

Perché ha dichiarato in più occasioni di essere stato perseguitato dai due pm che seguirono il caso?

«Mi hanno querelato più volte per diffamazione, anche per alcuni articoli apparsi su Repubblica, quando pubblicai una contro inchiesta in cinque puntate. Ma non ho mai scritto, detto e pensato che i due imputati fossero innocenti. C’erano le condizioni minime per accusarli però i due inquirenti non sono mai riusciti a dimostrare la loro tesi accusatoria: l’omicidio volontario. Infatti Scattone e Ferraro sono sempre stati condannati per omicidio colposo, per il quale, in teoria, bisognerebbe cambiare il capo di imputazione, si dovrebbero produrre delle prove, non può essere uno sconto. Nel caso Marta Russo si vedono le principali storture del sistema giudiziario italiano, dove il pm è dominus assoluto delle indagini e le indirizza, le condiziona, le orienta e, a volte in perfetta buona fede, le disorienta. Di conseguenza, la polizia giudiziaria perde qualsiasi autonomia funzionale. Due o tre giorni dopo l’omicidio della povera studentessa, la Digos produsse un’informativa in cui si avanzava un’ipotesi del tutto diversa rispetto a quella dell’accusa: si sosteneva che il colpo fosse partito dal bagno disabili al pian terreno, non dalla sala assistenti».

E la perizia balistica?

«Le perizie erano anch’esse contraddittorie. È normale, sia chiaro, non c’è da scandalizzarsi. Ma se non si raggiunge una certezza definitiva sull’origine dello sparo, sulle modalità e sul movente è difficile riuscire a dimostrare la tesi dell’omicidio volontario».

Crede che Scattone e Ferrano non abbiano avuto un giusto processo?

«Il giusto processo deve garantire non solo l’imputato ma anche i cittadini. All’epoca c’erano i genitori di 200mila studenti della Sapienza particolarmente preoccupati per i loro figli. Non sapevano se all’università circolavano dei serial killer o dei terroristi. Il problema non riguarda solo i diretti interessati, riguarda tutta l’opinione pubblica. Per capirci, nella tesi accusatoria si ricordava che Scattone aveva sostenuto il servizio militare nei Carabinieri ed era in possesso di un ottimo libretto di tiro. Questo doveva essere un elemento determinante per dimostrare la volontarietà dell’omicidio. Lui però è stato condannato per omicidio colposo e il dettaglio della sua abilità nel tiro è sparito dal castello accusatorio per dimostrare una tesi opposta. Ma come è possibile che uno bravo a maneggiare le armi fa partire un colpo per sbaglio e uccide? Ciò non significa che fosse innocente, ma che la sua colpevolezza non è stata dimostrata».

Perché non venne riformulato il capo d’accusa?

«Al di là del caso specifico, il problema sta nella contiguità tra pm e giudice. Una contiguità che non si materializza solo tra l’inquirente e il giudice finale, ma in tutti i gradi del processo, anche con il Gip e il Gup. Troppo spesso il giudizio si precostituisce prima del dibattimento e della sentenza».

Come si scardina questo circolo vizioso?

«Trovo molto interessante la proposta emersa al congresso dell’Unione delle Camere penali: creare due Csm, uno per i pm e uno per i giudici. È una proposta garantista non solo perché garantisce il cittadino imputato, ma garantisce anche l’autorevolezza e l’affidabilità del magistrato».

Lei fu anche tra i primi a sostenere l’innocenza di Enzo Tortora…

«Assunsi la direzione dell’Espresso il primo luglio del 1984, il mio predecessore era Livio Zanetti, collocato su posizione vagamente radical- socialiste. C’era una nutrita pattuglia di bravi giornalisti giudiziari, non mi faccia fare nomi, schiacciati su una linea giustizialista e colpevolista contro Tortora. A poche settimane dal mio insediamento, Marco Pannella chiese di venire a trovarmi. Ricordo che sulla mia scrivania c’era un cartello verde con la scritta: “Vietato fumare”. Marco ci rimase malissimo. E il solo fatto che fosse venuto a spiegarmi alcuni particolari sul caso Tortora fu sufficiente a suscitare una reazione di protesta, ci mancò poco che scattasse uno sciopero su iniziativa di quei cronisti che, in perfetta buona fede, si fidavano delle loro fonti sul caso Tortora».

Come fece a gestire una redazione contraria?

«Ci volle un po’ di tempo e una lunga discussione ma, carte alla mano, riuscii a cambiare la linea del giornale. Verso la fine del processo pubblicai La colonna infame in allegato, come simbolo di questo errore giudiziario. Pochi giorni fa, la signora Scopelliti, vedova di Enzo Tortora, mi ha confidato di aver deposto una copia di quell’allegato nella bara del marito poco prima che venisse chiusa».

«Mai essere garantisti o arriva Rosy Bindi e ti lapida in pubblico», scrive Errico Novi il 3 Ottobre 2017 su "Il Dubbio". Intervista a Massimo Adinolfi, filosofo ed editorialista del “Mattino”: «La presidente dell’antimafia afferma che il mio giornale e il Messaggero difendono i corrotti. Parole volgari che seguono l’onda del populismo». Il filosofo Massimo Adinolfi è editorialista del Mattino da dieci anni. Mai gli era capitato di essere seppur indirettamente scaraventato nel girone degli opinionisti a gettone, di chi riflette e analizza non per convinzione ma per comodità. Nello specifico, Bindi ha di fatto messo anche lui nel calderone quando sabato scorso ha liquidato con la seguente sentenza la battaglia di Mattino e Messaggero contro i sequestri preventivi agli indiziati di corruzione: «Mi indigno perché vedo che ci sono alcuni direttori di giornale che fanno gli interessi dei loro editori non in quanto editori, ma in quanto costruttori, e attaccano questa legge in qualche modo per minare tutto il sistema delle misure di prevenzione». Un’allusione di sorprendente e gratuita sgradevolezza al fatto che i due principali quotidiani di Napoli e di Roma sono editi appunto da un costruttore, Francesco Gaetano Caltagirone. Sul Messaggero ieri ha risposto con ironia affilatissima Carlo Nordio, un altro della cui integrità sarebbe semplicemente demenziale dubitare.

E lei come l’ha presa, professor Adinolfi?

«Davvero male. Sono amareggiato e appunto ho preferito autocensurarmi. Non ho voluto utilizzare il mio giornale per una replica sincera e schietta che sarebbe apparsa come un fatto personale».

Può replicare con quest’intervista.

«Ecco, quella frase mi pare si inserisca alla perfezione in un certo andazzo, la lapidazione del garantismo attraverso lo screditamento di chi lo professa. Chiunque in questi ultimi anni si sia impegnato in battaglie sui diritti si è sentito rovesciare addosso volgarità dello stesso tipo. È un malcostume antico: anziché entrare nel merito si preferisce screditare la persona».

Spesso Bindi si è lamentata per la volgarità degli avversari, soprattutto di centrodestra: usa la stessa moneta?

«Guardi, la presidente Bindi è una sincera cattolica, giusto? Quindi parliamo del peccato ma non del peccatore, ecco. Se lei mi chiede se quella frase è stata volgare…»

Glielo chiedo.

«… lo è stata senza dubbio, ed è di quella volgarità che le dicevo, usata con abituale disinvoltura su argomenti del genere. Se invece mi chiede della presidente Bindi, le dico che non è una persona volgare. Ma è come se si fosse unita a un coro che rimbomba da anni».

La lapidazione dei garantisti?

«Nel clima giustizialista e populista che si respira, una battuta come quella del vertice dell’Antimafia è subito compresa. Se invece devi spiegare perché ti batti per impedire che una certa legge laceri il sistema delle garanzie, devi spiegarti a lungo, devi ricorrere a un armamentario persuasivo molto più articolato».

Come ci si è arrivati?

«Il fatto che chi ha posizioni garantiste venga subito additato come connivente, colluso, moralmente ambiguo, affonda le sue radici nella crisi della nostra classe dirigente, non solo di quella politica. La credibilità del sistema è precipitata a un grado così basso che assumere una posizione libera e indipendente senza essere subito trascinati nel gorgo degli screditamenti reciproci è diventata un’impresa».

La politica ha una pessima opinione di se stessa e la estende al prossimo.

«Di più: la politica ormai non ha alcuna idea di sé. C’è una perdita di funzione storica che è davvero drammatica: la politica non sa più dove portare questo Paese né sa perché ha un ruolo dirigente».

L’affermazione può essere letta anche al rovescio: proprio perché è stata svuotata di funzione da poteri sovranazionali e privi di legittimazione democratica, la politica ha perso credibilità.

«Certo, è un circolo vizioso. E se arriva a conseguenze sempre più estreme può mettere la democrazia in serio pericolo. È vero che l’uso della delegittimazione morale per abbattere un potere fa parte della storia europea dall’Illuminismo in poi. Cito un testo che lo spiega con chiarezza: Critica illuminista e crisi della società borghese, di Reinhart Koselleck. Solo che l’Ancien régime era un sistema evidentemente autocratico, nel nostro caso vediamo messa in discussione la sovranità democratica. E quanto più è sommersa dalla marea del discredito, tanto più la politica perde di senso e si svuota».

La battaglia garantista è persa in partenza?

«Faccio l’esempio della presidente Bindi: ha detto che i sequestri a chi è solo indiziato di corruzione sono un regalo agli italiani, io a lei vorrei regalare un manuale di logica. Mi riferisco a un’altra sua frase, secondo cui Mafia Capitale dimostrerebbe come la mafia usi metodi corruttivi, e che quindi le misure contenute nel Codice antimafia sono indispensabili. Il punto è che la mafia può anche servirsi dello strumento corruttivo, ma questo, sul piano logico, non può equivalere all’assunto per cui ogni fenomeno corruttivo è mafioso. È un errore circolare, è come dire che poiché tutti gli uomini sono mortali, e tutti gli animali sono mortali, tutti gli animali sono uomini».

Com’è che in Parlamento i fautori della legge hanno vinto?

«Primo: è un provvedimento illiberale. Secondo: sono sinceramente sorpreso del giudizio che ne ha dato il ministro Orlando, con il quale ho avuto il privilegio di collaborare. Conosco la sua misura, la sua preparazione, e davvero non comprendo perché si dica favorevole a una norma simile. Vorrei ricordare che vi è prevista l’inversione dell’onere della prova: è l’indiziato a dover fornire prova della lecita provenienza dei suoi beni. Ma un conto è imporlo a un presunto mafioso, estenderlo a chi è appena indiziato di reati contro la pubblica amministrazione è appunto illiberale.

Il ministro sostiene che i “no” sono tipici di un Paese in cui la proprietà privata è intangibile anche al di là di come la si è acquisita.

«Mi pare che nel nostro ordinamento siamo già colmi di misure di confisca, non credo si tratti di un tabù».

IL MISTERO DI SIMONETTA CESARONI.

Il 7 agosto 1990 in via Poma viene ritrovato il corpo di Simonetta Cesaroni. È stata immobilizzata a terra, qualcuno si è messo in ginocchio sopra di lei e l’ha colpita con un oggetto o le ha battuto la testa contro il pavimento facendola svenire. Poi, l’assassino ha preso un tagliacarte e ha iniziato a pugnalarla a ripetizione. Simonetta viene lasciata nuda, con il reggiseno allacciato, ma calato verso il basso, con i seni scoperti. Su uno dei capezzoli c’è una ferita che sembra un morso. Non vengono analizzati eventuali ritrovamenti di saliva attorno al capezzolo, posto che quella escoriazione sia dovuta a un morso. Dopo Pietrino Vanacore, portiere del palazzo, e Federico Valle, nipote di uno dei residenti, nel 2007, l’ex-fidanzato di Simonetta, Raniero Busco, viene formalmente indagato. Sono passati diciassette anni dal delitto. Nel 2009 il pubblico ministero chiede il rinvio a giudizio di Busco. Il giudice decide di ascoltare i cinque consulenti che hanno eseguito la perizia sull’arcata dentaria di Busco e il confronto tra l’arcata dentaria dell’imputato e il morso al capezzolo del seno sinistro di Simonetta Cesaroni. Viene anche convocato il consulente tecnico di Raniero Busco. I cinque periti del pubblico ministero – tra i quali un capitano del Ris – espongono i risultati della loro analisi sull’arcata dentaria di Raniero Busco e dimostrano, anche attraverso prove fotografiche, la perfetta compatibilità tra i segni del morso sul capezzolo del seno sinistro di Simonetta Cesaroni e i denti dell’imputato. Il giudice ascolta anche la relazione del consulente nominato dalla difesa di Busco, che ritiene la lesione sul capezzolo della vittima come compatibile solo con l’azione di un morso laterale per il quale non è possibile giungere a alcuna attribuzione; evidenzia pure che le incisioni dentali di Busco, se di morso si tratta, sarebbero state completamente differenti, escludendo quindi che sia lui l’autore della lesione sul capezzolo. Il giudice accoglie la richiesta del pubblico ministero e rinvia a giudizio Raniero Busco. A gennaio 2011, al termine del processo di primo grado, Raniero Busco viene riconosciuto colpevole dell’omicidio di Simonetta Cesaroni e condannato a 24 anni di reclusione. A aprile 2012, al termine del processo di secondo grado, Busco viene assolto dall’accusa del delitto Cesaroni per non aver commesso il fatto. La Procura ricorre in Cassazione e nel febbraio 2014 Busco viene definitivamente assolto. Morso, tracce di Dna, sangue mischiato, perizie sballate, tutto un pasticcio. Il delitto resta senza colpevoli; Simonetta rimane senza giustizia.

Le vittime dell'omicidio Simonetta Cesaroni.

Raniero Busco è innocente. Oggi, venerdì 27 aprile 2012, la prima Corte d’assise d’appello di Roma lo ha assolto dall’accusa di aver ucciso Simonetta Cesaroni, la sua ex fidanzata. Lacrime in aula. Applausi fuori dal tribunale. È stata così ribaltata la sentenza di corte d’assise che soltanto il 26 gennaio 2011 aveva condannato l’imputato a 24 anni di reclusione per omicidio volontario. Questa è la giustizia italiana: aspetta 22 anni (il delitto di via Poma risale al 7 agosto 1990) per accusare e condannare un presunto colpevole, ma poi è capace di assolverlo appena 13 mesi dopo. E meno male!! Merito dei media e degli avvocati di chiara fama e elevata stima giudiziaria. Oneri ed onori che però non valgono per tutti. In mezzo, il sospettato ha trascorso oltre 8 mila giorni d’inferno, spesso alla gogna. E ora si vedrà se ci sarà un terzo grado di giudizio, e a che cosa mai potrà portare.

Questa incoerenza è una caratteristica purtroppo sempre più frequente della cronaca nera italiana. Perché, insieme a quella di Simonetta Cesaroni, troppe altre vicende giudiziarie restano senza un colpevole certificato. Per media e magistratura basta trovare un colpevole, non il colpevole. Fa niente se sono persone, quelle da triturare, e non semplici fascicoli giudiziaria. Troppi omicidi restano senza nemmeno un indagato. Il caso di Yara Gambirasio è aperto dal 26 novembre 2010, quando la ragazza è scomparsa per poi essere ritrovata cadavere in un campo, e da allora lo stillicidio di notizie spesso contraddittorie è insopportabile: ora si sarebbe scoperto (?) del liquido seminale sugli slip della povera ragazza. Chissà. Ma restano senza alcuna giustizia anche Chiara Poggi e, in parte, Meredith Kercher. Colpa di inquirenti inadeguati? E di chi, sennò?

La mia lunga odissea nel pianeta ingiustizia. L’intervista a Raniero Busco rilasciata il 29 aprile 2012 a Maurizio Gallo e pubblicata su “Il Tempo” di Roma: l'ex fidanzato di Simonetta Cesaroni racconta la tortura di un innocente.

C'è voglia di normalità in casa Busco. Dopo due anni da sospettato, quasi due da indagato, uno da imputato, quattordici mesi da condannato e ventiquattr'ore da innocente, il desiderio più grande è tornare alle piccole incombenze quotidiane. Un bacio ai gemellini Riccardo e Valerio, trascurati a lungo per la tensione e l'angoscia, una carezza a Mia, la gatta nera di famiglia e, soprattutto, la ritrovata spensieratezza coniugale con Roberta Milletarì, la moglie-tigre che l'ha protetto, difeso e consolato per tutto questo tempo e che dopodomani festeggerà il suo quarantatreesimo compleanno senza l'incubo di doversi separare dal marito per vederlo finire in una cella. La prima notte dopo il verdetto d'appello che l'ha fatto esplodere in un pianto liberatorio non è stata tranquilla. «Avevo un'insopportabile acidità di stomaco ed ero teso come una corda, tanto che ho dovuto prendere due Maalox e un analgesico, il Brufen. E ancora sono così frastornato che non riesco neanche ad essere felice», spiega Raniero nella sua villetta di vicolo Anagnino 35, una casetta color senape semplice e dignitosa che sorge accanto ad altre simili in una stradina stretta al centro di Morena. Il quartiere dov'è cresciuto e vissuto e dove gli abitanti lo hanno sempre protetto con un affettuoso e solidale cordone «sanitario». E il pellegrinaggio di amici e parenti è continuato anche ieri, quando lo abbiamo incontrato.

Qual è stata la cosa che l'ha fatta soffrire di più in questi anni? «A farmi più male sono state le affermazioni del pubblico ministero nel processo di primo grado, quando ha detto che non c'era un colpevole alternativo a Busco. Mi ha ferito il senso di impotenza che provavo. Tu stai lì e, per anni, ti dicono che sei un pazzo criminale. Mi hanno descritto come un assassino freddo e brutale, una persona assetata di sangue e di sesso. Ma non sapevano e non sanno nulla di me. Io non sono così...».

Il momento peggiore? «La cosa che mi è rimasta più impressa è stata il campanello che annunciava il ritorno dei giudici dalla camera di consiglio, sempre nel primo processo. Non perché pensavo di essere condannato, ma per l'angoscia tremenda che provavo in quel momento».

Uno degli elementi che ha contribuito a far addensare su di lei i sospetti, al di là delle prove scientifiche poi smentite dalla perizia superpartes nel processo d'appello, è stata la sua apparente amnesia sul giorno del delitto. Non ricordava l'alibi fornito alla polizia. Eppure avevano massacrato la sua fidanzata. Come ha potuto dimenticare? «A Fiumicino, dove lavoro come meccanico, facevo i turni. Quello di notte comincia alle 23 e finisce alle sette. Alle otto tornavo a casa e mi mettevo a dormire. Mi svegliavo verso le due di pomeriggio e facevo piccoli lavoretti, riparavo motorini e macchine agricole nel mio garage. Il venerdì smontavo la mattina e riprendevo il lunedì. Quindi vedevo Simonetta nel fine settimana. Gli altri giorni ci incontravamo con gli amici verso le 18 al bar portici per giocare a biliardino e chiacchierare. Era una routine. Quando ho detto che il 7 agosto ero stato con Simone Palombi a fare riparazioni in garage mi sono affidato alle mie abitudini, perché erano passati quindici anni e ho pensato che anche quella volta avessi fatto le stesse cose. Sarei un cretino se avessi cercato di crearmi un alibi falso con Simone sapendo che era stato ascoltato anche lui dagli investigatori».

Ma l'alibi era fondamentale per il riconoscimento della sua innocenza. Lei non ricordava neppure se glielo avevano chiesto o meno... «Mi hanno fatto pesare che quel giorno non avevano trascritto l'alibi nel verbale d'interrogatorio. Ma che è colpa mia? Sicuramente me l'hanno chiesto. Una volta che gliel'ho detto, mi sono messo l'anima in pace. Pensavo: mi hai sospettato subito, mi hai perquisito casa, mi hai torchiato e quindi hai avuto i riscontri. Poi non ho una grande memoria, tante cose non le ricordo. Forse anche perché sono innocente. E solo i colpevoli ricordano bene tutti i dettagli».

Come avete dato la notizia ai vostri figli? (Nel frattempo sono arrivati Roberta, la madre Giuseppina e il fratello Paolo. Ed è la moglie di Busco a rispondere mentre i gemellini di dieci anni giocano tra salotto e camera da letto). «Saputo dell'assoluzione, la maestra ha abbracciato Riccardo in silenzio. E lui le ha detto: ho capito. Quando sono tornata a casa e mi ha raccontato l'episodio gli ho chiesto: cosa hai capito? E lui: che è finita. Quindi non abbiamo avuto bisogno di aggiungere altro».

Questi anni sono stati un incubo, come li avete vissuti in famiglia? (A queste parole Giuseppina Busco piange. E si scusa: "Sono lacrime di gioia, stavolta", spiega). «Noi siamo lontanissimi da queste cose, non siamo come voi, non sappiamo niente di giustizia, di processi - continua Roberta - Non leggiamo gialli e neanche la cronaca nera. Lei capisce, il danno non è solo economico, è anche esistenziale. Questi anni di vita adesso chi ce li potrà restituire?».

Cosa farete adesso, come vedete il futuro? «Vogliamo tornare a fare quello che facevamo prima - risponde Busco - Una vita fatta di piccole cose, di viaggi programmati e magari mai fatti, di sogni. Sentirsi addosso gli occhi di tutti che ti riconoscono per strada è stato pesante. Ora è come fare riabilitazione. Sono stato cinque anni fermo, immobilizzato. Non posso mettermi a correre subito. Devo ricominciare lentamente. E fare un passo dopo l'altro...». 

OMICIDI DI STATO E DI STAMPA.

Delitto di via Poma. La mano armata della Giustizia senza un limite. Ovunque, nel mondo civile, questo sarebbe archiviato come un insuccesso delle autorità inquirenti, da noi, invece, lo si riesuma, periodicamente, per esaltare la tenacia di chi conduce le indagini. Ogni volta che il delitto di via Poma torna agli onori della cronaca, automaticamente, torna, in video e in pagina, la foto di Pietrino Vanacore.

La sua pietra al collo ce la sentiamo un po' tutti, e dovrebbe sentirsela la giustizia italiana che sa essere feroce nel punire, pur non essendo capace di giudicare. Vanacore, il portiere dello stabile, che trovò il cadavere di Simonetta, fu arrestato tre giorni dopo, il 10 agosto 1990. Le cronache si riempirono di quest'omicidio, scandagliando e scardinando la vita di quel disgraziato. Gli andò anche bene, perché fu scarcerato il 30 agosto e, meno di un anno dopo, il 26 aprile del 1991, fu accolta la richiesta d'archiviazione, presentata dalla procura stessa. Ci volle più tempo, fino al gennaio del 1995, perché la Cassazione ponesse la parola "fine" alla faccenda, rendendo definitiva l'archiviazione. Era finita, e lui si ritirò a vivere nella Puglia, a Torricella, da cui era venuto. E dove s'è ammazzato il 9 marzo 2010. Perché? Perché nonostante la Cassazione, in Italia la giustizia non sa usare la parola "fine", sicché una nuova indagine è stata archiviata. Nel maggio del 2009, e l'anno precedente, il 20 ottobre 2008, Vanacore aveva subito l'ennesima perquisizione domiciliare. Era atteso in tribunale, il 12 marzo 2010, per testimoniare. Non era neanche tenuto a rispondere, perché la giustizia lo considera ancora "indagato in procedimento connesso". Ma, statene certi Vanacore avrebbe visto ancora il suo volto, esposto alla nazione, associato all'omicidio. Ha deciso di risparmiarselo, o, più probabilmente, non ha saputo reggerlo. La domanda è: che senso ha? Quale legge ha stabilito la possibilità di condannare all'ergastolo mediatico dei cittadini riconosciuti innocenti, ma di cui l'ultimo pennivendolo può disporre, usando le immonde formule di "già indagato", "fu imputato", "a lungo sospettato", "protagonista di una storia oscura", e così via macellando? Un cittadino può accettare d'essere ingiustamente sospettato e accusato, salvo riuscire a dimostrare, in tempi brevi, la propria innocenza. Subisce un danno, comunque, talora gravissimo, ma ciascuno di noi sa che può accadere. Quel che non dovrebbe accadere è che per il resto della vita si sia un oggetto nelle mani di chi non sa che pesci prendere, non sa che storie raccontare, e, quindi, ricorre al tuo nome e alla tua faccia quando gli fa comodo. E, si badi, questo vale per la giustizia, che è incivilmente e inconcludentemente interminabile, ma vale anche per ciascuno di noi. Anzi, a un certo punto dovremo ammettere che abbiamo la peggiore giustizia del mondo civile anche perché abbiamo la peggiore politica e la peggiore cultura giuridica e il peggiore sistema informativo. Mancano, o sono flebili, le voci capaci di dire basta. Guardatevi attorno: la politica si rinfaccia questioni giudiziarie, anche se chiuse, anche se campate per aria. Le tifoserie politiche non fanno che parlare d'accuse penali, pensando che possano surrogare il giudizio morale e politico. La giustizia stessa campa d'accuse e ci lascia a digiuno di sentenze. Il tutto imbarbarisce il nostro vivere civile e seppellisce la presunzione d'innocenza. Vanacore s'è spinto oltre: ha preteso d'avere l'ultima parola. Non gli sarà riconosciuta neanche quella.

Il figlio accusa: «Mio padre condannato senza processo». È anche lui portiere, come il papà che dal vecchio mestiere non ha avuto che dispiaceri. Lavora a Torino, custode di uno stabile dell’elegante quartiere della Crocetta. «Mio padre è stato condannato senza un processo - accusa Mario Vanacore - lo hanno distrutto, lo hanno fatto a pezzi. Sono passati vent’anni, eppure tutte le volte che si è parlato della mia famiglia è stato solo per massacrarci». Anche lui, del resto, era stato sfiorato dall’inchiesta, per colpa di una visita di cortesia fatta al papà il 2 agosto del ’90, prima di partire per le vacanze con la moglie Donatella e la figlia di pochi mesi. Tanto bastò per ricevere un avviso di garanzia, assieme alla mamma Giuseppa De Luca, affinché i magistrati potessero comparare il suo sangue con quello di una traccia ematica trovata sulla porta dell’ufficio di Simonetta. «Hanno reso la vita di mio padre un inferno - continua Mario Vanacore - aveva tanti progetti, voleva comprare una casa, ma ha dovuto utilizzare tutti i risparmi che aveva per pagarsi gli avvocati. Lo hanno massacrato ingiustamente perché lui era innocente». Padre e figlio avrebbero dovuto testimoniare in aula al processo per la morte della Cesaroni. Accanto a Pietrino ci sarebbe stato il legale di sempre, Antonio De Vita. «Si sentiva braccato - racconta il penalista - vittima di una continua caccia all’uomo. Non aveva più una sua vita da tanto, troppo tempo. Si sentiva come un detenuto al 41 bis. Lui era un uomo libero, eppure non più libero. Non era la nuova chiamata dei giudici ad intimorirlo, piuttosto il fatto di doversi nuovamente sentire braccato, accerchiato dai media. Vanacore era psicologicamente stressato e si riteneva perseguitato, un uomo senza scampo, anche se su di lui non c’erano più sospetti». «Ci hanno tolto il piacere di vivere, ma noi abbiamo solo una colpa: quella di essere poveri». Pietro Vanacore scriveva così a Maurizio Costanzo in una lettera piena di dolore e di rabbia per la vicenda giudiziaria legata all’omicidio di Simonetta Cesaroni, che lo aveva segnato nel profondo. La brutta copia della missiva inviata al noto conduttore televisivo è saltata fuori dalle carte che i carabinieri hanno sequestrato a casa di Vanacore. Dopo aver trovato in mare il corpo senza vita dell’ex portiere di via Poma, infatti, i militari della compagnia di Manduria avevano perquisito la sua abitazione a Monacizzo ed avevano ritrovato un contenitore pieno di documenti. Tra le carte c’era anche la minuta della lettera inviata a Costanzo. Vanacore conosceva di persona il giornalista perché questi aveva acquistato l’appartamento in cui ad agosto del 1990 fu uccisa Simonetta Cesaroni. Per qualche anno, dopo il delitto, Pietrino Vanacore aveva continuato a fare il portiere dello stabile in cui si era trasferito Costanzo. Poi, dopo l’assoluzione dall’accusa di omicidio, nel 1995, Vanacore era tornato in provincia di Taranto, al suo paese Monacizzo, frazione di Torricella, insieme con la moglie Pina De Luca. Proprio qui, il 9 marzo 2010, è stato ritrovato senza vita, annegato, nel piccolo specchio d’acqua della baia in cui si affaccia la torre saracena di Torre Ovo.

Il corpo di Vanacore era «ancorato» alla terraferma da una lunga corda che lo cingeva alla caviglia. L’altro capo della cima era legato ad un pino marittimo posto sul ciglio della litoranea. L’ex portiere di via Poma, come aveva stabilito qualche giorno dopo l’autopsia, è affogato in un metro d’acqua. Il suo suicidio, però, resta avvolto da una pesante coltre di mistero. Vanacore, prima di morire, aveva lasciato anche alcuni biglietti che oggi sembrano ricalcare il tono della lettera indirizzata a Costanzo. «È ignobile e disumano - scriveva ancora nel 2008 l’ex portiere di via Poma -, addossarci una colpa così grande. Se io, o la mia famiglia avessimo saputo qualcosa lo avremmo detto subito e senza riguardo per nessuno ». Vanacore scrisse quella lettera dopo l'ottobre del 2008, quando i giudici della procura di Roma decisero di riaprire il caso dell’omicidio di Simonetta Cesaroni, chiamando alla sbarra l’ex fidanzato della giovane Raniero Busco. A casa Vanacore, a Monacizzo, arrivarono i carabinieri per una perquisizione. L’uomo dovette credere di essere ripiombato nell’incubo. La stessa sensazione che deve aver provato a fine febbraio quando a casa ricevette l’atto di citazione. Doveva presentarsi il 12 marzo 2010 al processo, a Roma, come testimone. Forse non ha retto. Forse davvero quei venti anni di sospetti, come ha scritto prima di morire, lo avevano già ucciso.

All’udienza del 12 marzo, il pm Ilaria Calò nel suo intervento ha fatto riferimento proprio alla posizione di Vanacore: «L'importanza delle chiavi (dell'appartamento di via Poma) è enfatizzata dalla tragedia che ha colpito la famiglia Vanacore in questi giorni. La circostanza che le chiavi siano state sequestrate nella portineria e che non siano state trovate tracce di dna di Vanacore sugli abiti di Simonetta Cesaroni e sulla porta di ingresso dimostra che il portiere ha scoperto il corpo prima della sorella di Simonetta e che invece di chiamare la polizia, pensando che vi fosse stato un incontro clandestino tra Simonetta e il presidente degli ostelli della gioventù Francesco Caracciolo o il direttore Corrado Carboni o il capo della ragazza il commercialista Salvatore Volponi, ha telefonato ai tre dimenticando l'agendina rossa Lavazza sul tavolino dell'ufficio, restituita dall'ispettore Brezzi a Claudio Cesaroni un mese dopo circa». Secondo la ricostruzione del pm, Vanacore sarebbe entrato nell'appartamento dove «trovò la porta socchiusa», entrò, vide il corpo e fece le tre telefonate in questione e poi richiuse la porta «usando le chiavi di riserva appese a un gancio dietro la porta». Questa situazione, secondo il magistrato, «ha innescato dei comportamenti anomali nella portiera, che hanno depistato le indagini per oltre venti anni. Questo spiega la riluttanza della donna a dare la chiavi alla polizia, l'agitazione di Volponi che era stato informato prima, le menzogne di Caracciolo e di altre persone che saranno sentite in aula. Le chiavi sono uno snodo fondamentale». «In base a quale elemento il pm può dire che la porta era socchiusa? Da dove esce fuori? Penso che la questione delle chiavi sia stata chiarita all'epoca del proscioglimento di Vanacore. Non conosco questa nuova impostazione accusatoria. Loro avevano un mazzo di chiavi per fare le pulizie, non avevano bisogno di servirsi di un mazzo di scorta». Così il difensore della famiglia Vanacore, Antonio De Vita. «A me, come difensore della famiglia Vanacore, non è stato comunicato nulla - prosegue - Sento per la prima volta questa ricostruzione. Come si fa a dire che la porta era aperta? Se devono essere fatte nuove contestazioni, il dibattimento non è la sede opportuna. I Vanacore dopo quanto accaduto nei giorno scorsi non stanno bene e ho fatto presente alla corte il motivo della loro assenza».

Ai funerali di Pietrino Vanacore, intorno alla sua bara, assorta nel silenzio con la rabbia ed il dolore, c’era la gente che gli voleva bene. Una donna ha avuto il coraggio di dare voce alla sua comunità: «applaudite, hanno ottenuto quello che volevano!!!» La frase era rivolta a coloro, che, per deformazione professionale e culturale, non hanno una coscienza. Intanto, intorno alle sue spoglie gli sciacalli hanno continuato ad alimentare sospetti. La sua morte non è bastata a zittire una malagiustizia che non è riuscita a trovare un colpevole, ma lo ha scelto come vittima sacrificale. A zittire una informazione corrotta che lo indicava come l’orco, pur senza condanna.

Non poteva dirsi vittima di un errore giudiziario, come altri 5 milioni di italiani in 50 anni. Per venti anni è stato perseguitato da innocente acclamato. Voleva l’ultima parola per dire basta. Non l’hanno nemmeno lasciata. Pure da morto hanno continuano ad infangare il suo onore. Accuse che nessuna norma giuridica e morale può sostenere. Accanimento che nessuna società civile può accettare. La sua morte è un omicidio di Stato e di Stampa. Non si può, per venti anni, non essere capaci di trovare un colpevole e continuare a perseguitare un innocente acclamato. Non si può, per venti anni, continuare ad alimentare sospetti, giusto per sbattere un mostro in prima pagina.

Ferdinando Imposimato, il “giudice coraggio” delle grandi inchieste contro il terrorismo e la delinquenza organizzata, ha provato sulla propria pelle l’amarissima esperienza di star sul banco degli imputati. Egli conclude, come un ritornello inquietante: “E’ più difficile talvolta difendersi da innocenti che da colpevoli”. Parola di magistrato.

IL FALLIMENTO DELLO STATO DI DIRITTO

Cose allucinanti. Una condanna, che per i più va al di qua del ragionevole dubbio. Raniero Busco è stato condannato a 24 anni di carcere: nell'aula bunker di Rebibbia la sentenza di I grado sul delitto di via Poma. Dopo due decenni, la morte di Simonetta Cesaroni trova “un colpevole”, che per molti non è “il colpevole”. Nel processo per la morte della ragazza uccisa il 7 agosto 1990 con 29 coltellate, Busco, ex fidanzato della Cesaroni, era l'unico imputato.

Il pm Ilaria Calò aveva chiesto l'ergastolo per omicidio volontario con l'aggravante della crudeltà. Questo dopo la morte di Pietrino Vanacore, additato dalla stampa ed accusato dai magistrati di essere coinvolto nell’omicidio. Colpevole. Dopo più di 20 anni. Ma la condanna va al sistema giudiziario. E’ il fallimento di uno stato di diritto. Quale rito si è rispettato se dopo venti anni sono venuti meno tutte le prove e tutti gli strumenti difensivi.

LA PENA. E’ la sanzione prevista che lo Stato, a mezzo dell’Autorità Giudiziaria affligge all’autore di un fatto illecito. La pena svolge diverse funzioni: da un lato quella di punire il colpevole per il reato commesso mentre dall’altro lato ha funzione rieducativa che mira alla riabilitazione del reo e al suo reinserimento in società. Il cd. doppio binario della pena previsto dal Codice, risponde al principio previsto dalla Costituzione che, all’art. 27, terzo comma, stabilisce che le pene non possono consistere in trattamenti disumani e che debbono tendere alla rieducazione del condannato in modo da consentirgli il reinserimento nella società una volta scontata la pena. Dopo più di venti anni quale prevenzione a vantaggio della società ci può essere e quale rieducazione si può prevedere per il reo. Colpevole. Una parola che piomba nel silenzio carico di tensione dell’aula-bunker come una slavina. È Raniero Busco il mostro che ha ucciso vent’anni prima la fidanzata Simonetta Cesaroni. È lui l’assassino feroce che ha massacrato la figlia del ferrotranviere della Metro con 29 colpi di tagliacarte, affondando la lama anche all’interno della zona genitale. È il meccanico di Morena l’impassibile killer che per un ventennio ha nascosto l’orrore del suo gesto dietro la facciata del tranquillo padre di famiglia. Questa è la «verità» dei giudici, che, a fronte della richiesta di carcere a vita del pm, hanno condannato l’imputato a 24 anni di reclusione. Una «verità» che non convince. Una condanna che non si aspettava nessuno. Non Busco e il suo legale Paolo Loria, che ha annunciato il prevedibile ricorso in appello. Non i giornalisti che hanno seguito il processo a Rebibbia durante gli undici mesi abbondanti del dibattimento. E neppure l'opinione pubblica, che dalle tv e dai giornali si è fatta un'idea sulla fragilità degli scarsi indizi raccolti contro l'imputato. Ecco, tutti attendevano un verdetto che riecheggiasse la vecchia formula ormai abolita dal codice: insufficienza di prove. Anche l'annuncio che la camera di consiglio sarebbe durata appena tre ore (previsione sbagliata per difetto di trenta minuti) aveva fatto credere che si sarebbe deciso per l'assoluzione. Ma così non è stato. Entrati nella «stanza del giudizio» il 26 gennaio 2011 alle 12.30 e usciti alle 16.08, i due giudici togati e gli otto popolari hanno deciso altrimenti. È il presidente della III Corte d'assise Evelina Canale a leggere il dispositivo: «Visti gli articoli 533 e 535, dichiara Busco Raniero colpevole del delitto ascrittogli e, con le attenuanti generiche equivalenti alla contesta aggravante, lo condanna alla pena di 24 anni di reclusione». Parole che gelano l'aula. Busco e la moglie sono ammutoliti. Lo stesso il loro difensore. Solo dal fondo dello stanzone che ha accolto terroristi e mafiosi qualcuno del pubblico piange e urla «No,no!». E il fratello di Raniero, che ascolta la sentenza abbracciato a lui e alla moglie Roberta, ripete infuriato due volte: «Che state a di'!». Poi, quando fotografi e cameramen li accerchiano, trascina l'imputato fuori dall'aula. «Perché devo essere io la vittima, tutto questo è ingiusto, profondamente ingiusto - avrebbe poi detto Raniero al suo avvocato - Dire che sono deluso è poco». «Una decisione pesante che non accontenta il concetto di giustizia - dice con amarezza Paolo Loria - Contro il mio assistito c'erano solo indizi e nessuna prova». Busco è stato anche interdetto in perpetuo dai pubblici uffici e, se la sentenza passerà in giudicato, non potrà più esercitare la patria potestà. Infine dovrà risarcire i danni alle parti civili «da liquidarsi in separata sede» e pagare provvisionali «immediatamente esecutive» di 100 mila euro alla sorella della vittima Paola e di 50 mila alla madre Anna di Gianbattista. Insomma, il verdetto riconosce l'aggravante della crudeltà chiesta dal pm (anche se non segue l'accusa sulla strada dell'ergastolo), e però ne annulla le conseguenze sulla pena grazie alle attenuanti. Soddisfatti il pm e i legali di parte civile. Ma anche dalle loro dichiarazioni traspaiono dubbi non fugati dal processo.

Lucio Molinaro, che ha seguito la vicenda per tutti questi venti anni, spiega che «noi ora dobbiamo credere che Busco sia colpevole, perché tre ore sono sufficienti per verificare le prove e prendere una decisione». Massimo Lauro, che con Federica Mondani assiste la sorella della vittima, osserva che «Almeno in teoria, adesso la parte che rappresento sa chi ha ucciso Simonetta». E il legale che rappresenta il Comune, Andrea Magnanelli, commenta: «Domani Roma si sveglia con un mistero in meno». Ma l'impressione di tutti è esattamente quella opposta. Il processo era iniziato il 3 febbraio 2010. L'accusa, il pm Ilaria Calò, aveva chiesto la condanna all'ergastolo. I giudici della terza corte d'assise, dopo una riunione in camera di consiglio, ha concesso all'imputato le attenuanti generiche. Per venti anni si è cercato la verità su quell’efferato delitto compiuto nell'ufficio dell'Associazione alberghi della gioventù dove Simonetta lavorava. Il 7 agosto 1990 Simonetta a 21 anni venne massacrata con un tagliacarte. Il suo carnefice la colpì 29 volte in tutto il corpo, ferite profonde circa 11 centimetri. Ad ucciderla però, fu un trauma alla testa. L'ipotesi degli investigatori fu che le coltellate erano state inferte sul cadavere solo per depistare le indagini. Il corpo seminudo e senza vita della ventunenne venne scoperto alle 11 di sera. L'autopsia accertò che non aveva subito violenza carnale e che la sua morte era avvenuta tra le 17.30 e le 18.30. Il Busco, all'epoca aveva 26 anni ed era il fidanzato della vittima. Il primo ad essere stato sospettato del delitto fu il portiere dello stabile di via Poma, Pietrino Vanacore che scoprì il delitto. Poi gli inquirenti puntarono i loro sospetti su Federico Valle che era il nipote di un architetto che abitava in quel palazzo, Cesare Valle. Per il primo alcuni giorni dopo il delitto arrivò il fermo, mentre per il secondo nel 1992 un avviso di garanzia. Successivamente prima nel 1993, il Gup prosciolse dall’accusa di favoreggiamento Vanacore e Valle da quella di omicidio, e poi nel 1995 la Cassazione definitivamente emise la decisione di non rinviarli a giudizio. Le indagini ripartivano da zero. Gli inquirenti sospettarono che l’assassino fosse nella cerchia dei contatti della ragazza. Tra gli altri indagati finì anche Salvatore Volponi, il suo datore di lavoro, anche per lui il fascicolo venne archiviato. La svolta nelle indagini nel 2006. I risultati delle analisi di tracce di saliva rinvenuta sul reggiseno di Simonetta, ritrovato, dopo anni, dimenticato, e rimasto incustodito, in un armadietto del laboratorio di medicina legale, portarono al Dna dell’ex fidanzato di Simonetta, Raniero Busco.

Busco venne iscritto nel registro degli indagati per omicidio volontario nel settembre del 2007. Gli investigatori, inoltre, prelevano anche l'impronta dell'arcata dentaria di Busco, al fine di confrontarla, attraverso le foto autoptiche del 1990, con il morso riscontrato sul seno di Simonetta. Il 9 novembre 2009 venne poi rinviato a giudizio e il 3 febbraio 2010 iniziò il processo. Nel corso del quale, il 9 marzo, a pochi giorni dalla sua prevista deposizione come teste, Vanacore si tolse la vita. Scompariva di scena un personaggio importante, e forse detentore di qualche segreto, di questa intricata vicenda. il 26 gennaio 2011 poi, la sentenza di primo grado. Il mistero che ha avvolto per tanti anni la morte di Simonetta Cesaroni è davvero svelato? Il difensore di Busco, Paolo Loria, ha affermato: “Non è stata fatta giustizia, andremo in appello”. “Non c'è prova alcuna che Raniero Busco abbia ucciso Simonetta Cesaroni. Non si sa nemmeno con certezza che sia mai entrato in quell'ufficio”. Sono le parole del criminologo Francesco Bruno che si è detto profondamente stupefatto della condanna a 24 anni dell'ex fidanzato della Cesaroni. “Ancora una volta si dimostra come i giudici di primo grado risentano delle ipotesi accusatorie”, ha spiegato Bruno aggiungendo che: “Busco sarà certamente assolto in appello, ma sarà ben difficile cancellare quel marchio che gli hanno appiccicato addosso. Speravo che infine si tenesse in maggiore considerazione la fragilità accusatoria e che nel dubbio si arrivasse ad una soluzione più' ragionevole. Così non è stato, tuttavia nella condanna a 24 anni c’è tutto il senso di una non certezza della sua colpevolezza”. “La sentenza di condanna a 24 anni per Raniero Busco non risolve il caso di Via Poma, lascia troppi interrogativi sospesi e irrisolti, dubbi e contraddizioni”. Ad affermarlo il criminologo Carmelo Lavorino, autore tra l’altro di un libro sul delitto di via Poma. Comunque sia per ora Busco non andrà in carcere. Nonostante la condanna a 24 anni di reclusione infatti, la corte non ha disposto alcuna misura in merito. Un fatto questo dovuto allo stato della sentenza. Quella emessa è infatti una sentenza non definitiva emessa in primo grado di giudizio. In Italia una sentenza diviene 'definitiva' solo al terzo grado, con il pronunciamento della Corte di Cassazione. Il caso in cui un condannato finisce in carcere dopo il primo grado si verifica solo se ci sono i presupposti per la custodia cautelare, che sono tre: pericolo di fuga, possibile inquinamento delle prove e possibile reiterazione del reato commesso. In questo caso il provvedimento restrittivo potrebbe essere applicato solo se ci fosse un reale pericolo di fuga. Cosa questa che sembra poco probabile che possa verificarsi. Busco ricorrerà in appello nella certezza dell’assoluzione in secondo grado di giudizio come ha anticipato il suo legale. Un ricorso in appello che invece, se non ci fosse porterebbe Busco in carcere. L’ordinamento infatti, prevedere che decorsi i 45 giorni dal deposito delle motivazioni di primo grado, la sentenza diverrebbe definitiva e il pm come 'giudice dell'esecuzione' potrebbe disporre la carcerazione del condannato.

Inaspettata dopo il 1° grado, ma attesa secondo la super perizia arriva il 27 aprile 2012 intorno alle 13 la sentenza d’appello: Raniero Busco è innocente, «assolto per non aver commesso il fatto».

Raniero Busco è stato assolto dalla prima corte d’assise d’appello di Roma per non aver commesso il fatto. L’uomo era accusato di aver ucciso Simonetta Cesaroni, assassinata il 7 agosto del 1990 in via Poma, che all’epoca era la sua fidanzata. Decisiva per l’assoluzione la perizia disposta dai giudici in appello: il segno su un seno di Simonetta non sarebbe riconducibile ad un morso di Busco e sul reggiseno della ragazza oltre al Dna dell’ex fidanzato comparirebbero altri due Dna. La sentenza di primo grado l’aveva condannato a 24 anni di reclusione per omicidio. Busco dopo la sentenza è stato colpito da un lieve malore: è stato sorretto dal fratello e dalla moglie, poi ha pianto abbracciato ai familiari. Arriva dopo 22 anni la sentenza che rivela la verità giudiziaria sull'omicidio di Simonetta Cesaroni, massacrata con 29 coltellate il 7 agosto 1990. La Prima sezione della Corte d'Assise d'Appello del Tribunale di Roma, che venerdì 27 aprile si era ritirata in camera di Consiglio intorno alle 11, ha impiegato circa due ore e mezza per decidere la conclusione del nuovo processo per il caso di via Poma. Intorno alle 13.30 la pronuncia: Busco è stato dichiarato non colpevole. E' stata così annullata la sentenza di primo grado che aveva condannato l'ex fidanzato di Simonetta a 24 anni di reclusione. La sentenza è stata accolta da un urlo di sollievo. «Da oggi ricomincio a vivere - ha detto Busco -. Quando è uscita la Corte, in un attimo, ho rivisto tutta la mia vita». La verità, l'identità del «mostro» che assassinò la giovane romana, resta un giallo. La Corte d'Assise e d'Appello ha ritenuto dunque fondati i rilievi sollevati dai consulenti nominati dalla corte stessa, gli autori della superperizia secondo la quale il segno sul seno sinistro della ragazza uccisa - considerato in primo grado la «firma» dell’assassino, ovvero il segno perfetto della dentatura anomala di Busco - non era un morso. La conferma della condanna era stata sollecitata dal procuratore generale Alberto Cozzella, insieme con gli avvocati di parte civile. Mentre la tesi dei difensori Franco Coppi e Paolo Loria era che Busco dovesse avere la piena assoluzione «per non aver commesso il fatto», così come prevede l'art. 530 del codice di procedura penale al primo comma. E così è stato. Assenti i familiari di Simonetta, l'imputato Raniero Busco era presente in aula assieme alla moglie Roberta Milletari. «Non so come sarebbe finita la nostra storia ma non ho mai pensato di farle del male - aveva detto Busco durante l'udienza del 23 aprile -.

Quando ho saputo della sua morte ho provato lo stesso dolore che ho provato quando ho perso mio padre». E aveva concluso rivolto alla corte: «Da voi mi aspetto il riconoscimento della mia innocenza». Busco è stato colto da malore dopo la pronuncia di assoluzione. Sorretto dal fratello e attorniato da una gran ressa di telecamere e fotoreporter l'ex fidanzato di Simonetta è stato portato in una stanza dai carabinieri che svolgono l'ordine pubblico in Corte d'appello. Alla lettura della sentenza, Busco avrebbe prima esultato abbracciando la moglie, poi secondo alcune testimonianze sarebbe stato colto da un lieve malore. Ma uno degli avvocati ha smentito: «No, è stato composto. Ha solo pianto di gioia». Abbracci e commozione tra gli amici dell'imputato per la vittoria della linea difensiva. Il primo a parlare di morso era stato la notte dell’autopsia di Simonetta Cesaroni il medico legale Ozrem Carella Prada, proprio uno degli esperti nominati per la superperizia dal procuratore generale della Corte d’assise d’appello. L’avvocato storico della famiglia Cesaroni, Lucio Molinaro, ricorda a memoria le parole della perizia: «Si nota una deviazione del capezzolo del seno sinistro e la formazione di una crosticina che potrebbe essere stata causata da un probabile morso». «Scrisse probabile o eventuale morso» precisa Molinaro, «usò una formula dubitativa. Il pm Cavallone, una volta ritrovato il corpetto e il reggiseno di Simonetta, si rilesse per l’ennesima volta gli atti e puntò su quelle parole, su quella pista, sui Dna, su quel segno e la dentatura unica di Busco per via di un sovradente». ”E’ una sentenza emessa dall’unico organo deputato ad emettere una pronuncia in appello. Va accettata e rispettata” commenta alla stampa il procuratore generale, Alberto Cozzella. “All’esito del deposito delle motivazioni (la corte d’assise si è presa almeno 90 giorni) - ha aggiunto Cozzella – decideremo il da farsi. Non è escluso, anzi assolutamente probabile, che ricorreremo in Cassazione”. I giudici presieduti da Mario Lucio D’Andria sono entrati in Camera di Consiglio poco dopo le 11. La riunione in camera di Consiglio è stata preceduta dalle repliche delle parti che, a sostegno delle rispettive tesi accusatorie e assolutorie hanno ripercorso le tappe fondamentali della vicenda esaminando punto per punto anche gli esiti peritali che da una parte portano a scagionare l’imputato e dall’altra come sostiene la Procura generale a confermare le responsabilità di Busco. E si accende la polemica sul dna, diventato prova regina in questo processo. “L’assoluzione di Raniero Busco era attesa, perchè nel condannarlo non sono state tenute in considerazione tutte le prove ma si è data un’importanza esagerata al solo Dna” afferma alla stampa il medico legale Angelo Fiori, uno dei periti all’epoca del delitto. “Questa sentenza sottolinea come non si possa usare solo il Dna nei processi, ma vadano prese in considerazione tutte le prove” afferma Fiori. ”Già all’epoca – prosegue – era emerso che il sangue trovato sulla porta era incompatibile con il gruppo di Busco, e questo secondo me già bastava a non includerlo nei sospettati. Ci si è basati invece solo sul Dna trovata sul presunto morso sul seno, ma senza tenere conto del fatto che c’erano quelli di tre persone, e non solo di Busco”. D’accordo con l’analisi anche Vincenzo Pascali, uno dei consulenti della Procura di Roma: “C’è stata una mancanza di lucidità nella valutazione delle prove – dice – la sentenza è dovuta al fatto che si sono considerate conclusive delle evidenze che invece non lo erano”. Da considerare una cosa: se non ci fosse stata la super perizia, perché non ammessa, o perché non necessaria, cosa sarebbe successo?

IL MISTERO DEL FENOMENO DELLA BLUE WHALE, OSSIA DELLA BALENA BLU (GIOCO)

Emulazione o bufala?

Blue Whale o Balena blu (gioco). Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il Blue Whale Game (russo: Синий кит , translit Siniy kit ), noto anche come "Blue Whale Challenge", è un fenomeno della rete sociale del ventunesimo secolo che si afferma di esistere in diversi paesi, a partire dal 2016. Il gioco si dice di una serie di compiti assegnati ai giocatori dagli amministratori in un periodo di 50 giorni, con la sfida finale che richiede al giocatore di suicidarsi. La "balena blu" è stata promossa nel maggio del 2016 attraverso un articolo sul quotidiano russo Novaya Gazeta, che ha collegato molti suicidi di suicidio non associati all'adesione al gruppo "F57" della rete sociale VKontakte. Un'ondata di panico morale spazzava via la Russia. Tuttavia il pezzo è stato poi criticato per aver tentato di creare un nesso causale in cui nessuno esisteva e nessuno dei suicidi è stato trovato come risultato delle attività del gruppo. 

Struttura. Mentre molti esperti suggeriscono che "Blue Whale" fosse originariamente una truffa sensazionalizzata, ritengono che sia probabile che il fenomeno ha portato a casi di gruppi imitativi auto-dannosi e di copia, lasciando i bambini vulnerabili a rischio di cyberbullying e shaming online. La balena blu è descritta come basata sulla relazione tra i partecipanti (o gli sfidanti) e gli amministratori. Gli amministratori prescrivono una serie di doveri che i giocatori devono completare, di solito uno al giorno, alcuni dei quali coinvolgono l'auto-mutilazione. Alla fine del 2017, la partecipazione a Blue Whale sembra essere receding; tuttavia, le organizzazioni di sicurezza internet in tutto il mondo hanno reagito fornendo un consiglio generale ai genitori e agli educatori per la prevenzione del suicidio, la consapevolezza della salute mentale e la sicurezza in linea prima della prossima incarnazione di meme informatiche. Nel 2016, Philipp Budeikin, un ex ex- psicologo di 21 anni espulso dalla sua università, ha affermato di aver inventato il gioco nel 2013. Ha detto che la sua intenzione era di pulire la società spingendo le persone a suicidio che riteneva di non avere valore. Budeikin è stato arrestato e tenuto in prigione di Kresty, San Pietroburgo, e nel maggio 2016 ha dichiarato colpevole di "incitare almeno 16 ragazze adolescenti per suicidarsi". È stato successivamente condannato in due contratti di incitamento al suicidio di un minore. Nel giugno del 2017, il postino Ilya Sidorov è stato arrestato a Mosca, accusato anche di istituire un gruppo di "Blue Whale" per incoraggiare i bambini a danneggiarsi e, in ultima analisi, suicidarsi. Ha sostenuto di aver persuaso 32 bambini ad aderire al suo gruppo e seguire i comandi. 

Argentina. Nella provincia di San Juan, in Argentina, un ragazzo di 14 anni è stato ammesso alla terapia intensiva dopo aver affermato sui media sociali che partecipava a Blue Whale. 

Bangladesh. Molte notizie hanno pubblicato sui media del Bangladesh riguardo al tentativo di suicidio relativo al gioco. Un adolescente è stato commesso suicidio presumibilmente dalla dipendenza del gioco nell'ottobre 2017.

Brasile. Diversi rapporti di notizie sono comparsi sui media brasiliani che collegano casi di autolesionismo e suicidio con la Blue Whale. La polizia ha svariate indagini in corso, anche se ancora nessuno è stato ufficialmente confermato. Complessivamente, otto Stati brasiliani avevano casi di suicidio e di auto-mutilazione sospettati di essere collegati al gioco. 

Bulgaria. Le prime notizie su Blue Whale sono comparse in Bulgaria alla metà di febbraio 2017. Il Safer Internet Center, istituito nell'ambito del programma Safer Internet plus della Commissione europea, ha risposto rapidamente. "(T) la sua storia sensazionalistica è stata gonfiata da una serie di siti web di clickbait che creano un'ondata di panico tra i genitori", ha riferito il Centro Coordinatore Georgi Apostolov. "Abbiamo deciso di non avviare contatti direttamente con i media, in quanto ciò avrebbe attirato ulteriori interessi e potrebbe indurre in errore il pubblico a credere che la storia sia in qualche modo vera. Poiché il hype è stato ingrandito da migliaia di persone che condividono la storia sui social network, abbiamo appena pubblicato un avvertimento sul nostro sito web e diffondere il link in commenti sotto tutti condivisi in articoli e post di Facebook. Poi i media mainstream stessi hanno iniziato a chiederci di interviste e citando le nostre conclusioni che evidentemente era una truffa ". Due gruppi di discussione sul suicidio sono stati aperti su Facebook, ma sono stati rapidamente segnalati e cancellati. La diffusione delle notizie virali è stata interrotta entro due settimane. Più tardi, quando un pezzo sensazionalista del giornale rumeno Gandul ha portato a pubblicare altri cinque articoli pubblicati in Bulgaria che hanno segnalato la sfida come reale, i media hanno nuovamente diffuso le posizioni della SIC e la frode è stata interrotta immediatamente.

Chile. I media in Cile hanno riportato tre casi di bambini sospettati di coinvolgimento con "Blue Whale". A Antofagasta, una madre ha riferito alla polizia che la sua figlia di 12 anni aveva 15 tagli sul braccio che formavano il disegno di una balena. Dopo essere stato intervistato dagli agenti di polizia, la ragazza ha confessato di seguire le istruzioni del gestore del gioco durante la riproduzione di questo gioco. Una bambina di 13 anni a Padre Las Casas ha sostenuto di aver giocato la partita insieme a tre altri amici. La ragazza ha raggiunto la decima tappa, facendo anche dei tagli tra le braccia. Un ragazzo di 11 anni a Temuco ha accettato un invito a partecipare al gioco su Facebook nel 2017 da una donna non identificata, ma ha rifiutato di partecipare dopo essere stato contattato da un profilo denominato "Ballena Azul".

Cina. Un gruppo di suicidi è stato fondato da una ragazza di dieci anni a Ningbo, Zhejiang ; che ha pubblicato alcune foto della sua auto-mutilazione legata alla balena blu. Da allora le autorità hanno iniziato a monitorare le menzioni del gioco sui forum e sulle trasmissioni in diretta. 

India. Nel corso del 2017 i media in India hanno riportato diversi casi di suicidio, autolesionismo e tentativi di suicidio suicida come risultato di Blue Whale anche se nessun caso è stato ufficialmente confermato. L' agosto del 2017, il ministero dell'India per l'elettronica e la tecnologia dell'informazione ha chiesto che diverse società internet (tra cui Google, Facebook e Yahoo) eliminino tutti i collegamenti che dirigono gli utenti al gioco. Alcuni commentatori hanno accusato il governo di creare un panico morale. Il guardiano internet indiano del Centro per Internet e Società ha accusato la copertura di un efficace diffusione e di pubblicità di un "gioco" per il quale non esistono poche prove. In India il suicidio è stato la seconda forma di morte più comune dei bambini, secondo una relazione del 2012. 

Italia. In Italia, la rivista di stampa di "Blue Whale" è apparsa per la prima volta il 3 giugno 2016, sul quotidiano La Stampa, che ha descritto la sfida come "una cattiva battuta". Il sito di demolizione BUTAC ha riportato la totale mancanza di prove per affermare l'esistenza del gioco. Il 14 maggio 2017, una relazione televisiva di Le Iene su Blue Whale sul canale nazionale Italia 1 ha collegato la sfida a un suicidio non collegato a Livorno, in Italia. Il rapporto ha mostrato diverse scene di suicidio, principalmente da video su LiveLeak che descrivono adulti non correlati alla sfida. Ha descritto in modo errato il filmato come prova di adolescenti che giocano il gioco. Il rapporto ha intervistato un compagno di scuola dell'adolescente di Livorno, due madri di ragazze russe che presumibilmente hanno partecipato al gioco e il fondatore del Centro russo per la sicurezza dei bambini da crimini del Internet. Dopo la relazione, la copertura della sfida nei media italiani è aumentata, con molti punti vendita che lo descrivono come reale. C'era un forte aumento nelle ricerche di Google per la sfida e qualche panico. Il 15 e 16 maggio i giornali hanno annunciato l'arresto di Budeikin, senza dire che è accaduto mesi prima. Le sue dichiarazioni non confermate riguardo alle sue supposte vittime sono "rifiuti genetici". Paolo Attivissimo, giornalista e dibattente di truffe, ha descritto il gioco come "un mito di morte pericolosamente esagerato dal giornalismo sensazionalista". La polizia ha ricevuto le chiamate da genitori e insegnanti terrorizzati, e ci sono stati rapporti di adolescenti che hanno partecipato alla sfida. Questi includono diversi casi di auto-mutilazione e tentativo di suicidio. La maggior parte delle relazioni è stata considerata falsa o esagerata. I partecipanti sono stati segnalati da tutta Italia: Ravenna, Brescia e Siracusa. Il 22 maggio 2017 la Polizia Postale ha dichiarato di aver ricevuto 40 allarmi. Il 24, questo numero è stato aumentato a 70. Sul suo sito Internet la Polizia Postale definisce Blue Whale come "una pratica che sembra forse provenire dalla Russia" e offre consigli ai genitori e agli adolescenti. Molti casi sono stati descritti da giornali. 

Kenia. Nella contea di Nairobi uno studente nella contea di Kiambu aveva giocato la sfida di balena blu. Ha commesso suicidio il 3 maggio presso l'hotel di proprietà del nonno nel centro della città. 

Pakistan. Il 13 settembre 2017, il Pakistan ha riportato le prime due vittime della provincia di Khyber-Pakhtunkhwa (KPK). 

Polonia. Tre alunni di una scuola elementare in Pyrzyce si sono danneggiati, presumibilmente sotto l'influenza della sfida "Blue Whale". 

Portogallo. Una ragazza di 18 anni è stata ammessa in ospedale con mutilazioni sul suo corpo a Albufeira dopo che si è buttata da un cavalcavia alla linea ferroviaria. Polizia, genitori e amici hanno detto che la ragazza era stata motivata a farlo da una persona su Internet chiamata "Blue Whale". In un'intervista con RTP, ha detto che si sentiva da solo e priva di affetto. 

Russia. Nel marzo del 2017, le autorità russe hanno indagato circa 130 casi separati di suicidio relativi al fenomeno. A febbraio, un 15-year-old e 16 anni si sono buttati fuori dall'alto di un edificio a 14 piani a Irkutsk, in Siberia, dopo aver completato 50 compiti inviati a loro. Prima di uccidersi, hanno lasciato messaggi nelle loro pagine sui social network. Anche nel mese di febbraio, un 15enne era in condizioni critiche dopo aver gettato fuori da un appartamento e cadendo su un terreno coperto di neve nella città di Krasnoyarsk, anche in Siberia. L'11 maggio 2017, i media russi hanno riferito che Philipp Budeikin "si è dichiarato colpevole di incoraggiare gli adolescenti al suicidio", avendo descritto le sue vittime come "spreco biologico" e sostenendo di "pulire la società". È stato tenuto alla prigione di Kresty in San Pietroburgo con accuse di "incitamento di almeno 16 ragazze adolescenti per uccidere se stessi". Il 26 maggio 2017, la Duma russa (parlamento) ha adottato una legge che introduce la responsabilità penale per la creazione di gruppi pro-suicidi sui social media, a seguito di 130 morti per adolescenti legate alla sfida suicida di Blue Whale. Il 7 giugno 2017 il presidente Putin ha firmato una legge che impone sanzioni penali per indurre i minori a suicidarsi. La legge impone una punizione massima di sei anni di carcere.

Arabia Saudita. Il 5 giugno 2017, un ragazzo di 13 anni si è suicidato nella sua stanza, dove il suo corpo è stato scoperto da sua madre. Il ragazzo usava i suoi fili PlayStation per suicidarsi. La sua morte è stata legata a Blue Whale. 

Serbia. Un ragazzo di 13 anni in Velika Plana ha ferito la sua mano, dicendo ai suoi genitori che lo aveva fatto a causa di Blue Whale. I genitori hanno riportato la causa alla polizia. 

Spagna. In Spagna, un adolescente è stato ammesso ad un'unità psichiatrica di un ospedale di Barcellona dopo che la sua famiglia ha detto che ha iniziato a giocare a Blue Whale.

In Turchia, una famiglia ha presentato una denuncia penale dopo il suicidio di suo figlio e ha chiesto ulteriori indagini sull'incidente. La famiglia ha detto ai funzionari che dopo che il figlio ha iniziato a suonare "il gioco", il suo comportamento è cambiato rapidamente. 

Stati Uniti. Nella città di San Antonio, Texas, il corpo di un ragazzo di 15 anni è stato trovato l'8 luglio 2017. Un cellulare aveva trasmesso il suicidio teenager, che si crede correlato al gioco. Si afferma inoltre che il gioco era legato a una morte della ragazza adolescente ad Atlanta, in Georgia. Lo sceriffo della Contea di LeFlore, Oklahoma, ha dichiarato che l'esistenza di un ragazzo di 11 anni ha commesso suicidio nell'agosto 2017 mentre partecipa al gioco.

Uruguay. Nella città di Rivera, a 450 chilometri da Montevideo, una bambina di 13 anni è stata ricoverata in ospedale dopo che i dipendenti della scuola hanno partecipato alle ferite riportate al braccio sinistro. Gli adolescenti vittime del gioco della balena blu sono oggetto di indagine in sei reparti: Montevideo, Canelones, Colonia, Río Negro, Salto e Rivera. 

Reazioni.

Nel marzo 2017, il ministro rumeno dell'interno, Carmen Dan, ha espresso profonde preoccupazioni sul fenomeno. Sindaco di Bucarest Gabriela Firea ha descritto il gioco come "estremamente pericoloso".

In Brasile, in risposta al gioco, un designer e un agente di pubblicità di São Paulo ha creato un movimento chiamato Baleia Rosa (Pink Whale), che è diventato virale. Si basava sulla collaborazione di centinaia di volontari. Il movimento si basa su compiti positivi che valorizzano la vita e combattono la depressione. Anche in Brasile, Sandro Sanfelice ha creato il movimento Capivara Amarela (Yellow Capybara), che propone di "combattere il gioco delle balene blu" e di guidare le persone che cercano qualche tipo di aiuto. I partecipanti sono separati tra gli sfidanti, che sono le persone che cercano aiuto e i guaritori, che sono dei padrini di queste persone. Una scuola avventista nel sud di Paraná, in collaborazione con altre reti di istruzione, ha anche cercato di invertire la situazione proponendo un altro gioco di beneficenza, la " Sfida Jonas " (riferendosi al carattere biblico Jonah, vomitato da un grande pesce tre giorni dopo essere stato inghiottito da esso). Altri giochi creati in Brasile in risposta alla balena blu erano la Baleia Verde (Whale Verde) e la Preguiça Azul (Blue Sloth).

Negli Stati Uniti, un sito, chiamato anche "Blue Whale Challenge", non identifica come uno sforzo per combattere il gioco, ma offre 50 giorni di sfide che promuovono la salute mentale e il benessere. L'autore Glória Perez ha dichiarato il 21 aprile 2017 che intende includere il gioco Blue Whale nella sua nuova telenovela A Força do Querer. I media hanno anche sottolineato che il fenomeno ha coinciso con la controversia che circonda la serie televisiva Netflix 13 Motivi per cui, che affronta la questione del suicidio teen. Nelle aree metropolitane di Belo Horizonte e Recife in Brasile, molte scuole hanno promosso conferenze per parlare del gioco Blue Whale. La polizia specializzata nella repressione del crimine tecnologica (Dercat) a Piauí sta preparando un primer digitale per avvisare i giovani sui pericoli del gioco. 

Nel maggio 2017, Tencent, il più grande portale di servizi Internet in Cina, ha chiuso 12 gruppi sospetti di Blue Whale relativi alla sua piattaforma di social network QQ. Ha detto che il numero di questo tipo di gruppi è in aumento. I risultati di ricerca delle parole chiave correlate sono stati bloccati anche in QQ. Nell'agosto del 2017, il ministero dell'India per l'elettronica e la tecnologia dell'informazione ha indetto una richiesta formale a diverse società internet (tra cui Google, Facebook e Yahoo) per rimuovere tutti i collegamenti che dirigono gli utenti al gioco. 

Il Fenomeno Blue Whale dal portale della Polizia di Stato. Il Blue Whale è una discussa pratica che sembrerebbe provenire dalla Russia: viene proposta come una sfida in cui un così detto “curatore” può manipolare la volontà e suggestiona i ragazzi sino ad indurli al suicidio, attraverso una serie di 50 azioni pericolose. Ad oggi capita anche che bambini e adolescenti si contagino fra di loro, spingendosi ad aderire alla sfida su gruppi social dopo aver facilmente rintracciato in rete la lista delle prove ed essersi accordati sul carattere segreto di questa adesione. Le prove prevedono un progressivo avvicinamento al suicidio attraverso pratiche di autolesionismo, comportamenti pericolosi e la visione a film dell’orrore e altre presunte “prove di coraggio”, che vengono documentate con gli smartphone e condivise in rete sui social. La Polizia Postale e delle Comunicazioni sta osservando il fenomeno: le nostre indagini si concentrano sull’identificazione di adulti, giovani o gruppi di persone che inducono via web bambini e ragazzi ad esporsi ad un rischio concreto per la loro vita. Poniamo molta attenzione a quanto i cittadini ci segnalano su casi di rischio associati a questa pratica. Ogni informazione utile contribuisce a potenziare la nostra azione di protezione dei bambini e dei ragazzi in rete.

Consigli pratici per gli adulti:

Chi aderisce alla sfida del Blue Whale viene indotto a tenere ostinatamente all’oscuro gli adulti significativi, insegnanti e genitori in primis, adducendo giustificazioni e scuse per spiegare ferite, cambi di abitudini, comportamenti inusuali: approfondite sempre quello che non vi convince;

Aumentate il dialogo sui temi della sicurezza in rete: parlate con i ragazzi di quello che i media dicono e cercate di far esprimere loro un’opinione su questo fenomeno;

Prestate attenzione a cambiamenti repentini di rendimento scolastico, socializzazione, ritmo sonno veglia: alcuni passi prevedono di autoinfliggersi ferite, di svegliarsi alle 4,20 del mattino per vedere video horror, ascoltare musica triste, salire su palazzi e sporgersi da cornicioni.

Se avete il sospetto che vostro figlio frequenti spazi web sul Blue Whale, parlatene senza esprimere giudizi, senza drammatizzare né sminuire: può capitare che quello che agli adulti sembra “roba da ragazzi” per i ragazzi sia determinante;

Se vostro figlio/a sta passando un periodo di forte fragilità, non esitate a confrontarvi con gli specialisti che lo seguono, chiedendo loro quali strategie potete adottare per ridurre il rischio che si lasci coinvolgere nella sfida Blue Whale;

Se vostro figlio/a vi racconta che c’è un compagno/a che partecipa alla sfida Blue-Whale, comunicatelo ai genitori del ragazzo se avete un rapporto confidenziale, o alla scuola, se non conoscete la famiglia; se non siete in grado di identificare con certezza il ragazzo/a in pericolo, recatevi presso un ufficio di Polizia;

Indurre qualcuno a compiere azioni dolorose e pericolose, così come dichiarare emergenze che non esistono, può essere reato: quello che sembra uno scherzo può diventare un rischio grave per chi è fragile o troppo giovane;

Consigli pratici per i ragazzi:

La sfida del Blue Whale non è un gioco né una prova di coraggio, è qualcosa che attraverso i social può far leva sulla fragilità di alcuni bambini e ragazzi, inducendoli a mettersi seriamente in pericolo: non contribuire a diffondere questo rischio;

Nessuna sfida con uno sconosciuto o con gruppi di amici sui social può mettere in discussione il valore della tua vita: segnala chi cerca di indurti a farti del male, a compiere autolesionismo, ad uccidere animali, a rinunciare alla vita;

Ricorda che anche se ti sei lasciato convincere a compiere alcuni passi della pratica Blue Whale, non sei obbligato a proseguire: parlane con qualcuno, chiedi aiuto, chi ti chiede ulteriori prove cerca solo di dimostrare che ha potere su di te;

Non credere che pressioni a compiere prove sempre più pericolose siano reali: chi minaccia te o la tua famiglia vuole dimostrare di poterti comandare, non lasciarti ingannare; 

Se conosci un coetaneo che dice di essere una Blue Whale parlane subito con un adulto: potrebbe essere vittima di una manipolazione psicologica, di una suggestione e il tuo aiuto potrebbe farlo uscire dalla solitudine e dalla sofferenza;

Se qualcuno ti ha detto di essere un “curatore” per la sfida Blue Whales sappi che potrebbe averlo proposto ad altri bambini e ragazzi: parlane con qualcuno di cui ti fidi e segnala subito chi cerca di manipolare e indurre dolore e sofferenza ai più piccoli;

Se sei stato aggiunto a gruppi whatsapp, Facebook, Istagram, Twitter o altri social che parlano delle azioni della sfida Blue Whale, parlane con i tuoi genitori o segnalalo subito;

Indurre qualcuno a compiere azioni dolorose e pericolose così come dichiarare emergenze che non esistono può essere reato: quello che sembra uno scherzo può diventare un rischio grave per chi è fragile o troppo giovane;

In rete come nella vita aiuta sempre chi è in difficoltà;

Blue whale e tentati suicidi, parla il vicequestore, "Così si batte la balena". Gioco suicida sul web. Come riconoscere i segnali, scrive Lucia Agati il 24 maggio 2017 su "La Nazione". Lo sapevano. I bambini della scuola primaria lo sapevano cos’era la «balena blu», il diabolico gioco su internet con il quale gli adolescenti vengono istigati al suicidio dopo una serie di prove disseminate in cinquanta giorni e in orari inverosimili. Ma che bambini così piccoli fossero già a conoscenza di un così mostruoso meccanismo della rete è stato uno choc anche per il vicequestore aggiunto Paolo Cutolo, capo di Gabinetto della questura di Pistoia e da alcuni anni dedicato alla prevenzione delle insidie nascoste nel web attraverso incontri (e ormai con un fitto calendario), con i bambini, gli adolescenti e i genitori, a scuola e nei luoghi di aggregazione. Iniziative che sono sempre molto partecipate e applaudite da chi viene assillato dai dubbi e dal timore di non saper fronteggiare questi fenomeni.  E nell’ultimo di questi incontri, pochi giorni fa, in una scuola elementare della prima periferia, l’amara constatazione che i bambini erano a conoscenza dell’esistenza dell’orribile gioco che ha fatto vittime all’estero mentre, proprio in Toscana e proprio in questi giorni, due ragazzine sono state trascinate via da questa trappola. 

Come difendersi allora?

«L’unico vero filtro, come spiego sempre – ci dice il dottor Cutolo – siamo noi genitori. Non è possibile non accorgersi che qualcosa di strano sta accadendo ai nostri ragazzi quando si alzano alle quattro di notte per ascoltare una certa musica perchè qualcuno dice loro, dalla rete, che devono superare una certa prova fino a quando, dopo essersi anche feriti, arriva il “messaggio” che dice loro che è arrivato il giorno in cui possono “riprendersi la vita”. Certo, c’è anche chi gioca per ricevere i “like” ma ci sono comportamenti che non possono sfuggire ai genitori e il primo grosso segnale d’allarme è l’isolamento in casa».

Ci si chiede spesso se è giusto dotare i bambini di un cellulare...

«Tanti di loro hanno il telefono illimitato. A casa a piedi da soli non si va, ma col cellulare in mano fissi sì, e fissi davanti al computer fino a raggiungere l’assoluta mancanza di percezione di esposizione al rischio. E quando, in rete, sono ormai nella trappola, nessuno mi aiuta e il virtuale è diventato assolutamente reale. Quanto al blue whale a Pistoia non ci sono state segnalazioni, ma la situazione è attentamente monitorata. Mentre altri “giochi”, sempre alimentati dalla rete e dai social sì, quelli, negli anni ci sono stati: attraversare i binari in corsa quando sta per arrivare il treno, rubare nei grandi magazzini, spintonare all’improvviso gli anziani per strada e tutto, naturalmente, rigorosamente ripreso. C’è stata anche la nomination a bere un litro di superalcolici fino a che qualcuno, interruppe la catena con lo “zuppone” di latte al posto della wodka. La mia raccomandazione a ogni incontro con i genitori è sempre la stessa: password condivisa. La privacy, quando si parla di minori, non esiste. E profili chiusi dei ragazzi sui social, esattamente come i vostri, e regole, regole da rispettare. Il prezzo è la perdita del contatto con la realtà».

Naturalmente gli scettici non mancano…

Blue Whale, cosa è e cosa (non) sappiamo davvero finora. È quasi psicosi sulla "sfida" che spingerebbe gli adolescenti all'autolesionismo. Nonostante numerose segnalazioni, l'esistenza del fenomeno in Italia non è - al momento - verificata. Ma non è escluso che, proprio sull'onda dell'emulazione, online ci siano o possano nascere gruppi di istigatori, per cui è utile prestare attenzione. Anche sui media, scrive Rosita Rijano il 31 maggio 2017 su "La Repubblica". Blue Whale, la sfida social che spingerebbe i ragazzi ad affrontare cinquanta prove estreme in cinquanta giorni, fino al suicidio. Sono decine le segnalazioni di casi sospetti arrivati alla Polizia postale, e altrettanti i messaggi di allerta inviati su WhatsApp, anche da parte di genitori preoccupati. È quasi una psicosi collettiva. Eppure la storia ha molti punti non verificati, e altri impossibili da verificare. Ecco un riassunto di cosa sappiamo con certezza e cosa no. In che cosa consiste. Innanzitutto capiamo cos'è. È stato inopportunamente chiamato gioco e consisterebbe nel compiere una serie di gesti al limite, come camminare sull'orlo dei binari, da immortalare e condividere online. L'ultima prova è togliersi la vita. Si verrebbe ingaggiati tramite social network: Instagram, WhatsApp, Facebook, chat. Ad orchestrare le operazioni, quello che è stato definito "curatore": sarebbe lui a guidare i ragazzi psicologicamente vulnerabili prova dopo prova, dopo averli convinti di possedere informazioni che possono far male alla loro famiglia. Chi partecipa alla sfida si provocherebbe, prima di tutto, dei tagli alle braccia e pubblicherebbe post contrassegnati dall'hashtag #f57. Le origini. Il primo a riportare la vicenda è stato Novaya Gazeta, il quotidiano di Mosca fondato da Anna Politkovskaja, giornalista investigativa uccisa nel 2006. In un'inchiesta pubblicata a maggio dello scorso anno, il giornale collega almeno 80 delle 130 morti avvenute in Russia tra il novembre 2015 e l'aprile 2016 a delle comunità virtuali su VKontakte, l'equivalente di Facebook in Russia, dove i ragazzi verrebbero istigati a togliersi la vita. Il lavoro è stato duramente criticato e un'altra investigazione condotta da Radio Free Europe dice: nessuna connessione provata tra i suicidi e le chat. Tra l'altro, è da notare che si parla di generici "gruppi della morte": alcuni hanno preso a simbolo le farfalle, altri le balene. Quindi il nome Blue Whale (tradotto come balena blu o azzurra) è, in realtà, una montatura mediatica. Perché Blue Whale? Per via dell'abitudine delle balene a spiaggiarsi e morire, senza motivo. I protagonisti. C'è da dire che i gruppi, tuttavia, sembrano esistere come riporta anche il sito di fact checking Snopes. La loro comparsa è successiva al suicidio di una ragazza, Rina, diventata una sorta di figura simbolo di un culto non meglio identificato. E l'unico che risulta incriminato per via delle chat è uno dei primi amministratori: il 21enne Phillip Budeikin, noto come "lis" ("volpe") che, al momento, pare incarcerato in Russia. Secondo gli inquirenti di San Pietroburgo, avrebbe istigato al suicidio 15 teenager in 10 diverse regioni russe tra il dicembre 2013 e il maggio 2016. Il processo, però, è ancora in corso. Inoltre, se da un lato lui sembra confermare l'accusa vantandosi di aver contribuito a eliminare della "spazzatura biologica" in un'intervista che risale al novembre 2016, dall'altro c'è da considerare quanto dice More Kitov, creatore su VKontakte della comunità "Sea of Whales": parlando al sito Lenta.ru, Kitov sostiene che l'amministratore della comunità #f57, cioè Phillip, voleva solo accrescere il numero di membri della propria pagina per attirare pubblicità usando una storia popolare tra i ragazzi e lanciando il mito di Rina. "Questa storia - conclude Snopes - è stata ripresa inspiegabilmente dai giornali mesi dopo, ma rimaniamo non in grado di verificarla". Come mai tutto nasce in Russia? Per capire le origini della storia, può essere utile partire da alcuni fatti. Il primo è che di hashtag associati alle "chat suicide" sui social russi ne appaiono almeno 4mila al giorno, dicono le stime diffuse il 20 gennaio scorso dal Rotsit, il Centro pubblico russo sulle tecnologie internet. Il secondo: il numero di minori che decidono di togliersi la vita in Russia è uno dei più alti al mondo. Con 720 vittime nel 2016, secondo i dati presentati alla Duma: tre volte sopra la media europea. Ma, stando a quanto annota La Stampa, i dati non risultano in aumento per via di questi gruppi online e il tasso di ragazzi che si tolgono la vita è molto più alto nelle città di provincia, poco digitalizzate. Situazione in Italia. A portare il fenomeno all'attenzione del pubblico italiano è stata la trasmissione televisiva Le Iene che ha raccolto le testimonianze di quattro mamme russe di ex "giocatori". Il servizio apre legando al "Blue Whale", presentato come il tremendo gioco social del suicidio, la morte di un giovane livornese: si è ucciso a 15 anni, lanciandosi da un grattacielo. Secondo la Polizia postale non risulta alcun collegamento. Sono, invece, al vaglio circa una cinquantina di casi sospetti in varie regioni. Come ha detto a Repubblica una fonte della Postale, non ci sono prove per stabilire se si tratta di un fenomeno emulativo o se dietro questi episodi ci sia una mente criminale che spinge i giovani al suicidio. Solo l'analisi dei computer dei ragazzi, attualmente in corso, potrà chiarire questi aspetti.  Non è escluso che online ci siano gruppi che istigano all'autolesionismo e al suicidio, nati anche per via del clamore mediatico, per cui è utile prestare attenzione. Ma l'esistenza di un "gioco" strutturato di nome Blue Whale nato in Russia e dietro il quale ci sarebbe, per di più, una mente criminale non è - al momento - verificata.

Blue Whale, tutto quello che c’è da sapere sul gioco del suicidio.

Una storia vecchia torna d’attualità in Italia a seguito del servizio fatto in tv da Le Iene. Più che una vicenda da «Internet cattiva» sembra una «fake news» rimbalzata e fatta rimbalzare i cui effetti rischiano però di diventare reali, scrive Lorenzo Fantoni il 17 maggio 2017 su "Il Corriere della Sera”. 

Cos’è Blue Whale. Dopo il servizio de Le Iene su molte pagine web italiane si è ritornati a parlare del caso «Blue Whale». Con quale grado di correttezza di informazioni cercheremo di scoprirlo con questo servizio. Intanto le basi: con il nome «Blue Whale» si identifica una sorta di assurdo rituale che ha lo scopo di condurre qualcuno, prevalentemente un giovane, debole e depresso, verso il suicidio. Una sorta di gioco online a cui si decide di partecipare volontariamente postando un messaggio con l’hashtag #f57 che porta all’immediato contatto in forma privata con un «master» che sottopone un elenco di prove ben precise. Il master sarebbe in possesso di informazioni personali che in caso di disobbedienza porterebbero a ritorsioni violente sulla famiglia del «giocatore». Le presunte, ma decisamente tutte da confermare, morti dovute a questo assurdo gioco sarebbero oltre 130, con casi che si concentrano in Russia, ma si estendono anche al resto del mondo. A rinvigorire la storia ci sarebbe anche l’arresto di Philiph Budeikin, ragazzo russo che si sarebbe dichiarato colpevole di aver portato al suicidio un numero imprecisato di persone. Il nome Blue Whale si ispira ovviamente alle balene e alla loro pratica di spiaggiarsi e morire senza alcun apparente motivo. Come detto, in questi giorni Blue Whale è sulla bocca di tutti a seguito del programma Le Iene in cui i conduttori dichiaravano di aver fatto luce sulla vicenda. Tuttavia di Blue Whale si parla da almeno un anno, forse di più e la verità è decisamente più complessa di una psicosi da «Internet cattivo» e riguarda più le leggende metropolitane che una presunta setta che incita al suicidio. Oltre a tutto questo, nel 2016 è uscito un film, «Nerve», che per certi versi riprendeva le tematiche di Blue Whale, e si è innescato quindi una sorta di cortocircuito in cui è difficile capire se un caso isolato è diventato leggenda metropolitana, se la leggenda è stata imitata dalla realtà o se è entrata di mezzo anche una strana storia di marketing virale. Ciò che cercheremo di fare in queste schede è gettare una luce su questo fenomeno, dimostrando che si tratta in gran di un caso, quantomeno in partenza, montato su leggende metropolitane che qualcuno ha cercato di rendere vere per puro calcolo personale. L’unica certezza in questi casi è l’incertezza data dalle dinamiche della rete.

Dove nasce la leggenda. Blue Whale galleggia nel mare di storie dell’orrore e leggende metropolitane che vengono narrate e conservate in quegli angoli della rete più inclini a mostrare immagini violente e disturbanti. Di solito vengono chiamate «creepypasta». Il nome è una crasi storpiata “cut and paste”, ovvero l’atto di copiare e incollare un testo per diffonderlo nei forum e «creepy» che in inglese vuol dire «inquietante». Fondamentalmente non sono altro che la versione web, e quindi ancora più esagerata, delle storie del terrore che si raccontano in campeggio. Alcune di esse, col tempo, si sono poi diffuse a tal punto da arrivare al grande pubblico, come nel caso di «Slender Man», e quindi entrare nell’immaginario collettivo e trasformarsi in film dell’orrore, fumetti o videogiochi. Il destino di Blue Whale non è molto diverso. Per iniziare Blue Whale bisognerebbe frequentare forum o gruppi dedicati al suicidio o al gioco, di solito hanno nomi che riguardano le balene, e scrivere un messaggio usando l’hashtag #f57. A quel punto si verrebbe contattati da un «master» che, non si sa bene come, convincerebbe la vittima di essere in possesso di informazioni personali che possono essere usate per far del male alla sua famiglia. Poi il malcapitato deve sottostare a una serie di prove che prevedono l’ascolto o la visione di film e canzoni proposte dal master, ferite autoinflitte o sostare per un po’ di tempo sul bordo di un palazzo molto alto o sui binari di una ferrovia. Ovviamente tutto dev’essere tenuto segreto, pena la morte dei familiari.

Il primo contatto. Blue Whale emerge per la prima volta nel 2016 in un articolo del sito russo Novaya Gazeta a cui si rifanno tutti i siti che ne parlano oggi, che racconta di decine di ragazzi che si sarebbero suicidati nell’arco di sei mesi. L’articolo è perfetto per una condivisione poco attenta ed estremamente virale: le informazioni sono in russo, quindi difficilmente verificabili e contengono un grado di morbosità che ne aumenta le letture, dunque si diffonde a macchia d’olio. Secondo il sito alcuni dei suicidi facevano parte di gruppi su VKontakte, il più diffuso social network russo. Novaya Gazeta parla di almeno otto morti legate a questo gioco, tuttavia una successiva inchiesta di Radio Free Europenon ha trovato riscontri fondati a questa affermazione. I suicidi ci sono stati e VKontakte sarebbe pieno di gente che posta immagini di ferite autoinflitte e chiede di poter giocare a questo gioco, ma paradossalmente sembra tutta una vicenda che si autoalimenta basandosi sulla suggestione. In molti hanno criticato l’articolo di Novaya Gazeta, sia per la mancanza di dati verificabili, sia perché scambia la causa per l’effetto. Stando a quanto dichiarato infatti molti ragazzi si sarebbero ammazzati seguendo i gruppi su VKontakte che trattano l’argomento, ma è molto più plausibile invece che una persona con tendenze suicide segua forum o comunità online che discutono dell’argomento, piuttosto che lo diventi dopo averle seguite. Insomma, varrebbe la stessa regola di qualunque altro interesse: non si diventa pescatori leggendo un forum di pesca, si legge un forum di pesca perché lo si apprezza come sport o passatempo.

Il mito di Rina Palenkova. Internet è piena di gruppi dedicati al suicidio, alcuni cercano di aiutare i proprio iscritti a non commetterlo, altri sono invece luoghi di incontro per chi cerca consigli su come renderlo indolore o persino qualcuno con cui commetterlo. Purtroppo è difficile capire quanto questi luoghi possano rappresentare una risorsa per evitare il suicidio o piuttosto una riserva di caccia per personaggi poco raccomandabili che non vedono l’ora di accanirsi su soggetti vulnerabili. Scorrendo le pagine di questi forum si fa riferimento a Blue Whale, ma più come leggenda metropolitana legata all’articolo di Novaya Gazeta che come movimento organico e organizzato. Di fronte a casi come questo è sempre molto difficile separare mitomani, emulatori e impostori che rimbalzano tra Reddit, Tumblr, social network, forum, catene su Whatsapp. Un modo per comprendere l’assurdità di questa storia è riflettere sulla figura di Rina Palenkova. Col nome di Rina Palenkova si identifica una ragazza che si sarebbe uccisa dopo aver postato una sua foto su VK.com e che avrebbe fatto parte di una specie di culto mai identificato. La sua figura è stata montata e ricondivisa sul social network russo, con tanto di foto scioccanti, video dal sapore esoterico fino a trasformarla in una sorta di oscuro meme del suicidio, perfetto per plagiare persone più deboli e creare sottoculture nocive. Il dubbio che il personaggio di Rina Palenkova sia montato ad arte viene quando nei suoi video notiamo strani simboli che poi si sono rivelati, secondo Meduza, essere il logo di una marca di lingerie.

Gli Arg. Sempre secondo Meduza, a complicare ancora di più la situazione c’è l’uso di Blue Whale e della figura della Palenkova per creare degli ARG, ovvero giochi in realtà alternativa, estremamente criptici che mescolano filmati da decifrare, luoghi reali e messaggi in codice e che tendono a calamitare attorno a sé gruppi di appassionati ansiosi di risolverli. C’è quindi il rischio che in alcuni casi le community legate a questi giochi vengano scambiate per gruppi di persone che promuovevano il suicido e Blue Whale.

Farsi pubblicità. Lenta.ru ha svelato un altro dei motivi per cui in Russia sono nati alcuni gruppi legati al suicidio. More Kitov, creatore della community «Sea of Whales», ha dichiarato che gli amministratori del gruppo non avevano nessuna intenzione di spingere i ragazzi al suicidio, cercavano solo di far decollare le proprie pagine. Anche Filip Lis, amministratore della pagina f57, cercava solo un modo per creare velocemente un gruppo con molti iscritti. Del resto in VKontakte, proprio come su Facebook, le pagine molto seguite hanno un grande valore commerciale. E proprio come nascono pagine fan subito dopo la morte di una persona famosa, così Kitov aveva intercettato questa leggenda metropolitana, ne aveva compreso il valore e aveva utilizzato i simboli di riferimento, comprese foto e documenti che sarebbero appartenuti alla Palenkova, per creare pagine da rivendere a miglior offerente.

I suicidi in Russia. Ma come mai la Russia si è dimostrata un terreno fertile per Blue Whale, tanto da generare imitatori che, forse, ne sono rimasti tanto affascinati da utilizzarla come ispirazione per fare o farsi del male? Innanzitutto un dato importante: secondo i dati ufficiali russi il 62% dei suicidi giovanili avvengono per conflitti con membri della famiglia, amici, insegnanti, insofferenza all’indifferenza altrui o paura di violenza da parte degli adulti. Se analizziamo meglio i dati, il tasso generale di suicidi in questo Paese decresce, ma con una forte impennata di quelli giovanili, con un picco nel 2013 di 461 casi. Questo non vuol dire che Blue Whale si una cosa nata in Russia, ma lì il suo mito ha senza dubbio trovato il terreno di coltura adatto per impiantare delle suggestioni, seppure alimentate da motivazioni spesso più profonde.

Philip Budeikin. Ogni mitologia per alimentarsi ha bisogno di un mito, come Rina Palenkova, ma anche di un cattivo. In questo caso parliamo di Philip Budeikin, un ragazzo arrestato nel 2016 che ha confessato di aver spinto al suicidio persone che riteneva «rifiuti biologici». La sua intervista risale all’anno scorso, il motivo per cui questa notizia sia spuntata fuori oggi come se fosse recente è legato ai meccanismi «virali» dell’informazione moderna che rende importanti avvenimenti dopo molti mesi solo perché un media si accorge improvvisamente che esistono e cerca di sfruttarne la morbosità e la carenza di fonti verificabili per costruirci una bella storia. Budeikin ha dichiarato di aver spinto al suicidio 17 persone e che f57 non ha alcun significato nascosto, sono semplicemente la prima lettera del suo nome e le ultime due del suo numero di telefono. Al momento accertare la veridicità della vicenda e l’eventuale svolgimento di un processo a carico di Budelkin non è facile, ciò che è certo è che la notizia non è di queste ore.

In conclusione. La vicenda Blue Whale è il classico esempio di quanto la cautela sia necessaria nel riportare una notizia presa dal Web, che una volta fatta circolare rischia di trasformarsi in un boomerang (vedi il primo caso di intervento della polizia a Ravenna). Le fonti sono spesso confuse, contraddittorie o volutamente criptiche perché fanno parte di un gioco e di una sottocultura volta a creare un alone di mistero attorno a qualcosa che ha basi molto meno solide di quanto pensiamo, in cui una vera tragedia può confondersi con una foto piena di sangue finto. La parte più surreale della vicenda è come da una leggenda metropolitana si sia passati allo sfruttamento commerciale, rendendo verità un mito di Internet e portando i media di tutta Europa a parlare di un presunta nuova moda tra i giovani. D’altronde le caratteristiche c’erano tutte: disagio giovanile, l’Internet cattiva, notizie difficili da verificare. La verità molto probabilmente è che in Blue Whale c’è molto meno di ciò che siamo portati a credere e che purtroppo la suggestione e l’emulazione giocano un ruolo fondamentale in questi eventi mediatici che esplodo all’improvviso. Ci troviamo di fronte a uno di quei casi in cui il racconto si è fatto verità grazie alla voglia di alcuni di giocare con la mente di persone particolarmente vulnerabili, per questo è importante parlarne con correttezza e senza giungere a facili conclusioni e senza ammantare il fenomeno di un fascino proibito che potrebbe attrare emulatori e malintenzionati. Ormai qualunque cosa può essere o non essere Blue Whale, ma rimane una parola, e le parole hanno potere solo se glielo diamo noi.

Blue Whale, il video di Alici come prima che smonta il servizio de Le Iene, scrive l'8 Giugno 2017 "Libero Quotidiano”. La "Iena" Matteo Viviani, nel primo e ormai celeberrimo servizio dello scorso maggio, ha mostrato a tutti cosa sia il Blue Whale challange, il gioco della "balena blu" che termina con il suicidio di ragazzini ed adolescenti. Nel video si vedevano più casi di ragazzini russi, che si filmavano nei momenti in cui si toglievano la vita. Viviani legava tutto al nuovo assurdo gioco che sta terrorizzando tutti i genitori d'Italia. Ma era la verità? Pare di no: prima le conferme in un'intervista a Il Fatto Quotidiano, dunque un video su canale youtube Alici come prima. Un filmato in cui viene smontato punto per punto il servizio de Le Iene: secondo la teoria del video, la vicenda della Blue Whale sarebbe tutta una roboante "fake news". Il video è molto puntuale: non tutti i casi erano in Russia, così come invece affermava Viviani nei primi secondi del filmato. È bastato risalire alla fonte, il sito Liveleak, per scoprire inoltre che le immagini risalivano a svariati anni fa, molto prima dell'esplosione del fenomeno Blue whale. In più, alcune immagini erano dei veri e propri tarocchi, fotomontaggi di ragazzine, creati probabilmente per ottenere più like. I suicidi mostrati, dunque, non erano affatto legati al nuovo gioco. Restano però le numerose segnalazioni di casi sospetti piovute in Italia nelle ultime settimane.

Speculare sulla paura. "Sono colpitissimo di una notizia di ieri, parla di Blue Whale e del fenomeno di emulazione da parte degli adolescenti", scrive Filomena Fotia il 9 giugno 2017. “Si tratta di stare sul web in modo diverso dagli altri. Noi non ci stiamo urlando, raccontando frottole, bugie. Non è facile, perché non è facile occupare il web da parte della ragionevolezza. Sono colpitissimo di una notizia di ieri, parla di Blue Whale e del fenomeno di emulazione da parte degli adolescenti. Suggerirei a tutti di leggerla e di rendervi contro di quanto sia atroce creare un clima di paura, tensione, per alimentare finte notizie. A forza di gridare al lupo al lupo, accade che qualcuno ci crede… Se ci pensate, in piccolo è quello che accaduto in piazza a Torino durante la partita della Juve”. Lo ha detto Matteo Renzi su Ore Nove.

Blue Whale, gli effetti del servizio fake delle Iene: emulazione, boom di ricerche “suicidi” e finti “curatori”. Il fenomeno della Blue Whale in Italia è esploso il 15 maggio, giorno dopo la messa in onda di un servizio de Le Iene che spacciava per veri video falsi. “Il problema – secondo Carlo Freccero, membro di Vigilanza Rai – è che, quando queste notizie vengono date da media generalisti, diventano vere automaticamente”. Nella video inchiesta di Fanpage.it gli effetti di questo “fake”, scrive il 4 luglio 2017 Giorgio Scura su "Fan Page". "Il fenomeno della Blue Whale in Italia è arrivato grazie un servizio delle Iene". Lo ha detto a Fanpage.it, Carlo Freccero, uno dei massimi esperti di media in Italia e membro della Commissione di Vigilanza Rai. "Le Iene – continua Freccero – hanno preso per buono quanto circolava in rete sul presunto fenomeno della Balena Blu. Il web però ha subito sviluppato il suo antidoto e i debunker hanno dimostrato che i video dei presunti suicidi legati alla Balena Blu, che hanno dato al servizio enorme forza, erano falsi". "Il problema – aggiunge l'ex direttore di RaiDue e di palinsesti Mediaset – è che, quando queste notizie vengono date da media generalisti, diventano vere automaticamente. Il fatto poi che abbiano un'audience fortissima spinge i giornali ad accodarsi". Perfino l'autorevole Der Spiegel arriva a pubblicare dentro un documentario gli stessi video (falsi) delle Iene accostandoli alla Blue Whale. Il fenomeno Blue Whale nasce così. Per dimostrare quanto detto basta guardare i dati di ricerca di Google: ebbene prima del 15 maggio (il servizio delle Iene è andato in onda la sera del 14 maggio), praticamente nessuno manifestava un qualsiasi tipo di interesse verso questo gioco. Il 15 maggio, improvvisamente, l'indice esplode, arrivando a 100, massima quota di crescita di una "parola chiave". Insomma la "notizia", supportata da video falsi spacciati per veri, diventa virale. Tutti alla scoperta di questo strano "gioco del suicidio". Ma che effetti avrà avuto quest'ondata mediatica, basata su documenti falsi per stessa ammissione nell'autore del servizio Matteo Viviani, sugli adolescenti on-line? Un reporter di Fanpage.it si è finto una ragazzina interessata a voler partecipare al gioco: volevamo capire quanto l'ondata mediatica avesse messo in moto realmente il perverso gioco di cui nessuno in Italia conosceva l'esistenza, prima del servizio di Italia Uno. I risultati sono stati inquietanti: immediatamente, su Twitter, siamo stati intercettati da un sedicente "curatore", colui che dovrebbe gestire i cosiddetti Gruppi della Morte, all'interno dei quali si gioca alla Blue Whale, che ha iniziato via chat a introdurci in questo assurdo gioco, fino a minacciare i nostri cari se a un certo punto ci fossimo voluti ritirare dal gioco. I dati del profilo di questo curatore, che è stato disattivato poco dopo la chat che vi raccontiamo, sono stati trasmessi alla Polizia Postale. Ancora più inquietanti i contatti che sono giunti al nostro reporter quando si è finto curatore. Siamo stati contattati da decine di utenti che chiedevano, in un caso imploravano, aiuto per togliersi la vita. Fanpage.it non è potuta risalire a chi si celava dietro ogni singolo profilo, non sappiamo quindi se dietro di questi ci fossero adolescenti in grave crisi oppure dei burloni, altri giornalisti o poliziotti oppure adulti malintenzionati e desiderosi di stringere rapporti con minorenni. Quello spetterà alle forze dell'ordine alle quali abbiamo girato il materiale raccolto. Abbiamo però toccato con mano come, solo a partire dal 15 maggio, data del servizio de Le Iene, in Italia compaiono i profili di questi "curatori" e gli hashtag sotto cui inizia il gioco che poi prosegue in chat private dove entrano adolescenti con istinti suicidi, cyberbulli, pedofili e perdigiorno. E quello che accade lì dentro può diventare davvero pericoloso. Purtroppo, però, non è finita qui. Come dice Marco Cervellini, portavoce della Polizia Postale, il problema di questa tempesta mediatica è stato l'immediato effetto emulazione che ha creato un'ondata casi reali di cronaca in cui ragazzini hanno realmente messo in pratica questo gioco che, va ripetuto ancora una volta, prima del 15 maggio in Italia non esisteva. Qui alcuni casi: Senigallia, Ravenna, Pescara, Milano, Roma, Moncalieri, Fiumicino, Palermo, Catania. La nota positiva, in questo viaggio nell'inferno virtuale dei nostri ragazzi, è che abbiamo trovato anche delle "sentinelle". Si tratta di persone che, da quando è scoppiato il fenomeno in Italia, grazie ai video fake de Le Iene, si sono messe online per cercare di intercettare adolescenti in difficoltà per dare loro supporto. Tra loro anche una mamma di 35 anni, che chiede che venga rispettato l'anonimato, e che a Fanpage.it ha raccontato: "Sto provando ad aiutare questi ragazzi contattandoli su Twitter. Sono entrata in contatto con una ragazza che si autolesionava, ho contattato anche la mamma. Ho il terrore che qualcosa di brutto possa capitare loro".

Blue Whale, Matteo Viviani: «Falsi i video del servizio delle Iene», scrive Mercoledì 7 Giugno 2017 "Il Messaggero". Blue Whale, dopo il servizio denuncia de Le Iene non si parla d'altro: il drammatico gioco virale, diffuso tra gli adolescenti, che li spingerebbe a fare prove estreme fino a suicidarsi. La Iena Matteo Viviani aveva raccontato dei pericoli di questo gioco documentadoli con video e interviste delle mamme russe, perché proprio la Russia avrebbe dato origine a questo fenomeno. Oggi però, Selvaggia Lucarelli, con un articolo su Il Fatto Quotidiano, mostra qualcosa di inaspettato sul servizio mandato in onda su Italia Uno, perché secondo lei, come avave anche anticipato sulla sua pagina Facebook, il Blue Whale "puzzava di bruciato". La Iena Viviani nell'intervista ammette che le conversazioni con le mamme russe che avevano appena perso i figli e i video dei suicidi sono false. «Me li ha girati una tv russa su una chiavetta e ammetto la leggerezza nel non aver fatto tutte le verifiche, ma erano comunque esplicativi di quello di cui parlava il servizio». Il servizio è diventato però virale, e come spesso accade l'emulazione è la prima fonte del problema, ma Viviani si è detto sereno: «Ieri sono andato in una classe e ho chiesto quanti conoscessero il Blue Whale prima del mio servizio. La metà degli alunni ha alzato la mano. Noi adulti ignoriamo parte del web, specie quella popolata dai giovanissimi. La polizia ha salvato una ragazzina che era quasi al cinquantesimo (e ultimo) giorno del gioco, quindi aveva iniziato prima della puntata». Molti sono stati i ragazzi salvati da questo gioco dalla polizia, e la iena respinge le accuse di aver innescato un meccanismo di emulazione con il suo servizio: «Non posso praticare l'omertà su un argomento e se ho contribuito a salvare anche una sola persona, il mio è stato un lavoro prezioso».

Blue Whale, parla Matteo Viviani de Le Iene: “Sì, i video russi sono falsi ma il pericolo c’è”. Parla l’autore delle “Iene” che ha raccontato il gioco del suicidio. Prima del servizio zero casi, dopo forse sì. Soltanto emulazione? Scrive Selvaggia Lucarelli il 7 giugno 2017 su "Il Fatto Quotidiano". “Sai che sul web in molti definiscono il tuo servizio sul Blue Whale la nuova bufala de Le Iene, paragonandolo al caso stamina? “Ma per favore. La gente guarda il dito anziché la luna”. Matteo Viviani si difende con le unghie dalle accuse che molti giornali e siti gli hanno mosso negli ultimi giorni: aver parlato di suicidi giovanili legati al web in maniera imprecisa, senza prove, con video falsi e con un sensazionalismo pericoloso per via dei rischi di emulazione. Il 14 maggio Viviani ha svelato in un servizio di grande impatto emotivo il fenomeno del Blue Whale: una sorta di gioco psicologico che attraverso il superamento di 50 prove in 50 giorni istigherebbe gli adolescenti al suicidio. Si inizia con l’autolesionismo (tagli su pancia e braccia), per poi passare alla visione di film horror fino a buttarsi dal palazzo più alto della città il cinquantesimo giorno (possibilmente ripresi da una videocamera). Nato in Russia, dove tale Phillip Budeikin è stato arrestato perché accusato di essere l’inventore del gioco e di aver istigato alcuni ragazzi al suicidio, il fenomeno, secondo Viviani, si starebbe espandendo ovunque, Italia compresa. Il servizio di Viviani era confezionato con maestria: un inizio d’effetto con le immagini di adolescenti in cima a palazzi che non esitano a lanciarsi e corpi schiantati. Viviani intervistava poi due mamme russe le cui due figlie si sarebbero suicidate per questo gioco. La sera in cui il servizio è andato in onda, sul web c’è stata una reazione forte. Da quel momento, caso strano, sono cominciati casi su casi di Blue Whale in Italia.

Matteo, perché quei video bufala?

«Me li ha girati una tv russa su una chiavetta e ammetto la leggerezza nel non aver fatto tutte le verifiche, ma erano comunque esplicativi di quello di cui parlava il servizio».

Erano sconvolgenti, ma erano un falso.

«Era solo il punto di partenza, cambiava qualcosa se mettevo un voice over di 4 secondi in cui dicevo che quei video non erano collegati al Blue whale?»

Direi di sì. Come documentato dal sito “Valigia blu” nessuno in Italia prima del 14 maggio cercava “Blue Whale” su Google e dopo c’è stato un picco di ricerche. Non hai paura di aver diffuso tu il fenomeno?

«Ieri sono andato in una classe e ho chiesto quanti conoscessero il Blue Whale prima del mio servizio. La metà degli alunni ha alzato la mano. Noi adulti ignoriamo parte del web, specie quella popolata dai giovanissimi».

Come mai la polizia ha cominciato a sventare suicidi legati a Blue Whale solo dopo il tuo servizio?

«La polizia ha salvato una ragazzina che era quasi al cinquantesimo giorno del gioco, quindi aveva iniziato prima…»

Di dov’è questa ragazzina?

«Non si può dire per una ragione di privacy.

Leggo altri casi di interventi della polizia tutti successivi al servizio. E prima?

«La polizia non aveva mai sentito parlare di Blue Whale».

Sai che il ragazzino di Livorno citato nel tuo servizio, secondo le indagini, non si è suicidato per il Blue Whale?

«Ma noi abbiamo premesso che il legame col Blue Whale era la versione del suo amico e che era solo il punto di partenza del servizio».

Un punto di partenza falso.

«In Russia i suicidi ci sono stati, in Ucraina ne sono stati accertati 4. Lo dice la polizia».

In Russia l’arrestato per il Blue Whale era collegato a una sola istigazione al suicidio delle 130 che gli erano state contestate.

«È difficile fare indagini quando i server sono sparsi nel mondo e si utilizza Tor per navigare…»

Però non si può spacciare un sospetto per una notizia.

«La polizia italiana ha confermato l’esistenza di un allarme sociale e mi ha ringraziato per l’attenzione che ho portato sul fenomeno».

Non ti sei posto il problema di aver innescato tu l’emulazione?

«Allora non dobbiamo dare più notizie neppure sul bullismo o sul femminicidio?»

L’emulazione nel campo dei suicidi giovanili è un fenomeno accertato.

«Non posso praticare l’omertà su un argomento e se ho contribuito a salvare anche una sola persona, il mio è stato un lavoro prezioso».

L’Oms ha fornito regole ai media su come trattare l’argomento suicidio giovanile per evitare il rischio emulazione. Punto primo: evitare il sensazionalismo. Ma quei finti video di suicidi erano sensazionalismo puro.

«Le Iene hanno questo tipo di narrazione. Ti potrei mostrare tanti altri servizi confezionati così, scegliamo di raccontare la verità in modo crudo. Abbiamo eliminato immagini trovate sul web di tagli sul corpo mostruosi».

L’autolesionismo è sempre esistito, anche se non si chiamava Blue Whale.

Mica giochi al Blue Whale solo se ti suicidi.

È lo scopo, in teoria, altrimenti si parlerebbe di gioco che istiga.

«Cercare le debolezze nel servizio o certi titoli tipo “Le Iene incastrate nella loro falsità dal web” abbassano l’allerta su questo fenomeno che, secondo me, è anche più grave di come l’ho raccontato».

Sarà. Però la sensazione è che si sia passati da “Le iene portano bene” a (in questo caso) “Le iene non ne escono bene”.

“Le Iene” torna a parlare di Blue Whale. Persone che affrontano seriamente il tema del suicidio giovanile, scrive il 9.10.17 3 Paolo Attivissimo su Disinformatico. Se non leggi altro, leggi almeno questo: non è vero che se non finisci il Blue Whale Challenge uccideranno i tuoi genitori; quelli che si spacciano per “curatori” sono solo dei bulli malati che vogliono fregarti. Puoi batterli con un clic: bloccali. Le Iene vogliono spaventarti con il Blue Whale per fare soldi. Non farti fregare: spegni la TV. Se sei finito nel Blue Whale o in qualche “sfida” simile, o conosci qualcuno che ci è finito, parlane con gli amici, con i genitori, con un docente. Troverai aiuto. Nella puntata andata in onda domenica sera su Italia 1 , il programma Le Iene è tornato a parlare del cosiddetto Blue Whale Challenge (BWC): una sfida online che spingerebbe tantissimi giovani al suicidio tramite le istruzioni fornite via Internet da un cosiddetto “curatore”.

Riassumo le puntate precedenti della vicenda: Le Iene aveva già parlato del BWC il 14 maggio scorso, suggerendo che questa sfida avesse già fatto vittime in Italia e creando così un panico mediatico enorme nel paese ma generando anche molte proteste e critiche (per esempio Valigia Blu) per la carenza di prove e il sensazionalismo esasperato. Andrea Rossi di Alici Come Prima aveva poi dimostrato (video) che i video di suicidi mostrati in maniera così drammatica da Le Iene erano falsi: non si riferivano affatto al Blue Whale Challenge. Il 7 giugno, Matteo Viviani (de Le Iene) aveva poi ammesso sul Fatto Quotidiano che non aveva verificato la provenienza di quei video: una leggerezza assolutamente imperdonabile, specialmente su un tema delicatissimo come il suicidio giovanile. Dopo qualche giorno di clamore, tutti i media italiani hanno smesso di parlare di Blue Whale, come ha notato Wired.it (“Che fine ha fatto Blue Whale?”, 29 settembre). La paventata ondata di suicidi che sarebbero stati istigati in Italia da questa sfida non c’è stata. Il ritorno de Le Iene sull’argomento domenica sera è stato molto meno sensazionalista rispetto alla prima puntata: ha presentato documentazioni e interviste ad autorità in mezzo mondo, dando l’impressione di dimostrare di aver avuto ragione. Ma guardando il nuovo servizio con attenzione emerge che in realtà la redazione del programma ha tentato furbescamente di spostare i paletti della discussione per scagionarsi, attribuendo ai suoi critici cose che non hanno mai detto o scritto.

Primo paletto spostato: Matteo Viviani sostiene ripetutamente che chi ha criticato il primo servizio de Le Ienesul BWC avrebbe detto che questa sfida non esiste ed è una bufala. È falso: i critici (me compreso) in realtà hanno detto che il concetto di BWC esiste, che i suicidi giovanili esistono e in particolare in Russia sono molto numerosi, ma mancano prove ufficiali che colleghino BWC e suicidi, specialmente in Italia (BBC; The Globe and Mail; Il Post). In particolare, i 130 casi di suicidio giovanile in Russia citati da molti giornali di tutto il mondo non sono affatto collegati specificamente al BWC. Inoltre Blue Whale Challenge è semplicemente una delle tante sigle usate nei gruppi online dedicati al suicidio; è quella, fra le tante, che i giornalisti hanno preso e pompato. Concentrarsi su una sola sigla invece di occuparsi del problema dei suicidi e degli istigatori online è solo sciacallaggio ingannevole; è come parlare di incidenti stradali raccontando solo quelli causati dalle Peugeot arancioni. Mi verrebbe da dire che è pigrizia giornalistica, ma Le Iene non è un programma giornalistico, è un varietà. Insomma, i critici non hanno detto che il BWC è una bufala: hanno invece detto che parlarne in maniera sensazionalista e irresponsabile come aveva fatto Le Iene avrebbe ispirato emulatori e avrebbe reso reale un fenomeno che forse inizialmente era solo un meme e un mito di paura come Slenderman. Chi, come me, va spesso nelle scuole a parlare di informatica agli studenti e ha figli in età scolare sa benissimo che se ne mormorava ben prima del primo intervento de Le Iene: ma abbiamo preferito parlarne responsabilmente, caso per caso, invece di ingigantire il problema, creare falsi allarmi e seminare il panico. 

Secondo paletto spostato: nel nuovo servizio, Viviani chiede ripetutamente agli esperti e inquirenti intervistati se sia giusto o no parlare pubblicamente del Blue Whale Challenge e tutti gli rispondono che se ne deve assolutamente parlare. Questo sembra dare ragione a Le Iene per averne parlato. Ma è falso che i critici abbiano detto che non se ne deve parlare: hanno detto invece che è importantissimo come se ne parla. Non si parla di suicidio giovanile fra un frizzo e un lazzo e una pubblicità in un programma di varietà come Le Iene. Non si mostrano video di suicidi (oltretutto falsi). Non si mette la musica struggente. Non si spaccia un dramma di famiglia per un caso italiano di Blue Whale intervistando e imbeccando un bambino. Se ne parla al telegiornale e nei programmi di approfondimento giornalistico serio; se ne parla nelle scuole con i docenti e con gli esperti della polizia; si rispettano le linee guida sviluppate dall’OMS per non peggiorare il problema. La cosa assurda è che Matteo Viviani si contraddice e si sbufala da solo quando tenta di dimostrare che l’allerta Blue Whale è un problema serio mostrando come è stato gestito negli altri paesi: tramite le autorità, i telegiornali, i programmi TV giornalistici, le forze di polizia, gli psicologi e i docenti, andando anche nelle scuole a fare prevenzione e informazione competente, responsabile e sensibile. Appunto: se è un problema serio, e il suicidio giovanile lo è, non lo si tratta mandando in TV uno vestito di nero col cravattino e la barba di tre giorni a mostrare video farlocchi fra una battutina e l’altra.

Visto che questa nuova sparata de Le Iene probabilmente risolleverà la questione Blue Whale, segnalo alcuni link con le informazioni di base sulla vicenda, utili per discuterne per esempio in famiglia o in classe:

– I consigli della Polizia Postale per gestire questo allarme, che la Polizia non conferma (usa parole come “eventuale”, “sembrerebbe”). La pagina risale al 22 maggio 2017; ho linkato la versione su Archive.org perché il sito della Polizia Postale in questo momento sembra sovraccarico, e aggiungo una copia su Archive.is.

– L’indagine di Davide Bennato, docente di Sociologia dei media digitali all’Università di Catania, maggio 2017: “delle oltre 40 segnalazioni su cui sta indagando la Polizia Postale, al momento nessuna sembra essere connessa al fenomeno del Blue Whale...Attraverso il processo di cassa di risonanza dei social media – alimentato pesantemente dai mass media – un fenomeno controverso si sta trasformando in una realtà fattuale giocando sulla paura delle persone”.

– L’indagine del celebre sito antibufala Snopes, che classifica il Blue Whale Challenge come “non dimostrato“e ne ricostruisce le origini in Russia.

– L’indagine di Know Your Meme, che definisce il BWC “leggenda metropolitana” notando che “nonostante si asserisca che oltre 100 suicidi di adolescenti siano collegati” a questa sfida “non sono state trovate prove dirette”.

– La ricerca di Sofia Lincos Blue Whale: storia di una psicosi.

– La ricerca di David Puente.

– La ricerca di Bufale un tanto al chilo.

– Le raccomandazioni dello UK Safer Internet Centre, che definisce il BWC “una falsa notizia sensazionalizzata”.

– Il mio articolo di maggio 2017, che contiene molti rimandi a fonti, indagini e linee guida per parlare correttamente di un dramma che è molto reale e non va assolutamente ridotto a una sigla.

Blue Whale a Le Iene solo l’Italia l’ha considerata una bufala, Matteo Viviani spiega, scrive il 9 ottobre 2017 Maximo su Tutto uomini. Blue Whale a Le Iene solo l’Italia l’ha considerata un bufala, Matteo Viviani spiega. Matteo Viviani nell’ultima puntata de Le Iene torna a parlare del gioco macabro chiamato Blue Whale e delle sue tremendo 50 regole. E precisa che solo l’Italia, e i suoi giornali online, l’hanno considerata una bufala. Ma la Blue Whale bufala […] Blue Whale a Le Iene solo l’Italia l’ha considerata un bufala, Matteo Viviani spiega. Matteo Viviani nell’ultima puntata de Le Iene torna a parlare del gioco macabro chiamato Blue Whale e delle sue tremendo 50 regole. E precisa che solo l’Italia, e i suoi giornali online, l’hanno considerata una bufala. Ma la Blue Whale bufala non è e bisogna parlarne per arginare il più possibile il problema. La Blue Whale non è una bufala, ha spiegato Matteo Viviani andando ad intervistare organizzazioni a difesa dei minori, ragazzi coinvolti in giro per il mondo, tra Spagna, Francia, Argentina, Albania e Russia. Solo i giornali italiani hanno fatto passare il fenomeno come fake, compreso l’ex Presidente del Consiglio Matteo Renzi che in un video trasmesso da Le Iene dice chiaramente che non bisogna creare allarmismi inutili. In realtà la Blue Whale è allarmante perchè porta al suicidio bambini e adolescenti sfruttando le loro fragilità psicologiche. In pratica la redazione de Le Iene è stata accusata di aver montato tutto ad arte e di aver anche ingaggiato attori professionisti per realizzare interviste false. Matteo Viviani precisa che tutto questo è follia!

BLUE WHALE, IL SERVIZIO DELLE IENE PER RISPONDERE ALLE ACCUSE DI FAKE NEWS, scrive Giornalettismo il 09.10.2017.  Le Iene, nel corso della puntata di ieri, hanno mandato in onda un servizio per rispondere alle accuse di fake news. Il caso era scoppiato lo scorso 14 maggio, con il racconto della Blue Whale, la ‘balena blue’, macabro gioco diffuso tra adolescenti in rete, che consiste in una lunga serie di regole che i ragazzi cominciano a seguire fino a farsi del male, fino a togliersi la vita. L’inchiesta firmata da Matteo Viviani aveva suscitato grande stupore, e tanta preoccupazione o allarme tra i genitori, ma aveva anche sollevato interrogativi sulla reale portata del fenomeno descritto. Alcuni giorni dopo siti web e pagine dei social network avevano poi dimostrato come i filmati di suicidi contenuti nel servizio delle Iene fossero in realtà dei fake o comunque non avessero nulla a che fare con la tabella delle terribili 50 regole da seguire in 50 giorni. Il servizio delle Iene che oggi risponde alle accuse di bufala è un lungo reportage di 35 minuti che racconta un giro del mondo di Viviani effettuato per capire come i Paesi vicini e lontani dall’Italia abbiano affrontato il fenomeno Blue Whale. L’inviato mette in fila tutti gli articoli sulla ‘balena blu’ che erano stati pubblicati prima dell’inchiesta delle Iene e riporta degli allarmi che sono stati lanciati anche negli ultimi mesi da associazioni e forze dell’ordine italiane e straniere incaricate di raccogliere testimonianze e denunce. Si parla degli articoli giornalistici sulla Blue Whale pubblicati nel nostro Paese già a marzo, dei video caricati in quegli stessi giorni su YouTube e di alcune segnalazioni ricevute via mail dalla redazione. Nel servizio anche un’intervista ai responsabili dell’associazione francese E-enfant. Ma si parla anche dei casi di Portogallo, Spagna, Albania, Russia, Sudamerica. «I Paesi vicino a noi da subito hanno preso seriamente in considerazione l’alta rischiosità di questo fenomeno», è il messaggio delle Iene. Il pubblico sembra comunque essere ancora diviso sul servizio fornito dalle Iene. In un’intervista rilasciata a Selvaggia Lucarelli per Il Fatto Quotidiano a inizio giugno Viviani ammetteva che i video dei suicidi pubblicati erano falsi. Oggi l’intervistatrice dopo l’ultimo video sulla Blue Whale commenta: «In pratica il modo di discolparsi dai video fake de Le Iene è dire ‘La cazzata non l’abbiamo detta solo noi’». Ma i pareri differenti spuntano soprattutto sui social, e in particolare nelle risposte ai tweet delle Iene. «Questo è servizio pubblico e soprattutto una risposta alle malelingue che cercano soltanto di infangarvi», ha scritto qualcuno. «Adesso vediamo cosa si inventa il web per screditare il servizio…», ha aggiunto un altro. Poi c’è chi considera ancora il vecchio reportage un esempio di cattiva informazione: «Ma basta con queste putt…! Non vi è bastato trasmettere quella boiata raccogliticcia a maggio? Perseverate ancora? Ma finitela».

Come il mondo affronta la blue whale: Matteo Viviani raccoglie documenti e testimonianze, scrive Filomena Procopio il 9 ottobre 2017 su "Ultime Notizie Flash". Quando per la prima volta, nel mese di marzo scorso, a Le Iene si è parlato del fenomeno Blue Whale, le critiche non sono mancate. Lo ricorda anche Matteo Viviani nel servizio in onda nella puntata de Le Iene dedicata proprio a questo argomento. La Iena era stata criticata per una leggerezza nel raccogliere dati e informazioni su questo fenomeno e molti avevano puntato il dito contro il programma di Italia 1. L’accusa era semplice: prima che se ne parlasse in tv, nessuno in Italia, era a conoscenza di questo fenomeno e la cosa strana è che i casi di sospetta blue whale, si verificarono proprio a cavallo tra marzo e giugno, i mesi nei quali anche altri programmi tv si occuparono della questione. E’ abbastanza chiaro che ci fu un picco di ricerche sui social e sui motori di ricerca in quel periodo perchè molte persone non conoscevano il fenomeno. E’ anche chiaro che il fenomeno esisteva ma che alla base di esso, c’era appunto il silenzio di chi iniziava a giocare, e l’omertà di chi sapeva ma aveva paura di parlare. In ogni caso Matteo Viviani aveva promesso che si sarebbe tornato a parlare di questo fenomeno per fare chiarezza, per cercare risposte ed è iniziato quindi in estate il suo giro del mondo per andare a caccia di documenti, testimonianze, informazioni. Tutto verificato questa volta, tutto a prova di accuse e di smentite. Come il mondo affronta la blue whale: è questo il titolo del servizio che Le Iene hanno mandato in onda nella puntata dell’8 ottobre 2017 con particolare attenzione, questa volta, anche ai minori. Oggi infatti il video del servizio è stato pubblicato sul sito ufficiale del programma ma occorre verificare i proprio dati per vederlo (non dovrebbe essere accessibile ai minori anche se sappiamo che non è difficile entrare in un sito on line senza verificare la nostra reale età, basti pensare a Facebook). Detto questo, Viviani, ha deciso di fare il giro del mondo per raccogliere testimonianze e storie sulla blue whale. E lo ha fatto intervistando genitori di ragazzini morti a causa di questo gioco, dagli Stati Uniti all’America Latina passando per l’Asia. Ogni luogo affronta in modo diverso questo fenomeno, soprattutto facendo prevenzione. Ma in molti casi non basta. Matteo Viviani, come potrete vedere nel servizio e nel video alla fine del nostro post, ha cercato di capire come il mondo affronta la Blue Whale e anche come tutto questo viene percepito in Italia. 

Blue Whale: caso sospetto a Siracusa La Polizia «salva» un minorenne. I familiari avevano notato dei comportamenti strani da parte del minorenne e si sono rivolti al commissariato di Polizia di Pachino. Quando sono intervenuti gli agenti, coordinati dalla procura di Siracusa, il ragazzo aveva effettuato le prime due prove, scrive Alessio Ribaudo il 6 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera”. Avevano notato comportamenti così strani e improvvisamente aggressivi del proprio figlio. I genitori si erano confrontati con i nonni e la sensazione combaciava. Quindi, la conferma è arrivata dal ritrovamento in casa di uno scritto in cui il minorenne manifestava una sua profonda sofferenza esistenziale e dai risvegli inusuali in piena notte del ragazzo. Una tale irrequietezza che i familiari non hanno avuto dubbi e si sono rivolti agli agenti del Commissariato di Pachino, nel Siracusano, che sono subito intervenuti. Le indagini hanno messo in luce come il minore, avrebbe iniziato il percorso del blue whale. Un assurdo rituale — ispirato alle balene (whale in inglese) e al loro spiaggiarsi e morire senza alcun apparente motivo — che prevederebbe una serie di prove autolesionistiche che potrebbero culminare nel suicidio. In particolare i poliziotti hanno accertato che il ragazzo, forse a causa di una crisi di identità e di una delusione amorosa, aveva già attuato le prime due prove del gioco: incidersi con una lametta il disegno di una balena su un braccio e svegliarsi in piena notte per seguire, su un canale YouTube, video con contenuti psichedelici e horror. Una sequenza interrotta dagli inquirenti e dalla procura che, adesso, ha disposto che il ragazzo sia supportato da una psicologa.

Blue whale, ecco tutte le 50 regole del "gioco" dell'orrore. Il "gioco" dell'orrore ha già ucciso 157 adolescenti in Russia. La Blue whale, che letteralmente significa balena blu, dura 50 giorni e ha regole ben precise, scrive Anna Rossi, Lunedì 15/05/2017, su "Il Giornale". Dopo il servizio de Le Iene sulla Blue whale andato in onda ieri sera, Google e i siti d'informazione sono stati presi d'assalto per saperne di più su questo "gioco" dell'orrore. Oltre ad avere maggiori dettagli su questo macabro rituale, il pubblico ha iniziato a cercare quali sono le 50 regole del "gioco". Il blog Higgypop, dopo aver trovato sul social Reddit le regole della Blue whale, è entrato in contatto con un curatore (il tutore che dà le regole agli adolescenti che decidono di giocare alla Blue whale, ndr). Ecco le regole del "gioco" mortale:

1- Incidetevi sulla mano con il rasoio "f57" e inviate una foto al curatore;

2 - Alzatevi alle 4.20 del mattino e guardate video psichedelici e dell'orrore che il curatore vi invia direttamente;

3 - Tagliatevi il braccio con un rasoio lungo le vene, ma non tagli troppo profondi. Solo tre tagli, poi inviate la foto al curatore;

4 - Disegnate una balena su un pezzo di carta e inviate una foto al curatore;

5 - Se siete pronti a "diventare una balena" incidetevi "yes" su una gamba. Se non lo siete tagliatevi molte volte. Dovete punirvi;

6 - Sfida misteriosa;

7 - Incidetevi sulla mano con il rasoio "f57" e inviate una foto al curatore;

8 - Scrivete "#i_am_whale" nel vostro status di VKontakte (VKontakte è il Facebook russo, ndr);

9 - Dovete superare la vostra paura;

10 - Dovete svegliarvi alle 4.20 del mattino e andare sul tetto di un palazzo altissimo;

11 - Incidetevi con il rasoio una balena sulla mano e inviate la foto al curatore;

12 - Guardate video psichedelici e dell'orrore tutto il giorno;

13 - Ascoltate la musica che vi inviano i curatori;

14 - Tagliatevi il labbro;

15 - Passate un ago sulla vostra mano più volte;

16 - Procuratevi del dolore, fatevi del male;

17 - Andate sul tetto del palazzo più alto e state sul cornicione per un po' di tempo;

18 - Andate su un ponte e state sul bordo;

19 - Salite su una gru o almeno cercate di farlo;

20 - Il curatore controlla se siete affidabili;

21 - Abbiate una conversazione "con una balena" (con un altro giocatore come voi o con un curatore) su Skype;

22 - Andate su un tetto e sedetevi sul bordo con le gambe a penzoloni;

23 - Un'altra sfida misteriosa;

24 - Compito segreto;

25 - Abbiate un incontro con una "balena";

26 - Il curatore vi dirà la data della vostra morte e voi dovrete accettarla;

27 - Alzatevi alle 4.20 del mattino e andate a visitare i binari di una stazione ferroviaria;

28 - non parlate con nessuno per tutto il giorno;

29 - Fate un vocale dove dite che siete una balena;

dalla 30 alla 49 - Ogni giorno svegliatevi alle 4. 20 del mattino, guardate i video horror, ascoltate la musica che il curatore vi mandi, fatevi un taglio sul corpo al giorno, parlate a "una balena";

50 - Saltate da un edificio alto. Prendetevi la vostra vita.

IL MISTERO DELLE SUPERNOTES. I 100 DOLLARI FALSI…MA BUONI.

Supernotes, la misteriosa storia delle banconote da 100 dollari false ma… buone. La vicenda dei supenotes, biglietti da cento dollari stampati con gli stessi cliché utilizzati dal governo americano, è degna delle migliori spy story. Le banconote con la faccia di Benjamin Franklin sono quelle con il valore più alto ma anche le più diffuse fuori dagli Stati Uniti. E da almeno trent’anni il Dipartimento del Tesoro americano dà la caccia a questi esemplari praticamente perfetti, scrive il 25 novembre 2016 Mirko Bellis su "FanPage". La diffusione dei supernotes o superdollari risale all'epoca di Reza Pahlavi, lo Scià di Persia. In quegli anni, Washington aveva concesso a Teheran il privilegio di stampare dollari e per questo aveva consegnato all'Iran alcuni clichè (le matrici con le quali si "producono" i soldi) e numeri di serie. Il cambio di regime dopo la rivoluzione di Khomeini nel 1979, però, mandò all'aria i piani americani e a Teheran avrebbero continuato a stampare le banconote americane con lo scopo di minare la fiducia internazionale verso il biglietto verde. Da allora, gli agenti segreti americani sono sguinzagliati in tutto il mondo alla ricerca dei superdollari. La scoperta dei primi biglietti contraffatti fu fatta nel lontano 1989 in una banca a Manila, nelle Filippine. Secondo altre versioni, invece, il primo esemplare di supernote risale al 1990 (numero di serie 14342) in Medio Oriente, precisamente in Libano nella valle della Bekaa, al confine siriano. Presto la diffusione del biglietto da cento dollari contraffatto si espande in tutto il mondo. Nel 2006, Michael Merritt, un ufficiale del servizio segreto degli Stati Uniti, consegnò al Senato il frutto delle sue indagini e, già dieci anni fa, il traffico dei supernotes coinvolgeva più di centotrenta Paesi. Una relazione del Congresso degli Stati Uniti del 2009 incolpò direttamente il governo della Corea del Nord di essere dietro la stampa dei superdollari. Le banconote contraffate – secondo le informazioni contenute nel dossier – sarebbero servite al regime comunista per finanziare operazioni all'estero e l’importazione di prodotti. Nonostante Pyongyang abbia sempre negato questo tipo di accuse, per gli Stati Uniti sono state individuati almeno quarantacinque milioni di supernotes stampati dalla Corea del Nord. Per gli 007 americani, la produzione delle banconote da cento dollari da parte dei nordcoreani iniziò nel 1998; il Banco Delta Asia (Bda) di Macao, in Cina, aveva invece il compito di riciclare i profitti generati dalla falsificazione. Washington stimava che il Paese asiatico avesse guadagnato dai quindici ai venticinque milioni di dollari all'anno con i supernotes. Per cercare di contrastare il fenomeno, nel 2007, il Tesoro americano inserì il Banco Delta Asia nella lista nera con la proibizione di eseguire operazioni in dollari. E il Washington Post in un’inchiesta del 2009 scoprì che un generale nordcoreano, O Kuk-Ryoll, era la figura chiave nella contraffazione delle banconote americane. Secondo le fonti anonime dei servizi segreti riportate nell'articolo, esisterebbero diciannove versioni di supernote. La loro produzione avverrebbe in una stamperia a Pyongsong (a soli trenta chilometri dalla capitale) controllata direttamente dal partito comunista nordcoreano di cui, ancora adesso, il generale O Kuk-Ryol rimane un potente esponente.

Altre versioni, però, smentiscono che la Corea del Nord sia il responsabile della diffusione dei supernotes in quanto lo ritengono un Paese privo della tecnologia necessaria per falsificare i dollari.  Al contrario, per alcuni esperti nella fabbricazione di banconote, sarebbe la stessa Cia a stampare i biglietti. Ovviamente siamo nel campo delle ipotesi, ma, come ha scritto il giornalista tedesco Klaus W. Bender del Frankfurter Allgemeine in The Mystery of the Supernotes, questi dollari servirebbero a finanziare le operazioni clandestine della Cia nelle aree di crisi evitando così il controllo del Congresso degli Stati Uniti. Come dimostra anche la vicenda del nostro connazionale Vincenzo Fenili, un ex agente segreto rinchiuso per 373 giorni in un lager in Cambogia, l’ambasciata della Corea del Nord nella capitale cambogiana nasconderebbe diversi bancali carichi di dollari “veri, ma falsi”.  Secondo quanto raccontato da Fenili nel libro Supernotes di Luigi Carletti e anche in un servizio mandato in onda dalle Iene, la Cia si servirebbe proprio del regime nordcoreano per produrre i supernotes.

Gli Usa hanno comunque cercato di porre rimedio alla circolazione di queste banconote contraffate. Nell'ottobre del 2013, la Federal Reserve annunciò l’emissione di un nuovo biglietto da cento dollari. Per rendere la vita più difficile ai falsificatori furono introdotte una serie di misure hi tech, tra cui una banda tridimensionale blu e una campana disegnata dentro un calamaio. Ma sembra che tutti questi sforzi non siano riusciti ad impedire la diffusione dei supernotes. Il 16 dicembre del 2015, all'aeroporto di Linate, un antiquario italiano è stato scoperto in possesso di due esemplari di supernotes. E lo stesso agente Kasper – il nome sotto copertura di Fenili – a riprova del suo racconto mostra due biglietti da cento dollari con le ultime innovazioni anti falsificazione. Come la Corea del Nord sia entrata in possesso dei clichè necessari a stampare i dollari fuorilegge rimane ancora un mistero ma di sicuro la circolazione di queste banconote non si è mai interrotta.

Nord Corea, l’agente Kasper prigioniero dei dollari sporchi. Agente Kasper, Luigi Carletti “Supernotes” Mondadori. Lo Stato canaglia stampa banconote false che la Cia usa per finanziare operazioni clandestine, scrive il 17/04/2014 Alberto Simoni su "La Stampa”. La fabbrica dei dollari sta in Nord Corea, macina banconote dello Zio Sam per miliardi di dollari. «Centoni» falsi ma veri con tanto di volto di Benjamin Franklin. Macchina, carta, i rarissimi marcatori... Che ci fanno fuori dagli Stati Uniti, lontani migliaia di miglia dal Bureau of Engraving and Printing? Producono «supernotes». Le zecche americane non sono due bensì tre. La terza se ne sta nascosta a Pyongsong, la «città chiusa» a due passi da Pyongyang, batte moneta solleticando i desideri del dittatore nordcoreano di turno e fornisce cash in abbondanza ai servizi segreti Usa per le loro operazioni clandestine. Dollari falsi, ma verissimi, non esistono nei budget, esistono eccome sul mercato. Sono made in Corea anziché in Usa. E custoditi in bancali nei sotterranei dell’ambasciata nordcoreana a Phnom Penh. I nordcoreani stampano, i cambogiani a modo loro custodiscono, gli americani tirano i fili. I custodi della democrazia mondiale e lo Stato canaglia si minacciano ma combuttano e fanno affari.

L’intrigo internazionale è smascherato da un ficcanaso italiano che per aver visto troppo, chiesto troppo, parlato (forse) troppo, è andato all’inferno per tredici mesi prima di tornare a respirare l’aria di casa, colline della Toscana, una moglie e una bimba piccola. Ebbene chi è questo ficcanaso? Il suo nome è Agente Kasper, ma potremmo chiamarlo Hornet, Comandante Carlos e altro ancora, pilota Alitalia (e non solo) agente sotto copertura dell’intelligence italiana per 30 anni, prestato talvolta alla Cia, titolare di un bar a Phnom Penh da dove ha condotto l’indagine che lo ha portato ad annusare le supernotes e a firmare così la sua condanna all’inferno, le carceri cambogiane e soprattutto il lager di Prey Sar. Ci resta 373 giorni nelle carceri, marzo 2008-aprile 2009. «L’inferno esiste e io ci sono stato», scrive. Volevano farlo sparire, l’avidità di carcerieri che bramano i soldi di quell’occidentale nerboruto la cui famiglia da lontano può pagare per garantirgli che l’inferno sia meno inferno, lo tiene in vita. Scrive un diario, pagine fitte, divora quaderni e matite.

Sono questi appunti da Prey Sar che diventano un libro, ovviamente intitolato Supernotes scritto con il giornalista Luigi Carletti. Quasi 400 pagine di suspense, emozioni, imprevisti, poche pause, pudici indugi ai sentimenti. Il lager, pare di vederlo, coperto di fango, le piogge incessanti del Sud Est asiatico che anziché lavare, insozzano. La cella d’isolamento, buco interrato in mezzo al piazzale del carcere che quando diluvia Kasper deve aggrapparsi alla grata e guardar in su, il cielo, per non essere inghiottito dall’acqua. Vermi, larve non uomini in quei lager che Kasper racconta. Pugni, coltelli, morte, risse, affari e traffici, secondini talvolta compiacenti talvolta ansiosi di sangue. Kasper da qui ci racconta la sua vita, il suo essere (stato) 007, uomo d’intelligence sempre in bilico fra vita e morte, e fra vero e falso. Vecchi missioni e l’ultima, maledetta, a caccia di Supernotes. Non dà risposte, non anticipa conclusioni, vaga insieme al lettore fra le pagine in cerca della verità. Ci arriva vicino. Coglie il senso, ma Kasper non dà l’ultima zampata. Il perché è successo tutto ciò è una risposta abbozzata, biascicata. Nemmeno Kasper lo sa.

E’ egli stesso un mistero. Certo che esiste, che è vero, il suo nome compare in inchieste e nei registri di Regina Coeli dove finisce per 4 giorni nel 2009, gli amici sono in carne ed ossa, le persone citate note (come l’allora procuratore Pier Luigi Vigna che guidò due operazioni contro il narcotraffico, «Pilota» e «Sinai» e Kasper era della partita come affiliato ai Ros). E la sua storia? Possibile che per 13 mesi un cittadino italiano sia evaporato in un lager cambogiano e non vi sia uno straccio di azione del nostro governo su quello di Phnom Pehn? Solo un avvocato, una misteriosa pentita, qualche amico di Kasper nei Ros, una lettera dell’allora ministro Frattini ai famigliari («Seguiamo il caso....»), uno strano console faccendiere francese e Marco Lanna, console onorario italiano in Cambogia... Pochissimo. Eppure è anche questo intreccio fra verità e fiction che tormenta il lettore, «sarà tutto vero?».

Vera la storia, esagerati i dettagli? Il contrario? Chissà. Pistole, droga, agenti della Cia e dell’Fbi, inseguimenti, esecuzioni, il cinese colto, il contractor tedesco, il boss thailandese che naviga nell’oro, il senatore cambogiano buono per necessità (prende mazzette ma avverte Kasper del pericolo), il lager e l’italiano ficcanaso con l’amico americano Clancy, uomo Cia ovviamente. Atmosfera da Alias, il telefilm di spie con la bellissima Jennifer Garner (ora signora Affleck) che si sdoppia in centinaia di persone per combattere i nemici. Ma almeno lì, in tv, è finzione c’è il bene e c’è il male. Qui invece c’è Kasper con i suoi giochi di specchi. Vera o falsa? Accontentiamoci della storia. Strepitosa. 

La Fabbrica dei dollari, scrive Carlo Bonini il 23 marzo 2014 su "La Repubblica". Per tredici mesi, dal marzo 2008 all'aprile 2009, un cittadino italiano ha attraversato l'inferno della prigionia in Cambogia. In una caserma, quindi in un ospedale lager, infine nel campo di concentramento di Prey Sar, alle porte di Phnom Penh. Chi lo aveva spinto in quell'abisso — «uomini dell'intelligence americana» che lo consegnano ai servizi cambogiani con «un'accusa farlocca» di riciclaggio, racconta lui — aveva deciso che non dovesse uscirne vivo e che il «segreto» che aveva scoperto se ne andasse con lui. Un segreto — spiega oggi — chiamato «Supernotes», banconote da 100 dollari «vere ma false», stampate con macchine e clichet «autorizzati» niente di meno che in Corea del Nord, con cui l'intelligence americana paga clandestinamente ciò che l'opinione pubblica non può e non deve conoscere. Regimi canaglia, narcotrafficanti e tutto ciò che si può e si deve pagare al mercato nero della sicurezza nazionale.

Sentite un po'. «Le zecche americane del Bureau of Engraving and Printing che stampano banconote non sono due, ma tre. La terza — macchina, carta e tutto il resto, inclusi i rarissimi marcatori — non si trova sul territorio statunitense, bensì in Corea del Nord. Il Paese del dittatore pazzo che gioca con l'atomica. Delle esecuzioni di massa. Delle minacce e della censura. Lo Stato canaglia nemico degli Usa. Talmente canaglia che nessuno può andare a ficcarci il naso. Sono americani quelli che fanno girare le ruote del dollarificio. Sono loro a gestire il traffico di valuta. A utilizzarne i proventi colossali. Americani. Quale che sia la loro sigla. Quale che sia il cappello che si mettono per l'occasione. La struttura per la stampa dei dollari è localizzata nei dintorni di Pyongsong, una città di centomila abitanti a nord-est della capitale Pyongyang. La chiamano "la città chiusa". Gli stranieri non possono entrarvi. La struttura fa parte della Divisione 39 dei servizi segreti nord-coreani. La Divisione 39 gestisce i fondi riservati del leader coreano. Una dotazione stimata in circa cinque miliardi di dollari». Insomma, «il dittatore nord-coreano minaccia gli Usa e nel frattempo incassa una robusta percentuale nella produzione di Supernotes. Dal canto loro, Cia, Nsa e le altre agenzie finanziano le proprie attività con fondi che i bilanci statali non potrebbero mai garantire».

Ebbene, di questo cittadino italiano, del buco in cui è finito e del segreto che dice di custodire, per tredici mesi, nessuno sembra voglia davvero occuparsi con convinzione. La sua storia non affaccia nelle cronache. Il suo caso semplicemente non esiste. L'allora ministro degli Esteri Franco Frattini scrive una lettera ai familiari in cui genericamente li rassicura sull'impegno della nostra diplomazia nel risolvere quello che viene classificato come l'arresto di un cittadino italiano residente all'estero in forza di un provvedimento di altro Paese straniero (gli Usa) per riciclaggio e reati fiscali. Il «cittadino» deve dunque cavarsela da sé. Dalla sua, ha un'avvocatessa caparbia, Barbara Belli, una donna che lo ama, Patty, e un'anziana madre che vive a Firenze, grazie alle cui rimesse in contanti attraverso Money Transfer («Alla fine, circa 250mila euro versati in più tranches», dice mostrando le ricevute di pagamento), compra la propria sopravvivenza nel lager in cui è rinchiuso e dove viene regolarmente pestato a sangue. Perché quel denaro, per i suoi aguzzini cambogiani, è una fortuna a cui non si possono voltare le spalle. Poi — è appunto l'aprile del 2009 — il nostro riesce a evadere dal suo inferno e a raggiungere l'Italia. Dove, tuttavia, lo attende un mandato di cattura per un'accusa di bancarotta fraudolenta. Si costituisce nel carcere di Regina Coeli, a Roma, dove resta per quattro giorni e viene interrogato dal procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo e dal pm Francesco Ciardi («Capaldo era convinto che fossi al centro dei misteri d'Italia»). Una volta scarcerato, si esilia in una casa di campagna dove getta in un baule il diario sporco di sangue e sudore della sua prigionia, si mette a coltivare gli ulivi, apre una palestra di arti marziali frequentata da ex appartenenti a corpi militari di élite, si tiene in allenamento con qualche lancio in paracadute, diventa padre di una bambina e trascorre notti insonni inseguito dagli incubi di ciò che ha attraversato e dal fantasma del suo passato. Fino a quando non cerca e rintraccia un giornalista che si era occupato di lui, Luigi Carletti. Gli racconta la sua storia, ora scritta in un libro su cui la la Mondadori scommette molto: Supernotes. Quel cittadino italiano nel suo libro di memorie si fa chiamare "Agente Kasper". È un uomo controverso e la sua storia promette di suscitare un vespaio.

In una palazzina liberty di Roma, in un ufficio illuminato dal primo sole della primavera, Kasper, 55 anni, sorride fasciato da una tshirt aderente blu e pantaloni verde cachi dalle ampie tasche che ne disegnano il corpo massiccio e atletico. Sul bicipite destro fa mostra di sé una grande tatuaggio. Un gladio coronato dal motto unus sed leo. All'anagrafe, Kasper ha un nome e un cognome. Che Repubblica conosce bene per essere stato all'onore delle cronache negli anni '90 e ancora nei giorni della sua permanenza a Regina Coeli nel 2009. Un nome e un cognome che Kasper e la Mondadori chiedono che non venga reso pubblico. «Il mio nome non ha importanza — dice lui —. La mia vita è cambiata. Sono diventato padre. Con quel mondo ho chiuso. Mi importa solo che un giorno mia figlia, digitando su Google, non pensi che suo padre è stato quello che hanno scritto di lui i giornali. Cose del tipo, "un ex di Avanguardia nazionale che negli anni della militanza studentesca andava in giro con un dobermann" e che certa magistratura ha fatto pensare che fossi, infilandomi anche in golpe da operetta. Mentre la verità è solo che da ragazzo io ero di destra e da adulto ho fatto una vita che non poteva essere raccontata. In fondo, il libro serve a svelare una verità che altrimenti sarebbe morta con me». Quel mondo è il luogo delle ombre e degli specchi che chiamiamo intelligence. Dove nulla è fino in fondo vero o falso. E dove, soprattutto, nulla è mai ciò che appare. Una regola che vale anche per Kasper.

Dice di sé: «Ho lavorato per il mio Paese come agente sotto copertura dall'inizio degli anni '80, subito dopo essermi congedato da carabiniere. Prima per il Sismi, poi per il Ros. Il mio lavoro di copertura era pilota di aereo per compagnie civili. L'Ati prima, L'Alitalia poi, fino al '98. Per il mio operato ero stato proposto per una medaglia al valor civile che non mi è stata mai consegnata». Agente sotto copertura, dunque. E tuttavia, assolutamente irregolare. Kasper non risulta sia mai stato incardinato nel nostro Servizio mi-litare, né nel Ros dei carabinieri, per il quale ha comunque partecipato a due operazioni contro il narcotraffico ("Pilota" e "Sinai") istruite dall'allora procuratore di Firenze, Pierluigi Vigna, e di cui è traccia documentale in sentenze passate in giudicato. «Nulla di più, nulla di meno. Dall'operazione Sinai in poi, il Ros non ha più avuto rapporti operativi con Kasper. Nei carabinieri Kasper ha svolto il servizio di leva e i carabinieri sono un organismo di polizia giudiziaria che opera su direttiva della magistratura, non sono un Servizio segreto», dicono oggi al comando del Raggruppamento speciale dell'Arma. «Non potevo che essere un irregolare — osserva lui — perché certe cose possono farle solo gli irregolari. Né ho mai manifestato l'intenzione di diventare effettivo alla nostra intelligence. Sarei finito a marcire dietro una scrivania. E non era quella la vita che volevo».

La vita che Kasper voleva la racconta nel suo Supernotes. Roba da arditi. Pistole, stupefacenti, agenti della Cia, del Fbi o semplicemente ex spioni che nella Ditta sono stati per poi mettersi in proprio e diventare free-lance dell'intelligence. Volti e gesti stravolti dall'adrenalina nei diversi angoli del globo. Un plot in cui il lettore non ha molta scelta. Credere o meno a ciò che legge. Che i dollari della vergogna, falsi ma veri, esistano («Li ho visti con i miei occhi»), che il governo abbia abbandonato questo suo cittadino perché scomodo. Non fosse altro perché dagli atti ufficiali della nostra magistratura e della nostra diplomazia risulta un racconto capovolto che suona così: Kasper viene arrestato su richiesta dell'Fbi perché accusato di frode informatica, uso di documenti falsi e di aver riciclato quattro milioni di dollari, viene assistito dalla nostra ambasciata a Bangkok anche attraverso il console a Phnom Pehn, visitato e monitorato nel periodo della sua prigionia e quindi regolarmente rilasciato dalle autorità cambogiane con un visto in uscita che gli ha consentito di raggiungere Vienna in aereo.

Luigi Carletti, il giornalista che di Kasper ha raccolto le memorie, dice: «Si può pensare quel che si vuole della storia che mi ha raccontato. Ma un fatto è certo. Tutti i procedimenti contro di lui sono improvvisamente evaporati. Non se ne sa più nulla. In Italia, in America, in Cambogia. Nessuno lo ha più cercato. Forse perché quelle accuse erano strumentali. O no?». Kasper sorride. «Voglio pensare che devo la mia vita alla buona sorte e a un amico come l'ex comandante del Ros, il generale Ganzer. Che ci sia stato lui dietro la mia fuga da Prey Sar». Ganzer, oggi in pensione, schiarisce la voce: «Nel '98, dissi a Kasper che essendo stato esposto a un grosso rischio con le operazioni Pilota e Sinai, la sua collaborazione con il Ros doveva ritenersi conclusa per sempre. Da allora, in modo del tutto autonomo, Kasper si è prima messo nei guai con agenti del Nocs e della Finanza. Poi ha aperto un bar in Cambogia, dove è finito in carcere su rogatoria americana. In quei tredici mesi, l'unica cosa che feci, fu attivare la nostra Direzione Centrale dei Servizi Antidroga perché l'addetto a Bangkok e il nostro console in Thailandia si sincerassero di quanto stava accadendo. Ho visto Kasper l'ultima volta quando si è costituito al Ros nel 2009 per essere accompagnato a Regina Coeli. Mettiamola così. Kasper è un uomo intelligente ma anche molto avventuroso». Carlo Bonini, 23 marzo 2014. 

IL MISTERO DI ETTORE MAJORANA.

"Majorana visse in un convento del Sud Italia. Ecco le prove". Foto mai viste e lettere inedite del genio della fisica scomparso nel 1938 aprono nuovi e clamorosi scenari Rolando Pelizza, che fu suo allievo: "Si nascose grazie al Vaticano", scrive Rino Di Stefano su “Il Giornale”. Sciascia aveva ragione: Ettore Majorana non sarebbe morto suicida, né tanto meno sarebbe fuggito in Venezuela. Lo scienziato scomparso nel nulla il 27 marzo del 1938 a poco più di 31 anni, mentre era docente di Fisica teorica presso l'università di Napoli, non si sarebbe mai mosso dall'Italia. Per essere più precisi, avrebbe chiesto e ottenuto di essere ospitato in un convento del Sud Italia, dove sarebbe rimasto fino alla fine dei suoi giorni. A rivelare questa nuova verità su uno dei più grandi geni che l'Italia abbia mai avuto, è Rolando Pelizza, 77 anni, l'uomo che da sempre sostiene di essere stato l'allievo di Majorana e di averlo aiutato a costruire una macchina in grado di annichilire la materia, producendo quantità infinite di energia a costo zero. Pelizza, però, non si limita a raccontare la sua storia. Questa volta tira fuori delle prove concrete, e cioè lettere e foto, che dimostrerebbero, al di là di ogni ragionevole dubbio, che in effetti avrebbe realmente conosciuto e frequentato colui che, ancora oggi, chiama il «suo maestro». Le foto sono due: la prima risale ai primi anni Cinquanta, la seconda agli anni Sessanta. La somiglianza con il giovane Majorana è impressionante. La più importante delle lettere risale al 26 febbraio del 1964, quando in una missiva di sette facciate, lo scienziato scomparso riconosce al suo allievo il merito di aver terminato cum laude il ciclo delle lezioni che egli gli ha impartito. La lettera ha un riscontro concreto. In data 28 gennaio 2015 è stata affidata alla dottoressa Sala Chantal, grafologa specializzata in ambito peritale/giudiziario, con ufficio a Pavia, la quale, paragonando la calligrafia degli scritti lasciati a suo tempo da Majorana con il testo della lettera stessa, ha effettuato una completa perizia calligrafica di 23 pagine, conclusa con le seguenti parole: «Detta lettera è sicuramente stata vergata dalla mano del sig. Majorana Ettore». «Dal 1° maggio 1958 al 26 febbraio 1964 sono stato allievo di Ettore Majorana - racconta Rolando Pelizza - e negli anni successivi sono stato suo collaboratore nella realizzazione del progetto di costruzione della macchina produttrice di antiparticelle. Posso affermare senza tema di smentita che Ettore Majorana non è morto nel 1938: l'ho conosciuto e frequentato e mi ha insegnato la "sua matematica" e la "sua fisica" e poi mi ha accompagnato con i suoi insegnamenti per molti anni. Per onestà intellettuale, voglio affermare che la paternità dello studio che sta alla base della macchina è opera esclusiva di Majorana». Prendendo dunque per buona e corretta la perizia della dottoressa Chantal, esaminiamo che cosa c'è scritto in quella lettera del 1964. Tanto per cominciare, il testo inizia con una dichiarazione che non lascia dubbi circa il ruolo di allievo che avrebbe avuto Pelizza. Singolare che, per evitare di dire dove si trovi, la lettera si apra con l'intestazione «Italia, 26-2-1964». Questo espediente verrà usato anche nelle altre lettere. «Caro Rolando - scrive il presunto Majorana - Ti ricordi il nostro primo incontro, avvenuto il 1° maggio 1958? Ne è passato di tempo. Oggi si può dire terminato il periodo delle mie lezioni. Ti promuovo a pieni voti, sia in fisica sia in matematica. Come ben sai, quanto hai appreso va molto oltre le attuali conoscenze; per tanto non misurarti con nessuno, perché potresti scoprirti. Anche se qualcuno conoscendoti, ti provocherà, tu ascolta e fingi di non capire; so bene che questo sarà molto difficile, ma credimi: se, dopo aver sentito quello che ti dirò, accetterai di realizzare la macchina, dovrai fare questo e molto di più. Ora sei sicuramente pronto per affrontare il compito di realizzare la macchina; conosci perfettamente ogni particolare, hai appreso dettagliatamente la formula necessaria per il funzionamento della stessa; ora ti consegno disegni e dati per il montaggio. Solo una cosa ti chiedo: devi essere molto prudente. Disegni e dati non sono tanto importanti; la formula, invece, va ben custodita. Per nessun motivo deve cadere in mano di altre persone: sarebbe la fine, di sicuro». A rendere ancora più verosimile il tono della lettera, sono le raccomandazioni che il professore rivolge al suo studente, in vista della realizzazione della macchina. Il mondo è quello che è, per cui lo invita alla prudenza: «Prima di decidere se accettare o meno il compito di realizzarla, devi sapere bene a cosa andrai incontro - avverte -. Almeno questo è il mio parere, ricordalo bene. Nonostante il mio desiderio di vedere questa macchina realizzata sia immenso (per il bene dell'umanità, che purtroppo sta andando incontro ad un terribile disastro a causa del nefasto impiego delle varie scoperte), voglio che tu rifletta prima di decidere: da questo dipenderà la tua esistenza. Se, ultimata la macchina, sarai scoperto prima della sua presentazione, secondo i dettagli che più oltre ti fornirò, sarai sicuramente in pericolo di vita; potrai essere vittima di un sequestro, come minimo, ma ci potranno essere molte altre gravi ripercussioni. Se dopo tutto questo, deciderai di realizzarla comunque, te ne sarò eternamente grato e sono contento di aver intuito subito che tu eri la persona giusta». Passati gli avvertimenti, il professore elenca nel dettaglio le precauzioni da prendere. Ed è molto scrupoloso nel farlo: «Dopo la riuscita del primo esperimento - spiega - dovrai predisporre vari dossier da depositare in luoghi ed a persone varie di piena fiducia. Dovrai costituire una fondazione alla memoria dei tuoi cari (in questo modo non solleverai sospetti). Di questa fondazione, tu sarai il fondatore e il presidente, mentre nel consiglio dovrai cercare di inserire nomi conosciuti e di fiducia; dovranno essere persone di varie categorie, ad esempio: un avvocato, un medico, uno psicologo, un professore di storia dell'arte, ed altre professioni; io ti farò avere il nome di uno o più fisici. Dovrai organizzare almeno due o tre convegni differenti. Poi, un convegno di Fisica sull'argomento che io proporrò al fisico, o forse più fisici, del consiglio. Nel frattempo, dovrai presentare la macchina che hai realizzato, adducendo di aver effettuato il lavoro con la collaborazione dei sopra citati fisici (o fisico?). Penserò io ad informare questi ultimi su come comportarsi al momento opportuno. Poi presenterai il piano d'azione da intraprendere successivamente. La macchina sarà presentata solo dopo la realizzazione della seconda fase, che consiste nel riscaldamento della materia, una fonte inesauribile di energia sotto forma di calore». A leggere la lettera si evince che il Majorana che si nasconde in convento non è poi così lontano dal mondo come sembrerebbe. A quanto pare, continua a tenere contatti con l'esterno e comunica con altri fisici che lo conoscono bene. Il professore continua ricordando all'allievo il giuramento fatto e gli ricorda che, al momento, la macchina è ancora in fase sperimentale. «Tieni sempre presente il giuramento che abbiamo fatto - ammonisce - per nessun motivo, anche a costo della vita, sarà ceduta come strumento bellico, ma dovrà essere usata esclusivamente al fine di migliorare la nostra esistenza». Il professore non manca di mettere in guardia l'allievo dalle conseguenze che potrebbero aspettarlo: «Non pensare che siano manie mie - mette le mani avanti -. Se verrai scoperto prima del tempo, cosa che spero tanto non succeda, tutto quanto detto finora, che ora può sembrare paranoico, è solo la minima parte del reale pericolo a cui andrai incontro. Investimento: so benissimo che provieni da una famiglia benestante, però pensaci bene. Sai quanto materiale pregiato serve per una sola macchina. Inoltre, prevedi che certamente ne andranno distrutte parecchie e dalla loro distruzione non ricaverai nulla, perché nulla rimane se non circa il quattro per mille, del materiale, ecc. Verificherai bene di quanto puoi disporre: è preferibile non iniziare che rimanere senza nulla e di conseguenza non poter terminare, per te e soprattutto per la tua famiglia, che andrebbe incontro a problemi molto seri. Avrei ancora molte altre cose da aggiungere per sconsigliarti di accettare, ma credo che bastino quelle dette, PENSACI BENE. In attesa della tua decisione. Tuo amico e maestro, Ettore». C'è da dire che, con un alto grado di preveggenza, il professore ha anticipato tutto ciò che è realmente accaduto a Pelizza nel corso degli anni. Infatti, dal 1976, anno in cui egli fece gli esperimenti che il professor Ezio Clementel, presidente del Cnen e ordinario di Fisica presso l'università di Bologna, gli commissionò per incarico del governo italiano, i guai di Pelizza non hanno avuto fine. A quel tempo era presidente del Consiglio Giulio Andreotti, al suo terzo mandato governativo. Anche se l'esperimento andò bene, e la macchina dimostrò tutta la sua efficacia, Andreotti decise di rompere ogni rapporto con Pelizza quando seppe che il governo americano, allora presieduto da Gerald Ford, si stava interessando al caso. Il presidente Ford inviò in Italia il suo rappresentante personale, l'ingegner Mattew Tutino, per prendere contatti con Pelizza. Da notare che nella società di quest'ultimo, la Transpraesa, i servizi segreti italiani (per la precisione il Sid, Servizio informazioni difesa) avevano infiltrato due colonnelli dei carabinieri: Massimo Pugliese e Guido Giuliani. Nonostante il governo degli Stati Uniti avesse offerto un miliardo di dollari per entrare a far parte della società, Pelizza si rifiutò di collaborare con gli americani quando questi gli chiesero, a titolo di prova, di abbattere alcuni loro satelliti geostazionari. In altre parole, utilizzare la macchina come un'arma. Subito dopo fu la volta del governo belga. Venne chiamata Operazione Rematon e prevedeva che Pelizza, il cui interlocutore era il primo ministro Leo Tindemans, brevettasse e depositasse il brevetto della sua macchina in Belgio. L'accordo fallì quando nell'aeroporto militare di Braschaat, nei pressi di Bruxelles, i belgi chiesero a Pelizza di distruggere un carro armato. Ancora una volta, dunque, la macchina veniva interpretata come un'arma. Il risultato fu che Pelizza fece intenzionalmente implodere la sua macchina e pretese di essere riaccompagnato in Italia. Da allora la vita di Rolando Pelizza è trascorsa in modo molto movimentato, con l'emissione di tre mandati di cattura internazionali, tutti ritirati nel corso del tempo. Fece molto parlare l'accusa che nel 1984 gli rivolse il giudice Palermo per aver costruito illegalmente «un'arma da guerra chiamata il raggio della morte». Ma al processo Pelizza venne assolto con formula piena. Di lui parlarono spesso anche i giornali. Ecco, per esempio, un brano tratto da un articolo della rivista OP del 15 luglio 1981: «Come non definire "l'operazione Pelizza" un best seller della letteratura gialla internazionale? Purtroppo si tratta di una vicenda vissuta, di una storia tutta italiana iniziata nel 1976 e non ancora conclusa. Siamo in possesso di informazioni dettagliate, con tanto di nomi e date, che ci inducono a ritenere che quella che può essere catalogata come "l'operazione Pelizza" non è il parto di Le Carré o di Fleming e che la sua scoperta non è "la macchina per fare l'acqua calda" come qualcuno ha voluto dire». Ma ci fu anche chi lo attaccò duramente. Nel 1984, in una serie di articoli, La Repubblica definì Pelizza «fantasioso traffichino di provincia», paventando che dietro la presunta invenzione di quello che veniva definito «raggio della morte» ci fosse una colossale truffa. Ovviamente nessuno spiegava che, in presenza di un'eventuale truffa, ci dovesse essere anche un eventuale truffato. Ma il messaggio era comunque lanciato. Stanco di questa continua battaglia, adesso Pelizza ha deciso di vuotare il sacco. Ed ecco quindi le lettere e le foto di Majorana in convento: «Già nel 2001 il mio maestro mi aveva autorizzato a rendere pubblico il mio contatto con lui. Non l'ho fatto perché speravo di far conoscere questa verità in modo molto più morbido e graduale. Ma purtroppo non è stato possibile: troppe maldicenze e calunnie sono state messe in giro contro di me in questi anni. Adesso, dunque, ho deciso di dire tutto e di far conoscere la verità sulla sorte di Ettore Majorana». Una lettera illuminante, a questo proposito, è quella che Pelizza mostra con data 7 dicembre 2001. Gliela inviò, sostiene, il suo maestro proprio per autorizzarlo. «Da ora - si legge - se lo riterrai opportuno, sei libero di usare il mio nome, di divulgare i nostri rapporti, gli scritti e fotografie; se lo farai ti prego di rivelare i veri motivi che mi hanno spinto nel 1938 ad allontanarmi da tutti, per dedicarmi allo studio, nella speranza di arrivare in tempo e poter dimostrare al mondo scientifico che esistevano alternative importanti e senza pericoli. Purtroppo tu ben sai che non sono arrivato in tempo, pur avendo alternative migliori, che a tuttora non sono servite a nulla. Riservati l'ultimo segreto, dove e come mi hai conosciuto, il luogo e i fratelli che da sempre mi hanno segretamente ospitato». Pelizza, infatti, si rifiuta categoricamente di dire in quale convento Majorana sia stato ospitato per oltre mezzo secolo e dove, ancora oggi, sarebbe sepolto. «Il mio maestro non ha mai preso i voti - sostiene Pelizza -. Egli è stato ospitato in convento e lì, grazie alla protezione del Vaticano, è riuscito a vivere e a studiare per tanti anni, senza essere disturbato. Conoscevano la sua situazione e sapevano del suo dramma interiore, che rispettavano. Comunque, so che anche durante la sua vita conventuale, si è messo in contatto con personalità scientifiche che si sono occupate di lui. Non so quanti abbiano realizzato che il loro interlocutore fosse proprio lo scomparso Ettore Majorana, ma così è stato». A dimostrazione di questa corrispondenza tenuta con il mondo accademico, c'è la copia di una lettera che Majorana avrebbe scritto al professore Erasmo Recami, ordinario di Fisica presso l'università di Bergamo e conosciuto per essere il maggior biografo di Majorana. La data della lettera è del 20 dicembre del 2000: «Egregio Professor Erasmo Recami (...) mi permetto di rivolgermi a lei come un collega, chiederle un parere ed eventualmente un aiuto, nel caso lei ritenga valido il consiglio che ho dato al mio collaboratore e che leggerà nello scritto a lui indirizzato. Conoscendo molto bene il mio allievo, sono sicuro che dei miei consigli inerenti all'abbandono del progetto, non si curerà; quindi la pregherei di provare a convincerlo, per il suo bene. Se proprio non sentisse ragioni e volesse continuare, veda se, una volta letti tutti i documenti inerenti ai rapporti tra me e lui fino ad ora, ritiene opportuno pubblicarli, per il bene futuro del nostro mondo. Quando parlo del futuro del nostro mondo, mi riferisco al surriscaldamento del pianeta, cosa che io avevo previsto già nel 1976, quando diedi a Rolando una relazione dettagliata sul tema, e le sue conseguenze: dai primi sintomi, all'inizio del 2000, all'incremento del problema a partire dal 2010, in seguito al quale è lecito aspettarsi delle vere e proprie catastrofi ambientali. Relazione che Rolando, a sua volta, consegnò al Dott. Mancini, il quale, in quel momento, era stato incaricato dal governo di occuparsi dello sviluppo della macchina. «La macchina in oggetto, oggi è in grado di rigenerare l'ozono distrutto, semplicemente tramutando l'anidride carbonica in ozono nella quantità mancante, e l'eccesso in qualsiasi altro elemento da noi voluto. Ma le sue possibilità sono infinite: ad esempio, essa è in grado di produrre calore illimitato senza distruggere la materia, quindi senza lasciare residui di nessun genere. Con la pubblicazione di questi studi, l'umanità verrà a conoscenza che, per la volontà di poche persone (comportamento che a tutt'oggi non riesco ancora a comprendere) sta perdendo l'opportunità di un futuro migliore. «Solo per il fatto di aver letto quanto da me scritto, le sono infinitamente grato. I miei più cordiali saluti, Suo Ettore Majorana». Inutile dire che il professor Recami restò molto impressionato da questa lettera, ma come ci ha poi dichiarato, non basta una lettera a dimostrare che sia stata scritta proprio da lui. Insomma, mancando una precisa evidenza scientifica, non riusciva ad accettare l'idea di essere in contatto con colui che per anni è stato l'oggetto dei suoi studi. Pelizza mostra un dossier di una dozzina di lettere inviate dal suo maestro tra il 1964 e il 2001, anno in cui smise di avere contatti. A quel tempo Majorana aveva 95 anni. Stanco e malato, si preparava a rendere la sua anima a Dio e non volle mai più ricevere il suo allievo in convento. Su sua precisa disposizione, le sue spoglie sarebbero state seppellite in terra consacrata, sotto una croce anonima, come si usa per i frati di clausura. Il Vaticano ha sempre mantenuto il segreto e non ha mai reso pubblico nulla sulla sua vita in convento. Pare invece che tutte le carte appartenenti a Majorana siano state spedite in Vaticano, dove ancora oggi sarebbero in corso di archiviazione.

Lo scienziato e la cittadina vaticana. La Procura chiude i gialli storici. L’archiviazione sulla scomparsa del fisico catanese precede la conclusione di un’altra indagine pluridecennale, quella sulla «ragazza con la fascetta». Analogie e retroscena, scrive Fabrizio Peronaci su “Il Corriere della Sera”. Le analogie - dando per scontate le ovvie specificità dei due casi - sono numerose: le scomparse di Ettore lo scienziato catanese e di Emanuela la figlia del messo pontificio hanno segnato periodi importanti del Novecento italiano; su entrambe ha aleggiato lo spettro di deviazioni e di oscure ragioni di Stato; sia per l’uno sia per l’altra si è fatta l’ipotesi di una segregazione in ambiente religioso, fosse esso un monastero in Calabria o un convento di clausura sperduto tra l’Alto Adige, il Lussemburgo e il Liechtenstein; in ambi i casi sono state offerte consistenti somme di danaro (30 mila lire da Mussolini, un miliardo dagli Orlandi) a chi fosse stato in grado di fornire notizie utili e decisive; le relative inchieste sono andate avanti per decenni. Ora, per un bizzarra coincidenza che forse proprio casuale non è, il caso Majorana e il caso Orlandi arrivano nello stesso periodo al loro esito giudiziario presso la stessa Procura, quella di Roma. Per il giallo del fisico svanito nel nulla dopo aver lasciato Napoli nel 1938 a bordo di un piroscafo diretto a Palermo i magistrati, dopo averne accertato la presenza in Venezuela negli anni Cinquanta, hanno optato per la richiesta di archiviazione, sentendosi certi di poter escludere «condotte delittuose o autolesive», vale a dire l’omicidio o il suicidio. Appurato che il genio degli studi sull’atomo era in vita molti anni dopo, e non essendo emersi elementi sospetti, il giallo è stato insomma considerato chiuso, anche se la fine non è nota. Diverso, almeno nel paradigma conclusivo, appare il quadro investigativo legato alla scomparsa della «ragazza con la fascetta», avvenuta nel giugno 1983. L’inchiesta per sequestro aggravato dalla morte dell’ostaggio (che sta per concludersi con la richiesta di rinvio a giudizio davanti a una Corte d’assise o, al contrario, con un’archiviazione) ha infatti portato nel corso degli ultimi sette anni all’iscrizione di sei persone sul registro degli indagati. Lo scenario di un’azione violenta ai danni della vittima, nell’ambito di un presunto ricatto attuato contro il Vaticano di Giovanni Paolo II e del capo dello Ior Marcinkus, con la partecipazione «operativa» di elementi della banda della Magliana, è stato ritenuto concreto, sulla base di precisi indizi. Tre dei sei indagati erano infatti agli ordini del boss «Renatino» De Pedis: uno avrebbe guidato la macchina in cui c’era Emanuela, al Gianicolo, prima della consegna a un non meglio specificato prelato, mentre gli altri due «sgherri» avrebbero pedinato la ragazza nei giorni precedenti il rapimento. Oltre a monsignor Pietro Vergari, discusso rettore della basilica di Sant’Apollinare dove fu poi inspiegabilmente sepolto il boss, e Sabrina Minardi, l’ex amante di «Renatino»che ha confusamente ricordato di aver visto gettare due sacchi (con dentro, forse, il corpo di Emanuela), in una betoniera, la conta degli indagati chiama in causa l’ultimo arrivato (nel 2013), il più sorprendente, reo confesso: quel Marco Fassoni Accetti che si è autoaccusato di aver avuto un ruolo come organizzatore e telefonista nel sequestro Orlandi (e in quello collegato di un’altra quindicenne, Mirella Gregori), per conto di un gruppo di laici ed ecclesiastici favorevoli alla Ostpolitik del cardinale Casaroli, all’epoca impegnati in una guerra di potere contro il fermo anticomunismo di papa Wojtyla e la (mala) gestione dello Ior da parte dello spregiudicato Marcinkus. Erano i tempi – giova ricordarlo, per inquadrare il duplice fronte di tensioni all’ombra del Vaticano – delle indagini sull’attentato al Papa polacco avvenuto due anni prima (maggio 1981) per mano del turco Alì Agca e del crack dell’Ambrosiano dal quale era derivata la morte del banchiere Calvi sotto il ponte londinese dei Frati Neri, l’anno precedente (giugno 1982). Il duplice sequestro Orlandi-Gregori, secondo il supertestimone più recente, che ha detto di aver atteso le dimissioni di papa Ratzinger per farsi avanti, sarebbe dovuto durare pochi giorni con un primo obiettivo concreto: indurre Agca a ritrattare l’accusa ai bulgari di essere stati i mandanti dell’attentato, in cambio della falsa promessa di una sua scarcerazione in tempi brevi attraverso la grazia, ottenibile proprio in seguito al ricatto operato su Santa Sede e Stato italiano con il rapimento delle quindicenni. Sta di fatto che, sei giorni dopo la scomparsa di Emanuela, il 28 giugno 1983, effettivamente il Lupo grigio cambiò versione, «scagionando» la Bulgaria (e quindi la Russia) da uno degli eventi più drammatici del periodo della Guerra Fredda. Ma questo è solo uno dei tanti passaggi al vaglio dei magistrati, in questa inchiesta-monstre anch’essa degna della penna di Leonardo Sciascia. Per sciogliere l’enigma Orlandi, adesso, la Procura di Roma è chiamata a valutare uno ad uno centinaia di indizi, riscontri, prove; dovrà essere definito il ruolo avuto dagli indagati o, in caso di archiviazione, andrà motivata la loro uscita di scena dalla cerchia dei sospettati. Procedere per sottrazione, come nel caso Majorana, non è possibile. Anche perché, purtroppo, quella ragazzina dal viso simpatico e i lunghi capelli scuri nessuno l’ha mai più rivista.

Il nipote e la verità su Majorana: non si uccise, io credo a Sciascia. «Lui in Venezuela? Non escludiamo nulla, aveva capacità enormi». «Giocava a calcolare chi avrebbe vinto una guerra: un umorismo para-matematico», scrive Massimo Sideri su “Il Corriere della Sera”. «Non credo che il mio prozio Ettore Majorana si sia ucciso, nessuno di noi lo ha mai pensato. Ha voluto fare una scelta precisa - è questa l’opinione in famiglia - più in linea con le sue capacità intellettuali, i fatti che conosciamo e anche l’opinione delle persone che gli erano più vicine al tempo, cioè la zia Maria, sua sorella». Salvatore Majorana, 43 anni nato a Catania dove quel cognome ancora oggi rappresenta una dinastia (Salvatore Majorana Calatabiano, nonno di Ettore, era stato ministro dell’Agricoltura e dell’Industria ai tempi di Giolitti) è il pronipote del famoso fisico scomparso nel ‘38 e lavora all’Iit di Genova dove guida l’ufficio di Technology Transfer. Rassomiglia a Ettore in maniera impressionante.

Come avete reagito alla notizia che secondo la Procura di Roma Ettore Majorana fosse vivo tra il ‘55 e il ‘59 in Venezuela?

«Era noto che ci fosse un’indagine sulla scomparsa di Ettore ma non pensavo che fosse ancora aperta e che fosse in mano alla Procura. Comunque l’ipotesi della scomparsa di Ettore era già circolata da anni e anche la fotografia non è nuova. Ciò che è nuovo è il collegamento della fotografia all’amico meccanico, Francesco Fasani, tant’è che sarei curioso di vedere il fascicolo».

Veniamo agli elementi probatori. La fotografia: lei rassomiglia moltissimo al suo prozio. Ritrova i tratti della sua famiglia in questa foto scattata in Venezuela?

«Non mi ci ritrovo neanche un po’. Ettore era del 1906 dunque nella fotografia avrebbe 49 anni. Anche ipotizzando che possa avere avuto una vita difficile non trovo in quel volto un legame con la foto diffusa che se non ricordo male era quella del libretto universitario. La sensazione è che ci sia la voglia di attribuire una soluzione al confronto».

Però le conclusioni della Procura sono compatibili con la vostra convinzione, cioè che Ettore Majorana quel giorno non si sia ucciso.

«Non discuto il risultato finale ma siamo perplessi sul metodo».

Il cognome Bini, usato secondo Fasani dal suo prozio, vi dice qualcosa in famiglia?

«Su due piedi no».

Altro elemento usato dalla Procura è una cartolina del 1920 di Quirino, zio di Ettore, altro famoso fisico.

«Non trovo plausibile che avesse quella cartolina in automobile 35 anni dopo».

In famiglia avete cercato delle prove su cosa possa avere fatto dopo la scomparsa nel ‘38 Ettore Majorana?

«Tutti noi in famiglia siamo sempre stati persuasi delle sue grandissime capacità di collegare i suoi studi agli eventi bellici. Ricordiamoci che stiamo parlando degli anni poco prima della Seconda guerra mondiale. I cargo che portavano le persone in America erano diffusi. In quell’epoca se volevi sparire ci riuscivi anche senza essere un genio».

L’ipotesi di Sciascia era che potesse essersi ritirato in un convento della Calabria. Cosa ne pensa?

«Dopo il libro qualcuno andò anche a controllare. Dai registri non risultava nulla. Ma questo, evidentemente, non significa che non ci sia stato. Di certo Sciascia fece un lavoro di inchiesta».

Un testimone ha raccontato di averlo incontrato a Roma, nell’81, insieme al fondatore della Caritas romana, monsignor Luigi Di Liegro.

«Sono tutte ipotesi che hanno del verosimile. Mi sembra strano però che la famiglia non abbia avuto traccia di una sua permanenza in Italia».

Un aneddoto che vi tramandate in famiglia?

«Faceva giochi matematici per calcolare come sarebbe andata a finire una guerra sulla base di cannoni e navi: aveva un suo umorismo para-matematico».

Giallo Majorana: testimone, era clochard a Roma, scrive “L’Ansa”. Visto nel 1981 con il fondatore della Caritas romana. Poi in convento. Si infittisce il giallo su Ettore Majorana. Dopo la conferma da parte della Procura di Roma che il fisico catanese scomparso nel 1938 era vivo nel periodo 1955-1959 e si trovava nella città venezuelana di Valencia, oggi è il turno di un testimone oculare che, in un'intervista all'ANSA, assicura di aver incontrato lo scienziato all'inizio degli anni '80 a Roma. "Majorana era sicuramente vivo nel 1981 ed era a Roma. Io l'ho visto", riferisce il testimone spiegando di averlo incontrato nel centro della Capitale insieme a monsignor Luigi Di Liegro, fondatore della Caritas romana. Era un senzatetto, che poi è stato riportato nel convento dove era ospitato, afferma il testimone. "Sono stato tra i collaboratori più vicini di monsignor Di Liegro e con lui abbiamo incontrato Majorana probabilmente il 17 marzo 1981. E non è stata l'unica volta, l'ho incontrato in tre-quattro occasioni", prosegue l'uomo - un programmista regista originario della Calabria, ma trasferitosi a Roma da giovane - che chiede di mantenere l'anonimato. "Majorana stava in piazza della Pilotta, sugli scalini dell'Università Gregoriana, a due passi da Fontana di Trevi. Aveva un'età apparente di oltre 70 anni", racconta ancora il testimone. L'uomo, che all'epoca faceva parte di un gruppo che assisteva i senzatetto, rimase colpito dal fatto che uno dei clochard disse, inserendosi in una conversazione, che quel clochard aveva la soluzione del "Teorema di Fermat", l'enigma del '600 che per secoli è stato un rompicapo per i più grandi matematici e che all'epoca non era stato ancora risolto. La soluzione, infatti, risale solo al 2000. "A quel punto gli dissi di farsi trovare la sera seguente perche volevo farlo incontrare con Di Liegro". L'incontro avvenne e il sacerdote portò via il senzatetto con la sua auto. "Dopo un'ora e mezza tornò e mi disse: 'sai chi è quell'uomo? E' il fisico Ettore Majorana, quello scomparso. Ho telefonato al convento dove lui era ospite e mi hanno detto che si era allontanato. Ora ce l'ho riportato'". Il testimone racconta di aver saputo da don Di Liegro, che a sua volta lo aveva appreso dal responsabile del convento, "che Majorana aveva intuito che gli studi che stava facendo avrebbero portato alla bomba atomica e ha avuto una crisi di coscienza e voleva essere dimenticato. Sempre il responsabile del monastero gli disse che prima Majorana era ospite di un convento di Napoli e poi andò a finire in questo nei pressi di Roma. Erano certi che fosse lui anche per una cicatrice su una mano, la destra. Chiesi a don Luigi di riferirlo ai parenti di Majorana, ma lui disse che non potevamo. Io per tanti anni ho provato a tornare sull'argomento, ma don Di Liegro, che non lo riferì a nessuno, nemmeno ai suoi più stretti collaboratori, non voleva saperne e mi raccomandò di tacere. Mi disse di non dire niente a nessuno almeno per 15 anni dopo la sua morte, avvenuta il 12 ottobre 1997. Ormai il tempo è passato".

IL MISTERO DEL MOSTRO DI FIRENZE.

INSABBIAMENTI E MASSONERIA. I DELITTI DEL MOSTRO DI FIRENZE.

Mostro di Firenze, Ros trova un’ogiva a 33 anni dall’omicidio della coppia francese. Gli inquirenti della Procura di Firenze attendono adesso le perizie balistiche. Esperti al lavoro anche per evidenziare eventuali tracce organiche sull'ogiva tali da consentire un esame del Dna, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 3 dicembre 2018. I carabinieri del Ros hanno estratto un’ogiva rimasta dal 1985in un cuscino trovato nella tenda di Nadine Mauriot e Jean Michel Kraveichvili, la coppia di giovani francesi ultime vittime del mostro di Firenze. Un colpo a vuoto che non venne trovato nel corso delle indagini di 33 anni fa e che, come spiega La Nazione che ha anticipato la notizia, è stato estratto e consegnato al consulente della procura, nell’ambito della nuova inchiesta, per verificare se sia stato sparato dalla Beretta calibro 22 o da un’altra pistola. L’ogiva (che è la parte anteriore di un proiettile, ndr) è stata recuperata nel corso dei rilievi voluti dalla Procura di Firenze nell’inchiesta, coordinata dal pm Luca Turco, che vede indagati l’ex legionario Giampiero Vigilanti, 88 anni, insieme al medico Francesco Caccamo, 87enne. Gli inquirenti attendono adesso le perizie balistiche. Esperti al lavoro anche per evidenziare eventuali tracce organiche sull’ogiva tali da consentire un esame del Dna. Per gli ultimi quattro duplici delitti seriali avvenuti nel Fiorentino vennero condannati, come complici di Pietro Pacciani (nella foto), Mario Vanni e Giancarlo Lotti, i cosiddetti ‘compagni di merende’, entrambi deceduti. Pacciani, condannato in primo grado a più ergastoli per 7 degli 8 duplici omicidi e successivamente assolto in appello, è morto prima di essere sottoposto a un nuovo processo di appello, da celebrarsi a seguito dell’annullamento nel 1996 della sentenza di assoluzione da parte della Cassazione.

Vigilanti a La Vita in Diretta: «Non sono io il mostro di Firenze, mi hanno messo in croce», scrive Martedì 4 Dicembre 2018 Il Messaggero. «Se sono il mostro di Firenze? “No di certo. Come faccio ad essere il mostro di Firenze io?». Così l’ex legionario, Giampiero Vigilanti, indagato di recente dalla Procura di Firenze, ai microfoni de La Vita in Diretta, il programma di Rai1 condotto da Francesca Fialdini e Tiberio Timperi. «Sono indagato chissà perché…forse perché ero il più adatto, nel senso che io ho girato il mondo, sono stato nella legione straniera, ho fatto la guerra del Vietnam e hanno pensato che io potevo fare queste cose, poi avevo le pistole». Chi è allora il mostro di Firenze? «Chissà, se lo sapessi non lo direi di certo a nessuno. Mi hanno messo in croce sempre in questa maniera, che ho fatto di male io?».

Pietro Pacciani e il Mostro di Firenze: un giudice racconta tutta la verità, scrive Michele D. il 4 dicembre 2018 su Che Donna. Una storia che ha terrorizzato l’Italia intera dalla metà degli anni 70 fino a inizio anni 90. Stiamo parlando della storia di Pacciani e del Mostro di Firenze. Enrico Ognibene, presidente della Corte d’Assise che nel 1994 condannò a 7 ergastoli Pietro Pacciani, ha fatto al Quotidiano nazionale una rivelazione importante”: Il Mostro di Firenze non era solo”. Questa storia del Mostro di Firenze è tornata a galla a causa di un ritrovamento di un proiettile ritrovato dentro il cuscino della tenda della coppia di francesi uccisa agli Scopeti nel 1985. Questo duplice omicidio fu l’ultimo di una serie di tragedie avvenute sulle colline fiorentine e che ha terrorizzato tutti in quegli anni: “I REPERTI ERANO TANTI, PUÒ ESSERE SFUGGITO, NON È COLPA DI NESSUNO. RICORDO CHE C’ERA UNA STANZA ALL’AULA BUNKER PIENA DI REPERTI”. LA NUOVA PERIZIA POTREBBE CAMBIARE LA STORIA DELL’INCHIESTA, DOPO A 33 ANNI DI DISTANZA.

Ognibene poi spiga ancora: “PACCIANI FU PROSCIOLTO PER IL DELITTO DEL 1968, PERCHÉ SI TRATTAVA DI UN OMICIDIO SARDO. “LOTTI PARLÒ SOLO DI QUEGLI OMICIDI CHE POI SON STATI ATTRIBUITI AI COMPAGNI DI MERENDE. LA DINAMICA DEGLI SCOPETI DICE CHIARAMENTE CHE IL MOSTRO NON POTEVA ESSERE DA SOLO”. IL GIUDICE HA DUE CERTEZZE: “LA PISTOLA È UNA E SEMPRE LA STESSA. NON SI SCAPPA”, E SOPRATTUTTO PACCIANI È “COLPEVOLE FINO A PROVA CONTRARIA. ABBIAMO FATTO IN SERENA COSCIENZA TUTTO CIÒ CHE SI DOVEVA FARE”.

Insomma una storia che torna ancora a galla. Un mistero sul quale si sono fatte parecchie ipotesi. Dalla pista dei sardi, fino a quella delle sette sataniche guidate da un misterioso medico trovato morto in fondo al lago Trasimeno, ma il cui corpo non ha mai parlato chiaro. Una storia che fa ancora male alle tante famiglie che hanno perso dei figli nel pieno dei loro anni e che ancora non hanno avuto giustizia. Pacciani è morto prima di nuove indagini. Morto di infarto dicono, ma qualcuno invece sostiene che la morte del contadino sia stata pilotata da qualcuno. Lui e i suoi compagni di merende sanno la verità, ma non hanno mai parlato di tutto quello che era a loro conoscenza. Una storia triste italiana. Speriamo che la scienza e i continui progressi nelle indagini portino un pò di luce sulla Toscana ferita e straziata dal Mostro di Firenze.

Mostro di Firenze. Morti sospette ed errori. Cinquant'anni di misteri. Oggi gli inquirenti hanno affidato anche alle indagini scientifiche le speranze per arrivare a una verità definitiva sul mostro di Firenze, scrive Stefano Brogioni il 4 dicembre 2018 su La Nazione. Dimenticati, persi o spariti. L’inchiesta sui delitti del mostro di Firenze è anche una sequenza di lacune negli accertamenti, errori nella custodia, distrazioni, dimenticanze. Tra certezze e leggende, la storia dei sedici omicidi, e pure delle altre morti collaterali, è costellata di punti interrogativi. Anche clamorosi. L’ogiva recentemente rinvenuta nel cuscino degli Scopeti sarebbe bastato andarla a cercare prima, ad esempio. Più di un perito, infatti, aveva ipotizzato con ragionevole certezza la presenza di reperti balistici in ciò che stava dentro la tenda. Ma nessuno aveva mai effettuato questa verifica. Certo che, anche quando invece le verifiche sono state fatte, non sempre hanno sgomberato il cielo dalle nuvole. Anzi. Ricordate lo straccio di Salvatore Vinci? All’indomani del delitto di Vicchio, 1984, i carabinieri lo perquisirono e gli trovarono un cencio sporco di sangue e di residui di sparo. Il giudice istruttore Rotella lo spedì in Inghilterra, dove la ricerca in campo genetico era più avanti rispetto all’Italia. Ma l’accertamento non dette l’esito sperato e oggi, di quello straccio, restano soltanto le perizie, perché è andato perso. Smarrito. Eppure oggi, con i progressi scientifici raggiunti, forse avrebbe potuto dare qualche risposta positiva. O escludere definitivamente un protagonista che tutt’oggi stuzzica fantasie colpevoliste. Ma non c’è da stupirsi, visto che, a proposito di «pista sarda», proprio dalle colonne di questo giornale Mario Spezi scrisse che era andato incredibilmente smarrito pure l’anonimo (Uno scritto? Una lettera? Un ritaglio di giornale?) che, nell’estate del 1982, dopo l’omicidio di Baccaiano, aveva sollecitato il collegamento tra i delitti del mostro e quello del 1968, vittime Barbara Locci e Antonio Lo Bianco. Così oggi, per ricostruire come effettivamente venne messo in relazione al mostro un delitto maturato nell’ambienti dei sardi (era stato condannato il marito della Locci, Stefano Mele) bisogna togliere una bella coltre di «mito» per restare ancorati ai verbali del maresciallo Francesco Fiori, che si attribuì tutto il merito del ricordo di quell’omicidio degli amanti, a Castelletti, per mano di una calibro 22 mai ritrovata.

Ma di stranezze ce ne sono a bizzeffe, in questa storia infinita. Certe mancanze diventano quasi sospette, quando oggi, i progressi dei metodi investigativi e il dna avrebbero potuto eliminare le ombre o dare nuovi impulsi a un’indagine che non si chiuderà mai. Nella storia del mostro ci sono anche le cosiddette morti collaterali. Milva Malatesta venne bruciata in auto assieme al figlioletto Mirko di appena tre anni nell’agosto del 1993. Era la figlia di Renato, ufficialmente suicidatosi ma con ampi dubbi anche su quella dinamica, e di Maria Sperduto, l’amante di Pietro Pacciani, in quel momento inquisito per tutti e otto i duplici omicidi del mostro. Accanto alla Panda della Malatesta, era stata abbandonata una tanica, da cui probabilmente era stata rovesciata la benzina utilizzata per appiccare il fuoco. Magari su quella tanica c’erano tracce biologiche? Non lo sapremo mai, perché è stata trafugata durante una strana intromissione all’ufficio corpi di reato, a Prato, dove era custodita. Oggi, in compenso, la procura ha un proiettile in più da analizzare, sotto gli aspetti balistici e genetici. Ma non ha mai potuto contare su tutti i bossoli che, dai risultati balistici risultavano sparati dalla Beretta mai ritrovata. Forse perché le scene del crimine, erano un via vai di gente, non soltanto investigatori. «Mancavano i brigidini, e poi quella era la fiera dell’Impruneta», sentenziò il giudice Enrico Ognibene.

Mostro di Firenze, la verità di Giuttari: "Indagate sulla seconda pistola". Parla il poliziotto che incastrò i compagni di merende, scrive il 5 dicembre 2018 La Nazione. Articolo ESCLUSIVO / Mostro di Firenze, c'è una nuova pista. Spunta un proiettile dopo 33 anni. Abbiamo raggiunto in Germania Michele Giuttari, lo scrittore-poliziotto. Racconta in esclusiva a La Nazione le sue intuizioni investigative, quelle che 17 anni più tardi si confermeranno valide e importanti, ma che lui aveva messo nero su bianco in un’informativa per i magistrati che indagavano sui delitti del Mostro di Firenze. Oggi, per la prima volta, pubblichiamo alcuni stralci di questa corposa nota (260 pagine). «Ho sempre ritenuto, grazie all’esperienza maturata in lunghi anni di indagini, che l’ufficiale di pg debba assumere una posizione propositiva nel suo rapporto col pm. E, anche nelle indagini sui complici di Pietro Pacciani e poi sui possibili mandanti, ho adottato questa linea. Proprio in questa ottica più volte a partire dal 2000 ho ho chiesto anche ufficialmente che fossero disposti accertamenti di natura scientifica in particolare sui bossoli e proiettili repertati nei luoghi dei duplici omicidi».

LE RICHIESTE DEL 2001 - Non a caso al punto M della nota di Giuttari datata 3 dicembre 2001 e inviata a Canessa si legge: «Disporre una consulenza balistica su tutti i reperti attinenti ai duplici omicidi anche allo scopo di verificare l’ipotesi dell’eventuale utilizzo di una seconda pistola sempre di calibro 22 o di altro calibro». Diciassette anni fa Giuttari lo aveva già scritto. «In quasi tutti i sopralluoghi erano stati raccolti bossoli in numero inferiore ai colpi effettivamente esplosi e inoltre dalle varie perizie balistiche eseguite a suo tempo avevo rilevato che gli esami erano stati eseguiti solo su un campione: su due bossoli e un proiettile per ogni delitto. In qualche delitto (quello del 1982) su nessun proiettile perché si erano presentati gravemente danneggiati».

IL FAZZOLETTO DEL MISTERO - «Nel 2004 – continua Giuttari – poi ho chiesto allo stesso pm di voler disporre esami scientifici su un fazzolettino di sangue rinvenuto agli Scopeti dopo qualche giorno dal delitto. Questo rinvenimento mi era apparso particolarmente importante considerato che dalla dinamica esecutiva si era accertato che la vittima francese maschile dal fisico atletico aveva tentato la fuga e, raggiunto dall’assassino, aveva sicuramente resistito. Avevo quindi interrogato le persone che avevano scoperto il fazzolettino. E dalle loro dichiarazioni, insieme al sopralluogo, mi ero ancora di più convinto dell’utilità di quell’elemento».

IL GUANTO NUMERO 7 - Il fazzoletto era stato scoperto in un cespuglio insieme a un paio di guanti da chirurgo di misura piccola, la numero 7, con tutta probabilità riferibile a uno degli assassini. «Dopo mie insistenze – dice il poliziotto – il pm ha disposto l’esame del Dna, di cui non ho saputo l’esito perché il mio rapporto fiduciario col pm si era esaurito. Ho riflettuto molto su questo comportamento per me inspiegabile da parte di un pm con il quale c’era stato sempre un ottimo rapporto di collaborazione e di stima reciproca».

SANGUE DI GRUPPO B - «Ho anche pensato che quel fazzolettino, il cui esame del gruppo sanguigno rilevato all’epoca era di gruppo B, nell’ipotesi del serial killer solitario individuato all’epoca in Pietro Pacciani, avrebbe potuto scagionare l’imputato che aveva altro gruppo (Pacciani era del gruppo A, ndr). Nell’ipotesi però dei nuovi risultati processuali quel Dna poteva essere utile. E sinceramente lo spero avendo appreso dalla stampa che i carabinieri hanno lavorato anche su quel fazzolettino evidentemente ritenuto anche da loro un elemento comunque da chiarire».

IL KILLER DELLA PROSTITUTA GENTILE - «Peraltro quel gruppo B aveva richiamato alla mia memoria il delitto di una prostituta, Clelia Cuscito, (un delitto insoluto) uccisa a coltellate a Firenze il 13.12.1983, soprattutto perché mi risultava che da lei andava frequentemente Mario Vanni Torsolo, che al suo amico che l’accompagnava in auto, Lorenzo Nesi, l’aveva definita la “prostituta gentile”. Nel sopralluogo eseguito all’epoca era stato rinvenuto un ciuffo di capelli con il bulbo che analizzati erano risultati appartenere a persona con gruppo sanguigno B. Questi per chi indaga sono elementi interessanti che meritavano approfondimenti».

IL DISPIACERE DELL’INVESTIGATORE - «Certo è che questa vicenda dei mostri mi ha creato tanti problemi e ha danneggiato la mia carriera segnata da una storia che neanche un capo della polizia poteva vantare. Comunque, se tornassi indietro, mi comporterei sempre nello stesso modo: da fedele servitore dello Stato quale sono stato». «Ho sempre ritenuto, grazie all’esperienza maturata in lunghi anni di indagini, che l’ufficiale di polizia giudiziaria debba assumere una posizione propositiva nella sua relazione professionale con il pubblico ministero titolare delle indagini. E, anche nelle indagini sui complici di Pietro Pacciani e poi su quelle sui possibili mandanti, ho adottato questa linea nel mio rapporto con il pm titolare. Proprio in questa ottica operativa e in fondo anche in un certo senso strategica più volte a partire dal 2000 ho rappresentato non solo verbalmente nei frequenti contatti di lavoro ma anche ufficialmente con apposite note la necessità che fossero disposti accertamenti di natura scientifica in particolare sui bossoli e proiettili repertati nei singoli sopralluoghi dei duplici omicidi». Non a caso al punto M della nota di Giuttari datata 3 dicembre 2001 inviata a Canessa si legge: «disporre una consulenza balistica su tutti i reperti attinenti ai duplici omicidi anche allo scopo di verificare l’ipotesi dell’eventuale utilizzo di una seconda pistola sempre di calibro 22 o di altro calibro». Diciassette anni fa Giuttari lo aveva già scritto. «Questo sostanzialmente perché in quasi tutti i sopralluoghi erano stati raccolti bossoli in numero inferiore ai colpi effettivamente esplosi e inoltre dalle varie perizie balistiche eseguite a suo tempo avevo rilevato che gli esami erano stati eseguiti solo su un campione e non già su tutti: su due bossoli e un proiettile per ogni delitto. Per di più in qualche delitto (quello del 1982) su nessun proiettile perché si erano presentati gravemente danneggiati». Nel 2004 poi ho chiesto allo stesso pm di voler disporre esami scientifici su un fazzolettino di sangue rinvenuto agli Scopeti dopo qualche giorno dal delitto. Questo rinvenimento mi era apparso particolarmente importante per la sua riconducibilità al crimine considerato che dalla dinamica esecutiva si era accertato che la vittima francese maschile dal fisico atletico aveva tentato la fuga e, raggiunto dall’assassino, aveva sicuramente resistito. Avevo quindi interrogato le persone che avevano scoperto il fazzolettino. E dalle loro dichiarazioni, insieme al sopralluogo, mi ero ancora di più convinto dell’utilità di quell’elemento. Si era accertato il suo rinvenimento all’interno di un cespuglio insieme a un paio di guanti da chirurgo di misura piccola, la numero 7, con tutta probabilità riferibile a uno degli assassini che nella colluttazione col giovane francese fosse rimasto ferito. Dopo mie insistenze il pm ha disposto l’esame del Dna, di cui non ho saputo l’esito perché il mio rapporto si era esaurito dopo che il pm, replicando alle mie insistenze – eravamo nel mio ufficio dove era venuto a trovarmi -, mi aveva chiesto se per caso avessi avuto intenzione di indagare su di lui. Ho riflettuto molto su questo comportamento per me inspiegabile da parte di un pm con il quale c’era stato sempre un ottimo rapporto di collaborazione e di stima reciproca. Ed ho anche pensato che quel fazzolettino, il cui esame del gruppo sanguigno rilevato all’epoca era di gruppo B, nell’ipotesi del serial killer solitario individuato all’epoca in Pietro Pacciani, avrebbe potuto scagionare l’imputato che aveva altro gruppo. Nell’ipotesi però dei nuovi risultati processuali (team assassini) quel Dna poteva essere utile. E sinceramente lo spero avendo appreso dalla stampa che i carabinieri hanno lavorato anche su quel fazzolettino evidentemente ritenuto anche da loro un elemento comunque da chiarire. Peraltro quel gruppo B aveva richiamato alla mia memoria il delitto di una prostituta, Clelia Cuscito, (un delitto insoluto) uccisa a coltellate a Firenze il 13.12.1983, soprattutto perché mi risultava che da lei andava frequentemente Mario Vanni ‘Torsolo’, che al suo amico che l’accompagnava in auto, Lorenzo Nesi, l’aveva definita la “prostituta gentile”. Nel sopralluogo eseguito all’epoca era stato rinvenuto un ciuffo di capelli con il bulbo che analizzati erano risultati appartenere a persona con gruppo sanguigno B. Questi per chi indaga sono elementi interessanti chemeritavano approfondimenti. «Certo è che questa vicenda dei “Mostri” mi ha creato tanti problemi e ha danneggiato la mia carriera segnata da una storia che neanche un capo della polizia poteva vantare. Comunque posso affermare che, se tornassi indietro, mi comporterei sempre nello stesso modo: da fedele servitore dello Stato quale sono stato. L’unica cosa che non vorrei però subire sarebbe quella imputazione di abuso d’ufficio contestatemi dal pm Luca Turco per alcune intercettazione autorizzate dal gip.

La storia dei delitti del “mostro di Firenze”. La notte del 21 agosto di cinquant'anni fa fu usata per la prima volta l'arma con la quale nei successivi 17 anni vennero commessi altri sette duplici omicidi, scrive Il Post mercoledì 22 agosto 2018. La notte del 21 agosto di cinquant’anni fa, a Signa, in provincia di Firenze, fu usata per la prima volta l’arma con la quale nei successivi diciassette anni, e sempre in quelle zone, furono commessi altri sette duplici omicidi. Anche se il primo di quei delitti, quello del 1968, venne considerato legato agli altri solo quindici anni dopo, tutti a un certo punto vennero attribuiti a quello che i giornali chiamarono prima il “maniaco delle coppiette” e poi il “mostro di Firenze”. Quello del cosiddetto “mostro di Firenze” fu il primo caso di omicidi seriali in Italia riconosciuto come tale. La sua storia è intricata e confusa: inizia alla fine degli anni Sessanta, ma non è ancora stata del tutto chiarita. Un uomo di nome Pietro Pacciani, il più noto tra le persone coinvolte, venne condannato in primo grado e poi assolto in appello: morì prima del nuovo processo chiesto dalla Cassazione. Due suoi amici – i cosiddetti “compagni di merende”, Mario Vanni e Giancarlo Lotti – vennero condannati per quattro degli otto duplici omicidi commessi. Nel tempo si è ipotizzato anche che potessero esserci stati dei mandanti, si parlò di moventi di natura esoterica, vi furono depistaggi, persone coinvolte che poi uscirono di scena e tantissime ipotesi. Tuttora è aperta un’inchiesta.

Le modalità. Tutti gli otto omicidi attribuiti al “mostro di Firenze” hanno coinvolto giovani coppie che si trovavano in luoghi appartati nella campagna fiorentina. Tutte le coppie, a parte quella dell’ultimo delitto, si trovavano in auto. Come è stato scoperto, ma solo a un certo punto, per tutti i delitti è stata usata la stessa arma, caricata con munizioni Winchester marcate con la lettera “H” sul fondello del bossolo. Spesso le vittime hanno subìto anche ferite d’arma bianca, e in diversi casi l’assassino ha asportato il pube delle donne uccise. In due casi le donne sono state mutilate del seno sinistro. I luoghi dei delitti hanno fatto pensare che l’assassino conoscesse bene il territorio e che, in alcuni casi, pedinasse le persone che poi decideva di uccidere.

Il primo duplice omicidio, 1968. Il 21 agosto del 1968, intorno a mezzanotte, furono uccisi Antonio Lo Bianco e Barbara Locci. Si trovavano dentro un’auto parcheggiata in una strada appartata vicino al cimitero di Signa, in provincia di Firenze. Lui era un muratore, aveva 29 anni ed era sposato. Lei faceva la casalinga, aveva 32 anni ed era a sua volta sposata. I due erano amanti e al momento dell’aggressione, in macchina con loro, c’era anche Natalino Mele, il figlio di 6 anni che la donna aveva avuto con il marito, Stefano Mele, un manovale sardo che viveva in Toscana da diversi anni. I due amanti morirono a causa di otto colpi di pistola sparati da vicino: quattro colpirono lei e quattro lui. I bossoli di cartucce ritrovati erano Winchester marcati con la lettera “H” sul fondello. L’arma non fu trovata, e non lo sarà mai. La prima persona che venne sospettata dell’omicidio fu il marito di lei, Stefano Mele. Nella storia c’erano comunque molte incongruenze: Mele risultò totalmente incapace di maneggiare un’arma, confuse il finestrino verso il quale partirono i colpi, ma dimostrò di conoscere tre particolari che poteva sapere solo qualcuno che avesse assistito alla scena. Cambiò versione dei fatti molte volte: prima negò tutto, poi accusò e coinvolse nell’indagine altri amanti della moglie sardi come lui (Salvatore e Francesco Vinci, per cui nelle indagini si parlò di “pista sarda”) e poi li scagionò, alla fine confessò e disse di essere stato lui. Anche il bambino, che prima disse di non aver sentito niente, alla fine ammise di aver visto il padre quella notte. Nel 1970 Stefano Mele fu condannato dal tribunale di Perugia a 14 anni di carcere. La storia sembrava essere finita qui, invece quindici anni più tardi questo delitto venne collegato ai successivi, e con questo delitto hanno a che fare le indagini attualmente in corso. Ci torniamo.

1974, 1981 e 1982. Il 14 settembre del 1974 a Sagginale, una frazione della comunità montana del Mugello, vennero uccisi Pasquale Gentilcore, 19 anni, e Stefania Pettini, 18 anni. Si frequentavano da circa due anni e al momento dell’aggressione si trovavano in auto, in una strada sterrata. Lui fu colpito cinque volte, lei tre: venne portata fuori dall’auto ancora viva e accoltellata decine di volte. Nella vagina le venne infilato un tralcio di vite e le furono asportati il seno sinistro e il pube. Anche il corpo di lui venne colpito con un coltello. Dalle indagini emerse che la donna aveva confidato ad un’amica di avere avuto un incontro insolito con una persona il giorno prima, e il suo insegnante di guida disse che durante una lezione erano stati pedinati. Nel 1981 i duplici omicidi furono due: il primo avvenne a Scandicci nella notte tra il 6 e il 7 giugno. Giovanni Foggi, 30 anni, e la sua fidanzata Carmela De Nuccio, 21 anni, si erano appartati con la loro auto. Lei venne ritrovata mutilata al pube come Stefania Pettini. Dopo il delitto di giugno venne sospettato e arrestato un uomo, scagionato però perché mentre si trovava in carcere venne commesso un nuovo omicidio. In ottobre, a Calenzano, vennero infatti uccisi Stefano Baldi, 26 anni, e Susanna Cambi, 24 anni. La modalità fu la stessa degli altri casi. I due fidanzati si trovavano in auto lungo una strada sterrata, l’omicida sparò diversi colpi e poi ferì e mutilò con un coltello il corpo di lei. La donna aveva detto alla madre di essere pedinata. Al giugno del 1982 risalgono gli omicidi di Paolo Mainardi e Antonella Migliorini. I due si trovavano in auto a Baccaiano, frazione di Montespertoli, fermi in uno slargo di una strada provinciale. Questa volta le cose andarono diversamente. I primi colpi sparati non uccisero Paolo Mainardi e l’uomo, probabilmente seduto al posto di guida, rimase inizialmente solo ferito: secondo la versione più condivisa riuscì ad accendere l’auto e ad attraversare trasversalmente la strada. Poi l’assassino sparò ancora, colpendo di nuovo i due ragazzi. Il luogo non era molto isolato e l’assassino non ebbe il tempo di mutilare il corpo della donna perché, probabilmente, sarebbe stato troppo rischioso. L’auto in mezzo alla strada e i corpi di Paolo Mainardi e di Antonella Migliorini vennero infatti trovati dopo poco. Lei era morta, lui respirava ancora ma morì il giorno dopo in ospedale senza aver ripreso coscienza. Questo delitto segnò anche una svolta nelle indagini: gli inquirenti collegarono infatti i delitti del 1974, 1981 e 1982 a quello avvenuto 14 anni prima a Signa, per cui un uomo, Stefano Mele, era già stato condannato: l’arma usata nel 1968 era la stessa utilizzata negli omicidi successivi. Quando venne fatto il collegamento, gli investigatori si ricordarono di Mele, lo interrogarono e lui tornò ad accusare Francesco Vinci. Nell’agosto del 1982 Vinci venne arrestato per maltrattamenti e due mesi dopo venne anche accusato di essere il “mostro di Firenze”. Poi avvenne un nuovo omicidio e Vinci venne scarcerato (fu trovato assassinato nel 1993 insieme a un amico in una pineta).

1983, 1984,1985. Il 9 settembre del 1983 a Giogoli, nel comune di Scandicci, furono uccisi due turisti tedeschi. Erano entrambi maschi, uno dei due aveva i capelli lunghi e venne probabilmente confuso con una donna. I corpi non vennero mutilati. A quel punto, e sempre sulla base di nuove dichiarazioni di Stefano Mele, vennero indagati suo fratello e il cognato. Mentre erano in carcere venne commesso un nuovo duplice omicidio, il penultimo. Claudio Stefanacci e Pia Gilda Rontini vennero uccisi nel luglio del 1984 mentre si trovavano nella loro Fiat Panda parcheggiata in una strada sterrata vicino a Vicchio. Si trovavano sul sedile posteriore e il corpo di lei fu accoltellato e mutilato del pube e del seno sinistro. La data dell’ultimo duplice delitto, l’ottavo, non è chiara. Era settembre ed era il 1985, ma i corpi di Jean-Michel Kraveichvili e Nadine Mauriot (anche lei accoltellata e mutilata) vennero trovati giorni dopo l’aggressione. Si trovavano dentro la loro tenda agli Scopeti, nel comune di San Casciano Val di Pesa. Qualche giorno dopo la scoperta dei corpi, alla procura di Firenze venne spedito in una busta anonima indirizzato a Silvia Della Monica, la pm incaricata delle indagini, un brandello del seno della donna.

Le indagini e Pietro Pacciani. Le indagini delle procure di Firenze e Perugia, fino ad allora, non avevano portato a niente di concreto: diverse persone erano state indagate, ma poi erano state tutte scarcerate. Nel 1991 le forze dell’ordine che indagavano esclusivamente su quegli omicidi seriali, e che erano riunite nella SAM (Squadra Anti-Mostro), si concentrarono su Pietro Pacciani. A quel tempo Pacciani si trovava in prigione per aver stuprato le sue due figlie, e aveva già scontato una condanna di tredici anni, quando ne aveva 26, per aver ucciso l’amante della fidanzata: li sorprese in atteggiamenti intimi, accoltellò l’uomo e poi costrinse la donna ad avere un rapporto sessuale accanto al cadavere. Dopo quell’arresto, Pacciani dichiarò di avere avuto un raptus, come si dice, poiché aveva visto la fidanzata che davanti all’amante si denudava il seno sinistro. Già nel 1985 una lettera anonima diceva agli inquirenti di indagare su Pacciani, e ne descriveva la personalità brutale e irascibile (era soprannominato “il vampa”). Inoltre il nome di Pacciani era già stato schedato dalla SAM tra le molte persone che avevano le caratteristiche dell’assassino seriale. Gli indizi che accusavano Pacciani erano diversi e venne arrestato nel gennaio del 1993 con l’accusa di essere l’omicida delle otto coppie. Nel 1994, il tribunale di Firenze lo condannò all’ergastolo per sette degli otto duplici omicidi di cui era accusato; Pacciani venne invece assolto per il duplice omicidio del 1968. Pacciani venne assolto anche in appello, ma la Cassazione nel 1996 annullò la seconda sentenza e ordinò un nuovo processo. Pacciani morì il 22 febbraio 1998, prima che il nuovo processo potesse cominciare, in circostanze non molto chiare (fu trovato morto in casa mezzo nudo, con tracce nel sangue di un farmaco anti-asmatico). In primo grado Pacciani venne condannato sulla base di vari elementi, perlopiù di valore indiziario. Un elemento invece trascurato in questi primi processi – e preso in considerazione solo più tardi – furono i grossi movimenti di denaro sul suo conto in banca, giudicati incompatibili con il mestiere dell’agricoltore. Nelle inchieste successive, invece, si ipotizzò che Pacciani e le persone che successivamente vennero condannate (ci arriviamo) ricevessero denaro per eseguire gli omicidi su commissione.

I “compagni di merende”. Dalla metà degli anni Novanta le indagini coinvolsero anche alcuni amici di Pacciani, i cosiddetti “compagni di merende”: Mario Vanni, Giancarlo Lotti, Fernando Pucci e Giovanni Faggi. Faggi venne assolto in tutti e tre i gradi di giudizio da ogni accusa riguardante gli omicidi e Pucci testimoniò contro i primi due amici dicendo di essere stato un testimone oculare di due degli otto omicidi. Vanni e Lotti vennero alla fine condannati in via definitiva per quattro degli otto duplici omicidi. Vi avrebbero partecipato con Pacciani e in alcuni casi sarebbero stati loro gli esecutori materiali. A un certo punto le indagini portarono gli inquirenti a ipotizzare l’esistenza di un secondo livello, che avrebbe agito come mandante dei delitti del “mostro” in base a un possibile movente magico-esoterico: c’erano state alcune testimonianze che andavano in questo senso e c’erano le grosse somme di denaro, non giustificabili, a disposizione di Pacciani dopo i delitti. L’ipotesi era che del gruppo dei mandanti facesse parte anche un famoso gastroenterologo, Francesco Narducci, trovato morto in barca poco dopo l’ultimo dei duplici omicidi del “mostro di Firenze”. Con lui si ipotizzò che c’entrassero anche molte altre persone, i familiari di Narducci e pure un giornalista che finì in carcere per quasi un mese. Questo filone delle indagini, alla fine, non portò a nulla. Da circa un anno c’è però un nuovo filone di indagine che coinvolge Giampiero Vigilanti, un uomo di 87 anni, e il suo medico. Vigilanti, ex legionario, è residente a Prato ed è nato a Vicchio, il paese in cui era cresciuto Pietro Pacciani. Conosceva Pacciani, conosceva i “compagni di merende”, era già stato coinvolto nelle indagini a metà degli Ottanta, possedeva molte pistole, compreso il modello usato per i duplici omicidi o uno simile. A casa sua sono stati trovati diversi articoli di giornale sui delitti dal 1968 in poi, dei proiettili dello stesso lotto usato dal mostro e si sa che possedeva una pistola che avrebbe potuto essere compatibile con quella usata per gli omicidi. Attualmente si è in attesa dei risultati di una perizia su molti reperti accumulati fino ad ora nell’inchiesta. A oggi ufficialmente, se non ci saranno nuovi sviluppi, la vicenda del “mostro di Firenze” è finita con la condanna ai “compagni di merende”.

Izzo, il killer Zodiac e l’uomo nero. Tutti i mostri del Mostro di Firenze. L’assassino del Circeo evoca Narducci, un ex militare americano rivela ad un giornalista: sono io, scrive Antonella Mollica il 30 maggio 2018 su "Il Corriere della Sera". Due mostri che rivendicano di essere il Mostro più inafferrabile della storia, quello a cui si dà la caccia da quarant’anni. C’è il mostro del Circeo che tira fuori dal cilindro la storia di una ragazza di 17 anni rapita sulle montagne venete nel lontano 1975 e poi uccisa durante un rito satanico alla presenza del medico rievocato più volte nelle vicende del Mostro di Firenze. E c’è un vecchio militare americano che confessa a un giornalista italiano la sua doppia identità e la sua lunga carriera da serial killer perennemente braccato: fino al 1974 negli Stati Uniti, dal ‘74 in poi come assassino che insanguinò le colline di Firenze uccidendo sette coppie di fidanzati con la Beretta calibro 22 mai ritrovata. Passano gli anni, passano i decenni, scompaiono uno ad uno protagonisti, comprimari, comparse e figuranti. Persino i resti di Pietro Pacciani non ci sono più, ingoiati da una fossa comune. Eppure con cadenza regolare, come un fiume carsico che affiora e poi scompare sotto terra, il Mostro per eccellenza, carico dei suoi mille misteri, ritorna sempre. Nei mesi scorsi Angelo Izzo, uno degli autori del massacro del Circeo — due ragazze seviziate per due giorni nel settembre 1975, una morì, l’altra riuscì a sopravvivere fingendosi morta nel bagagliaio dell’auto — dal buio dei suoi due ergastoli, ha iniziato a fare rivelazioni. Ha raccontato della scomparsa di Rossella Corazzin, 17 anni, di Pordenone, uscita di casa un pomeriggio d’estate del 1975 a Tai di Cadore per fare una passeggiata con una macchina fotografica e un libro e mai più ritrovata. «L’abbiamo rapita noi perché vergine, poi l’abbiamo portata in Umbria e l’abbiamo uccisa dopo un rito satanico», ha detto Izzo ai magistrati. Quel «noi» comprende Francesco Narducci, il medico di Perugia coinvolto nell’inchiesta sul Mostro, morto nel 1985 nel lago Trasimeno in circostanze mai chiarite. Narducci, racconta Izzo, all’epoca aveva una casa a Cortina (ma la famiglia Narducci smentisce di aver mai avuto una casa lì), Rossella sarebbe stata tenuta prigioniera, violentata e uccisa proprio nella villa sul Trasimeno di Narducci. Durante il rito satanico la ragazza, vestita di bianco, sarebbe stata legata a un tavolo, seviziata e violentata da dieci persone incappucciate. I pm di Perugia hanno ritenuto le dichiarazioni di Izzo non credibili ma la procura di Belluno che ha aperto un’inchiesta pochi giorni fa ha trasmesso altre carte ai colleghi umbri. L’ultimo capitolo che si aggiunge alla storia infinita arriva da oltreoceano. La notizia l’ha pubblicata ieri il Giornale: un ex ufficiale dell’esercito americano ha confessato al giornalista Francesco Amicone — che ha svolto un’inchiesta sul Mostro sulla rivista Tempi — di essere il Mostro di Firenze e di essere Zodiac, uno dei serial killer più ricercati d’America che iniziò a colpire nella California settentrionale alla fine del 1969. L’assassino si firmava con una croce celtica rubata dal logo dell’orologio Zodiac Sea Wolf e scriveva lettere ai giornali locali, allegando le prove dei suoi delitti e minacciando di uccidere ancora se non avessero dato spazio in prima pagina ai suoi indovinelli e ai suoi testi cifrati. Zodiac ha rivendicato 37 morti, 6 quelli accertati. Non lasciò mai tracce — se non un’impronta di scarpe numero 44.5 — e non venne mai identificato. I testimoni raccontano di un omone grande, robusto, alto 1.80, con un grosso stomaco e capelli scuri con la riga. L’ultima lettera di Zodiac è del 24 gennaio 1974. Da quel momento il killer americano sparisce nel nulla. Il 14 settembre a Borgo San Lorenzo avviene il primo delitto della serie del Mostro di Firenze. Vengono massacrati Stefania Pettini, 18 anni, segretaria d’azienda, e il fidanzato Pasquale Gentilcore, 19 anni, impiegato alla Fondiaria. Prima i colpi di pistola, poi 96 coltellate sulla ragazza, prima di infilarle un tralcio di vite nella vagina. È l’inizio di una sequenza che si interromperà solo nel 1985, anno della morte di Narducci. L’ex militare americano, veterano della guerra in Vietnam, vent’anni trascorsi nell’Esercito Usa, in quell’anno si sarebbe trasferito in Italia. In base a quanto raccontato dal militare al giornalista italiano potrebbe essere lui «il nero Ulisse» di cui parla l’ex postino di San Casciano Mario Vanni, uno dei compagni di merende di Pacciani condannato per concorso (con Pacciani che è morto da innocente) negli ultimi quattro delitti del Mostro. Nel luglio 2003, mentre Vanni è detenuto nel carcere di Pisa, l’amico Lorenzo Nesi va a fargli visita in cella e gli chiede chi è il Mostro: «È stato Ulisse che ha ammazzato tutta questa gente, è nero, è un americano». Dice che è un uomo grande e grosso, un omone che sta in America. «Non lo conoscevo. Ho saputo la storia dopo, che era stato lui ad ammazzare tutte e sedici le persone. Ha lasciato una lettera, ha lasciato la pistola, la prese il procuratore. Il procuratore che conta». Adesso le rivelazioni dell’ex militare americano, raccolte dal giornalista, sono finite sul tavolo del procuratore aggiunto Luca Turco che coordina l’ultimo atto dell’inchiesta sul Mostro, quella che vede indagati l’ex legionario Giampiero Vigilanti, 88 anni, e il suo ex medico che oggi ha 87 anni. L’inchiesta va avanti e probabilmente verrà richiesta un’altra proroga delle indagini. Con perizie balistiche mai eseguite, rilettura di vecchie carte e incroci di dati, date e dna.

Delitto del Circeo: Izzo sostiene un legame col Mostro di Firenze. Rossella Corazzin sarebbe stata violentata e uccisa nella villa sul Trasimeno di Francesco Narducci, indagato per i delitti seriali, scrive il 29 maggio 2018 "La Repubblica". Il caso mai risolto degli omicidi seriali fiorentini, torna improvvisamente sotto i riflettori. Da una parte per un presunto incrocio con il mostro del Circeo, dall'altra per nuove rivelazioni e il presunto collegamento con altri delitti seriali avvenuti negli Stato Uniti. Il giallo sulla scomparsa di Rossella Corazzin, la ragazza di 17 anni, di Pordenone sparita nel 1975 a Tai di Cadore (Belluno) potrebbe intrecciarsi con quello del mostro di Firenze. A unire le due vicende sarebbe la figura di Francesco Narducci, il medico morto nel 1985, legato ai misteri del mostro di Firenze. A chiamarlo in causa è ancora Angelo Izzo, secondo cui Rossella sarebbe stata tenuta prigioniera, violentata e uccisa nel settembre 1975 proprio nella villa sul Trasimeno di Narducci, che avrebbe partecipato al massacro. Izzo, il «mostro del Circeo», sta scontando due ergastoli ed è rinchiuso nel carcere di Velletri. La procura di Perugia aveva archiviato l'inchiesta. I pm avevano ritenuto le dichiarazioni di Izzo "non credibili". Gli accertamenti effettuati non avrebbero fatto emergere alcun elemento utile per proseguire nell'indagine. Però la procura di Belluno, che aveva aperto una sua inchiesta sulla scomparsa della ragazza, lo scorso 24 maggio aveva trasmesso nuove carte ai colleghi umbri. Sulla base delle dichiarazioni rese in due occasioni nel 2016 da Izzo all'allora procuratore di Belluno Francesco Saverio Pavone, Gianni Guido e Francesco Narducci, con Andrea Ghira e altri due giovani, si sarebbero avvicinati a Rossella a bordo di una Land Rover mentre stava passeggiando a Tai di Cadore. Sia Guido che Narducci all'epoca avevano una casa poco distante, a Cortina. Nella casa sul lago Trasimeno - è sempre il racconto di Izzo - venne inscenato un vero e proprio rito satanico: la ragazza - completamente vestita di bianco - sarebbe stata legata a un tavolo, seviziata e violentata da dieci persone incappucciate, tra le quali lo stesso Izzo. Quest'ultimo ha detto però di non aver preso parte all'assassinio. "Non ho visto l'omicidio - ha raccontato - ma sapevo che doveva essere soppressa". Izzo sostiene che uno degli incappucciati era proprio Francesco Narducci, trovato cadavere nell'ottobre del 1985 sul Trasimeno. Nella lunga e controversa indagine sulla sua morte non sono mai emersi riferimenti o collegamenti con Angelo Izzo o agli altri soggetti coinvolti nel massacro del Circeo. Lo ha appreso l'Ansa da fonti vicine all'inchiesta, archiviata per sempre nel marzo del 2016 dalla Cassazione che ha confermato il non luogo a procedere (per prescrizione) per alcuni familiari e funzionari pubblici che vennero indagati per presunti depistaggi. I giudici hanno escluso il coinvolgimento di Narducci nelle vicende del mostro di Firenze. Sulla stessa linea la famiglia che smentisce di aver mai avuto una casa a Cortina e il loro avvocato, Falcinelli sottolinea che "l'ipotesi di un coinvolgimento di Narducci è stata già vagliata e archiviata per manifesta infondatezza della notizia di reato". "Ricordo infine - ha detto ancora l'avvocato Falcinelli - che Francesco Narducci ha percorso una brillantissima carriera universitaria ed è stato autore di apprezzate pubblicazioni scientifiche che gli hanno consentito in età giovanile il conseguimento del ruolo di professore alla facoltà di medicina dell'Università degli studi di Perugia". E sempre oggi la storia del mostro ha visto aggiungersi un altro capitolo. Capitolo che questa volta porta addirittura negli Stati Uniti. Secondo quanto pubblicato dal quotidiano Il Giornale, un ex ufficiale dell'esercito Usa che ha vissuto in Toscana sarebbe il responsabile degli omicidi di almeno sette coppie di ragazzi uccise nelle campagne attorno a Firenze fra il 1974 e il 1985. Si tratterebbe dello stesso uomo, noto negli Stati Uniti con il nome di "Zodiac": uno dei serial killer più ricercati d'America. Tutti i documenti di questa ricostruzione, emersa da un lavoro d'inchiesta giornalistica, sono stati consegnati alcune settimane fa in procura a Firenze. Gl investigatori, che in questi anni hanno accolto e vagliato tutte le piste, parlano di un "collegamento complesso".

[L'inchiesta] "Il medico coinvolto nei delitti del mostro di Firenze partecipò ai riti sessuali sulla Corazzin". Il mostro del Circeo, Angelo Izzo, ha fornito un dettaglio che può riaprire le indagini sulla scomparsa della 17enne friulana. Ora chiama in causa Francesco Narducci e la sua casa sul Trasimeno. Proprio il lago dal quale fu ripescato il corpo senza vita del medico che fu coinvolto nell'inchiesta sui serial killer in Toscana, scrive Cristiano Sanna il 29 maggio 2018 su Tiscali. Gli occhi sgranati, l'eloquio torrenziale, la naturalezza nel parlare di episodi tra i più raccapriccianti della cronaca nera italiana. Angelo Izzo, il mostro del Circeo, rischia di far riaprire l'inchiesta sulla misteriosa scomparsa di Rossella Corazzin. Di cui da 43 anni non si sa nulla. E che secondo Izzo fu rapita, violentata in una sorta di rituale e infine uccisa dai suoi complici del massacro del Circeo: Andrea Ghira e Gianni Guido. Con loro al momento del rapimento ci sarebbero stati altri due ragazzi, non meglio identificati, e un terzo. Cioè il medico Francesco Narducci, già legato alle indagini sul mostro di Firenze e ripescato senza vita dal Lago Trasimeno nel 1985, poco dopo l'ultimo dei delitti di quella serie. Il ruolo di Narducci non fu mai chiarito del tutto: si disse che lui era tra i mandanti degli omicidi, con accanimento sui corpi, eseguiti poi da Pacciani, Lotti e Vanni, unici condannati per le otto uccisioni di coppie che seminarono il terrore nelle campagne fiorentine fra il 1968 e il 1985. Si disse ancora che facesse parte di quel "secondo livello" di personaggi dell'alta società, coinvolti in una sorta di setta satanica, che ordinavano gli omicidi, e che custodisse i feticci umani ricavati da ogni delitto. Cosa c'entrano la vicenda della scomparsa della 17enne friulana Corazzin con le indagini sul mostro di Firenze? Secondo Izzo, Francesco Narducci, figlio di una delle più altolocate famiglie perugine, avrebbe reso disponibile la sua villa sul lago Trasimeno per gli abusi compiuti da Ghira, Guido e altre sette persone. Ancora violenza sessuale e poi la morte, come accadde quello stesso anno, il 1975, nei due giorni in cui la banda del Circeo si accanì su Donatella Colasanti e Rosaria Lopez. La prima fu trovata in fin di vita, la seconda morì. I responsabili delle efferatezze furono condannati all'ergastolo, Ghira mentre era latitante sotto falsa identità all'estero. Ne furono poi trovati i resti, e anche su questo dettaglio restano dubbi. Se torna il particolare rivelato da Izzo già nel 2016 al procuratore di Belluno, Francesco Saverio Pavone, cioè che Rossella Corazzin fu rapita su una Land Rover (dettaglio riscontrato nella più recente testimonianza di una donna), sul collegamento fra banda del Circeo e delitti del mostro di Firenze, ovvero la figura di Narducci, le riserve sono massime. Già in precedenza la Procura di Perugia aveva chiesto l'archiviazione dell'indagine tra i cui elementi erano incluse le dichiarazioni di Angelo Izzo su Francesco Narducci. La stessa Procura aspetta che arrivino da quella di Belluno le carte che possono riaprire l'inchiesta sulla scomparsa di Rossella Corazzin. Pier Luca Narducci, fratello di Francesco (di cui l'autopsia mise in evidenza che prima di essere ripescato senza vita dal Trasimeno poteva verosimilmente essere stato strangolato) attraverso il suo legale ha sottolineato che "decisioni definitive di diverse autorità giudiziarie (Firenze e Perugia) hanno escluso qualsiasi coinvolgimento di Francesco Narducci nei tristi fatti del 'mostro di Firenze' ed è convinto che "verrà parimenti accertata la sua assoluta estraneità alla scomparsa e al presunto omicidio di Rossella Corazzin". La villa di proprietà dei Narducci in cui, secondo il mostro del Circeo, il gruppo di giovani simpatizzanti della destra e tutti provenienti da benestanti famiglie della Roma bene sequestrò e uccise "come in un rituale" Rossella Corazzin è stata venduta all'inizio degli anni Novanta. Secondo Pavone, Procuratore di Belluno, gli unici riscontri attendibili sulle parole di Izzo potrebbero venire da esami accurati di ex arredi della villa, in particolare il tavolo secondo cui, a detta di Izzo, si sarebbero consumati abusi sessuali e infine l'omicidio della Corazzin. Ma non si sa se esistano ancora, e dove si trovino attualmente. Stando ancora alle dichiarazioni di Izzo, alla fine del rituale sessuale e omicida i partecipanti si sarebbero praticati tagli sulle mani, unendole poi in una sorta di settaria fratellanza di sangue. Izzo ha detto di essere stato presente in quei momenti, di aver partecipato alla violenza carnale sulla Corazzin, ma non all'omicidio. Le indagini sulla morte di Narducci furono archiviate, ma il Gip confermò l'esito degli esami sul corpo del medico, stabilendo che era stato ucciso. Già nel 1985 si parlò di una telefonata in cui si alludeva alla morte di Narducci, e a quella dello stesso Pacciani, puniti come traditori di una sorta di setta occulta dedita ai rituali sessuali. Michele Giuttari, che svolse le indagini sul caso dei delitti di Firenze fino alla cattura di Pacciani, Vanni e Lotti, disse in seguito che il "secondo livello", quello dei mandanti, non fu mai individuato perché una serie di pressioni portarono alla conclusione delle indagini dopo la cattura dei "compagni di merende". Le parole di Angelo Izzo, il mostro del Circeo condannato all'ergastolo per i fatti del 1975, rimescolano episodi raccapriccianti ma per ora rimettono in moto accertamenti sul caso della Corazzin. Sui delitti del mostro di Firenze è gia in corso una nuova inchiesta che vede al centro l'ex legionario Giampiero Vigilanti. Uno che ha sempre sostenuto che Pacciani, Lotti e Vanni non c'entrassero niente con quei fatti di sangue.

Il mostro di Firenze e il serial killer Zodiac sono la stessa persona? Scrive Chiara Poli su "Mondofox.it" il 30 maggio 2018/05/30. Zodiac e il mostro di Firenze: due Paesi lontani, due serial killer mai davvero identificati, nonostante le condanne italiane. E adesso un giornalista ci svela una clamorosa confessione...Uno è fra i serial killer mai identificati più ricercati della storia moderna. L'altro è il nostro incubo nazionale, mai finito, nemmeno dopo la condanna di Pietro Pacciani. Il serial killer Zodiac, che terrorizzò la California alla fine degli anni '60, uccideva con armi da fuoco e coltelli, e colpiva principalmente coppie appartate. Proprio come il serial killer italiano più feroce e misterioso di sempre. Fu lo stesso Zodiac, celebre per le lettere anonime che inviava ai giornali, a darsi il soprannome. E, sebbene sia stato ufficialmente identificato come l'autore di 5 omicidi (su 7 aggressioni: due delle vittime fortunatamente sopravvissero, ma non ebbero modo di portare alla sua cattura), secondo alcuni investigatori della polizia avrebbe ucciso almeno 40 persone. Mai catturato, continuò a inviare i suoi messaggi ai media fino al 1974. E oggi, un ex militare americano di stanza in Italia avrebbe confessato di essere Zodiac. E anche il mostro di Firenze.

Il mostro, i compagni di merende e Ulisse. Il mostro di Firenze: così è stato ribattezzato dalla stampa l'autore degli otto duplici omicidi - avvenuti tra il 1968 e il 1985 - nelle campagne fiorentine. Una scia di sangue che sconvolse l’opinione pubblica e mobilitò una quantità di investigatori mai vista prima, arrivando a chiedere la consulenza dell'FBI e di altre agenzie straniere. Gli indizi portano la polizia sulle tracce di un contadino, Pietro Pacciani, protagonista di uno dei più lunghi e controversi processi della storia giudiziaria italiana. Fino al 1998, anno della morte dello stesso Pacciani, che si era sempre dichiarato innocente. Attivo fra il 1968 e il 1985, il mostro porta alle condanne di Pacciani (poi assolto, con l'assoluzione in seguito annullata) e dei tristemente noti compagni di merende: Mario Vanni (condannato all'ergastolo e poi rilasciato per motivi di salute prima della sua morte, nel 2009), Giancarlo Lotti (che testimoniò contro gli altri e fu condannato a 30 anni, per poi morire nel 2002) e Fernando Pucci (testimone oculare, morto lo scorso anno). Nel corso delle indagini, e in particolare dalle testimonianze degli uomini coinvolti, emerge insistentemente la misteriosa figura di Ulisse, uomo la cui identità è sconosciuta e che viene indicato come il possessore delle armi dei delitti (mai ricondotte agli imputati) e come l'esecutore materiale dei delitti. Ma le ricostruzioni sono confuse e le ipotesi degli inquirenti non riescono a colmare i vuoti.

Ulisse è Zodiac. Ma è anche il mostro? Ed è a questo punto che arriva la sconvolgente rivelazione: intervistato da un giornalista, che continua a mantenere segreta la sua identità, incalzato proprio dal giornalista - che gli si propone come biografo in conseguenza dei suoi sospetti sul fatto che Ulisse possa essere proprio Zodiac - l'uomo in qualche modo arriva a confermare la teoria del giornalista. Lo fa con affermazioni ambigue nel corso di molti incontri avvenuti nel 2017. E quando il giornalista gli mostra alcune pagine del libro di Robert Graysmith su Zodiac, ottenendo informazioni che confermerebbero inequivocabilmente i suoi sospetti, arriva la svolta. Sempre attraverso le pagine di un libro (Delitto degli Scopeti di Vieri Adriani, Francesco Cappelletti e Salvatore Maugeri), il giornalista scopre che Ulisse frequentava gli stessi locali in cui andavano abitualmente due vittime del mostro, Nadine Mauriot e Jean-Michel Kraveichvili. Arriva il colpo di scena: il giornalista è ormai certo che Ulisse, l'uomo che ha di fronte, sia Zodiac. Ma anche che Zodiac e il mostro di Firenze siano la stessa persona. L'uomo parla bene italiano, come l'Ulisse emerso durante i processi per il mostro. Date e luoghi coincidono, sia per i delitti in California che per quelli in Italia. E Ulisse minaccia - non troppo velatamente - il giornalista, quando gli sembra che stia esagerando. Quando l'uomo suggerisce a Ulisse di costituirsi, sia per i delitti di Zodiac che per quelli del mostro, Ulisse tira in ballo altre persone, di cui non fa i nomi. L'ipotesi, largamente accreditata, degli studiosi dei delitti del mostro che fossero coinvolte parecchie persone - come del resto dimostrarono i processi - viene confermata anche da lui. A questo punto, siamo di fronte all'ultimo incontro fra il giornalista e Ulisse, che sembra intenzionato davvero a costituirsi. Ma non se ne hanno più notizie dal 13 settembre scorso, data di quell'ultimo incontro. 

La soluzione di due grandi misteri. Se le teorie del giornalista e le parole di Ulisse dovessero essere confermate, non arriveremmo solo all'identificazione di due fra i serial killer più ricercati di tutti i tempi. Arriveremmo, probabilmente, anche a comprendere la vastità del caso del mostro, il numero di persone coinvolte e l'eventuale collegamento fra Italia e Stati Uniti relativo ai delitti, data la nazionalità americana del colpevole. La rivelazione del giornalista, il cui nome rimane ovviamente anonimo per ragioni di sicurezza, verrebbe confermata da alcuni documenti - fra cui una rivista che riporterebbe la soluzione agli indovinelli che Zodiac lanciava ai media e che, una volta risolti, conterrebbero il nome e il cognome dell'assassino (coincidenti con quelli di Ulisse). La portata delle indagini e il numero di persone coinvolte è cresciuta ancora. Forse non arriveremo mai a conoscere tutta la verità, ma sicuramente se l'ammissione di Ulisse e le scoperte del giornalista venissero ufficialmente confermate, avremmo almeno la soluzione al nome dietro a due grandi misteri.

Il Mostro di Firenze: esultanza Social per il Video di Telefono Giallo, scrive lunedì 19 febbraio 2018 su "Nove-Firenze" Antonio Lenoci — Giornalista. Nato nel 1979 a Firenze è stato speaker radiofonico a Radio Rosa Toscana. Ha collaborato con Testate online della Toscana. Corrispondente da Firenze per Radio Bruno, network radiofonico nazionale. Telefono Giallo - 1987 Corrado Augias e Donatella Raffai. Su YouTube compare la puntata del 6 ottobre 1987 che vede in studio i massimi esperti del caso. In poche ore centinaia di visualizzazioni per la trasmissione di Corrado Augias riproposta 30 anni dopo la messa in onda del 6 ottobre 1987. Così ha commentato qualcuno sui social "Finalmente! Aspettavo da 30 anni". Un caso che resta ancora aperto ed è ancora molto discusso in rete, tra link, immagini, documenti e perizie oltre alle numerose pubblicazioni uscite per confutare la vicenda giudiziaria che ha visto coinvolti i "Compagni di merende" e non solo. La vicenda del cosiddetto "Mostro di Firenze", o "l'omicida delle coppiette" tiene ancora alta l'attenzione a distanza di anni e nel 2017 l'ennesima svolta sul caso si è registrata sull'asse Prato - Vicchio, con la notizia di una nuova indagine volta a valutare altre persone ed altri aspetti. Il caso ha così saggiato anche l'era dei Social Network che non esistevano negli anni '80 quando si discuteva nei bar e nei circoli o successivamente quando con i primi pc e le net-community a parlare erano le chat ed i forum. Ma come mai tanto interesse per una puntata di un programma Rai di 30 anni fa? A risponderci è Giuseppe Di Bernardo, fumettista italiano ed autore di romanzi noir che spiega "Erano anni che la comunità dei "mostrologi" cercava questa puntata di Telefono Giallo, così quando è apparsa sul sito della Rai si è immediatamente scatenato l'entusiasmo degli appassionati. La trasmissione è del 1987 e, proprio in questo, sta il grande interesse, perché è coeva ai fatti e soprattutto, a mio parere, libera dalle contaminazioni del processo Pacciani, della vicenda dei compagni di merende e degli improbabili mandanti". Telefono Giallo condotto da Corrado Augias e Donatella Raffai ospita nel 1987 il Procuratore Pier Luigi Vigna, Sandro Federico, capo della Squadra Mobile di Firenze e della Squadra Anti-Mostro, l'avvocato Antonino Filastò ed altri esperti del caso tra cui psicologi, sessuologi e periti balistici. "Nella trasmissione - spiega Di Bernardo - sentiamo Pier Luigi Vigna sostenere con convinzione la tesi che vedeva il killer come un uomo molto alto, immagine che stride con quella di Pietro Pacciani. Poi c'è un'altra curiosità. Si fa riferimento ad una videocassetta recapitata agli inquirenti che conteneva una o più trasmissioni dell'epoca dedicate al Mostro e un elenco che sottolineava le imprecisioni, fino a indicarne con esattezza una, nota soltanto a una ristretta cerchia di inquirenti. Ma qual è questo dettaglio mai rivelato alla stampa? Potrebbe forse riguardare la discussa data dell'ultimo delitto? E infine, di particolare interesse è la dichiarazione del dottor Giorgio Abraham, che descrive il Mostro di Firenze, non come un lust murder che ha come unica modalità di soddisfazione sessuale quella di uccidere, ma di uno psicopatico che si è auto costruito un personaggio di tipo quasi letterario o cinematografico, che non uccide per il gusto di farlo, ma con un'altra precisa e misteriosa motivazione". Giuseppe Di Bernardo ha studiato a lungo i singoli omicidi ed il quadro accusatorio, non solo perché toscano ed appassionato di storia del crimine, ma perché sta lavorando ad una graphic novel che verrà pubblicata nel 2019 per le Edizioni Inkiostro e che, attraverso una storia di fantasia, propone un inedito quadro dei delitti del Mostro di Firenze aggiornato alle ultime indagini svolte nel filone d'inchiesta mai realmente interrotto.  Telefono Giallo, oltre a ricostruire gli omicidi con alcuni filmati, adottando quella docu-fiction ancora oggi sotto la lente della polemica per la spettacolarizzazione della cronaca nera, si caratterizzava per la partecipazione del pubblico invitato a telefonare per effettuare segnalazioni. Durante quella lunga notte arriva esplicito l'invito rivolto all'autore degli omicidi a chiamare in diretta per "firmare l'opera realizzata", attribuendo dunque al soggetto un profilo da artista. Un escamotage per "stanarlo" che non convince molto i presenti, ma che attira centinaia di telefonate tra le quali anche alcuni fiorentini che dichiarano di essersi trovati a tu per tu con il mostro e di averlo anche visto bene in volto, a San Miniato al Monte sopra al piazzale Michelangelo in una calda notte del 1985, tanto da aver poi partecipato alla creazione di un identikit molto simile a quello già realizzato nel 1983. Il Mostro non telefona, ma quel numero da poter chiamare esiste ancora, lo 06 8262 è infatti oggi la linea diretta di Chi l'ha Visto? il programma Rai che sarà condotto da Donatella Raffai e poi da Federica Sciarelli ed è ancora tra le trasmissioni più seguite della TV di Stato.

Il mostro di Firenze di Leda Balzarotti e Barbara Miccolupi - Ricerca Archivio Corriere della Sera. Gli otto duplici omicidi che terrorizzarono l’Italia rivissuti attraverso le pagine del Corriere della Sera. Tra il 1968 e il 1985 otto duplici omicidi avvenuti nei dintorni di Firenze sconvolgono l’Italia. I crimini ripetevano quasi tutti lo stesso rituale: coppie di amanti sorprese nell’intimità in luoghi isolati, uccise a colpi di pistola, poi l’assassino infieriva sul corpo della donna colpendolo con un coltello e mutilandolo. Molte le ipotesi avanzate: riti satanici, omicidi su commissione di natura esoterica, un gruppo di maniaci assassini, un serial killer mosso da delirio religioso. L’inchiesta della Procura di Firenze ha portato alla condanna nel 1994 del maggiore indiziato Pietro Pacciani e nel 1998 dei suoi «compagni di merende» Mario Vanni e Giancarlo Lotti. L’arma utilizzata in tutti i delitti, una Beretta calibro 22, non è mai stata ritrovata.

Thursday 22 August 1968. Un uomo e una donna assassinati a colpi di pistola a bordo di un'auto di F. P. Pag. 4

Monday 16 September 1974. La ragazza fugge terrorizzata ma il mostro la raggiunge Uccisa e straziata con 90 colpi Pag. 3

Monday 08 June 1981. Misterioso delitto, sabato, alle porte di Firenze: due giovani uccisi a colpi di pistola e di coltello Pag. 7

Tuesday 27 October 1981. Fra i «guardoni» dei dintorni di Firenze c'è chi conosce l'assassino dei fidanzati Pag. 8

Wednesday 23 June 1982. Le coppie assassinate a Firenze: il maniaco segue un itinerario di morte a forma di M di Vergani Leonardo Pag. 7

Monday 12 September 1983. L'omicida dei due tedeschi a Firenze avrebbe assassinato altre 10 persone di G. P. Pag. 5

Tuesday 31 July 1984. Altri due fidanzati trucidati a Firenze di Brunelli Vittorio Pag. 1

Thursday 02 August 1984. Tutto cominciò una sera d'agosto di 16 anni fa Pag. 6

Friday 27 September 1985. Il mostro di Firenze invia a un magistrato un macabro «reperto» dell'ultima vittima di Stella Gian Antonio Pag. 1

Wednesday 01 March 1989. Mostro di Firenze E' tutto da rifare di Peruzzi Giuseppe Pag. 7

Wednesday 13 November 1991. «Non sono il mostro» Pag. 17

Sunday 17 January 1993. " i testimoni accusano Pacciani " di Fallai Paolo Pag. 13

Wednesday 02 November 1994. " Pacciani ha ammazzato 14 volte " di Monti Vittorio Pag. 3

Thursday 03 November 1994. Pacciani: sono vittima del maligno di Monti Vittorio Pag. 13

Tuesday 06 February 1996. " Pacciani condannato senza prove " di Vittorini Ettore Pag. 5

Wednesday 14 February 1996. Pacciani libero: non abbiate paura di me di Vittorini Ettore Pag. 7

Wednesday 14 February 1996. " Cosi' il Vampa uccise i francesi " Pag. 6

Tuesday 20 February 1996. Vanni: con Pietro solo merende di Troiano Antonio Pag. 12

Monday 23 February 1998. Pacciani se ne va con tutti i suoi misteri di Buccini Goffredo Pag. 6

Tuesday 01 June 1999. Vanni, confermato l'ergastolo di Vittorini Ettore Pag. 18

Tuesday 02 April 2002. «Mostro» di Firenze, è morto Lotti Pag. 16

Monday 26 January 2004. SANGUE E MAGIA IL GIALLO DEL MOSTRO di Sarzanini Fiorenza Pag. 15

Wednesday 28 January 2004. Viaggi, denaro e messe nere Le due vite del medico ucciso di Sarzanini Fiorenza Pag. 18

Sunday 01 February 2004. San Casciano tra misteri e delitti «Noi e il fantasma del mostro» di Cazzullo Aldo Pag. 15

2008

Wednesday 21 May 2008. Mostro, assolto l'ex farmacista Calamandrei: «Chi mi risarcirà?» Pag. 1

Il primo delitto. Il 21 agosto 1968, i due amanti Barbara Locci e Antonio Lo Bianco, appartati in una Giulietta accanto al cimitero di Signa, vengono uccisi con otto colpi di pistola a distanza ravvicinata. Unico testimone il figlio della Locci che dormiva sul sedile posteriore della Giulietta. Il marito di Barbara Locci, Stefano Mele, viene subito arrestato, prima nega poi accusa gli altri amanti della moglie e infine confessa. Verrà condannato a 16 anni di carcere.

Il secondo duplice assassinio. Il 14 settembre 1974, vicino a Borgo San Lorenzo, vengono ritrovati i corpi di Pasquale Gentilcore e Stefania Pettini. I due fidanzati vengono sorpresi dall’assassino seminudi sui sedili anteriori di una Fiat 127. Dopo aver freddato a colpi di pistola Pasquale, l’assassino si accanisce su Stefania pugnalandola violentemente e seviziandola. Sulla lapide che ricorda il punto dove è stata trovata la Fiat 127 della giovane coppia è scritto «trucidati».

Il mondo sommerso dei «guardoni». Il 7 giugno 1981 vicino a Mosciano di Scandicci vengono trovati i corpi di un’altra coppia: Giovanni Foggi e Carmela De Nuccio. Avevano trascorso la serata alla discoteca «Anastasia». La scena che si presenta agli inquirenti è atroce: l’uomo sembra dormire riverso nell’auto, lei, trascinata poco lontano, è stata colpita ripetutamente dall’assassino e in seguito orrendamente mutilata. Il sospettato principale del duplice omicidio è Vincenzo Spalletti, un noto guardone che la mattina successiva al delitto ha raccontato al bar che frequentava particolari che nessuno poteva conoscere, verrà arrestato e successivamente scagionato. Ma le indagini su Spalletti portano alla luce un mondo sommerso, guardoni attrezzati con occhiali a infrarossi, microfoni direzionali e telecamere notturne; è in questo periodo che nella provincia fiorentina cresce l’allarme e compaiono numerosi avvisi e volantini per tutelare le giovani coppie con indicazioni a non appartarsi.

Quattro mesi dopo. Ma a poco valgono gli avvertimenti e a soli 4 mesi di distanza dal precedente omicidio vengono ritrovati Stefano Baldi e Susanna Cambi che la notte del 22 ottobre 1981si erano appartati a Travalle di Calenzano vicino a Prato. Il corpo di Susanna viene rinvenuto a una decina di metri dalla Golf nera della coppia, martoriato e mutilato con una modalità ormai diventata prassi. S’inizia a parlare di “serial killer”, una novità inquietante per l’Italia.

Il ritorno del killer. Il killer torna a colpire e il 19 giugno 1982: Paolo Mainardi e Antonella Migliorini vengono sorpresi a bordo di una Seat a Baccaiano di Montespertoli. Paolo Mainardi dopo essere stato colpito da un proiettile, riesce a spostare la macchina che finisce in un fossato. Per i due giovani non c’è scampo ma la strada è trafficata e l’assassino non riesce a infierire sui corpi e se ne va senza i suoi macabri trofei. Grazie all’intuizione del maresciallo Fiori, in servizio anche a Signa durante gli omicidi del 1968, vengono comparati i bossoli dei delitti: e per la prima volta si stabilisce che è stata la stessa arma a sparare, mettendo così in relazione le uccisioni del 1968 con quelle del 1974, del 1981 e del 1982.

Uccisi per errore. A Giogoli il 9 settembre 1983 il killer assale un furgoncino Volkswagen. Solo dopo aver sparato 7 colpi mortali si accorge che i due non sono una coppietta appartata ma due ragazzi tedeschi in vacanza. Le vittime sono Uwe Jens Rush e Wilhelm Horst Meyer. Uwe con i suoi capelli biondi e lunghi, ha tratto in inganno l’assassino che non infierisce col coltello sui corpi e scappa dopo aver stracciato alcuni giornali pornografici.

La telefonata anonima. Il 29 luglio 1984, nei pressi di Vicchio, vengono trucidati i giovanissimi Pia Gilda Rontini e Claudio Stefanacci. I corpi vengono ritrovati grazie a una telefonata anonima alle quattro del mattino. Il mostro ha trascinato la giovane ancora in vita in un campo di erba medica mutilandola e accanendosi in particolare sul seno sinistro.

L’ultimo duplice assassinio. L’8 settembre 1985, nella radura della frazione Scopeti, nella campagna di San Casciano Val di Pesa, vengono massacrati Jean-Michel Kraveichvili e Nadine Mauriot: è l’ultimo duplice delitto del «mostro» di Firenze. L’assassino invia una lettera al pm Silvia Della Monica con un brandello del seno della ragazza, nel frattempo un cercatore di funghi trova i corpi dei due ragazzi e avverte la squadra antimostro. Il corpo della donna viene ritrovato nella tenda e il corpo di Jean-Michel, che ferito ha tentato la fuga, nascosto poco lontano.

Pietro Pacciani. L’11 settembre del 1985 entra per la prima volta nelle indagini Pietro Pacciani, un contadino di Mercatale noto alle forze dell’ordine perché, nei primi anni Novanta, era stato condannato per la continua violenza sulle figlie e sulla moglie. Ad accusarlo è un vicino di casa, che scrive una lettera anonima ai magistrati. Il pm che si occupa del caso è Pier Luigi Vigna. Nel 1992 durante una perquisizione nella casa di Pacciani, oltre a oggetti che secondo il capo della Squadra anti mostro (nata nei primi anni ‘80 con il compito di coordinare in tutto il territorio le indagini di polizia e carabinieri, pattugliamenti e accertamenti) Ruggero Perugini appartenevano alle vittime, nell’orto viene trovato un proiettile calibro 22, del tipo utilizzato per gli omicidi. In una immagine tratta da un filmato del Tg1, uno scheletro dipinto sul fondo di un cassetto all’interno del locale sotterraneo individuato, perquisito e sequestrato nelle campagne di San Casciano dagli investigatori della squadra mobile di Firenze impegnati nell’ inchiesta sul «mostro».

La condanna. Il 1° novembre 1994 Pacciani viene condannato all’ergastolo per sette degli otto duplici omicidi. Il 13 febbraio 1996 la sentenza di Appello capovolge il verdetto, ma il giorno stesso dell’assoluzione gli inquirenti annunciano di aver trovato nuovi testimoni, tra cui Giancarlo Lotti che accusa Mario Vanni di essere stato complice di Pacciani. Lotti, detto «Katanga», si autoaccusa dell’omicidio dei due ragazzi tedeschi e, testimone chiave di alcuni delitti, diventa il grande accusatore di Pacciani e Mario Vanni. Verrà condannato a 30 anni di carcere. Vanni, arrestato in concomitanza con l’assoluzione di Pacciani, venne condannato a scontare l’ergastolo per quattro dei duplici omicidi, con sentenza resa definitiva nel 2000. Nel frattempo, il 22 febbraio 1998, prima di essere sottoposto a un nuovo processo di appello, Pietro Pacciani viene trovato morto in casa sua e sono in molti a pensare che possa essere stato ucciso, per mettere definitivamente a tacere il sospettato numero uno. Mario Vanni viene trasferito agli arresti domiciliari a san Casciano Val di Pesa. Vanni, l’ex postino di San Casciano Val di Pesa, condannato all’ergastolo per concorso in quattro duplici delitti del mostro di Firenze, e’ morto a 86 anni all’ospedale fiorentino di Ponte a Niccheri.

Le ossa del «mostro». Dopo 16 anni di sepoltura, ad agosto del 2014, i suoi resti - mai reclamati dai familiari - sono stati chiesti senza successo da alcuni ricercatori di un centro studi italiano di livello universitario che avrebbero voluto studiare le ossa del «mostro». Il 1 marzo 2017, a San Casciano, muore Fernando Pucci, ultimo dei «compagni di merende» con Pietro Pacciani, Mario Vanni e Giancarlo Lotti, definito «teste alfa» nel codice che si dettero gli inquirenti. Con la sua testimonianza sul duplice omicidio di Scopeti (1985) confermò il racconto di Lotti, il «pentito» che aiutò gli inquirenti.

Mostro di Firenze, ripartono le indagini: il killer vicino ad ambienti investigativi?, scrive il 15 Gennaio 2018 Simona Pletto su "Libero Quotidiano". Tutto da rifare. Le nuove tecnologie in mano alla scienza per la rivalutazione dei tempi di maturazione di larve e uova fotografate all' epoca sui cadaveri dell'ultimo duplice omicidio, rimescolano le carte sul caso del "mostro di Firenze", una delle inchieste più complesse e lunghe della storia italiana, il primo caso nazionale di omicidi seriali. Al centro dell'attenzione, un killer che dal 1968 al 1985 ha seminato morte e terrore tra le coppiette in cerca di intimità nelle campagne toscane e che, per rimbalzo, ha creato una psicosi da mostro. Otto i delitti attribuiti al maniaco, oltre duecento i nominativi di indagati su cui si è scavato, decine di scrittori e giornalisti in cerca di verità, squadre di inquirenti, FBI inclusa, create ad hoc per seguire le tracce del criminale seriale, aprendo piste ogni volta diverse, fino a ipotizzare che dietro a quei delitti vi fosse una setta satanica e mandanti di secondo o terzo livello. Ipotesi mai riscontrata. Quello che è certo oggi, dopo numerosi fascicoli aperti in diverse procure, è che per quegli efferati crimini finirono in carcere a vita perché identificati come gli autori di quattro duplici omicidi, i cosiddetti "compagni di merende": Mario Vanni e Giancarlo Lotti (unico reo confesso e accusatore dei presunti complici), mentre il terzo, Pietro Pacciani, il contadino di Mercatale, è stato condannato in primo grado a più ergastoli e poi assolto in Appello. È morto nel 1998 prima di essere sottoposto ad un nuovo processo. L' inchiesta mai chiusa, aveva un unico denominatore: il modus operandi del killer. I delitti avvenuti nelle medesime circostanze. Luoghi appartati e notti di novilunio, quasi sempre d' estate, nel fine settimana o in giorni prefestivi. È sempre stata usata la stessa arma, una pistola Beretta calibro 22 Long Rifle, in commercio dal 1959 e mai trovata tranne nel duplice omicidio del 1985, in cui le vittime erano in una tenda da campeggio (dopo l'ordine partito in Procura a Firenze, di inviare auto civetta di finti fidanzati), tutte le altre coppie erano all' interno di autoveicoli. La scorsa estate la Procura ha riaperto il caso del mostro, ed ha iscritto nel registro degli indagati l'ex legionario 87enne Giampiero Vigilanti, originario di Vicchio e residente a Prato, insieme al suo ex medico personale Francesco Caccamo, nato in Tunisia 86 anni fa, anch' egli migrato da Vicchio a Firenze a fine anni '90, ora chiamato in causa proprio dall' ex legionario durante le indagini dei Ros. Per la Procura i due sarebbero coinvolti in concorso negli otto duplici omicidi. Perché due nuovi indagati? Alcuni omicidi delle coppiette sono avvenuti in luoghi in cui Vigilanti viveva. Anche Caccamo sarebbe vissuto in Mugello. Vigilanti conobbe Pacciani, che lo cita nel suo memoriale, e viveva a Calenzano quando il 22 ottobre dell'81 furono uccisi Stefano Baldi e Susanna Cambi. Non solo: guidava un'auto rossa che spesso salta fuori negli atti del processo, secondo le voci dei testimoni e dei "compagni di merende". I sospetti -Oltre a maneggiare armi, Vigilanti poteva conoscere i luoghi in cui il 14 settembre '74 morirono Pasquale Gentilcore e Stefania Pettini a Borgo San Lorenzo, o a Vicchio dove vennero brutalmente uccisi anche Claudio Stefanacci e Pia Rontini. Ma lui, raggiunto nella sua casa di via dell'Anile a Prato, si dichiara estraneo alla serie di delitti. «Io con quegli omicidi non c' entro». Ripete mostrandosi sereno. «Sono anni che ogni tanto mi vengono a prendere i carabinieri per interrogarmi. Ma non ho fatto nulla». Vigilanti fu perquisito anche nel 1994 dopo una lite con un vicino e fu trovato in possesso di 176 proiettili calibro 22 marca Winchester, gli stessi utilizzati per i delitti seriali, ma anche quella volta fu scagionato. A sollevare sospetti, una denuncia di furto presentata da Vigilanti nel 2013 relativa a quattro pistole da lui regolarmente detenute, tra cui una Beretta calibro 22. «Quelle pistole me le hanno rubate e ho fatto denuncia, ma i magistrati le avevano già viste». In Procura a Firenze l'ex legionario si è avvalso della facoltà di non rispondere. «Aspettiamo fiduciosi l'archiviazione». Commenta il suo legale Diego Capano. Si conosce poco o nulla dell'altro indagato, il medico e odontotecnico che operava in via Scandicci 11 a Firenze. A dare un forte impulso all' inchiesta è stato anche l'autore-scrittore Paolo Cochi, che nel suo libro Mostro di Firenze - Al di là di ogni ragionevole dubbio, ha messo in discussione le dichiarazioni di Lotti, unico accusatore dei "compagni di merende". «Il libro è un lunghissimo lavoro di inchiesta e di ricerca - confida Cochi - , svolto sugli atti di indagine e sui documenti processuali. Evidenzia che non vi furono elementi di prova a sostegno di alcune condanne. Nessun fattore scientifico, tanto meno di attendibilità testimoniale». Lotti dichiarò di essere stato presente, a Scopeti, all' ultimo delitto dei due fidanzati Jean-Michel Kraveichvili e Nadine Mauriot, avvenuto per mano di Pacciani e Vanni, con indiscutibile certezza - disse - domenica 8 ottobre 1985. La scoperta - Questa la data riportata su tutti i giornali, fedeli alla valutazione fatta all' epoca dal medico legale Mauro Maurri. Al suo fianco c'era il giovane braccio destro Giovanni Marello, medico legale e docente all' Università di Firenze, esecutore dal 1974 all' 84 delle autopsie sui corpi delle vittime del mostro e anche sul cadavere di Pacciani, la cui morte sollevò dubbi sui farmaci sospetti somministrati. «Pacciani è morto per cause naturali, per insufficienza cardiaca». Rivela il professor Marello. E sui cadaveri dei fidanzati francesi uccisi confida: «Purtroppo all' epoca in Italia non avevamo gli strumenti per affrontare analisi scientifiche all' altezza di un serial killer. Oggi, dalla visione delle foto, si può affermare che le larve trovate sui cadaveri dei ragazzi francesi, anticipano la data della morte al sabato e non alla domenica». Così la pensano altri cinque esperti sottoposti al test fotografico delle larve. E sempre Marello: «Per me l'autore poteva essere anche una persona sola che si avvicinava all' auto di notte, puntava la lampada sulle vittime abbagliandole e sparando a mezzo metro di distanza prima all' uomo poi alla donna che veniva trascinata fuori dall'auto per compiere le escissioni al pube e poi al seno sinistro. Nel 1974 iniziò a tratteggiare le parti intime col coltello, poi in un crescendo di violenza ha iniziato le escissioni anatomiche. Fra le tante cose strane ci sono anche alcuni verbali delle autopsie scritti da noi medici che non sono più reperibili all' Istituto di medicina legale». Un pezzetto di seno venne inviato in una lettera lunedì 10 settembre 1985 all' allora unico magistrato donna Silvia della Monica, che poco dopo lasciò le indagini. Il mostro voleva far trovare i due cadaveri prima che gli inquirenti li scoprissero e per questo nascose la donna in tenda e il ragazzo tra le foglie del bosco. I familiari - «Io l'avevo detto che prima o poi l'avrebbe fatto», dice Silvia Della Monica, divenuta senatrice e da pochi mesi in forza alla Corte d' Appello di Roma. Un caso di veggenza o il magistrato aveva capito che il maniaco era vicino agli ambienti investigativi? Ad ogni modo l'identikit tracciato all' epoca non aveva nulla a che fare con Pacciani e compagni di merende, tre amici guardoni incapaci di mettere in scacco gli inquirenti. Raggiungiamo in Francia i parenti di Jean-Michel Kraveichvili. «So che hanno riaperto l'inchiesta e che ci sono due indagati - dice Salvatore Maugeri, portavoce delle sorelle Kraveichvili -. Sarebbe ora che si iniziasse a fare le indagini come andrebbero fatte. Pacciani e compagni? Erano innocenti e noi aspettiamo da decenni che venga scoperto il vero colpevole». Tra gli avvocati che hanno avuto a cuore il caso, c' è il difensore di Mario Vanni, Nino Filastò. «Per la verità occorrerebbe basarsi su dati scientifici. E fino ad oggi, a parte le larve, mi pare non ve ne siano». Eppure non è mai troppo tardi per far luce su un giallo che ha sconvolto l'Italia.

Mostro di Firenze, il giallo continua. Dai sequestri effettuati in casa dell'ex legionario di Prato Giampiero Vigilanti emergono altri indizi che lo coinvolgerebbero negli 8 duplici omicidi, scrive Stefano Brogioni il 12 aprile 2018 su "La Nazione". Quel giornale, finito nella sua collezione di articoli sul Mostro, venne acquistato il giorno successivo al delitto di Vicchio. Ma la stampa ancora non sapeva che la settima coppia era già stata uccisa. Quel numero de “La Città” del 30 luglio del 1984, sequestrato nella perquisizione del 16 settembre del 1985 a casa della mamma di Giampiero Vigilanti, a Vicchio, diventa un altro tassello del mosaico dell’inchiesta che vede indagato l’ex legionario di Prato per gli otto duplici omicidi che da quel settembre si fermarono. Vigilanti compra e conserva il giornale del 30 luglio. Ma quella mattina, nessun quotidiano parlava ancora di Pia Rontini e Claudio Stefanacci, uccisi alla Boschetta di Vicchio tra le 22 e le 24, secondo il medico legale, di domenica 29. Al momento in cui le edizioni erano state chiuse in tipografia, l’ultimo orrendo omicidio era stato fatto, ma non ancora scoperto. Perché l’ex legionario di Prato tiene proprio quel giornale? Non certo per quella sua ‘passione’ per il noir con cui si giustificò all’epoca, visto che quel giorno, del mostro delle coppiette che aveva ammazzato di nuovo nessuno ancora sapeva. I cadaveri erano stati rinvenuti intorno alle 4. Sarà un’edizione straordinaria de La Nazione, uscita la sera del 30 luglio, ad informare del delitto a caratteri cubitali, con il titolo «IL MOSTRO E’ TORNATO». Ma se i cadaveri fossero stati trovati prima (vennero uditi dei colpi poco prima delle dieci) e la notizia fosse giunta in tempo in redazione, i cronisti dell’epoca avrebbero potuto inserire almeno una ‘ultim’ora’. Cercava quella sul giornale? E poi, quella notte, raccontano gli atti dell’indagine sugli otto duplici omicidi ancora aperta, fu pure costellata di strane telefonate e segnalazioni. Quasi come se il mostro avesse fretta di far arrivare gli inquirenti alla Boschetta. Ma i giornali rinvenuti nella perquisizione eseguita dal maresciallo dei carabinieri del nucleo operativo e radiomobile di Prato, Antonio Amore, contengono altri dettagli a carico dell’ultimo degli indagati. Forse addirittura più «forti». Sempre a casa della mamma di Vigilanti, che abitava a Padule, ci sono le pagine de La Nazione datate 16 e 17 settembre 1974. Sono i giornali in cui si parla del massacro di Stefania Pettini e Pasquale Gentilcore a Sagginale. Anche questo non è un particolare da poco, anzi: per molti anni, infatti, quello del 1974 era un duplice omicidio «semplice», che solo più tardi – e cioè nel 1982, dopo Baccaiano – sarà collegato al 1968 tramite la pistola calibro 22 e agli altri omicidi. Eppure, Vigilanti, già nel 1974 ha avuto cura di mettere da parte e conservare, per almeno undici anni, quei ritagli, in quella collezione che si farà sempre più ricca. E variegata. Ne La Nazione del 14 luglio 1984, ritrovata anch’essa a casa della madre, c’è un taglio a metà pagina in cui si parla di ‘Un maniaco sessuale terrorizza l’Inghilterra’ e nel giornale del 27 maggio 1984 del “Giallo a Piombino: scompare un marittimo. Un delitto sessuale?”. In quel settembre  1985, a casa di Vigilanti, a Prato, oltre alla pistola High Standard calibro 22 (quella di cui verrà denunciato il furto, assieme ad altre armi acquistate più di recente, nel 2013) ci sono anche gli articoli sulla strage «nera» del rapido 904 del 23 dicembre 1984 (i giornalisti de La Nazione, in quell’occasione, mandarono in stampa il giornale che uscì eccezionalmente il giorno di Natale) ma anche le edizioni straordinarie del 26 e 27 gennaio 1984 per l’arresto di Giovanni Mele e Piero Mucciarini. Quel giorno i magistrati erano convinti di aver chiuso il cerchio. Sbagliavano, perché il mostro ucciderà ancora, mesi dopo a Vicchio e si fermerà solo dopo Scopeti. La collezione Vigilanti conteneva anche La Nazione del 5 agosto 1984: si parlava di identikit e avvistamenti. E di una telefonata anonima di una persona che a una centralinista del ‘Bingo’ riferì di aver cose da dire su Vicchio, ma di dover restare nell’ombra perché la notte del duplice omicidio «era con una donna sposata». Riattaccherà e non chiamerà più.

Mostro di Firenze, ecco le carte choc: così la polizia indagava su Fiesoli. La lista del 1986: sospetti anche sul «Profeta», scrive Stefano Brogioni il 6 gennaio 2018 su "la Nazione". All'assistente dell’allora capo della Sam, la squadra antimostro nata all’indomani dell’ultimo delitto, quello degli Scopeti del settembre 1985, servirono tre fogli formato A4, per redigere quella lista che i magistrati della procura Luigi Vigna, Francesco Fleury e Paolo Canessa, avevano commissionato. E così, quella mattina del 28 febbraio del 1986, nelle pagine del rapporto della Squadra costituita appositamente per far uscire Firenze dall’incubo, cominciò un lavoro dattilografico che in realtà conteneva mesi e mesi di accertamenti, appostamenti, segnalazioni anche anonime. Oggi, quel documento top secret, siamo in grado di mostrarvelo. Perché a distanza di anni, con le indagini sui duplici omicidi ancora in corso, quella lista è stata analizzata ancora una volta. E contiene ancora sinistre coincidenze. Sono 38 i nomi di quella lista datata 1986. Alcuni di loro, subirono robuste perquisizioni, dopo l’uccisione dei francesi Nadine e Michel. Rodolfo Fiesoli è tra questi: posizione numero tre dell’elenco. Un mostro, perché è stato appena definitivamente condannato a 14 anni per le violenze sessuali perpetrate ai giovani ospiti della comunità mugellana da lui fondata, che per qualcuno era anche “il” mostro. Il Forteto. Vicchio. Lo stesso paese in cui avvenne il delitto del 1984, in cui il mostro fece la sua vittima più giovane, Pia Rontini, 18 anni appena, trucidata e straziata assieme al suo fidanzato Claudio Stefanacci. Si erano appartati ad amoreggiare nella Panda di lui. Tra la Sieve e un angolo dei terreni della comunità degli abusi. Ma Vicchio è pure il paese di Giampiero Vigilanti, numero 38 del medesimo elenco battuto a macchina negli uffici della questura di via Zara è ancora non uscito di scena da questi torbidi fatti a trent’anni e passa di distanza: con lui, in quella inchiesta ostinatamente aperta dal procuratore aggiunto Luca Turco (e dal suo predecessore Paolo Canessa), c’è indagato un medico, quel Francesco Caccamo tirato in ballo dallo stesso Vigilanti, il legionario nero che per qualche mese ha parlato fitto con gli inquirenti, prima di venie a sua volta indagato per i delitti. Ma chi ha tirato in ballo l’ex legionario di Prato? Certamente Pietro Pacciani, pure lui vicchiese (in Mugello si macchiò del primo efferato omicidio del 1951, quello del rivale in amore Severino Bonini) e - ma qui si entra nei dettagli di un fascicolo ancora coperto dal segreto istruttorio - pure di certi retroscena sul duplice omicidio del 1984 (la Rontini sarebbe stata in qualche modo «scelta»), quando qualcuno si accanì pure sul corpo della vittima, asportando i cosiddetti ‘feticci’. Tornando a Fiesoli, che dall’antivigilia di Natale è rinchiuso a Sollicciano, è probabile che il vivo interessamento di allora della Sam (il fondatore del Forteto venne anche perquisito, così come Vigilanti e Pacciani), fosse dettato anche dai reati di natura sessuale per cui aveva, in quel 1986, già collezionato una condanna definitiva. Ma va pur detto che il suo nome, relativamente ai delitti delle coppiette, non è mai completamente uscito di scena. Michele Giuttari, l’investigatore che guidò il Gides (Gruppo investigativo delitti seriali) a cui si deve la pista dei compagni di merende e pure l’ipotesi, al momento giudiziariamente arenata, dei mandanti, ne andò a riferire anche alla commissione regionale d’inchiesta, ricordando pure una strana indagine di Perugia. Chi minacciava con telefonate anonime una donna, dicendo «ti facciamo fare la fine di Narducci» (il medico perugino trovato morto nel lago Trasimeno), usava una scheda telefonica con cui veniva chiamata anche una comunità del Mugello che accoglieva i minori su disposizione del tribunale. Il Forteto.

Mostro di Firenze, la testimonianza: "Mi tamponò la stessa auto del killer". Il racconto del cantante Riccardo Azzurri 32 anni dopo. «Allora non fui creduto», scrive Stefano Brogioni il 26 agosto gennaio 2017 su "la Nazione". Nella notte di sabato 7 settembre 1985, agli Scopeti, una Fiat 500 che sopraggiungeva nella direzione opposta, urtò la sua Volvo e si dileguò. Nessuno, fino ad oggi, ha mai preso in considerazione quella testimonianza che il cantante Riccardo Azzurri offrì agli investigatori, forse perché si collocava in una sera diversa rispetto a quella in cui è stato collocato ufficialmente il delitto, cioè domenica otto. Oggi, però, alla luce dei due nuovi iscritti sul registro degli indagati e in virtù di una possibile diversa rilettura della scia di duplici omicidi che hanno insanguinato Firenze, tra il 1968 e quel settembre del 1985, le parole dell’artista fiorentino potrebbero assumere un rilievo diverso. «Sarebbe bastato prendere il colore della vernice rimasta sulla mia carrozzeria», dice il cantante che a distanza di 32 anni ricorda ancora perfettamente quell’episodio. «Era tra mezzanotte e mezzo e un quarto all’una – racconta per l’ennesima volta –. Stavo tornando da un concerto a Roccastrada, mi ero esibito per primo e decisi di rientrare a Firenze perché altrimenti, se avessi aspettato la fine dell’evento e cenato con gli altri, sarei tornato troppo tardi. Però a quell’epoca non c’erano i navigatori ed io, che avevo una Volvo 244 Gle modello America, sbagliai strada». Per arrivare a Firenze, seguendo le indicazioni, si ritrovò così agli Scopeti. All’improvviso sbucò quella macchina, che invadeva l’altra corsia. «La urtai, o meglio, fui urtato e mi gettai sul lato opposto, su un muro». Si fermò, Azzurri, scese a controllare, convinto che nello scontro l’altro conducente potesse essersi fatto male, ma la macchina si era dileguata. «Non c’era anima viva, solo un silenzio spettrale. Chi c’era a bordo? Se dicessi che ho visto chi c’era sarei un bugiardo. Ma era una 500». Il lunedì mattina, la Volvo venne presa in carico dal carrozziere ed in quel frangente il cantante apprese anche del delitto in cui persero la vita i due francesi, Nadine Mauriot e Jean Michel Kraveichvili: il Mostro aveva ucciso agli Scopeti, a pochi metri di distanza da cui aveva avuto l’incidente con il «pirata». Non sapremo mai, a questo punto, chi ci fosse alla guida di quella 500. Però, come hanno ricostruito le indagini, in quell’anno aveva quel modello di auto Pietro Pacciani e, dalle indagini «in proprio» effettuato dal legale dei francesi, l’avvocato Vieri Adriani, risulta pure che l’ex legionario, Giampiero Vigilanti, nel settembre del 1985 avesse in famiglia una 500. Oggi, la testimonianza di Azzurri è stata di nuovo trasmessa in Procura. E resta il giallo della data.

CLAMOROSA SVOLTA NEI DELITTI DEL “MOSTRO DI FIRENZE”: GLI INQUIRENTI TORCHIANO UN EX LEGIONARIO, L'87ENNE GIAMPIERO VIGILANTI, CHE CONOSCEVA I “COMPAGNI DI MERENDE” E FREQUENTAVA IL DOTTOR FRANCESCO NARDUCCI, SOSPETTATO DI ESSERE UNO DEI MANDANTI - E’ LA CACCIA AL FAMOSO “SECONDO LIVELLO”..., scrive il 06.08.2017 Gian Pietro Fiore per “Giallo”. Si, mi trovavo con Francesco Narducci quando venni fermato dai carabinieri. Eravamo in auto a fare un giro... Ero molto agitato, e vero, perchè non sai mai quello che devi aspettarti quando vieni fermato a un posto di blocco. Quella sera ero molto preoccupato, si. Ma solo il giorno dopo appresi che proprio quella sera avevano ammazzato quei due...”. Questa incredibile ammissione a Giallo di Giampiero Vigilanti, ex legionario di 87 anni recentemente indagato per i deli i del Mostro di Firenze, potrebbe aprire un nuovo, importantissimo capitolo nel caso più misterioso degli ultimi cinquant’anni. Ora vi spiegheremo perchè. Come ricorderete, i delitti del Mostro di Firenze, otto coppie uccise a colpi di pistola, sono avvenuti tutti nelle campagne intorno alla città a partire dal 1968 e fino al 1985. Dopo lunghe e complicate indagini, furono arrestati i famosi “compagni di merende” Pietro Pacciani, Mario Vanni e Giancarlo Lotti. Vanni e Lotti furono condannati, mentre Pacciani morì per uno strano infarto poco prima che si celebrasse un nuovo processo contro di lui. Ma gli inquirenti e gli esperti che si sono occupati del caso hanno sempre pensato che i tre amici fossero solo gli esecutori materiali dei delitti. Dietro di loro, per chi ha indagato, ci sono alcuni misteriosi mandanti, il cosiddetto “secondo livello”. Una sorta di cupola, fatta di ricchi professionisti insospettabili, che commissionava gli omicidi probabilmente per compiere riti: come ricorderete, ad alcune delle donne uccise, infatti, vennero asportati il pube e il seno sinistro. Ma se gli esecutori materiali sono stati individuati, chi sono i mandanti? Gli inquirenti non hanno mai smesso di lavorare per rispondere anche a questo interrogativo, un giallo nel giallo, per ora irrisolto. Ed è proprio per questo che la testimonianza di questo nuovo indagato, Giampiero Vigilanti, potrebbe essere di grande importanza. L’uomo, infatti, è sotto torchio da alcuni anni: secondo gli inquirenti è implicato nel caso. Conosceva Pacciani, abitava a Vicchio, vicino a lui, e agli inquirenti sta raccontando di sapere molte cose. Ora, con noi di Giallo, come avete letto, ha ammesso di essere stato un amico anche di Francesco Narducci. Di più: di essere stato proprio in sua compagnia la sera del 22 ottobre del 1981, qualche ora prima che venissero uccisi Stefano Baldi, 26 anni, e Susanna Cambi, commessa di 24 anni, la quarta coppia vittima del Mostro di Firenze. Ma chi è Francesco Narducci e perché il fatto che lui e Vigilanti si conoscessero è così interessante? Vediamolo. Francesco Narducci era un medico gastroenterologo e professore universitario di Perugia. L’uomo, 36 anni, scomparve l’8 ottobre del 1985 nel lago Trasimeno e venne trovato morto in circostanze mai chiarite. Una strana coincidenza la data della sua morte: esattamente un mese prima, l’8 settembre del 1985, vennero uccisi nella campagna di San Casciano Val di Pesa, in frazione Scopeti, i fidanzati francesi Jean-Michel Kraveichvili, musicista venticinquenne, e la trentaseienne Nadine Mauriot. L’ultima coppia vittima del Mostro. Da quel giorno, infatti, il Mostro non uccise mai più. La morte del medico aprì nuovi scenari: all’inizio fu catalogata come incidente o suicidio. Ma gli inquirenti vollero vederci chiaro e decisero di riesumarlo. Si scoprì, così, che era stato strangolato. L’inchiesta per omicidio fu avviata dall’allora sostituto procuratore di Perugia, Giuliano Mignini. Per la sua morte fu accusato il farmacista di San Casciano, morto diversi anni fa, Francesco Calamandrei: l’uomo, però, venne assolto. L’ipotesi della Procura è che il giovane medico sia stato ucciso perché sapeva troppe cose sulle morti delle coppie di danzati e forse avesse intenzione di rivelarle ai magistrati. Data la sua appartenenza a una famiglia altolocata di Perugia, potrebbe aver fatto parte addirittura del gruppo di mandanti degli omicidi del Mostro. Finora era solo un’ipotesi: ma adesso, con la dichiarazione di Vigilanti a Giallo, potrebbe esserci il primo vero collegamento tra gli esecutori materiali dei delitti del Mostro e il famigerato “secondo livello” dei mandanti. Torniamo dunque ora a Giampiero Vigilanti, che da tempo e sotto torchio: gli inquirenti sono convinti che abbia avuto un ruolo importante nella macabra storia dei sedici delitti. Noi di Giallo lo incontriamo in bicicletta davanti a casa sua, in via dell’Anile, a Prato, mentre sta tornando dal colloquio con il suo avvocato, Diego Capano. Vigilanti ci accoglie con un sorriso e ci racconta: «Sono di ritorno dallo studio del mio avvocato e posso dirvi che a oggi ancora nessuno mi ha notificato qualcosa: non mi risulta di essere indagato. E da tempo pero che mi interrogano e che vengono a casa mia per capire se io c’entro qualcosa con i delitti del Mostro di Firenze. Ma io non ho ucciso nessuno, sia ben chiaro...». Gia il 16 settembre del 1985, otto giorni dopo l’ultimo omicidio del Mostro, i carabinieri si recarono presso l’abitazione dell’ex legionario per una perquisizione “in quanto il predetto, da accertamenti svolti, poteva identificarsi nel noto Mostro di Firenze” , come e scritto nel verbale. Gli investigatori nel corso della perquisizione trovarono a casa di Vigilanti numerosi ritagli di giornale che parlavano dei delitti dei fidanzati e delle prostitute uccise in quegli anni. Nel 1994, a seguito di una lite con un vicino, la casa di Vigilanti venne nuovamente perquisita e in quell’occasione i carabinieri trovarono e sequestrarono 176 proiettili Winchester serie H del 1981, non più in produzione, gli stessi usati dal Mostro di Firenze. A Giallo Giampiero Vigilanti racconta: «Si, avevo quattro pistole, regolarmente detenute, ma a settembre dello scorso anno me le hanno rubate. Ma se dico che me le hanno rubate, ora non mi crede nessuno. La denuncia non l’ho fatta perchè speravo di poterle recuperare. Solo per questa ragione non sono andato subito in Questura. E successo tutto in una mattina di settembre del 2016. Io ero uscito con il cane e mia moglie si era allontanata lasciando la porta aperta...». Vigilanti per anni e stato nella legione straniera e non fa mistero della sua ferocia e della sua dimestichezza con le armi: «Quando ero soldato, ho ucciso centinaia di persone. Ma era la guerra. Mi pagavano per farlo». Ci racconta poi che negli ultimi due anni e stato interrogato spesso dal procuratore Paolo Canessa, titolare dell’inchiesta, e dai carabinieri: «Mi venivano a prendere verso le otto del mattino, mi portavano nella caserma e verso le 17 mi riaccompagnavano a casa. Sono entrati diverse volte nella mia casa e hanno anche portato via alcune mie fotografie e alcuni documenti». Pare che tra le foto sequestrate a Vigilanti ce ne fosse una che lo ritraeva su un mucchio di cadaveri in Indocina, mentre stringeva tra le mani due teste mozzate. Ci parla poi di Pacciani: «Si, io conoscevo il Pacciani: a lui una volta ho anche spaccato la testa con una bastonata. Ma tranne che in quell’occasione, non ci ho avuto nulla a che fare, cosi come con il Vanni e il Lotti». Vigilanti tira in ballo anche un’altra persona, che pare sia come lui un personaggio chiave della nuova indagine, un dottore, anche lui sotto la lente degli inquirenti da qualche tempo: «I carabinieri mi hanno chiesto con insistenza del dottor Francesco Caccamo, che e stato per lungo tempo il mio medico curante. Lui, siciliano di origine e sposato con una donna arabo- francese, abitava nel Mugello. Visitava anche Pacciani e gli altri, ma di certo non sapeva mica chi fossero quelle persone. Sospettano di me per il fatto che in quegli anni dei delitti io spesso passavo da casa sua e mi fermavo a parlare con lui. Ma in quella zona ci abitavano sia mia sorella che mia madre, che andavo spesso a visitare. Gli inquirenti lo tenevano d’occhio da tempo e per questo ora da me vogliono sapere perchè lo incontravo...». Ecco, poi, che gli chiediamo dei suoi rapporti con Francesco Narducci, il medico perugino. «Narducci? Non lo conosco». Risponde di getto. Ma poi, incalzato, ammette: «Mi sembra che l’ho incontrato una o due volte. Non e che mi ricordo bene». Gli chiediamo allora se ricorda di quella notte, quella del 22 ottobre 1981 in cui vennero uccisi i fidanzati Stefano Baldi e Susanna Cambi. Come vi abbiamo già detto, quella notte Vigilanti venne fermato dai carabinieri mentre era alla guida di uno spider rosso, su cui viaggiava anche Narducci. I militari annotarono che il conducente aveva “uno stato di agitazione psicomotoria inusuale”: «Eh. Insomma, si. Io e Narducci eravamo insieme. Ci hanno fermato i carabinieri per un controllo. Io ero spaventato quando ci hanno fermato. Ero spaventato perchè non avevo fatto nulla e ti puoi trovare in una situazione... Non ricordo bene quando ci hanno fermato. Potevano essere le 20...». Non e cosi. Vigilanti venne fermato circa alle 22 del 22 ottobre e quindi un’ora prima che Susanna e Stefano venissero uccisi. Proprio Susanna prima di morire si era confidata con una amica e anche con sua madre. A loro aveva detto di aver paura perchè: «C’e un uomo alto con un’Alfa Rossa, capelli rossicci, che mi segue continuamente». Stefano era un operaio tessile, proprio il nuovo lavoro che aveva trovato Vigilanti. Continua: «Io mi trovo in questa situazione perchè mi hanno visto con questo Narducci. Lui l’ho conosciuto a Vicchio, dove avevano ammazzato una donna che era anche una parente di mia madre, se ricordo bene una cugina. Andavamo in auto insieme, come quella sera. Non facevamo nulla di particolare. Si stava insieme, prima facevamo merende e poi si girava. Dell’omicidio io l’ho saputo il giorno dopo. Dove sono stati uccisi, non e una zona di passaggio a piedi. Si passa solo in auto, normalmente per la strada che da Vicchio porta a Dicomano, poi c’è una strada molto stretta. E da quelle parti che il dottor Caccamo aveva la casa. Con Narducci si andava insieme da qualche donna, ma non quella sera che stavamo solo girando. Dopo quella notte, pero, non l’ho più voluto incontrare. Ho girato al largo da quella persona. A me non interessava di quella gente li. Andai via da quelle zone e non ci ritornai più come prima». Come avete letto, i rapporti tra Vigilanti e Narducci erano stretti: giravano insieme per le campagne fiorentine. Ma perche? Da quali donne andavano? Perchè dopo la notte del quarto duplice delitto Vigilanti non volle più vederlo? Perchè ebbero cosi paura, quella notte? E soprattutto: che cosa ci faceva un medico di Perugia nelle campagne del Mostro di Firenze? Stranamente, Vigilanti conosceva anche il farmacista di San Casciano, Francesco Calamandrei, che, come abbiamo visto, fu accusato e poi assolto proprio per la morte di Narducci: «Si che lo conoscevo», ci dice. «Venivano tutti al Mugello. Giravano tutti da quelle parti. Conosco tanta gente...». Prima di salutarci il Vigilanti tiene a dirci: «Io credo di essermi trovato al momento sbagliato nel posto sbagliato. Anche quando hanno ammazzato i due francesi ero da quelle parti. Ma forse ero andato a trovare mia madre che abitava proprio in zona. Non ricordo». Quindi Vigilanti era un’altra volta nella zona di un delitto del Mostro. Dice infine: «E possibile che qualcuno commissionasse tutti i delitti. Io non so di più. Non temo che mi arrestano perchè ho 87 anni e a questa eta non possono farmi più nulla, me lo ha detto anche il giudice che mi ha più volte sentito. Vorrei collaborare ma non posso inventarmi nulla». Prima di congedarci, conclude preoccupato: «Forse ora che e venuto fuori tutto questo ho un po’ paura. Il fatto che vai a parlare con un giudice o con i carabinieri non e che la prendano bene, un certo tipo di persone. Ma io sono molto svelto. Se qualcuno vuole farmi del male sono il primo a colpire, tanto sara legittima difesa. Un po’ di preoccupazione ce l’ho, ma io non ho fatto nessun nome agli inquirenti. Sono loro che mi hanno chiesto di alcune persone. Io a oggi non ho detto nulla...». Le indagini della Procura di Firenze in tutti questi anni sono sempre andate avanti, anche dopo le condanne definitive di Vanni e Lotti. Gli inquirenti, che cercano ancora la pistola Beretta calibro 22, ora si apprestano a effettuare nuove analisi tecnico-scientifiche su tutti i reperti conservati e prelevati sulle varie scene del crimine. Verranno analizzati un fazzoletto intriso di sangue, un capello e dei guanti da chirurgo, trovati da un cane vicino al luogo dell’ultimo delitto, in località Scopeti. Sono state disposte anche perizie balistiche mai fatte prima. Non e escluso che da queste nuove analisi possano emergere importanti risultati e nuove tracce biologiche riconducibili al Mostro. Non e nemmeno escluso che queste nuove ammissioni di Vigilanti possano portare ora gli inquirenti verso il misterioso “secondo livello”...

Mostro di Firenze, Vigilanti: "Ho ucciso in guerra ma non sono io quello che cercano". La vicenda giudiziaria dei delitti che insanguinarono la Toscana: l'intervista integrale all'uomo indagato nel "cold case" fiorentino, scrive Claudio Capanni il 26 luglio 2017 su "La Nazione". Mostro di Firenze, il nuovo indagato: "Picchiai Pacciani, ma con l'inchiesta non c'entro". Senta, ma lei lo sapeva di essere il mostro? «Così dice il giornale». Quindi è lei il Mostro di Firenze? (Fa una pausa. Prende fiato). «No. È che mi cercano sempre, da sempre. Ma poi non trovano mai nulla». Cappellino da baseball, voce gentile. Mani militaresche. Sull’avambraccio destro: il guerriero tatuato ai tempi della Legione Straniera in cui si arruolò nel 1952, per uscirne 9 anni dopo. Giampiero Vigilanti è un ex legionario, ha 86 anni e se ne sta ritto sul cancellino del suo buen retiro, la villetta di via Anile, nel cuore del Cantiere: un ritaglio di periferia di Prato, strozzato tra la ferrovia e il fiume Bisenzio dove abita da 30 anni. Da 24 ore è sospettato di aver avuto un ruolo negli omicidi del Mostro di Firenze.

I carabinieri sono venuti qui?

«Non in questi giorni, ma negli ultimi 10 anni avrò visto il pm Canessa (pubblico ministero che indaga ancora sui delitti del Mostro ndr) decine di volte. È venuto a interrogarmi anche qui, a casa. Ora è in servizio a Pistoia, ma quando era a Firenze i militari sono venuti a prendermi per interrogarmi quasi ogni settimana, mi portavano nella caserma di Borgo Ognissanti».

Quando l’ultima volta?

«L’anno scorso. Ma non hanno mai trovato nulla».

Forse sono stati insospettiti dal suo amore per le armi...

«Ho quattro pistole regolarmente detenute. Anzi le avevo».

Come le aveva? Dove sono finite?

«Mi sono state rubate lo scorso settembre dai ladri. Sono entrati in casa mia tra le 4 e le 5 di mattina mentre ero fuori a portare a passeggio il cane».

Una coincidenza strana...

«Eppure è così».

Ha idea di chi possa essere stato?

«Una persona che conosce molto bene casa mia. Non ho fatto subito la denuncia perché pensavo di riuscire a recuperarle, ma non le ho più trovate».

Di che pistole si trattava?

«Due americane, di cui una risalente alla guerra in Indocina, una pistola turca e una francese».

Erano armi compatibili con i famigerati 176 proiettili Winchester calibro 22 serie H che i carabinieri le avevano trovato in casa nel 1994?

«No, non c’entravano nulla».

E perché teneva in casa quei proiettili?

«Ho sempre avuto armi e proiettili in casa, tutti regolarmente detenuti come già dimostrato».

Ma lei conosceva bene Pietro Pacciani?

«Sì. Nel 1948 gli detti anche una bastonata sulla testa».

Perché?

«Abitavamo a Vicchio. Una volta finita la guerra, a suo padre toccò il lavoro che il mio aveva perso andando al fronte. Al ritorno ne nacque una lite. Gli ruppi la testa con un bastone, ma non sporse mai denuncia».

Conosceva Salvatore Vinci (fratello di Francesco, inizialmente inquisito come Mostro e poi prosciolto ndr)?

«Sì, eravamo vicini di casa a Vaiano, ma non ci parlavo. Lo conoscevo di vista. Mi sembrava violento».

Poi non ha più visto nemmeno Pacciani?

«Sì, lo vidi quando tornai in Italia dopo il 1961, lui doveva scontare 14 anni di prigione per il delitto dell’amante della sua fidanzata. Sapeva di aver sbagliato».

Perché si arruolò nella Legione proprio l’anno di quel delitto?

«Passai la frontiera con la Francia per guadagnarmi da vivere, lo avevo già fatto a 16 anni. La polizia francese mi disse: scegli, o torni a casa o ti arruoli. Ho combattuto 8 anni in Vietnam. Ho lavorato anche a Marsiglia dove ho aperto un locale tipo nightclub».

E poi?

«Andò male, c’erano contrasti con due arabi che ci ricattavano e fummo costretti a farli fuori».

Quanti Vietminh ha ucciso durante la guerra di Indocina?

«Non li contavamo, ma credo centinaia. Almeno 300 o 500...».

Il legionario indagato per i delitti del Mostro e il giallo delle pistole. Nel 2013 sparirono quattro armi da casa di Giampiero Vigilanti: a processo per il furto misterioso, scrive Stefano Brogioni il 4 dicembre 2017 su "la Nazione". Restano un mistero, le quattro pistole di Giampiero Vigilanti, l’ex legionario di Prato indagato per i delitti del mostro di Firenze nell’ultima tranche di un’inchiesta ancora ostinatamente aperta dalla procura fiorentina. E per questo il processo a suo carico in corso a Prato (è accusato di non aver custodito armi e munizioni come previsto dalla legge, considerato che gli furono prese, secondo la sua denuncia, durante un furto in casa), non si chiude con un’oblazione, ma va avanti. E con il procedimento, si allunga anche quell’enigmatico alone intorno a questa figura e al suo mondo. Su quelle quattro pistole, le nuove indagini hanno battuto molto. «Mi sono state rubate»: questa la versione che ha ripetuto Vigilanti al pm Paolo Canessa, il magistrato che ha legato la sua carriera agli otto duplici omicidi e che negli ultimi mesi ha messo sotto torchio l’87enne, alla ricerca di nuove verità. Per gli inquirenti, questo furto, che Vigilanti colloca nel 2013 – cioè nello stesso anno in cui l’avvocato Vieri Adriani, legale dei famigliari dei francesi uccisi nel 1985 agli Scopeti – è molto strano. Strano perché avvenuto a ridosso del suo «nuovo» coinvolgimento nelle indagini (Vigilanti era già stato perquisito pochi giorni dopo l’ultimo duplice omicidio), e strano perché non è da tutti avventurarsi nella casa al «Cantiere» di Prato dove l’ex combattente vive con la moglie e i suoi ricordi del passato da guerrigliero. L’omessa custodia è un reato ‘da poco’, visto che può essere risolto con una ‘banale’ oblazione. Ma in questo caso no: trattandosi di un personaggio come l’ex legionario, per di più formalmente indagato in un’altra delicatissima indagine come quella attualmente nelle mani del procuratore aggiunto di Firenze Luca Turco, il tribunale pratese ha respinto il tentativo di «chiudere» del legale di Vigilanti, avvocato Diego Capano, e, accogliendo l’opposizione del pm, ha fissato una nuova udienza, a marzo. A proposito delle armi di Vigilanti, l’avvocato Vieri Adriani ha recentemente presentato un nuovo esposto in procura. Prende in esame una fotografia pubblicata su un quotidiano nel settembre del 1998, sette mesi dopo la morte di Pacciani. Sono i tempi in cui Vigilanti è salito alla ribalta delle cronache per la clamorosa notizia dell’eredità dello zio d’America, una «fake news» che potrebbe essere stata inventata per celare qualcos’altro visto che ai carabinieri del Ros, questa storia non risulterà. Ma i giornalisti, dopo la comparsata in tv da Enrico Ruggeri lo cercano, lui non si nasconde e anzi, si mette in posa davanti al fotografo con in mano una pistola piuttosto rara, una «High Standard» che, secondo Vieri Adriani, spara proiettili Winchester serie H. Quelli balistici, non sono aspetti secondari dell’ultima inchiesta. La procura di Firenze, prima di arrivare al dunque tra archiviazione o richiesta di rinvio a giudizio, ha dato tutto in mano a un esperto: ha chiesto accertamenti minuziosi, anche per stabilire, alla luce delle nuove tecnologie, se le traiettorie degli spari lascino pensare che abbia sparato sempre lo stesso soggetto o sempre una sola pistola: la Beretta calibro 22.

Mostro di Firenze: il mistero della Beretta calibro 22, scrive lunedì 09 aprile 2018 su "Nove-Firenze" Antonio Lenoci — Giornalista. Nato nel 1979 a Firenze è stato speaker radiofonico a Radio Rosa Toscana. Ha collaborato con Testate online della Toscana. Corrispondente da Firenze per Radio Bruno, network radiofonico nazionale. Nell'estate 2017 la grande novità dopo anni di silenzio: nell'indagine entrano altri nomi. Non sono nomi nuovi, uno di questi era già stato attenzionato tra gli anni '80 e '90.  Nelle ultime ore, a seguito di questo nuovo filone, aperto dopo l'avvicendamento tra lo storico pm ed il nuovo magistrato inquirente sarebbero emerse interessanti valutazioni sull'arma. Rischia di venire meno dunque quella che fin dall'inizio sembrava essere l'elemento certo, assente, ma certo. Su Radio Fiesole con Benedetta Rossi ed Alessio Nonfanti ne parlano il regista, documentarista e scrittore Paolo Cochi, l'autore e disegnatore Giuseppe Di Bernardo ed il promoter Beretta Graziano Giorgi. Le notizie sul caso certificate dalla Procura sono state ben poche nell'intero corso delle indagini, molte di più sono state e continuano ad essere le indiscrezioni e le valutazioni su singoli elementi. Il Mostro di Firenze, appellativo con il quale è identificato l'autore di 16 omicidi commessi tra gli anni '60 ed '80 nell'area fiorentina, è da sempre identificato nell'uso di una Beretta Calibro 22 cercata per anni non solo in Italia attraverso perquisizioni e registri, spuntata a fasi alterne in depositi giudiziari e località varie salvo smentita dei periti. Risulta ad oggi mai trovata. Oggi si prospetta l'ipotesi che quella pistola potrebbe non essere una Beretta, ma un'altra arma sempre Calibro 22, oppure potrebbe essere la stessa arma modificata. Gli ospiti di Radio Fiesole, invitando a riflettere tornando con la mente alle settimane immediatamente successive agli ultimi omicidi, sottolineano solo alcune delle innumerevoli incongruenze che hanno caratterizzato la ricerca della verità. Persino la datazione degli omicidi, oggi, può essere messa in discussione e lo spiega Cochi, autore di "Mostro di Firenze. Al di là di ogni ragionevole dubbio", regista di un noto documentario e di un profilo youtube considerato una enciclopedia sul caso. Cochi ha ripercorso gli atti i contributi fotografici dell'epoca, offrendo un quadro della vicenda che ha portato molti a rileggere l'intera vicenda con uno sguardo critico nel quale sembra essere mancata quella "visione a 360 gradi" che marchia oggi positivamente il suo lavoro di inchiesta. Giuseppe Di Bernardo, che ha studiato i duplici omicidi in preparazione alla realizzazione di un romanzo grafico o graphic novel ispirata ai delitti del Mostro, ha sviluppato una teoria che confessa averlo fatto vacillare alla luce degli aggiornamenti dell'estate 2017, quando la fantasia rischiava di entrare nel mondo reale. Per Di Bernardo, che durante la trasmissione offre numerose "coincidenze" legate al Mostro, sono molto importanti ambientazioni e personaggi, amicizie, frequentazioni e storie personali, che dovrebbero essere osservate in base a quelle che erano anche le consuetudini dell'epoca. L'esperto Beretta, Giorgi, intervenendo sul caso specifico dei proiettili e dell'arma si sofferma sulla tesi della Beretta Calibro 22 modificata attraverso il cambio della canna, che ai fini delle risultanze balistiche contribuisce a 'segnare' l'ogiva imprimendole quelle striature caratteristiche necessarie al confronto. Un’operazione facile da compiere? Secondo l'esperto sì, specie per un appassionato di armi, soprattutto su un'arma che all'epoca era comune nel tiro a segno. Negli anni '80 il cerchio sembra stringersi, nei delitti del Mostro rientra anche un duplice omicidio del 1968, tra identikit, esperti internazionali e squadre speciali. L'elemento di contatto è quella pistola. Il profilo del killer viene analizzato, così come tutti i reperti collegati al caso, dai proiettili ai reperti rinvenuti nei luoghi, comprese anche lettere, francobolli, e tutti gli elementi che avrebbero potuto contenere tracce utili. Allora o nel futuro, quando le indagini avrebbero potuto contare sulle nuove tecnologie. Sul caso l'interesse non diminuisce, crescono anche le ipotesi ed entrano nella storia congetture che si scontreranno con le aule di giustizia, dove si procede contro tre persone in particolare. Si tratta di un caso ancora irrisolto sul quale le indagini non sono mai state chiuse. Ancora oggi, primavera del 2018, la richiesta dei familiari delle vittime è arrivare ad una svolta non solo giornalistica, e sarebbe l'ennesima, ma anche tecnica: chiudere quel fascicolo, diventato ad oggi un romanzo, con la verità.

Mostro di Firenze, fenomenologia di un'inchiesta mostruosa. Quel che resta della questione, giuridicamente ferma al 2000 con due condanne definitive, gira a vuoto e da allora ha provocato solo danni, scrive il 28 luglio 2017 Maurizio Tortorella su Panorama. Ci mancava soltanto il legionario ottantasettenne e presunto mitomane. L’inchiesta senza fine sul Mostro di Firenze, ormai, è irrimediabilmente diventata un mostro d’inchiesta. L’indagine sui 16 omicidi che dal 1968 al 1985 hanno terrorizzato le campagne fiorentine e sconvolto l’Italia non finisce mai di stupire. Adesso la procura di Firenze ha ri-messo sotto la lente un vecchio personaggio, che aveva già sfiorato due volte: Giampiero Vigilanti, pratese, un passato nella Legione straniera di cui gli sono rimasti i classici virili tatuaggi sul braccio destro. Nel settembre 1985, proprio all’epoca dell’ultimo duplice omicidio, gli perquisirono la casa grazie a un’accusa anonima. Poi, nel 1994, la polizia tornò da lui e gli trovò 176 proiettili calibro 22, compatibili con quelli usati dal Mostro. Ne uscì pulito tutte e due le volte. Oggi il punto pare riguardare la scomparsa di quattro pistole, tra le quali una Beretta calibro 22, il cui furto Vigilanti giura di avere regolarmente denunziato nel 2013: "Ci andavo a sparare al poligono e i magistrati le avevano anche viste" sostiene. Le cronache degli ultimi giorni, ingenerosamente, si sono tutte concentrate su una sua comparsata in tv, nel 2005, quando aveva raccontato di un’evanescente eredità americana e della sua dura prigionia in Viet-Nam, alla Rambo. Si legge addirittura di una pista che legherebbe i 16 poveri morti alla "strategia della tensione" neofascista. Sembra un po’ tanto. Si vedrà. Certo è che quel che resta dell’inchiesta sui delitti del Mostro, giuridicamente ferma al 2000 con le due condanne definitive di Mario Vanni e di Giancarlo Lotti (rispettivamente all’ergastolo e a 26 anni di reclusione), gira a vuoto e da allora ha provocato solo danni. Tra una perquisizione e l’altra, era emerso il nome di Jean-Claude Falbriard, un pittore francese ospite della villa fino al 1997: vi avrebbe lasciato quadri inquietanti, con donne mutilate, e una pistola. A quel punto, Falbriaid era stato ricercato per mari e per monti, e i mass media l’avevano indicato come "il tassello mancante". Invece sarebbe bastato poco per evitargli la gogna: nei 17 anni degli omicidi non era mai entrato in Italia. Rintracciato, interrogato, era stato indagato per… porto abusivo d’arma. Poi era stato prosciolto, ma i giornali l’avevano trasformato in “supertestimone". Infine era sparito nel nulla. Nell’ottobre 2001, nel bosco fiorentino di San Casciano, la procura aveva annunciato di avere individuato la "stanza segreta", un capanno dove sarebbero stati consumati i riti satanici del Mostro. Nella «cripta", in realtà, gli agenti avevano trovano più che altro uno spettacolo da Halloween: pipistrelli di plastica, scheletri di cartone, candeline. Gli inquirenti, però, non s’erano arresi: le scritte sui muri della cripta (era stato disposto addirittura di staccare l’intero blocco d’intonaco) erano state confrontate con una frase apparsa sopra un muro del centro di Firenze: "Pacciani è innocente, arrestate…". Purtroppo il resto della scritta era stato cancellato. Insomma, un altro buco nell’acqua. A lanciare l’improbabile "pista satanica", in quel lontano 2001, era stata Gabriella Pasquali Carlizzi, assistente sociale nelle carceri, scrittrice e autrice di siti internet. Carlizzi aveva rivelato di essere stata presa molto sul serio dagli inquirenti, tanto da essere stata interrogata "una novantina di volte". Va detto che in rete restano tracce di suoi dialoghi anche con la Madonna di Fatima, e delle sue suggestive soluzioni per ogni mistero che abbia avvelenato la storia d’Italia. Va aggiunto che nel 2000 Carlizzi ha anche subito una condanna (in primo grado) a due anni di reclusione per calunnia nei confronti dello scrittore Alberto Bevilacqua, un’altra vittima di questa storiaccia infinita: nel 1995 la donna aveva più volte, caparbiamente accusato l’autore della Califfa di essere il vero Mostro. Altri inquirenti si sono invece affezionati alla tesi del "secondo livello" e sospettano l’esistenza di mandanti: medici maniaci, che avrebbero pagato gli assassini per procurarsi macabri feticci sessuali da usare per il loro piacere o per messe nere. Un’indagine era decollata nel gennaio 2004, contro Francesco Calamandrei, farmacista di San Casciano Val di Pesa. S’ipotizzava un suo legame con il medico perugino Francesco Narducci, il cui cadavere nel 1985 era stato trovato nel lago Trasimeno ed era finito al centro di un altro mistero. Narducci era stato coinvolto nella storia del Mostro come presunto «conservatore» dei feticci, mentre s’ipotizzava che Calamandrei fosse tra i mandanti dei delitti. Il processo, durante il quale il figlio del farmacista era morto per un’overdose, è finito con un’assoluzione piena nel maggio 2008. Anche Calamandrei è morto, di crepacuore, nel 2012. Nel 2004, infine, era finito nei guai Mario Spezi, il migliore dei giornalisti “mostrologhi” fiorentini, e collaboratore anche di Panorama. Buffo, era stato proprio Spezi a fare i primi collegamenti tra i delitti del Mostro: senza di lui, forse, l’inchiesta sarebbe arrivata molto dopo, o forse mai. Il giornalista s’era trasformato nel più duro critico dell’inchiesta. Era convinto che le piste sataniche e sui medici mandanti fossero folklore: credeva nell’omicida seriale e solitario. Spezi era stato intercettato, perquisito e indagato per favoreggiamento. A casa sua gli agenti avevano sequestrato di tutto, perfino una "piramide tronca in pietra a base esagonale, occultata dietro la porta della sala da pranzo". Dicevano fosse simile a un oggetto rinvenuto anni prima, sulla scena di un delitto del Mostro, e che rimandasse a un rito satanico. "Ma stava dietro la porta perché è un comune fermaporta", rideva Spezi. Nel 2006 la procura di Perugia l’aveva arrestato per depistaggio e per concorso nell’omicidio del medico Narducci. Era rimasto in prigione 23 giorni, prima che la Cassazione lo liberasse e lo assolvesse in pieno. È morto anche lui, un anno fa, di cancro.

Si parla di insabbiamenti? Mostro di Firenze, perquisiti gli inquirenti. Tutto è partito da un'accusa di «insabbiamento» risultata infondata, scrive Antonella Mollica su “Il Giornale”. Indagini che si intrecciano e magistrati che si dividono. Sullo sfondo la solita vicenda infinita del Mostro di Firenze con i suoi mille misteri e le pochissime certezze che sembrano frantumarsi ogni volta che un nuovo tassello si aggiunge al mosaico: una doppia perquisizione, effettuata nella Procura di Perugia e negli uffici del Gides, lo speciale gruppo investigativo che si occupa dei delitti delle coppiette che insanguinarono le colline di Firenze dal 1968 al 1985. È stata la Procura di Firenze ad aprire l’ennesimo fascicolo su uno dei mille rivoli che si dipanano da quelle morti che ancora aspettano giustizia. Nella sede del Gides si è presentato il pm Gabriele Mazzotta in persona, accompagnato dal capo della squadra mobile Filippo Ferri e da uomini della sezione di polizia giudiziaria della polizia. Una perquisizione che è durata quasi otto ore e che è servita a mettere i sigilli ai documenti che sono conservati negli uffici, frutto di anni e anni di lavoro sull’indagine più lunga che la storia giudiziaria italiana conosca. In contemporanea il pm Luca Turco, accompagnato da altri uomini della sezione di polizia giudiziaria, si è presentato alla Procura di Perugia nell’ufficio del pm Giuliano Mignini, titolare dell’inchiesta sulla morte del medico Francesco Narducci, coinvolto nell’inchiesta sul Mostro di Firenze. Anche lì è stata acquisita diversa documentazione che ora dovrà essere passata al setaccio. L’inchiesta della Procura di Firenze è solo l’ultima tappa di una vicenda che parte da lontano: dalla registrazione di una conversazione avvenuta nel 2002 tra Michele Giuttari, capo del Gides, e il pm Paolo Canessa, titolare dell’inchiesta sul Mostro. Canessa di quella registrazione non ha mai saputo nulla fino a quando il pm Mignini non ha inviato un esposto a Genova contro il procuratore capo di Firenze Ubaldo Nannucci. In quell’esposto si puntava il dito contro Nannucci, accusandolo di voler rallentare le indagini sul Mostro. A sostegno dell’accusa si riportava una frase attribuita a Canessa («quello non è un uomo libero») riferita a Nannucci. Il Tribunale di Genova, su richiesta della stessa procura, ha archiviato il procedimento contro Nannucci: nessun tentativo di insabbiamento. «Tutte le accuse contro Nannucci - hanno scritto il procuratore capo di Genova Giancarlo Pellegrino e il sostituto Francesco Pinto - partono dalla presunzione che le indagini sui mandanti degli omicidi si identifichino con Giuttari, unico baluardo contro insabbiamenti, ostacoli, depistaggi, posti in essere da magistrati, giornalisti e poteri forti». La Procura di Genova, nell’archiviare la posizione di Nannucci, affidò una perizia sulla cassetta: la conclusione fu che quella frase non era stata pronunciata da Canessa. Per questo Giuttari e due suoi collaboratori che effettuarono la trascrizione di quella conversazione sono finiti sotto inchiesta per falso. Ma la storia non è finita così: Giuttari è passato all’attacco e ha denunciato alla Procura di Torino i pm Canessa e Pinto e lo stesso perito di Genova: «Quella consulenza è incompleta, superficiale e fortemente inesatta». In tutto questo vortice di denunce e controdenunce si inserisce l’inchiesta che ha portato alle perquisizioni: il 19 maggio scorso il perito era stato convocato dal pm Giuliano Mignini. Una procedura quantomeno insolita questa su cui la Procura di Firenze ora vuol vedere chiaro.

I pm di Perugia Giuliano Mignini e il poliziotto-scrittore Michele Giuttari sono stati condannati dal tribunale di Firenze rispettivamente a un anno e quattro mesi e un anno e sei mesi con l'accusa di abuso d'ufficio in concorso in un'inchiesta collegata alle indagini perugine legate al mostro di Firenze, scrive “Il Corriere della Sera”. Mignini è stato il magistrato titolare a Perugia dell'inchiesta sull'omicidio di Meredith Kercher: la vicenda della studentessa inglese non ha comunque niente a che fare con il processo che si è chiuso ora. Michele Giuttari è stato a capo del Gides (gruppo investigativo delitti seriali) che ha condotto con le procure fiorentina e perugina le indagini sul mostro di Firenze. L'abuso d'ufficio per il quale sono stati condannati riguarda una serie di indagini svolte su giornalisti e funzionari delle forze dell'ordine per, secondo l'accusa, condizionare le loro attività riguardo l'inchiesta perugina sulla morte del medico Francesco Narducci che sarebbe collegata alle vicende del mostro di Firenze. Il pm fiorentino titolare delle indagini, Luca Turco, aveva chiesto condanne a 10 mesi per Mignini e a due anni e mezzo per Giuttari. Secondo la procura di Firenze, Giuttari e Mignini avrebbero svolto indagini illecite - con intercettazioni o con l'apertura di fascicoli - su alcuni funzionari di polizia (come l'ex questore di Firenze Giuseppe De Donno e l'ex direttore dell'ufficio relazione esterne Roberto Sgalla) e giornalisti (come Vincenzo Tessandori, Gennaro De Stefano e Roberto Fiasconaro) con intento punitivo o per condizionarli nel loro lavoro, perché avrebbero tenuto atteggiamenti critici riguardo il comportamento di Giuttari con la stampa o riguardo l'inchiesta sulla morte del medico perugino Francesco Narducci. Mignini e Giuttari sono stati invece assolti «perché il fatto non sussiste» dall'accusa di abuso di ufficio (e Mignini anche di favoreggiamento nei confronti di Giuttari), relativa ad accertamenti paralleli a quelli della procura di Genova, che stava indagando Giuttari per falso, in merito a una sua registrazione di un colloquio fra lui e il pm fiorentino Paolo Canessa. All'epoca Giuttari era a capo del Gides, mentre Canessa coordinava la parte toscana dell'inchiesta sul mostro di Firenze. «Sono sconcertato» commenta il pm perugino Mignini. A chi gli chiedeva se la sentenza possa gettare un'ombra sul lavoro svolto sul caso Meredith, Mignini ha risposto ricordando che a Perugia «ci sono stati giudici che hanno giudicato sul caso Meredith. La sentenza di oggi, invece, riguarda me». Il difensore di Mignini, Mauro Ronco, spiega che «Giuttari e Mignini sono stati assolti dalla parte principale del processo e, di fatto, questo smentisce tutto l'impianto accusatorio». A chi gli chiedeva se l'interdizione dai pubblici uffici - come pena accessoria - possa avere effetti sulla professione di Mignini, Ronco ha ricordato che «ovviamente, la pena è sospesa per la condizionale e questo vale anche per l'interdizione».

Mignini è stato il magistrato titolare a Perugia dell’inchiesta sull’omicidio di Meredith.

Giuttari, già capo del gruppo investigativo delitti seriali, che lavorò fianco a fianco con la procura fiorentina e quella perugina è sempre in tv a parlare dei delitti eccellenti.

Nel proseguo la Corte d’Appello di Firenze ha dichiarato l’incompetenza territoriale fiorentina per quanto riguarda il procedimento a carico del pm di Perugia Giuliano Mignini e il poliziotto scrittore Michele Giuttari, scrive “Umbria 24”. La Corte ha quindi annullato la sentenza di primo grado con cui nel gennaio del 2010 Mignini e Giuttari vennero condannati rispettivamente ad un anno e 4 mesi e a 6 mesi per abuso d’ufficio in concorso. La vicenda è collegata alle indagini perugine legate al mostro di Firenze. La Corte d’Appello ha quindi disposto la trasmissione degli atti alla Procura di Torino, competente perché fra le persone offese nel procedimento fiorentino c’è un magistrato di Genova. Mignini è stato il magistrato titolare a Perugia dell’inchiesta sulla morte del medico Francesco Narducci, che la Procura umbra riteneva collegata alle vicende del mostro di Firenze. Giuttari era il poliziotto che si occupava delle indagini. L’abuso di ufficio per il quale erano stati condannati riguarda una serie di indagini su giornalisti e funzionari delle forze dell’ordine svolte, secondo l’accusa, per condizionarli, perché avevano tenuto atteggiamenti critici riguardo l’inchiesta sulla morte di Narducci. Mignini è stato il magistrato titolare a Perugia dell’inchiesta sull’omicidio di Meredith Kercher. Giuttari, andato in pensione dalla polizia, adesso svolge l’attività di avvocato-investigativo ed è uno scrittore di gialli. Le reazioni «È una decisione obbligata. Fin all’inizio non potevano trattare questo procedimento a Firenze. Questo trasferimento doveva esserci prima». Lo ha detto il pm Giuliano Mignini commentando la sentenza d’appello che ha annullato la condanna del magistrato in primo grado e ha ordinato il trasferimento degli atti da Firenze a Torino. Mignini, rispondendo ai giornalisti, ha poi confermato che il reato (abuso d’ufficio) potrebbe cadere in prescrizione. Con lui è imputato il poliziotto-scrittore Michele Giuttari. Anche per lui c’è stato l’annullamento della condanna di primo grado e la dichiarazione di incompetenza territoriale. «Da investigatore ho un’amarezza – ha detto Giuttari – Questa attività svolta da Firenze bloccò l’indagine perugina sulla morte del medico Francesco Narducci che si riteneva collegata al mostro di Firenze. Vennero sequestrati gli atti di quell’indagine, di fatto bloccandola». A Perugia, il pubblico ministero Giuliano Mignini aspetta le motivazioni con cui il gup Paolo Micheli prosciolse tutti i familiari di Narducci, colpevoli secondo il pm di aver architettato un colossale depistaggio sulla morte del medico perugino.

Quella strana condanna del Pm Giuliano Mignini, scrive Adriano Lorenzoni su Terni in rete. Di fatto bloccate le indagini perugine sui mandanti dei delitti del mostro di Firenze. Nel gennaio del 2010 il Pubblico Ministero di Perugia, Giuliano Mignini e l'ex capo della squadra mobile di Firenze, Michele Giuttari, sono stati condannati dal Tribunale di Firenze con l'accusa di abuso d'ufficio in una inchiesta relativa al filone di indagini perugine collegate a quelle relative ai "mandanti" dei delitti del mostro di Firenze. Secondo la tesi accusatoria Mignini e Giuttari avrebbero intercettato e indagato illecitamente giornalisti e funzionari delle forze dell'ordine per condizionarne la loro attività. Un procedimento anomalo visto che il PM Mignini era stato regolarmente autorizzato dal GIP di Perugia ad avvalersi del mezzo delle intercettazioni per le sue indagini, atti che aveva il dovere di compiere. Un procedimento anomalo perché a condurre le indagini contro Mignini e Giuttari è stata quella stessa Procura della quale il Pm di Perugia, ne aveva indagato il capo, Ubaldo Nannucci. Non a caso il dottor Mignini ha eccepito la incompetenza funzionale di quella Procura a svolgere le indagini ed ha sollevato eccezioni di nullità della sentenza. Sarà la corte d'appello di Firenze il prossimo 22 novembre a decidere sulla questione. Tutto nasce da una registrazione effettuata da Michele Giuttari di un suo colloquio con il sostituto procuratore di Firenze, Paolo Canessa nel quale Canessa afferma che il suo capo non era un uomo libero e confessa di essere stato bloccato da quest'ultimo, cioè dall'allora Procuratore Ubaldo Nannucci in merito alle richieste dello stesso Giuttari relative all'inchiesta sui delitti del mostro di Firenze. Giuttari trasmette la registrazione a Mignini il quale la gira alla Procura di Genova competente ad indagare sui magistrati di Firenze. Il Procuratore Nannucci verrà inquisito per aver rallentato, anzi ostacolato le indagini sul mostro di Firenze. Genova archivierà subito. E' ancora Giuttari a lamentarsi con Mignini per il comportamento del questore di Firenze, De Donno il quale, come disposto dal Ministero dell'interno, avrebbe dovuto provvedere all'istallazione della sala intercettazioni del G.I.DE.S , (gruppo investigativo delitti seriali) dove si erano sistemati Giuttari e i suoi uomini, cosa che non fa. Mignini lo incrimina e manda il fascicolo a Firenze. Viene da chiedersi : dov'è l'abuso d'ufficio? Viene anche da chiedersi il perché di tanto apparente disinteresse nei riguardi delle indagini condotte da Michele Giuttari, laddove non vengono ostacolate. " Non bisogna farle le indagini sui mandanti, perché sono solo illazioni " , una inutile perdita di tempo , si sente dire Giuttari. Sorprendente. Finchè si indagano i compagni di merende, va tutto bene. Va bene Pacciani, va bene Lotti , va bene Vanni. Quando si alza il tiro cominciano a sorgere i problemi. Michele Giuttari viene addirittura sollevato dall'incarico e trasferito. Al PM Mignini viene perquisito l'ufficio e gli vengono sequestrati atti di una indagine in corso, quella sulla morte del medico perugino Francesco Narducci, atti sui quali aveva eccepito il segreto, inutilmente. Anche in questo caso viene da chiedersi perché tanta paura ( a Firenze e a Perugia ) dell'inchiesta sulla morte di Francesco Narducci? Secondo il PM perugino , Francesco Narducci era collegato , in qualche modo, con le vicende del mostro di Firenze. Giancarlo Lotti, uno dei compagni di merende, sostenne che ad un dottore venivano consegnate le parti di corpo femminile amputate, in cambio di denaro. Delitti, quindi, su commissione. Di un dottore. Un dottore, non un farmacista, Francesco Calamandrei, di San Casciano val di Pesa. Tra l'altro , nell'inchiesta è emerso che Calamandrei e Narducci si conoscevano. Narducci morirà in circostanze niente affatto chiare il 13 ottobre del 1985. Annegato nelle acque del lago Trasimeno. Un mese dopo l'ultimo omicidio commesso dal mostro di Firenze. Suicidio si sostenne all'epoca. Una verità assai poco credibile. Tanto che il Gip Marina De Robertis ha archiviato con formula dubitativa l'ipotesi dell'omicidio a determinati indagati ( il giornalista Mario Spezi, il farmacista di San Casciano , Calamandrei e altri ) e ha dichiarato prescritti ma esistenti i reati commessi all'epoca in materia di occultamento e sottrazione di cadavere e di falsificazione di numerosi documenti pubblici. Inoltre, dall'aprile scorso, si attende di conoscere le motivazioni con le quali, a vario titolo, anche con formule dubitative, il Gup, Paolo Micheli, ha assolto una ventina di persone ( anche il padre e il fratello di Narducci ) dalle accuse di falso, associazione per delinquere, omissione di atti di ufficio e occultamento di cadavere. Avverso questa decisione del Gup, Il PM Mignini proporrà , verosimilmente, appello e ricorso non appena verranno depositate le motivazioni che avrebbero dovuto essere depositate il 20 luglio scorso. Gli stessi Mignini e Giuttari sono stati , invece, assolti perché i fatti non sussistono ( e la Procura di Firenze non si è appellata ) dall'accusa di abuso di ufficio ( e Mignini anche dal favoreggiamento nei confronti di Giuttari ) relativamente ad accertamenti cosiddetti paralleli a quelli della Procura di Genova che stava indagando l'ex capo della mobile di Firenze per falso, per via di quella registrazione del colloquio con il sostituto Canessa ( di cui abbiamo parlato precedentemente ) registrazione che , secondo l'accusa, era stata manomessa. Inchiesta, questa, che ha poi portato alla perquisizione dell'ufficio del PM di Perugia e al sequestro di numerosi atti di indagine. Inutile aggiungere che il procedimento a carico di Giuttari e di due poliziotti si è concluso un una sentenza di non luogo a procedere per assoluta insussistenza del fatto, emessa dal GUP genovese Roberto Fenizia. Una condanna " anomala " quella di Giuliano Mignini che, non ha però subito conseguenze disciplinari di alcun tipo. Il procedimento disciplinare è infatti sospeso sino alla definizione del procedimento penale dal quale dipende. e il PM. Mignini ha potuto continuare a svolgere le sue funzioni , anche in processi importantissimi e di rilievo internazionale , come quello relativo alla morte della studentessa inglese, Meredith Kercher.

«La massoneria perugina sapeva che Francesco Narducci, il medico annegato nel lago Trasimeno nell'ottobre 1985, era coinvolto nei delitti del "Mostro di Firenze", ma decise di non far trapelare nulla per evitare che fossero coinvolti tutti». Una nuova testimonianza nell' inchiesta sui mandanti degli omicidi compiuti in Toscana tra il 1968 e il 1985 svela intrecci finora insospettabili, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. E delinea nuove responsabilità di chi avrebbe tentato di nascondere la verità. Sono centinaia i verbali raccolti negli ultimi due anni dai pubblici ministeri umbri e fiorentini che stanno cercando di identificare i componenti della congrega che avrebbe armato la mano dei «compagni di merende». Ma anche di individuare chi provocò la morte del medico perugino. Gli accertamenti svolti sinora portano infatti a escludere che Narducci sia stato vittima di un incidente mentre era in barca, come si era pensato fino a due anni fa. «È stato ucciso - ribadiscono gli inquirenti - e la sua morte è certamente legata agli assassinii delle coppiette». È stato Ferdinando Benedetti, uno storico che ha compiuto un'indagine personale sulla vicenda, a rivelare il ruolo della massoneria, alla quale lui stesso apparterrebbe. E le sue dichiarazioni sono state poi confermate da altre persone che frequentavano la famiglia Narducci. «Il padre del medico - ha raccontato Benedetti - faceva parte della loggia Bellucci e insieme al consuocero si rivolse al Gran Maestro per evitare che fosse effettuata l'autopsia sul cadavere del figlio. So che Francesco Narducci aveva preso in affitto una casa vicino Firenze, nella zona dove sono avvenuti i delitti. Era entrato a far parte di un'associazione segreta denominata "la setta della rosa rossa". Al momento dell'iniziazione era al livello più basso, ma dopo un po' di tempo aveva raggiunto il ruolo di "custode". Già nel 1987 si disse che poteva essere uno dei "mostri" e la massoneria si attivò per sapere la verità. Tra il 1986 e il 1987 ci furono riunioni tra logge diverse e si decise di compiere alcune indagini. Alla fine la loggia accertò che era coinvolto, ma si decise di non far trapelare nulla perché altrimenti c'era il rischio che venissero coinvolti tutti». Tra i testimoni ascoltati dai magistrati c'è anche Augusto De Megni, nonno del bimbo rapito nel 1990, per anni al vertice del Grande Oriente d' Italia. «So che Narducci andava a Firenze - ha confermato - e che frequentava giri poco raccomandabili». Secondo le indagini compiute sinora il dottore potrebbe essere stato il «custode» dei reperti genitali asportati alle vittime. E adesso si sta verificando se possa esserci un nesso tra la sua morte e la spedizione di un lembo di seno di Naudine Mauriot al pubblico ministero Silvia Della Monica. L'omicidio della francese e del suo compagno Jean-Michel Kraveichvili avvenne l'8 settembre agli Scopeti. Recentemente si è scoperto che la coppia era in Toscana per partecipare a pratiche esoteriche e che sarebbe poi rimasta vittima di un rito satanico. Un mese dopo il delitto scomparve il dottor Narducci. Era in ospedale a Perugia e dopo aver ricevuto una telefonata andò via sconvolto. Di lui non si seppe più nulla fino al 13 ottobre, quando il suo cadavere affiorò a circa duecento metri dalla riva. Alcuni testimoni dell' epoca hanno raccontato che aveva numerosi ecchimosi, ma la famiglia si oppose allo svolgimento dell'autopsia. Soltanto due anni fa si è scoperto che i rilievi del medico legale furono effettuati sul corpo di una persona alta almeno cinque centimetri più del dottore. Un'evidente sostituzione sulla quale dovranno adesso fornire spiegazioni alcuni familiari di Narducci e il questore dell' epoca Francesco Trio, tutti indagati per occultamento di cadavere. «Dalle lettere anonime che attribuivano un ruolo a Narducci e ai suoi amici di Firenze come mandanti dei delitti - ha dichiarato ieri Michele Giuttari, capo della squadra investigativa -, siamo passati alle testimonianze dirette. Tanti sapevano e ora hanno parlato».

L’omicidio massonico. Tutti lo vedono, tranne gli inquirenti, scrive il Prof. Paolo Franceschetti. Gli omicidi commessi dalla massoneria seguono tutti un preciso rituale e sono – per così dire - firmati. Dal momento che le associazioni massoniche sono anche associazioni esoteriche, in ogni omicidio si ritrovano le simbologie esoteriche proprie dell’associazione che l’ha commesso; simbologie che possono consistere in simboli sparsi sulla scena del delitto, o nella modalità dell’omicidio, o nella data di esso. Questo articolo è però necessariamente incompleto, nel senso che sono riuscito a capire la motivazione e la tecnica sottesa ad alcuni delitti solo per caso, con l’aiuto di alcuni amici, giornalisti, magistrati o semplici appassionati di esoterismo. Ma devo ancora capire molte cose. La mia intenzione è di fornire però uno spunto di approfondimento a chi vorrà farlo. Evitiamo di ripercorrere i principali omicidi, perché ne abbiamo accennato nei nostri precedenti articoli (specialmente ne“Il testimone è servito” e in quello sul mostro di Firenze). Facciamo invece delle considerazioni di ordine generale. I miei dubbi sul fatto che ogni omicidio nasconda una firma e una ritualità nacquero quando mi accorsi di una caratteristica che immediatamente balza agli occhi di qualsiasi osservatore: tutte le persone che vengono trovate impiccate si impiccano “in ginocchio”, ovverosia con una modalità compatibile con un suicidio solo in linea teorica; in pratica infatti, è la statistica che mi porta ad escludere che tutti si possano essere suicidati con le ginocchia per terra, in quanto si tratta di una modalità molto difficile da realizzare effettivamente. Così come è la statistica a dirci che gli incidenti in cui sono capitati i testimoni di Ustica non sono casuali; ben 4 testimoni moriranno in un incidente aereo, ad esempio, il che è numericamente impossibile se raffrontiamo questo numero morti con quello medio delle statistiche di questo settore. L’altra cosa che mi apparve subito evidente fu la spettacolarità di alcune morti che suscitavano in me alcune domande. Perché far precipitare un aereo, anziché provocare un semplice malore (cosa che con le sostanze che esistono oggi, nonché con i mezzi e le conoscenze dei nostri moderni servizi segreti, è un gioco da ragazzi)? Perché “suicidare” le persone mettendole in ginocchio, rendendo così evidente a chiunque che si tratta di un omicidio? (a chiunque tranne agli inquirenti, sempre pronti ad archiviare come suicidi anche i casi più eclatanti). Perché nei delitti del Mostro di Firenze una testimone muore con una coltellata sul pube? (anche questo caso archiviato come “suicidio”). Perché una modalità così afferrata, ma anche così plateale, tanto da far capire a chiunque il collegamento con la vicenda del mostro? Perché firmare i delitti con una rosa rossa, come nel caso dell’omicidio Pantani, in modo da rendere palese a tutti che quell’omicidio porta la firma di questa associazione? Ricordiamo infatti che Pantani morì all’hotel Le Rose e che accanto al suo letto venne trovata una poesia apparentemente senza senso che diceva: “Colori, uno su tutti rosa arancio come contenta, le rose sono rosa e la rosa rossa è la più contata”. Ricordiamo anche che Pantani ebbe un incidente (per il quale fece causa alla città di Torino) proprio nella salita di Superga, ovverosia la salita dove sorge la famosa cattedrale che fu eretta nel 1717, data in cui la massoneria moderna ebbe il suo inizio ufficiale. Se questi particolari non dicono nulla ad un osservatore qualsiasi, per un esperto di esoterismo dicono tutto. Tra l’altro la collina di Superga è quella ove si schiantò l’aereo del Torino Calcio, ove morì un’intera squadra di calcio con tutto il personale al seguito. Altra coincidenza inquietante, a cui pare che gli investigatori non abbiano mai fatto caso. Perché far morire due testimoni di Ustica in un incidente come quello delle frecce tricolori a Ramstein, in Germania, destando l’attenzione di tutto il mondo? La domanda mi venne ancora più forte il giorno in cui con la mia collega Solange abbiamo avuto un incidente di moto. Con due moto diverse, a me è partito lo sterzo e sono finito fuori strada; mi sono salvato per un miracolo, in quanto l’incidente è capitato nel momento in cui stavo rallentando per fermarmi e rispondere al telefono; Solange, che fortunatamente è stata avvertita in tempo da me, ha potuto fermarsi prima che perdesse la ruota posteriore. Ora, è ovvio che un simile incidente – se fossimo morti - avrebbe provocato più di qualche dubbio. Magari a qualcuno sarebbe tornato in mente il caso dei due fidanzati morti in un incidente analogo qualche anno fa: Simona Acciai e Mauro Manucci. I due fidanzati morirono infatti in due incidenti (lui in moto, lei in auto) contemporanei a Forlì. Nel caso nostro, due amici e colleghi di lavoro morti nello stesso modo avrebbero insospettito più di una persona e sarebbero stati un bel segnale per chi è in grado di capire: sono stati puniti. Per un po’ di tempo pensai che queste modalità servivano per dare un messaggio agli inquirenti: firmando il delitto tutti quelli che indagano, se appartenenti all’organizzazione, si accorgono subito che non devono procedere oltre. Inoltre ho pensato ci fosse anche un altro motivo. Lanciare un messaggio forte e chiaro di questo tipo: inutile che facciate denunce, tanto possiamo fare quello che vogliamo, e nessuno indagherà mai realmente. Senz’altro queste due motivazioni ci sono. Ma ero convinto che ci fosse anche dell’altro, specie nei casi in cui la firma è meno evidente. La risposta mi è arrivata un po’ più chiara quando ho scoperto che Dante era un Rosacroce (dico “scoperto” perché non sono e non sono mai stato un appassionato di esoterismo). Ora la massoneria più potente non è quella del GOI, ma è costituita dai Templari, dai Rosacroce e dai Cavalieri di Malta. E allora ecco qui la spiegazione dell’enigma: la regola del contrappasso. Nell’ottica dei Rosacroce, chi arriva al massimo grado di questa organizzazione, ha raggiunto la purezza della Rosa. Nella loro ottica denunciare uno di loro, o perseguirlo, è un peccato. E il peccato deve essere punito applicando la regola del contrappasso. Quindi: volevi testimoniare in una vicenda riguardante un aereo caduto? Morirai in un incidente aereo. Volevi testimoniare in un processo contro il Mostro di Firenze? Morirai con l’asportazione del pube, cioè la stessa tecnica usata dal Mostro sulle vittime. La regola del contrappasso è evidente anche ad un profano nel caso di Luciano Petrini, il consulente informatico che stava facendo una consulenza sull’omicidio di Ferraro, il testimone di Ustica trovato “impiccato” al portasciugamani del bagno. Petrini morirà infatti colpito ripetutamente da un portasciugamani. Nel mio caso e quello della mia collega il “peccato” consiste invece nell’aver denunciato determinate persone appartenenti alla massoneria (in particolare quella dei Rosacroce). Per colmo di sventura poi andai a fare l’esposto proprio da un magistrato appartenente all’organizzazione (cosa che ovviamente ho scoperto solo dopo gli incidenti, decriptando la lettera che costui mi inviò successivamente). Che è come andare a casa di Provenzano per denunciare Riina. Nel caso di Fabio Piselli, invece, il perito del Moby Prince che doveva testimoniare riguardo alla vicenda dell’incendio capitato al traghetto, costui è stato stordito e messo in un’auto a cui hanno dato fuoco, forse perché il rogo dell’auto simboleggiava il rogo della nave. Talvolta invece il simbolismo è più difficile da decodificare e si trova nelle date, o in collegamenti ancora più arditi, siano essi in casi eclatanti, o in banali fatti di cronaca. Nel caso del giudice Carlo Palermo che il 02 aprile del 1985 tentarono di uccidere con un’autobomba a Pizzolungo (Trapani). Il giudice Palermo era stato titolare di un’ampia indagine sul traffico di armi ed aveva indagato sulla fornitura di armi italiane all’Argentina durante la guerra per le isole Falkland, guerra scoppiata proprio il 02 aprile 1982 con l’invasione inglese delle isole. L’autobomba scoppiò quindi nella stessa data, e tre anni dopo (tre è un numero particolarmente simbolico). Ed ancora per quanto riguarda l’omicidio di Roberto Calvi. Come ricorda il giudice Carlo Palermo: “Nella inchiesta della magistratura di Trento un teste (Arrigo Molinari, iscritto alla P2), dichiarò che Calvi – attraverso le consociate latino-americane del Banco Ambrosiano – aveva finanziato l’acquisto, da parte dell’Argentina, dei missili Exocet e in definitiva l’intera operazione delle isole Falkland”. I primi missili Exocet affondarono due navi inglesi (la Hms Sheffield e Atlantic Conveyor). Il 18 giugno 1982 Roberto Calvi fu trovato morto impiccato a Londra sotto il ponte dei frati neri (nome di una loggia massonica inglese). Inoltre il ponte era dipinto di bianco ed azzurro che sono i colori della bandiera argentina. Nel caso del delitto Moro la scena del delitto è intrisa di simbologie, dal fatto che sia stato trovato a via Caetani (e Papa Caetani era Papa Bonifacio VIII, che simpatizzava per i Templari e a cui mossero le stesse accuse rivolte a quest’ordine) alla data del ritrovamento, al fatto che sia stato trovato proprio in una Renault 4 Rossa. Se Renault Rossa sta per Rosa Rossa, la cifra 4 farebbe riferimento al quatre de chiffre (ma forse anche al numero di lettere della parola “rosa”). Il mio articolo termina qui. Non voglio approfondire per vari motivi. In primo luogo perché non sono un appassionato di esoterismo e scendere ancora più a fondo richiederebbe uno studio approfondito e molto tempo a disposizione, che io non ho. Il mio articolo è dettato invece dalla voglia di indurre il lettore ad approfondire. E dalla voglia di dire a chiunque che molti misteri d’Italia, non sono in realtà dei misteri, se si sa leggere a fondo nelle pieghe del delitto. La conoscenza approfondita dell’esoterismo e del modo di procedere delle associazioni massoniche garantirebbe agli inquirenti, il giorno che prenderanno coscienza del fenomeno, un notevole miglioramento dal punto di vista dei risultati investigavi. Questo consentirebbe anche di capire alcuni meccanismi della politica italiana, che spesso nelle loro simbologie si rifanno a queste organizzazioni. La croce della democrazia Cristiana, ad esempio, probabilmente non è altro che la Croce templare; mentre la rosa presente nel simbolo di molti partiti è probabilmente nient’altro che la rosa dei RosaCroce. Quando dico queste cose mi viene risposto spesso che la rosa della “Rosa nel pugno” è in realtà il simbolo dei radicali francesi. E io rispondo: appunto, il simbolo dei RosaCroce, che non è un’organizzazione italiana, ma internazionale. E che non ricorre solo per i radicali ma anche per i socialisti e per altri partiti di destra. Questo consentirebbe di capire, ad esempio, il significato del cacofonico nome “Cosa Rossa” che si voleva dare alla Sinistra Arcobaleno; un nome così brutto probabilmente non è un caso. Secondo un mio amico inquirente potrebbe derivare da Cristian Rosenkreuz, il mitico fondatore dei RosaCroce. Mentre la Rosa Bianca potrebbe fare riferimento alla guerra delle due rose, in Inghilterra; guerra che terminò con un matrimonio tra Rosa bianca e Rosa Rossa. Al lettore appassionato di esoterismo il compito di capire il significato delle varie morti che qui abbiamo solo accennato. Non ho ancora capito, ad esempio, il perché dei cosiddetti “suicidi in ginocchio”. Secondo un mio amico le gambe piegate trovano un parallelismo con l’impiccato del mazzo dei tarocchi, che è sempre raffigurato con una gamba piegata. Era la punizione riservata un tempo al debitore, che veniva appeso in quel modo affinchè tutti potessero vedere la sua punizione e potessero deriderlo. E infatti, tutti quelli che vedono un suicidio in ginocchio capiscono che si trattava di un testimone scomodo e che si tratta di un omicidio. Tutti, tranne gli inquirenti.  (Io speriamo che non mi suicido).

Il Mostro di Firenze: quella piovra che si insinua nello stato, continua il Prof. Paolo Franceschetti. Una strage di stato mai chiamata come tale.

Premessa. Ho deciso di scrivere questo articolo dopo la vicenda del perito nella vicenda Moby Prince, sfuggito per miracolo alla morte; qualche giorno fa l’uomo, dopo essere stato narcotizzato da 4 persone incappucciate è stato poi messo in un auto a cui hanno dato fuoco. Si è salvato per un pelo, essendosi risvegliato in tempo dal narcotico. L’incidente è identico a molti altri capitati a testimoni di processi importanti della storia d’Italia. Non tutti però sanno che gli stessi identici incidenti sono capitati a molti dei testimoni nella vicenda del mostro di Firenze. Nella vicenda del mostro di Firenze è stato scritto tanto. E i dubbi sono tanti. Pacciani era davvero colpevole? C’erano veramente dei mandanti che commissionavano gli omicidi? Pochi si sono occupati invece di un aspetto particolare di questa vicenda: i depistaggi, le coperture eccellenti, le morti sospette. La vicenda del mostro, in effetti, per anni è stata considerata come un giallo in cui occorreva trovare il serial killer. In realtà la vicenda può essere guardata da una prospettiva assolutamente diversa, cioè quella tipica di tutte le stragi di stato italiane: l’ostinato occultamento delle prove affinché non si giunga alla verità, grazie al coinvolgimento della massoneria e dei servizi segreti; l’inefficienza degli apparati statali nel reprimere queste situazioni; l’impreparazione culturale quando si tratta di affrontare questioni che esulano da un nomale omicidio o rapina in banca e si toccano temi esoterici. Ripercorriamo quindi le tappe della vicenda per poi trarre le nostre conclusioni. Con la dovuta avvertenza che il nostro articolo non è volto a individuare nuove piste; non vogliamo discutere se Pacciani fosse o no colpevole, se il mostro fosse uno solo o fosse un gruppo organizzato, se dietro ai delitti del mostro ci sia la Rosa Rossa, come si è ipotizzato, o altre sette sataniche. Vogliamo analizzare la cosa dal punto di vista prettamente giuridico, evidenziando alcuni dati che nessuno finora ha abbastanza trattato.

Il processo Pacciani. Dal 1968 al 1985 vengono uccise otto coppie di giovani nelle campagne di Firenze. In 4 di questi duplici omicidi vengono prelevate delle parti di cadavere, seni e pube in particolare. Ricordiamoci questo particolare del pube, perché lo riprenderemo in seguito. La vera e propria caccia al mostro comincia dopo il terzo omicidio, quando si capisce che dietro ad essi c’è la stessa mano. Dopo errori giudiziari, e vicende varie, si arriva all’incriminazione di Pietro Pacciani nel 1994. Appare chiaro che Pacciani è colpevole, o perlomeno che è gravemente coinvolto in questi omicidi. Gli indizi infatti sono gravi, precisi e concordanti: in particolare lo inchiodano il ritrovamento di un bossolo di pistola nel suo giardino, inequivocabilmente proveniente dalla pistola del mostro (una beretta calibro 22); l’asta guidamolla della pistola del Mostro, inviata agli investigatori avvolta in un pezzo di panno identico a quello poi trovato in casa Pacciani; e soprattutto un portasapone e un blocco da disegno, di marca tedesca, che verrà riconosciuto come appartenente alla coppia tedesca uccisa dal mostro. C’era poi un biglietto trovato in casa sua, con scritto “coppia” e un numero di targa corrispondente a quello di una coppia uccisa. Le intercettazioni telefoniche ed ambientali poi fecero il resto, mostrando che Pacciani mentiva, celando agli investigatori diverse cose importanti. Eppure il processo fa acqua da tutte le parti. Tante cose, troppe, non quadrano in quel processo. Non quadra il movente, perché Pacciani – benché violento e benché in passato avesse già ucciso, per giunta con modalità che a tratti ricordano quelle di alcuni delitti - non sembra il ritratto del serial killer. Non quadrano alcuni particolari (ad esempio le perizie stabiliranno che l’uomo che ha sparato doveva essere alto almeno un metro e ottanta, mentre Pacciani è alto molto meno. Inoltre durante il processo alcuni dei suoi amici mentono palesemente per coprirlo, sembrando quasi colludere con lui. Perché mentono? In primo grado Pacciani verrà condannato. In secondo grado verrà assolto. L’impianto accusatorio, in effetti, era abbastanza fragile. Però proprio il giorno prima della sentenza di secondo grado, la procura di Firenze riesce a trovare nuovi testimoni (quattro) che inchiodano Pacciani e soprattutto riescono a spiegare il motivo di alcune incongruenze. Due di questi testimoni sono infatti complici di Pacciani e, autoaccusandosi, svelano che in realtà quei delitti erano commessi in gruppo. Ma la Corte di appello di Firenze decide di non sentire questi testimoni, e assolve Pacciani. La sentenza verrà annullata dalla Cassazione, ma nel frattempo Pacciani muore in circostanze poco chiare. Apparentemente muore di infarto, ma Giuttari, il commissario che segue le indagini per la procura di Firenze, sospetta un omicidio.

Il caso Narducci. Nel 2002 l’indagine sul mostro si riapre, ma a Perugia. Per capire come e perché si riapre però dobbiamo fare un passo indietro. Il 13 ottobre del 1985 viene trovato nel lago Trasimeno il corpo di un giovane medico perugino, Francesco Narducci. Il caso viene archiviato come un suicidio, anche se la moglie non crede a questa versione dei fatti. E sono in molti a non crederlo. Anzi, da subito alcuni giornali ipotizzano un coinvolgimento del Narducci nei fatti di Firenze. Nel 2002 la procura di Perugia, intercettando per caso alcune telefonate, sospetta che il medico Perugino sia stato assassinato e fa riesumare il cadavere. Il cadavere riesumato ha abiti diversi rispetto a quelli indossati dal cadavere nel 1985. Altri, numerosi e gravi indizi, nonché le testimonianze della gente che quel giorno era presente al ritrovamento, portano a ritenere che il cadavere ripescato allora non fosse quello di Narducci, e che solo in un secondo tempo sia stata riposta la salma del vero Narducci al posto giusto. Indagando sul caso, il PM di Perugia, Mignini, scopre che il giorno del ritrovamento le procedure per la tumulazione furono irregolari; che quel giorno sul molo convogliarono diverse autorità, tutte iscritte alla massoneria, come del resto era iscritto alla massoneria il padre del medico morto e il medico stesso. E si scopre che il Narducci era probabilmente coinvolto negli omicidi del mostro di Firenze. Anzi, forse era proprio lui che, in alcune occasioni, asportò le parti di cadavere. Le indagini portano ad ipotizzare una pluralità di mandanti coinvolti negli omicidi del mostro, che commissionavano questi omicidi per poi utilizzare le parti di cadavere per alcuni riti satanici. In particolare, il Lotti confessa che questi omicidi venivano pagati da un medico. E con un accertamento sulle finanza di Pacciani verranno trovati capitali per centinaia di milioni, di provenienza assolutamente inspiegabile. Vengono mandati 4 avvisi di garanzia a 4 persone, tra cui il farmacista di San Casciano Calamandrei, un medico e un avvocato, che sarebbero i mandanti dei delitti del mostro di Firenze. Mentre per occultamento di cadavere, sviamento di indagini e altri reati minori (che inevitabilmente andranno in prescrizione) vengono rinviate a giudizio il padre di Ugo Narducci, e i fratelli di Francesco; il questore di Perugia Francesco Trio, il colonnello dei carabinieri Di Carlo, l’ispettore Napoleoni, l’avvocato Fabio Dean e molti altri, quasi tutti iscritti alla stessa loggia massonica, la Bellucci di Perugia, e alcuni di essi, compreso il padre di Narducci, collegati addirittura alla P2. Appartengono alla P2 Narducci, il questore Trio, mentre l’avvocato Fabio Dean è il figlio dell’avvocato Dean, uno dei legali di Gelli.

Depistaggi e coperture eccellenti. In questa vicenda sono presenti ancora una volta i servizi segreti e i loro depistaggi, nonché tutte le mosse tipiche che vengono attuate quando occorre depistare. In pratica l’indagine conosce una prima fase, che arriva fino al processo di appello di Pacciani, in cui essa scorre senza problematiche particolari, tranne ovviamente quella tipica di ogni indagine, e cioè l’individuazione dei colpevoli. Ma appena si apre la pista dei mandanti si scatena un vero inferno. Anzitutto lo screditamento degli inquirenti, che vengono derisi, sminuiti; vengono continuamente sottolineati gli errori fatti da costoro (come se fosse semplice condurre un indagine del genere senza commetterne); la procura fiorentina viene spesso presentata dai giornali come una procura che vuole a tutti i costi incastrare degli innocenti; Giuttari viene presentato come uno che vuole farsi pubblicità; un pazzo che crede alla folle pista satanista; quando il commissario è vicino alla verità lo si isola, oppure si cerca di trasferirlo con una meritata promozione (che però metterebbe in crisi tutta l’inchiesta). Più volte giornali e televisioni annunceranno scoop fantastici tesi a demolire il lavoro di anni della procura di Firenze, e di Perugia. Alcuni giornalisti che ipotizzano il collegamento massoneria – delitti del mostro – sette sataniche vengono querelati anche se le querele verranno poi ritirate. Vengono fatte indagini parallele e non ufficiali di cui non vengono informati gli inquirenti. Il PM Mignini scopre che dopo l’ultimo delitto del mostro la polizia di Perugia aveva indagato su Narducci e sul mostro, e ciò risulta dai prospetti di lavoro, datati 10 settembre 1985. Ma di queste indagini non viene avvisata la procura di Firenze. Ma in compenso anche i carabinieri, per non essere da meno, fanno le loro indagini parallele di cui non informano gli inquirenti. Alcuni carabinieri confidano che anni prima avevano fatto un’irruzione nell’appartamento fiorentino del Narducci per trovare le parti di cadavere che il Narduci teneva nell’appartamento, ma che erano stati “preceduti”. Anche di questi fatti la procura di Firenze non viene informata. Queste indagini parallele erano coordinate a Perugia dall’ispettore Napoleoni, che pare agisse addirittura all’insaputa del suo diretto superiore Speroni (così scrive Licciardi nel suo libro). Su Narducci c’era un fascicolo da tempo, ma il fascicolo venne smarrito, e ritrovato dopo anni privo di varie parti. Così come scomparvero misteriosamente molti reperti che erano stato acquisiti durante le indagini, come la famosa pietra a forma di piramide trovata sulla scena di uno dei delitti. Non manca poi – stando alla ricostruzione di Giuttari nel suo libro - anche il procuratore capo di Firenze, Nannucci (che è sempre stato contrario all’indagine sui mandanti) che avvisa un indagato, il giornalista Mario Spezi, dell’imminente indagine; questo fatto verrà segnalato alla procura di Genova che però archivierà la posizione del procuratore. Infine, ci sono gli immancabili depistaggi dei servizi segreti deviati. Il Sisde aveva già dai tempi del terzo delitto preparato un dossier che ipotizzava che non fosse coinvolto un solo serial Killer, ma i componenti di una setta satanica che agivano in gruppo, e ciò appariva evidente da alcuni particolari della scena del delitto. Ma questo dossier – che porta la data del 1980 - non viene mai consegnato agli inquirenti di Firenze. Il dossier era firmato da Francesco Bruno, consulente del Sisde. In totale, sono tre gli studi commissionati dal Sisde che si persero misteriosamente per strada e non arrivarono mai sulle scrivanie degli inquirenti fiorentini. Guarda caso proprio quei dossier che ricostruivano la pista dei mandanti plurimi e delle messe nere. Ma qualche anno dopo Francesco Bruno, intervistato, sosterrà che a suo parere il serial Killer è un mostro isolato, ancora in libertà.

Morti sospette. Ci sono poi le solite morti sospette tipiche di tutte le grosse vicende giudiziarie italiane. Una vera strage, in realtà. O meglio, una strage nella strage. La prima morte sospetta è quella del medico Perugino trovato morto nel lago Trasimeno. Poi la morte di Pacciani per la quale la procura di Firenze apre un fascicolo per omicidio. E poi la solita mattanza di testimoni. Elisabetta Ciabiani, una ragazza di venti anni che aveva lavorato nell’albergo dove Narducci e la sua loggia massonica si riunivano e che aveva rivelato al suo psicologo, Maurizio Antonello (fondatore dell’Associazione per la ricerca e l’informazione delle sette) il nome di alcuni mandanti del mostro e aveva rivelato il coinvolgimento della Rosa Rossa nei delitti: Elisabetta verrà trovata uccisa a colpi di coltello, compresa una coltellata al pube, ma il caso venne archiviato come suicidio. Mentre lo psicologo Maurizio Antonello verrà trovato “suicidato”, impiccato al parapetto della sua casa di campagna. Renato Malatesta, marito di Antonietta Sperduto, l’amante di Pacciani, che viene trovato impiccato, ma con i piedi che toccano per terra; uno degli innumerevoli casi di suicidi in ginocchio, che non fanno certo l’onore delle nostre forze di polizia subito pronte ad archiviare il caso come suicidio nonostante l’evidenza dei fatti. Francesco Vinci e Angelo Vargiu, sospettati di essere tra i compagni di merende di Pacciani (il primo è anche amante di Milva Malatesta) trovati morti carbonizzati nell’auto. Anna Milva Mattei, anche lei bruciata in auto. Claudio Pitocchi, morto per un incidente di moto, che sbanda ed esce di strada all’improvviso, senza cause apparenti. Anche questa è una modalità che troviamo in tutte le vicende italiane in cui sono coinvolti servizi segreti e massoneria: Ustica, soprattutto, e poi nel caso Clementina Forleo, di cui ci siamo già occupati. Milva Malatesta e il suo figlio Mirko, anche loro trovati carbonizzati nell’auto; una fine curiosamente simile a quella che volevano far fare al perito del Moby Prince poche settimane fa. La stessa tecnica. Così come la tecnica dei suicidi in ginocchio è identica a quella dei morti di Ustica e di tutte le altre stragi che hanno insanguinato l’Italia. Tecniche identiche, che fanno ipotizzare una firma unica: quella dei servizi segreti deviati. Rolf Reineke, che aveva visto una delle coppiette uccise poche ore prima della loro morte, che muore di infarto nel 1983. Domenico, un fruttivendolo di Prato che scompare nel nulla nell’agosto del 1994 e venne considerato un caso di lupara bianca. E poi ce ne sono tanti altri. C’è il caso di tre prostitute, una suicidatasi, e due accoltellate, che avevano avuto rapporti a vario titolo con i compagni di merende, e chissà quanti alltri di cui si non si saprà mai nulla. Un discorso a parte va fatto per Luciano Petrini. Consulente informatico, nel 1996 avvicinò una persona (anche lei testimone al processo) Gabriella Pasquali Carlizzi, dandogli alcune informazioni sul mostro e mostrando di sapere molto su questa vicenda; ma il 9 maggio fu ucciso nel suo bagno, colpito ripetutamente con un porta asciugamani a cui tolsero la guarnizione per renderla più tagliente. Nella casa non compaiono segni di scasso o effrazione. Conclusioni: omicidio gay. Nessuno prende in considerazione altre piste. Nessuno prende in considerazione – soprattutto - l’ipotesi più evidente: Petrini aveva svolto consulenza nel caso Ustica, sul suicidio del colonnello dell’aereonautica Mario Ferraro, quel Mario Ferraro che venne trovato impiccato al portasciugamani del bagno. Ma il fatto che sia stato ucciso – guarda caso – proprio con un portasciugamani, non induce a sospettare di nulla. Omicidio gay!?!?

Conclusioni. La verità sul mostro di Firenze non si saprà mai. Non si sapranno mai i nomi dei mandanti, perlomeno non di tutti. In realtà, in questa vicenda molte cose sono chiare, molto più chiare di quanto non sembri a prima vista. Leggendo attentamente i fatti e i documenti è possibile farsi un’idea della vicenda, e delle motivazioni che spingono alcune delle persone coinvolte. Ma non è mio intendimento fare ipotesi, smontare tesi o costruirle. Non mi interessa poi così tanto capire se Pacciani era il vero mostro o fu solo incastrato. Se Narducci era il mostro, o se erano altri. Se Pietro Toni, il procuratore che chiese l’assoluzione di Pacciani e definì“aria fritta” l’ipotesi dei mandanti sia in mala fede oppure se gli sia sfuggito un “leggerissimo” particolare: che una simile mattanza di testimoni e di occultamenti presuppone un’organizzazione dietro tutto questo. E che a fronte dei depistaggi, delle sparizioni di fascicoli, dei tentativi di insabbiamento, l’ipotesi del mandante isolato diventa fantascientifica, perché in tal caso si impone di presupporre che tutti gli investigatori che si sono occupati delle vicende del mostro siano impazziti o si siano messi d’accordo per fregare Pacciani e gli altri e che tutti i testimoni siano morti per delle coincidenze. Atteniamoci quindi ad un dato di fatto. Quando in un indagine importante compare il binomio massoneria – servizi segreti, questo binomio indica che sono coinvolti dei mandanti eccellenti, al di là di ogni immaginazione. Ancora una volta la massoneria deviata riesce a mostrare tutta la sua forza, riuscendo a tacitare ogni tipo di delitti, purché siano coinvolte persone a loro legate. Non solo colpi di stato, stragi e altro, ma addirittura delitti come quelli del Mostro di Firenze. Il che porta a concludere che anche i morti legati alla vicenda Mostro di Firenze, che non sono solo le sedici vittime ufficiali, ma anche tutte le altre (i testimoni soppressi brutalmente e gli omicidi non individuati ufficialmente) possono essere considerati una strage di stato. L’ennesima strage compiuta con la connivenza di pezzi dello stato, resa possibile sia dalle complicità ad alto livello, sia dall’ignoranza degli organi investigativi, dalla loro impreparazione riguardo al modus operandi e alla struttura delle logge massoniche deviate e in particolare delle sette sataniche. Ancora una volta viene in evidenza poi la totale inutilità delle norme giuridiche e processuali. Finché un PM che avvisa un indagato commetterà un reato minimo; finché l’occultamento di prove o di un fascicolo agli inquirenti, subirà un pena minima, destinata tra l’altro ad andare in prescrizione; finché l’operato dei servizi segreti rimarrà sempre impunito in nome del cosiddetto segreto di stato; finché il tempo massimo per le indagini preliminari, anche in reati così complessi, continueranno ad essere due anni; finché avremo questo sistema, insomma, la macchina giudiziaria sarà sempre paralizzata nel perseguimento di questo tipo di delitti, cioè i delitti che vedono coinvolti, a vario titolo, i colletti bianchi nel coprirsi a vicenda i reati da ciascuno di loro commessi. Finisco questo articolo riportando le parole di un mio amico di infanzia, ufficiale dei carabinieri di un paese della Toscana. Mi ha detto: “Certo Paolo che dietro ai delitti del mostro di Firenze ci sono alcune sette sataniche legate a logge deviate della massoneria. I fatti di Perugia parlano chiaro. Noi spesso sappiamo chi sono e cosa fanno certi personaggi. Ma abbiamo l’ordine di non indagare. Vedi… Un tempo, se toccavi il tasto mafia – politica e indagavi su questo filone, o scrivevi un pezzo di giornale, morivi. Oggi la politica ha capito che è inutile uccidere per questo, perché i magistrati si possono trasferire, i reati vanno in prescrizione… insomma ci sono altri mezzi per insabbiare un’inchiesta. Ma il tasto delle sette sataniche, e dei coinvolgimenti eccellenti in queste sette, non si può toccare, altrimenti si muore. Pensa che ogni anno, in Italia, spariscono migliaia di bambini. Oltre ai dati ufficiali della polizia di stato, ce ne sono molti altri, Rom, immigrati clandestini, ecc. che non compaiono nelle statistiche. E questi bambini finiscono nel circuito delle sette sataniche, che sono collegate spesso al circuito dei sadici e pedofili, che pagano cifre astronomiche per video ove i bambini muoiono veramente”. E mi ha anche detto i nomi di alcune persone coinvolte, tra l’altro chiaramente ricavabili dal fatto di essere proprietarie dei luoghi in cui si svolgevano questi riti. Questo mio amico non sapeva, all’epoca, che ero coinvolto anche io in vicende che riguardavano la massoneria deviata e raccontò queste cose con tranquillità, davanti alla mia fidanzata dell’epoca, mentre eravamo seduti in un bar. Tempo dopo, quando lo venne a sapere, e gli feci delle domande, negò di avermi mai dato quelle informazioni. Ma, lo ripeto, quello che importa non sono i nomi. Non è se Tizio o Caio sia coinvolto, e in che cosa sia coinvolto. Anche perché il singolo nome talvolta può essere il frutto di un errore, di un tentativo di screditare qualcuno. E francamente a me non è questo che fa paura. Ciò che fa paura è la vastità delle connivenze; il fatto che per delitti di questa gravità ed efferatezza ci possano essere coperture eccellenti e che la macchina della giustizia sia paralizzata. Il fatto che gli organi investigativi siano impreparati quando si affrontano vicende che sfiorano l’esoterismo e i servizi segreti deviati. Eppure la vicenda del Mostro di Firenze dovrebbe interessare tutti, non solo gli amanti dei gialli, dell’horror e dell’esoterismo. 18 vittime ufficiali che potevano essere nostri amici, nostri partner, o potevamo essere noi; decine di vittime nella mattanza dei testimoni e delle persone coinvolte; centinaia di famiglie inconsapevoli coinvolte nella vicenda, che escono distrutte, alcune perché vittime del mostro, altre perché sospettate di essere familiari di un mostro. Il vero mostro in questa vicenda, non è solo chi ha ucciso ma anche tutte le persone che hanno coperto la verità, che in virtù dei loro legami con la massoneria deviata o con pezzi deviati dello stato hanno coperto, colluso, e taciuto. Il vero mostro è la massoneria deviata, che come una piovra si è insinuata in tutti i punti vitali dello stato. Il mostro di Firenze è solo uno dei suoi tentacoli.

Bibliografia. Se molti in questi anni hanno cercato di nascondere la verità, è anche vero che, come dice un detto famoso, la verità non si può nascondere per sempre. Per chi vuole cercarla e capire segnaliamo due testi. Michele Giuttari, Il mostro anatomia di un indagine, BUR. Una cosa che mi colpisce leggendo il libro di Giuttari è che quando parla dei depistaggi e degli occultamenti vari non nomina mai la massoneria. Parla di un “partito avverso”. Anche se, leggendo, non è difficile intuire cosa sia questo partito avverso, non si capisce se la cosa sia voluta o casuale. Questi legami vengono descritti meglio nel libro: Luca Cardinalini, Pietro Licciardi, La strana morte del dottor Narducci, ed. Deriveapprodi. L'idea del titolo non è nostra, ma di Piero Licciardi; è lui che definisce il Mostro di Firenze “una piovra che si insinua nello Stato".

IL MISTERO DI LICIO GELLI.

Caso Banca Etruria. Il crac di Arezzo: potere e segreti. Le metamorfosi della città dell’oro dove il Pd ha il vestito della Dc e la banca riflette la crisi d’identità, scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera” del 21 dicembre 2015. La pioggerellina sottile e dorata dello sponsor Banca Etruria bagnava tutto. Il Volley Arezzo. Il baseball. Il Lions hockey club. Il Vasari rugby. L’unione ciclistica aretina. Il circuito tennistico Vallate aretine. Il Golf Casentino. Poi i corsi di atletica leggera, la Società ginnastica Petrarca, il Giro ciclistico della Toscana. Perfino la squadra di calcio femminile. E come a Siena il Monte dei paschi ha sempre foraggiato il Palio, poteva astenersi Banca Etruria dal sostenere la Giostra del Saracino? Dice Rossano Soldini che il paragone fra le due città toscane è improprio. Siena dipendeva totalmente dal Monte dei paschi. Così invece non è qui. Ma la botta è stata tremenda. «La banca era un organo vitale di Arezzo. E ora non si è diffusa la paura. Lo sa le telefonate di amici, anche influenti in città, che mi chiedono se fanno bene a tenere lì i soldi? Questo atterrisce…». Le parole di Soldini fanno correre un brivido lungo la schiena. Lui è fra gli aretini più in vista. Ha un’azienda di scarpe con 200 dipendenti e ha visto la bestia dall’interno. È stato nel consiglio di amministrazione ai tempi del blitz da cui, dice, è partita la valanga. Cambiò tutto un giorno di maggio del 2009. Il consiglio si riunì e sfiduciò il presidente Elio Faralli, 87 anni, confermato solo un mese prima: otto a sette, con il voto decisivo di un consigliere che aveva affidamenti monstre dalla stessa banca e poi fece crac. E arrivò Giuseppe Fornasari, una vecchia volpe democristiana sottosegretario con Andreotti. «Si raccontò», ricorda Soldini, «che la banca passava dalla massoneria all’Opus Dei. Erano fesserie. La verità è che aveva già perso identità locale. Troppi consiglieri non erano di Arezzo e i finanziamenti andavano ad aziende di fuori». Fesserie? Può darsi. Ma il travaso bianco ai vertici è un fatto, e non si è fermato lì. Bianco, Fornasari. Bianco, il vicepresidente Pier Luigi Boschi, padre del ministro delle riforme Maria Elena Boschi ed espressione della bianca Coldiretti. E bianco pure il cattolico Lorenzo Rosi, presidente dopo Fornasari. Quanto ai finanziamenti dati fuori, era storia già vecchia. Fino agli anni Ottanta l’identificazione fra banca e città era totale. Da ogni punto di vista. Alla filiale di Castiglion Fibocchi c’era il conto «Primavera» sul quale affluivano i soldi della loggia P2 di Licio Gelli. «Un aretino illustre», l’ha definito senza infingimenti il sindaco Alessandro Ghinelli quando qualche giorno fa è morto. Un decesso che ha chiuso un’epoca inquietante, con qualche sollievo ipocrita. Quelli che contano hanno riempito di telegrammi la famiglia ma hanno disertato la camera ardente. Con le sole eccezioni dell’ex patron dell’Arezzo Calcio Piero Mancini e di Antonio Moretti, imparentato con i Lebole dell’azienda tessile che il Venerabile fece comprare all’Eni. Soprattutto, la popolare era la banca dell’oro, nota per il «prestito d’uso». Anziché i soldi, prestava alle imprese l’oro mettendole al riparo dai saliscendi delle quotazioni. C’erano un tempo più di duemila aziende, con trentacinquemila addetti. Un numero impressionante, pari al 10 per cento di tutti gli abitanti della provincia. «La crisi ci ha massacrato. Siamo rimasti in 1.200, con 13 mila addetti. E anche il rapporto con l’Etruria è cambiato: tante altre banche oggi fanno il prestito d’uso...», confessa la presidente degli orafi toscani di Confindustria Giordana Giordini. Ma la crisi ha massacrato anche il tessile e il mobile, con altri riflessi pesanti, al di là delle malversazioni, su una banca sempre meno aretina. Anche perché, dopo il 1988, in seguito alla fusione con la popolare dell’Alto Lazio, il baricentro si era spostato inevitabilmente più a Sud. Soldini colloca il momento della svolta «intorno al 2005 o al 2006». Anni cruciali. Gli anni della fine della giunta di centrodestra di Luigi Lucherini e dell’arrivo di Giuseppe Fanfani: nipote di Amintore Fanfani, «cavallo di razza» della Dc, pittore per diletto come lo zio. E democristiano a quattro ruote motrici. Consigliere comunale, quindi alla Provincia, segretario provinciale del partito e parlamentare margheritino. Perfino presidente di una Usl, lui che di mestiere fa l’avvocato. Poi sindaco. Nel 2006 vuole tornare alla Camera ma viene trombato. Siccome però si è candidato anche al Comune dove il sindaco di centrodestra Luigi Lucherini è stato spazzato via da un’accusa di abuso d’ufficio, eccolo primo cittadino. Quattro anni dopo il suo partito, nel frattempo diventato Pd, gli propone un posto al Csm. Ma lui rifiuta, sostenendo che è «un dovere istituzionale» restare lì. Nel 2014 però cambia idea: quando passa di nuovo il treno del Csm molla Arezzo e ci salta sopra. Professando: «È l’incarico più importante della mia vita». La ciliegina su una torta condita da una dichiarazione di fedeltà a Renzi. Amintore Fanfani ad Arezzo fece passare l’Autostrada del Sole, nientemeno. Del nipote, invece, gli aretini più maligni rammentano un tuffo nella fontana della stazione quando l’Italia vinse i Mondiali di calcio del 2006. Nonché una piazza intitolata allo zio. Oltre ai manager di Banca Etruria patrocinati dallo studio legale Fanfani. Tutto qui? La prova che il suo decennio non è stato indimenticabile si è avuta sei mesi fa, quando Ghinelli, figlio di un ex segretario missino, ha stracciato alle comunali il renzianissimo e cattolico Matteo Bracciali. Una sconfitta bruciante per un Pd che qui ha vestito integralmente i panni della vecchia Dc. Insieme forse agli antichi vizi. Così non poteva mancare, come il capogruppo di Fratelli d’Italia in Comune Francesco Macrì, chi attribuisce la responsabilità del crac a quei «sistemi di potere contigui alla politica». Ha ragione? Chissà. Certo questo è un film già visto tante volte, con attori forse soltanto un po’ più giovani…

Quel traffico d’oro che imbarazza Banca Etruria, scrivono Roberto Galullo e Angelo Mincuzzi per il Sole 24 Ore il 3 luglio 2017. La leggenda aretina narra che nelle fortune del distretto dell'oro ci sia lo zampino di Licio Gelli, passato alla storia come il Venerabile della Loggia P2. La città racconta ancora che nella scomparsa di decine di tonnellate d'oro che facevano parte di un carico di 60 tonnellate che l'allora re diciottenne della Jugoslavia Pietro II Karadordevic fece partire con un treno speciale il 17 marzo 1941, Gelli avesse avuto una parte rilevante. L'intera riserva di un Paese sotto l'attacco di Adolf Hitler, stipata in 57 vagoni e oltre 1.300 bauli, non riuscì però a lasciare la Jugoslavia per raggiungere l'Egitto e venne nascosta nelle grotte del Montenegro, presto occupato dai fascisti. Nel 1943, non si sa come, il regime rintracciò l'oro e Benito Mussolini affidò al giovane fascista Gelli il compito di portare il carico a Trieste, evitando la frontiera hitleriana e facendolo viaggiare su un treno speciale e blindato, con a bordo 73 malati di vaiolo. Da quel punto la leggenda narra che Gelli affidò 8 tonnellate alla Banca d'Italia e ne sottrasse 52, una parte delle quali giunse a destinazione nei pressi della stazione ferroviaria di Arezzo per la felicità di una collettività che mise a frutto quel dono insperato. Per dare un'idea dell'immenso valore di quel carico, attualizzando alle cifre correnti il valore, il tesoro varrebbe tra 1,8 e 2 miliardi, una cifra pari all'ultimo dato censito sull'export del distretto aretino. La leggenda è più intricata e fascinosa di quanto si possa pensare perché il prosieguo narra di 25 tonnellate rimaste nella disponibilità del futuro piduista e 27 tonnellate cedute all'allora Pci. Come spiegò nel 1984 l'allora parlamentare radicale Massimo Teodori, da pagina 37 della Relazione di minoranza della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla loggia massonica P2, «fra le tante supposizioni ed ipotesi interpretative, una cosa soltanto non è controversa: che cioè nel 1944-1945 Gelli collaborò con il Pci, attraverso la componente del Cln, e che dal partito gli vennero aiuto e protezione per superare le difficoltà incontrate come repubblichino e collaborazionista, cosa che gli permise di superare indenne quei giorni, forse anche salvando la vita». Vero? Falso? Verosimile? Fascinazione? Gelli ha sempre negato ma resta il fatto che il 14 settembre 1998, abilmente nascosti perfino nelle fioriere della lussuosa Villa Wanda a Castiglion Fibocchi (Arezzo), dove ha vissuto fino alla morte, sopraggiunta il 15 dicembre 2015, gli investigatori sequestrarono 164 chili d'oro distribuiti in centinaia di piccoli lingotti. La maggior parte dell'oro recava punzonature e timbri di Paesi dell'Est (ex Unione sovietica in primis), altri erano stati sdoganati in Svizzera, altri ancora non si sapeva da dove provenissero. Oro in “nero”. Sedici anni prima, correva il 1983, dieci lingotti riconducibili a Gelli spuntarono in una banca argentina di Buenos Aires mentre nel 1986 la magistratura elvetica scoprì, in una cassetta di sicurezza dell'Ubs di Lugano, 250 chili d'oro in lingotti, verosimilmente frutto della spoliazione del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Gelli o non Gelli, il distretto orafo si sviluppa nell'area aretina (Arezzo, Capolona, Castiglion Fibocchi, Civitella in Val di Chiana, Monte San Savino, Subbiano) e nella Val di Chiana aretina (Castiglion Fiorentino, Cortona, Foiano della Chiana, Lucignano, Marciano della Chiana), alla quale si aggiungono i comuni di Laterina e Pergine Valdarno. La gamma della produzione è omnicomprensiva ma i marchi di fabbrica locali sono l'oreficeria e l'argenteria a maglia catena e stampata. La lavorazione dei metalli preziosi si è sviluppata soprattutto negli anni Settanta ed Ottanta, grazie al ruolo svolto per molti anni dall'impresa leader (Uno A Erre) nell'attivare processi di gemmazione imprenditoriale e trasferimento di innovazioni. Il distretto orafo della provincia di Arezzo, riconosciuto con delibera del Consiglio regionale della Toscana n. 69 del 21 febbraio 2000, conta 1.592 imprese, di cui 1.216 con meno di 50 addetti, 7.669 persone occupate e un export di quasi 4 miliardi (fonte: Osservatorio nazionale dei distretti italiani, dati 2013/2014).  Le statistiche del Club degli orafi italiani, che le aggiorna periodicamente con Banca Intesa, indicano il distretto di Arezzo in testa alle esportazioni con oltre 1,8 miliardi (-1,1% sul 2015) e un import di 86,3 milioni nel 2015 (-24.4% sul 2014). Anche se questo polo non è più ricco come una volta, le grandi aziende orafe e i banchi metalli - come Uno a Erre e Chimet - continuano ad alimentare l'economia del luogo e la loro visibilità è perenne. Sui taxi, ad esempio, il loro logo è una costante, così come le continue sponsorizzazioni a manifestazioni, eventi e iniziative. La crisi ha aggravato la posizione soprattutto delle realtà più piccole e molte, tra quelle rimaste, per sopravvivere praticano il “nero”.  l fatturato italiano calcolato dal Club degli orafi per il 2016 è stato di oltre 7,7 miliardi (+9,3% sul 2015), esportazioni per 6,2 miliardi (di cui 5,4 miliardi solo gioielli in preziosi, vale a dire in oro, argento o altri metalli preziosi anche rivestiti o placcati) con un calo complessivo del 4,6% sull'anno precedente. I dati Istat relativi alla produzione (-1,9%) e alle esportazioni, sia in valore (-4,6%) che in quantità (-1,8% per i soli gioielli in metalli preziosi) confermano le difficoltà del settore orafo nel 2016, in corrispondenza con un calo importante della domanda mondiale di gioielli in oro, in particolare da parte dei due grandi acquirenti (Cina e India). Nel 2016 le esportazioni italiane di gioielleria e bigiotteria hanno perso circa 300 milioni rispetto al 2015, con cali diffusi a quasi tutti i mercati di sbocco e con una nuova contrazione importante verso gli Emirati Arabi Uniti (-15%, pari a 160 milioni in meno), Paese di “entrata” per il resto del Medio oriente e l'India. Negative anche le esportazioni verso Svizzera e Francia (-6,7% e -10,6%), Paesi dove sono spesso spediti i gioielli made in Italy commissionati dalle grandi maison di moda (successivamente destinate ad altri mercati di sbocco finali) e verso Hong Kong (-9,1%). Secondo le statistiche sul fatturato (indagine Istat campionaria rivolta alle imprese con più di 20 addetti) il settore gioielleria e bigiotteria avrebbe, invece, chiuso il 2016 in crescita del 9,3%, grazie a risultati brillanti sia sul mercato interno (+6,7%) che su quelli esteri (+10,7%), dato in contraddizione con le informazioni sui flussi di export, che sottolinea le difficoltà di monitorare un settore altamente frammentato come quello orafo. Nessuna tra le fonti intervistate dal Sole-24 Ore ha voluto metterci la faccia o la voce ma tutti concordano nel dire che, ormai, (almeno) un'operazione su due non è tracciabile e sfugge ai radar del Fisco. Accade ad Arezzo ma accade anche negli altri distretti dell'oro (Valenza Po, Marcianise e Vicenza) tra loro legati più di quanto possa apparire e non solo per i legami commerciali ma anche sul fronte delle indagini giudiziarie. In vero il “nero” compare in tutte le operazioni commerciali, qualunque settore si prenda in considerazione ed è logico che il settore orafo non faccia eccezione. Le più recenti indagini delle Fiamme Gialle, su delega della Procura di Arezzo, lo provano, anche se tutti i processi, spesso suddivisi in più filoni giudiziari, devono ancora essere definitivamente chiusi.  Tra l'11 e il 14 febbraio 2015 il Nucleo di Polizia tributaria della Gdf ha messo a segno un'indagine – denominata Argento vivo – sul conto di alcune azienda del distretto orafo aretino. Ancora una volta una frode fiscale in atto nel settore del commercio di metalli preziosi (principalmente argento, ma anche platino e palladio), perpetrata attraverso modalità e tecniche analoghe a quelle delle cosiddette “frodi carosello” all'Iva. Uno dei quattro soggetti colpiti dal provvedimento di fermo ha chiesto di essere interrogato subito da Marco Dioni, il pubblico ministero titolare delle indagini, al quale ha reso dichiarazioni di grande valore probatorio, confermando la bontà dell'impianto accusatorio. Per la collaborazione ha ottenuto gli arresti domiciliari. Il 14 febbraio 2015, il Gip del Tribunale di Arezzo Annamaria Loprete ha ritenuto confermati i gravi ed eclatanti indizi di colpevolezza, fortificati dalle dichiarazioni confessorie rese nel corso degli interrogatori per la convalida della misura precautelare, resi il giorno prima dai quattro indagati, emettendo nei loro confronti un'ordinanza di applicazione della misura degli arresti domiciliari presso le rispettive abitazioni e con divieto di comunicazione, poiché ha ritenuto sussistere il pericolo di reiterazione di reati analoghi, nonché di inquinamento probatorio. La Procura della Repubblica di Arezzo ha ordinato il sequestro preventivo finalizzato alla successiva confisca delle disponibilità finanziarie detenute dagli indagati e dalle società a questi riferibili, da bloccare presso gli Istituti di credito, fino a concorrenza della somma di 3.270.203,06 euro, corrispondente ad un valore equivalente al profitto del reato finora determinato. In poco meno di tre mesi (da ottobre a dicembre 2014), seguendo le tracce delle utenze mobili in uso agli indagati per le comunicazioni “one to one” e attraverso osservazioni, pedinamenti e riscontri, è stata fatta luce sull'esistenza di due presunte e distinte organizzazioni criminali, originariamente operative in modo unitario, capeggiate da due aretini che pur non avendo alcun ruolo formale nelle società coinvolte negli illeciti fiscali, erano in grado di controllarne l'operatività, dirigendo i sistemi fraudolenti.

Il principale sistema di frode, comune ai due sodalizi, prevedeva l'acquisto di metalli preziosi sfruttando meccanismi di applicazione dell'Iva che prevede un sistema di inversione contabile per il quale l'acquirente diventa debitore d'imposta: per l'argento rivolgendosi a banchi metalli ed applicando il “reverse charge”; per il platino ed il palladio acquistandolo da operatori intracomunitari. I metalli venivano poi commercializzati interponendo una o più imprese costituite ad hoc ed intestate a prestanome che, oltre a non dichiarare al Fisco le imposte dirette, omettevano il versamento dell'Iva, corrisposta dal cliente finale, rappresentato da una azienda aretina operante nel settore della commercializzazione di metalli preziosi, la Oro Italia trading spa (società partecipata al 100% da Banca Etruria) che secondo l'accusa trasferiva però mensilmente il credito Iva derivante dalle predette operazioni alla controllante, che lo utilizzava in compensazione dell'Iva a debito di Gruppo. In estrema sintesi, i sistemi fraudolenti consentivano ai membri delle associazioni criminali di intascare l'Iva generata dalle operazioni commerciali strumentalmente realizzate e al cliente finale di acquistare i metalli preziosi a un prezzo sensibilmente inferiore a quello che avrebbe potuto spuntare se si fosse rivolto direttamente alle aziende che fornivano i beni alle società coinvolte nei sistemi fraudolenti e che davano inizio al circuito economico che le indagini hanno dimostrato essere artificioso e messo in piedi al solo scopo di poter frodare l'Erario. Teniamo bene a mente il nome di uno tra gli indagati principali di questa operazione: Plinio Pastorelli, che all'epoca era consigliere delegato di Oro Italia trading, dove era entrato come amministratore il 9 luglio 2007 ed è uscito quattro giorni dopo il disvelamento dell'indagine, il 18 febbraio 2015. Pastorelli, indagato per associazione a delinquere e truffa, anticipando le mosse sulla scacchiera del licenziamento, si è dimesso e per il momento si gode la pensione.

Pastorelli entra dunque nell'indagine con l'accusa di acquistare l'oro sotto il prezzo del fixing per il metallo e pagando l'Iva al 20% ai venditori, per poi compensare il credito d'imposta all'interno delle società del Gruppo Banca Etruria. A quanto trapela da fonti che al momento preferiscono restare coperte, Pastorelli non avrebbe fatto in tempo a effettuare la compensazione ma questo ai fini delle accuse in sede penale non rileva. Semmai, interessa il rapporto con l'Agenzia delle Entrate. Nel complesso l’indagine ha consentito di accertare che il meccanismo fraudolento delle società cartiere ha consentito di evadere 15,45 milioni di euro nel periodo compreso tra il 2012 e il 2015 in operazioni che riguardano tanto l’oro quanto l’argento e il platino. La domanda logica da porsi è se Oro Italia trading si fosse accorta di questo sistema fraudolento della quale lei per prima ne sarebbe uscita danneggiata e che, per quattro indagati, ha già portato a con condanne nel giudizio di primo grado mentre Pastorelli è indagato a piede libero in attesa di giudizio. Il Sole-24 Ore si è rivolto in due occasioni a Nuova Banca Etruria (del Gruppo Ubi Banca), chiedendo di avere risposte a questo e ad altri quesiti, oltre ad avere indicazioni, nel corso degli anni, sulle policy di trasparenza negli acquisti e nelle rendicontazioni contabili. Per ben due volte e nonostante una successiva sollecitazione, i vertici Ubi, che controlla Nuova Banca Etruria, hanno preferito non rilasciare dichiarazioni limitandosi a rimandare alla breve comunicazione telefonica con la quale a metà maggio l'ufficio stampa di Nuova Banca Etruria aveva messo le mani avanti dicendo che «Pastorelli non è più da noi». Eppure se è lecito chiedere lumi, cortese dovrebbe essere rispondere soprattutto alla luce del fatto che il nome di Oro Italia trading – ormai senza Pastorelli da tempo – rispunta nell'indagine Melchiorre della Guardia di finanza di Torino del 14 febbraio 2017, anche se ancora una volta senza alcun coinvolgimento societario. Francesco Angioli è l'uomo considerato dalla Procura di Torino l'intermediario tra i clienti e i principali indagati accusati di comprare l'oro rubato e ripulirlo, per poi rimetterlo formalmente in commercio attraverso una società di diritto ungherese. Questo soggetto indagato, è un procacciatore d'affari che, scrive testualmente il Gip Elena Rocci a pagina 106 dell'ordinanza di custodia cautelare firmata il 13 ottobre 2016, nel periodo d'imposta 2014 risulta aver percepito redditi, tra gli altri, dalla Oro Italia trading spa «con la quale, evidentemente, collabora». Nulla di più naturale, dunque, se il procacciatore d'affari, si legge a pagina 109 del provvedimento, «dimostra di avere ottime entrature con Oro Italia trading, in particolare per lo stretto rapporto che dimostra di avere con Bernardini Francesco». Francesco Bernardini – che non è indagato – è il responsabile del comparto oro di Oro Italia trading ed è l'uomo che il 23 luglio 2013 lanciò sulla stampa specializzata il “conto oro”. Il 2 marzo 2016, alle 11.48 la sala intercettazioni della procura capta, tra le tante che coinvolgono le utenze telefoniche della società totalmente controllata da Nuova Banca Etruria, una conversazione che il Gip sintetizza così a pagina 71: «Mentre si trova all'interno della Gianluca Ciancio Srl (la società che secondo l'accusa si fa carico di acquistare e fondere l'oro), Angioli Francesco contatta la Oro Italia trading spa, al fine di parlare con Bernardini Francesco, responsabile del comparto oro di Banca Etruria». Deve convincere Ora Italia Trading che le spedizioni delle verghe aurifere partono da Torino e non dall'Ungheria, perché a Torino, alla Ciancio srl, il materiale viene testato. L'oro, però, non si sarebbe mai mosso da Torino e la triangolazione è apparente. «Dalle conversazioni — continua il gip — la prima delle quali avviene con Frati Paolo (non indagato, ndr), dipendente di Oro Italia Trading spa, si desume l'ulteriore modalità operativa adottanda, che vede nuovamente, quale destinatario finale del metallo aurifero raccolto, la Oro Italia Trading, nonché il procedimento per il ritiro e il trasporto dell'oro».

Oro Italia trading è iscritta dal 30 novembre 2000 al registro delle imprese di Arezzo come società di commercio all'ingrosso di metalli preziosi. Costituita con un capitale sociale di 500mila euro conta appena due dipendenti (la cui retribuzione complessiva è di 59.058 euro) sulle cui spalle grava un fatturato che nel 2016 ha registrato 314 milioni e perdite per 1,4 milioni. In termini quantitativi negoziati, Nuova Banca Etruria è passata da 4,52 tonnellate del 2015 a 8,06 del 2016 (+78% nell'intermediazione dell'oro) e da 42,2 tonnellate del 2015 a 45,7 del 2016 (+8% nell'intermediazione dell'argento). Una società cosi “snella” – nel numero di dipendenti ma che contempla in vero ben sei sindaci e tre amministratori – in realtà gestisce partite miliardarie, essendosi conquistata negli anni una leadership nazionale. Dopo la Banca d'Italia sarebbe l'istituto con in pancia il maggior quantitativo di riserve aurifere. La data di avvio della società non è casuale. Pochi mesi prima, il 17 gennaio 2000, il Parlamento ha infatti approvato la legge n 7, che ha rotto il monopolio delle banche sui metalli preziosi stabilendo che sul mercato possano operare anche altri intermediari autorizzati dalla Banca d'Italia. In questo caso la veste è cambiata ma è pur sempre una banca – attraverso il controllo totalitario – a operare nel settore. L'oro, per Nuova Banca Etruria, costituisce un asset fondamentale, al punto da avere conti correnti in valuta, la cui unità di misura è espressa in once di oro finanziario. Con questi appositi conti correnti è possibile effettuare bonifici in oro finanziario, regolare il pagamento delle rate del mutuo e, se supportato da una linea di fido, beneficiare di uno scoperto di conto. Nel 2016 è cresciuto lo stock di oro custodito nei caveau della banca e – come si legge a pagina 41 della relazione di bilancio – ciò ha contribuito a rafforzare ulteriormente la leadership dell'Istituto di credito nell'ambito dell'oro da investimento. Anche sul fronte dei lingotti di piccolo taglio (2, 5, 10, 20, 50 e 100 grammi), il 2016 si è rilevato un anno decisamente positivo per Nuova Banca Etruria. Sono state infatti circa 1.500 le pezzature vendute, per un totale di oltre 44 kg.  Sul lato degli impieghi in oro, il dato mostra un totale di circa 104 milioni, di cui oltre 8 milioni rappresentati dai mutui in oro. Il dato, che risulta sostanzialmente invariato rispetto al 2015, è la sommatoria di due variabili che si sono mosse in direzioni opposte. Nel 2016 si è infatti assistito ad un incremento degli affidamenti in oro ad altre banche, che al 31 dicembre 2016 rappresentavano circa 20 milioni e al contempo ad una riduzione degli affidamenti al tessuto orafo produttivo. La più recente, del 1° aprile 2017, è stata condotta dal Nucleo di polizia tributaria della Gdf agli ordini del colonnello Peppino Abbruzzese. L'hanno battezzata “Groupage” e vedremo il perché di questo nome. Sotto la lente è finita una presunta organizzazione criminale, costituita da italiani e algerini, che comprava ingenti quantitativi di oreficeria “in nero” prodotta da aziende aretine e la vendeva – dietro pagamento in contanti – per l'esportazione nei Paesi del Nord Africa. Lo schema era semplice: un intermediario giungeva in volo in Italia dall'Algeria e soggiornava ad Arezzo per definire gli accordi contrattuali per l'acquisto di materiali preziosi. Trovato l'accordo commerciale, l'intermediario provvedeva a fare l'ordine della merce (appunto il cosiddetto “groupage”) per conto dei propri clienti (residenti in Paesi del Nord Africa) con le aziende orafe di Arezzo, veicolando l'ordinativo tramite alcuni operatori orafi aretini di provata fiducia, che provvedevano a ripartire l'ordinativo alle varie aziende compiacenti. Quando l'ordinativo era pronto, arrivavano ad Arezzo in auto uno o più corrieri algerini, che portavano il denaro contante necessario per l'acquisto dell'oreficeria ordinata e ritiravano la merce. Nella rete sono caduti, tra gli altri, due soggetti già noti agli investigatori. Uno è già finito nella “mamma” di tutte le inchieste aretine, Fort Knox. L'altro, nel 2012, risultò avere rapporti commerciali poco trasparenti con soggetti nord africani.

Nell'ambito di un'operazione condotta dalla Polizia di Melilla (Spagna) nel maggio del 2012, vennero arrestati due marocchini trovati in possesso di 140,232 chili di oreficeria, che venne sequestrata. I due soggetti, in sede di interrogatorio, dichiaravano di averla acquistata legalmente il 20 maggio dalla srl unipersonale di cui il soggetto entrato nuovamente nel radar della Giustizia è rappresentante legale. Il 20 dicembre 2016, il Nucleo Pt della Gdf di Arezzo ha invece portato alla luce, con l'operazione Iberia, un'altra presunta organizzazione criminale, stabilita in Spagna e con ramificazioni in Portogallo, Slovenia ed Italia. Tra gli indagati, a testimonianza che certi meccanismi sono rodati e possono far conto su un nocciolo duro di professionisti, una vecchia conoscenza già incrociata dalla Gdf nelle operazioni Argento vivo e Fort Knox. L'organizzazione, ricorrendo al sistema noto come “frode carosello”, secondo l'accusa avrebbe creato una fitta rete di aziende in quattro Paesi (Spagna, Portogallo, Italia e Slovenia) ed operanti nei settori degli idrocarburi e dei metalli preziosi che hanno permesso a una società iberica riconducibile ad un italiano e beneficiaria finale dell'illecito, di non versare l'Iva (circa 20 milioni) dovuta sui proventi del commercio di idrocarburi, in quanto compensata, indebitamente, con l'Iva detratta sugli acquisti documentati da fatture false prodotte dalle altre società del gruppo, operanti nel settore dei metalli preziosi che, ricoprono i ruoli di “cartiere” e/o “aziende filtro”. La Gdf, proseguendo le indagini, ha svelato il coinvolgimento nel sistema di frode anche di un'azienda aretina che, attraverso la vendita di oro puro, si prestava consapevolmente al riciclaggio di una parte dei proventi della frode perpetrata in territorio spagnolo nel biennio 2015/2016, nei confronti delle aziende spagnole e portoghesi riconducibili all'organizzazione. L'organizzazione, al fine di riciclare i cospicui proventi illeciti delle frode, oltre ad essere entrata nel circuito delle gare motociclistiche mondiali, attraverso la sponsorizzazione di due team spagnoli della Moto Gp Uno, stava tentando un'analoga infiltrazione in Italia attraverso la sponsorizzazione di un team automobilistico, che gareggia nel campionato mondiale Fia Wtcc (World touring car championship, meglio noto come campionato del mondo turismo). L'indagine condotta in collaborazione con il Gruppo di criminalità economica dell'Unità operativa centrale della Guardia Civil della Spagna, coordinata anche da Europol ed Eurojust, ha consentito di pervenire complessivamente in Italia alla denuncia a piede libero di quattro persone per i reati di associazione per delinquere, riciclaggio, autoriciclaggio ed emissione di fatture per operazioni inesistenti, oltre al sequestro di 26,4 chili di oro puro per un controvalore di 924mila euro. In Spagna e Portogallo sono state arrestate 20 persone, oltre al sequestro di 50 chili di oro per un controvalore complessivo di oltre 1,7 milioni.

Chi era Licio Gelli, l'ex "venerabile" della P2. Il gran maestro della loggia massonica, morto ieri, è stato protagonista di una lunga stagione di trame e misteri della storia italiana, scrive "Panorama" il 16 dicembre 2015. Il "burattinaio", "Belfagor", "il venerabile". Ovvero, Licio Gelli. L'ex gran maestro della loggia massonica P2, che tante volte è tornato nella storia della prima e della seconda Repubblica tra rapporti occulti con il potere, vicende giudiziarie, arresti, fughe e guai col fisco, è morto a 96 anni nella sua dimora storica Villa Wanda, alle porte di Arezzo.

La vita. Nato a Pistoia il 21 aprile 1919, a 18 anni si arruolò come volontario nelle camicie nere di Franco in Spagna. Fu fascista, "repubblichino" e poi partigiano. Il 16 dicembre 1944 sposa Wanda Vannacci dalla quale ebbe quattro figli. Dopo la guerra si trasferisce in Sardegna e in Argentina, dove si lega a Peron e Lopez Rega. Tornato in Italia comincia a lavorare nella fabbrica di materassi Permaflex e diventa direttore dello stabilimento di Frosinone. Poi diventa socio dei fratelli Lebole e proprietario dello stabilimento Gio.Le di Castiglion Fibocchi.

La massoneria. Nel 1963 Gelli si iscrive alla massoneria. Nel 1966 il Gran maestro Gamberini lo trasferisce alla loggia "Propaganda 2", nata a fine Ottocento per permettere l'adesione riservata di personaggi pubblici. Nel 1975 si decide lo scioglimento della P2, che però grazie a Gelli, che da segretario diviene gran maestro, rinasce più forte e allarga i suoi tentacoli in ogni ramo del potere. Quando, il 17 marzo 1981, i giudici milanesi Turone e Colombo, indagando sul crack Sindona, arrivano alle liste, per il mondo politico italiano è un terremoto. Negli elenchi ci sono quasi mille nomi tra cui ministri, parlamentari, finanzieri come Michele Sindona e Roberto Calvi, editori, giornalisti, militari, capi dei servizi segreti, prefetti, questori, magistrati. C'è anche il nome di Berlusconi.

I guai con la giustizia. La P2 risulta coinvolta direttamente o indirettamente in tutti i maggiori scandali degli ultimi trent'anni della storia italiana: tentato golpe Borghese, strategia della tensione, crack Sindona, caso Calvi, scalata ai grandi gruppi editoriali, caso Moro, mafia, tangentopoli. Il 22 maggio 1981 scatta il primo ordine di cattura, ma Gelli è irreperibile. Verrà arrestato a Ginevra il 13 settembre 1982. Rinchiuso nel carcere di Champ Dollon, evade il 10 agosto 1983. Il 21 settembre 1987 si costituisce a Ginevra. Torna a Champ Dollon, che lascia il 17 febbraio 1988 estradato in Italia.

La condanna. L'11 aprile ottiene la libertà provvisoria per motivi di salute. Il 16 gennaio 1997 c'è un nuovo ordine di arresto, ma il ministero della Giustizia lo revoca: il reato di procacciamento di notizie riservate non era tra quelli per cui era stata concessa l'estradizione. Il 22 aprile 1998 la Cassazione conferma la condanna a 12 anni per il Crack del Banco Ambrosiano. Il 4 maggio Gelli è di nuovo irreperibile: la fuga dura più di quattro mesi. Gli vengono concessi i domiciliari, che sconterà a Villa Wanda, la residenza dove è morto e che nell'ottobre 2013 gli venne sequestrata a conclusione di una indagine per un debito col fisco; la magione - nella quale tuttavia continuò a vivere - è rientrata nella sua disponibilità pena nel gennaio scorso per la dichiarata prescrizione dei reati fiscali. Nell'aprile 2013 i pm di Palermo dell'inchiesta Stato-mafia lo hanno sentito per gli intrecci tra P2, servizi ed eversione. (ANSA)

A 96 muore Licio Gelli. In Italia non ha mai fatto un giorno di carcere. Scompare l'ex venerabile della loggia P2. E' deceduto a Villa Wanda, ad Arezzo. Condannato per depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna, dopo essere stato detenuto in Francia e Svizzera era tornato a vivere in Toscana, scrive R.I. su "L'Espresso" il 16 dicembre 2015. E' morto Licio Gelli, l'ex venerabile della loggia P2, coinvolto nei misteri più oscuri dell'Italia del dopoguerra. Si è spento alle 23 del 15 dicembre a Villa Wanda, la casa sulle colline di Arezzo. Nato a Pistoia il 21 aprile del 1919, Gelli fu condannato per depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna del 1980, dopo essere stato detenuto in Svizzera e Francia e coinvolto in varie inchieste, era tornato a vivere a Villa Wanda. Gelli lascia la seconda moglie Gabriela (la prima Wanda è scomparsa da tempo) e i tre figli Raffaello, Maurizio e Maria Rosa, la quarta figlia Maria Grazia è morta nel 1988 in un incidente stradale. I funerali sono previsti giovedì a Pistoia, mentre la camera ardente potrebbe essere allestita nella chiesa di Santa Maria delle Grazie ad Arezzo a pochi metri da Villa Wanda. Il «burattinaio», «Belfagor», «il venerabile». Ovvero, Licio Gelli. L'ex gran maestro della P2, che tante volte è tornato nella storia della prima e della seconda Repubblica tra rapporti occulti con il potere, vicende giudiziarie, arresti, fughe e guai col fisco, a 18 anni si arruolò come volontario nelle «camicie nere» di Franco in Spagna. Fu fascista, repubblichino e poi partigiano. Il 16 dicembre 1944 sposa Wanda Vannacci dalla quale ebbe quattro figli. Dopo la guerra si trasferisce in Sardegna e in Argentina, dove si lega a Peron e Lopez Rega. Tornato in Italia comincia a lavorare nella fabbrica di materassi Permaflex e diventa direttore dello stabilimento di Frosinone. Poi diventa socio dei fratelli Lebole e proprietario dello stabilimento Gio.Le di Castiglion Fibocchi. Nel 1963 Gelli si iscrive alla massoneria. Nel 1966 il Gran maestro Gamberini lo trasferisce alla loggia «Propaganda 2», nata a fine Ottocento per permettere l'adesione riservata di personaggi pubblici. Nel 1975 si decide lo scioglimento della P2, che però grazie a Gelli, che da segretario diviene gran maestro, rinasce più forte e allarga i suoi tentacoli in ogni ramo del potere. Quando, il 17 marzo 1981, i giudici milanesi Turone e Colombo, indagando sul crack Sindona, arrivano alle liste, per il mondo politico italiano è un terremoto. Negli elenchi ci sono quasi mille nomi tra cui ministri, parlamentari, finanzieri come Michele Sindona e Roberto Calvi, editori, giornalisti, militari, capi dei servizi segreti, prefetti, questori, magistrati. C'è anche il nome di Berlusconi. La P2 risulta coinvolta direttamente o indirettamente in tutti i maggiori scandali degli ultimi trent'anni della storia italiana: tentato golpe Borghese, strategia della tensione, crack Sindona, caso Calvi, scalata ai grandi gruppi editoriali, caso Moro, mafia, tangentopoli. Il 22 maggio 1981 scatta il primo ordine di cattura, ma Gelli è irreperibile. Verrà arrestato a Ginevra il 13 settembre 1982. Rinchiuso nel carcere di Champ Dollon, evade il 10 agosto 1983. Il 21 settembre 1987 si costituisce a Ginevra. Torna a Champ Dollon, che lascia il 17 febbraio 1988 estradato in Italia. L'11aprile ottiene la libertà provvisoria per motivi di salute. Il 16 gennaio 1997 c'è un nuovo ordine di arresto, ma il ministero della Giustizia lo revoca: il reato di procacciamento di notizie riservate non era tra quelli per cui era stata concessa l'estradizione. Il 22 aprile 1998 la Cassazione conferma la condanna a 12 anni per il Crack del Banco Ambrosiano. Il 4 maggio Gelli è di nuovo irreperibile: la fuga dura più di quattro mesi. Gli vengono concessi i domiciliari, che sconterà a Villa Wanda, la residenza dove è morto e che nell'ottobre 2013 gli venne sequestrata a conclusione di una indagine per un debito col fisco; la magione - nella quale tuttavia continuò a vivere - è rientrata nella sua disponibilità pena nel gennaio scorso per la dichiarata prescrizione dei reati fiscali. Nell'aprile 2013 i pm di Palermo dell'inchiesta Stato-mafia lo hanno sentito per gli intrecci tra P2, servizi ed eversione. Con la morte di Licio Gelli scompare uno dei protagonisti degli anni più bui della storia d’Italia. L’ex venerabile porta con se nella tomba alcuni dei segreti, destinati, salvo colpi di scena, a restare tali. A capo di una loggia massonica P2 (Propaganda 2), sconfessata solo dopo lo scoppio dello scandalo dal Grande Oriente, Gelli era riuscito a tessere una trama di relazioni internazionali e nazionali che ne hanno fatto a lungo il burattinaio occulto del Paese. Gelli aveva creato con la P2 nel corso degli anni ’70 un centro di potere di cui, si scoprì, facevano parte alti vertici delle forze armate, dei servizi segreti, politici, imprenditori e giornalisti. La P2 è stata chiamata in causa in tutti i più grandi scandali della storia d’Italia, dal tentato golpe del principe Borghese, il crack Sindona, il caso Calvi, il controllo del Corriere della Sera (Bruno Tassan Din, direttore generale della Rizzoli aveva la tessera 534). Fu condannato, tra l’altro, a 10 anni per depistaggio delle indagini della strage di Bologna del 1980. Dopo essere stato detenuto in Svizzera e Francia, è vissuto a Castiglion Fibocchi, a nord di Arezzo, a Villa Wanda, sequestrata il 10 ottobre 2013 dalla Guardia di Finanza per frode fiscale (17 milioni di euro). Dopo varie aste andate deserte è stata affidata a Licio Gelli come custode giudiziario. Qui dal 2001 Gelli viveva in detenzione domiciliare dove ha scontato la pena di 12 anni per la bancarotta fraudolenta dell’Ambrosiano. L’Italia scoprì l’esistenza di una sorta di Stato parallelo il 17 marzo 1981, quando gli allora giudici istruttori Gherardo Colombo e Giuliano Turone, nell’ambito di un’inchiesta sul finto rapimento del finanziere Michele Sindona, fecero perquisire Villa Wanda e la fabbrica di sua proprietà - Giole - sempre a Castiglion Fibocchi, subito a nord di Arezzo. Qui venne scoperta una lunga lista di alti ufficiali delle forze armate e di ’grand commis’ aderenti alla P2 resa pubblica dall’allora presidente del Consiglio Giovanni Spadolini il 21 maggio 1981. La lista includeva 962 nomi tra cui anche l’intero gruppo dirigente dei servizi segreti italiani, 2 ministri (Gaetano Stammati e Paolo Foschi, entrambi Dc), 44 parlamentari, 12 generali dei Carabinieri, 5 della Guardia di Finanza, 22 dell’Esercito, 4 dell’Aeronautica e 8 ammiragli. Imprenditori come Silvio Berlusconi, giornalisti come Roberto Gervaso e Maurizio Costano e Vittorio Emanuele di Savoia Nel maggio del 1981 Gelli è già irreperibile. Scappò in Svizzera dove fu arrestato nel 1982 e rinchiuso nel carcere di Champ Dollon da cui, nel suo stile, misteriosamente riuscì a scappare, l’anno dopo, ad agosto del 1983. Trovò rifugio in Sudamerica dove resto a lungo tra Venezuela e Argentina prima di costituirsi nel 1987, però sempre a Ginevra. Solo nel febbraio del 1988 venne estradato in Italia ma resta in carcere pochi giorni: ad aprile ottiene la libertà provvisoria per motivi di salute. Licio Gelli è stato condannato, tra l’altro, a 12 anni per il crack del Banco Ambrosiano di Calvi; calunnia nei confronti dei magistrati milanesi Colombo, Turone e Viola; calunnia aggravata dalla finalità di terrorismo per aver tentato di depistare le indagini sulla strage alla stazione di Bologna, vicenda per cui è stato condannato a 10 anni Nel corso della sua movimentata storia Gelli aveva coltivato buoni rapporti con i militari golpisti argentini che nel 1976 avevano deposto Isabelita Peron: il generale Roberto Eduardo Viola e l’ammiraglio Emilio Massera. Si è spesso parlato di suoi legami con la Cia, mai provati, o quanto meno con personaggi legati indirettamente a Langley come lo storico conservatore Michael Ledeen.  

Cia, golpe, esercito e crac: tutti i torbidi segreti che Licio Gelli si porta nella tomba, scrive “Libero Quotidiano” il 16 dicembre 2015. Con la morte di Licio Gelli scompare uno dei protagonisti degli anni più bui della storia d’Italia. L’ex "venerabile "porta con se nella tomba alcuni dei segreti più torbidi d’Italia, destinati, salvo colpi di scena, a restare tali. A capo di una loggia massonica P2 (Propaganda 2), sconfessata solo dopo lo scoppio dello scandalo dal Grande Oriente, Gelli era riuscito a tessere una trama di relazioni internazionali e nazionali che ne hanno fatto a lungo il burattinaio occulto del Paese. Nato a Pistoia il 21 aprile del 1919, Gelli aveva creato con la P2 nel corso degli anni ’70 un centro di potere di cui, si scoprì, facevano parte alti vertici delle forze armate, dei servizi segreti, politici, imprenditori e giornalisti. La P2 è stata chiamata in causa in tutti i più grandi scandali della storia d’Italia, dal tentato golpe del principe Borghese, il crack Sindona, il caso Calvi, il controllo del Corriere della Sera (Bruno Tassan Din, direttore generale della Rizzoli aveva la tessera 534). Fu condannato, tra l’altro, a 10 anni per depistaggio delle indagini della strage di Bologna del 1980. Dopo essere stato detenuto in Svizzera e Francia, è vissuto a Castiglion Fibocchi, a nord di Arezzo, a Villa Wanda, sequestrata il 10 ottobre 2013 dalla Guardia di Finanza per frode fiscale (17 milioni di euro). Dopo varie aste andate deserte è stata affidata a Licio Gelli come custode giudiziario. Qui dal 2001 Gelli viveva in detenzione domiciliare dove ha scontato la pena di 12 anni per la bancarotta fraudolenta dell’Ambrosiano. L’Italia scoprì l’esistenza di una sorta di Stato parallelo allignato dentro e dietro quello ufficiale il 17 marzo 1981 quando gli allora giudici istruttori Gherardo Colombo e Giuliano Turone, nell’ambito di un’inchiesta sul finto rapimento del finanziere Michele Sindona, fecero perquisire Villa Wanda e la fabbrica di sua proprietà - Giole - sempre a Castiglion Fibocchi, subito a nord di Arezzo. Qui venne scoperta una lunga lista di alti ufficiali delle forze armate e di "grand commis" aderenti alla P2 resa pubblica dall’allora presidente del Consiglio Giovanni Spadolini il 21 maggio 1981. La lista includeva 962 nomi tra cui anche l’intero gruppo dirigente dei servizi segreti italiani, 2 ministri (Gaetano Stammati e Paolo Foschi, entrambi Dc), 44 parlamentari, 12 generali dei Carabinieri, 5 della Guardia di Finanza, 22 dell’Esercito, 4 dell’Aeronautica e 8 ammiragli. Imprenditori come Silvio Berlusconi, giornalisti come Roberto Gervasoe Maurizio Costano e Vittorio Emanuele di Savoia. Nel maggio del 1981 Gelli è già irreperibile. Scappò in Svizzera dove fu arrestato nel 1982 e rinchiuso nel carcere di Champ Dollon da cui, nel suo stile, misteriosamente riuscì a scappare, l’anno dopo, ad agosto del 1983. Trovò rifugio in Sudamerica dove resto a lungo tra Venezuela e Argentina prima di costituirsi nel 1987, però sempre a Ginevra. Solo nel febbraio del 1988 venne estradato in Italia ma resta in carcere pochi giorni: ad aprile ottiene la libertà provvisoria per motivi di salute. Licio Gelli è stato condannato, tra l’altro, a 12 anni per il crac del Banco Ambrosiano di Calvi; calunnia nei confronti dei magistrati milanesi Colombo, Turone e Viola; calunnia aggravata dalla finalità di terrorismo per aver tentato di depistare le indagini sulla strage alla stazione di Bologna, vicenda per cui è stato condannato a 10 anni. Nel corso della sua movimentata storia Gelli aveva coltivato buoni rapporti con i militari golpisti argentini che nel 1976 avevano deposto Isabelita Peron: il generale Roberto Eduardo Viola e l’ammiraglio Emilio Massera. Si è spesso parlato di suoi legami con la Cia, mai provati, o quanto meno con personaggi legati indirettamente a Langley come lo storico conservatore Michael Ledeen.

È morto Licio Gelli. L'ex venerabile della loggia P2, 96 anni, è deceduto nella sua dimora di Villa Wanda a Arezzo, scrive Luca Romano Mercoledì 16/12/2015 su "Il Giornale". È morto Licio Gelli. L'ex venerabile della loggia P2, 96 anni, è deceduto nella sua dimora di Villa Wanda a Arezzo. Gelli era stato ricoverato recentemente in ospedale. L'ex imprenditore divenuto famoso per la vicenda legata alla loggia massonica P2 si è spento poco prima delle 23 di martedì a Villa Wanda dove risiedeva da anni. Da due giorni le condizioni di salute di Licio Gelli, già precarie, erano fortemente peggiorate tanto da indurre la moglie Gabriela Vasile a ricoverarlo nella clinica pisana di San Rossore da dove era stato dimesso alla fine della scorsa settimana perché giudicato ormai in fin di vita. Dopo un rapido check up all'ospedale di Arezzo che aveva dato lo stesso esito, la famiglia aveva deciso di riportarlo a Villa Wanda dove è spirato. Nato a Pistoia il 21 aprile del 1919, Gelli è stato condannato per depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna del 1980, dopo essere stato detenuto in Svizzera e Francia e coinvolto in varie inchieste, si era ritirato nella sua abitazione sulle colline di Arezzo dove è morto. Gelli lascia la seconda moglie Gabriela (la prima Wanda è scomparsa da tempo) e tre figli Raffaello, Maurizio e Maria Rosa, la quarta figlia Maria Grazia è morta nel 1988 in un incidente stradale. I funerali si svolgeranno probabilmente giovedì a Pistia, mentre la camera ardente dovrebbe essere allestita nella chiesa di Santa Maria delle Grazie ad Arezzo a pochi metri da Villa Wanda.

Licio Gelli e la P2. Le liste segrete loggia P2 (Propaganda due) furono scoperte il 17 marzo 1981, continua Luca Romano. Condannato per depistaggio delle indagini della strage di Bologna del 1982, è stato l'uomo dietro ai grandi misteri d'Italia, il nome dell'ex venerabile - gran maestro della loggia deviata - è legato a decine di inchieste giudiziarie e a vari lati oscuri della storia dello scorso secolo: tentato golpe Borghese, strategia della tensione (strage alla stazione di Bologna in testa), crac Sindona, caso Calvi e Moro, mafia, tangentopoli. Classe 1919, si è spento nella sua villa Wanda (ribattezzata in onore della prima moglie Wanda Vannacci) sulle colline di Arezzo, dove era rientrato dopo un breve ricovero in ospedale. Definito "il burattinaio d'Italia", faccendiere e imprenditore, fu fascista durante il regime e la Repubblica di Salò e, poi, partigiano, quando la vittoria della guerra cominciò a rivelarsi impossibile per i nazi-fascisti. Le liste segrete loggia P2 (Propaganda due) furono scoperte il 17 marzo 1981. I giudici istruttori Gherardo Colombo e Giuliano Turone, nell'ambito di un'inchiesta sul finto rapimento del finanziere Michele Sindona (banchiere coinvolto nell'affare Calvi e mandante dell'omicidio di Giorgio Ambrosoli), fecero perquisire la villa di Gelli e la fabbrica di sua proprietà (la Giole di Castiglion Fibocchi, Arezzo), che portò alla scoperta di una lunga lista di alti ufficiali delle forze armate e di funzionari pubblici aderenti alla P2. La scoperta di un potere parallelo, di un altro Stato che controllasse ogni intrigo di potere, fu un terremoto politico, che travolse un pezzo della classe dirigente italiana. Tra le 962 persone inserite nell'elenco vi erano i nomi di 44 parlamentari, 2 ministri dell'allora governo (Enrico Manca, Psi e Franco Foschi, Dc), un segretario di partito, 12 generali dei carabinieri, 5 generali della guardia di finanza, 22 generali dell'esercito italiano, 4 dell'aeronautica militare, 8 ammiragli, vari magistrati e funzionari pubblici, i direttori e molti funzionari dei vari servizi segreti, diversi giornalisti ed imprenditori. Tra i nomi più noti, oltre a Vittorio Emanuele di Savoia, anche il futuro premier Silvio Berlusconi. Nel 2008, in un'intervista a Klaus Davi per Klauscondicio, l'ex venerabile dichiarò: "Con la P2 avevamo l'Italia in mano. Con noi c'era l'esercito, la guardia di finanza, la Polizia, tutte nettamente comandate da appartenenti alla Loggia". Il presidente del Consiglio Arnaldo Forlani attese il 21 maggio 1981, prima di rendere pubblica la lista degli appartenenti alla P2. Fu istituita, per volontà della presidente della Camera Nilde Iotti, una commissione parlamentare d'inchiesta, guidata dalla deputata democristiana Tina Anselmi, ex partigiana e prima donna a diventare ministro. La commissione affrontò un lungo lavoro di analisi venendo a scoprire come la P2 fu anche un punto di riferimento in Italia per ambienti dei servizi segreti americani, intenzionati a tenere sotto controllo la vita politica italiana fino al punto, se necessario, di promuovere riforme costituzionali apposite o di organizzare un colpo di Stato. La commissione denunciò la loggia come una vera e propria organizzazione criminale ed eversiva. Fu sciolta con un'apposita legge, la numero 17 del 25 gennaio 1982.

Gelli e i misteri d'Italia. Oltre che alla vicenda della loggia P2 il nome di Licio Gelli, l'ex venerabile della loggia P2 è legato a decine di inchieste giudiziarie e a vari lati oscuri della storia recente d' Italia, conclude Luca Romano. Oltre che alla vicenda della loggia P2 il nome di Licio Gelli, l'ex venerabile della loggia P2 scomparso nella serata di martedì 15 a 96 anni nella sua casa di Arezzo, è legato a decine di inchieste giudiziarie e a vari lati oscuri della storia recente d' Italia: dal tentato golpe Borghese a tangentopoli, dalla scalata a gruppi editoriali al caso Moro.

Questo un elenco dei principali fatti che lo hanno visto coinvolto e indagato negli ultimi anni.

- STRAGE DI BOLOGNA (2 agosto 1980 - 85 morti e 200 feriti): assolto definitivamente dall' accusa di associazione eversiva Gelli nel 1994 è stato condannato per calunnia (10 anni) al processo d'appello-bis. Nell'ambito del processo l' ex "venerabile" fu protagonista anche della misteriosa rinuncia all'incarico da parte di uno dei legali di parte civile Roberto Montorzi che abbandonò il collegio dopo due incontri con Gelli a villa Wanda.

- BANCO AMBROSIANO: al processo di primo grado a Milano, Gelli è stato condannato a 18 anni di reclusione per il ruolo avuto nella bancarotta dall'istituto di Calvi (che aveva la tessera n.519 della P2). Il suo nome è da sempre anche al centro delle indagini sulla morte del "banchiere di Dio". Nel processo di secondo grado la pena venne ridotta a 12 anni. Il 6 maggio 1998 Gelli, che doveva scontare la condanna divenuta definitiva, fugge da villa Wanda e si rende irreperibile. Il 10 settembre viene fermato e arrestato a Cannes. Gelli entrò anche nell'inchiesta sull'omicidio del banchiere, ma il procedimento venne archiviato il 30 maggio 2009.

- CONTO "PROTEZIONE": il 29 luglio 1994 Gelli è stato condannato a Milano a sei anni e mezzo, in primo grado, per la vicenda del conto 633369 di Silvano Larini all'Ubs di Lugano, del quale fu trovata traccia nel 1981 a Castiglion Fibocchi con riferimenti a soldi destinati al Psi di Craxi e Martelli. La pena fu ridotta a 5 anni e 9 mesi in appello. La Cassazione decise l'annullamento della condanna per Gelli per improcedibilità dell'azione penale, essendo stata la sua posizione definita nel processo per il crac del Banco Ambrosiano.

- ATTENTATI AI TRENI IN TOSCANA: accusato di aver finanziato le organizzazioni eversive "nere" per gli attentati degli anni Settanta, Gelli è stato prima condannato a 8 anni e poi dichiarato non processabile.

- MAFIA-POLITICA-AFFARI: Gelli era uno dei 126 imputati al processo a Palmi sui presunti collegamenti tra mondo politico ed imprenditoriale e organizzazioni mafiose. Secondo l'accusa, si sarebbe adoperato per "aggiustare" un processo in Cassazione a due presunti mafiosi di Taranto. Venne assolto il 3 marzo 1995 dall' accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Nel 1998 è chiamato in causa dal procuratore capo di Palermo Giancarlo Caselli nell'inchiesta Sistemi criminali poi archiviata nel 2000.

- INCHIESTA OPERAZIONI FINANZIARIE: tra il 1993 ed il 1994, Gelli è stato al centro dell'attenzione dei magistrati di Arezzo e Roma per una serie di operazioni finanziarie miliardarie che avrebbe disposto in varie banche. Le indagini sono legate in particolare al fallimento della holding Cgf del gruppo Cerruti. Un ruolo di primo piano nelle vicende è rivestito dall'ex vicepresidente del Csm Ugo Zilletti.

- LEGAMI CON LA CAMORRA: la Dda di Napoli ha indagato sui rapporti tra Gelli ed alcuni esponenti della camorra.

- INCHIESTA CHEQUE TO CHEQUE: Gelli venne iscritto nel registro degli indagati, insieme al figlio Maurizio, nell'ambito di un'inchiesta condotta dalla procura di Torre Annunziata (Napoli) in relazione ad un presunto traffico internazionale di armi e valuta. Una trentina le persone arrestate. L'inchiesta venne poi trasferita a Milano.

- CASO BRENNEKE: le presunte rivelazioni fatte al Tg1 dal sedicente ex agente della Cia Richard Brenneke sui rapporti tra servizi segreti Usa e P2, duramente smentite da Gelli, estate del 1990 provocarono tensioni e polemiche, anche per il coinvolgimento dell'allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga.

- FALLIMENTO DI NEPI: Il 10 giugno 1997 la procura di Roma emette 9 ordini di arresto per il fallimento della holding Di Nepi e di numerose società legate al gruppo. Per Gelli scatta l'obbligo di dimora a Arezzo. Il 18 aprile 2005 venne condannato a 2 anni e 3 mesi di reclusione per associazione a delinquere e bancarotta insieme ad altre 9 persone.

Licio Gelli, quel megalomane di provincia diventato potente per caso. Un uomo bugiardo. Che solo le circostanze, la guerra fredda, l'essere l'Italia un paese di frontiera tra l'Ovest e l'Est, in un brulichio di spie, affaristi e politicanti, avevano potuto trasformare in un uomo capace di infilarsi ovunque, dai partiti ai servizi segreti. E all'ombra delle grandi stragi di questo Paese, scrive Marco Damilano il 16 dicembre 2015 su “L’Espresso”. Gli ho parlato una sola volta, al telefono, più di dieci anni fa. Chiamai il numero della casa ad Arezzo per un'intervista, l'apparecchio suonò un paio di volte, poi qualcuno rispose. «Pronto, vorrei parlare con Licio Gelli», dissi. Dall'altra parte un lungo silenzio, poi quella voce: «Non è in casa». Io, stupito: «Ma scusi, Gelli è lei, la riconosco!». E lui: «No, guardi, non sono io». E mise giù. A me venne in mente che l'attore Alighiero Noschese, il primo imitatore della tv italiana, era stato affratellato alla loggia P2, si diceva che falsificasse le voci nelle telefonate del Venerabile, fingeva di essere un ministro o il presidente del Consiglio. E anche lui all'epoca si era inventato un'altra identità, al telefono si faceva chiamare dottor Luciani, per paura delle intercettazioni. E pensai che questo era, prima di tutto, Licio Gelli. Un bugiardo. Un megalomane di provincia che solo le circostanze - la guerra fredda, l'essere l'Italia un paese di frontiera tra l'Ovest e l'Est, in un brulichio di spie, affaristi e politicanti - avevano potuto trasformare in un uomo potente. In vecchiaia si era messo a scrivere versi di dubbio valore letterario ma di sicuro impatto per le cronache: ««Passano gli anni e il tempo affresca le rughe, / scalfisce i segreti remoti che durano nel cuore…». Untuoso, anzi viscido, ogni parola un soffio di ricatto. «Sono il confessore di questa Repubblica», amava vantarsi ai tempi della sua ascesa. Quando arrivava all'hotel Excelsior in via Veneto, si rinchiudeva nelle sue tre stanze, dalla 127 alla 129, e riceveva. I suoi seguaci. I candidati alla loggia. «Il braccio sinistro appoggiato su una scrivania con molti cassetti. Ogni tanto ne apriva uno e tirava fuori qualche fascicolo ben conservato in copertine di cartoncino rosa. Era il suo archivio. Lo faceva intravedere, ora ammiccante ora minaccioso, ai suoi ospiti costretti a sedersi su una poltrona più bassa, tanto per far notare la differenza. Quasi sempre, dopo ogni visita, le cartelline rosa si arricchivano di altri fogli, nuovi segreti», scrivevano Maurizio De Luca e Pino Buongiorno, due giornalisti che non ci sono più, nell'instant-book a più mani "L'Italia della P2" uscito subito dopo la pubblicazione degli elenchi della loggia nel maggio 1981, a tutt'oggi il libro più bello su Gelli e i suoi cari. Generali, ammiragli, direttori di giornale, ministri, segretari di partito. Piccoli uomini, ridicoli e sinistri. Questa era la loggia massonica P2. Nella lista ritrovata a Castiglion Fibocchi erano 962, sfilarono uno a uno a palazzo San Macuto, davanti alla commissione parlamentare di inchiesta presieduta da Tina Anselmi. Nei diari della parlamentare democristiana ci sono gli appunti di quelle audizioni, dove tutti negavano e insieme confermavano. «Enrico Manca: nel 1980 il 4 aprile entro come ministro del Commercio estero nel governo Cossiga. A fine aprile conosco Gelli a un ricevimento all'ambasciata argentina. Visita di Maurizio Costanzo, che disse di essere massone, e a nome di Gelli mi chiese se ero disponibile a aderire alla massoneria. Quando mi vidi negli elenchi di Gelli telefonai a Costanzo, ma questi mi confermò di aver telefonato a Gelli la non disponibilità...». La carriera di Gelli era cominciata nel biennio 1943-45, nel passaggio di regime, al trapasso del fascismo, con la penisola occupata da eserciti stranieri, l'ideale per cominciare una lunga trafila di doppiogiochista. Il giovane repubblichino resta in forza alle SS ma traffica con i partigiani, è un fascista che trama con gli antifascisti, per lui a guerra finita garantisce il presidente comunista del Cln di Pistoia Italo Carobbi: «Il Gelli Licio di Ettore, pur essendo stato al servizio dei fascisti e dei tedeschi, si è reso utile alla causa dei patrioti». Due righe che valgono un'intera biografia, ricordate dallo storico Luciano Mecacci nel volume-inchiesta sull'assassinio di Giovanni Gentile, intitolato "La ghirlanda fiorentina". Quella pianta intrecciata di fiori secchi, appassiti, putridi che soffoca ogni raggio di luce. La Ghirlanda massonica e piduista cresce negli anni della democrazia, come una radice marcia di un albero rigoglioso, una cellula malata in un corpo sano, nell'oscurità. Gelli entra nella segreteria di un deputato democristiano, diventa dirigente di una nota ditta di materassi, la Permaflex, e in questa veste accoglierà Giulio Andreotti all'inaugurazione dello stabilimento di Frosinone (il Divo lo ricorderà sempre così: «Era uno che vendeva materassi», e via sminuzzando), giura fedeltà alla massoneria, il Grande Oriente. Prospera negli anni Settanta dei misteri e delle stragi, si infila dappertutto: nei partiti, al Quirinale, a Palazzo Chigi, a Montecitorio, tra gli alti gradi delle forze armate, al comando dei servizi segreti. Controlla le scalate bancarie più prodigiose, da quella di Michele Sindona a quella di Roberto Calvi, destinati a morti tragiche e mai chiarite. È un'ombra nelle più grandi tragedie italiane: la strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980, il sequestro e l'assassinio di Aldo Moro. Si allarga al Sud America, nell'Argentina di Peron e dei generali golpisti. Sogna di riscrivere la Costituzione: il piano di rinascita democratica, i partiti da chiudere, la tv privata da diffondere, lo statuto dei lavoratori da stracciare, la separazione delle carriere dei magistrati, «l'obbligo di attuare i turni di festività per sorteggio, per evitare la sindrome estiva che blocca le attività produttive». Cede alla vanità e si fa intervistare dal "Corriere della Sera" di cui alla fine degli anni Settanta ha il pieno controllo. Il verbo gelliano va nella prestigiosa terza pagina del quotidiano di via Solferino domenica 5 ottobre 1980. Titolo in ginocchio: «Parla, per la prima volta, il signor P2 Licio Gelli». Incipit genuflesso: «Capo indiscusso della più segreta e potente loggia massonica, ha accettato di sottoporsi a un'intervista esponendo anche il suo punto di vista...», scrive felice l'intervistatore Maurizio Costanzo, iniziato alla loggia due anni prima. «Una brodaglia disgustosa, con il burattinaio che (tronfio, allusivo, arrogante, ricattatorio) pontifica su tutto e tutti, dispensando ridicole ricette economiche dietro le quali s'intravedono speranze di nuovi affari», scrive Giampaolo Pansa. Silvio Berlusconi giurò da fratello il 26 gennaio 1978 nella sede romana della P2 in via Condotti, con il grado di apprendista, tessera numero 1816. E in quel sodalizio tra il Gran Maestro e il Cavaliere c'era un'intuizione potente: che per attuare il piano di rinascita e conquistare l'Italia non servivano le bombe sui treni ma il Mundialito, il mini-mondiale di calcio in Uruguay strappato alla Rai dalla tv del Biscione grazie alla mediazione di Gelli. Non ci voleva il colpo di Stato, bastava "Colpo grosso". Tra i due personaggi distanti in tutto, uno dedito ai segreti, l'altro all'immagine, c'è in realtà la stessa concezione del mondo. In cui le relazioni valgono più delle regole, le lobby occulte e trasversali contano di più delle appartenenze visibili, la fedeltà alle istituzioni va scavalcata da doppie, triple fedeltà non dichiarate. Gelli se ne va e a leggere le cronache di questi giorni si direbbe che abbia vinto lui. Le vicende bancarie di questi giorni, con la ghirlanda di relazioni intrecciata attorno alla Banca Etruria, fiore all'occhiello di Arezzo, la città del Venerabile. Lo scandalo vaticano di ricatti incrociati e millanterie. Il ritrovato attivismo di Luigi Bisignani, il più giovane tra i nomi comparsi nella lista dei piduisti (lui ha sempre negato, naturalmente: «Non avevo neppure l'età per iscrivermi»). La P3, la P4, numerate con scarsa fantasia, per certificare il marchio di origine, il logo di successo. Quante volte, in questi ultimi anni, in questi ultimi mesi, ci siamo sorpresi ad avvertire in alcune carriere improvvise l'inconfondibile odore della P2, gli stessi metodi, a volte le stesse persone. I burattinai o presunti tali si sono moltiplicati nei palazzi, solo che la posta in gioco è più meschina, non c'è il grande gioco della guerra fredda che serviva a nascondere i piccoli affari. E ancora più avvilenti sono i protagonisti: banchieri di provincia, monsignori allupati, ragazze esibizioniste, faccendieri invecchiati... «Se la loggia P2 è stata politica sommersa, essa è contro tutti noi che sediamo in questo emiciclo. Questo è il sistema democratico che in questi quaranta anni abbiamo voluto e costruito con il nostro quotidiano impegno: non può esservi posto per nicchie nascoste o burattinai di sorta». Con queste parole, il 9 gennaio 1986, Tina Anselmi presentava nell'aula della Camera le conclusioni della commissione parlamentare di inchiesta sulla P2 da lei presieduta. Trent'anni dopo Gelli se ne va. Ma ancora c'è tanto da fare per custodire la Repubblica e le sue istituzioni, la trasparenza della democrazia, dai suoi eredi, i suoi imitatori, i suoi fratelli. I tanti Gelli d'Italia che si aggirano tra di noi.

Quando Licio bocciò Silvio, scrive Gianfrancesco Turano il 16 dicembre 2015 su "L'Espresso". È morto Licio Gelli, 96 anni, fascista vertical che passerà alla storia per avere legittimato in quasi un secolo di vita il sistema del potere oligarchico attraverso l'associazionismo segreto. Che si chiamasse loggia P2 o altrimenti, per l'Aretino non faceva grande differenza purché depotenziasse la democrazia nell'unico modo ammesso dai sistemi politici dell'Occidente: l'oligarchia, appunto. L'unica cosa che Gelli non poteva tollerare, da ex fautore del sistema autocratico, erano le imitazioni. Per questo, cinque anni fa, sconfessò il suo ex iscritto e Nostro Caro Leader Silvio Berlusconi in un'intervista all'Espresso. La malattia e una sua certa vicinanza, puramente territoriale, con elementi del governo in carica hanno forse impedito al Venerabile Maestro di esprimersi compiutamente sulla squadra di Matteo Renzi. In modo alquanto compassato, Gelli ha criticato come goffe le riforme, poco più di un anno fa, e ha usato il termine "bambinone" per il primo ministro senza chiarire chi siano i genitori dell'infante. Il paleocraxiano Rino Formica, felice inventore dell'espressione "sinistra ferroviaria", ha attribuito la paternità del renzismo proprio a Gelli e al suo Piano Rinascita in un'interemerata risalente al marzo 2014. Esagerato? Di certo l'Istituzione, cioè la massoneria, ha continuato fino a oggi ad avere un rapporto contrastato amore-odio verso il "fratello che sbaglia" Licio. La sua influenza reale è però stata continua, costante, a dispetto dei proclamati rinnovamenti di grembiuli e cappucci. La morte di Gelli arriva quasi contemporanea alla dipartita verso l'Oriente Eterno di Armando Cossutta e della Popolare dell'Etruria e del Lazio. Il primo ha rappresentato per anni l'Urss all'interno del Pci. La seconda è la banca aretina appena fallita dopo decenni di gestione del massonissimo Elio Faralli, scomparso a 91 anni nell'aprile 2013. La morte è trasversale. Una specie di massoneria. Il Raguno invernale è intitolato, ovviamente, al Venerabile. Si invitano i partecipanti a vestirsi in modo adeguato. In attesa di comunicare gli indirizzi delle migliori boutique di fashion massonica, vorrei pregare GLU di interrompere i servizi di Discovery Channel che ama accompagnare all'iniziativa. La scelta del luogo è di pertinenza del Venerabile BM, clonato e seviziato dalle suore nel Raguno Gaetano di semifausta memoria. Propenderei per Roma dove si trovano i migliori grembiuli in pelle d'agnello. Se no Abruzzo, dove abbondano i suscuoiati agnelli. PS Mi sono appena accorto che questo è il post numero 333 di RdC. Ça ne s'invente pas.

Gelli: "Sono le mie brutte copie". "Il governo Berlusconi si è abbeverato al mio Piano di Rinascita nazionale. Ma il premier non è in grado di realizzarlo". Parla l'ex capo della Loggia P2, scrive Gianfrancesco Turano il 20 giugno 2010 su “L’Espresso”.

"La democrazia è una brutta malattia, una ruggine che corrode. Guardi quello che accade in Grecia, in Spagna, in Portogallo: anarchia completa". In partenza, Licio Gelli è coerente con il credo di una vita giunta al traguardo dei 91 anni: ordine e disciplina. Eppure no. Il Venerabile della poco disciolta loggia P2 non può godere appieno del successo della sua creatura, quel Piano di Rinascita che per Antonio Di Pietro e molti altri oppositori è la stella polare dell'esecutivo. "È vero", sostiene Gelli: "Gli uomini al governo si sono abbeverati al mio Piano di Rinascita, ma l'hanno preso a pezzetti. Io l'ho concepito perché ci fosse un solo responsabile, dalle forze armate fino a quell'inutile Csm. Invece oggi vedo un'applicazione deformata".

Non è contento dell'esecutivo?

"Ho grandi riserve. Ci sono gli stessi uomini di vent'anni fa e non valgono nulla. Sanno solo insultarsi e non capiscono di economia. Tremonti è un tramonto. Il Parlamento è pieno di massaggiatrici, di attacchini di manifesti e di indagati. Chi è sotto inchiesta deve essere cacciato all'istante, al minimo sospetto". 

Almeno il suo ex iscritto Silvio Berlusconi ha la sua benedizione?

"Io sono un laico. Non do benedizioni ma certamente non condivido ciò che accade per sua volontà. Anche certe questioni private si risolvono in famiglia. Deve essere meno goliardico".

Vede in lui il realizzatore del Piano Rinascita?

"Non è adatto. Inoltre, non ha molti collaboratori di valore".

Pensa che sia vittima della pressione leghista?

"La Lega per me è un pericolo. Sta espropriando la sostanza economica dell'Italia. Le bizzarrie di Umberto Bossi hanno già diviso il Paese. Bisogna dire basta".

Altri segnali di crisi?

"I partiti non esistono più e i leader attuali passano il Rubicone con tre tessere in tasca. Non bisogna riformare solo la giustizia, ma prima di tutto l'economia e la sanità".

Ci tranquillizzi, dottor Gelli. Lei non sta diventando di sinistra?

"Io sono per il buon senso. Sono per il benessere al popolo che oggi patisce, non arriva al 20 del mese. Qui siamo oltre i margini della rivolta. Siamo alla Bastiglia".

Filippo Facci il 17 luglio 2014 su “Libero Quotidiano”: "Aveva ragione Gelli". Se Hitler era vegetariano (che poi non lo era) non è che allora ci strafoghiamo di carne. Del resto Hitler fece la prima campagna antifumo: non è che allora ci ammazziamo di canne. A Stalin piaceva Mozart: non è che allora ascoltiamo tutti Peppino di Capri. Eccetera. Il discorso è demenziale ma serve a dire che persino Licio Gelli poteva aver ragione in alcune cose: non perché fosse un genio visionario, ma perché il suo Piano di Rinascita democratica sosteneva anche dei progetti in parte banali e in parte condivisi da democrazie di tutto il mondo. Ecco perché esorcizzare i tentativi di riforma paragonandoli a quanto scriveva Gelli nel 1976 - vedi Il Fatto di martedì - resta di un livello intellettuale annichilente, minestra riscaldata persino per un pubblico para-grillino. Un Parlamento semplificato, un Senato regionale, un premier eletto dalla Camera, i decreti legge non emendabili, dei limiti all'ostruzionismo, l'abolizione delle province, riduzione dei parlamentari: la verità è che certi propositi piduisti erano di assoluta usualità; oppure, come nel caso dell'Italicum, erano delle oasi di democrazia se paragonati alle liste bloccate che ci vanno cucinando. Altre proposte di Gelli, poi, non sono né banali né moderate: sono dei sogni. Tipo "dissolvere la Rai in nome della libertà di antenna" o ancora la chimera della "responsabilità civile dei magistrati": quella vera, non l'inapplicabile legge Vassalli o il consommè che il ministro Andrea Orlando va preparando.

Licio Gelli al Fatto: “Il bambinone Renzi e gli ex lacchè di Berlusconi”. Il Venerabile della Loggia P2 dice la sua sulle ultime mosse del governo: "Le riforme sono goffe". E sull'Italia di oggi: "Sono felice che vengano a galla le responsabilità della cattiva politica", scrive di Marco Dolcetta il 23 maggio 2014 su “Il Fatto Quotidiano”. Di questi tempi sia la schiena che il cuore stanno dando qualche problema a Licio Gelli. Il 96enne Venerabile della Loggia P2, nonostante la voce affaticata, mantiene una certa energia verbale: “Lei deve sapere che sono entrato nei Servizi di intelligence dello Stato italiano dopo un incontro con Mussolini che voleva conoscermi. Io, il volontario ‘Licio Gommina’ della guerra civile di Spagna, nella quale aveva perso la vita mio fratello. Il Duce mi chiese quale poteva essere la ricompensa che lo Stato italiano poteva dare alla mia famiglia. In quella occasione, gli dissi che senz’altro mi sarebbe interessato conoscere il mondo dei Servizi segreti… Da allora non ne sono più uscito”.

Ma che ne pensa dell’attualità italiana e di Renzi?

Renzi è un bambinone, visto il suo comportamento che è pieno di parole e molto ridotto nei fatti: non è destinato a durare a lungo… Comunque, non è mai stato (né lui né i suoi familiari) nella massoneria. Vedo che nel suo governo ci sono molte giovani donne che io personalmente vedrei molto meglio a occuparsi d’altro…”.

E le riforme del premier?

Quelle di Renzi, per la legge elettorale e il Senato, sono goffe. Per quanto riguarda Palazzo Madama, mi fa piacere pensare che, nonostante tutti mi abbiano vituperato, sotto sotto mi considerano un lungimirante propositore di leggi; una quarantina di anni fa, con Rodolfo Pacciardi, scrivemmo, su invito dell’allora presidente Giovanni Leone, il cosiddetto Piano R., di Rinascita nazionale. Prevedeva una serie di norme e riforme che avrebbero potuto creare i fondamenti per uno Stato più efficace. Leone fu eletto presidente della Repubblica grazie ai voti della massoneria: lui mi ringraziò e poi mi chiese questo contributo. Così gli facemmo avere il testo del Piano R., cui lui non diede mai alcun riscontro e, anzi, da allora evitò di incontrarmi… Riguardo al Piano di Rinascita democratica, sfogliando le pagine di quel testo, si ritrova – nella parte riguardante le riforme istituzionali – una quasi totale abolizione del Senato. Riducendone drasticamente il numero dei membri, aumentando la quota di quelli scelti dal presidente della Repubblica e attribuendo al Senato una competenza limitata alle sole materie di natura economica e finanziaria, con l’esclusione di ogni altro atto di natura politica. L’intento era ed è ancora oggi chiaro. Dare un taglio effettivo a un ramo del Parlamento che, storicamente, ha maggiore saggezza e cultura non solo politica, a favore di una maggiore velocità nel fare leggi e riforme. Ricordo di averne parlato in seguito, quando veniva a trovarmi ad Arezzo, anche con la mia amica Camilla Cederna”.

In tema di amici, che ne pensa della carriera letteraria di Luigi Bisignani?

Più che mio amico, Luigi è mio figlioccio. Quando era ancora giovane, dopo la scomparsa di suo padre, sia io che Gaetano Stammati ci prendemmo cura di lui. Avevo e ho sempre avuto una grande stima di Luigi. Tanto che, quando nacque il progetto dell’Organizzazione Mondiale del Pensiero e dell’Assistenza Massonica, a Roma, il 1 gennaio 1975, decidemmo di affidargli l’incarico di addetto stampa, perché eravamo certi di poter fare pieno assegnamento sulla sua preziosa collaborazione…”.

Lei con la Svizzera ha un rapporto particolare, conosce bene le galere ma anche le banche di quel Paese…

Sì, soprattutto quando mi sono stati sottratti dai giudici milanesi diversi milioni di franchi che risultavano il frutto lecito di mia mediazione internazionale e che furono destinati a risarcire piccoli azionisti del Banco Ambrosiano dopo le note vicende che mi videro ingiustamente coinvolto. Ma nonostante tutto, ho accettato questo risarcimento forzato. La cosa più sorprendente, però, è che quei soldi non sono stati mai destinati a piccoli azionisti, tanto che da tempo io, assieme al loro legale, l’avvocato Gianfranco Lenzini di Milano, ho presentato richiesta di chiarimenti in tutte le sedi, ma senza alcun risultato”.

Come spiega il caso Renzi, la sua veloce ascesa, e cosa prevede per il futuro?

Beh, Renzi è un fenomeno parzialmente italiano, e mi risulta che fra i suoi mentori politici ci siano persone che vivono a Washington. È circondato, però, da mezze tacche: gli ex lacchè di Berlusconi. Fini, che ho conosciuto bene, quando faceva l’attendente ossequioso di Giorgio Almirante cui prestavo denari per il Msi. Soldi sempre resi… quello sì che era uomo di parola. E poi Schifani, Alfano: personaggi non certo di livello. Berlusconi ha sbagliato con le giovani donne, ma soprattutto circondandosi di personaggi di bassa levatura… Penso a Verdini, un mediocre uomo di finanza; è un massone… credo, ma non della nostra squadra. Il più alto livello di maturità politica in Italia c’è stato con Cossiga e Andreotti che avevano entrambi dei sistemi di controllo politico, uno con ‘Gladio’ e l’altro con Anello, cosa che Berlusconi non è mai riuscito a ripetere. E si sono visti i risultati di questa sua incapacità…”.

Per concludere, che ne pensa dell’Italia, e del suo futuro?

Non le nascondo che vedo, con una certa soddisfazione, il popolo soffrire. Non mi fraintenda: non sono felice di questa situazione. Sono felice, invece, che vengano sempre più a galla le responsabilità della cattiva politica. Perché, probabilmente, solo un tributo di sangue potrà dare una svolta, diciamo pure rivoluzionaria, a questa povera Italia”. Da Il Fatto Quotidiano del 23 maggio 2014

Licio Gelli (nato a Pistoia il 21 aprile 1919), è stato Gran Maestro massone della potente loggia massonica italiana P2, ed ha continuato in questo ruolo anche dopo l'espulsione della P2 dalla Massoneria ufficiale, avvenuta nel 1976, scrive “Misteri nel Mondo”. Gelli è stato anche membro dei Cavalieri di Malta. È stato detenuto in Svizzera e in Francia ed in Toscana. Durante il Fascismo, Gelli partì volontario con la spedizione delle Camicie Nere, mandate in Spagna da Mussolini in aiuto di Francisco Franco, e conseguentemente divenne un ufficiale di collegamento fra il governo fascista e il Terzo Reich, con contatti fra i suoi gerarchi fra cui Hermann Göring. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, si ipotizza che Gelli si sia arruolato nella CIA, su raccomandazione dei servizi segreti italiani (ma questa ipotesi non è stata verificata). Gelli è stato accusato di aver avuto un ruolo preminente nell'Operazione Gladio, un'organizzazione clandestina che si rifaceva all'operazione "Stay-Behind", promossa dalla CIA e dalla NATO per contrastare l'influenza comunista in Italia, così come negli altri paesi europei. In ogni caso, l'affaire Gladio è stato affrontato (anche giudizialmente) senza collegamenti diretti alla questione P2. Gelli ha ripetutamente dichiarato in pubblico di essere stato uno stretto amico del leader argentino Juan Domingo Perón (ma nessuna conferma è mai venuta dal Sud-America), escludendo la famosa foto alla Casa Rosada nella quale appare con Giulio Andreotti e spesso ha affermato, in maniera strana, che tale amicizia è stata veramente importante per l'Italia, senza però aver mai spiegato perché. È molto probabile che la Loggia P2, che si è delineata come un vero e proprio servizio segreto atlantico, fosse stata trasformata anche in una sede di raccordo e di incontro tra tutte le strutture parallele che gestivano il potere reale in Italia. Nelle liste della P2, rinvenute il 17 marzo 1981 nella villa di Gelli di Castiglion Fibocchi, risultavano iscritti numerosi nomi di dirigenti dei servizi segreti: Miceli, Maletti, La Bruna, D'Amato, Fanelli, Viezzer. Vi risultavano anche Giuseppe Santovito, Grassini e Walter Pelosi, capo del CESIS dal maggio 1978. C'erano i nomi di numerosi altri dirigenti, tra cui Musumeci, capo della segreteria di Santovito, Sergio Di Donato e Salacone, dell'ufficio amministrativo… Nelle liste della P2 c'era anche una nutrita schiera di funzionari del SISDE. Per molti iscritti la data di iniziazione era immediatamente precedente o successiva al passaggio nei servizi segreti. Nel 1962-64 il generale De Lorenzo e il SIFAR predisposero principalmente un'attività di schedatura dei cittadini e di preparazione di un possibile colpo di Stato. Negli anni settanta i dirigenti del SID (mutamento del nome del servizio segreto da SIFAR a SID, dopo lo scandalo del "piano Solo") esplicarono soprattutto azioni per proteggere eversori di destra e sospetti autori di stragi. Gli ufficiali del SISMI, che ne costituirono le strutture occulte, nel 1978-81 spaziarono dalla trattativa trilaterale con Br e camorra per la liberazione di Cirillo, al depistaggio dei giudici impegnati nelle indagini sulla strage del 2 agosto alla stazione di Bologna, dalla operazione "Billygate" al peculato, dalle macchinazioni nei confronti dei collaboratori del capo dello Stato alla diffusione di notizie calunniose attraverso la stampa, da loro stessi finanziata. A somiglianza della P2, della quale per altro la struttura era una articolazione, il SUPERSISMI svolgeva un amplissimo ventaglio di attività, tutte direttamente o indirettamente finalizzate a intervenire nella sfera politica, il che era, con tutta evidenza, incompatibile con le finalità d'istituto. Quando Gelli nel marzo del 1965 s'iscrisse alla massoneria nella loggia del Grande Oriente "Romagnosi" di Roma, aveva già delle buone credenziali come fascista della repubblica di Salò. Contava sull'amicizia con Giulio Andreotti e referenze con gli ambienti del Vaticano, una lista di cinquanta nuovi iscritti molto qualificati. Aveva legami con molti ufficiali dei servizi segreti, in particolare col generale Giovanni De Lorenzo e con il colonnello dell'Arma dei Carabinieri Giovanni Allavena, reduci dalle trame del "piano Solo", (che sarebbe scattato se il governo di centrosinistra avesse adottato un programma autenticamente progressista), e dallo scandalo delle schedature del SIFAR, il nostro servizio segreto che in pochi anni aveva raccolto 157 mila dossier, per usarli come arma di ricatto su politici, militari, giornalisti, preti, privati cittadini, uomini di cultura. Questi dossier passarono molto probabilmente nelle mani di Gelli, che ne fece uno degli strumenti del suo stesso potere. Allo stesso De Lorenzo, capo del Sifar, venne dato il compito di organizzare l'esercito clandestino di Gladio. Nel 1962, quando Antonio Segni salì al Quirinale, De Lorenzo era impegnato con gli uomini della CIA di Roma a creare "squadre d'azione per compiere attentati contro le sedi della Democrazia cristiana e di alcuni quotidiani del Nord, da attribuirsi alle sinistre; sono necessari altresì gruppi di pressione che chiedano, a fronte degli attentati, misure di emergenza al governo e al capo dello Stato." (Il brano è tratto da un memorandum dei servizi segreti americani ratificato da De Lorenzo). La carriera di Gelli in Massoneria fu velocissima. Nel dicembre del 1966, poco più di un anno dopo la sua iscrizione alla massoneria, venne nominato capo della loggia HOD, nota come P2, la più importante e misteriosa di tutto il Grande Oriente. La Commissione parlamentare d'inchiesta ha sottolineato che il ruolo di Gelli crebbe di pari passo col defilarsi di Frank Gigliotti ormai anziano. Gigliotti, uomo della CIA, era un feroce anticomunista, amico di molti mafiosi siciliani, ex agente della OSS, la rete di spionaggio degli Stati Uniti in Italia durante la guerra. Dalle logge massoniche americane gli era stato affidato il compito di rimettere insieme quello che rimaneva della massoneria conservatrice di piazza del Gesù, con il Grande Oriente di palazzo Giustiniani. Gigliotti rimise in circolo logge come la "Alam" del principe Giovanni Alliata di Montereale, protagonista di almeno un paio di mancati golpe e amico di boss mafiosi e finanzieri alla Michele Sindona. Gelli stesso rivendicherà sempre con orgoglio i legami con la destra americana più reazionaria. I legami tra la CIA e la P2 sono stati confermati in un'intervista al TG1 nel 1990, dalle rivelazioni di Richard Brenneke e Razin, ex agenti della CIA, sui finanziamenti dei servizi segreti americani alla P2. Presero, quindi, l'avvio le inchieste che portarono a scoprire il ruolo della CCI, la "Kriminal Bank", usata dalla CIA e dai trafficanti internazionali di valuta e di armi.I due agenti parlarono anche di qualcosa molto simile a Gladio. Razin era stato addirittura supervisore della Gladio europea. Questa intervista scatenerà una delle prime esternazioni del presidente Cossiga e porterà alla rimozione del direttore del telegiornale, Nuccio Fava, e alla esautorazione del giornalista Ennio Remondino, autore dell'inchiesta. Per Cossiga, allora capo dello Stato, era inammissibile che i servizi di sicurezza di un paese amico venissero attaccati in quel modo. Bisognava prendere provvedimenti contro dirigenti e funzionari Rai. Con altrettanta foga reagì qualche mese dopo, dando del "giudice ragazzino" a Casson che voleva interrogarlo su Gladio.  Nella sua testimonianza resa ai giudici di Bologna, che indagavano sul coinvolgimento del capo della P2 nella strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, Tommaso Masci, primo portiere nella seconda metà degli anni 70 dell'albergo romano Excelsior, di cui Gelli era in quel periodo cliente fisso, tracciava una descrizione efficace del formicolio dei potenti intorno a Licio Gelli. Tra i visitatori di Gelli c'erano politici, militari, giornalisti, alti funzionari dello Stato, banchieri. Tra coloro che lo frequentavano, c'erano Andreotti, Cossiga, Craxi, Fanfani, solo per fare i nomi più noti. Tra i visitatori c'era anche il bombarolo Paolo Aleandri, il terrorista di destra a cui Gelli aveva affidato il compito di mantenere i contatti con Filippo de Jorio, consigliere politico dell'onorevole Andreotti, che era latitante per il golpe Borghese del 1970. Lo stesso Aleandri incontrò nella stanza di Gelli il generale Vito Miceli, capo del SID, cioè l'uomo che avrebbe dovuto arrestarlo. Verso la fine del 1979 Alfredo De Felice, della cerchia dei neofascisti, assistette ad un incontro tra Gelli e il ministro del Commercio Estero Gaetano Stammati, che doveva sottoporre a Gelli le bozze di un decreto economico del Governo. Il deputato democristiano si iscrisse alla loggia P2 nel 1977 e, poco dopo, diventò ministro del Commercio estero del governo Andreotti. Dopo le elezioni del giugno 1979, l'incarico di formare il nuovo governo fu dato a Cossiga, che affidò il ministero del Commercio Estero a Stammati, quando, precedentemente, lo aveva promesso al liberale Altissimo. Alle inferocite rimostranze dei liberali, Cossiga rispose: "Non ne ho potuto fare a meno; ho ricevuto tante pressioni…". Nello stesso tempo Gelli, nella sua stanza all'Excelsior, si vantava con gli amici di avere imposto Stammati. L'attività della P2 negli anni '70 era frenetica. C'era la pratica costante della raccomandazione e c'erano gli affari, e gli affari intrecciati col potere che lo alimentavano. Degli affari citiamo i più noti: l' Eni-Petronim, il banco Ambrosiano, il crak della Banca Privata di Sindona, la scalata al "Corriere della Sera", tutti collegati a scandali e cadaveri come quello di Calvi, penzolante sotto un ponte di Londra o quello di Ambrosoli, liquidatore della banca Privata di Michele Sindona. A volte gli uomini della P2 si servirono delle organizzazioni criminali: mafia, camorra, 'ndrangheta. Collegamenti accertati dalle inchieste giudiziarie sul finto rapimento di Sindona, sul caso Cirillo, sulla strage del rapido 904, sull'omicidio di Roberto Calvi. I nomi degli iscritti alla P2 ritornano con ossessiva puntualità in tutte le indagini sui misteri d'Italia: la strage sul treno Italicus, il caso Moro, la strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980, il delitto Mattarella, il traffico di armi e droga, solo per citarne alcuni. Il treno "Italicus", linea ferroviaria Firenze-Bologna, il 4 agosto 1974 verso sera tardi, venne squassato dalla forte esplosione di una bomba ad altissimo potenziale:12 persone morte e 105 feriti. Apparve certo, fin da subito, che la strage era opera del neonazismo. Le indagini si diressero sul gruppo di neofascisti di Arezzo e precisamente su Franci, Malentacci e Tuti, che avevano legami anche con la P2. I tre sono rinviati a giudizio e poi assolti. Il giudice istruttore di Bologna Angelo Vella, affiliato alla massoneria locale, non coinvolge nessun piduista. Il neofascismo terrorista era coinvolto nella grande operazione presidenzialista, che rappresentava e rappresenterà lo scopo principale a cui tende, trasversalmente a tutti i partiti, la politica italiana. Luciano Violante, partendo dal golpe presidenzialista, era arrivato ai gruppi terroristici di estrema destra. "Sussistono prove - scrive - di una corrispondenza tra Edgardo Sogno e l'avvocato Antonio Fante di Padova…Che dagli elementi in atti appare che tale corrispondenza abbia ad oggetto la costituzione di una organizzazione intesa a raggruppare tutti i gruppi di estrema destra, tra i quali anche Ordine Nuovo, in epoca successiva al decreto di scioglimento di questo gruppo." Spiega, inoltre, nella sua requisitoria contro Sogno e Cavallo, Violante: "..Va considerato che l'allertamento disposto venne a conoscenza di quei settori militari che molteplici fonti di prova indicano come interessati all'iniziativa eversiva, disincentivando per il momento la realizzazione del piano…" I giudici milanesi Turone e Colombo arrivarono alla scoperta degli archivi di Gelli indagando sul finto rapimento e il soggiorno in Sicilia del bancarottiere Michele Sindona. I giudici milanesi, come quelli di Palmi, che indagavano sulle nuove logge coperte, scoprirono che attraverso la P2 passavano molti dei misteri e degli scandali italiani di quegli anni, e furono costretti a suddividere in capitoli il materiale raccolto:

· la P2 e lo scandalo Eni;

· la P2 e il Banco Ambrosiano;

· la P2 e lo scandalo dei petroli;

· la P2 e la magistratura;

· la P2 e la Rizzoli;

· la P2 e i segreti di Stato;

· la P2 e i finanziamenti all'eversione nera;

· la P2 e le stragi;

· la P2 e il sequestro Moro;

· la P2 e il caso Pecorelli.

Un altro gigantesco capitolo fu aperto dall'inchiesta del giudice Carlo Palermo sul traffico di armi, che coinvolgeva molti piduisti e da cui trasparivano forti legami con la criminalità organizzata e col traffico di droga…………. Un intreccio solido quello che traspare dalle inchieste giudiziarie su mafia e massoneria.  Prima che i giudici di Palmi riaprissero il capitolo oscuro dei rapporti tra massoneria, traffici di armi, affari sporchi e criminalità, altre logge coperte erano finite in inchieste della magistratura. A Palermo il giudice Falcone, prima di essere costretto a trasferirsi a Roma, si era a lungo occupato di massoneria. Aveva scoperto la loggia di via Roma 391, dove politici locali e funzionari pubblici venivano iniziati, insieme a mafiosi del calibro di Michele Greco e Giovanni Cascio, del quale molti anni dopo verrà intercettata una telefonata in cui si parlava in termini amichevoli di Gelli. Gran maestro della loggia di via Roma era Pietro Calacione, direttore sanitario dell'ospedale Civico di Palermo e il Civico, forse non per una semplice coincidenza, era uno dei feudi elettorali dell'onorevole Salvo Lima.

Falcone si era occupato di un'altra inchiesta sull'intreccio tra mafia e massoneria e le indagini dei carabinieri si erano svolte in tre direttrici: logge massoniche, rilevamento di società sull'orlo del fallimento, contatti con i politici. Le indagini erano arrivate fino a Roma e a Milano. Pino Mandalari, capo di alcune logge, poi condannato a due anni di carcere per riciclaggio di denaro sporco, in una telefonata intercettata, si vantava di potere arrivare fino alla segreteria di Bettino Craxi; in altre telefonate si parlava del generale Cappuzzo, siciliano già iscritto alla P2, di Salvo Lima, di alcuni sottosegretari di governo.

Inesplorata resta la questione delle coperture assicurate a Gelli dai politici, a cominciare da Andreotti, suo grande amico, poi da Cossiga, da Fanfani, da Craxi, da Forlani e da molti altri. Fu scoperto che dietro la sigla del circolo Scontrino di Trapani si celavano ben sei logge massoniche e una superloggia coperta (loggia C), con iscritti deputati regionali, alti funzionari e mafiosi. La loggia C saltò fuori anche nelle indagini del giudice Augusto Lama di Massa Carrara, sui traffici di armi di Aldo Anghessa, un collaboratore dei servizi segreti italiani. Questa storia intricata vede coinvolti anche dei neofascisti che, secondo una sentenza della magistratura, avrebbero ricevuto tra l'altro finanziamenti da Licio Gelli. E' un intreccio solido quello che traspare dalle inchieste giudiziarie su mafia e massoneria delle logge coperte. Uno studio attento della struttura massonica più conosciuta, la P2, fa rilevare che la regione più rappresentativa tra gli iscritti alla loggia di Gelli è proprio la Sicilia, che non è, storicamente, una terra di grandi tradizioni massoniche. La P2, quindi, risultò coinvolta in molte inchieste giudiziarie sulle stragi e su alcuni omicidi politici Non è un caso che a Castiglion Fibocchi, alla villa di Gelli, perquisita dai carabinieri per ordine dei magistrati milanesi Gherardo Colombo e Giuliano Turone, il 17 marzo 1981, i giudici milanesi siano arrivati, indagando sul misterioso soggiorno in Sicilia di Michele Sindona, il bancarottiere di Patti, iscritto alla P2 e legato a filo doppio ad Andreotti. Nel corso del suo finto sequestro, Sindona si era avvalso dell'appoggio, tanto della massoneria quanto della mafia. Proprio durante il suo soggiorno in Sicilia, nell'estate del 1980, si aprì, con gli omicidi del commissario Boris Giuliano e del giudice Cesare Terranova, la stagione dei cosiddetti delitti "eccellenti". E' solo un caso che nella stessa estate ci sia la strage alla stazione di Bologna? Il 20 maggio 1981, il governo messo alle strette dallo scandalo, comunicò al Parlamento la lista dei presunti aderenti alla loggia segreta P2 di Licio Gelli, alla quale risultavano affiliati, tre ministri, un segretario di partito, i vertici dei servizi segreti, militari, imprenditori, parlamentari, banchieri, giornalisti. Ogni nome era preceduto da un numero di fascicolo e da un numero di gruppo; seguiva un "codice", al quale talvolta seguiva il numero della tessera e un appunto relativo alle quote sociali. Nella lista c'erano: 52 alti ufficiali dei Carabinieri, 50 dell'esercito, 37 della Guardia della Finanza, 29 della Marina, 11 Questori, 5 Prefetti, 70 imprenditori, (uno era un famoso costruttore di Milano, figlio di un dipendente della Banca Rasini, pluriinquisito e pluriindagato), 10 presidenti di banca, 3 ministri in carica, 2 ex ministri, il segretario di un partito di governo, 38 deputati,14 magistrati, sindaci, primari ospedalieri, notai e avvocati. Gli elenchi della loggia segreta P2 del Venerabile Maestro Gelli, come si può notare, erano impressionanti: politici, imprenditori, giornalisti, alti gradi delle forze armate, tutori dell'ordine pubblico, funzionari dello stato, dirigenti dei servizi segreti, magistrati. E ancora,119 piduisti già insediati ai vertici delle maggiori banche, nel ministero del tesoro, e in quello delle finanze. Gente che spesso aveva giurato fedeltà e obbedienza tanto alla Costituzione Italiana quanto alla massoneria. Secondo la commissione parlamentare d'inchiesta, l'elenco completo degli iscritti alla P2 era all'incirca di 2500 nomi; ne mancano 1650. Solo la magistratura ha avuto il coraggio di punire gli appartenenti alla P2. L'assoluzione più sconcertante è stata quella dei militari, voluta dal ministro della Difesa Lagorio, socialista e iscritto alla massoneria. Tra i 962 iscritti c'è anche il "nostro" presidente del consiglio del 2001, l'on. Cav. Silvio Berlusconi. Silvio Berlusconi risulta iscritto alla loggia P2, con la tessera numero 1816, codice e.19.78, gruppo 17, fascicolo 0625, il 26 Gennaio del 1978. Lo stesso giorno in cui si era iscritto Maurizio Costanzo, numero di tessera 1819. Dagli atti della Commissione parlamentare, ed in particolare dagli elenchi degli affiliati, sequestrati in Castiglion Fibocchi, figura il nominativo del Berlusconi (numero di riferimento 625) e l'annotazione del versamento di lire 100.000, eseguito in contanti in data 5 maggio 1978, versamento la cui esistenza risultava comprovata anche da un dattiloscritto proveniente dalla macchina da scrivere di proprietà di Gelli. Alla Magistratura di Venezia Berlusconi, sotto giuramento, nega di aver versato personalmente soldi per la sua iscrizione, contro tutte le prove portate a suo carico, e per questo viene condannato come "spergiurio", in via definitiva, dal Tribunale veneziano. Berlusconi sarà comunque amnistiato, e così potrà diventare Presidente del Consiglio nel 1994 e nel 2001. Postato da: LicioGelliFC a dicembre 15, 2005 15:20 "INTERVISTA" a La Repubblica "Avevo già scritto tutto trent'anni fa" "Guardo il Paese, leggo i giornali e dico: avevo già scritto tutto trent'anni fa" "Giustizia, tv, ordine pubblico è finita proprio come dicevo io". Son soddisfazioni, arrivare indenni a quell'età e godersi il copyright. "Ho una vecchiaia serena. Tutte le mattine parlo con le voci della mia coscienza, ed è un dialogo che mi quieta. Guardo il Paese, leggo i giornali e penso: ecco qua che tutto si realizza poco a poco, pezzo a pezzo. Forse sì, dovrei avere i diritti d'autore. La giustizia, la tv, l'ordine pubblico. Ho scritto tutto trent'anni fa". Tutto nel piano di Rinascita, che preveggenza. Tutto in quelle carte sequestrate qui a villa Wanda ventidue anni fa: 962 affiliati alla Loggia. C'erano militari, magistrati, politici, imprenditori, giornalisti. C'era l'attuale presidente del Consiglio, il suo nuovo braccio destro al partito Cicchitto: allora erano socialisti. Chi ha condiviso quel progetto è oggi alla guida del paese. "Se le radici sono buone la pianta germoglia. Ma questo è un fatto che non ha più niente a che vedere con me". Niente, certo. Difatti quando parla di Berlusconi e di Cicchitto, di Fini di Costanzo e di Cossiga lo fa con la benevolenza lieve che si riserva ai ricordi di una stagione propizia. Sempre con una frase, però, con una parola che li fissa senza errore ad un'origine precisa della storia.

Quel che rende Licio Gelli ancora spaventosamente potente è la memoria. Lo si capisce dopo la prima mezz'ora di conversazione, atterrisce dopo due. Il Venerabile maestro della Loggia Propaganda 2 è in grado di ricordare l'indirizzo completo di numero civico della prima casa romana di Giorgio Almirante, l'abito che indossava la sua prima moglie quel giorno che gli fece visita a Natale, i nomi dei tre figli di Attilio Piccioni e da lì ricostruire nel dettaglio il caso Montesi che vide coinvolto uno dei tre, ricorda il numero di conto corrente su cui fece quel certo bonifico un giorno di sessant'anni fa, la targa della camionetta di quando era ufficiale di collegamento col comando nazista, quante volte esattamente ha incontrato Silvio Berlusconi e in che anni in che mesi in che giorni, come si chiamava il segretario di Giovanni Leone a cui consegnò la cartella coi 58 punti del piano R, che macchina guidava, se a Roma c'era il sole quella mattina e chi incontrò prima di arrivare a destinazione, che cosa gli disse, cosa quello rispose. Questo di ogni giorno dei suoi 84 anni di vita, attualmente archiviata in 33 faldoni al primo piano di villa Wanda, dietro a una porta invisibile a scomparsa.

"Ogni sera, sempre, ho scritto un appunto del giorno. Per il momento per fortuna non mi servono, perché ricordo tutto. Però sono tranquillo, gli appunti sono lì". Il potere della memoria, ecco. Il resto è coreografia: il parco della villa che sembra il giardino di Bomarzo, con le statue le fontane i mostri, la villa in fondo a un sentiero di ghiaia dietro a un convento, le stanze con le pareti foderate di seta, i soffitti bassi di legno scuro, elefanti di porcellana che reggono i telefoni rossi, divani di cuoio da due da tre da sette posti, di velluto blu, di raso rosa, a elle e a emiciclo, icone russe, madonne italiane, guerrieri d'argento, pupi, porcellane danesi, un vittoriano buio con le imposte chiuse al sole di settembre, scale, studi, studioli, sale d'attesa coi vassoi d'argento pieni di caramelle al limone. Ma lei vive qui da solo?. "Sì certo solo". E questi rumori, le ombre dietro le porte di vetro colorato? "La servitù".

Commendatore, gli sussurra una segretaria pallida porgendogli un biglietto: una visita. "Mi scusi, mi consente di assentarmi un attimo?

E' un vecchio amico". Gelli è in piena attività. Riceve in tre uffici: a Pistoia, a Montecatini, a Roma. Oltre che in villa, naturalmente, ma fino ad Arezzo si spingono gli intimi. Dedica ad ogni città un giorno della settimana. A Pistoia il venerdì, di solito. A Roma viene il mercoledì, e scende ancora all'Excelsior. Le liste d'attesa per incontrarlo sono di circa dodici giorni, ma dipende. Per alcuni il rito è abbreviato. Al telefono coi suoi segretari si è pregati di chiamarlo "lo zio": "La regola numero uno è non fare mai nomi ? insiste l'ultimo di una serie di intermediari ? Lei non dica niente, né chi la manda né perché. La richiameranno. Quando poi lo incontra vedrà: è una persona squisita. Solo: non gli parli di politica". Di poesia, vorrebbe si parlasse: perché Licio Gelli da quando ha ufficialmente smesso di lavorare alla trasformazione dell'Italia in un Paese "ordinato secondo i criteri del merito e della gerarchia", come lui dice, "per l'esclusivo bene del popolo" ha preso a scrivere libri di poesia, ovviamente premiati di norma con coppe e medaglie, gli "amici" nel '96 lo hanno anche candidato al Nobel. "Vorrei scivolare dolcemente nell'oblio. Vedo che il mio nome compare anche nelle parole crociate, e ne soffro. Vorrei che di me come Venerabile maestro non si parlasse più. Siamo stati sottoposti a un massacro. Pensi a Carmelo Spagnolo, procuratore generale di Roma, pensi a Stammati che tentò di uccidersi. E' stata una gogna in confronto alla quale le conseguenze di Mani Pulite sono una sciocchezza. In fondo Mani pulite è stata solo una faccenda di corna. Lei crede che la corruzione sia scomparsa? Non vede che è ovunque, peggio di prima? Prima si prendeva facciamo il 3 per cento, ora il 10. Io non ho mai fatto niente di illegale né di illecito. Sono stato assolto da tutto. Le mie mani, eccole, sono nette di oro e di sangue". Assolto da tutto non è vero, dev'essere per questo che lo ripete tre volte e s'indurisce. Indossa un abito principe di Galles, cravatta di seta, catena d'oro al taschino, occhiali con montatura leggerissima, all'anulare la fede e un grosso anello con stemma. Questo avrebbe detto dunque a Montecatini, a quel convegno a cui l'hanno invitata e poi non è andato? Dicono che Andreotti l'abbia chiamata per dissuaderla. "E' una sciocchezza. Andreotti non è uomo da fare un gesto simile. Si vede che lei non lo conosce". Senz'altro lei lo conosce meglio. "Se Andreotti fosse un'azione avrebbe sul mercato mondiale centinaia di compratori. E' un uomo di grandissimo valore politico". Come molti della sua generazione. "Molti, non tutti. Cossiga certamente. Non Forlani, non aveva spina dorsale. Naturalmente Almirante, eravamo molto amici, siamo stati nella Repubblica sociale insieme. L'ho finanziato due volte: la seconda per Fini. Prometteva molto, Fini. Da un paio d'anni si è come appannato". Forse un po' schiacciato dalla personalità di Berlusconi. "Può darsi. Berlusconi è un uomo fuori dal comune. Ricordo bene che già allora, ai tempi dei nostri primi incontri, aveva questa caratteristica: sapeva realizzare i suoi progetti. Un uomo del fare. Di questo c'è bisogno in Italia: non di parole, di azioni". Vi sentite ancora? "Che domanda impertinente. Piuttosto. L'editore Dino, lo conosce?, ha appena ripubblicato il mio primo libro: Fuoco! E' stata la mia opera più sofferta, anche perché ha coinciso con la morte di mio fratello nella nostra guerra di Spagna. E' un edizione pregiata a tiratura limitata, porta in copertina il mio bassorilievo in argento. Ci sono due altri solo autori in questo catalogo: il Santo padre, e Silvio Berlusconi". Anche Berlusconi col bassorilievo d'argento? "Certo, guardi". Il titolo dell'opera è "Cultura e valori di una società globalizzata". Pensa che Berlusconi abbia saputo scegliere con accortezza i suoi collaboratori? "Credo che in questa ultima fase si senta assediato. E' circondato da persone che pensano al "dopo". Non si fida, e fa bene. E' stato giusto bonificare il partito, affidarlo a un uomo come Cicchitto. Cicchitto lo conosco bene: è bravo, preparato". Il coordinatore sarebbe Bondi in realtà. "Sì, d'accordo. Credo che anche Bondi sia preparato. E' uno che viene dalla disciplina di partito". Comunista. "Non importa. Quello che conta è la disciplina e il rispetto della gerarchia". Ha visto il progetto di riordino del sistema televisivo? "Sì, buono". E la riforma della giustizia? "Ho sentito che quel Cordova ha detto: ma questo è il piano di Gelli. E dunque?

L'avevo messo per scritto trent'anni fa cosa fosse necessario fare. Leone mi chiese un parere, gli mandai uno schema in 58 punti per il tramite del suo segretario Valentino. Pensa che chi voglia assaltare il comando consegni il piano al generale nemico, o al ministro dell'Interno? Ma comunque non è di questo che vogliamo parlare, no? Vuole anche lei avere i materiali per scrivere una mia biografia? Arriva tardi: ho già completato il lavoro con uno scrittore di gran fama". Su una poltrona è appoggiato l'ultimo libro di Roberto Gervaso. La scrive con Gervaso? "Ma no, ci vuole una persona estranea ai fatti. Se vuole le mostro lo scaffale con le opere che mi riguardano, le ho catalogate: sono 344". Certo: il burattinaio è un soggetto affascinante. "Andò così: venne Costanzo a intervistarmi per il Corriere della sera. Dopo due ore di conversazione mi chiese: lei cosa voleva fare da piccolo. E io: il burattinaio. Meglio fare il burattinaio che il burattino, non le pare?". Sembra che ce ne siano diversi di burattinai in giro ultimamente. "Il burattinaio è sempre uno, non ce ne possono essere diversi". E adesso chi è? "Adesso?

Questa è una classe politica molto modesta, mediocre. Sono tutti ricattabili". Tutti? Mettiamo: Bossi. "Bossi si è creato la sua fortezza con la Padania, ha portato 80 parlamentari è stato bravo. Ma aveva molti debiti... Per risollevare il Paese servono soldi, non proclami.

Ho sentito che Berlusconi ha invitato gli americani a investire in Italia: ha fatto bene, se qualcuno abbocca?

Ma la situazione è molto seria. L'economia va malissimo, l'Europa è stata una sventura. Non abolire le barriere, bisognava: moltiplicarle. Fare la spesa è diventato un problema, il popolo è scontento. Serve un progetto preciso". Per la Rinascita del Paese. "Certo". C'è il suo: certo forse i 900 affiliati alla P2 erano pochi. "Ma cosa dice, novecento persone sono anche troppe. Ne bastano molte meno". Allora quelle che ci sono ancora bastano, tolti i pentiti. "Nessuno si è pentito. Pentiti? A chi si riferisce? Costanzo, forse. L'unico. Con tutto quello che ho fatto per lui. Guardi: io non devo niente a nessuno ma tutti quelli che ho incontrato devono qualcosa a me. Ci sono dei ribelli a cui ho salvato la vita, ancora oggi quando mi incontrano mi abbracciano". Ribelli? "Sì, i ribelli che stavano sulle montagne, in tempo di guerra. Io ero ufficiale di collegamento fra il comando tedesco e quello italiano. Ne ho salvati tanti". Intende partigiani. "Li chiami come crede. Eravamo su fronti opposti, ma quando sei di fronte ad un amico non c'è divisa che conti. L'amicizia, la fedeltà ad un amico viene prima di ogni cosa". L'amicizia, sì. La rete. Cossiga l'ha citata giorni fa, in un'intervista. Ha detto: chiedete a Gelli cosa pensava di Moro. "Da Moro andai a portare le credenziali quando ero console per un paese sudamericano. Mi disse: lei viene in nome di una dittatura, l'Italia è una democrazia. Mi spiegò che la democrazia è come un piatto di fagioli: per cucinarli bisogna avere molta pazienza, disse, e io gli risposi stia attento che i suoi fagioli non restino senz'acqua, ministro'". Anche in questo caso tragicamente profetico, per così dire. Lei cosa avrebbe fatto, potendo, per salvare Moro? "Non avrei fatto niente. Era stato fascista in gioventù, come Fanfani del resto, ma poi era diventato troppo diverso da noi. Lei ha visto il film sul delitto Moro?" Quello di Bellocchio? "No, l'altro. Quello tratto dal libro di Flamigni. Ma le pare che si possa immaginare un agente dei servizi segreti che con un impermeabile bianco va a controllare sulla scena del delitto se è tutto andato secondo i piani?". Gli agenti dei servizi sono più prudenti? "Lei conosce Cossiga? Proprio una bravissima persona. E poi un uomo così colto, uno capace di conversare in tedesco. Un uomo puro, un animo limpido. Dopo la morte di mia moglie mi mandò un biglietto: "Ti sono vicino nel tuo primo Natale senza di lei", capisce che pensiero? Vorrebbe farmi una cortesia? Se lo incontra, vuole porgergli i miei ricordi, e i miei saluti?". Postato da: LicioGelliFC a dicembre 15, 2005 15:22 AMICI MIEI (atto IV°) Chi c’era in quell’elenco? Questo è l’elenco alfabetico dei nomi di 962 presunti iscritti alla "Loggia P2" della massoneria sequestrato il 17 marzo 1981 a Licio Gelli (distribuito dalla presidenza del Consiglio il 21 maggio 1981). La relazione della Commissione parlamentare d'inchiesta, consegnata ai presidenti della Camera e del Senato il 12 luglio 1984, afferma che: "le liste sequestrate a Castiglion Fibocchi sono da considerare: a) autentiche: in quanto documento rappresentativo dell'organizzazione massonica denominata Loggia P2 considerata nel suo aspetto soggettivo; b) attendibili: in quanto sotto il profilo dei contenuti, è dato rinvenire numerosi e concordanti riscontri relativi ai dati contenuti nel reperto". Ciononostante, dal momento che questo elenco è stato contestato, con successo, da diverse persone i cui nominativi figurano nello stesso e che si sono rivolte alla magistratura, è necessario avvertire il lettore che la presenza di un nominativo in questa lista non significa l’acclarata appartenenza dello stesso alla Loggia massonica P2. C’è infine da tenere conto del fatto che la Corte d'Assise romana ha recentemente negato la fondatezza della accusa di cospirazione mediante associazione, escludendo quindi che la P2 sia stata una struttura in grado di interferire ad un livello diverso da quello (di bassissimo profilo) dello scambio di favori e di raccomandazioni.

IL MISTERO DI SIENA. DAVID ROSSI.

SIENA. DAVID ROSSI, L’OMERTA’ ED IL MONTE DEI PASCHI.

David Rossi, perquisito Monteleone delle Iene: “Attacco a segretezza delle fonti”. I magistrati Cristina Camaiori e Vittorio Ranieri Miniati hanno disposto la perquisizione per acquisire i file del computer dell'inviato delle Iene per cercare di svelare l'identità dell'uomo che - intervistato dalla trasmissione di Mediaset - ha raccontato di festini a luci rosse a cui partecipavano i magistrati titolari delle indagini sulla morte del capo della comunicazione di Mps, scrive "Il Fatto Quotidiano" l'1 ottobre 2018. Vogliono sapere chi è il giovane escort che davanti alle telecamere ha raccontato di festini a luci rosse a cui partecipavano i magistrati titolari delle indagini sulla morte di David Rossi. Per questo motivo gli agenti della polizia postale hanno perquisito la casa di Antonino Monteleone, inviato delle Iene e autore di numerosi servizi sul capo della comunicazione di Mps, precipitato da una finestra della banca nel 2013. I magistrati Cristina Camaiori e Vittorio Ranieri Miniati hanno disposto la perquisizione per acquisire i file del computer di Monteleone per cercare di svelare l’identità dell’uomo che – intervistato dalla Iene – ha raccontato di quelle feste a base di sesso e droga. “È un grave attacco alla segretezza delle fonti”, ha detto Monteleone in un video pubblicato sul sito della trasmissione Mediaset. La procura di Genova aveva aperto un fascicolo per abuso d’ufficio a carico di ignoti dopo l’intervista rilasciata a Le Iene dall’ex sindaco senese Pierluigi Piccini che aveva detto di aver saputo di ‘festini‘ ai quali avrebbero partecipato importanti personaggi della magistratura e della politica e che forse l’inchiesta sulla morte di Rossi era stata ‘affossata‘ per questo motivo. Dopo la trasmissione di Mediaset, i pm senesi avevano presentato querela per diffamazione per le dichiarazioni di Piccini: per questo fascicolo a breve dovrebbe arrivare una svolta con l’iscrizione nel registro dei primi indagati. Sempre nel capoluogo ligure è aperta l’inchiesta sulla lettera di minacce, accompagnata da un proiettile, indirizzata al pm senese Aldo Natalini che si era occupato anche della vicenda Mps. L’ipotesi di reato è tentata minaccia grave.

David Rossi, perquisita la Iena Monteleone. "Attacco alla segretezza delle fonti", scrivono "Le Iene" l'1 ottobre 2018. La procura di Genova vuole arrivare all'identità dell'escort che ha parlato dei presunti festini di Siena a cui avrebbero partecipato magistrati e vertici della banca Monte dei Paschi La polizia postale questa mattina ha perquisito la Iena Antonino Monteleone su mandato della procura di Genova nell'ambito dell'inchiesta che riguarda la morte di David Rossi. Gli agenti hanno chiesto a Monteleone di lasciare il computer, che usa abitualmente per lavoro, e hanno prelevato una copia della parte del contenuto. Nel decreto di perquisizione si legge che la perquisizione personale e domiciliare nei confronti del giornalista è "opportuna e necessaria" per arrivare all'identità dell'uomo che a Le Iene ha raccontato di aver partecipato a dei festini a base di sesso in cui ci sarebbero stati anche esponenti della magistratura e vertici della Banca Monte dei Paschi di Siena. "Non ho mai voluto rivelare l'identità della fonte che ci ha raccontato dei festini", ci spiega Antonino Monteleone a caldo della perquisizione, "e se da una parte sono contento che la procura di Genova continui a indagare, dall'altra però sono preoccupato, perché così facendo si mina la serenità dei giornalisti a mantenere la segretezza delle proprie fonti". Sulla morte di David Rossi, il dirigente di Monte dei Paschi volato dalla finestra della banca il 6 marzo 2013, la cui morte - per due volte - è stata archiviata come suicidio sono in corso diverse nuove indagini. Due della procura di Genova, che ha emesso il decreto di perquisizione nei confronti della Iena Monteleone, in particolare una per l’ipotesi di reato abuso di ufficio commesso di magistrati senesi. Nello stesso decreto si legge che la procura non è riuscita a identificare "Stefano", l'escort dei presunti festini di Siena. Se i festini fossero confermati, scrivono i pubblici ministeri Miniati e Camaiori, potrebbe confermarsi la tesi "più volte rappresentata nelle varie puntate de Le Iene, che le indagini sulla morte del povero David Rossi, asseritamente condotte dalla magistratura di Siena in modo superficiale e lacunoso, avrebbero avuto il tanto stigmatizzato anomalo sviluppo - che di fatto non avrebbe portato all'accertamento della verità - in quanto condizionate da inconfessabili legami e da situazioni personali che esponevano i protagonisti a illecite pressioni". Anche la figlia di David Rossi, Carolina, ha conosciuto l'escort, e per questo è stata sentita dalla procura di Genova nella primavera scorsa. "Non so e non ho voluto sapere il nome e cognome del ragazzo proprio per tutelarlo. Ci è bastato sapere chi ha riconosciuto e che David non c'entrasse nulla con quei festini”, ha riferito Carolina ai pm. Sono ancora molti i dubbi che restano aperti sulla morte di David Rossi: la sua caduta anomala, le ferite del corpo riconducibili a un’aggressione precedente, la mancanza di analisi sui suoi vestiti, sui tabulati telefonici e sulle telecamere della zona e sulla figura di una persona che si vede comparire nel vicolo dove David Rossi è morto dopo 22 minuti di agonia, in uno dei pochi filmati a disposizione. 

David Rossi: un anno dopo l'archiviazione dell'inchiesta. Tutti i nostri servizi e i nostri dubbi, scrivono il 4 luglio 2018 "Le Iene".

Il 4 luglio 2017 il Gip di Siena archivia il caso della morte di David Rossi, capo dell’area comunicazione della Banca Monte dei Paschi, come suicidio. Si trattava della seconda archiviazione. E da lì siamo ripartiti perché, a distanza di quattro anni da quel tragico evento, i punti da chiarire erano ancora molti. Dopo le indagini de Le Iene, diventate un caso nazionale e giudiziario, è aumentata l’attenzione dell’opinione pubblica sul caso. Vi raccontiamo i nostri 11 servizi e ve li riproponiamo.

Un anno fa, il 4 luglio 2017, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Siena, Roberta Malavasi, accoglieva la richiesta della Procura di archiviare l’inchiesta per istigazione al suicidio relativa alla morte dell’ex capo della comunicazione della Banca Monte dei Paschi di Siena, 52 anni. David Rossi viene ritrovato a Vicolo di Monte Pio a Siena, proprio sotto la finestra del suo ufficio che si trovava al terzo piano della sede centrale della banca il 6 marzo 2013, nel pieno della bufera finanziaria che stava travolgendo Mps.

Già nel 2014 veniva archiviata la prima inchiesta. Ma i familiari di David quando si trovano di fronte alle agghiaccianti immagini della telecamera di videosorveglianza che documentano la strana dinamica della sua caduta e osservano attentamente i segni sul suo corpo, smettono di credere al suicidio depositando nuovi documenti e perizie che spingono la Procura di Siena a riaprire le indagini. La nostra inchiesta parte dopo la seconda archiviazione: troppi punti oscuri ancora da chiarire e la strana sensazione dei familiari di David Rossi che non tutte le iniziative investigative possibili fossero state adottate. Indagando, i dubbi sono aumentati sempre di più. Ci siamo occupati del caso con 11 servizi della Iena Antonino Monteleone e dell’autore Marco Occhipinti in onda tra ottobre 2017 e aprile 2018. Ve li raccontiamo.

1. DAVID ROSSI MUORE IN BANCA: OMICIDIO O SUCIDIO?. Servizio dell’1 ottobre 2017. Nel titolo c’è già il dubbio fondamentale. Torniamo a Siena, 6 marzo del 2013. Partiamo dall’unico video a disposizione (ripreso da una telecamera di sorveglianza) della caduta mortale per 14 metri di David Rossi alle 19.43: in verticale, con la faccia rivolta al muro, in linea retta. Primi fondamentali dubbi: non c’è “uno slancio”, una rotazione, tipici di chi si lancia volontariamente. E poi: perché ci sono voluti 22 minuti di agonia e altri 40 prima che venga chiamata un’ambulanza? Attorno alle 8 di sera non passa nessuno o qualcuno ha bloccato l’entrata del vicolo? In effetti nel video si vede un uomo misterioso al cellulare che si affaccia e poi si allontana e, poco prima, anche un’altra figura in maniera meno nitida. C’è poi la questione dell’orologio di David: nel video si vede, alle 20.16, volare verso il corpo di David dalla finestra un oggetto, che si ferma dove è stato ritrovato l’orologio. Sempre alle 20.16 qualcuno risponde e poi butta giù al telefondo di David mentre chiama Carolina Orlandi. Anche guardando il corpo di David, i dubbi aumentano: ci sono ferite e contusioni sul volto, sul polso (in corrispondenza dell’orologio) e sull’avambraccio. Segni su torace e inguine. Secondo i periti e i legali nominati dai familiari potrebbero essere i segni di una colluttazione. La famiglia sospetta che David sia stato picchiato e poi buttato giù dalla finestra. Certo, c’è un’email mandata due giorni prima all’amministratore delegato della banca, Fabrizio Viola, in cui annuncia di volersi uccidere. Lo stesso giorno, però, aggiunge di voler parlare con i magistrati. La Iena Monteleone, quando chiede chiarimenti a testimoni e protagonisti, si trova di fronte un “muro di gomma”. Anche l’ex presidente Mps, Giuseppe Mussari, amico di David che era il suo ex braccio destro, non vuole parlare. Ma dice: “Quello che fa la moglie (Antonella Tognazzi, ndr), per me, è Vangelo”. Servizio dell’1 ottobre 2017.

2. L’EX SINDACO FA RIVELAZIONI SHOCK. Servizio dell’8 ottobre 2017. Il muro di gomma si incrina con le clamorose rivelazioni dell’ex dirigente Mps ed ex sindaco di Siena, Pierluigi Piccini: “Ho seri dubbi sull’ipotesi del suicidio”. Seduti a un bar di piazza del Campo, aggiunge: “Le anomalie ci sono. David però fa un errore storico, dice che sarebbe andato dai magistrati a raccontare tutto. La città è convinta che sia stato ucciso. Poi l’indagine è stata fatta male, fin dall’inizio”. Nel servizio raccontiamo quelli che secondo i familiari di David rappresenterebbero errori o omissioni nelle indagini sulla sua morte. Piccini soprattutto apre un nuovo fronte sulla base di quanto gli avrebbe detto un’amica avvocato, con il marito nei servizi segreti: “C’è anche un’altra storia parallela. Un avvocato romano mi ha detto: dovete indagare su alcune ville fra l’Aretino e il mare e sui festini che facevano lì. Perché la magistratura potrebbe anche avere abbuiato tutto perché se no scoppia una bomba morale. Chi andava a queste feste? Ci andavano anche i magistrati senesi? Ci andava qualche personaggio nazionale? Io posso anche capire che la magistratura di fronte a una cosa del genere cerchi di chiudere perché altrimenti diventa una cosa molto difficile”. Piccini scopre di essere registrato e diventa furioso.

3. IL MISTERO DEI FESTINI SESSO E DROGA. Servizio del 17 ottobre 2017. Ripartiamo dai misteriosi “festini” di cui ci ha parlato Piccini. Pierpaolo Fiorenzani, azionista, aveva parlato di queste orge addirittura a un’assemblea Mps. “Ho detto che la città è sotto una cappa di piombo, dominata da una cricca di orgiastici e pervertiti”, dice ai nostri microfoni. “I festini si son sempre usati, per legarsi, per ricattarsi”. L’unico che va in direzione contraria è Antonio Degortes, figlio del famoso fantino Aceto, gestore di discoteche e amico di David Rossi, che nega la presenza di “festini” e ricorda la grande paura e agitazione in cui versava David da quando aveva subito una perquisizione della Guardia di Finanza tre settimane prima di morire.

4. LA TESTIMONE MAI SENTITA. Servizio del 29 ottobre 2017. Rileggendo gli atti dell’inchiesta aumentano i dubbi: perché il Gip di Siena dice che la segretaria dell’ex amministratore delegato Fabrizio Viola (e prima ancora dell’ex presidente Giuseppe Mussari) era stata sentita, quando la circostanza sembra non corrispondere al vero? Monteleone va a trovarla e rivela una cosa mai emersa fino a quel momento. Intanto la moglie Antonella Tognazzi viene indagata per la divulgazione delle email di Viola. L’unico altro indagato dall’inizio dell’inchiesta è il giornalista David Vecchi del Fatto Quotidiano, che si è occupato del caso e che avrebbe pubblicato quelle email. Verranno aggiunti poi Piccini e noi de Le Iene.

5. NUOVE INDAGINI E SEQUESTRI. Servizio del 5 novembre 2017. Le indagini ripartono, a Genova, foro competente su fatti che riguardino i magistrati senesi, con due inchieste, una per diffamazione e una per abuso d’ufficio. La procura dispone il sequestro di tutti i filmati realizzati da Le Iene. Ai magistrati genovesi diamo tutto, tranne i materiali che violerebbero l’anonimato di chi ha deciso di parlare con noi e il nostro segreto professionale. I magistrati senesi rispondono con un comunicato alle obiezioni della famiglia di David Rossi, ammettendo che si potevano fare alcune indagini ulteriori, secondo loro comunque non determinanti: gli abiti dovevano essere conservati, le ferite sul corpo dovevano essere analizzate, anche i fazzoletti di sangue trovati nel cestino non andavano distrutti.

6. IL MISTERO DELLA VALIGETTA. Servizio del 14 novembre 2017. Un nuovo inquietante elemento. L’avvocato Luca Goracci, legale della famiglia di David Rossi, racconta di essere stato contattato da un uomo che sostiene di conoscere elementi importanti sull’“omicidio di David Rossi”. L’ha incontrato un anno e mezzo fa. Il misterioso testimone gli dice che il giorno della morte aveva un appuntamento con David, ma di aver fatto tardi. Avrebbe visto il suo corpo nel vicolo e sarebbe stato aggredito da alcune persone. Qualcuno avrebbe anche sparato un colpo di pistola con il silenziatore. E spunta fuori una valigetta che David avrebbe sempre portato con sé.

7. IL VIDEO È MANOMESSO? Servizio del 26 novembre 2017. Trasmettiamo il video girato dal primo poliziotto che entra nell’ufficio di David Rossi la sera tra il 6 e il 7 marzo del 2013. Lo fa prima dell’arrivo della Polizia scientifica. Il confronto tra quel filmato e le foto scattate più di un’ora dopo lascia spazio a pochi dubbi: per gli avvocati della famiglia di David Rossi la scena sarebbe stata alterata. Da chi? E perché? Non solo, dai tabulati telefonici risulta che il giorno dopo la morte, alle 9.33, qualcuno ha risposto a una chiamata all’utenza di quell’ufficio, quando ormai era chiuso e sotto sequestri con sigilli del Tribunale. Anche il cellulare di David, che doveva essere spento, alle 7.33 del 7 marzo 2013 è acceso e riceve un messaggio. Inoltre, non solo non sono state acquisite i video delle altre telecamere, ma il disco che conteneva le immagini è andato perduto. L’unico video richiesto dalle forze dell’ordine è quello della caduta mortale che vi abbiamo fatto vedere. Anche in questo ci sarebbero elementi che non tornano, secondo il perito della famiglia, Luca Scarselli: la presenza costante di fari rossi dall’altra parte del vicolo che sembrano i fanali posteriori di un veicolo e di ombre di persone con frame deteriorati. C’è il sospetto che il video sia stato manomesso.

8. LA LETTERA, IL VIGLIACCO, GLI SPARI. Servizio del 28 novembre 2017. Mentre a Siena le nuove indagini ora sono due, la vedova di David Rossi, Antonella Tognazzi, ci legge una lettera anonima, trovata nella posta, che ha ricevuto da una persona che si firma “Un vigliacco” e che le vuole rivelare una cosa in punto di morte, pentito di non averlo fatto prima. Si torna anche al caso del misterioso testimone incontrato dall’avvocato Goracci, raccontato nel sesto servizio. La lettera confermerebbe, come detto dal misterioso testimone, che in quel vicolo sarebbero stati sparati colpi di pistola, addirittura due, dall’interno della banca verso l’esterno. Il mittente della lettera, che sarebbe già morto, dice di non aver parlato per “paura dei poteri forti”. Difficile capire se si tratta di un mitomane (o addirittura un depistaggio) o meno, salvo la singolare coincidenza di due testimoni misteriosi che parlano di colpi di pistola.

9. “IO MI PROSTITUIVO AI FESTINI DI SIENA”. Servizio del 25 marzo 2018. Nel 2018 Antonino Monteleone torna ad occuparsi del caso con una testimonianza clamorosa. Ci contatta un uomo che afferma di aver partecipato come escort ad alcune cene private con risvolti a luci rosse a base. “Festini” che si sarebbero svolti nelle campagne toscane per “intrattenere degli ospiti di alto profilo”. Avrebbero partecipato dirigenti del Monte dei Paschi, un sacerdote, due magistrati, un politico, un giornalista e perfino un ex Ministro. L’escort, che accetta di rivelare le cose di cui è a conoscenza a condizione che gli venga garantito l’anonimato, ha paura perché c’erano “personaggi pericolosi, anche delle forze dell’ordine e legate ai servizi segreti”, poi inizia a riconoscere i partecipanti e in alcuni casi anche i suoi clienti sessuali nei “dopocena” da alcune foto che gli mostra la nostra Iena. Secondo l’escort, qualcuno potrebbe aver registrato quegli incontri. Esiste o esisteva un meccanismo di ricatto o condizionamento subito da vari pezzi del potere pubblico e privato nella città di Siena?

10. LA FIGLIA DI DAVID ROSSI INCONTRA L’ESCORT DEI FESTINI. Servizio del 4 aprile 2018. Le dichiarazioni dell’escort sono diventate un nuovo caso mediatico e giudiziario nazionale. Facciamo incontrare l’escort con Carolina Orlandi, la figlia acquisita di David Rossi. In un momento di comprensibile alta tensione emotiva l’escort ricorda i giorni della morte di Rossi (compreso il riferimento alla morte di una giovane prostituta colombiana avvenuta due giorni prima di quella di David). L’uomo sostiene di essersi convinto a parlare dopo aver visto gli appelli proprio di Carolina, nei nostri servizi, per cercare la verità.

11. NUOVI RISCONTRI AL RACCONTO DELL’ESCORT? Servizio dell’11 aprile 2018. Si aggiunge una nuova testimonianza. A parlare è “la moglie di una persona che, negli anni in cui David Rossi è morto, a Siena occupava un ruolo molto importante nei vertici dello Stato”. A spingerla a collaborare con l’inchiesta de Le Iene sarebbero state le parole di Piccini sui “festini”. “La mia vita è cambiata dal 2012 in poi perché un giorno, riponendo delle camicie in un armadio di mio marito ho trovato degli oggetti particolari di una sessualità alla ’50 sfumature grigio’. Ho trovato manette, biancheria di pelle, un frustino”, racconta la donna che collega il tutto ai festini citati da Piccini. “Lui mi disse che erano fatti suoi”. Il marito conosceva David Rossi. Potrebbe aver avuto a che fare con le indagini e dopo pochi mesi, dopo un’accesa discussione, ha cambiato incarico.

David Rossi, svolta nel caso: l'orologio è stato gettato 20 minuti dopo la caduta del corpo del manager di Mps, scrive il 29 Settembre 2018 "Libero Quotidiano". Svolta nel caso David Rossi. L'orologio del capo della comunicazione della banca Monte dei Paschi di Siena è stato gettato dalla finestra dell'ufficio - rivela Il Fatto Quotidiano - ben venti minuti dopo il corpo del manager. Una perizia ha certificato come il lato della cassa dell'accessorio che ha attutito il colpo al suolo sia esattamente l'opposto di quello che avrebbe impattato se fosse stato al polso dell'uomo. Non solo, il video della telecamera di sorveglianza (l'unico di dodici acquisito) è stato studiato dall'ingegnere Luca Scarselli, consulente dei familiari, che ha individuato un oggetto (l'orologio) cadere dalla finestra dell'ufficio, dopo il corpo del manager. Quindi qualcuno doveva per forza esserci nella stanza di Rossi. Qualcuno che però non è rintracciabile, dato che né i fogli presenza del giorno in banca, né le celle per tracciare i cellulari presenti in zona, sono mai stati acquisiti. Non si rassegnano i familiari di Rossi: troppe le lacune commesse dai magistrati senesi. La morte di David Rossi infatti, avvenuta il 6 marzo 2013, è stata oggetto di due fascicoli, uno nell'immediatezza del decesso, uno due anni dopo. Entrambi chiusi con archiviazione per suicidio, anche se proprio dalle carte delle due indagini emerge chiaramente che tutto può esser accaduto quella sera tranne che Rossi si sia tolto la vita. Lo stesso Colonello dei Ris, Davide Zavattaro, nominato dalla Procura, ha ammesso che prima di morire David sia stato oggetto di una colluttazione. Peccato però che elementi fondamentali a sostegno di questa tesi (i sette fazzoletti sporchi di sangue trovati nell'ufficio di Rossi), siano stati distrutti dal magistrato titolare del primo fascicolo, Aldo Natalini, senza nemmeno essere analizzati e prima ancora che il Gip disponesse l'archiviazione o un eventuale supplemento di indagini. A riaprire il caso, nel 2015, è stato il magistrato Andrea Boni che si è immediatamente accorto che qualcosa non tornava nelle indagini della scientifica. Poi Boni ha preso servizio come procuratore capo di Urbino e ha ceduto il fascicolo ad altri colleghi senesi. E il tutto si è concluso con una nuova archiviazione.

David Rossi, Giannarelli (M5S Toscana): “Corpo e orologio non sono caduti insieme. Si riaprano le indagini”. A suscitare la reazione del consigliere M5S è stato l'articolo de Ilfattoquotidiano.it a firma di Davide Vecchi, in cui si riportano gli esiti di una perizia effettuata sull'apparecchio: il lato della cassa che ha attutito il colpo al suolo è l'opposto di quello che avrebbe impattato se fosse stato al polso dell'uomo, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 27 settembre 2018. Il consigliere regionale del Movimento 5 Stelle Toscana, Giacomo Giannarelli, chiede la riapertura delle indagini sulla morte di David Rossi, il capo della comunicazione del Monte dei Paschi di Siena precipitato da una finestra di Rocca Salimbeni, il 6 marzo del 2013. A suscitare la reazione del consigliere M5S è stato l’articolo de Ilfattoquotidiano.it a firma di Davide Vecchi, in cui si riportano gli esiti di una perizia effettuata sull’orologio dell’uomo: il lato della cassa che ha attutito il colpo al suolo è l’opposto di quello che avrebbe impattato se fosse stato al polso dell’uomo. Questo vuol dire che l’orologio è stato lanciato dalla finestra successivamente alla caduta della vittima, per la precisione “venti minuti dopo”. “Troppe cose non tornano. Troppe le lacune rimaste e richiamate anche in queste ore sulla stampa. Vogliamo capire sino in fondo cosa sia davvero successo a Rossi”, ha dichiarato Giannarelli in un comunicato diffuso dal Movimento 5 Stelle Toscana. Poi il consigliere regionale ha continuato: “Corpo e orologio di Rossi non sono caduti assieme. Questo quel che emerge dalla consulenza richiesta dai familiari del manager Mps. A questo punto mi pare evidente vi siano tutti i margini affinché le autorità competenti predispongano la riapertura delle indagini sulla morte del capo della comunicazione di Mps”, ha concluso Giannarelli.

David Rossi, “orologio del manager gettato dalla finestra 20 minuti dopo la sua morte”. Quella che fino a oggi era una ipotesi investigativa oggi ha un riscontro oggettivo: una perizia svolta sull'orologio certifica come il lato della cassa che ha attutito il colpo al suolo è l'opposto di quello che avrebbe impattato se fosse stato al polso dell'uomo. Lo studio è stato disposto dai familiari di Rossi, in particolare dal fratello Ranieri, che non si sono rassegnati all'epilogo scritto per due volte dalla procura: suicidio, scrive Davide Vecchi il 26 settembre 2018 "Il Fatto Quotidiano". L’orologio di David Rossi è stato gettato dalla finestra dell’ufficio venti minuti dopo il corpo del manager. Quella che fino a oggi era una ipotesi investigativa oggi ha un riscontro oggettivo: una perizia svolta sull’orologio certifica come il lato della cassa che ha attutito il colpo al suolo è l’opposto di quello che avrebbe impattato se fosse stato al polso dell’uomo. Lo studio è stato disposto dai familiari di Rossi, in particolare dal fratello Ranieri, che non si sono rassegnati all’epilogo scritto per due volte dalla procura: suicidio. E non si rassegnato perché è ormai appurato quali e quante lacune siano state commesse dai magistrati senesi. La morte del capo della comunicazione del Monte dei Paschi di Siena, avvenuta il 6 marzo 2013, è stata oggetto di due fascicoli, uno nell’immediatezza del decesso, uno due anni dopo. Entrambi chiusi con archiviazione per suicidio anche se proprio dalle carte delle due indagini emerge chiaramente che tutto può esser accaduto quella sera tranne che Rossi si sia tolto la vita. Basti ricordare che il Colonello dei Ris, Davide Zavattaro, nominato dalla Procura come perito ha certificato come prima di morire David sia stato oggetto di una colluttazione. Purtroppo elementi fondamentali, come sette fazzoletti sporchi di sangue trovati nell’ufficio di Rossi, sono stati distrutti dal magistrato titolare del primo fascicolo, Aldo Natalini, senza essere neanche analizzati e prima ancora che il Gip disponesse l’archiviazione o un eventuale supplemento di indagini. Poco è rimasto su cui concentrare le ricerche, in particolare il video della telecamera di sorveglianza (l’unico di dodici acquisito). Studiando quel video l’ingegnere Luca Scarselli, consulente dei familiari, ha individuato un corpo cadere dalla finestra dell’ufficio di David circa venti minuti dopo il corpo del manager. Si è sin da subito ipotizzato si trattasse dell’orologio. Ora, grazie a una nuova perizia, c’è la conferma: la cassa dell’orologio è stata gettata in un secondo momento. Quindi qualcuno era presente della stanza di Rossi. Chi? Inutile al momento chiederlo, visto che né i fogli presenza del giorno in banca, né le celle per tracciare i cellulari presenti in zona, sono mai state acquisiti. Quando nel 2015 il magistrato Andrea Boni prese servizio alla procura di Siena decise di riaprire il fascicolo e tentò di approfondire il caso, concentrandosi anche sull’orologio. Dopo aver visto le immagini scattate del corpo di Rossi senza vita nel vicolo nell’immediato e averle confrontate con quelle dei rilievi compiuti dalla scientifica si accorse subito che qualcosa non tornava: nelle prime cassa e cinturino non comparivano accanto al cadavere a differenza che nella seconda serie di foto. Addirittura il cinturino del Sector risultava attaccato alla caviglia di David, mentre la cassa poco distante la sua testa. Così il pm ha sentito tutti i membri della squadra di soccorso intervenuta quella sera e tutti hanno negato categoricamente che cinturino e orologio fossero lì vicino al corpo. Poi Boni ha preso servizio come procuratore capo di Urbino e ha ceduto il fascicolo ad altri colleghi senesi. E il tutto si è concluso con una nuova archiviazione. Da allora la battaglia per la verità da parte della famiglia non ha mai trovato sosta. Questa mattina il fratello di David, Ranieri Rossi, ha rivelato l’esistenza di questa nuova perizia durante la trasmissione Buongiorno Siena su Siena Tv. “Mio fratello non aveva l’orologio quando è precipitato da Rocca Salimbeni”, ha detto. “Questo conferma che qualcuno lo ha gettato dalla finestra dopo, mentre David era agonizzante a terra”, conferma Ranieri. “La perizia sull’orologio evidenzia che il lato dove l’orologio risulta ammaccato dopo la precipitazione è l’opposto rispetto a quello in cui la mano di David ha toccato il suolo”. L’elemento sarebbe sufficiente a presentare un’istanza di riapertura delle indagini per arrivare a scrivere sul caso una verità almeno credibile.

David Rossi, motivazioni dell’assoluzione della vedova e del cronista del Fatto: non dovevano neanche essere processati. Il giudice Alessio Innocenti ha depositato le motivazioni per le quali il 15 gennaio scorso ha assolto con formula piena il giornalista Davide Vecchi e Antonella Tognazzi, moglie del capo della comunicazione di Mps. Nelle 33 pagine si legge che "i reati contestati sono insussistenti" e che "il tribunale non condivide il presupposto giuridico da cui muove l'ufficio del pm né i successivi passaggi del ragionamento”, scrive "Il Fatto Quotidiano" l'11 aprile 2018. La vedova di David Rossi, Antonella Tognazzi, e il giornalista del Fatto, Davide Vecchi non solo devono essere assolti ma non dovevano proprio essere processati. Il giudice Alessio Innocenti ha depositato le motivazioni per le quali il 15 gennaio scorso ha assolto con formula piena Vecchi e Tognazzi. Nelle 33 pagine più che spiegare i motivi della loro assoluta estraneità ai fatti, impartisce una lezione di diritto al magistrato Aldo Natalini che li ha indagati e trascinati sul banco degli imputati. Lezione delle basi del diritto: di quella Costituzione che qualunque cittadino dovrebbe conoscere a memoria, figurarsi un magistrato. Sin dalla prima pagina dell’analisi che svolge dell’accusa formulata dal pm, Innocenti scrive: “Il tribunale è giunto a ritenere insussistente già sotto il profilo oggettivo il reato contestato”. Poco più avanti: “Il tribunale non condivide il presupposto giuridico da cui muove l’ufficio del pm né i successivi passaggi del ragionamento”. E così fino alle conclusioni, nelle quali fra l’altro scrive che, proprio volendo indagare i due, sarebbero stati ipotizzabili altri reati ma “perseguibili solo su querela” di parte. Che non c’era: il processo è stato avviato d’ufficio dal pm e il reato contestato era l’unico che permetteva a Natalini di agire senza querela di parte nei confronti di un giornalista, quello di violazione della privacy. E il giudice sottolinea addirittura come persino il riferimento usato dal pm per impostare l’accusa fosse riferito a “un ambito civilistico amministrativo” e “non penale”. Innocenti, poi, ricorda più volte il quadro normativo scontato per chiunque operi nel settore e non solo: l’articolo 21della Costituzione sul diritto all’informazione, l’art 10 della Convenzione europea dei diritti fondamentali dell’uomo, il codice deontologico dei giornalisti, le garanzie dei cronisti e lo stesso regolamento sulla privacy che garantisce il diritto di cronaca. Insomma: le leggi che tutelano la libertà di stampa. Che l’intero processo fosse un tentativo di limitare Vecchi nel suo lavoro era già stato denunciato da vari organismi internazionali, fra cui il più importante è il Grobal Freedom of Expression della Columbia university di New York. Se ne sono accorti anche a Siena: non c’erano neppure gli estremi per indagare Vecchi e Tognazzi. Ma allora perché è stata avviata l’inchiesta?

Il giudice ricorda un aspetto importante e cioè che non si può negare “il collegamento, quantomeno sotto il profilo probatorio, tra il presente processo e i procedimenti relativi alla morte del Rossi”. Ecco. Si torna all’inizio di tutto. Al 6 marzo 2013, quando il capo della comunicazione di Mps, David Rossi, viene trovato morto nel vicolo sotto la finestra del suo ufficio. Il fascicolo di indagine è affidato a Nicola Marini, pm di turno quella sera. Ma presto a lui si aggiunge Natalini. Dopo appena tre mesi, nel giugno 2013, si dicono pronti ad archiviare il caso come suicidio e restituiscono parte del materiale sequestrato tra cui telefoni e computer di Rossi ai familiari. Vecchi, come decine di altri colleghi, è a Siena perché in quel periodo sono in pieno svolgimento le indagini sulle sorti bancarie di Mps e ha rapporti quotidiani con i magistrati della procura. Natalini si occupa anche dei fascicoli relativi a Rocca Salimbeni. A inizio luglio 2013 firma due articoli per il Fatto Quotidiano nei quali riporta lo scambio di mail tra Rossi e Fabrizio Viola, all’epoca amministratore delegato della banca. Mail contenute negli atti dei magistrati. Tutte inviate il 4 marzo, due giorni prima di morire. Tra queste la più importante recita: “Stasera mi suicidio, sul serio. Aiutatemi!!!”. Nelle altre Rossi esprime la volontà di andare a parlare con i magistrati che poche settimane prima lo hanno perquisito – seppure lui non fosse indagato – perché ritenuto braccio destro di Giuseppe Mussari. Lo scambio di mail tra i due viene pubblicato sul Fatto i giorni 5 e 6 luglio. A seguito della pubblicazione, il 5 luglio Natalini indaga Antonella Tognazzi insieme ad altri che rimangono ignoti. Nei mesi e anni successivi la vedova Rossi andrà a bussare alla porta del pm per avere informazioni sull’inchiesta relativa al marito senza sapere che invece Natalini stava indagando su di lei. E solamente nel 2015 il fascicolo viene chiuso: indagati sono lei e Vecchi con l’accusa di aver violato la privacy di Viola, seppure sia stato avvisato prima della pubblicazione. Ma tant’è. Secondo Natalini, la vedova avrebbe dato a Vecchi le mail per pubblicarle così da ricattare la banca e ottenere un risarcimento. Un’accusa più moralmente infamante che penalmente rilevante, in pratica: aver tentato di speculare sulla morte del marito. Eppure Tognazzi ha sempre e sin da subito rifiutato ogni proposta avanzata da Mps, persino quella di una assunzione a tempo indeterminato. Il processo si apre nel 2016. E nel frattempo a Siena arriva un pm nuovo, Andrea Boni, che riapre le indagini sulla morte di Rossi, archiviate come detto frettolosamente anni prima. Boni fa il suo lavoro ma pochi mesi dopo diventa procuratore capo a Urbino. I risultati delle sue indagini diventano pubbliche nell’ottobre 2018 con la pubblicazione di un libro di Vecchi dedicato alla vicenda (Il caso David Rossi, il suicidio imperfetto, Chiarelettere). Ma più che le indagini svolte da Boni si comprendono le “non indagini” svolte da Natalini: il pm nell’agosto 2013, ad esempio, aveva disposto la distruzione di reperti fondamentali come sette fazzoletti sporchi di sangue trovati nell’ufficio di Rossi. Distrutti senza analizzarli e prima ancora di metterne a conoscenza le parti e soprattutto prima ancora che il caso fosse archiviato come suicidio: il Gip avrebbe potuto disporre un supplemento di indagini. Dalla pubblicazione del libro, inoltre, anche la trasmissione Le Iene ha iniziato a occuparsi della vicenda, sollevando molti altri dubbi sull’operato dei magistrati senesi tanto che il Csm ha aperto un fascicolo nei confronti di Natalini e la procura di Genova sta valutando l’ipotesi di abuso d’ufficio. Da ieri intanto il pm ha lasciato Siena e si è trasferito a Roma, negli uffici del massimario della Corte di Cassazione. Quanto scritto dal giudice Innocenti dunque spinge a chiedersi con maggior forza perché Natalini nel luglio 2013 invece di indagare sulle sorti del manager Mps, abbia preferito dedicare le sue energie a Vecchi e Tognazzi portandoli a processo? La vedova, insieme a tutti i familiari, invoca ancora la verità su David. Per lei si chiude un capitolo doloroso, un processo ingiusto. Con la beffa di aver dovuto dividere i suoi risparmi su due fronti. Da una parte per difendersi da un’accusa rivelatasi infondata e dall’altra nel lavoro che avrebbe dovuto svolgere proprio la procura: le indagini sulla morte di David Rossi.

La Procura di Siena: molto «choosy», scrive il 4 Febbraio 2013 L'associazione culturale editoriale EFFEDIEFFE Non ci si sazia mai di ammirare la mano delicata dei procuratori di Siena che stanno indagando sull’enorme scandalo comunista Montepaschi. Nessuna intercettazione esce di lì, nessuna indiscrezione ai media amici: mica come dalle Boccassini, dagli Ingroia o dai Woodcock per Berlusconi o dell’Utri. «Mussari è stato già, in massima segretezza, interrogato dai pm senesi», dicono i giornali. Si viene a sapere che gli infaticabili pubblici ministeri hanno selezionato «undici indagati tra i quali «nessun politico», come lasciano trapelare ambienti giudiziari» (da Il Giornale). Nessun politico. Mi raccomando. Un momento. C’è un nome che da giorni, gli inviati sono stati autorizzati a nominare. La Procura di Siena sta dedicando «un’attenzione particolare al ruolo del consigliere Andrea Pisaneschi — in quota Forza Italia — che fu nominato presidente di Antonveneta subito dopo l’acquisizione e costretto a dimettersi dopo il coinvolgimento nell'inchiesta sul Credito cooperativo fiorentino di Denis Verdini» (Corriere della Sera). Sicuramente questo Pisaneschi è un farabutto, non dubitiamo. Ma altrettanto sicuramente, c’è voluta tutta la più fine capacità dei magistrati per identificare, tra quella folla di comunisti con tessera PD nella Fondazione, nella dirigenza, nel Comune, Provincia e Regione con potere e mani in pasta in Montepaschi, uno «in quota Forza Italia». È stato come chi, davanti alla fetta del panettone, pilucca e mangia solo i pezzettini di canditi. È una procura choosy, un po’ schifiltosa. Ad occhio e croce, questo identificato colpevole farebbe parte di una componente massonica, come lascia intendere il suo collegamento a Verdini. È evidente che la linea l’ha data, fin dal 26 gennaio scorso, lo storico tesoriere dei DS, Ugo Sposetti: «Nel caso del Monte dei Paschi non c’entra la politica ci sono altri interessi», la massoneria «ma non solo. C’è pure l’Opus Dei». A Siena «c’era pure il Pci, ma casualmente». «Il Monte è il Monte» – dice Sposetti, «la storia d’Italia, delle cento città, dei mille comuni. Dal granduca di Toscana a Mussolini, tutti hanno messo bocca sul Monte» Ecco dunque il colpevole: il FODRIA, sigla delle «Forze Oscure della reazione in Agguato», perenne ed imprendibile nemico del progressismo rosso e del Radioso Domani Rivoluzionario oggi incarnato da Bersani. I procuratori non mancheranno di portare, e spifferare alla stampa amica, le prove del complotto fra il Duce e il Granduca; e possiamo già indovinare che questa pista finirà per portarli a Berlusconi-Dell’Utri e Mangano come colpevoli reali del dissesto Montepaschi. Ma, come dicono i media, «mancano ancora varie tessere al mosaico». Per intanto stanno comprovando che il Pci c’entra solo casualmente, e che i veri malfattori sono Massoneria ed Opus Dei. Opus Dei? Aspettavo con ansia, confesso, di vedere come sarebbe stata chiamata in causa l’Opus, in una Fondazione dove 13 su 16 membri-caporioni hanno la stessa tessera di Bersani e, dei tre, se c’è qualcuno «cattolico», sarà uno di Rosy Bindi. Sono stato subito accontentato: «Questi conti segreti fra MPS e IOR», titolano i giornali di domenica. Basta fare il nome dello IOR, e i cani di Pavlov cominciano a salivare: ecco il colpevole di ogni oscura trama bancaria! La procura di Siena sta seguendo la pista maleodorante della banca vaticana, finalmente inchiodata alle sue colpe! Per la verità, spiega il Giornale, l’oggetto della sua attenzione è minimo, c’è voluto un microscopio per scorgerlo, come i vibrioni nella montagna di m... «Due conti correnti, intestati a manager Mps, aperti allo Ior. Un particolare che, in sé, non è illegittimo». Due conti correnti. Non illegittimi. Ma da giorni è stato convocato dalla Procura senese, e interrogato per ore, «L’ex Gotti Tedeschi presidente Ior Gotti Tedeschi» oltretutto come «responsabile per l’Italia di Banco Santander (guidato da Emilio Botin, uomo forte dell’Opus dei)». In questi interrogatori, Gotti Tedeschi «ed altri, tra cui Daffina (?) ha sostenuto di non essersi mai occupato della cessione di Antonveneta dalla banca iberica a quella senese». Con la miserevole scusa che, all’epoca della vendita di Antonveneta, Gotti Tedeschi non si trovava più al Santander... Scusa miserevole. La procura, pur discretissima, fa sapere ai media che «i rapporti tra i due — Gotti Tedeschi e Mussari — erano certamente buoni: nell’agenda di Mussari del 2007 è segnato un appuntamento con Gotti (e diversi con Botin), e i pm ritengono che i rendez vous non annotati tra i due siano stati anche di più». Il fatto che Gotti Tedeschi avesse cordiali rapporti con Mussari è – giustamente – altamente sospetto per i magistrati. Ma perché non è loro anche più sospetto il fatto che tutti i banchieri italiani hanno avuto con Mussari rapporti così cordiali, da acclamarlo all’unanimità a capo dell’ABI, la loro associazione massima? C’è il sospetto che Passera, la Tarantola, Profumo, forse persino Monti (e Bersani e D’Alema) conoscessero personalmente Mussari, e intrattenessero con lui più che cordiali rapporti: perché prendere di mira solo Gotti Tedeschi? Ah, ma ci sono due conti correnti che manager di Montepaschi hanno acceso allo Ior. Va bene. Va benissimo anche prendere di mira il tizio «in quota Forza Italia» che fu messo a capo di Antonveneta da Mussari e dai comunisti che lo comandavano dopo l’acquisto. Infatti i magistrati hanno concentrato «l’attenzione su Pisaneschi per capire in base a quali accordi, stretti all’interno del Cda, si decise che dovesse essere proprio lui a dover guidare Antonveneta». Ottima preoccupazione. Ma ci permettiamo di dichiararla accessoria rispetto al reato principale. Pisaneschi messo ad Antonveneta è il «dopo». Mai dubbi riguardano quel che avvenne «prima». Il reato, o l’insieme di reati da indagare, sarebbe il fatto che Mussari (su indicazione di chi?) comprò «per 9 miliardi e 300 milioni, più un miliardo di euro di oneri», una banca che solo quattro mesi prima il Santander aveva comprato per 6 miliardi e 300 milioni; che 2 di quei miliardi pagati in più sono finiti in un fondo nero su un conto cifrato di Londra, e poi fatti rientrare in Italia approfittando di scudi fiscali: chi li ha presi? Sono finiti ai manager, come si sta insinuando, pardon facendo filtrare dalla procura? Politici esclusi? È questo il centro del problema, che umilmente segnaliamo ai procuratori di Siena. Ammirevole la loro capacità di selezionare nelle indagini, eccezionale la loro visione microscopica. Ma qui c’è un fatto macroscopico – la famosa montagna di m... rossa – visibile ad occhio nudo, e puteolente ad un olfatto semplicemente sano. Non vorremmo che sfuggisse ai validissimi magistrati. Tanto più che è stato questo oculatamente cattivo affare a dissestare definitivamente Montepaschi. Infatti «per coprire l'esborso non bastò l’aumento di capitale di 5 miliardi. MPS concluse una serie di scommesse derivate che non andarono a buon fine. Per mascherare le perdite in bilancio, MPS sostituì le vecchie scommesse con delle nuove, che immediatamente portavano soldi freschi, ma a scadenza sarebbero state perdenti per MPS, e il buco sarebbe aumentato. Sono noti almeno due di questi contratti: uno, chiamato Progetto Santorini, stipulato con Deutsche Bank, e l’altro, chiamato Alexandria, stipulato con Nomura. Si ritiene però che questo sia solo la punta dell’iceberg». Stiamo citando lo EIR (Executive Intelligence Review, Alert n.5) il quale ci dà una notizia che pare sfuggita ai magistrati, occupatissimi a trovare uno «in quota Forza Italia» e «due conti con lo Ior»: che di quel pessimo acquisto (ma lucroso per ignoti italiani) fu «coordinatore globale». «Ma Goldman era anche stata advisor di ABN-Amro nella prima acquisizione, quella osteggiata dal governatore Antonio Fazio che a causa di quella vicenda, come è noto, fu costretto a dimettersi». Qui la storia si fa spessa, perché fu la banca olandese ABN-Amro a tentare per prima la vasta scalata alle banche italiane (strapiene di risparmi, al contrario di quelle inglesi) che fu bloccata dal governatore Antonio Fazio, che per questo fu duramente punito da altri valorosi magistrati. Citiamo da Il Giornale «È il 22 marzo 2006 e Fazio, travolto dalla tempesta dei furbetti del quartierino e delle scalate corsare, viene chiamato in procura a Milano dal pm Francesco Greco. E che cosa racconta? Parla di Ricucci, di Fiorani e di Antonveneta, ma poi si concentra su un dettaglio illuminante. “Le posso dire – spiega a Greco –, su Bnl, che sono venuti da me Fassino e altri a chiedere se si poteva fare una grande fusione Unipol-Bnl-Montepaschi. Io li ho ascoltati». Greco non molla, per cercare di collocare nel tempo l'episodio: «Questo quando?». «Primissimi mesi 2005 o fine 2004», è la replica. Pausa. Poi Fazio articola meglio i ricordi: «Erano Fassino e Bersani. Ma sì, l’allora segretario dei Ds Piero Fassino, oggi sindaco di Torino, e l’allora responsabile economico del partito Pier Luigi Bersani, bussarono alla porta del governatore per proporre la creazione di un grande polo bancario in cui sarebbero confluiti Bnl, Unipol e Monte dei Paschi». (Lo smemorato Bersani andava in Bankitalia per sponsorizzare Mps) Questo particolare dovrebbe essere agli atti, e la Procura di Siena non dovrebbe fare fatica a procurarseli. Osiamo suggerire questo filone, come potenzialmente più promettente della ricerca di un uomo «in quota Forza Italia» nella montagna di m... rossa detta Montepaschi. Eh sì, perché come prosegue EIR, «Capo dell’ufficio europeo di Goldman Sachs all’epoca dell’accordo ABN-Antonveneta era un certo Mario Draghi, lo stesso Draghi che, nel dicembre 2006, sostituì il dimissionario Fazio. Lo stesso Draghi che era responsabile della supervisione bancaria quando MPS truccò il bilancio per mascherare le perdite sui derivati». Ciò potrebbe indurre gli inquirenti a porsi alcune domande non microscopiche, ma macro: su Draghi. Sulla Tarantola, miracolata da Monti. E sul perché Mario Monti ha versato senza fiatare l’intero introito dell’Imu prima casa per «salvare» Montepaschi e più precisamente, per salvare la sua dirigenza comunista, quella palese e quella occulta. Come ha rilevato l’ex ministro Tremonti, Monti ci teneva tanto a far approvare il pacchetto salvaMPS da averci posto la fiducia». Già, perché? Ma qui, capisco, la procura segue una linea ben più augusta di quella di Sposetti «storico tesoriere dei DS». È Napolitano a scendere in campo per sopire, troncare e difendere i grossi papaveri politici, ma soprattutto il suo probabile successore Mario Draghi. Con una nota dal Colle, ci assicura quanto segue: «La Banca d’Italia ha documentato di aver esercitato fin dall’inizio con il tradizionale rigore le funzioni di vigilanza nei limiti delle sue attribuzioni di legge. E in effetti, la collaborazione che essa ha prestato e presta alla magistratura inquirente è garanzia di trasparenza per l’accertamento di tutte le responsabilità». E ancora, sempre per puntellare Bankitalia: «Sono fermamente convinto – afferma il capo dello Stato – che va salvaguardato il patrimonio di credibilità e di prestigio, anche fuori d’Italia, di storiche istituzioni pubbliche di garanzia, insieme con la riconosciuta solidità del nostro sistema bancario nel suo complesso». Che cosa ne sa, Napolitano, di come si comporta Bankitalia? È la domanda che rivela la nostra ingenuità. Napolitano sa. Sa tutto. È tessera Pci-Pdi da tempo immemorabile. Lui garantisce la trasparenza del tutto. Lui segnala che il Pci non c’entra. Lui indica i papaveri da non toccare. Non è bello, avere un monarca così Illuminato? Siate choosy, animosi procuratori di Siena; non fate del male a Bersani che poi andrà d’accordo con Monti, Draghi e Tarantole varie... Arrestate il Granduca di Toscana, piuttosto.

Indagò su Mps e la morte di David Rossi, lascia la Procura di Siena il pm Natalini. Sentito dall'inviato de Le Iene sui presunti "buchi" nelle indagini sulla fine dell'ex capo comunicazione della banca, rispose che l'unica verità era nel fascicolo e nelle sentenze, scrive la Redazione Tiscali l'11 aprile 2018. La Procura di Siena continua a perdere protagonisti di alcune delle maggiori inchieste italiane degli ultimi anni. Il pm Aldo Natalini va via verso nuova destinazione. In precedenza si era trasferito Antonio Nastasi, altro pubblico ministero senese, destinazione Firenze. Natalini si era occupato di due casi di grande risonanza: le inchieste sulle tribolate vicende finanziarie di Montepaschi, e la morte di David Rossi, responsabile della comunicazione della più antica banca del mondo, precipitato dalla finestra del suo ufficio nel 2013. 

L'inchiesta de Le Iene e la denuncia dei magistrati. Natalini era stato intervistato da Antonino Monteleone, sui dettagli che l'inviato de Le Iene sta riportando a galla circa le indagini sulla morte di David Rossi. Natalini si era limitato a rispondere che quanto c'è da sapere è già tutto nel fascicolo delle indagini e nelle sentenze che hanno archiviato quella morte come un suicidio. In seguito aveva ricevuto una lettera intercettata al Centro smistamento delle Poste di Sesto Fiorentino (Firenze). All'interno c'erano un proiettile calibro 9, inesploso, e minacce, considerate "gravissime", contro il magistrato. Il programma di Mediaset è stato denunciato per diffamazione dai magistrati chiamati in causa nei servizi televisivi sul caso Rossi, e il fascicolo è stato acquisito dalla Procura di Siena e dal Consiglio superiore della magistratura.

David Rossi, il mistero sulla morte del manager Mps. DAVID ROSSI. Video, era la gola profonda in Mps del pm Natalini? Spunta un'intercettazione... (Quarto Grado). David Rossi, il mistero sulla morte del manager Mps. Era la gola profonda in Mps del pm Natalini? Spunta un'intercettazione... La pubblica Quarto Grado nell'ultima puntata, scrive il 7 aprile 2018 Silvana Palazzo su "Il Sussidiario". Una nuova tessera al complesso puzzle relativo alla morte di David Rossi. L’ha data il programma “Quarto Grado”, che ieri sera ha mandato in onda un’intercettazione tra il pm Aldo Natalini, uno dei magistrati che indagava sull’acquisizione di Antonveneta e sulle spericolate operazioni di Mps, e un suo amico d’infanzia, un avvocato che era indagato per estorsione. L’intercettazione risale alle 22.08 del 19 febbraio 2013 ed è alla base dell’inchiesta contro Natalini per rivelazione del segreto d’ufficio, vicenda archiviata poi nell’autunno. Il 19 febbraio è il giorno delle perquisizioni a casa e nell’ufficio di David Rossi, indagini per le quali il responsabile comunicazione Mps aveva mostrato preoccupazione nei giorni successivi. Natalini rivelò all’amico di avere una possibile gola profonda in Mps. «Una gola profonda non ce l’avete?», chiede l’amico al pm, che risponde: «Sì, quello sì». Per “Quarto Grado” c’è un collegamento tra la volontà di David Rossi di andare a parlare con la Procura, palesata via mail a Viola, quindi ipotizza che sia lui la talpa. Il programma condotto da Gianluigi Nuzzi non crede alla pista dei festini, considerata un depistaggio, ma collega la vicenda al sequestro disposto dalla Procura di Siena di 1 miliardo e 666 milioni a carico di Nomura, somma versata da Mps alla banca londinese per il caso del titolo tossico da 220 milioni. La perquisizione e l’interrogatorio a David Rossi avrebbero avuto quindi come obiettivo proprio la ricerca di elementi per procedere col sequestro. (agg. di Silvana Palazzo).

Anche Quarto Grado torna ad occuparsi di David Rossi, il manager di Mps trovato morto la sera del 6 marzo 2013. Lo ha anticipato Sabrina Scampini nella didascalia al selfie postato su Instagram: «Un po’ di ripasso prima della puntata di questa sera con Il caso David Rossi di Davide Vecchi: spiega molti lati oscuri sulla vicenda dell’improbabile suicidio». Il programma condotto da Gianluigi Nuzzi farà il punto della situazione sul caso che nelle ultime settimane ha conosciuto diversi sviluppi grazie all’inchiesta de Le Iene. La novità più importante è stata annunciata dal giornalista Davide Vecchi, autore di un libro (“Il caso David Rossi, il suicidio imperfetto del manager Mps”) che svela molti elementi sfuggiti alle indagini svolte dalla Procura di Siena. I soggetti indicati come partecipanti ai festini a luci rosse saranno convocati e interrogati dalla Procura di Genova: politici, manager, sacerdoti, imprenditori, persino i magistrati di Siena sfileranno davanti al procuratore aggiunto del capoluogo ligure, Vittorio Ranieri Miniati. Le rivelazioni dell’escort intervistato dalla Iena Antonino Monteleone sono finite al vaglio degli inquirenti, che hanno disposto il sequestro del video integrale dell’intervista trasmessa dal programma di Italia 1. Cene e festini a luci rosse in diverse ville senesi, in particolare una a Monteriggioni. La conferma arriva da un ragazzo che a Le Iene ha rivelato di essere uno degli escort che vi ha preso parte. Il gigolò ha riconosciuto come partecipanti a quelle serate almeno dieci persone, tra cui due magistrati di Siena, un manager già al vertice di Mps e un importante ex ministro. Le immagini mostrate al ragazzo sono state nascoste da Le Iene per non rendere riconoscibili a tutti i volti delle persone indicate. Ma il procuratore genovese Miniati, come riportato dal giornalista Davide Vecchi sul Fatto Quotidiano, sentirà i giornalisti della trasmissione per individuare l’escort e avere un elenco completo delle persone riconosciute dal 26enne e che poi saranno convocate. Il caso nasce dalle indagini giornalistiche svolte negli ultimi mesi su David Rossi. Queste inchieste hanno evidenziato le lacune delle inchieste condotte dai magistrati senesi sulla morte di Rossi, liquidata frettolosamente con l’archiviazione per suicidio. Ma sulla vicenda sono emerse molte incongruenze. E ora il sospetto - insinuato dall'ex sindaco Piccini - è che le indagini siano state “abbuiate” per evitare lo scoppio di una bomba morale.

Monte Paschi, l’inchiesta delle Iene sul “suicidio” di David Rossi, scrive giovedì 5 ottobre 2017 Imola Oggi. In prima serata su Italia 1, a “Le Iene Show” l'1 ottobre, l’inviato Antonino Monteleone si è occupato del caso di David Rossi, responsabile della Comunicazione di Monte dei Paschi di Siena precipitato da una finestra della sede della banca a Rocca Salimbeni, nel capoluogo toscano, la sera del 6 marzo 2013. In quelle stesse settimane, MPS è al centro di una grande inchiesta basata sull’acquisizione di Antonveneta. Nel luglio 2017, il gip ha disposto l’archiviazione del fascicolo d’indagine aperto con l’ipotesi di reato d’istigazione al suicidio, accogliendo la richiesta avanzata dalla procura senese e respingendo così la richiesta avanzata – nel novembre 2015 – dai legali della famiglia Rossi, da sempre convinti che si sia trattato di omicidio. Si tratta della seconda archiviazione dell’indagine: la prima era avvenuta nel marzo 2014. La Iena intervista Antonella Tognazzi (la moglie di David Rossi) e la figlia della donna Carolina Orlandi, da anni impegnate per far sì che si continui a indagare sulla morte dell’uomo. Antonino Monteleone raggiunge anche Giuseppe Mussari, ex Presidente del MPS ed ex Presidente dell’ABI, Associazione Bancaria Italiana. Da quando è stato indagato e travolto dalle polemiche per l’acquisizione di Antonveneta da parte di MPS, non ha più parlato: né delle vicende bancarie, né della morte di Rossi.

In onda dichiarazioni confidenziali di Piccini: "David Rossi non si è ucciso". L'ex sindaco annuncia querele. Il giallo dei festini, scrive l'8.10.2017 "Il Corriere di Siena". Servizio choc delle Iene sulla morte di David Rossi, ex capo della comunicazione di Banca Monte dei Paschi di Siena. Nella puntata dell'8 ottobre 2017, sono state mandate in onda rivelazioni choc di Pierluigi Piccini. L'ex sindaco è stato registrato e ripreso dalle telecamere delle Iene a sua insaputa, durante una chiacchierata confidenziale in cui si è lasciato andare, raccontando la sua personale versione e le sue opinioni sulla vicenda della morte dell'ex capo della comunicazione di Mps. Piccini non sapeva di essere filmato e quindi ha parlato "senza veli". Soltanto al termine della chiacchierata si è reso conto che la Iena Antonino Monteleone, aveva un microfono sotto la camicia. A quel punto Piccini è andato su tutte le furie, ha urlato che avrebbe denunciato tutti, ma ormai era troppo tardi. Dopo la messa in onda del servizio, durante la puntata di ieri sera è stato spiegato che le dichiarazioni di Piccini sono state trasmesse anche se ottenute con l'inganno, perché troppo importanti per il caso. Ma cosa ha detto l'ex sindaco di Siena? Piccini ha sostenuto più volte e con forza di essere certo che David Rossi non si sia tolto la vita, ha spiegato i perché di tutti i suoi dubbi, messo in discussione le indagini degli inquirenti che avrebbero archiviato troppo in fretta e senza le opportune verifiche. Ma è andato anche oltre, parlando di presunti festini in una location tra Siena ed Arezzo che avrebbero visto la partecipazione di importanti personaggi italiani e che sarebbero legati alle indagini sulla morte di David Rossi. Quando Piccini si è reso conto che le Iene avevano registrato le sue parole, ha ripetuto più volte che avrebbe denunciato se le sue dichiarazioni sarebbero state mandate in onda: "Voi mi rovinate - ha detto - io mi sto candidando a sindaco di Siena. Mi mettete contro la magistratura". “In seguito alla trasmissione delle Iene andata in onda domenica 8 ottobre su Italia 1 (Mediaset) preciso - ha scritto Piccini in una nota fatta recapitare al Corriere di Siena nella serata dello stesso 8 ottobre - che ho immediatamente sentito i miei legali dando loro mandato di difendere le mie ragioni sia sul piano penale che civile, in quanto la registrazione e le riprese sono state effettuate in maniera scorretta”. Nel frattempo, giovedì 12 ottobre alle ore 18.30 a Palazzo Patrizi, in via di Città a Siena, verrà presentato il libro del giornalista Davide Vecchi proprio sul "Caso Rossi".

David Rossi come Attilio Manca: Servizi Segreti, Magistrati Ambigui e Tanti Misteri, scrive il 10 Ottobre 2017 Francesca Scoleri. Un suicidio inattendibile quello attribuito a David Rossi, avvenuto il 6 marzo del 2013. Il corpo fu trovato privo di vita sotto la finestra del suo ufficio in una zona centrale di Siena. Un’inchiesta de Le Iene rivela particolari preziosissimi ai fini dell’accertamento della verità ma la magistratura persiste nel non considerarli. Proprio come nel caso di Attilio Manca. Ecco che la presenza dei Servizi Segreti ripiomba laddove non c’è chiarezza di fatti, azioni e omissioni. Ho seguito personalmente il caso di Attilio Manca, il giovane urologo “suicidato” dopo aver operato Bernardo Provenzano di tumore alla prostata. Un intreccio di operazioni incomprensibili messe in atto da medici, magistrati e rappresentanti delle istituzioni e come un’ombra, la mano dei Servizi Segreti. Immancabili ormai dove i conti macchiati di sangue non tornano. Da una parte, si copre l’ingiustificabile latitanza di Provenzano; 43 anni vissuti in estrema libertà al punto da aver raggiunto, senza alcun problema, le frontiere francesi per recarsi in una delle cliniche più prestigiose di Marsiglia. Attilio Manca, in qualità di migliore urologo suggerito al boss corleonese, lo ha operato salvandogli la vita ignorando che avrebbe perso così la sua. Ma il movente per eliminarlo appartiene più a quella parte di istituzioni corrotte che non alla mafia. Il processo “trattativa Stato-mafia” ne dà prove continue che la maggior parte della stampa ignora. Ma sono fatti. Provenzano è stato protetto, anche da uomini dell’Arma.

Dall’altra parte uno scandalo nazionale che ha origine a Siena; è il 2013, i vertici dell’istituto bancario Monte dei Paschi, nato come “monte di pietà” per dare aiuto alle classi povere della città, vengono sanzionati da Bankitalia con una multa di 5 milioni di euro a seguito di accertamenti ispettivi in cui è stata riscontrata violazione nel controllo dei rischi. Inutile dirlo, le vittime sono i risparmiatori. In un clima di indagini e sospetti, giunge la notizia che David Rossi, responsabile della comunicazione in Monte dei Paschi, si è buttato nel vuoto dalla finestra del suo ufficio in una zona centrale di Siena. Un suicidio risultato poco credibile sin dai primi momenti. Si dirà che l’uomo, non ha retto ai controlli e alle perquisizioni fatte sia nel suo ufficio che nella sua abitazione pochi giorni prima e che, provato emotivamente, ha preferito farla finita. Parole smentite da chi lo conosceva bene come l’ex moglie Antonella Tognazzi e Pierluigi Piccini, ex dirigente del Monte dei Paschi ed ex sindaco di Siena. Le rivelazioni di quest’ultimo, inconsapevolmente registrato da un giornalista de Le Iene, aprono scenari inquietanti.

Da premettere che il caso è alla sua seconda archiviazione nonostante molteplici prove fra testimonianze e video filmati, dimostrino che la parola “suicidio” sul fascicolo di David Rossi è completamente falsa. Secondo la perizia grafologica, i biglietti di addio alla moglie, ritrovati nel suo ufficio, sarebbero stati scritti “sotto coercizione fisica o psichica”. Nelle ore trascorse tra il decesso e il sequestro del suo ufficio da parte degli inquirenti, avvenuto la mattina dopo, il computer di David Rossi è stato manomesso e alcuni oggetti fra cui agende e appunti sono spariti.

Da fotografie fatte su disposizioni degli inquirenti, si evidenzia la presenza di fazzolettini di carta macchiati di sangue nel cestino. Nessun elemento è stato fornito a riguardo e dei fazzolettini più nessuna traccia. Spariti nel vuoto. Una telefonata, l’ultima fatta da David Rossi, della durata di circa dieci minuti, mai rintracciata. E ancora, testimoni suggeriti dai legali della famiglia, mai convocati. I particolari più agghiaccianti riguardano i 22 minuti di agonia vissuti da David Rossi prima di morire. Nessuno lo ha soccorso ma forse è il caso di dire che nessuno poteva soccorrerlo. I periti della famiglia ipotizzano che una vettura posizionata all’imbocco del vicolo dove giaceva Rossi, impediva la visuale sul vicolo con delle luci accese in modo anomalo. Nel video che i magistrati senesi continuano ad ignorare, si delineano due figure in prossimità del corpo, entrambe prive di identificazione. Nemmeno il verificato reato di omissione di soccorso interessa gli inquirenti? Dalle immagini si evince inoltre un oggetto in caduta dalla finestra dell’ufficio di David Rossi, dopo ben mezz’ora dalla caduta dell’uomo. Si tratta del quadrante del suo orologio. Ma nemmeno questo smuove gli inquirenti a procedere verso indagini accurate. Chi ha lanciato quell’oggetto dalla finestra? E ancora, i segni sul corpo di David Rossi denotano colluttazioni e ferite che non hanno nulla a che fare con la caduta ma anche questo, per i magistrati senesi, è un elemento privo di importanza, esattamente come accaduto in presenza del corpo deturpato di Attilio Manca che certo non è frutto di “inoculazione volontaria di stupefacenti”, conclusione messa nero su bianco dai magistrati di Viterbo. “Ulteriori indagini si preannunciano superflue” rispondono i magistrati di Siena a chi chiede di considerare gli elementi rilevanti e degni di approfondimento fin qui riscontrati ed è più o meno quel che si sente dire da anni la famiglia Manca, che da Barcellona Pozzo di Gotto continua a pretendere sia fatta luce sulla morte del figlio che con ogni evidenza, non si è suicidato.

Il motivo per cui a Siena non si riesce a infrangere il muro d’omertà sulla vicenda Rossi, lo svela suo malgrado Pierluigi Piccini che ben conosce le dinamiche interne a Monte dei Paschi e alla città dove è stato sindaco, la città legata a doppio filo alla massoneria; Piccini parla di festini in una location tra Siena ed Arezzo frequentati da politici, uomini legati al Monte Paschi e magistrati senesi. E parla anche di Servizi segreti. Anche in questo caso c’è analogia col caso Manca. Da numerose testimonianze, pare che nell’apparato dei servizi, ci sia abilità a trasformare omicidi in suicidi. Durante i lavori della commissione d’inchiesta del Consiglio regionale Toscana su Fondazione e Banca Mps, il Presidente Giacomo Giannarelli (M5S), ha dichiarato: “Il disastro del Monte dei Paschi di Siena rappresenta un punto di non ritorno dell’intero sistema bancario. Quanto avvenuto non è successo per caso. La commissione ha accertato gravi responsabilità della politica e gravi intrecci di poteri forti, non democraticamente rappresentativi, che hanno causato danni economici ai risparmiatori e minato la stabilità dell’erogazione del credito alle imprese. Gravi responsabilità gravano anche sugli organismi di controllo, come Banca d’Italia, Ministero del tesoro, Consob”. A proposito delle “responsabilità politiche” di cui si accenna, gli ex sindaci di Siena Cenni, Ceccuzzi e lo stesso Piccini, insieme all’ex presidente della provincia Ceccherini, riferiscono all’unanimità che “Al Monte dei Paschi decideva tutto il Partito democratico”. L’unico sistema Italia che non conosce crisi, si riconferma “corruzione S.P.A”.

Mps: David Rossi ha imparato a cadere ma non a rialzarsi. Proprio nei giorni in cui la banca senese lancia la nuova campagna pubblicitaria esce un libro che prova a svelare i misteri del suicidio di Rossi, scrive Domenico Camodeca su Blasting News il 10 ottobre 2017. “Cadere è la prima cosa che impariamo, la seconda è rialzarci e lo facciamo perché c’è qualcuno che crede in noi, qualcuno pronto a tenderci la mano”. Si apre con questa frase lo spot della nuova campagna pubblicitaria del Monte dei Paschi di Siena (#mps) pubblicizzato in tv da pochi giorni. “Più forza alle persone” è lo slogan coniato dalla banca più antica del mondo. Forse una scelta non proprio azzeccata, vista la quasi contemporanea uscita, giovedì 12 ottobre, di un libro (Il caso #David Rossi, il suicidio imperfetto del manager Monte Paschi di Siena, ed. Chiarelettere) scritto dal giornalista Davide Vecchi. Il tomo di 176 pagine si ripropone di accendere una luce sul misterioso suicidio del braccio destro di Giuseppe Mussari (ex ad di Mps), avvenuto il 6 marzo 2013 gettandosi dalla finestra del suo ufficio. Il primo dubbio dell’autore riguarda l’inopinata distruzione di sette fazzoletti insanguinati. A mettere un ulteriore pizzico di noir a questa storia ci ha pensato anche l’ex sindaco della città toscana, Pierluigi Piccini il quale, in una dichiarazione ‘rubata’ dalle Iene, afferma di non credere alla tesi del suicidio.

Breve ricostruzione del caso Rossi. È il tardo pomeriggio del 6 marzo 2013 quando l’allora capo della comunicazione di Mps, David Rossi, dopo aver telefonato alla moglie per avvertirla che sarebbe tornato a casa, vola dalla finestra del suo ufficio che affaccia in un vicolo nella zona centrale di Siena. I magistrati incaricati delle indagini, Nicola Marini e l’aggiunto Aldo Natalini, ipotizzano subito il gesto volontario, non autorizzano l’autopsia e, appena tre mesi dopo, a giugno, confermano senza ombra di dubbio che si tratti di suicidio. Conclusione a cui non hanno mai creduto la moglie e i familiari di Rossi che decidono di cominciare la loro personale battaglia giudiziaria alla ricerca della verità.

I dubbi avanzati nel libro di Vecchi. Neanche il giornalista Davide Vecchi sembra molto convinto che si tratti di suicidio. Per questo decide di scrivere un libro per dimostrare che, parole testuali, “il suicidio ipotizzato dai magistrati non è l’unico scenario possibile”. Dalle prime anticipazioni pubblicate dal Fatto Quotidiano emerge il mistero dei 7 fazzoletti sporchi di sangue, ritrovati nell’ufficio di Rossi e fatti distruggere su ordine dei magistrati il 14 agosto. Data importante, quella agostana, se si tiene conto che la richiesta di archiviazione del caso Rossi viene depositata il 2 agosto 2013, proprio all’inizio della cosiddetta ‘sospensione feriale’ (dall’1 agosto al 15 settembre) che tutti i tribunali devono rispettare. I familiari di Rossi e i loro legali non vengono nemmeno avvertiti, anche se avrebbero avuto tutto il tempo, fino al 15 settembre appunto e non i canonici 10 giorni, per fare ricorso. Altro fatto grave è che i suddetti fazzoletti non vennero nemmeno analizzati per scoprire almeno se il sangue appartenesse effettivamente al manager Mps o a qualcun altro.

Le rivelazioni di Piccini: Festini in una villa. Ad alimentare i dubbi sull’esistenza di un complotto intorno alla morte di Rossi ci pensa, forse involontariamente, l’ex sindaco di Siena Pierluigi Piccini. Inseguito da Le Iene e credendo di non essere registrato, Piccini si lascia sfuggire di non credere che “si sia suicidato, lui dice che sarebbe andato dai magistrati a raccontare tutto quello che sapeva”. Alla domanda su cosa avrebbe raccontato Rossi ai pm, Piccini risponde: “Un avvocato romano mi ha detto che c’è una villa tra Siena e Arezzo e c’è una villa al mare, dove facevano i festini”. E poi, si chiede polemicamente: “Chi andava in queste feste? Ci andavano anche i magistrati senesi?” Supposizioni che, se confermate, aprirebbero scenari imprevisti sul caso della morte di David Rossi. #suicidio David Rossi.

Suicidio David Rossi, l'ex sindaco: «Festini a Siena? In città lo sanno tutti». Piccini, ex sindaco: David Rossi non si è suicidato, conosceva cose e intendeva riferirle, scrive Marco Gasperetti il 10 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera". Di storie di presunti omicidi camuffati da suicidi — la morte dell’ex capo della comunicazione di Mps, David Rossi — e festini orgiastici con presenze eccellenti e innominabili, se ne parlava da tempo a Siena. Voci di popolo, certo. Ma adesso che Pierluigi Piccini, 67 anni, ex sindaco, raffinato intellettuale e già direttore aggiunto del Monte dei Paschi France, le ha raccontate in televisione — credendo di non essere ripreso dalle telecamere — si sono trasformate da pettegolezzo noir a racconto uscito dalla bocca di un personaggio molto autorevole e attendibile. Tant’è vero che il procuratore di Siena, Salvatore Vitiello, ha interessato del caso la Procura di Genova — competente per le indagini sulle toghe senesi — per fare luce su quelle dichiarazioni-choc «di magistrati senesi coinvolti, in “festini” a base di “cocaina” che si sarebbero tenuti in due ville, una in una località tra Siena e Arezzo e l’altra in zona di mare». E proprio ieri la Procura di Genova ha aperto un fascicolo, ancora senza alcuna ipotesi di reato.

Conferma le accuse dottor Piccini?

«Io non accuso nessuno riporto soltanto quello che mi è stato raccontato e che tutti a Siena sanno».

Ci dica che cosa sanno i senesi.

«Che David Rossi non si è ucciso, ma è stato assassinato. E io, che David lo conoscevo molto bene, ne sono assolutamente convinto. Nulla di nuovo».

Ma lei ha parlato anche di orge a base di droga alle quali avrebbero partecipato magistrati. E questa è una notizia-bomba...

«Io ho solo riportato voci che mi ha raccontato qualcuno, mi sembra un avvocato romano, e anche queste circolano da tempo in città. Non sono novità, almeno per noi senesi. Lei pensi che nel 2013 durante un’assemblea del Monte dei Paschi un consigliere comunale parlò pubblicamente di personaggi orgiastici e pervertiti».

E che cosa avrebbero a che fare i festini con la morte di David Rossi?

«Non spetta a me indagare. Io so soltanto che, appena due giorni prima di morire, David mandò un messaggio a un alto dirigente di Monte dei Paschi avvertendolo che avrebbe raccontato tutto ai magistrati. Queste cose le sto ripetendo da anni».

E perché la procura di Siena non l’ha ascoltata?

«Questo non lo so. Io sono pronto a parlare con i magistrati in qualunque momento».

Adesso sulle sue dichiarazioni indaga la Procura di Genova. Che ne pensa?

«Sono contento. E a disposizione. Perché voglio che la verità su David Rossi venga fuori una volta per tutte. Anche se ci sono state due inchieste che hanno archiviato la sua morte come un suicidio io sono convinto che l’abbiano ucciso».

Come fa ad esserne così certo?

«Conoscevo David molto bene, da sindaco era stato un mio collaboratore. Era impossibile che potesse fare un gesto del genere. Per la sua cultura, per la sua voglia di vita. Aveva ferite compatibili con una colluttazione, dalla finestra è caduto in modo innaturale e il suo orologio pare sia stato gettato giù mezz’ora dopo, sette fazzoletti sporchi di sangue sono stati trovati nel suo studio senza che nessuno abbia analizzato il dna e adesso sono stati distrutti. Aveva chiamato l’anziana madre dicendole che stava arrivando, così come la moglie. Aveva minacciato di andare a raccontare tutto alla magistratura. I magistrati hanno detto di non aver trovato prove sufficienti né un mandante per avvalorare l’ipotesi dell’omicidio. Ma se non c’è movente del delitto qual è quello del suicidio? Le motivazioni sono ancora più deboli di quelle dell’omicidio».

Caso Rossi a Le Iene, intervento dell'Ordine degli Avvocati di Siena di Martedì 11 Ottobre 2017. “Il Presidente del COA di Siena, in relazione alle notizie divulgate dai media sul caso di David Rossi, manifesta il proprio sconcerto per le modalità con cui sono stati fatti riferimenti indiscriminati a Magistrati del nostro Tribunale. Confida che la Procura della Repubblica di Genova possa svolgere adeguati accertamenti per non addensare altre nubi su un caso che ha profondamente turbato l’intera cittadinanza.” Così un comunicato stampa del Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Siena, Avv. Nicola Mini.

Morte David Rossi, Associazione Magistrati contro Piccini. E bacchetta stampa nazionale, scrive il 10.10.2017 "Il Corriere di Siena". Delio Cammarosano, presidente della sottosezione senese dell'Associazione nazionale magistrati (che proprio a Siena terrà il prossimo 20 ottobre alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella il suo congresso nazionale) ed i magistrati del tribunale della città del Palio si scagliano contro le dichiarazioni dell'ex sindaco di Siena, Pierluigi Piccini, sulla morte di David Rossi, già capo della comunicazione Mps. E bacchettano pure la stampa nazionale. I Magistrati della sottosezione Anm di Siena riuniti in assemblea stigmatizzano che "l’interlocutore del giornalista (Piccini, ndr) ha espresso gravi accuse nei confronti dei magistrati di Siena. In particolare si racconta di una “storia parallela”, mai emersa nel corso delle indagini e mai denunciata dallo stesso interlocutore, che vedrebbe coinvolti vari soggetti, tra cui i magistrati senesi, in “festini” a base di “cocaina” che si sarebbero tenuti in due ville, una tra Siena e Arezzo, altra in zona di mare. Secondo quanto prospettato nell’intervista, le indagini sul decesso di David Rossi non si sarebbero spinte oltre per evitare lo scandalo nei confronti di magistrati o di altre personalità di rilievo nazionale, che avrebbero preso parte ai “festini”. Si tratta di accuse penali rivolte ai magistrati degli uffici di Siena, per le quali ogni competenza spetterà alla Procura della Repubblica di Genova". I magistrati senesi criticano pure una parte della stampa nazionale: "Ulteriormente, su parte della odierna stampa anche di rilievo nazionale - si legge nel comunicato della sottosezione della Anm - il contenuto della trasmissione è acriticamente ripreso ed esaltato, con toni di inusitata gravità (il Fatto Quotidiano titola, “la morte di David Rossi: mistero delle prove distrutte”; Il Giornale, “l’ombra dei festini hard”, “David Rossi fu assassinato (…) quelle ville frequentate da politici e giudici”). Si tratta di affermazioni prive di qualsiasi fondamento e riscontro, non finalizzate all’accertamento della verità, che si risolvono in una gratuita aggressione all’immagine e alla fedeltà istituzionale della magistratura senese. Proprio nella consapevolezza del ruolo fondamentale dell’informazione anche come eventuale stimolo all’approfondimento di spunti investigativi, riteniamo assolutamente inaccettabile, invece, la sistematica e continua delegittimazione degli uffici giudiziari senesi. Esprimiamo pertanto la più ferma solidarietà ai colleghi che nel tempo si sono occupati del tragico caso, di cui conosciamo la professionalità e la assoluta fedeltà istituzionale, auspicando che nella Sede competente sia attivato un immediato intervento a tutela".

Caso David Rossi, Piccini choc in tv. Il procuratore: «Inaccettabile». L'ex sindaco: "Storia parallela sull'ex capo della comunicazione di Mps". Vitello trasmette il materiale a Genova, scrive il 10 ottobre 2017 “La Nazione". L'ex sindaco Pierluigi Piccini fa rilevazioni choc alla trasmissione «Le iene», parlando di «storia parallela» e «festini» che avrebbero condizionato le indagini da parte della magistratura sulla morte di David Rossi. Parole che nel tardo pomeriggio di ieri hanno provocato la dura reazione del procuratore della Repubblica di Siena, Salvatore Vitello, che in una nota ha annunciato di aver trasmesso la registrazione della trasmissione alla procura di Genova, «cui spetta ogni competenza in merito trattandosi di accuse penali rivolte ai magistrati degli uffici di Siena». Nel documento di Vitello si afferma: «Si racconta di una storia parallela mai emersa nel corso delle indagini svolte da questo ufficio e mai denunciate dallo stesso interlocutore che vedrebbe coinvolti vari soggetti, tra cui i magistrati senesi in festini a base di cocaina che si sarebbero tenuti in due ville, una in una località tra Siena e Arezzo, un’altra in zona di mare». La replica del magistrato continua: «Secondo quanto prospettato nell’intervista, le indagini sul decesso di David Rossi non si sarebbero spinte oltre per evitare lo scandalo nei confronti di magistrati o di altre personalità di rilievo nazionale che avrebbero preso parte ai ‘festini’. Prendiamo atto che l’interlocutore del giornalista ha espresso gravi accuse nei confronti dei magistrati di Siena». Ma, aggiunge, «è assolutamente inaccettabile la sistematica delegittimazione» dei magistrati che hanno seguito le indagini e che hanno portato per due volte a riconoscere come prevalente l’ipotesi del suicidio. «Pur esprimendo profonda indignazione per questa continua aggressione – prosegue Vitello – nei confronti dei magistrati di questo ufficio, restiamo sereni anche di fronte a questi nuovi indicibili attacchi». Piccini, subito dopo la trasmissione, aveva diffuso una nota annunciando di aver «immediatamente sentito i miei legali dando loro mandato di difendere le mie ragioni sia sul piano penale che civile, in quanto la registrazione e le riprese sono state effettuate in maniera scorretta».

David Rossi, il legale: "Lavoro su dati oggettivi. Chi sa non aspetti a parlare". L'avvocato della famiglia di David Rossi: "Puntiamo alla riapertura del caso. Festini? Chiunque sa parli", scrive Lorenzo Lamperti su "Affari Italiani" Mercoledì 11 ottobre 2017. "Aspettiamo quanto dirà la procura di Genova, noi nel frattempo continuiamo a lavorare sui dati oggettivi e su tutto ciò che non torna nell'inchiesta". Paolo Pirani, avvocato della famiglia di David Rossi, commenta in un'intervista ad Affaritaliani.it l'apertura di un fascicolo da parte dei pm liguri dopo le dichiarazioni alla trasmissione tv Le Iene di Pierluigi Piccini. L'ex sindaco di Siena paventa la possibilità di un qualche legame tra la morte dell'ex direttore della comunicazione di Mps e dei presunti festini orgiastici in città ai quali avrebbero partecipato personaggi di spicco di politica e magistratura.

Avvocato Pirani, che cosa cambia dopo l'apertura del fascicolo a Genova?

«L'apertura del fascicolo a Genova ritengo sia un atto dovuto dopo l'informazione arrivata puntualmente dai magistrati di Siena. A noi non cambia nulla sotto il profilo della nostra attività di indagine che abbiamo svolto e che stiamo continuando a svolgere».

Le dichiarazioni di Piccini sui presunti festini sono una novità oppure è un elemento del quale eravate a conoscenza?

«Non mi sostituisco agli inquirenti e non entro nel merito delle dichiarazioni di Piccini anche perché le ho apprese in tv e sui giornali come tutti voi. Attendiamo i risultati del lavoro degli inquirenti»

Ma quella dei festini può essere una pista valida?

«Chiunque sia a conoscenza di elementi concreti sulla morte di David Rossi e voglia parlare è ben accetto. Certo, invece che aspettare 4 anni sarebbe opportuno rappresentarli prima. Comunque il messaggio della famiglia è sempre stato chiaro: chiunque sa parli».

Come procede la vostra attività d'inchiesta?

«Stiamo lavorando nel dettaglio su alcune attività di indagine per puntare alla riapertura dell'indagine»

Ci sono nuovi elementi?

«Ci sono ulteriori elementi sui quali ci stiamo concentrando. Noi lavoriamo sugli atti d'indagine, su riscontri probatori e su dati per quanto possibile oggettivi. Purtroppo tante prove tecniche sono state perdute per una ragione temporale. Tante cose che potevano essere fatte o acquisite anni fa si sono perse. Ma il nostro presupposto, molto chiaro, è che i dubbi siano superiori a qualsiasi certezza. Per questo stiamo cercando di evidenziare le criticità nelle varie richieste di archiviazione portando nuovi elementi in grado di dare concretezza ai tanti dubbi che persistono sulla morte di David Rossi».

Mps, "David Rossi? Fu ucciso". Tutti i punti oscuri: e quella telefonata... Le ferite, l'orologio, il telefono. Ecco tutto quello che non torna nella morte dell'ex capo comunicazione di Mps David Rossi, scrive Lorenzo Lamperti Venerdì 16 dicembre 2016 su "Affari Italiani". Tra i tanti misteri intorno alla morte di David Rossi il più sconcertante è probabilmente quello che riguarda l'attività del suo, anzi dei suoi, telefoni cellulari. Rossi era in possesso infatti di due apparecchi con lo stesso numero. Poco prima della morte, Rossi fa e riceve una chiamata da un numero sconosciuto. Gli inquirenti non sono riusciti a stabilire di quale numero si trattasse a causa di alcuni "buchi neri" nei tabulati. Dopo l'orario della morte si verificano due fatti mai chiariti. Alle 20,16 uno dei due telefoni riceve una chiamata dalla figlia Carolina e dai tabulati risulta che qualcuno le rispose per poi chiudere la conversazione subito dopo. E poco più tardi dal telefono di Rossi partì una telefonata in uscita verso un misterioso numero, la cui proprietà non si è mai riusciti ad accertare. Sono passati quasi quattro anni da quel 6 marzo 2013. E' il giorno della morte di David Rossi, l'ex capo della comunicazione di Monte dei Paschi di Siena che ha perso la vita dopo essere precipitato dalla finestra del suo ufficio in circostanze mai del tutto chiarite. L'ultima perizia della procura parla di "probabile suicidio" ma allo stesso tempo si descrivono ferite incompatibili con la caduta dalla finestra. E il giallo resta, eccome. Affaritaliani.it ripercorre i punti oscuri della morte di David Rossi in un'intervista con il legale Paolo Pirani che, insieme al collega Luca Goracci, difende gli interessi della sua famiglia.

Avvocato Pirani, qual è stata la sua prima impressione sulla vicenda quando lo scorso aprile ha assunto l'incarico?

«Il fascicolo era, ed è, molto complesso e ho dovuto metabolizzarlo, ma sin da subito ho potuto constatare che dalla prima inchiesta che è stata archiviata qualcosa non tornava. C'era tutta una serie di dubbi confermati dal fatto che il caso è stato riaperto e il corpo di Rossi riesumato. Le perizie hanno confermato che quanto sostenuto dal collega Goracci durante la prima inchiesta era sostanzialmente corretto. Sul corpo di Rossi ci sono una serie di lesioni incompatibili con la modalità della caduta rappresentata anche dal video. Nel primo decreto di archiviazione si sosteneva una balistica scientificamente impossibile. Certo, molti approfondimenti su questo e altri aspetti andavano fatti all'epoca e non dopo tre anni e mezzo. Il grande rammarico è che si sono perse per strada delle prove potenzialmente determinanti».

A quali prove fa riferimento?

«Mi riferisco alle prove tipiche della scena del crimine. Abbiamo fatto un sopralluogo nell'ufficio di Rossi il 25 giugno 2016, oltre tre anni dopo la sua morte. E' chiaro che ci siamo trovati di fronte ad una scena del crimine totalmente diversa e contaminata. Si sono perdute tutte le tracce di dna che avrebbero potuto dirci chi era in quella stanza quella sera. Non abbiamo i campionamenti delle tracce biologiche dell'epoca. Nel 2013 furono acquisiti e sequestrati dei fazzolettini con macchie di sangue che ora non sappiamo nemmeno dove sono e probabilmente sono stati distrutti. In quella stanza si è perso tantissimo».

Nell'ultima perizia si fa riferimento a ferite che potrebbero essere incompatibili con la caduta.

«Tutti i medici che hanno avuto modo di verificare il video della caduta sostengono che le ferite frontali non possono essere conseguenza della caduta in quanto antecedenti la stessa. David sbatte la schiena e tutte le lesioni frontali non hanno nulla a che fare con la caduta. Tutto questo era già documentabile ma anche qui molte cose all'inizio non sono state fatte. Mi riferisco a un eventuale esame istologico che poteva dare risposte concrete su quelle ferite. E' chiaro che oggi, a tre anni e mezzo di distanza e due lavaggi del corpo, i risultati degli esami non risultano dirimenti. All'epoca si sarebbe potuto anche fare un sequestro dei vestiti».

Un altro aspetto poco chiaro è quello della posizione dell'orologio. Perché si è ipotizzato che qualcuno lo abbia buttato di sotto?

«La posizione dell'orologio non trova spiegazione da un punto di vista tecnico, lo capirebbe anche un profano guardando il video. Il corpo di Rossi cade in maniera leggermente obliqua verso l'uscita del vicolo ovvero verso sinistra. Lui portava l'orologio al polso sinistro ma lo stesso lo troviamo collocato al suolo a un metro e mezzo a destra nella parte alta. Si tratta di una posizione difficilmente spiegabile da un punto di vista crimino-dinamico».

E' vero che partì una telefonata dal cellulare di Rossi in un orario successivo alla sua morte?

«Su questo punto abbiamo dei dati che ci vengono forniti dalla Guardia di finanza sotto forma di elaborati in Excel dei tabulati telefonici. Abbiamo inoltrato una specifica richiesta per i tabulati originali anche per avere indicazioni sulle celle. Quello che emerge è che dopo le 20, quando David era già a terra, sarebbe partita in uscita una chiamata dal suo telefono. Sicuramente è importante capire verso quale numero ma mi sembra ancora più importante sottolineare il fatto che qualcuno ha usato rispondendo per 3 secondi il telefono di David mentre lui era a terra e circa 40 minuti prima del primo avvistamento ufficiale del suo corpo; inoltre risulta anche una risposta di 3 secondi sempre quando David giaceva a terra».

La moglie di David ha sempre detto che il marito aveva paura di qualcuno o qualcosa.

«Sull'aspetto psicologico abbiamo dato incarico a una consulente, una psicologa forense, che ci ha escluso la possibilità di un suicidio. Ci sono tre categorie di suicidi: il suicidio depressivo, quello indotto e quello di impeto. David non era malato, non era sotto effetto di alcolici o stupefacenti e non aveva ricevuto nessuna notizia in grado di sconvolgerlo. Certo, era preoccupato e aveva vissuto male la perquisizione del 19 febbraio ma lui nell'inchiesta su Mps non è mai entrato. In quei giorni, anzi in quelle ore, progettava il suo futuro a breve e lungo termine. Stava progettando gli appuntamenti dei giorni seguenti e nell'ultimo messaggio alla moglie, 40 minuti prima del fatto, dice che sarebbe andato a comprare la cena e sarebbe tornato a casa. Tutto ci dice che quello di David non fu un suicidio».

Lei ha parlato più volte di incongruenze o aspetti non approfonditi. Si è fatto un'idea del perché queste incongruenze o mancati approfondimenti si sarebbero verificati?

«Io non guardo al perché o altre cose astratte, guardo ai fatti ed alle prove. Devo valutare non tanto le motivazioni quanto i fatti concreti. Sicuramente un giorno le incongruenze qualcuno ce le dovrà spiegare anche perché non c'è cosa peggiore che nutrire dubbi circa il fatto di non aver approfondito nell'immediatezza circostanze che potevano essere determinanti per scoprire la verità. Per una famiglia avere la sensazione che sia stata sottratta la verità sulla vita e la morte di un proprio caro è devastante».

Tenendo conto di tutte le difficoltà del caso, quale pensa possa essere il futuro dell'inchiesta?

«Sicuramente la situazione è stata molto compromessa per tutto quanto ho detto in precedenza. Ma la nostra indagine continua su vari fronti e mi auguro che la stessa cosa la faccia anche la procura. L'indagine non è solo tecnica ma anche fondata sull'acquisizione di informazioni di persone informate sui fatti. Ribadisco di non sapere come si stia muovendo la procura perché il fascicolo della riapertura indagine è segretato ma è un dovere verso tutta la famiglia che si faccia davvero luce e chiarezza su tutte le anomalie che abbiamo riscontrato. Per esempio: come è possibile che non si abbia un elenco delle persone che quella sera sono entrate e uscite dalla sede principale di Mps? Noi tutti legali e consulenti, con l'ausilio dei familiari, stiamo lavorando e lavoreremo affinché si possa arrivare alla verità».

Mps, la vedova di David Rossi: sulla sua morte voglio la verità, qualunque sia. Parla la moglie dell’ex capo della comunicazione Mps: «Non credo alla storia dei festini, io penso che sia stato assassinato. Troppe carenze investigative, l’indagine va rifatta», scrive Marco Gasperetti l'11 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera". «La storia dei festini? Io non ho mai sospettato nulla, ma s’indaghi anche su questo sino in fondo, senza reticenze, si arrivi alla verità. Costi quel che costi».

Signora, mi perdoni la domanda, ma se in questa vicenda fosse stato coinvolto anche suo marito? 

«Conoscevo David, la sua moralità, la sua voglia di vivere, il suo amore per la famiglia. E questo mi dà la forza di dire: andiamo avanti senza tralasciare alcuna pista, anche quella del più odioso pettegolezzo. Io ho la certezza che mio marito sia stato ucciso, che qualcuno l’ha gettato dalla finestra del suo ufficio. Spero si torni a indagare».

Antonella Tognazzi, la vedova di David Rossi, il responsabile della comunicazione del Monte dei Paschi precipitato da una finestra del suo studio di Rocca Salimbeni in circostanze ancora oggi poco chiare, dopo quattro anni e due inchieste archiviate non si è ancora arresa. Ha guardato la tv, ha letto l’intervista dell’ex sindaco Pierluigi Piccini (anche lui convinto che Rossi sia stato assassinato), e ha seguito le polemiche che si sono scatenate e l’apertura di un fascicolo da parte della magistratura di Genova dopo le voci su presunti festini ai quali secondo quanto riportato da Piccini avrebbero partecipato anche magistrati senesi. Ieri la presidente della Corte d’appello di Firenze, Margherita Cassano e il procuratore generale, Marcello Viola, hanno chiesto al Csm di aprire una «pratica a tutela» per i magistrati di Siena. Mentre Piccini, rispondendo alle critiche del sindaco di Siena, Bruno Valentini, sottolinea che «il vero problema è che il sindaco o quei pochi che mi criticano, sono stati comodamente omertosi, finora». Polemiche roventi. Nelle quali la vedova Rossi, non vuole entrare. «Si torni a indagare — ripete —, io chiedo solo verità e non mi fermerò sino a quando non l’avrò trovata».

Ma secondo lei perché si parla di festini proprio adesso?

«Guardi non ne ho idea. Forse qualcuno si vuole lavare la coscienza. Stamani (ieri mattina ndr) mi hanno detto che questa storia circolava da tempo in città e sarebbe stata collegata in qualche modo alla morte di mio marito. Io non sapevo niente, anche perché non mi interessano i pettegolezzi e mi faccio gli affari miei. Sono altre le mie convinzioni».

Quali sono, signora?

«Che David sia stato assassinato e che le indagini sono state fatte male. Non lo dico solo io ma anche l’anatomopatologa Cristina Cattaneo, perito incaricato dalla Procura, la stessa che ha lavorato sul caso di Yara Gambirasio. La dottoressa, tanto per farle un esempio, ha scritto che sul corpo di mio marito c’erano segni non compatibili con una caduta ma riconducibili a una colluttazione. Eppure di questo, nell’inchiesta, non si fa parola. Ed è solo un elemento, ce ne sono tanti altri ignorati. Io sono convinta che bisognerebbe aprire ancora una volta il caso e indagare come si deve».

Secondo lei suo marito aveva paura?

«Era molto spaventato. Chiedeva aiuto e lo aveva fatto anche con una mail a un alto dirigente di Mps».

Ma a lei David non ha mai confidato di temere d’essere ucciso?

«In quei giorni ero malata con febbre altissima e allucinazioni. Lui certe cose non me le avrebbe dette esplicitamente per difendermi, per tutelarmi. Poi nelle condizioni fisiche in cui mi trovavo non lo avrebbe fatto in nessun modo. Però oggi io ho rielaborato quei momenti, ci ho ripensato più volte».

Ed riuscita a capire qualcosa?

«Ricordando quegli ultimi giorni oggi ho la sensazione che David fosse minacciato. Era un uomo che aveva paura di essere ucciso. Anche una situazione di stress come quella non poteva giustificare la sua agitazione. Non lo avevo mai visto così, a fargli così tanta paura non poteva essere solo preoccupazione lavorativa e un’inchiesta nella quale oltretutto lui non era neppure indagato».

5 ottobre 1554: fu istituita la magistratura de “I Quattro cittadini per distribuzione di Monte, per cavare dalla Città tutte le bocche disutili”, scrivono il 5 ottobre 2017 Maura Martellucci e Roberto Cresti su "Siena News". Il 5 ottobre 1554 avviene uno dei fatti più drammatici tra i molti che caratterizzeranno i lunghi mesi dell’assedio di Siena. Uno dei primi problemi che si pose Biagio di Montluc, al comando della resistenza senese, insieme ai signori “Otto di Reggimento sopra la Guerra”, fu quello di istituire una nuova magistratura: quella de “I Quattro cittadini per distribuzione di Monte, per cavare dalla Città tutte le bocche disutili”. Per cercare di resistere e salvare Siena, dove si contavano circa 24.000 bocche da sfamare, infatti, come in ogni regime di assedio, si stabilì che, nel corso dei mesi, dovevano essere allontanate tutte le cosiddette “bocche inutili”: poveri, stranieri, contadini, rifugiati, prostitute, vecchie e orfani. In questo 5 ottobre, si legge nel “Diario delle cose avvenute in Siena dal 20 luglio 1550 al 28 giugno 1555” redatto da Alessandro Sozzini: “uscirno a Porta Fontebranda circa 250 putti dello Spedale grande dalli, sei fino alli dieci anni, tutti in barcelle e cestarelle, con la scorta di quattro compagnie (….) Si accompagnorno con detti putti molti uomini e donne della Città, che avevano avuto precetto di partire; e avevano carico, infra muli, asini e cavalli, intorno alle 100 bestie. Salite che furno alla Piazza a Casciano, un miglio lontano da Siena, si derno in una imboscata (…) la mattina erano tutti fuora Porta di Fontebranda (a dove si fa l’anno il mercato de’ porci), tutti a diacere per terra, con grandissime strida e lamenti. Era la più grande compassione a veder quei putti svaligiati, feriti e percossi in terra a diacere, che averiano fatto piangere un Nerone: ed io averei pagati 25 scudi a non gli aver visti; che per tre giorni non possevo mangiare né bere che pro’ mi facesse”. E questo sarà solo uno degli episodi che vedranno il sacrificio di indifesi per il “bene comune” e la sopravvivenza di Siena libera. Sacrifici che, come sappiamo, saranno tutti inutili.

Movimento Siena 5 Stelle: ''Massima fiducia nella Magistratura ma...'', scrive Mercoledì 11 Ottobre 2017 "Siena Free". "Partiamo da un assunto scontato, ormai quasi banale, ma comunque sempre importante: massima fiducia nella Magistratura. Ma questa fiducia, come per tutte le cose, non deve essere “cieca”, ma deve essere certificata giornalmente con atti e dimostrazioni di efficienza, rigore e chiarezza". Così un intervento del Movimento Siena 5 Stelle sul caso Rossi-Le Iene. "Soprattutto in un ambito così importante e delicato - prosegue il M5S -, e in un momento storico in cui appare quanto mai necessario attendersi il massimo rigore e la totale chiarezza. Purtroppo, per quanto riguarda la Procura di Siena negli ultimi anni - continuano i pentastellati -, tanti dubbi sono emersi su una enorme quantità di procedimenti: ricordiamo quelli in merito all’aeroporto di Ampugnano, la vendita di immobili di proprietà della Banca MPS, l’Enoteca Italiana, l’incendio della Curia, il crac dell’Università degli Studi di Siena, per arrivare alla vicenda MPS-Antonveneta e al caso David Rossi. La maggior parte di questi delicati procedimenti ha visto tutta una serie di passaggi veramente sorprendenti, se non imbarazzanti: assoluzioni, archiviazioni, prescrizioni, una quantità di difetti di notifica e relativi rinvii, un continuo turn over di magistrati e via dicendo, fino a veder dichiarare la Procura di Siena come sede disagiata. Ecco, ci piacerebbe che la ANM, che ora si erge a difesa della categoria, esprimendo una comprensibile “solidarietà ai colleghi” per quella che definisce “aggressione gratuita all’immagine della Magistratura”, ci dicesse cosa pensa degli episodi richiamati, e come mai non si sia mai espressa su questi tanti dubbi, nonostante richieste di ispezione più volte sollecitate da vari ambiti, a partire dal gruppo parlamentare del Movimento 5 Stelle. Ci auguriamo che, a prescindere dall’attuale polverone mediatico (forse tardivo e strumentale a qualche obiettivo) - conclude il Movimento 5 Stelle senese -, si faccia finalmente vera chiarezza sui tanti dubbi che negli ultimi anni stanno incrinando la fiducia dei cittadini senesi nei confronti della Procura di Siena, fondamentale organo dello Stato al quale si deve guardare con assoluta certezza e sicurezza. A partire proprio dal caso David Rossi e disastro MPS".

Caso Rossi: l'Anm "assolve" i giudici. Il sindaco di Siena parla di pm ospiti di festini. L'associazione: "Falso", scrive Luca Fazzo, Giovedì 12/10/2017, su "Il Giornale". Inchiesta impeccabile e magistratura immacolata: sulla vicenda di David Rossi, il dirigente del Monte dei Paschi di Siena morto in circostanze oscure nel marzo del 2016, i tentativi di riaprire il caso continuano a scontrarsi contro le difese d'ufficio dell'operato delle toghe senesi da parte dei capi e colleghi. David Rossi, morto il 6 marzo 2013. Mentre il fuoco incrociato di inchieste giornalistiche, rivelazioni e convegni mette a nudo sempre di più i buchi neri dell'inchiesta, il procuratore Salvatore Vitello si dichiara indignato per gli «attacchi inaccettabili». Ed ora a difesa dell'inchiesta e dei pm che l'hanno condotta scende in campo addirittura l'Associazione nazionale magistrati. A smuovere l'Anm sono state le rivelazioni alle Iene dell'ex sindaco di Siena Pierluigi Piccini, che ha parlato di una «storia parallela» alla morte di Rossi, fatta di festini a luci rosse in alcune ville della campagna toscana. A queste feste Rossi fa capire che partecipavano anche magistrati, e che per questo l'indagine sulla morte di Rossi è stata insabbiata. L'Anm insorge, sostenendo - non si sa in base a quali conoscenze della vita privata dei suoi associati - che è tutto falso: «si tratta di affermazioni prive di qualsiasi fondamento e riscontro, che si risolvono in una gratuita aggressione all'immagine e alla fedeltà istituzionale della magistratura senese». Parrebbe una reazione persino fuori misura, se non desse la misura del nervosismo con cui a Siena si vive la recrudescenza degli interrogativi sul tragico volo di David Rossi, sul quale si sperava che fosse calato definitivamente il silenzio. Invece il servizio delle Iene e un libro del reporter Davide Vecchi che verrà presentato oggi hanno riaperto bruscamente il caso, suscitando indignazioni e timori, ma anche le aspettative di chi non ha mai creduto alla tesi del suicidio di Rossi. La decisione del procuratore Vitello di trasmettere l'inchiesta delle Iene alla Procura di Genova perché ne verifichi l'attendibilità potrebbe smuovere le acque, chiamando in casa un ufficio giudiziario estraneo agli equilibri interni alla città del Palio. E il primo passo degli inquirenti genovesi non potrà che essere interrogare l'ex sindaco Piccini, che dalle Iene era stato registrato di nascosto: ma che ora con una intervista al Corriere ribadisce punto per punto le sue affermazioni, sia sulla inverosimiglianza del suicidio di Rossi sia sull'esistenza di un giro di sesso e droga con la presenza anche di magistrati: «Queste voci - dice Piccini - circolano da tempo in città».

 “Il caso David Rossi, il suicidio imperfetto”: tutti i buchi nell’indagine sulla fine del manager. Il 6 marzo 2013 il manager Mps si è tolto la vita lanciandosi dal suo ufficio al terzo piano della sede principale della banca a Siena? Per i magistrati titolari del fascicolo non ci sono dubbi. Due anni dopo, però, una nuova inchiesta, avviata dal pm Andrea Boni, ha reso evidenti tutte le falle, le carenze, i buchi della prima indagine con atti ritenuti dagli stessi periti nominati dalla procura al limite della sciatteria. Il libro di Davide Vecchi (edito da Chiarelettere, in uscita giovedì) ricostruisce l'intera vicenda proprio attraverso le carte per scoprire che il suicidio, come ipotizzato dai pm, non è l'unico scenario plausibile, scrive "Il Fatto Quotidiano il 12 ottobre 2017. Il 6 marzo 2013, dopo aver avvisato la moglie che stava rientrando a casa, David Rossi, il capo della comunicazione di Mps e da dieci anni braccio destro di Giuseppe Mussari, viene trovato morto nel vicolo sotto la finestra del suo ufficio. Per i magistrati di Siena titolari del fascicolo, Nicola Marini e l’aggiunto Aldo Natalini, è sin da subito un suicidio. Due anni dopo una nuova inchiesta, avviata dal pm Andrea Boni, ha reso evidenti tutte le falle, le carenze, i buchi della prima indagine con atti ritenuti dagli stessi periti nominati dalla procura al limite della sciatteria. Il libro “Il caso David Rossi, il suicidio imperfetto” (in libreria da giovedì 12 ottobre per Chiarelettere) ricostruisce l’intera vicenda proprio attraverso le carte delle inchieste per scoprire che il suicidio, come ipotizzato dai magistrati, non è l’unico scenario plausibile. Sono troppe le cose che non tornano nella ricostruzione compiuta dalla magistratura. Sia per quanto riguarda il prima, sia il durante sia il dopo la morte di David Rossi. Reperti spariti o addirittura distrutti dagli stessi magistrati prima ancora di analizzarli, elementi fondamentali come tabulati e video registrati dalle 12 telecamere mai acquisiti, persone presenti in Mps non convocate né sentite, analisi scientifiche nell’ufficio e nel vicolo dove è stato trovato il cadavere mai compiute. L’elenco è lungo. Persino l’unico filmato sequestrato (quello della telecamera posta nel vicolo) è stato prima smarrito e poi miracolosamente ritrovato da Boni. Un video (pubblicato in anteprima da ilfattoquotidiano.it il 6 marzo 2016) fondamentale perché da questo sia i periti dei familiari di Rossi sia quelli nominati dalla procura, hanno potuto individuare numerosi elementi utili alle indagini. O meglio: elementi che sarebbero stati utili alle indagini ma che non sono stati presi in considerazione subito dopo la morte del capo della comunicazione di Mps, ma solamente alla riapertura della nuova inchiesta, due anni dopo, quando ormai le tracce si erano cancellate, i possibili testimoni dileguati, la ricerca della verità sfumata. Dal libro “Il caso David Rossi, il suicidio imperfetto” riportiamo uno dei tanti elementi individuati e diventati veri e propri misteri: quello relativo alla cassa dell’orologio del manager di Mps. Nel video si vedono gli ultimi tre metri di caduta di Rossi e l’impatto al suolo alle ore 19.43. Dopo venti minuti si vede cadere un oggetto d’acciaio che finisce ben distante dal corpo di David: dalla parte opposta del vicolo. Secondo quanto ricostruito dai periti si tratta della cassa dell’orologio Sector che Rossi portava al polso. Già il cadere venti minuti dopo il manager lascia pensare che qualcuno fosse nel suo ufficio. E di fatto c’è chi usa il suo cellulare mentre lui è già sul selciato, ma questo è ancora un altro elemento. Restiamo sul Sector. I primi a intervenire sul corpo di David sono i medici del pronto intervento chiamati solamente alle 20.41. Tentano di rianimare Rossi, inutilmente. Così chiamano il medico legale che arriva insieme agli inquirenti e lasciano il vicolo perché il loro lavoro è finito: altri, ora è che cadavere, se ne devono occupare. Quando dopo le 22 arriva anche la polizia scientifica per fare i rilievi fotografici, la cassa dell’orologio, caduta a metri di distanza dal cadavere, compare magicamente sopra la testa di Rossi. Agli atti sono allegate due foto che immortalano due posizioni diverse della cassa: la prima è inserita nelle immagini del medico legale e lo ritrae sul punto dove è caduto, sulla parete opposta a dove si trova il cadavere, la seconda invece – compiuta dalla scientifica e indicata come reperto numero “3” – lo mostra vicino a Rossi. Qualcuno l’ha spostato? Chi? E perché? Il cinturino, addirittura, viene ritrovato accanto al piede di David (reperto numero 1). Eppure, come si vedrà, nessuno di quanti sono intervenuti inizialmente sul posto lo hanno visto e difficilmente nelle operazioni di primo soccorso avrebbe potuto rimanere lì, attaccato al corpo. Sul polso, inoltre, il manager ha un segno di compressione di forma identica alla cassa. Eppure nella caduta David atterra con il bacino e non sbatte mai i polsi a terra: nei venti drammatici minuti di video in cui si vede Rossi in agonia, le braccia sono gli unici arti che riesce a muovere. Non solo, ma le maniche della camicia sono allacciate e quindi, se l’avesse perso nell’impatto, la cassa sarebbe rimasta al loro interno. Tutte considerazioni degli stessi periti nominati da Boni tant’è che il magistrato, nonostante siano passati ormai più di tre anni, cerca di ricostruire quanto accaduto. Anche all’orologio. Lo stralcio tratto dal libro “Il caso David Rossi, il suicidio imperfetto” edito da Chiarelettere in libreria da giovedì 12 ottobre: Boni non rinuncia e usa tutti gli strumenti a sua disposizione per reperire il maggior numero di informazioni possibili. Per fare il suo mestiere: individuare la realtà, qualunque essa sia. Così dà mandato ai Carabinieri della polizia giudiziaria di individuare e sentire «il personale tutto del servizio 118 al fine di cercare di chiarire se al momento del loro intervento la camicia del Rossi era o meno lacerata, se – prima di girare il corpo – si resero conto se i pantaloni del Rossi fossero sporchi o meno, se ebbero a rendersi conto delle condizioni delle punte e delle suole delle scarpe e circa l’aver visto o meno il cinturino e la cassa dell’orologio del Rossi». Poi cerca i reperti che dagli atti risultano sequestrati. Ma dopo i video e i vestiti emerge che pure i fazzoletti di carta sporchi di sangue trovati nell’ufficio di David sono andati distrutti, insieme alle linguette dei cerotti e ad altro materiale. Sono stati analizzati? Si sa di che sangue si tratta? No. Nessuna analisi scientifica è stata compiuta. A forza di scoprire che mancano reperti fondamentali Boni fa richiesta ufficiale alla polizia giudiziaria per chiederle di accertare quali reperti effettivamente siano ancora disponibili e non siano andati persi o distrutti. Ciò che rimane è al dipartimento di medicina legale dell’università. Qui sono custoditi frammenti di organi inclusi in paraffina, sangue e urine di David congelati, nonché un campione di muscolo. Il 15 aprile, prima che vadano persi o distrutti pure questi, il pm si premura di sequestrarli, «ritenuta la necessità di evitare che tali campioni di organi e liquidi biologici possano andare dispersi in quanto risultano indispensabili».

Le nuove indagini, pur tra mille difficoltà, portano ad alcuni punti fermi. Intanto sulla camicia di David: i medici del 118 ricordano che è stata strappata da loro per tentare di rianimarlo; che le maniche non erano alzate, bensì abbottonate; che non vi erano sui polsini macchie di sangue; né alcuno si ricorda della presenza dell’orologio. Elisabetta Pagni, il medico del 118 che per primo intervenne sul cadavere di Rossi, afferma «con assoluta certezza che nelle immediate vicinanze del corpo non notai la presenza di nulla, né tantomeno di un orologio o di una sua parte». I verbali dei primi soccorritori si rivelano molto utili, nonostante siano ormai passati quasi quattro anni. Appare chiaro che i fazzoletti sporchi di sangue trovati nell’ufficio non erano serviti a David per tamponare i tagli superficiali che aveva sul polso (come sostenuto nella prima indagine), altrimenti i polsini della camicia sarebbero stati trovati macchiati. È chiaro inoltre che la forte pressione della cassa dell’orologio è avvenuta prima della caduta e che quindi l’orologio, come ipotizzato da Scarselli (perito della famiglia, ndr), è stato gettato dopo il corpo di Rossi. Anche perché, con il polsino abbottonato, il quadrante, impattando al suolo, sarebbe rimasto dentro la manica o comunque nelle vicinanze. Anche gli altri tre componenti della squadra del 118 guidata dalla dottoressa Pagni confermano quanto da lei detto: la camicia venne strappata per effettuare il massaggio cardiaco, e dell’orologio nessuna traccia. Gianluca Monaldi aggiunge altri dettagli sull’abbigliamento: «Tutto era impeccabile, i pantaloni stirati perfettamente e le scarpe sembravano nuove tanto erano pulite». Stessa annotazione la fa anche un altro componente della squadra, Maria Coletta. Che aggiunge un altro tassello importante: «Nelle immediate vicinanze del corpo non c’era nulla». Coletta è sicura. «Lo ricordo perché, quando la dottoressa ci disse di riporre tutta l’attrezzatura nello zaino e di raccogliere tutto quello che potevamo aver lasciato a terra, facemmo attenzione alla zona circostante il cadavere.» L’orologio lì non c’era. Forse allora hanno ragione i periti a sostenere che è stato gettato dalla finestra in un secondo momento e lontano dal corpo. Infatti nel video lo si vede cadere distintamente. Ma gettato da chi? Se fossimo in un romanzo giallo sarebbe il momento di ipotizzare i possibili aggressori. Ma siamo nella realtà. E vale la pena rimanerci. Perché le indagini proseguono. Boni non sembra avere alcuna intenzione di rallentare o rinunciare. Appare talmente determinato da chiedere una ulteriore proroga delle indagini un mese prima che scadano i termini: avrebbe tempo fino al 17 maggio, ma si porta avanti e l’11 aprile 2016 presenta la richiesta. Il giudice, Roberta Malavasi, autorizza la proroga appena tre giorni dopo. Per Antonella e i legali dei famigliari di Rossi è un ottimo segnale, ciò che cercavano da anni: la giustizia, nella quale hanno sempre creduto, sta tentando di accertare la verità. (…) Le indagini sembrano andare spedite. Ma il 21 aprile Andrea Boni riceve la comunicazione del suo trasferimento, ad appena un anno dal suo arrivo a Siena. Un notevole avanzamento di carriera: il ministero di Giustizia lo nomina procuratore capo di Urbino e lì dovrà prendere servizio a fine giugno. Il fascicolo su David Rossi deve passare di mano.

Il caso David Rossi, i festini e la città omertosa, scrive Daniele Magrini su "agenziaimpress.it" il 10/10/2017. E’ chiaro. Dell’intero servizio de Le Iene di domenica scorsa, a Siena il can can è tutto sulle allusioni di Pierluigi Piccini ai festini, già peraltro evocati in un intervento di Pier Paolo Fiorenzani in una assemblea Mps. Se quelle cose a cui ha alluso – con la sensazione costante di essere sempre registrato, rivelatasi ovviamente fondata alla fine – Piccini le avesse dette non “fuori onda” ma “in onda” e, ancora meglio, fosse andato dalla magistratura a dirle, prima di essere candidato, il can can e i moralismi avrebbero avuto meno ragione di essere. C’è un tema di attendibilità sulle parole di Piccini, che adesso riguarda lui e la magistratura di Genova, inevitabilmente chiamata in causa dalla Procura di Siena. Fino al fuori onda Piccini ha espresso le proprie opinioni e ha detto almeno una cosa opportuna: “la città non crede che si sia ucciso”. Ma per me, che stando a Siena, ho lavorato quattro anni sugli atti della morte di David Rossi, è un altro il picco di interesse per la trasmissione de Le Iene: vedere su una rete nazionale, sintetizzati in modo così giornalisticamente efficace da Antonino Monteleone, quegli elementi deboli dell’indagine che io ho evidenziato in quattro anni di lavoro (la puntata del 24 giugno 2017 di “Di Sabato” su Siena TV, ne è un po’ il riassunto; utile anche quella del 15 luglio, successiva all’archiviazione: entrambe sono sul sito di Siena Tv e sulla pagina di Fb “Il caso David Rossi”), è un riscontro importante. Le Iene hanno lavorato benissimo, a mio parere. Con i metodi un giornalismo nuovo, che una persona pubblica non può ignorare. E se quei metodi vanno nella direzione di far sapere più cose a chi guarda, rispetto alle modalità “politically correct” di noi giornalisti “antichi”, io dico, ben vengano. Anche i blogger senesi sono apparsi, negli anni passati, delle specie di “Iene”, eppure hanno rivelato tracce di verità sulla “Siena da bere” prima e durante il dominio dei potenti veri, e non dopo. E non è cosa da poco. Unica cosa: durante questi quattro anni, io non ho avvertito nei confronti del mio lavoro teso a dimostrare gli elementi che non tornano rispetto al suicidio, le reazioni tipiche di una città “omertosa”, che oltre a non parlare, ha fastidio che si parli. Si, c’è stato chi è andato dall’editore di Siena Tv a dire che “Magrini l’ha presa fitta la storia di Rossi”, ottenendo un bel niente. Altri che mi hanno detto: “guarda che David era tanto nervoso in quei giorni”. Ma sono piccolezze: io invece a Siena ho avvertito molta attenzione nei confronti del mio lavoro e anche incoraggiamento. Tanti a Siena, come me, a Bernardo Mingrone che dice a Monteleone: “Non bastano due archiviazioni?” rispondono ancora no. Giovedì, sulla morte di David Rossi, c’è la presentazione del libro di Davide Vecchi, “Il suicidio imperfetto”, alle 18 a Palazzo Patrizi. E’ l’inchiesta di un giornalista che solo per aver fatto il suo lavoro è sotto processo insieme alla moglie di Rossi, Antonella Tognazzi. Un bel tema per una terza puntata de Le Iene. Piccola postilla in chiave elettorale: partiti e listoni, candidati e aspiranti tali, non si affannino a rincorrere l’opinione pubblica sulla morte di David Rossi. Gli unici che hanno sempre mostrato attenzione, che hanno fatto interpellanze parlamentari, che si sono “sporcati le mani” con questa tragedia, sono stati i Cinque stelle. E Maurizio Montigiani è sempre stato attivo. Per il resto, un po’ di Facebook con sporadici post, più fitti in caso di trasmissioni nazionali, come ora per “Le Iene”. E un incontro del sindaco con Antonella Tognazzi, rimasto sospeso nel limbo, senza alcun seguito. Eppure Bruno Valentini è dello stesso partito del ministro della giustizia, Andrea Orlando, che tra pochi giorni verrà a Siena per il convegno nazionale dell’Associazione Nazionale Magistrati: potrebbe cogliere l’occasione per chiedergli attenzione sul caso David Rossi, invece delle risposte formali che ha dato alle interrogazioni sulle falle dell’inchiesta.

Caso Rossi, l'ex gigolò: "Vi racconto i festini hard tra coca e orge. C'erano dirigenti Mps e pm". L'ex gigolò racconta di alcuni festini in diverse ville nelle campagne toscane, a Bologna e sul litorale romano a cui partecipavano dirigenti di Mps, magistrati, giornalisti, politici e un prelato molto in vista della diocesi senese, scrive Luca Romano, Domenica 25/03/2018, su "Il Giornale".  Nella puntata de Le Iene Show in onda questa sera in prima serata su Italia 1, Antonino Monteleone torna ad occuparsi della vicenda della morte di David Rossi. L'inviato intervista, in esclusiva, un uomo che afferma di aver partecipato come escort ad alcune feste o cene private che si sarebbero svolte nelle campagne toscane, nei dintorni di Siena e in altre città d'Italia. David Rossi, capo della Comunicazione di Monte dei Paschi di Siena, la sera del 6 marzo 2013, è precipitato da una finestra della sede della banca a Rocca Salimbeni, nel capoluogo toscano. In quelle stesse settimane, Mps era al centro di una grande inchiesta basata sull'acquisizione di Antonveneta. Nel luglio 2017, il gip ha disposto l'archiviazione del fascicolo d'indagine aperto con l'ipotesi di reato d'istigazione al suicidio, accogliendo la richiesta avanzata dalla procura senese e respingendo così l'opposizione avanzata - nel novembre 2015 - dai legali della famiglia Rossi, da sempre convinti che si sia trattato di omicidio. È la seconda archiviazione in questa vicenda: una prima indagine si era chiusa nel marzo 2014. La moglie di David Rossi Antonella Tognazzi e la figlia della donna Carolina Orlandi, che non credono all'ipotesi del suicidio, sono da anni impegnate per far sì che si continui a indagare sulla morte dell'uomo. Dopo la messa in onda dei precedenti servizi de "Le Iene" sul caso, sono state aperte quattro nuove indagini: due presso la Procura di Genova (competente a indagare per fatti che riguardano i magistrati senesi) e due presso la Procura di Siena. Nella puntata de "Le Iene" dell'8 ottobre 2017, in particolare, Antonino Monteleone aveva intervistato Pierluigi Piccini, ex sindaco di Siena ed ex dirigente MPS, il quale - tra le altre cose - aveva affermato: "Non credo che David Rossi si sia suicidato […] C'è un'altra storia parallela… un avvocato romano mi ha detto […] 'devi indagare su alcune ville fra l'aretino e il mare… e i festini che facevano lì. Perché la magistratura potrebbe anche avere abbuiato tutto perché scoppia una bomba morale. Non so se mi sono spiegato? […] Questo avvocato romano mi ha detto: 'C'è una villa fra Siena e Arezzo e c'è una villa al mare, dove facevano i festini. Chi andava in queste feste? Chi ci andava? Ci andavano anche i magistrati senesi ad esempio? Mah. Ci andava qualche personaggio nazionale? Mah. La cocaina gira a fiumi in questa città". Ipotesi confermata anche dall'ex gigolo nell'intervista a Le Iene, che racconta proprio di alcuni festini in diverse ville nelle campagne toscane, a Bologna e sul litorale romano a cui partecipavano dirigenti di Mps, magistrati, giornalisti, politici e un prelato molto in vista della diocesi senese. "Ho deciso di raccontare questa storia quando è uscito il primo servizio su David Rossi - ha spiegato l'uomo all'inviato del programma -. Quando ho visto la figlia di David fare un appello in televisione dove appunto diceva che tutte le mattine controllava i social, o comunque Facebook o quant'altro, con la speranza di trovare qualcuno che le dicesse "ci dobbiamo vedere, ti devo parlare". Da lì ho deciso che fosse giusto raccontare" tutta la vicenda. L'uomo guadagnava anche 10mila euro a settimana. Per "il fatto di frequentare determinate persone più o meno conosciute, ma comunque con dei ruoli importanti all'interno di società, di banche, del mondo della televisione, del giornalismo, del cinema o anche dell'imprenditoria, costituisci una sorta di, chiamiamola così, minaccia velata - ha sottolineato -. C'era sempre il timore di… le cose che ho visto... le persone con cui sono stato magari possono farmi qualcosa, possono farmi del male, possono trovarmi". Trai suoi clienti c'erano anche dirigenti di Mps e ai festini la cocaina scorreva a fiumi e spesso la situazione si trasformava in un'orgia. La maggior parte dei partecipanti "non erano gay dichiarati o comunque omosessuali" e "avevano famiglia e figli". L'ex escort ha "paura" di possibili ripercussioni perché i suoi ex clienti "sono persone con le quali bisogna stare attenti" perché possono diventare pericolose. "Io ho visto, mi ricordo benissimo, una discussione a Monteriggioni con due persone che litigavano furiosamente e mi ricordo uno dei due che litigava, che aveva proprio negli occhi uno sguardo che... non da assassino, ma insomma", ha proseguito. Quanto all'ex capo della comunicazione di Mps David Rossi "lo avevo sentito nominare - ha spiegato l'ex gigolo - . Non lo avevo mai visto ad una festa - ha sottolineato l'ex accompagnatore - . Non ho mai avuto un incontro con lui, però, pensando alle persone che c'erano lì e comunque ai legami che avevano… perché c'erano persone appunto legate chi alle forze dell'ordine… addirittura si è parlato che ci fosse qualcuno legato anche a qualche agente dei servizi segreti, robe del genere... Un'ipotesi poteva essere anche quella, che qualcuno lo avesse scaraventato giù dalla finestra". "Io più di una volta ho avuto la sensazione che qualcuno registrasse" gli incontri hard, ha aggiunto. "Qualche giorno dopo uno dei miei ragazzi ha confermato che delle persone stavano discutendo perché erano state fatte delle registrazioni degli incontri. Poi, quando io sono rientrato, qualche cliente sapeva delle cose che erano state fatte all'interno di questi incontri ma non aveva partecipato, e io dubito fortemente che qualcuno di loro vada in giro a raccontare quello che fa o non fa in questi festini", ha concluso.

Caso David Rossi, festini a luci rosse: politici, preti e toghe presto dai pm. “Groviglio armonioso” - Genova, la Procura acquisisce il video delle “Iene” senza omissis e ascolterà le persone chiamate in causa, scrive Davide Vecchi il 27 marzo 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Saranno convocati e interrogati in procura a Genova. Politici, manager, sacerdoti, imprenditori, persino i magistrati di Siena: i soggetti indicati come partecipanti ai festini sfileranno davanti al procuratore aggiunto del capoluogo ligure, Vittorio Ranieri Miniati. Quanto raccontato dal gigolò Stefano in un’intervista trasmessa domenica da Le Iene non poteva che finire al vaglio degli inquirenti. Il ragazzo ha dichiarato di aver partecipato per soldi ad alcune cene e festini in diverse ville senesi – in particolare una a Monteriggioni – e ha riconosciuto come partecipanti a quelle serate almeno dieci persone, tra cui due magistrati di Siena, un manager già al vertice di Mps e un importante ex ministro. Le immagini mostrate al ragazzo dal giornalista Antonino Monteleone sono state nascoste da Le Iene per non rendere riconoscibili a tutti i volti dei soggetti indicati. Così ieri il procuratore genovese Miniati ha disposto il sequestro del video integrale del servizio e sentirà i giornalisti della trasmissione per poter individuare Stefano e avere un elenco completo delle persone riconosciute dal 26enne che poi saranno convocate. Tutto nasce dalle indagini giornalistiche svolte negli ultimi mesi su David Rossi, il manager di Mps trovato morto la sera del 6 marzo 2013. Indagini che hanno evidenziato le lacune delle inchieste condotte dai magistrati senesi sulla morte di Rossi frettolosamente liquidata per ben due volte con l’archiviazione per suicidio. Sulla vicenda sono emerse molte incongruenze. Gli stessi periti nominati dalla procura hanno certificato come prima di morire David avesse subito delle percosse. Il medico legale ha evidenziato come tutte le ferite e gli ematomi presenti sulla parte anteriore del corpo di Rossi non fossero compatibili con la caduta nel vuoto. Inoltre è emerso che i pm titolari del fascicolo hanno disposto la distruzione di reperti fondamentali, come i sette fazzoletti sporchi di sangue trovati nell’ufficio del manager, mandati al macero prima ancora che il gip potesse pronunciarsi a favore dell’archiviazione o di un supplemento di indagini. Elementi rivelati da articoli del Fatto e lo scorso ottobre dalla pubblicazione di un libro di Chiarelettere dedicato al caso. A ottobre Le Iene hanno iniziato a occuparsi della vicenda trasmettendo, tra l’altro, le dichiarazioni dell’ex sindaco di Siena, Pierluigi Piccini, secondo il quale in città si svolgevano dei festini cui partecipavano anche alcuni magistrati. Per questo, dunque, le indagini su Rossi sarebbero state blande. Accuse pesanti. Che hanno portato la Procura di Genova – competente su Siena – ad aprire due fascicoli. Uno per abuso d’ufficio e uno per diffamazione. In quest’ultimo proprio ieri è stato iscritto come indagato Piccini. I giornalisti de Le Iene sono invece stati denunciati da alcuni magistrati senesi. L’aggiunto di Genova Miniati e il sostituto Cristina Camaiori stanno portando avanti entrambi i fascicoli. Il servizio trasmesso domenica sera potrebbe aprire uno scenario quanto mai preoccupante per la procura senese. Se quanto dichiarato dal gigolò Stefano dovesse trovare riscontri effettivi (il ragazzo garantisce di essere in possesso di prove documentali e parla dell’esistenza di alcuni video delle serate) le ombre che aleggiano sulle indagini relative a David Rossi si estenderebbero a molti altri fascicoli dei magistrati toscani inerenti il Monte dei Paschi di Siena e quel “groviglio armonioso” coniato dal giornalista Stefano Bisi – oggi grande maestro del Goi – per definire il sistema di rapporti e potere che ha gestito Mps e la città per decenni e che ruotava attorno a Giuseppe Mussari. Un groviglio che ora potrebbe sciogliere la Procura di Genova.

Festini a base di sesso e droga nelle campagne toscane dove avrebbero partecipato magistrati, politici e sacerdoti. Le rivelazioni di un escort raccolte da “Le Iene”, scrive il 26 marzo 2018 Il Corriere del Giorno. Sulla vicenda della morte del dirigente del MPS Davi Rossi, arrivano le confessioni di un ex gigolò su Italia 1: “Ho partecipato a quei festini. C’erano dirigenti di Mps, magistrati, giornalisti, politici e un prelato” ed ora si iniziano a capire le tante omissioni della Procura di Siena. Antonino Monteleone inviato del noto programma di italia Uno “Le Iene”,  è tornato ad occuparsi della vicenda della morte di David Rossi con nuove, clamorose rivelazioni ed ha raccolto la testimonianza di un uomo che afferma di aver partecipato come escort ad alcune feste o cene private, cui aveva già fatto riferimento Pierluigi Piccini ,l’ex sindaco di Siena dal 1993 al 2001,   le cui dichiarazioni sono andate in onda anche  ieri sera nel corso della trasmissione. David Rossi all’epoca dei fatti direttore della comunicazione del Monte dei Paschi di Siena, è precipitato la sera del 6 marzo 2013, da una finestra della sede della banca a Rocca Salimbeni, nel capoluogo toscano nello stesso periodo in cui il Monte Paschi di Siena era al centro di una grande inchiesta basata sull’acquisizione di Banca Antonveneta. Nel luglio 2017, il gip dr.ssa Monica Gaggelli dispose l’archiviazione del fascicolo d’indagine aperto con l’ipotesi di reato d’istigazione al suicidio, accogliendo la richiesta avanzata dalla procura senese e respingendo l’opposizione depositata dai legali della famiglia Rossi – nel novembre 2015 – da sempre convinti che si sia trattato di omicidio. Questa è stata la seconda archiviazione in questa vicenda: una prima indagine si era chiusa nel marzo 2014. Il caso di David Rossi, per due volte archiviato come suicidio, resta un vero mistero per diversi motivi. Nelle corrispondenze elettroniche del manager di Mps si leggono conversazioni in cui annuncia di voler parlare con gli inquirenti nei giorni più drammatici dello scandalo del 2013, ma anche in cui minaccia di suicidarsi. La sensazione è quella che le indagini effettuate dai pubblici misteri Nicola Marini ed Aldo Natalini titolari del fascicolo d’inchiesta non siano state poi così approfondite: delle 12 telecamere presenti sul luogo del delitto e nei suoi dintorni, ne è stata presa in considerazione solo una e, secondo ‘Le Iene’, le registrazioni sarebbero incomplete perché tagliate o manipolate, ma non solo. Nessuno ha analizzato i tabulati delle celle telefoniche presenti nella zona la sera del delitto e la caduta, visibile insieme a tutta la cruda agonia dell’uomo prima di morire, non sembra affatto compatibile con un suicidio, dal momento che David Rossi è impattato al suolo con la parte posteriore del corpo e presentava lesioni al volto, alle braccia e all’addome apparentemente compatibili con una colluttazione. Sono troppe le carenze da addebitarsi ad incapacità od omissioni  riscontrate nella prima fase dell’inchiesta sulla scomparsa del manager di Mps David Rossi a partire da alcune prove fondamentali distrutte dal pm Aldo Natalini, come sette fazzoletti sporchi di sangue trovati nell’ufficio di Rossi e mandate al macero mentre le indagini erano ancora in corso nell’agosto 2013 , e circostanza ancor più grave ben prima che il giudice per le indagini preliminari disponesse l’archiviazione o un supplemento di indagini e senza neanche informare i legali dei familiari di David. Ma non solo. I fazzoletti sono stati distrutti senza essere stati neanche analizzati. Ma ci sono state molte altre prove investigative da accertare e neanche approfondite che invece sarebbero state fondamentali a ricostruire l’accaduto. A partire dai video delle 12 telecamere, l’analisi delle celle telefoniche per identificare i telefonini presenti nella zona al momento della morte di Rossi, l’elenco dei possibili testimoni, l’esame dei presenti nell’area di Mps e queste sono soltanto alcune delle ormai inconfutabili omissioni investigative. L’avvocato Luca Goracci, legale di Antonella Tognazzi, la vedova di Rossi, aveva inoltre rivelato un episodio avvenuto in passato, quando un uomo, presentatosi come l’imprenditore mantovano Antonio Muto, aveva chiesto di incontrarlo, rivelando di aver assistito alla scena della morte di David Rossi e di aver udito anche uno sparo, esploso da una pistola munita di silenziatore. Potrebbe essersi trattato del gesto di un mitomane, privo di alcun riscontro, anche perché quando il vero Antonio Muto, tra i creditori di Mps, aveva rilasciato alcune dichiarazioni a ‘Report‘, l’avvocato Goracci si rese conto che non era la stessa persona che aveva incontrato pochi mesi prima. L’ipotesi degli spari, però, sarebbe stata confermata da una lettera ricevuta da Antonella Tognazzi e scritta da un uomo che si firma ‘Un vigliacco‘ e che sostiene di essere in punto di morte e pronto a fare rivelazioni. L’anonimo mittente, nella lettera, scrive di ben due colpi di pistola sparati con un silenziatore e di due persone presenti sul posto, oltre a David Rossi. Inoltre, viene suggerito di analizzare le pareti del vicolo del mistero, alla ricerca di tracce di proiettili. Antonella Tognazzi ha già annunciato di voler richiedere nuove indagini alla Procura di Siena, che si è dimostrato sin troppo indifferente, ma anche queste rivelazioni potrebbero trattarsi di una pista completamente sbagliata e quindi non si può escludere alcuna ipotesi. Infatti la moglie di David Rossi Antonella Tognazzi e la figlia della donna Carolina Orlandi, non credono all’ipotesi del suicidio, sono impegnate da anni per la continuazione delle indagini frettolosamente e superficialmente chiuse dalla Procura di Siena sulla morte dell’uomo.  Nella puntata de “Le Iene” dell’8 ottobre 2017, in particolare, Antonino Monteleone aveva intervistato Pierluigi Piccini, ex sindaco di Siena ed ex dirigente MPS, il quale – tra le altre cose – aveva affermato: “Non credo che David Rossi si sia suicidato…C’è un’altra storia parallela un avvocato romano mi ha detto… ‘devi indagare su alcune ville fra l’aretino e il mare e i festini che facevano lì. Perché la magistratura potrebbe anche avere abbuiato tutto perché scoppia una bomba morale‘. Non so se mi sono spiegato? Questo avvocato romano mi ha detto: ‘C‘è una villa fra Siena e Arezzo e c’è una villa al mare, dove facevano i festini’. Chi andava in queste feste? Chi ci andava? Ci andavano anche i magistrati senesi ad esempio? Mah. Ci andava qualche personaggio nazionale? Mah. La cocaina gira a fiumi in questa città”. Una rivelazione questa difficile da credere, ma confermata dalla testimonianza di un uomo, Stefano (nome di fantasia), che recentemente ha contattato direttamente Monteleone e ha fatto delle rivelazioni sconvolgente.

I festini di cui parla la fonte de “Le Iene” si sarebbero realmente svolti nelle campagne toscane, nei dintorni di Siena e in altre città d’Italia. “Sono eterosessuale, ma dopo aver avuto un tenore di vita alto, alcuni problemi economici mi hanno spinto a prostituirmi con questi uomini. Venivo pagato anche 10mila euro a settimana, erano proprio i guadagni a non farmi smettere, ma c’era dell’altro” – ha rivelato l’uomo – “Le persone che partecipavano a quelle cene, che finivano sempre con sesso gay, erano magistrati, dirigenti bancari, politici, sacerdoti, giornalisti e imprenditori. Sono stato a Siena, Monteriggioni, tutta la Toscana, ma anche a Bologna e sul litorale romano. C’erano delle droghe, ma non in quantità industriale”. Lo scopo era quello di “intrattenere degli ospiti di alto profilo che avevano una certa importanza per le persone che organizzavano queste feste”. E avrebbero partecipato personaggi di spicco della società senese, come un importante ex dirigente della Banca Monte dei Paschi, persino un sacerdote con un incarico di rilievo nella Diocesi, e persino un ex Ministro. Tutte persone che l’escort riconosce da alcune foto che l’inviato Monteleone gli ha mostrato. L’escort sarebbe arrivato a guadagnare in questi festini fino a “10.000 euro in due o tre giorni di incontri”. Secondo lui ci sarebbe anche chi ha registrato quegli incontri, e ci sarebbero quindi in circolazione dei video. In numerosi servizi Antonino Monteleone si è occupato della morte dell’allora capo della comunicazione del Monte dei Paschi di Siena, precipitato da una finestra della sede bancaria il 6 marzo 2013 in circostanze ancora oggi misteriose. L’inchiesta sulla sua morte è stata in un primo tempo archiviata come caso di suicidio dalla Procura di Siena. Dopo la messa in onda dei precedenti servizi de “Le Iene”, sono state aperte quattro nuove indagini: due presso la Procura di Siena e due presso la Procura di Genova competente a indagare per fatti che riguardano i magistrati senesi. Le due indagini della Procura di Genova, una per “abuso d’ufficio” (a carico dei magistrati di Siena) e una per “diffamazione” nei confronti dell’ex sindaco, sono state aperte in seguito alle dichiarazioni di Pierluigi Piccini, raccolte da Le Iene, in riferimento a presunti festini che si sarebbero svolti “in una villa fra Siena e Arezzo”. Dichiarazioni che corrispondono a quelle dell’escort.  L’ ipotesi dell’ex sindaco di Siena Pierluigi Piccini è stata confermata ieri sera anche dall’ex gigolo nell’intervista a ‘Le Iene’, che ha racconta proprio di alcuni festini in diverse ville nelle campagne toscane, a Bologna e sul litorale romano a cui partecipavano dirigenti di Mps, magistrati, giornalisti, politici e un prelato molto in vista della diocesi senese. “Ho deciso di raccontare questa storia quando è uscito il primo servizio su David Rossi – ha raccontato l’uomo all’inviato del programma – Quando ho visto la figlia di David fare un appello in televisione dove appunto diceva che tutte le mattine controllava i social, o comunque Facebook o quant’altro, con la speranza di trovare qualcuno che le dicesse ‘ci dobbiamo vedere, ti devo parlare’. Da lì ho deciso che fosse giusto raccontare tutta la vicenda”.

L’uomo “coperto” da LE IENE guadagnava anche 10mila euro a settimana e per “il fatto di frequentare determinate persone più o meno conosciute, ma comunque con dei ruoli importanti all’interno di società, di banche, del mondo della televisione, del giornalismo, del cinema o anche dell’imprenditoria, costituisci una sorta di, chiamiamola così, minaccia velata – ha sottolineato –   c’era sempre il timore di raccontare le cose che ho visto… le persone con cui sono stato magari possono farmi qualcosa, possono farmi del male, possono trovarmi”. Fra suoi clienti secondo le dichiarazioni rese in televisione vi erano anche dirigenti di Monte dei Paschi ed ai festini la cocaina scorreva a fiumi e spesso al situazione di trasformava in un’orgia. La maggior parte dei partecipanti “non erano gay dichiarati o comunque omosessuali” ed “aveva la famiglia e figli”. L’ex escort adesso ha “paura” di possibili ripercussioni perché i suoi ex clienti “sono persone con le quali bisogna stare attenti” perchè possono diventare pericolose. “Io ho visto, mi ricordo benissimo, una discussione a Monteriggioni con due persone che litigavano furiosamente e mi ricordo uno dei due che litigava, che aveva proprio negli occhi uno sguardo che… non da assassino, ma insomma” ha raccontato. Quanto all’ex capo della comunicazione di Mps David Rossi “lo avevo sentito nominare – ha spiegato l’ex gigolò – ma non lo avevo mai visto ad una festa. Non ho mai avuto un incontro con lui, però, pensando alle persone che c’erano lì e comunque ai legami che avevano perché c’erano persone appunto legate chi alle forze dell’ordine ed addirittura si è parlato che ci fosse qualcuno legato anche a qualche agente dei servizi segreti, robe del genere… Un’ipotesi poteva essere anche quella, che qualcuno lo avesse scaraventato giù dalla finestra”. “Io più di una volta ho avuto la sensazione che qualcuno registrasse” gli incontri hard, ha aggiunto l’escort “Qualche giorno dopo uno dei miei ragazzi ha confermato che delle persone stavano discutendo perché erano state fatte delle registrazioni degli incontri. Poi, quando io sono rientrato, qualche cliente sapeva delle cose che erano state fatte all’interno di questi incontri ma non aveva partecipato, e io dubito fortemente che qualcuno di loro vada in giro a raccontare quello che fa o non fa in questi festini”, ha concluso. Una testimonianza questa sicuramente molto importante ed utile che offre agli inquirenti una strada chiara e definita da perseguire al fine di accertare almeno una parte di verità. Sono dieci i nomi e cognomi dei partecipanti alle serate. Ma ci sono anche i reclutatori dell’escort, gli organizzatori di questi eventi sicuramente non comuni, che potranno essere facilmente rintracciati e riscontri individuabili.

In una precedente puntata delle IENE andato in onda nel novembre del 2017, il servizio si concentrava su due ipotesi. La prima ipotesi è quella della manomissione del video. Le immagini mostrano l’impatto a terra di Rossi, precipitato dalla finestra del suo ufficio della banca senese nel 2013. Subito dopo l’impatto si nota che Rossi ancora si muove e, nelle immagini successive, si vedono avvicinarsi due persone: la prima che arriva a pochi centimetri dal corpo, lo guarda e quindi torna sui suoi passi, apparentemente senza fretta. Sembrerebbe che alcune ombre nel video siano manomesse e alcune presenze oscurate. La seconda ipotesi è quella di alcuni depistaggi nel corso delle indagini. Il magistrato di allora si rifiuta di rispondere, e peraltro non chiese allora le riprese di tutte le telecamere presenti sulla strada, ma soltanto di una. Inoltre non aprì alcuna indagine sull’uomo e tantomeno dispose qualsiasi accertamento per identificare la persona che si vede apparire e tornare indietro col telefono in mano con il corpo di David Rossi riverso sul selciato stradale. L’indagine venne aperta guarda caso…due anni dopo, ma nel frattempo i tabulati telefonici riguardanti la zona dell’episodio erano stati distrutti per legge sulla privacy. Ed a qualcuno tutto questo ha giovato per non essere rintracciabile. Le immagini trasmesse ieri sera con alcuni magistrati della Procura di Siena lasciano presagire che ci sia del torbido, e che sarebbe ora che anche il Consiglio Superiore della Magistratura invece di perdere tempo a “lottizzare” le varie nomine e promozioni dei magistrati italiani, facesse un pò di luce e soprattutto pulizia al proprio interno.

Mps, il giallo e l'altra inchiesta: "La fine che ho fatto fare fare a Rossi...". Secondo La Verità ci sarebbe un collegamento tra le dichiarazioni del gigolò sui presunti festini hard e un'inchiesta aperta dalla procura di Belluno, scrive Claudio Cartaldo, Martedì 27/03/2018, su "Il Giornale". Il mistero del presunto suicidio di David Rossi, ex capo della Comunicazione di Mps, dopo le rivelazioni di un gigolò rilasciate a Le Iene su presunti festini hard sulle colline senesi, si colora di un nuovo capitolo. Un pezzo che dalla Toscana si sposta a Belluno e che riguarderebbe un'inchiesta aperta dalla procura veneta.

Le dichiarazioni del gigolò su Rossi e Mps. "Tu lo dici anche alla luce di quanto successo a David?", aveva chiesto Antonino Monteleone all'escort che ha confessato i suoi presunti incontri con magistrati, politici e parroci. "Sì, lui lo avevo sentito nominare - la risposta - ma non l'ho mai visto ad una festa, non ho mai avuto un incontro con lui, però pensando alle persone che c'erano lì e comunque ai legami che avevano, perché c' erano persone appunto legate chi alle forze dell'ordine, addirittura si è parlato che ci fosse qualcuno legato anche a qualche agente dei servizi segreti, a roba del genere, un'ipotesi poteva anche essere che qualcuno lo avesse scaraventato giù dalla finestra".

L'inchiesta di Belluno. Ed è proprio sulla questione dei servizi segreti, secondo quanto scrive oggi su La Verità il giornalista Giacomo Amadori, che le due vicende - quella senese e quella di Belluno - potrebbero avere un collegamento. L'indagine in questione è quella condotta dal procuratore Paolo Luca e dai carabinieri del Nucleo investigativo guidato dal maggiore Marco Stabile. "A novembre - scrive Amadori - due personaggi in fuga dal loro passato hanno iniziato a denunciare atti persecutori, violenze, operazioni di riciclaggio, truffe e misteriosi dossier. Uno di loro, il quarantaduenne romano Valerio L., ha denunciato di essere stato sequestrato e ha riferito che uno dei suoi presunti carcerieri, G. M., un giorno avrebbe esclamato questa frase: 'Ti faccio fare la stessa fine che ho fatto fare a David Rossi, ti butto giù come un sacco di merda'". Non solo. Perché, sempre secondo quanto scrive Amadori, "l'altro testimone, l'imprenditore e consulente bancario Giuseppe V., per quasi 25 anni è stato un informatore proprio di G. M., il quale si sarebbe spacciato come agente dei servizi, esibendo tesserini, armi e lampeggianti sull' auto. “G. M. si vantava di essere amico del capo della sicurezza di Mps, un ex ufficiale dei carabinieri in pensione. Diceva di conoscere Viola e parlava di un vicepresidente che aveva un fratello commercialista. G. M. diceva di far transitare le sue pratiche da lui”, ha dichiarato Giuseppe V.". Amadori riporta che i due testimoni sono ritenuti credibili dalla procura "in tutto quello che dicono". Anche se sulla frase che riguarda David Rossi non sarebbero ancora stati trovati riscontri.

Caso David Rossi, giallo sui festini hot. La denuncia della trasmissione televisiva Le Iene, scrive il 27/03/2018 Giornale d’Italia. Un gigolò parla di appuntamenti a luci rosse a cui avrebbero partecipato personaggi di Mps e magistrati. Intanto finiscono indagati per diffamazione l’ex sindaco Piccini e i giornalisti del servizio. Un gigolò parla di appuntamenti a luci rosse a cui avrebbero partecipato personaggi di Mps e magistrati. Intanto finiscono indagati per diffamazione l’ex sindaco Piccini e i giornalisti del servizio. Presunti festini a luci rosse in cui si faceva anche uso di droga, organizzati nelle campagne di Siena per “ospiti di alto profilo”. È quanto denunciato pochi giorni fa in una nuova puntata dell’inchiesta del programma televisivo “Le Iene” relativa ad un servizio sul caso Monte dei Paschi di Siena e alla morte di David Rossi, manager ed ex capo della comunicazione della banca trovato morto la sera del 6 marzo 2013 dopo essere caduto da una finestra dei Rocca Salimbeni (sede della banca) nel 2013. Le immagini della puntata, andata in onda domenica, sono state acquisite dalla procura di Genova. Nel video c'è un intervista ad un giovane gigolò che ha raccontato di essersi prostituito ai presunti festini hard a cui avrebbero partecipato anche alcuni personaggi collegati al caso Mps oltre a volti di spicco della banca e della magistratura. Il gigolò ha raccontato di rapporti sessuali avuti da lui o da altri escort ai festini almeno con un noto imprenditore senese, un sacerdote con un ruolo di rilievo nella Diocesi, un pubblico ministero, un altro magistrato, un giornalista e un importante personaggio politico della città. Il testimone ha ammesso di aver paura, in particolare dopo la morte di David Rossi, che non ha mai incontrato a quelle feste e che teme sia stato “scaraventato dalla finestra”. Uno dei dubbi che emergono, come si legge anche sul sito de ‘Le Iene’, è che ai festini possano aver partecipato politici e magistrati di alto livello che avrebbero potuto condizionare le indagini sulla morte di David Rossi (i partecipanti sarebbero stati ricattabili). Intanto, secondo quanto trapelato, sono stati indagati per diffamazione l’ex sindaco di Siena, ricandidatosi per la tornata elettorale di quest'anno, Pierluigi Piccini e tutti i giornalisti del programma Mediaset “Le Iene” autori della prima puntata, andata in onda lo scorso anno, sui presunti festini a luci rosse a cui avrebbero partecipato alcuni magistrati senesi. Il fascicolo per diffamazione era stato aperto a seguito della querela presentata dai pm toscani dopo la messa in onda della trasmissione, ma era rimasto contro ignoti. Dopo l’ultima puntata, andata in onda appunto domenica sera, i pm di Genova hanno quindi iscritto i nomi nel registro degli indagati. L’inchiesta per diffamazione “viaggerà” in parallelo con quella per abuso d'ufficio, a carico di ignoti, aperta invece sulle indagini ‘abbuiate’ dai pm senesi dopo l’intervista rilasciata a Le Iene dall’ex sindaco senese Pierluigi Piccini. Secondo la tesi dell’allora primo cittadino, le indagini su Rossi sarebbero state “insabbiate” perché in sostanza alcuni magistrati senesi avrebbero preso parte ai presunti festini hard organizzati in diverse ville toscane. Nei prossimi giorni i colleghi dei magistrati toscani sentiranno i giornalisti della trasmissione “Le Iene” per cercare di trovare riscontro alle dichiarazioni rese dall’ultimo testimone. Sono quattro le nuove inchieste aperte anche grazie ai servizi del programma di Italia 1: due alla procura di Genova (competente a indagare sui fatti che riguardano i magistrati senesi) e due alla procura di Siena. Presunti festini a luci rosse in cui si faceva anche uso di droga, organizzati nelle campagne di Siena per “ospiti di alto profilo”. È quanto denunciato pochi giorni fa in una nuova puntata dell’inchiesta del programma televisivo “Le Iene” relativa ad un servizio sul caso Monte dei Paschi di Siena e alla morte di David Rossi, manager ed ex capo della comunicazione della banca trovato morto la sera del 6 marzo 2013 dopo essere caduto da una finestra dei Rocca Salimbeni (sede della banca) nel 2013. Le immagini della puntata, andata in onda domenica, sono state acquisite dalla procura di Genova. Nel video c'è un intervista ad un giovane gigolò che ha raccontato di essersi prostituito ai presunti festini hard a cui avrebbero partecipato anche alcuni personaggi collegati al caso Mps oltre a volti di spicco della banca e della magistratura. Il gigolò ha raccontato di rapporti sessuali avuti da lui o da altri escort ai festini almeno con un noto imprenditore senese, un sacerdote con un ruolo di rilievo nella Diocesi, un pubblico ministero, un altro magistrato, un giornalista e un importante personaggio politico della città. Il testimone ha ammesso di aver paura, in particolare dopo la morte di David Rossi, che non ha mai incontrato a quelle feste e che teme sia stato “scaraventato dalla finestra”. Uno dei dubbi che emergono, come si legge anche sul sito de ‘Le Iene’, è che ai festini possano aver partecipato politici e magistrati di alto livello che avrebbero potuto condizionare le indagini sulla morte di David Rossi (i partecipanti sarebbero stati ricattabili). Intanto, secondo quanto trapelato, sono stati indagati per diffamazione l’ex sindaco di Siena, ricandidatosi per la tornata elettorale di quest'anno, Pierluigi Piccini e tutti i giornalisti del programma Mediaset “Le Iene” autori della prima puntata, andata in onda lo scorso anno, sui presunti festini a luci rosse a cui avrebbero partecipato alcuni magistrati senesi. Il fascicolo per diffamazione era stato aperto a seguito della querela presentata dai pm toscani dopo la messa in onda della trasmissione, ma era rimasto contro ignoti. Dopo l’ultima puntata, andata in onda appunto domenica sera, i pm di Genova hanno quindi iscritto i nomi nel registro degli indagati. L’inchiesta per diffamazione “viaggerà” in parallelo con quella per abuso d'ufficio, a carico di ignoti, aperta invece sulle indagini ‘abbuiate’ dai pm senesi dopo l’intervista rilasciata a Le Iene dall’ex sindaco senese Pierluigi Piccini. Secondo la tesi dell’allora primo cittadino, le indagini su Rossi sarebbero state “insabbiate” perché in sostanza alcuni magistrati senesi avrebbero preso parte ai presunti festini hard organizzati in diverse ville toscane. Nei prossimi giorni i colleghi dei magistrati toscani sentiranno i giornalisti della trasmissione “Le Iene” per cercare di trovare riscontro alle dichiarazioni rese dall’ultimo testimone. Sono quattro le nuove inchieste aperte anche grazie ai servizi del programma di Italia 1: due alla procura di Genova (competente a indagare sui fatti che riguardano i magistrati senesi) e due alla procura di Siena.

Mps, i “festini” e la morte di David Rossi. Indagato per diffamazione l’ex sindaco di Siena Piccini, scrive il 26 marzo 2018 Il Secolo XIX.  L’ex sindaco di Siena Pierluigi Piccini è stato indagato per diffamazione dai magistrati genovesi. Insieme a lui sono stati iscritti nel registro degli indagati i giornalisti de Le Iene autori della prima puntata, andata in onda lo scorso anno, sui presunti festini a luci rosse a cui avrebbero partecipato alcuni magistrati senesi. Questo fascicolo per diffamazione era stato aperto subito dopo la querela presentata dai pm toscani dopo la messa in onda della trasmissione. Era rimasto contro ignoti ma dopo l’ultima puntata, andata in onda ieri sera, durante la quale è stato sentito un ragazzo che avrebbe partecipato ai festini, i pm di Genova hanno iscritto i nomi nel registro degli indagati. Nei prossimi giorni il procuratore aggiunto Vittorio Ranieri Miniati e il sostituto Cristina Camaiori sentiranno i giornalisti de Le Iene per cercare di trovare riscontro alle dichiarazioni rese dall’ultimo testimone. L’interrogatorio avverrà in forma assistita, ovvero con la presenza di un avvocato. La Procura del capoluogo ligure ha sequestrato le immagini della puntata delle “Iene” andata in onda ieri sera su Italia Uno: la parte acquisita dai magistrati genovesi riguarda la vicenda del Monte dei Paschi di Siena e in particolare la morte di David Rossi, ex capo della comunicazione della banca, morto cadendo da una finestra della sede di palazzo Rocca Salimbeni nel 2013. L’inviato della trasmissione ha intervistato un ragazzo che ha raccontato di essersi prostituito a “festini” cui avrebbero partecipato personaggi di spicco della banca e della magistratura. La Procura di Genova (competente a indagare quando i fatti che riguardano i magistrati della Toscana) aveva aperto un fascicolo per abuso d’ufficio a carico di ignoti dopo l’intervista rilasciata sempre alle “Iene” dall’ex sindaco senese, Pierluigi Piccini, che aveva detto di avere saputo di “festini” cui avrebbero appunto partecipato importanti personaggi della magistratura e della politica e che forse l’inchiesta sulla morte di Rossi era stata “affossata” per questo. Dopo la trasmissione di Mediaset e le dichiarazioni di Piccini, i pm senesi avevano presentato querela per diffamazione: a breve, per quest’altro fascicolo dovrebbe arrivare una “svolta”, con l’iscrizione nel registro dei primi indagati. Infine, sempre nel capoluogo ligure è aperta l’inchiesta sulla lettera di minacce, accompagnata da un proiettile, indirizzata al pm senese Aldo Natalini, che si era occupato anche della vicenda Mps: l’ipotesi di reato è tentata minaccia grave.

David Rossi e Mps, indagate Le Iene e l'ex sindaco di Siena Piccini, scrive il 27 marzo 2018 Le Iene. Domenica era andato in onda il servizio in cui un escort parlava di festini a luci rosse con personaggi di alto livello. Ieri la notizia dell'acquisizione del nostro servizio sul caso David Rossi e sui presunti festini a luci rosse nel Senese, andato in onda domenica, da parte della procura di Genova. Oggi l'agenzia Asca fa sapere che la procura ha inserito nel registro degli indagati l’ex sindaco senese Pierluigi Piccini e gli autori de Le Iene (in realtà già inseriti da mesi). Nel servizio, Antonino Monteleone ha raccolto le rivelazioni di Stefano (il nome è di fantasia), un escort che racconta di aver partecipato a numerosi festini a luci rosse, a base di sesso e droga, organizzati nelle campagne di Siena per “ospiti di alto profilo”. Uno dei dubbi che emergono è che a questi festini possano aver partecipato politici e magistrati di alto livello che avrebbero potuto condizionare le indagini sulla morte di David Rossi (i partecipanti sarebbero stati infatti ricattabili). David Rossi era il capo dell’area comunicazione del Mps. Il 6 marzo 2013 si sarebbe lanciato da una finestra della sede centrale della banca. La sua morte viene archiviata per due volte a Siena come suicidio. La famiglia crede alla tesi dell’omicidio. La nostra Iena Antonino Monteleone ha seguito la vicenda con molti servizi, che vi riproponiamo qui sotto e che hanno portato alla riapertura del caso. Molti dubbi restano aperti sulla morte di David Rossi: la sua caduta anomala, le ferite del corpo riconducibili a un’aggressione precedente, la mancanza di analisi sui suoi vestiti, sui tabulati telefonici e sulle telecamere della zona e sulla persona che si vede comparire sullo sfondo, in uno dei pochi filmati a disposizione, nel vicolo dove David Rossi è morto dopo 22 minuti di agonia. La procura di Genova, competente per indagini che coinvolgano la magistratura senese, ha aperto due fascicoli: uno per abuso d’ufficio e uno per diffamazione. Stefano ha raccontato di rapporti sessuali avuti da lui o da altri escort ai festini almeno con un noto imprenditore senese, un sacerdote con un ruolo di rilievo nella Diocesi, un pubblico ministero, un altro magistrato, un giornalista e un importante personaggio politico della città. Alle feste sarebbe stato presente anche un ex ministro. L’escort ha ammesso di aver paura, in particolare dopo la morte di David Rossi, che non ha mai incontrato a quelle feste e che teme sia stato “scaraventato dalla finestra”. Stefano non conosceva cognomi e ruoli dei vari personaggi, che ha però riconosciuto nelle foto mostrategli da Antonino Monteleone. Non abbiamo rivelato i nomi di un racconto comunque clamoroso, che abbiamo cercato più volte di mettere in discussione. L’escort crede anche che gli incontri sessuali fossero videoregistrati (un elemento che aumenterebbe il rischio di ricatto per le persone coinvolte). Per capire meglio tutti i risvolti della vicenda, guardate qui sotto il nostro servizio “Morte David Rossi: io mi prostituivo ai festini di Siena” e più in basso tutti i servizi che abbiamo dedicato a questo caso.

Morte David Rossi: sentita in procura la Iena Monteleone, scrive il 7 aprile 2018 "Le Iene". "Ho dato elementi utili per le indagini tutelando l'anonimato della fonte”. La iena Antonino Monteleone è stata sentita nel processo per diffamazione dopo il servizio sulla morte di David Rossi e i festini a base di sesso nelle campagne toscane dove avrebbero partecipato magistrati, politici e sacerdoti. “Ho dato elementi utili per le indagini. Ma è stato tutto secretato e non posso dire altro” commenta Monteleone. “Non abbiamo l'ambizione di potere avere un ruolo decisivo nell'inchiesta, ma abbiamo fornito elementi utili”. Gli stessi emersi nell’intervista esclusiva a un escort andata in onda nella puntata dello scorso 25 marzo. In quella circostanza, il nostro testimone ci aveva rilasciato dichiarazioni clamorose riconoscendo tra alcune foto che gli avevamo mostrato i partecipanti dei festini nel senese. Antonino Monteleone precisa che ha tutelato “l'anonimato della fonte”. La Iena è stato ascoltato per oltre tre ore dal procuratore aggiunto Vittorio Ranieri Miniati e dal sostituto Cristina Camaiori. L’inchiesta della Procura di Genova è stata aperta dopo il nostro primo servizio in cui l'ex sindaco di Siena Pierluigi Piccini aveva rilasciato dichiarazioni choc sui 'festini' ai quali avrebbero partecipato importanti personaggi della magistratura e della politica e che forse l'inchiesta sulla morte di Rossi era stata 'affossata' proprio per questo. I pm di Siena ci avevano querelato insieme al sindaco per diffamazione.

Morte David Rossi, interrogata per oltre tre ore la iena Monteleone: “Ho dato elementi utili per le indagini”, scrive il 10 aprile 2018 di Elisabetta Francinella su "Velvetgossip.it". È stato interrogato l’inviato de Le Iene Antonino Monteleone in merito all’accusa di diffamazione dopo il servizio sulla morte di David Rossi e sui festini a luci rosse nelle campagne circostanti Siena a cui avrebbero preso parte magistrati, politici, sacerdoti, imprenditori e figure legate al Monte dei Paschi di Siena. Antonino Monteleone, la iena che da sempre insieme al suo team si è occupata della morte di David Rossi, è stato ascoltato dagli inquirenti in merito al processo per diffamazione dopo il servizio sul decesso dell’ex capo della comunicazione del Monte dei Paschi di Siena e i festini a luci rosse nelle campagne fiorentine, a base di sesso e droga, a cui avrebbero preso parte magistrati, politici, sacerdoti e imprenditori. A rivelare l’esistenza di tali cene con risvolti hot era stato l’ex sindaco di Siena Pierluigi Picciniche, a telecamere nascoste, ne aveva confessato l’esistenza. Come riportano Le Iene stesse, Antonino Monteleone è stato ascoltato per oltre tre ore dal procuratore aggiunto Vittorio Ranieri Miniati e dal sostituto procuratore Cristina Camaiori. L’inviato del programma ci ha tenuto a specificare di aver tutelato l’anonimato della fonte, aggiungendo: “Ho dato elementi utili per le indagini tutelando l’anonimato della fonte. Ma è stato tutto secretato e non posso dire altro”. Antonino Monteleone, stando quanto riportano Le Iene stesse, ha rivelato le stesse informazioni emerse dall’intervista esclusiva a un escort, andata in onda nella puntata del 25 marzo scorso. L’escort intervistato da Le Iene, il cui servizio era stato immediatamente acquisito dalla Procura di Genova che ha aperto un fascicolo a carico dei magistrati di Siena, aveva rilasciato importanti dichiarazioni. Nel servizio il giovane aveva riconosciuto le foto di alcuni dei partecipanti ai festini a luci rosse, rivelando retroscena clamorosi su quanto accadeva al termine delle cene. Stando alle dichiarazioni del testimone, a prendere parte alle feste a base di sesso e droga vi erano importanti personaggi della magistratura e della politica, che forse potrebbero essere legati con l’inchiesta sulla morte di David Rossi, che poco prima di morire aveva rivelato ad alcune persone di spicco di voler confessare ai magistrati ciò che sapeva in merito all’acquisizione di Antonveneta e sulle operazioni del Mps.

La morte di David Rossi, il disastro Mps e quei festini hard con politici e magistrati: Le Iene nel mirino della Procura. Era il marzo del 2013 quando il capo della comunicazione della banca, al centro di una tempesta giudiziaria e mediatica, piombò al suolo. L'inchiesta tv, i nuovi elementi e le denunce, scrive la Redazione Tiscali i 7 aprile 2018. "Ho dato elementi utili per le indagini. Pur tutelando l'anonimato della fonte e non rivelando l'identità delle persone mostrate nelle foto". Queste le parole del giornalista Antonino Monteleone, interrogato dal procuratore aggiunto Vittorio Ranieri Miniati e dal sostituto Cristina Camaiori che lo hanno messo sotto indagine per diffamazione per la collana di servizi de Le Iene sulla vicenda Monte dei Paschi di Siena e la morte di David Rossi, ex capo della comunicazione della banca, precipitato da una finestra dei Rocca Salimbeni nel 2013. L'interrogatorio è durato oltre tre ore. "È stato tutto secretato - ha spiegato l'inviato del programma Mediaset - e non posso dire altro. Non abbiamo l'ambizione di potere avere un ruolo decisivo nell'inchiesta, ma abbiamo fornito elementi utili".

I festini in quelle due case. Due settimane fa Monteleone aveva intervistato un gigolò che aveva raccontato di avere partecipato ad alcuni festini con politici, magistrati e forze dell'ordine. Al giovane erano state mostrate alcune foto e lui aveva confermato di aver incontrato magistrati, politici e giornalisti alle feste. L'escort aveva anche aggiunto di aver avuto la sensazione che venisse filmato tutto quel che accadeva durante quelle cene d'elite con prosieguo in cui diversi partecipanti chiedevano rapporti omosessuali. Dando corpo all'ipotesi che il ricatto sessuale legasse i partecipanti in un clima omertoso. La procura di Genova - competente ad indagare, poiché i fatti riguardano anche magistrati di Siena - aveva aperto un fascicolo per abuso d'ufficio a carico di ignoti dopo la prima puntata della inchiesta sulla morte di Rossi con l'intervista rilasciata a Le Iene dall'ex sindaco senese Pierluigi Piccini che aveva detto di aver saputo di festini ai quali avrebbero partecipato importanti personaggi della magistratura e della politica e che forse l'inchiesta sulla morte di Rossi era stata 'abbuiata' per questo. Piccini parlava di due ville in cui avvenivano questi incontri, una sul litorale romano e una nelle campagne presso Monteriggioni, dove pure il giornalista de Le Iene si è recato, tentando di chiedere spiegazioni allo staff che gestisce questa struttura. L'escort che ha testimoniato sui festini sessuali a base di droga, chiamato con il nome di fantasia Stefano, ha accettato di incontrare Carolina Orlandi, figlia dello scomparso David Rossi, confermando che quest'ultimo non aveva mai partecipato alle cene descritte, e dando conferma pure di una serie di partecipanti, esponenti di magistratura e politica, incluso anche un cronista. Riconosciuti in foto. Dopo la trasmissione di Mediaset e le dichiarazioni di Piccini, i pm senesi avevano presentato querela per diffamazione: per questo fascicolo l'ex sindaco e gli autori della puntata sono stati indagati per diffamazione. Sempre nel capoluogo ligure è aperta l'inchiesta sulla lettera di minacce, accompagnata da un proiettile, indirizzata al pm senese Aldo Natalini che si era occupato anche della vicenda Mps. L'ipotesi di reato è tentata minaccia grave. Sul caso dei presunti festini indaga anche il Consiglio superiore della magistratura. 

Oltre la verità ufficiale. L'inchiesta di Monteleone ha riportato a galla i dettagli dubbi, a dire dei familiari di David Rossi e del perito di parte che li esaminò, della morte del capo dell'area comunicazione del Monte dei Paschi di Siena: la traiettoria innaturale del corpo che rovinava al suolo dalla finestra del suo ufficio della banca, la modifica del luogo della presunta colluttazione, le ferite su viso e corpo riconducibili ad un aggressione, la mancanza di analisi sui vestiti, i tabulati telefonici e le telecamere della zona (che comprendono la sequenza in cui una persona compare sullo sfondo nel vicolo in cui agonizza Rossi dopo la caduta, e poi va via).  In una nota del 25 ottobre 2017, il presidente del Tribunale senese Roberto Carrelli Palombi e il Procuratore capo Salvatore Vitello, hanno risposto ai dubbi sollevati da Le Iene. I vestiti in particolare "non sono stati sequestrati" e "non potevano essere da questa distrutti". Ancora: “Non appaiono avere avuto un ruolo determinante nella ricostruzione dell’evento". Circa i segni di violenza sul corpo e il viso di David Rossi, per la Procura "si può dire che non vi è stato un accertamento medico-legale adeguato" sebbene "nella seconda relazione non sussistono dati certi su genesi e natura e si formula l’ipotesi di uno strisciamento con un oggetto affilato ma non tagliente". Perciò l'ipotesi di aggressione e omicidio "non ha elementi circostanziali o biologici che la supportino". Quella ufficiale, relativa al suicidio "è supportata da elementi, seppur non scientificamente dirimenti, comunque maggiormente suggestivi da un punto di vista medico legale". Inoltre, per il Tribunale e la Procura la "pessima qualità del filmato di videosorveglianza" non ha permesso di ottenere elementi utili per le indagini sulla morte di David Rossi. Archiviata poi per due volte come suicidio. 

Il dissesto della Banca. La morte di David Rossi arrivò al culmine di un periodo di grande tensione per Monte dei Paschi di Siena. Sotto la presidenza di Giuseppe Mussari, poi dimissionario nel 2013, fu perfezionato l'acquisto di Banca Antonveneta per 10 miliardi di euro, poi oggetto di indagine della Procura di Siena per i reati di aggiotaggio e ostacolo alle indagini di vigilanza. In una inchiesta, il quotidiano La Stampa parlò di una "una truffa, estero su estero, che vale all'incirca 1,2-1,5 miliardi". Fu poi Il Fatto Quotidiano a dare la notizia di un accordo segreto siglato nel 2009 i vertici di Mps presieduti da Mussari e quelli della banca giapponese Nomura per una ristrutturazione del debito di Mps per centinaia di milioni di euro. Montepaschi era esposta dopo l'acquisto dei derivati finanziari Alexandria e Santorini, e Nomura propose di scambiarli in cambio di derivati emessi dall'istituto giapponese, fatto che ha creato un buco stimato in 740 milioni di euro nei conti della banca senese. Il 4 marzo 2013 David Rossi in una mail inviata all'allora amministratore delegato di Mps, Fabrizio Viola, manifestava la volontà di voler parlare con i magistrati di come era stata gestita la banca. Due giorni dopo volava dalla finestra del suo ufficio, nella sede centrale dell'istituto. 

David Rossi, nuova querela a Le Iene da parte dei pm di Siena, scrive il 3 aprile 2018 "Le Iene". Dopo la messa in onda dell’ultimo servizio di Antonino Monteleone, una nuova querela alla nostra trasmissione. I magistrati di Siena querelano Le Iene dopo l’ultimo servizio di Antonino Monteleone sulla morte di David Rossi, andato in onda domenica 25 marzo. Nel servizio la Iena ha raccolto la testimonianza di un escort che avrebbe partecipato ai festini a luci rosse nel Senese, per “ospiti di alto profilo”. Fra questi politici e magistrati di alto livello, che avrebbero potuto condizionare le indagini sulla morte di David Rossi (i partecipanti potrebbero essere stati infatti ricattabili).  Secondo i pm, nonostante le foto mostrate da Monteleone fossero tutte oscurate e non fosse emerso alcun nome completo, si sarebbe comunque intuito a chi la nostra Iena faceva riferimento. Già pochi giorni dopo la messa in onda del servizio, il materiale de Le Iene era stato acquisito dalla procura di Genova, che aveva inoltre inserito nel registro degli indagati l’ex sindaco senese Pierluigi Piccini e gli autori de Le Iene. Dopo le dichiarazioni dell’ex sindaco, raccolte da Le Iene e andate in onda l’8 ottobre 2017, la procura di Genova aveva aperto due nuove indagini, una per abuso d’ufficio e una per diffamazione. L’ex sindaco faceva riferimento proprio a presunti festini che si sarebbero svolti “in una villa fra Siena e Arezzo”. David Rossi era il capo dell’area comunicazione del Mps. Il 6 marzo 2013 è volato da una finestra della sede centrale della banca. La sua morte viene archiviata come suicidio. La famiglia crede invece alla tesi dell’omicidio. La Iena Antonino Monteleone ha seguito la vicenda con molti servizi, che vi riproponiamo qui sotto e che hanno portato alla riapertura del caso. Molti dubbi restano aperti sulla morte di David Rossi: la sua caduta anomala, le ferite del corpo riconducibili a un’aggressione precedente, la mancanza di analisi sui suoi vestiti, sui tabulati telefonici e sulle telecamere della zona e sulla figura di una persona che si vede comparire nel vicolo dove David Rossi è morto dopo 22 minuti di agonia, in uno dei pochi filmati a disposizione. L’escort ha raccontato di rapporti sessuali avuti da lui o da altri escort ai festini almeno con un noto imprenditore senese, un sacerdote con un ruolo di rilievo nella Diocesi, un pubblico ministero, un altro magistrato, un giornalista e un importante personaggio politico della città. Alle feste sarebbe stato presente anche un ex ministro. L’escort ha ammesso di aver paura, in particolare dopo la morte di David Rossi, che non ha mai incontrato a quelle feste e che teme sia stato “scaraventato dalla finestra”. L’escort non conosceva cognomi e ruoli dei vari personaggi, che ha però riconosciuto nelle foto mostrategli da Antonino Monteleone. Non abbiamo rivelato i nomi di un racconto comunque clamoroso, che abbiamo cercato più volte di mettere in discussione. L’escort crede anche che gli incontri sessuali fossero videoregistrati (un elemento che aumenterebbe il rischio di ricatto per le persone coinvolte). 

Siena, indagine del Csm sui festini e la morte di David Rossi. Dopo il servizio della trasmissione tv le "Iene" arriva l'inchiesta conoscitiva del Consiglio superiore della magistratura, scrive il 29 marzo 2018 "La Repubblica”. ll comitato di Presidenza del Csm, su richiesta del consigliere Ardituro, ha incaricato la prima Commissione, presieduta dal laico Antonio Leone, di avviare un'indagine conoscitiva sulle vicende oggetto dell'inchiesta giornalistica delle Iene, andata in onda domenica scorsa e ripresa dalla stampa. Il servizio delle Iene riguardava la morte dell'ex capo comunicazione di Mps David Rossi, precipitato da una finestra il 6 marzo 2013, e la vicenda di presunti di presunti festini a cui avrebbero preso parte anche magistrati e imprenditori. Il video è già stato acquisito dalla procura di Genova che ha aperto un fascicolo a carico dei colleghi di Siena. La prima commissione del Csm ha inoltre chiesto oggi, nell'ambito delle pratiche già aperte sul caso Mps, informazioni al procuratore generale di Firenze, Marcello Viola. Presso la prima commissione del Csm, infatti, sono già pendenti da ottobre una pratica aperta su richiesta dell'ex componente laico Pierantonio Zanettin, da poco eletto in parlamento, che chiedeva di "valutare eventuali profili di incompatibilità ambientale o funzionale" a carico dei vertici del tribunale e della procura di Siena; e una "pratica a tutela" dei magistrati senesi chiesta dal presidente della Corte d'Appello di Firenze, Margherita Cassano, e dal procuratore generale, Marcello Viola. Le Iene, nella puntata andata in onda domenica, hanno intervistato anche un gigolò che ha riferito di festini a cui avrebbero preso parte magistrati, imprenditori, politici, manager che sarebbero collegati alla banca affermando di avere numeri di telefono, pagamenti, mail che comprovano le sue affermazioni.

Il ragazzo-escort: "Ai festini David Rossi non c'era", scrive il 5.04.2018 "Il Corriere di Siena". "Non ho mai incontrato David Rossi ai festini". E' quanto ha ripetuto il ragazzo-escort nel corso del faccia a faccia con Carolina Orlandi, figlia acquisita di David, nel corso dell'incontro tra i due mandato in onda da Le Iene nella trasmissione del 4 aprile 2018. A precisa domanda della ragazza, il giovane ha risposto che alle feste in cui lui si prostituiva non ha mai visto l'ex manager di Banca Monte dei Paschi di Siena. Lo avrebbe soltanto sentito nominare "...due anni prima che io avevo appena iniziato ad andare a Siena, ma tranquillamente". Il 26enne ha anche aggiunto che dopo la morte di David tutti erano molto più agitati. Nel corso della trasmissione per la seconda volta in pochi giorni il ragazzo-escort ha indicato, attraverso fotografie mostrate dal cellulare della stessa Carolina, quelli che a suo avviso erano alcuni dei partecipanti alle cene che terminavano con festini a base di sesso. Ha ribadito inoltre che la maggior parte degli incontri si svolgeva in Toscana, nel Senese, in particolare a Monteriggioni e ha guidato telefonicamente la iena Antonino Monteleone alla ricerca di quella che a suo avviso era una delle location dei festini. L'ha definita una specie di "...tenuta con una parte centrale e alloggi sparsi nel parco molto distanti tra loro". Le iene hanno raggiunto quella che secondo il testimone era una delle location degli incontri, hanno cercato di parlare telefonicamente con il proprietario ma senza successo.

Mps, la figlia di David Rossi incontra l’escort dei festini, scrive il 4 aprile 2018 "Le Iene". Dopo il racconto dei festini a base di sesso e droga a Siena, abbiamo fatto nuove verifiche, tra la famiglia e una proprietà misteriosa a Monteriggioni. Il nostro servizio di domenica 25 marzo è diventato un caso giudiziario e politico nazionale e noi de Le Iene continuiamo con le nostre verifiche. Un escort ci ha raccontato di aver partecipato ai festini a luci rosse nel Senese, per “ospiti di alto profilo”. Fra questi ci sarebbero stati politici e magistrati di alto livello, che avrebbero potuto condizionare le indagini sulla morte di David Rossi perché i partecipanti avrebbero potuto essere ricattabili. La Iena Antonino Monteleone ha fatto incontrare l’escort con la figlia acquisita di David, Carolina Orlandi, in un momento di comprensibile alta tensione emotiva e ripercorre con lui i giorni della morte di Rossi (compreso il riferimento a un omicidio avvenuto due giorni prima). Abbiamo incontrato anche la mamma di Carolina, Antonella Tognazzi. Siamo andati anche alla ricerca di una delle ville teatro dei festini, nei dintorni di Monteriggioni. Stasera vedrete cosa abbiamo scoperto. Ieri intanto a Le Iene è arrivata una nuova querela dai magistrati di Siena. Già pochi giorni dopo la messa in onda del servizio, il materiale de Le Iene era stato acquisito dalla procura di Genova, che aveva inoltre inserito nel registro degli indagati l’ex sindaco senese Pierluigi Piccini e gli autori de Le Iene. Dopo le dichiarazioni dell’ex sindaco, raccolte da Le Iene e andate in onda l’8 ottobre 2017, la procura di Genova aveva aperto due nuove indagini, una per abuso d’ufficio e una per diffamazione. L’ex sindaco faceva riferimento proprio a presunti festini che si sarebbero svolti “in una villa fra Siena e Arezzo”. Anche il Csm, dopo l'ultimo nostro servizio, sta indagando sul caso. David Rossi era il capo dell’area comunicazione del Mps. Il 6 marzo 2013 è volato da una finestra della sede centrale della banca. La sua morte viene archiviata come suicidio. La famiglia crede invece alla tesi dell’omicidio. La Iena Antonino Monteleone ha seguito la vicenda con molti servizi, che vi riproponiamo qui sotto e che hanno portato alla riapertura del caso. Molti dubbi restano aperti sulla morte di David Rossi: la sua caduta anomala, le ferite del corpo riconducibili a un’aggressione precedente, la mancanza di analisi sui suoi vestiti, sui tabulati telefonici e sulle telecamere della zona e sulla figura di una persona che si vede comparire nel vicolo dove David Rossi è morto dopo 22 minuti di agonia, in uno dei pochi filmati a disposizione. L’escort ha raccontato di rapporti sessuali avuti da lui o da altri escort ai festini almeno con un noto imprenditore senese, un sacerdote con un ruolo di rilievo nella Diocesi, un pubblico ministero, un altro magistrato, un giornalista e un importante personaggio politico della città. Alle feste sarebbe stato presente anche un ex ministro. L’escort ha ammesso di aver paura, in particolare dopo la morte di David Rossi, che pensa sia stato “scaraventato dalla finestra”. L’escort non conosceva cognomi e ruoli dei vari personaggi, che ha però riconosciuto nelle foto mostrategli da Antonino Monteleone. Non abbiamo rivelato i nomi di un racconto comunque clamoroso, che abbiamo cercato più volte di mettere in discussione, anche con quanto vedrete in onda stasera. L’escort crede anche che gli incontri sessuali fossero videoregistrati (un elemento che aumenterebbe il rischio di ricatto per le persone coinvolte).

DAVID ROSSI, MPS. Video, escort a Carolina Orlandi: “A quei festini erano agitati dopo la sua morte” (Le Iene). David Rossi, Mps: nuovo servizio de Le Iene, video. La figlia Carolina Orlandi incontra l'escort dei festini a luci rosse, mentre Antonino Monteleone cerca una villa nel Senese, scrive il 5 Aprile 2018 Silvana Palazzo su "Il Sussidiario". Carolina Orlandi, figlia di David Rossi, ha incontrato l’uomo che avrebbe partecipato ai festini a luci rosse vicino Siena. Sotto la supervisione della Iena Antonino Monteleone, la figlia dell’ex responsabile della comunicazione Mps si è confrontata con l’escort che ha confermato di essersi prostituto in quei festini. La Orlandi gli ha mostrato alcune foto di personaggi di primo piano che sono stati riconosciuti come partecipanti ai festini, ma ha soprattutto chiesto se David Rossi avesse mai partecipato a quegli eventi, scenario escluso dall’escort. Il 26enne ha però aggiunto che dopo la morte di David Rossi tutti erano molto più agitati. La Iena ha poi individuato la villa che sarebbe stata teatro degli incontri, nei dintorni di Monteriggioni, grazie alle indicazioni del testimone in videochiamata, ma parlare con i responsabili della struttura è stata un’impresa vana. (agg. di Silvana Palazzo) Le Iene continua a trattare il caso relativo alla morte di David Rossi, nonostante il servizio di domenica 25 marzo sia diventato un caso giudiziario e politico. Il programma di Italia 1 continua le sue verifiche dopo aver intervistato un escort che ha raccontato di aver partecipato a festini a luci rosse nel Senese con ospiti di alto profilo, tra cui politici e magistrati di alto livello che avrebbero potuto condizionare le indagini sulla morte del capo dell’area comunicazione di Mps. La Iena Antonino Monteleone ha fatto incontrare l’escort con Carolina Orlandi, figlia acquista di David Rossi. Ma Le Iene per il servizio che verrà trasmesso nella puntata di oggi, mercoledì 5 aprile 2018, ha sentito anche la mamma di Carolina, Antonella Tognazzi, compagna di David Rossi. Per la nuova puntata è stata effettuata anche una ricerca di una delle ville dove sarebbero stati organizzati i festini, nei dintorni di Monteriggioni. Cosa hanno scoperto Le Iene? Il caso David Rossi continua a far discutere. Ieri a Le Iene è stata notificata una nuova querela dai magistrati di Siena. Già pochi giorni dopo la messa in onda dell’ultimo servizio, il materiale era stato acquisito dalla procura di Genova, che peraltro aveva inserito nel registro degli indagati l’ex sindaco senese Pierluigi Piccini e gli autori del programma di Italia 1. La procura di Genova aveva aperto due indagini, una per abuso d’ufficio e una per diffamazione. Anche il Csm però dopo l’ultimo servizio de Le Iene sta indagando sul caso. Dei presunti festini a luci rosse nel Senese e del loro possibile collegamento con la morte di David Rossi si sta occupando in particolare la prima commissione del Csm con un’indagine conoscitiva sulle vicende oggetto dell’inchiesta de Le Iene. A proposito del racconto dell’escort, il programma sul suo sito ha scritto: «Non abbiamo rivelato i nomi di un racconto comunque clamoroso, che abbiamo cercato più volte di mettere in discussione, anche con quanto vedrete in onda stasera».

Caso Rossi, il gigolò conferma. E indica la villa dei festini hard. La nuova puntata dell'inchiesta sulla morte di David Rossi, ex capo della comunicazione di Mps. Le Iene seguono le indicazioni del gigolò per raggiungere una presunta villa dei festini, scrive Claudio Cartaldo, Sabato 07/04/2018, su "Il Giornale". Ancora David Rossi. E ancora una volta Le Iene che dedicano un servizio alla morte, tra mille interrogativi, dell'ex capo della comunicazione di Monte dei Paschi di Siena. Questa volta Antonino Monteleone ha fatto incontrare la figlia di Rossi, Carolina Orlandi, con l'ex escort dei presunti festini gay che si sarebbero svolti in Toscana (e non solo) e a cui avrebbero partecipato personalità influenti a Siena. Tra cui anche alcuni magistrati e politici. A raccontare per primo questi fatti era stato l'ex sindaco di Siena Pierluigi Piccini, e la vicenda è stata confermata da un ragazzo che, dietro anonimato, ha rivelato alle Iene non solo cosa si facesse ai festini omosessuali, ma anche quali influenti persone erano coinvolte e che avrebbero consumato rapporti sessuali con lui. Secondo Piccini le indagini sulla morte di David Rossi sarebbero state "fatte male" perché altrimenti sarebbe scoppiata una "bomba" su questi presunti festini. Dopo quelle dichiarazioni, sia Le Iene che il sindaco (e sul giornalista del Fatto, Davide Vecchi) si sono stati indagati. Monteleone, come annunciano oggi Le Iene sul loro sito, è stato sentito dalla procura di Siena in merito al processo per diffamazione aperto dopo il servizio con le dichiarazioni dell'ex sindaco. “Ho dato elementi utili per le indagini. Ma è stato tutto secretato e non posso dire altro", commenta Monteleone. “Non abbiamo l'ambizione di potere avere un ruolo decisivo nell'inchiesta, ma abbiamo fornito elementi utili”. L'inviato recisa che ha tutelato “l'anonimato della fonte” e non ha rivelato “l'identità delle persone mostrate nelle foto”. A confermare, però, i fatti ci sono le parole del presunto ex gigolò dei festini. Le Iene lo hanno fatto incontrare con la figlia di David Rossi. Carolina Orlandi mostra all'ex gigolò la foto di un ex di MpS, amico di Rossi, e di altri. Il gigolò conferma alcuni dei volti che sarebbero stati ai dopocena. Poi, nega che David Rossi abbia mai preso parte alle cene. "Ho sentito parlare di lui una volta due anni prima che io avevo iniziato ad andare a Siena, ma tranquillamente". Monteleone poi si dirige in una delle ville in cui si sarebbero svolti questi festini. Raggiunto il posto (e riconosciuto dal gigolò), la Iene tenta di contattare il direttore della struttura. Il quale però nega che gruppi organizzati e aziendali abbiano mai affittato la villa (ristorante e camere) per eventi simili. Il proprietario della struttura, però, non risponde alle telefonate dell'inviato di Italia1. Il gigolò poi racconta di come si sia appesantita l'aria a quegli incontri dopo la morte di David Rossi. "Ne ho sentito parlare - dice - mi ricordo che in quei giorni c'era stato un po' di agitazione. Perché era morta una ragazza". Si tratta di una prostituta colombiana, trovata morta a Siena due giorni prima della morte dell'ex capo della comunicazione di Mps. La prostituta venne trovata esanime non lontano dalla sede della banca e dal vicolo dove è caduto Rossi dopo essere volato dalla finestra. "Si pensava fosse una ragazzo del giro e quindi l'aria era tesa - racconta il gigolò - dopo la notizia della morte di David l'aria era diventata molto più tesa. Era una tensione percepibile nelle persone. Si tagliava col coltello". Poi il gigolò prova a ipotizzare il motivo per cui i festini potrebbero avere un collegamento con la morte di Rossi: "Magari i soldi con i quali venivano finanziati in parte uscivano dal Monte dei Paschi". E per Carolina Orlandi ci sarebbe un'altra spiegazione: Rossi in una mail inviata ai colleghi aveva espresso il desiderio di andare alla magistratura. "Forse voleva tirare fuori tutto", dice la figlia. Anche la storia dei festini.

Festini, bomba Iene: rivelazioni choc della moglie di un uomo ai vertici delle istituzioni, scrive l'11.04.2018 "Il Corriere di Siena". Nuove rilevazioni choc nella trasmissione delle Iene in onda questa sera (11 aprile) su Mediaset in merito all'inchiesta sulla morte di David Rossi, già capo della comunicazione di Banca Monte dei Paschi di Siena, morto in circostanze ancora da chiarire dopo essere precipitato dalla finestra del suo ufficio cinque anni fa. Seguendo la traccia dei festini a base di sesso e droga, gli inviati di Italia Uno hanno raccolto la testimonianza di una donna, che sarebbe la moglie di una alta carica dello Stato a Siena negli anni dello scandalo Mps. La donna avrebbe parlato dei festini e delle escort, di cui la trasmissione si sta occupando da settimane. “La mia vita è cambiata dal 2012 in poi perché un giorno, riponendo delle camicie in un armadio di mio marito ho trovato degli oggetti particolari di una sessualità alla "50 sfumature grigio". Ho trovato manette, biancheria di pelle, un frustino”, comincia così il racconto della donna, come si legge sul sito delle Iene. Il sito anticipa che la donna racconta il proprio punto di vista privilegiato su quanto è accaduto in quegli anni a Siena e su come è cambiata la sua vita, il suo matrimonio e anche il modo di comportarsi e il lavoro del marito. 

Caso David Rossi, la moglie di un vertice dello Stato conferma i festini hard a Siena. La nuova rivelazione delle Iene sul caso Rossi, scrive Luca Romano, Mercoledì 11/04/2018, su "Il Giornale".  Le Iene vanno avanti sul caso di David Rossi, capo della comunicazione di Monte dei Paschi di Siena, volato da una finestra della sede storica della banca a Siena il 6 marzo 2013. La sua morte è stata archiviata dal Tribunale di Siena, per due volte, come suicidio. Una nuova testimonianza sul caso dei festini a base di sesso e droga a cui partecipavano magistrati, banchieri e personaggi di alto livello nel Senese è stata raccolta dall'inviato Antonino Monteleone. Nel servizio, in onda stasera a Le Iene, è “la moglie di una persona che, negli anni in cui David Rossi è morto, a Siena occupava un ruolo molto importante nei vertici dello Stato”. A spingerla a collaborare con l’inchiesta che Le Iene stanno portando avanti da mesi sono state in particolare le parole dell’ex sindaco di Siena, Pierluigi Piccini mandate in onda da Le Iene l’8 ottobre 2017, in cui si parlava per la prima volta di questi festini. "La mia vita è cambiata dal 2012 in poi perché un giorno, riponendo delle camicie in un armadio di mio marito ho trovato degli oggetti particolari di una sessualità alla ’50 sfumature grigio’. Ho trovato manette, biancheria di pelle, un frustino”, racconta la donna, le cui parole potrebbero essere un importante riscontro a quanto ha raccontato, nel servizio del 25 marzo scorso, un escort che avrebbe partecipato a questi festini con ospiti “di alto profilo”. Tra i partecipanti ci sarebbero stati ex manager della Banca Mps, politici e magistrati. Questa circostanza – così come ipotizzato dall’ex Sindaco di Siena Pierluigi Piccini – avrebbe potuto condizionare le indagini sulla morte di David Rossi? l gigolò ha raccontato di rapporti sessuali avuti da lui (o da altri escort) ai festini con una serie di personalità di rilievo. L'inviato de Le Iene gli ha mostrato una serie di fotografie nelle quali il giovane avrebbe riconosciuto un noto imprenditore senese, un sacerdote, due magistrati, un giornalista e un importante personaggio politico della città. Alle feste, sempre secondo il racconto del gigolò, sarebbe stato presente anche un ex ministro della Repubblica. Ha inoltre confessato di provare molta paura, in particolare dopo la morte di David Rossi, che potrebbe essere stato “scaraventato dalla finestra”, perché alcuni dei partecipanti sarebbero stati personaggi da temere. Stasera andrà in onda una parte inedita dell’intervista del giovane escort in cui riconosce in una foto privata che ritrae una decina di persone uno dei partecipanti ai festini. E questa persona è proprio il marito della donna intervistata da Monteleone.

David Rossi. Video Le Iene, rivelazioni choc: moglie di un uomo ai vertici delle Istituzioni conferma festini. David Rossi, Mps: nuovo servizio de Le Iene. Intervista choc alla moglie un uomo ai vertici delle istituzioni a Siena che avrebbe preso parte ai festini confermati dall'escort, scrive l'11 Aprile 2018 Emanuela Longo su "Il Sussidiario". La trasmissione Le Iene continua la sua ricerca della verità in merito al caso di David Rossi, capo dell’area comunicazione di Mps morto il 6 marzo 2013, dopo essere volato dalla finestra della sede storica della banca presso la quale lavorava, a Siena. Il programma di Italia 1 ha annunciato la messa in onda, in programma per la puntata odierna, di una nuova testimonianza choc raccolta come sempre da Antonino Monteleone. A parlare, come anticipato, sarà "la moglie di una persona che, negli anni in cui David Rossi è morto, a Siena occupava un ruolo molto importante nei vertici dello Stato". La donna avrebbe deciso di rompere il silenzio dopo le parole di Pierluigi Piccini, ex sindaco di Siena, trasmesse dalla stessa trasmissione l'8 ottobre scorso ed in cui per la prima volta parlava di questi festini hard. Si tratta di un racconto particolarmente forte sin dall'esordio: "La mia vita è cambiata dal 2012 in poi perché un giorno, riponendo delle camicie in un armadio di mio marito ho trovato degli oggetti particolari di una sessualità alla ’50 sfumature grigio’. Ho trovato manette, biancheria di pelle, un frustino". La testimone spiegherà come, da quel momento, la sua vita cambiò, compreso il suo matrimonio. L'intervista si pone davvero clamorosa per via dei possibili collegamenti con la vicenda legata alla morte di David Rossi. La nuova testimonianza annunciata per la serata odierna nell'ambito del servizio sulla morte misteriosa di David Rossi arriva esattamente a distanza di poco più di due settimane dalle dichiarazioni di un escort che proprio ai microfoni di Antonino Monteleone avrebbe fatto nuova luce sui presunti festini a luci rosse con ospiti "di alto profilo". Ora, le parole della donna andrebbero in qualche modo a rappresentare un ulteriore riscontro al racconto del giovane, secondo il quale avrebbero preso parte a queste "cene" particolari anche ex manager di Mps, politici e magistrati importanti. Proprio questo aspetto potrebbe aver potuto condizionare le indagini sulla morte di David Rossi? Certo è che dopo la morte misteriosa del capo dell'area comunicazione di Mps, lo stesso escort intervistato da Le Iene ha ammesso di avere molta paura. Lo stesso aveva accettato nei giorni scorsi di incontrare la figlia di David, Carolina Orlandi, alla quale l'uomo ha confermato, guardandola negli occhi, quanto avveniva nel corso dei festini ai quali però non avrebbe mai partecipato Rossi. Questa sera, secondo le anticipazioni del programma, sarà trasmesso un ulteriore filmato inedito dell'intervista all'escort, in cui avverrà un importante riconoscimento avvenuto attraverso una foto privata (dunque non presente su Google né in alcun archivio di un'agenzia fotografica) in cui sono immortalate una decina di persone, tra cui una in particolare avrebbe preso parte ai festini. Si tratta del marito della donna intervistata in precedenza, circostanza di cui l'escort non poteva essere a conoscenza poiché le interviste sono avvenute in periodi differenti. 

Nella puntata de “Le Iene Show” in onda oggi, mercoledì 11 aprile, in prima serata su Italia 1, Antonino Monteleone torna ad occuparsi della vicenda della morte di David Rossi, scrive l'11 aprile 2018 agenzia giornalistica Opinione (lancio d'agenzia). L’inviato incontra, in esclusiva, una donna che si presenta come “moglie di una persona che a Siena occupava un ruolo molto importante nei vertici dello Stato” che rilascia alcune dichiarazioni dopo aver seguito l’intervista all’ex sindaco di Siena ed ex dirigente MPS Pierluigi Piccini.

Nella puntata de “Le Iene” dell’8 ottobre 2017, Antonino Monteleone aveva intervistato Piccini, il quale – tra le altre cose – aveva affermato: «Non credo che David Rossi si sia suicidato […] C’è un’altra storia parallela… un avvocato romano mi ha detto […] “devi indagare su alcune ville fra l’aretino e il mare… e i festini che facevano lì. Perché la magistratura potrebbe anche avere abbuiato tutto perché scoppia una bomba morale”. Non so se mi sono spiegato? […] Questo avvocato romano mi ha detto: “C’è una villa fra Siena e Arezzo e c’è una villa al mare, dove facevano i festini”. Chi andava in queste feste? Chi ci andava? Ci andavano anche i magistrati senesi ad esempio? Mah. Ci andava qualche personaggio nazionale? Mah. […] La cocaina gira a fiumi in questa città».

Nella puntata del 25 marzo, inoltre, l’inviato aveva raccolto le parole di un uomo che affermava di aver partecipato come escort a feste o cene private. Questi spiegava com’erano organizzate le serate: «La maggior parte delle volte c’erano delle cene, poi quando finiva la cena diciamo che avveniva una sorta di selezione. Dopo noi sapevamo che dovevamo andare con una determinata persona». Le feste, proseguiva l’uomo, avevano lo scopo «di intrattenere degli ospiti di alto profilo che avevano una certa importanza per le persone che le organizzavano». L’ex escort aveva anche affermato: «Le persone con cui sono stato magari possono farmi qualcosa, possono farmi del male, possono trovarmi». Nelle foto mostrategli dalla Iena, infine, l’uomo aveva riconosciuto – come presunti partecipanti alle serate, tra cena e dopocena – un ex ministro, un ex dirigente della Banca, due magistrati, un imprenditore, un politico, un giornalista e un importante sacerdote.

Nel servizio in onda questa sera, viene mostrata una parte inedita dell’intervista all’ex escort: Monteleone gli mostra una foto privata che ritrae circa dieci persone, chiedendogli di riconoscere eventuali partecipanti alle feste. Tra tutti, l’uomo riconosce solo una persona, che sarebbe proprio il marito della donna intervistata nella puntata odierna. L’ex escort dice di averlo visto a una cena e che non è mai stato suo cliente. Nell’intervista di Antonino Monteleone, in onda questa sera, la donna racconta di come la sua vita familiare sarebbe cambiata nel 2012, dopo il ritrovamento, nell’armadio del marito, di “manette, biancheria di pelle e un frustino”. La donna sostiene che il coniuge potrebbe aver avuto rapporti con persone coinvolte nelle indagini sulla morte di David Rossi, per amicizia o rapporti di frequentazione; e che, dopo la morte del Capo Comunicazione MPS, l’uomo avrebbe cambiato incarico, cosa che sarebbe avvenuta in modo “molto veloce”. Di seguito, l’intervista alla donna.

Iena: Perché ha deciso di parlare con noi?

Donna: Perché ho visto in televisione una vostra intervista riguardo la morte di David Rossi e io sono stata una testimone in parte di alcune vicende che hanno influito sulla mia vita.

Iena: Le posso chiedere a quale intervista si riferisce?

Donna: Un’intervista in cui si parlava della morte di David Rossi ed era collegato a una serie di feste che venivano fatte dalla Siena bene e a cui partecipavano alti personaggi e anche esponenti dello Stato.

Iena: Lei perché crede di essere coinvolta rispetto alle rivelazioni che ha fatto l’ex sindaco Piccini?

Donna: Perché sono la moglie di una persona che, negli anni in cui David Rossi è morto, a Siena occupava un ruolo molto importante nei vertici dello Stato.

La mia vita è cambiata dal 2012 in poi perché un giorno, riponendo delle camicie in un armadio, ho trovato oggetti particolari, di una sessualità “50 sfumature di grigio”…

Iena: Le posso chiedere che cosa ha trovato nello specifico?

Donna: Ho trovato manette, biancheria di pelle, un frustino…

Iena: Ma queste manette erano senza nulla o…

Donna: No, c’erano le mutande arrotolate…

Iena: Delle mutande arrotolate alle manette?

Donna: Hmm, sì, non mi chieda perché, perché la mia mente non riesce ad arrivare… e quando chiesi conto di questi oggetti a mio marito, mi fu risposto che non erano affari miei, che io non dovevo permettermi di fare una perquisizione nei suoi armadi.

Iena: Le posso chiedere se il ritrovamento di questo tipo di oggetti fosse anche disdicevole in funzione dell’incarico che svolgeva in quegli anni a Siena?

Donna: Secondo il mio punto di vista, sì.

Iena: Lei ha mai saputo di festini a Siena prima di vedere l’intervista all’ex sindaco Piccini?

Donna: Mi era stato suggerito dalla moglie di un collega di mio marito, che viveva da più di 20 anni a Siena, che a casa di un dirigente del Monte Paschi era un vero e proprio puttanaio.

Iena: Le posso chiedere il nome?

Donna: No, non lo voglio fare il nome.

Iena: Si ricorda dove si trovava il cosiddetto puttanaio, questa casa del dirigente?

Donna: Sì, affacciava proprio su […].

Iena: Quando la moglie del collega di suo marito le fa questa rivelazione, lei lo fa presente a suo marito?

Donna: Sì, e lui si fece una risata, mi disse che erano pettegolezzi di una cittadina di provincia dove non si sapeva come trascorrere il tempo.

In quegli anni mio marito è cambiato moltissimo, io non riuscivo proprio più a riconoscerlo. Noi avevamo anche smesso di avere dei normali rapporti sessuali di una coppia, sposata da tantissimi anni, con delle richieste un po’ particolari che a me non piacevano.

Iena: Stiamo parlando di percosse, sesso violento?

Donna: Un sesso molto più aggressivo. Una volta mi mise una mano sulla bocca dicendo che se respiravo più a fatica avrei sicuramente provato più piacere. Io mi sono scansata violentemente e gli ho detto “tu non stai bene, sei pazzo”.

Iena: Lei mi sta dicendo che, da quando suo marito era stato per ragioni lavorative a Siena, aveva cambiato anche le sue attitudini sessuali.

Donna: Dal mio punto di vista sì, un po’ le attitudini sessuali…

Iena: Che ricordo ha di suo marito nei mesi precedenti alla morte di David Rossi?

Donna: Era molto molto nervoso. Era poco disponibile, non era incline a confidarsi con me. Lui aveva proprio una necessità fortissima di legarsi a qualcuno per poter proseguire la sua carriera. Però, a quel punto, ti leghi a dei personaggi che ti possono chiedere qualsiasi cosa e non credo che sia opportuno per un funzionario dello Stato.

Iena: Il lavoro di suo marito, a Siena, l’ha messo in contatto in qualche modo alla morte di David Rossi?

Donna: Penso di sì. Io ho anche conosciuto il signor Rossi a una delle feste date dal Monte Paschi dopo i Palii.

Iena: Lei sa se c’era un rapporto che andava fuori dal lavoro tra David Rossi e suo marito? Se si frequentavano, erano amici…

Donna: Noi andavamo a vedere spesso il Palio: quella volta c’era proprio David Rossi, si sono dati del tu in quell’occasione. Era il 2011 e ci riservarono proprio una stanzetta dove potevamo vedere il Palio.

Iena: A lei risulta che la sera della morte di David Rossi suo marito si trovava nelle vicinanze del luogo degli eventi?

Donna: Questo l’ho scoperto perché poi sono andata a documentarmi.

Iena: Vi siete sentiti quel giorno?

Donna: Sì, credo un paio di volte, mi ha sempre liquidata molto velocemente. Aveva molto da fare perché c’era stato un suicidio a Siena, quindi non era possibile chiacchierare. Negli ultimi mesi era agitato, era nervoso, era dimagrito tantissimo: le ripeto, non era più la persona che io conoscevo. Ho anche pensato che avesse incominciato a fare uso di cocaina o di altre sostanze. Era sempre molto alterato, molto nervoso.

Iena: L’eventuale partecipazione di suo marito a dei festini, in ragione della delicatezza del ruolo che svolgeva a Siena, l’avrebbe potuto esporre a un meccanismo di tipo ricattatorio?

Donna: Sicuramente è pericolosissimo. Non solo nel caso di mio marito: chiunque partecipa a certe situazioni imbarazzanti, se ha un ruolo pubblico è facilmente ricattabile.

Iena: Suo marito ha avuto a che fare con le indagini relative alla morte di David Rossi?

Donna: Dopo la morte di David Rossi, ho quasi completamente chiuso i rapporti con mio marito e tutto quello che posso sapere l’ho saputo dai giornali.

Iena: Per il tipo di incarico che aveva a Siena è verosimile pensare di sì o di no?

Donna: Sicuramente sì.

Iena: Le posso chiedere se suo marito aveva rapporti con le persone direttamente coinvolte nelle indagini sulla morte di David Rossi, per amicizia o rapporti di frequentazione?

Donna: Sì.

Iena: Successivamente alla morte di David Rossi, cambia qualcosa nella vita professionale di suo marito?

Donna: Sì.

Iena: Cosa succede?

Donna: Che lui cambia incarico.

Iena: Ha mai capito se il cambio di incarico di suo marito è stato un evento programmato o se ha in qualche modo qualche legame con gli eventi relativi alla morte di Rossi?

Donna: Allora, io rischio moltissimo e le posso dire che, per quello che mi riguarda, il mio pensiero è sì. Però questo lo negherò sempre… perché non ho la capacità di collegare eventi, fatti e situazioni. Mi dissero che ci fu una fortissima discussione, un giorno, e dopo poco tempo mio marito cambiò incarico.

Iena: Tra chi era questa discussione, suo marito e…?

Donna: Un alto vertice. Però questi possono anche essere dei pettegolezzi di una piccola città di provincia.

Iena: Il cambio di incarico di suo marito avviene in modo graduale o in modo improvviso?

Donna: Molto veloce. I precedenti cambi erano stati tutti cambi molto tranquilli, addirittura con feste, saluti… mi sto rovinando perché io sto raccontando la verità e mi sto esponendo tanto. Mio marito se ne andò quella notte. Di corsa.

Iena: La carriera di suo marito, con questo cambio di incarico, migliorava o peggiorava?

Donna: Era la pietra tombale su una carriera molto lunga.

Iena: Le cose che ci sta dicendo, ce le dice perché lei è spinta da un rancore personale? Sta un po’ calcando la mano perché è arrabbiata con suo marito?

Donna: No, io non sono neanche più arrabbiata, sono soltanto delusa, dispiaciuta.

Iena: Secondo lei suo marito custodisce dei segreti relativi alle più importanti vicende senesi degli ultimi anni?

Donna: Dal mio modestissimo punto di vista, sì.

La vicenda di David Rossi. David Rossi, capo della Comunicazione di Monte dei Paschi di Siena, la sera del 6 marzo 2013, è precipitato da una finestra della sede della banca a Rocca Salimbeni, nel capoluogo toscano. In quelle stesse settimane, MPS era al centro di una grande inchiesta basata sull’acquisizione di Antonveneta. Nel luglio 2017, il gip ha disposto l’archiviazione del fascicolo d’indagine aperto con l’ipotesi di reato d’istigazione al suicidio, accogliendo la richiesta avanzata dalla procura senese e respingendo così l’opposizione avanzata – nel novembre 2015 – dai legali della famiglia Rossi, da sempre convinti che si sia trattato di omicidio. È la seconda archiviazione in questa vicenda: una prima indagine si era chiusa nel marzo 2014. La moglie di David Rossi Antonella Tognazzi e la figlia della donna Carolina Orlandi, che non credono all’ipotesi del suicidio, sono da anni impegnate per far sì che si continui a indagare sulla morte dell’uomo. Dopo la messa in onda dei precedenti servizi de “Le Iene” sul caso, sono state aperte quattro nuove indagini: due presso la Procura di Genova (competente a indagare per fatti che riguardano i magistrati senesi) e due presso la Procura di Siena.

Mps, la morte di David Rossi: mistero delle prove distrutte, scrive Davide Vecchi il 10 ottobre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Il 6 marzo 2013, dopo aver avvisato la moglie che stava rientrando a casa, David Rossi, capo della comunicazione di Mps e da dieci anni braccio destro di Giuseppe Mussari, viene trovato morto nel vicolo sotto il suo ufficio. Per i magistrati di Siena titolari del fascicolo, Nicola Marini e l’aggiunto Aldo Natalini, è sin da subito un suicidio. Due anni dopo una nuova inchiesta avviata dal pm Andrea Boni ha portato alla luce le falle, le carenze della prima indagine con atti criticati anche dai periti nominati dalla Procura. Il libro “Il caso David Rossi, il suicidio imperfetto” (in libreria da giovedì 12 ottobre per Chiarelettere) ricostruisce l’intera vicenda proprio attraverso le carte delle inchieste per scoprire che il suicidio ipotizzato dai magistrati non è l’unico scenario possibile. Pubblichiamo un breve stralcio del testo relativo a uno dei numerosi errori commessi nel corso della prima fase delle indagini. Nel giugno 2013, ad appena tre mesi dalla morte di Rossi, gli inquirenti sono certi di avere tutti i riscontri necessari per affermare senza ombra di dubbio che si tratti di un suicidio. Per carità, l’avevano capito già la notte del 6 marzo del resto, già guardando il cadavere riverso al suolo. Tanto che ritenevano superflua anche l’autopsia. Con tutto quello che succede nelle mura di Mps e le conseguenze pesanti che si ripercuotono all’esterno – le inchieste che coinvolgono gli ex vertici, i miliardi di euro dilapidati, centinaia di lavoratori licenziati, squadra di calcio e di basket fallite, università, comune e decine di enti lasciati senza finanziamenti –; insomma, con tutto quello che ha preso avvio da Mps senza che si riescano a individuare i responsabili né prove sufficienti a incastrarli per il tracollo finanziario della banca più antica del mondo; con la cappa di riservatezza e segreti nascosti all’interno di Rocca Salimbeni: come non pensare che il manager legato al potentissimo Mussari e con ogni probabilità custode di molti segreti sia stato eliminato o spinto a uccidersi? Che domande. Questa è una tesi da romanzo giallo. A Siena, nella realtà, un uomo ricco, potente, noto e ritenuto custode di informazioni riservate, si uccide lanciandosi dalla finestra dell’ufficio pochi minuti dopo aver detto alla moglie che stava rientrando a casa. Ovvio. Forse. Sicuramente ovvio lo è per i magistrati. (…) Appena inizia la sospensione feriale depositano la richiesta di archiviazione. Per «feriale» s’intende il periodo di pausa che per legge considera i tribunali sostanzialmente «chiusi»: dal primo agosto al 15 settembre. Si tratta di una sospensione pensata con una ratio garantista nei confronti delle parti, in applicazione del più generale diritto di difesa. Ad agosto, si sa, ci sono le vacanze. Anche i senesi, come tutti, si allontanano dalla città, dalle loro abitazioni e dalla quotidianità. Proprio a tutela dei cittadini quindi, visto che i termini per presentare ricorso sono strettissimi – appena dieci giorni –, durante il mese di agosto questi vengono temporaneamente sospesi e decorrono tutti a partire dal 15 settembre successivo. Lo dice la legge. E così è nel 2013. I magistrati, sicuri che il caso Rossi sia un suicidio, chiedono l’archiviazione proprio il 2 agosto 2013. (…) Ma in quel periodo di vacanza avviene una cosa ben più grave: senza che le parti vengano avvisate, il 14 agosto Natalini dispone la distruzione dei reperti trovati nell’ufficio di Rossi, compresi sette fazzoletti di carta sporchi di sangue. Fazzoletti già repertati con estremo ritardo solamente il 14 giugno, seppur sequestrati il 7 marzo, ma soprattutto mai analizzati né presi in considerazione nel corso delle indagini. Non si sa ad esempio se il sangue sia del gruppo sanguigno di David o appartenga a qualcun altro, magari a un ipotetico aggressore. Si sarebbe potuti risalire comodamente anche al Dna, attraverso quei reperti: erano ben sette. I legali dei famigliari di David, ricorrendo contro l’archiviazione, avrebbero potuto chiedere che venissero sottoposti a esami specifici: oltre al gruppo sanguigno e al Dna, si sarebbe potuto verificare anche quale tipo di ferita avessero tamponato; la forma della macchia di liquido ematico impressa sui fazzoletti avrebbe potuto svelare molto. Qualsiasi esame aggiuntivo avrebbe fugato ogni futuro dubbio. Anche per la procura quei fazzoletti avrebbero potuto rappresentare un elemento fondamentale: il sangue poteva essere di David e le macchie potevano coincidere con le ferite che il manager aveva al polso. Ma non è stato possibile analizzarli. Perché i fazzoletti vengono decretati come da distruggere il 14 agosto (…) ed eliminati da «Ambrogio Antonini, funzionario giudiziario, e Alessandro Troiani, conducente automezzi» si legge nel verbale. Dei reperti fondamentali vengono così distrutti senza neanche metterne a conoscenza i famigliari. Distrutti senza attendere non solo il decorso dei termini per far presentare alla difesa un’eventuale opposizione alla richiesta d’archiviazione, ma neanche l’esaurirsi della feriale. Si scoprirà solo anni dopo”.

David Rossi, l’archiviazione del gip per suicidio. Ma restano dubbi e domande su tabulati, biglietti e ferite sul cadavere. Il manager del Monte dei Paschi di Siena non è stato né ucciso né istigato da altri a togliersi la vita secondo il giudice: si è gettato spontaneamente dalla finestra del suo ufficio del terzo piano di Rocca Salimbeni. Un caso, quello capo della comunicazione di Mps, amico e ombra dell'ex presidente, Giuseppe Mussari, che per molti ha ormai conquistato un capitolo nel libro delle morti misteriose della storia del nostro Paese, scrive Davide Vecchi il 27 luglio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". David Rossi non è stato né ucciso né istigato da altri a togliersi la vita. Il manager del Monte dei Paschi di Siena, la sera del 6 marzo 2013, si è gettato spontaneamente dalla finestra del suo ufficio del terzo piano di Rocca Salimbeni. Il gip del tribunale di Siena, Roberta Malavasi, ha messo così la parola fine al caso David Rossi, il capo della comunicazione di Mps, amico e ombra dell’ex presidente, Giuseppe Mussari. Un caso che per molti ha ormai conquistato un capitolo nel libro delle morti misteriose della storia del nostro Paese. In 57 pagine di motivazione del decreto di archiviazione, il gip Malavasi, ripercorre i passaggi dell’intera vicenda per sancire che seppur non vi sia “prova certa oltre ogni ragionevole dubbio della ricostruzione” della morte di David si deve ritenere un suicidio e non un omicidio per “ragionevole certezza”. Gli avvocati dei familiari di Rossi si sono visti rigettare la richiesta di nuove indagini e persino le nuove perizie di parte depositate ma hanno annunciato l’intenzione di proseguire nella ricerca di una verità. Secondo i legali Luca Goracci e Paolo Pirani, che difendono rispettivamente la vedova e i familiari di Rossi, sono ancora molte, troppe le falle della ricostruzione effettuata dalla procura e sposata dal gip. Di fatto è la seconda archiviazione sul caso Rossi. E questa seconda sottolinea molti degli errori commessi nella prima, avvenuta nel marzo 2014. Il giudice Monica Gaggelli commise alcune sviste errori, alcune delle quali sottolineate ora da Malavasi. Ad esempio l’ora della morte di Rossi: avvenuta alle 19.43e non, come sostenuto nella prima archiviazione, alle 20.12. Due testimoni sostennero di aver visto la porta dell’ufficio di David prima aperta e poi chiusa. Ebbene Gaggelli si spinse a certificare che alle 20, quando uno dei due testimoni passa di fronte alla porta, non vede David perché questo si era nascosto in bagno. In realtà era già cadavere in vicolo di Monte Pio. Malavasi, invece, conclude che la porta era aperta e poi è stata trovata chiusa perché “basta alle volte una folata di vento entrata da una finestra aperta”. Poche righe dopo però ricorda come nessuno abbia sentito alcun rumore.

Insomma i dubbi su quanto avvenuto la notte del 6 marzo 2013 rimangono ancora molti. Malavasi sottolinea la carenza di prove a carico di un ipotetico omicidio, ma tra le righe di queste 57 pagine è scritto che in realtà c’è stata una carenza di indagini iniziali. Persino reperti fondamentali, come i vestiti o i fazzoletti di carta sporchi di sangue rinvenuti nell’ufficio di David, non sono mai stati analizzati e anzi sono stati distrutti dai pm. O l’acquisizione dei tabulati per capire chi era presente nella sede di Mps e nel vicolo dove David è stato trovato morto, è stata richiesta solamente pochi mesi fa ottenendo per risposta dagli operatori telefonici una comunicazione ovvia: “Non è possibile adempiere alla richiesta perché come previsto dalla legge i tabulati vengono conservati per 24 mesi”. Di fatto Malavasi scrive che oggi ulteriori indagini “si preannunciano superflue”.

Va detto che il gip ha tenuto conto di alcune delle contestazioni sollevate dai legali dei familiari di David, in particolare quelle relative alle conclusioni dei periti nominati dai magistrati, il colonnello del Ris Davide Zavattaro e il medico legale Cristina Cattaneo, in particolare per quanto riguarda la ricostruzione della caduta di David. Scrive Malavasi: “Gli oppositori contestano il risultato dell’accertamento che non sarebbe attendibile (…), osservazione sulla quale non si può che convenire e che par essere stata tenuta ben presente anche dai consulenti. (…) Proprio per questa ragione non appare utile insistere sul piano degli accertamenti scientifici, il cui risultato sarebbe in ogni modo opinabile”. Ai rilievi sulle ferite trovate nella parte anteriore del cadavere di Rossi, ritenute “non compatibili con l’impatto al suolo” ma anzi dovute a una “precedente colluttazione”, Malavasi non dedica alcuna attenzione. Così come alle evidenze sull’uso del telefonino di David mentre lui era già precipitato. O le varie incongruenze sul video della caduta. Ritenendo il tutto forse superfluo o, comunque, ininfluenti a escludere una nuova archiviazione. Scrive Malavasi: “Come ben si comprende, non essendo note le singole azioni in cui si concretizzò l’evento, non è possibile una verifica puntuale del nesso di derivazione, che non può essere apprezzato se non in termini di compatibilità/incompatibilità con l’unica ipotesi ricostruttiva dotata di riscontro fattuale”. Cioè il suicidio. Il riscontro fattuale? I biglietti scritti da David e ritrovati strappati nel cestino del suo ufficio. Tre tentativi di salutare sua moglie, Antonella Tognazzi. Sono la certezza alla quale il gip avvinghia la sua decisione: è suicidio. I familiari la pensano diversamente. Per loro l’unica certezza è ancora oggi che David sia morto.

Le strane telefonate, l’ultimo video: i misteri sulla morte di David Rossi. Il libro su «Il caso di David Rossi, Il suicidio imperfetto del manager Monte Paschi di Siena», in uscita giovedì, ricostruisce le indagini e la passione della moglie e della figlia per la ricerca della verità, scrive Fabrizio Massaro il 7 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera". Alle 19.43 di mercoledì 6 marzo 2013 il direttore della comunicazione di Mps, David Rossi, precipita di schiena dalla finestra del suo ufficio a Siena. Morirà venti minuti dopo, in un vicolo. Per la Procura è chiaramente un suicidio. Ma i dubbi sono tanti. Il libro «Il caso David Rossi», del cronista del Fatto Quotidiano Davide Vecchi (Chiarelettere, 176 pagine, in uscita giovedì), ricostruisce le indagini e la passione della moglie del manager, Antonella Tognazzi, e della figlia di lei, Carolina Orlandi, per la ricerca della verità. Due inchieste hanno concluso che Rossi si è tolto la vita. Loro continuano a credere che sia stato ucciso. Da chi, non si sa. Per quale motivo, neppure. Su questo terreno il libro non si spinge. Si ferma ai fatti, spesso inquietanti, alle circostanze, spesso inspiegabili. Ricostruisce le indagini dei pm con i loro buchi ed errori, evidenzia i punti oscuri — per esempio il segno dell’orologio impresso sul polso, i tagli sul volto e i lividi alle braccia, le chiamate partite dal telefono dopo che David era volato giù o la mancata identificazione di alcune persone che compaiono nel video che ha ripreso caduta e agonia del 52enne portavoce di Giuseppe Mussari — e riporta l’ipotesi dei periti della Procura nella seconda inchiesta, avviata su richiesta della famiglia: David Rossi potrebbe avere avuto una «colluttazione con terzi» prima di volare giù. Sulla base delle risultanze dei periti, anche della Procura, l’autore ipotizza due scenari, entrambi con due persone presenti nella stanza di David che lo avrebbero minacciato facendolo cadere dalla finestra o, in alternativa, indotto a suicidarsi per paura. Perché? Forse perché Rossi — come scrisse via mail al ceo Fabrizio Viola — voleva andare a parlare con i magistrati che indagavano su Antonveneta dei rapporti politici di Mps? Non si sa. Per aver pubblicato quelle mail Vecchi, con la moglie di Rossi, è a processo — ancora in corso — per «violazione della privacy» di Viola, nonostante Mps non abbia sporto querela. Il libro è avvincente, e chi ne esce male sono gli inquirenti senesi che — contesta Vecchi — hanno subito sposato la tesi del suicidio, non sgombrando il campo da quei dubbi e buchi che dopo quattro anni hanno portato il caso David Rossi ad allungare la lista dei «misteri italiani».

MPS: David Rossi, suicidio o omicidio? Si riapre il caso, scrive il 3 ottobre 2017 Alessandra Caparello su Wallstreetitalia. Si ritorna a parlare del caso di David Rossi, responsabile della comunicazione di Mps che la sera del 6 marzo 2013, nel pieno della bufera giudiziaria che sconvolgeva l’ex presidente del Monte, Giuseppe Mussari, per la costosissima acquisizione di banca Antonveneta, si lancia dalla finestra del suo ufficio, un volo di 15 metri da cui poi è seguita la morte. Il tribunale di Siena ha archiviato per ben due volte il caso come suicidio ma i familiari dell’ex manager del Monte non ci stanno e chiedono di riaprire il caso. Già le immagini della caduta di Rossi in Vicolo Monte Pio, riprese dalle telecamere della zona, non sembrerebbero compatibili con quelle di un suicidio visto che il manager cade in verticale per circa 15 metri, con la faccia rivolta al muro.

Un suicidio comporta uno slancio, un abbandono del corpo che qui non c’è, oltre all’assenza di rotazione che in questo caso non è stata rivelata. Così dice il perito di parte. Un’indagine della trasmissione televisiva Le Iene poi mette in luce anche che i soccorsi sono arrivati molto tardi, 40 minuti dopo e si ipotizza da alcuni diaframmi inediti che la stradina, solitamente molto trafficata, era chiusa per lavori. Coincidenza o atto voluto?

Guardando il corpo di David evidenti sono i segni di colluttazione al volto ed al polso, con la presenza di ecchimosi in corrispondenza della cassa dell’orologio e le telecamere avevano ripreso anche la caduta di un oggetto nella stessa zona in cui fu poi rinvenuta la cassa dell’orologio di Rossi, circa mezz’ora dalla sua caduta. Lo stesso orologio le cui lancette segnavano le ore 20,00, mentre il corpo di David era caduto mezz’ora prima. Qualcuno poi dall’ufficio di Rossi, per tre secondi, dopo la caduta rispose ad una telefonata di Carolina Orlandi, figlia di Antonella Tognazzi moglie di David Rossi.

Il mistero si infittisce anche per le reticenze manifestate da colui che si diceva molto amico di David, Giancarlo Filippone, capo della segreteria di Rossi e suo amico che, sempre dalle immagini della telecamera, si avvicina al corpo riverso per terra del capo della comunicazione di Mps e dopo averlo fissato con estrema freddezza va via insieme a Bernardo Mingrone, capo area finanza Mps, il primo a chiamare i soccorsi. Proprio Filippone è una delle ultime persone ad aver visto in banca David ancora vivo. Da allora non ha mai parlato con la stampa e avrebbe tranciato i rapporti, prima molto amichevoli, con la famiglia di David. Lorenza Bondi, collega di David, ha dichiarato di aver visto la porta del suo ufficio aperta mentre usciva dalla banca, ritrovata poi chiusa.

Tutte coincidenze o chiari indizi che fanno pensare ad un omicidio piuttosto che suicidio?

David Rossi. Caso Mps, video: suicidio o omicidio? I 5 Stelle chiesero la riapertura del caso (Le Iene Show). David Rossi, il caso ieri sera a Le Iene Show: tutte le tappe di quello che per la Giustizia italiana è stato un suicidio, i dubbi della famiglia, le anomalie e le reticenze, scrive il 2 ottobre 2017 Emanuela Longo su "Il Sussidiario". La morte di David Rossi a distanza di alcuni anni fa ancora discutere. Il servizio delle Iene ha riportato in auge il dilemma del suicidio oppure dell'omicidio, riaccendendo i riflettori sulla tormentata vicenda. Il polverone che si sta alzando in queste ore, però, non è un fatto nuovo per ciò che concerne il Monte dei Paschi di Siena. Già due anni fa, a fine 2015, il MoVimento 5 stelle aveva chiesto a gran voce di riconsiderare l'intera vicenda reativa a David Rossi. Sul blog di Beppe Grillo è possibile notare come in data 17 novembre 2015, con ua conferenza stampa apposita, i 5 Stelle abbiano richiesto a gran voce l'apertura delle indagini facendo pressione sulla Procura di Siena. Pressioni poi favorevolmente accolte e prolungatesi fino ai presenti giorni. Questo fatto sottolinea come certi casi possano passare agevolmente in silenzio, sotto un pesante muro d'omertà, se la televisione o altri mezzi simili non operano a farvi luce. Il Movimento 5 stelle ieri, Le Iene Show oggi: sono entrambe due facce della stessa medaglia, una medaglia che chiede soltanto chiarezza per una storia fin troppo intricata. (agg. Francesco Agostini)

PARLA LA VEDOVA. Il giallo attorno alla morte di David Rossi, responsabile comunicazione di banca Monte dei Paschi di Siena, è approdato ieri nella prima serata televisiva. A raccontare quello che per la Giustizia ufficiale è un terribile suicidio ma che per la sua famiglia è invece qualcosa di molto più grave, è stata la trasmissione Le Iene Show, nella prima puntata trasmessa su Italia 1. Il racconto drammatico parte esattamente da due telefonate al 118 realizzate la sera del 6 marzo 2013 da un importante manager Mps per avvertire la presenza di un uomo che si era appena suicidato buttandosi dal terzo piano di una finestra. Precisamente, dalla finestra del suo ufficio. Per la Giustizia italiana, quel caso fu giudicato per ben due volte un suicidio e per questo archiviato, ma la famiglia Rossi non ci sta e continua a lottare affinché sia fatta piena giustizia sulla morte del dirigente Mps. E' certamente vero che la sua morte si colloca esattamente nel mezzo di una serie di scandali che avevano coinvolto, quattro anni fa, la banca in cui lavorava, facendo tremare l'intera economia italiana. Per reati finanziari risultano indagati l'ex direttore generale della banca, Antonio Vigni e l'ex presidente Giuseppe Mussari, che in piena crisi fu costretto a lasciare anche l'incarico di presidente dell'ABI. Proprio di quest'ultimo, per anni, David Rossi fu uno dei suoi più stretti collaboratori. A causa di tale legame, alcune settimane prima del suo presunto suicidio, Rossi subì una perquisizione da parte della Guardia di Finanza che lo scosse notevolmente. Secondo il Tribunale di Siena, 15 giorni dopo si sarebbe tolto la vita a causa delle forti pressioni. "David non avrebbe mai e poi mai fatto una cosa del genere. Era sicuramente molto stressato, molto impaurito. Era attaccatissimo alla vita, aveva un amore per la sua famiglia incredibile, aveva una professionalità tale che qualunque problema al lavoro era in grado di gestirlo": sono le parole di Antonella Tognazzi, la vedova Rossi.

TUTTE LE ANOMALIE ATTORNO ALLA VICENDA. A parlare della drammatica vicenda, nel servizio de Le Iene, è stata anche Carolina Orlandi, figlia della moglie di David Rossi: "Quando ho iniziato a vedere un video di sorveglianza che ha registrato gli ultimi minuti di vita di mio padre, ho capito che forse non era stato un suicidio". Quel video in questione, la famiglia avrebbe deciso di renderlo pubblico, al fine di creare maggiore consapevolezza anche in chi continua a parlare di suicidio. Le immagini in questione sono decisamente forti, ed immortalano la rovinosa caduta di Rossi avvenuta in Vicolo Monte Pio, a Siena. E' qui che il corpo di David precipita per circa 15 metri, in verticale, con la faccia rivolta al muro. Da quell'istante passano 22 terribili minuti prima della morte, ma nessuno gli presterà soccorso. La caduta, di per sé, non sembra essere compatibile con quella di una persona intenzionata a suicidarsi ed a ribadirlo è stato anche il consulente informatico della famiglia Rossi: "Un suicidio comporta uno slancio, un abbandono del corpo che qui non c'è". L'esperto ha ribadito l'assenza di rotazione che in questo caso non è stata rivelata. Dopo i 22 minuti di agonia, ne passeranno altri 40 prima che qualcuno possa chiamare i soccorsi. Qui si colloca una ulteriore anomalia: la stradina su cui si affaccia il suo ufficio è solitamente molto trafficata, eppure quella sera nessuno avrebbe visto il cadavere di un uomo. Secondo il perito, all'inizio del vicolo ci sarebbero state persone ed un veicolo che avrebbero impedito la visuale. La conferma arriva dalle stesse immagini, nelle quali si intravedono ombre sospette, luci di un veicolo e figure umane misteriose. Il video è forse stato manomesso? Secondo il perito potrebbe esserci stato un intervento di eliminazione sul filmato. Ma le anomalie non finiscono qui: guardando il corpo di David sono evidenti i segni di una colluttazione non solo al volto ma anche in altri punti, compreso al polso, dove è presente un segno profondo in corrispondenza della cassa dell'orologio. Ed ecco ancora una stranezza: dopo circa mezzora dalla sua caduta, le telecamere riprendono all'improvviso la caduta di un oggetto in una zona in cui fu poi rinvenuta la cassa dell'orologio di Rossi. Proprio l'orologio racchiude un altro mistero poiché al momento del ritrovamento le lancette delle ore segnavano le 8, ma David sarebbe caduto molto prima quindi avrebbero dovuto fermarsi in un orario diverso. Questa è la dimostrazione che ci fosse qualcuno nell'ufficio dell'uomo tanto che per tre secondi, dopo il presunto suicidio di David, qualcuno rispose ad una telefonata di Carolina, ma chi?

LE RETICENZE DEGLI EX COLLEGHI. Le prime figure a comparire nel video circa un'ora dopo la caduta di David Rossisono quelle di Giancarlo Filippone, capo della segreteria di Rossi e suo amico, e Bernardo Mingrone, capo area finanza Mps, nonché il primo a chiamare i soccorsi. Filippone si avvicina al corpo, guarda David per terra, lo fissa e con estrema freddezza va via dopo 8 secondi. Quando la figlia, preoccupata dal non ritorno del padre, si recò in banca fu accolta da Filippone che dopo averla fatta attendere nel suo studio le comunico: "Si è ammazzato, si è buttato di sotto". E' lui una delle ultime persone ad aver visto in banca David ancora vivo. Da allora non ha mai voluto parlare con la stampa ed anche all'inviato de Le Iene ha dimostrato grande reticenza, ma si sarebbe anche allontanato dalla famiglia Rossi, nonostante i rapporti molto stretti con David. "Vedere quella persona che non ha emozioni in quel momento per me non è comprensibile", ha commentato Antonella dopo le immagini del filmato in cui mostrano Filippone la sera della morte del marito. La stessa reticenza è emersa anche da parte di Mingrone, che si è detto convinto del suicidio, nonostante le tante anomalie. Nessuno, in realtà, ha voglia di parlare di questa storia, compresa Lorenza Bondi, collega di David e che quella sera ammise di aver visto la porta del suo ufficio aperta mentre andava via dalla banca, quando poi fu rinvenuta chiusa. A restare in silenzio e mostrare molto fastidio di fronte alle domande del giornalista anche il portiere che quella sera non guardò per oltre 45 minuti le telecamere senza accorgersi della presenza del cadavere. L'inviato è quindi giunto fino all'ex presidente Mussari, che dal giorno in cui è stato indagato sarebbe sparito da Siena. L'uomo, anche lui inizialmente molto reticente, a telecamere basse si è lasciato andare ad alcune dichiarazioni importanti: "Per me David è un enorme dolore, come ho spiegato ad Antonella. Parlare mi fa venire da piangere, lasciami perdere". E sulla storia del presunto suicidio ha replicato: "Non lo so, guarda... Io sono per Antonella... quello che crede Antonella lo credo io. Quello che fa Antonella per me è Vangelo. Se lei ritiene di andare per quella strada, quella è la strada giusta". Infine l’ex presidente Amato, che ha smentito categoricamente di aver avuto legami con David Rossi: "Non lo conoscevo".

David Rossi. Video caso Mps, ex sindaco Pierluigi Piccini: "L'indagine è stata fatta male" (Le Iene Show). David Rossi, il caso Mps a Le Iene Show. L'ex sindaco Pierluigi Piccini fa una rivelazione shock: "Non si è suicidato, vi dico perché", scrive il 9 ottobre 2017 Silvana Palazzo su "Il Sussiadiario". L'ex sindaco di Siena, Pierluigi Piccini, con le sue parole ha aperto la strada a nuovi dubbi sulla morte del povero David Rossi. Lui non crederebbe affatto alla tesi del suicidio e, a sua detta, non lo crederebbe l'intera città di Siena. "L'indagine è stata fatta male", sostiene ai microfoni nascosti della trasmissione Le Iene, che ieri sera è tornata a far luce sul caso di cronaca iniziato oltre 4 anni fa e rimasto ad oggi ancora un giallo. A detta di Piccini, infatti, sin dall'inizio sarebbero stati commessi molti errori: "Anche la famiglia, nel momento dello shock non si rende bene conto di quello che sta succedendo", dice. Il riferimento è alla sparizione involontaria dei vestiti della vittima. "Io dico che gli errori nascono al momento in cui iniziano a fare le indagini", ha commentato ancora l'ex sindaco, toccando un fatto effettivamente decisivo dell'intera vicenda. Le sue successive dichiarazioni su ciò che non tornerebbe, però, come ribadito anche dall'inviato della trasmissione non sarebbero ad oggi sostenute da alcuna conferma, per cui non è possibile dire con certezza se realmente, come da lui ipotizzato, ci sia stata una volontà di far chiudere frettolosamente le indagini già avviate in modo maldestro e che avrebbero potuto scoperchiare un pericoloso vaso di Pandora. (Aggiornamento di Emanuela Longo)

EX SINDACO ROMPE L'OMERTÀ. Il secondo servizio della Iena Antonino Monteleone dedicato al misterioso caso relativo alla morte di David Rossi è destinato a far discutere. Nuove e importanti rivelazioni choc sono state trasmesse sul capo della comunicazione della banca Monte Paschi di Siena. Il servizio ha documentato l'omertà che vige a Siena sulla vicenda, ma l'inviato delle Iene ha trovato un personaggio che ha rivelato aspetti davvero importanti sul caso. Si tratta dell'ex sindaco Piccini, che conosceva molto bene David Rossi, il quale era stato capo ufficio stampa del Comune quando ricopriva la carica di primo cittadini. Tra le rivelazioni ce n'è una molto grave: parla di presunti festini a base di cocaina, in una località tra Siena e Arezzo, che avrebbe visto protagonisti molti personaggi della magistratura e volti noti della politica italiana. Così l'ex sindaco ha voluto far comprendere che potesse esserci una volontà di chiudere il caso di David Rossi. (agg. di Silvana Palazzo)

"NON SI È SUICIDATO, VI DICO PERCHÉ". La morte di David Rossi è ancora avvolta nel mistero e il servizio de Le Iene Show alimenta i dubbi. Il direttore della comunicazione di Monte dei Paschi di Siena il 6 marzo 2013 precipita di schiena dalla finestra del suo ufficio, morendo venti minuti dopo in un vicolo. Per la Procura si tratta di un suicidio, ma i dubbi sono tanti. E infatti la sua famiglia continua a chiedere che venga fatta chiarezza su quanto successo, cerca la verità. La moglie del manager, Antonella Tognazzi, e la figlia di lei, Carolina Orlandi, stanno ricostruendo le indagini, perché continuano a credere che sia stato ucciso. I fatti sono inquietanti, le circostanze inspiegabili e le anomalie tantissime. La Procura fa due ipotesi: che si sia stato indotto al suicidio per paura o che sia caduto in seguito ad una colluttazione. Forse perché David Rossi, come scrisse via mail al CEO Fabrizio Viola, voleva parlare con i magistrati che indagavano su Antonveneta dei rapporti politici di Mps.

LA RIVELAZIONE CHOC DELL'EX SINDACO DI SIENA. Tra i misteri italiani c'è il caso della morte di David Rossi, del quale si è occupato il programma Le Iene Show anche oggi. L'inviato ha interpellato l'ex sindaco di Siena Pierluigi Piccini: «Non credo che si sia suicidato. Le anomalie ci sono, è inevitabile. Lui dice che sarebbe andato dai magistrati a raccontare tutto quello che sapeva... Fa il grande errore di dire "Io parlo"». L'ex dirigente Mps aveva le porte aperte dappertutto: «Ma uno che mangia il mondo, ha paura di una perquisizione? Ci sono molte cose che non tornano in questa vicenda. Aveva l'abitudine di prendere sempre appunti, quindi il fatto che non abbia lasciato nulla è strano. Lui era il braccio destro di Mussari su tante cose. Lui aveva un certo appeal in quanto tale». Proseguono le rivelazioni choc dell'ex sindaco: «Conoscendo la sua razionalità, non è possibile che si sia ucciso». Emerge poi un'altra storia parallela riguardo la velocità della magistratura nella chiusura delle indagini: «Potrebbe aver abbuiato tutto perché potrebbe scoppiare una bomba morale. C'è una villa tra Siena e Arezzo dove facevano delle feste...». L'intervista, però, si è chiusa male: l'ex sindaco dopo aver scoperto di essere stato registrato si è arrabbiato con l'inviato de Le Iene, consapevole dell'importanza e del peso delle sue rivelazioni.

L'inchiesta delle Iene su David Rossi. 1 ottobre 2017 su Dago Spia.

In prima serata su Italia 1 dell'1 ottobre 2017, a “Le Iene Show”, l’inviato Antonino Monteleone si è occupato del caso di David Rossi, responsabile della Comunicazione di Monte dei Paschi di Siena precipitato da una finestra della sede della banca a Rocca Salimbeni, nel capoluogo toscano, la sera del 6 marzo 2013. In quelle stesse settimane, MPS è al centro di una grande inchiesta basata sull’acquisizione di Antonveneta. Nel luglio 2017, il gip ha disposto l’archiviazione del fascicolo d’indagine aperto con l’ipotesi di reato d’istigazione al suicidio, accogliendo la richiesta avanzata dalla procura senese e respingendo così la richiesta avanzata – nel novembre 2015 – dai legali della famiglia Rossi, da sempre convinti che si sia trattato di omicidio. Si tratta della seconda archiviazione dell’indagine: la prima era avvenuta nel marzo 2014. La Iena intervista Antonella Tognazzi (la moglie di David Rossi) e la figlia della donna Carolina Orlandi, da anni impegnate per far sì che si continui a indagare sulla morte dell’uomo. Antonino Monteleone raggiunge anche Giuseppe Mussari, ex Presidente del MPS ed ex Presidente dell'ABI, Associazione Bancaria Italiana. Da quando è stato indagato e travolto dalle polemiche per l’acquisizione di Antonveneta da parte di MPS, non ha più parlato: né delle vicende bancarie, né della morte di Rossi. Infine, l’inviato intervista Giuliano Amato, ex Presidente del Consiglio dei ministri, ex Ministro dell’Interno e ora Giudice costituzionale. Di seguito alcuni stralci delle interviste ad Antonella Tognazzi e a Carolina Orlandi.

Orlandi: David era molto amico di Mussari, Mussari è stato il primo volto di tutto questo disastro, quindi molte persone hanno pensato che David potesse centrare qualcosa, solo per questo.

Iena: Tu lo escludi?

Orlandi: Io lo escludo ma sono pronta a cambiare idea... se qualcuno mi spiegasse perché è morto, magari mi spiegherebbe anche tante altre cose che io non so.

Orlandi: Non mi spiego le ombre che si vedono all'interno del vicolo per quasi tutta la durata della registrazione, quindi da prima che David cadesse a dopo che David ha esalato l'ultimo respiro. Ci sono delle persone, delle ombre là: non sappiamo chi siano. Ci sono dei fari di una macchina che vengono proiettati nel muro opposto, questa macchina se ne va dopo che David muore ma c'era già da prima.

Iena: Giancarlo Filippone che rapporto aveva con David?

Orlandi: Erano molto amici con David fin da quando erano ragazzi, erano della stessa contrada, poi lavoravano insieme. Mia mamma era molto amica anche della moglie.

Iena: Questo evento ha rafforzato il vostro legame familiare? Le vostre famiglie sono rimaste in contatto?

Orlandi: Purtroppo no, purtroppo non sentiamo più nessuno più o meno da quando è successo. Giancarlo è sparito, non ci ha più chiamato o contattato in alcun modo. A volte lo troviamo per strada e abbassa la testa, non lo so perché.

Iena: Come te la spieghi questa cosa?

Orlandi: Non me la spiego. Non voglio di certo accusarlo di niente, diciamo che certe domande me le sono fatte.

Tognazzi: Sicuramente è successo qualcosa, sicuramente David è stato picchiato. Non so da chi, ovviamente, però è stato picchiato. Quei segni sono riconducibili a percosse. È scandaloso perché non esiste che in ufficio una persona venga picchiata.

Orlandi: Ci sono delle ecchimosi, però nessuno ci ha mai spiegato come ha fatto a farsele.

Iena: E l'inguine?

Orlandi: La prima cosa da fare per mettere k.o. un uomo lo sappiamo tutti qual è.

Orlandi: Posso garantire che è molto più semplice accettare che in quel momento David si sia gettato in preda a un qualcosa…

Iena: Che non abbia retto alla pressione…

Orlandi: È molto più semplice accettare questo piuttosto che accettare che David abbia avuto una colluttazione dopo la quale è stato gettato dalla finestra, è rimasto 22 minuti agonizzante… questo non si può accettare.

Iena: Tu hai ancora la speranza che venga fuori una verità diversa?

Orlandi: Magari quando certi equilibri si romperanno e qualcuno avrà da guadagnare e qualcun altro non avrà più niente da perdere, magari verrà fuori qualcosa. Penso che ci siano tante persone che hanno anche semplicemente visto qualcosa che non tornava: io vorrei, e lo chiedo da anni, che chiunque sappia qualcosa su quello che è successo quella sera, che abbia visto anche un particolare che non gli torna, un qualcosa di sospetto… qualunque cosa può aiutare. Vorrei che si rompesse questo muro di omertà che si è formata intorno a questa storia. Vorrei che tutti si facessero un esame di coscienza e che si facessero avanti anche solo per aiutarci a scoprire qualcosa in più.

Iena: Chi sa, parli.

Orlandi: Assolutamente. Chi sa deve parlare, come fanno a guardarsi allo specchio la mattina?

Di seguito, alcuni stralci dell’intervista a Giuseppe Mussari.

Iena: Lei è convinto del suicidio?

Mussari: Guardi, come le ha detto Antonella, io non parlo...

Iena: Ha visto questa foto delle braccia di David?

Mussari: Per carità di Dio, io non le voglio vedere.

Mussari: Per me David è un enorme dolore, come ho spiegato ad Antonella. Parlare mi fa venire da piangere, lasciami perdere.

Iena: Lei è convinto che sia stato un suicidio?

Mussari: Non lo so. Guarda, io sono per Antonella, quello che crede Antonella lo credo io, però lasciami in pace, per cortesia… per cortesia…

Iena: Però è fondamentale il suo pensiero…

Iena: Su David ha visto che ci sono quei segni sul corpo che sono impressionanti?

Mussari: Tesoro mio, non voglio… Te l'ho spiegato prima, non mi far piangere. Cioè, se io ti potessi dire…

Iena: Qualcuno potrebbe averlo picchiato e lanciato dalla finestra in banca…

Mussari: Ma io se ti potessi dire una cosa che so, te la direi. Io in banca non c’ero più quando è successo. È giusto? Iena: Ma ha visto quante anomalie in questa benedetta inchiesta?

Mussari: Io non ho letto le carte, ti ripeto. Quello che fa Antonella per me è Vangelo, d'accordo? Cioè, se lei ritiene di andare avanti su quella strada, quella è la strada giusta, perché lei ha letto tutto, è la moglie e tutto il resto. Ma io non ne so niente.

Iena: Non si sono lasciati scappare qualcosa di fondamentale per risalire alla verità?

Mussari: Non ne ho idea.

Iena: Un ragazzo che vola dalla finestra in quel modo…

Mussari: Non ne ho idea.

Iena: 50 anni…

Mussari: Non ne ho idea e ti prego, parlarne mi addolora enormemente.

Iena: Ha mai avuto paura per la sua incolumità, avvocato Mussari?

Mussari: No, io mai.

Iena: Ma perché non avete fatto la fusione anziché comprarla Antonveneta?

Mussari: Lascia perdere…

Iena: Perché?

Mussari: Vedi, vedi qual è il problema?

Iena: Però è un po' strano...

Mussari: Il tema poi è… senti a me…

Iena: Non mi capita tutti i giorni di incontrarla, Mussari.

Mussari: Ho capito che non ti capita tutti i giorni, è roba passata, ci sono i processi, chiariranno i processi. C’è il processo a Milano, risponderà a tutte le domande.

Iena: Ma quelle sono le verità giudiziarie, secondo la verità giudiziaria David Rossi si è suicidato…

Mussari: Guarda, da me non puoi avere nulla di quello che chiedi, quindi non mi braccare come… cioè… come una lepre. Capisci? Non sono una lepre.

Iena: Mi dice perché avete fatto zompare ‘sta banca?

Mussari: No, che zompare, io non ho fatto zompare niente, dammi retta.

Iena: Però la storia le va contro, il giudizio storico…

Mussari: Tu quando vai a letto, vai a letto tranquillo?

Iena: Io sì.

Mussari: Bene.

Iena: Lei quando va a letto?

Mussari: Uguale.

Mussari: Ci sono i processi, i processi verranno fatti.

Iena: Ma lei si fida così tanto di questi processi?

Mussari: Sono un cittadino della Repubblica italiana e mi fido della Giustizia italiana.

Iena: Ma come ha fatto a finire Presidente dell'Associazione bancaria italiana, ‘ché quando è uscito avrebbe detto: “Io non ci capivo niente di banche, il mio lavoro era l'avvocato”?

Mussari: Non ho mai detto questo.

Iena: Come no? Come ha fatto a diventare presidente dell'ABI?

Mussari: (Ride).

Iena: È vero che l’ha sponsorizzata Giuliano Amato per quell'anno?

Mussari: No, assolutamente no. Stai bene!

Di seguito, alcuni stralci dell’intervista a Giuliano Amato.

Iena: Secondo diverse fonti, David Rossi veniva a trovarla spesso quando lei era Ministro dell’Interno al Viminale.

Amato: Non è così.

Iena: Smentisce questa circostanza?

Amato: Assolutamente.

Iena: Presidente Amato, solo una domanda sul povero David.

Amato: Non lo conoscevo.

Iena: Perché sponsorizza Giuseppe Mussari che era un avvocato alla Presidenza dell’ABI, che poi ha dichiarato di non aver proprio nessuna competenza in tema di banche?

Amato: Lei ha le sue domande, io non ho risposte da darle. Se lei è gentile, smette; se non è gentile, continua a tormentarmi e io mi domando per quale ragione un giovane in Italia, per guadagnarsi da vivere, deve fare la parte che sta facendo lei.

Iena: Cioè fare domande sulla morte di un collega, l’ex Capo di un ufficio Comunicazione, e su una vicenda bancaria…?

Amato: Continui, continui…

Amato: Il giorno in cui lei mi farà domande, mi viene a trovare…

Iena: Al Palazzo della Consulta, posso venire?

Amato: … lo fa gratis, nel senso…

Iena: Che vuol dire “gratis”? Uno non deve essere pagato per il lavoro che fa? Ma proprio lei mi parla di “gratis”?

Amato: Sì, io parlo di “gratis”.

Iena: Dovrei lavorare gratis? Io faccio il giornalista, faccio delle domande, dovrei lavorare gratis?

Amato: No, io le sto dicendo che lei non sta facendo il giornalista.

Iena: Le ho chiesto perché ha sponsorizzato Mussari ai vertici dell’ABI…

Amato: Io a lei non rispondo.

Iena: E allora non mi dica “se viene a farsi una chiacchiera, rispondo”, perché è un tema scivoloso.

Amato: No, il tema non è scivoloso, ma io non voglio essere usato da lei.

Iena: Ma come “usato”? Lei è un protagonista.

Amato: Ora basta, le ho dato fin troppo del mio tempo. […] Io continuerò a guardarla e a domandarmi perché un giovane, oggi, debba fare una parte così orribile come quella che lei sta facendo per guadagnarsi da vivere. Lei è lo specchio della crisi italiana in questo momento. Mi dispiace per lei, la saluto.

L'inchiesta delle Iene su David Rossi. 9 ottobre 2017 su Dago Spia.

Ieri, domenica 8 ottobre, in prima serata su Italia 1, a “Le Iene Show”, l’inviato Antonino Monteleone è tornato ad occuparsi del giallo sulla morte di David Rossi, a seguito di rivelazioni shock da parte dell’ex sindaco di Siena, Pierluigi Piccini. David Rossi, capo della Comunicazione di Monte dei Paschi di Siena, è precipitato da una finestra della sede della banca a Rocca Salimbeni, nel capoluogo toscano, la sera del 6 marzo 2013. In quelle stesse settimane, MPS era al centro di una grande inchiesta basata sull’acquisizione di Antonveneta. Nel luglio 2017, il gip ha disposto l’archiviazione del fascicolo d’indagine aperto con l’ipotesi di reato d’istigazione al suicidio, accogliendo la richiesta avanzata dalla procura senese e respingendo così l’opposizione avanzata – nel novembre 2015 – dai legali della famiglia Rossi, da sempre convinti che si sia trattato di omicidio. È la seconda archiviazione in questa vicenda: una prima indagine si era chiusa nel marzo 2014. La scorsa settimana la Iena aveva intervistato Antonella Tognazzi (la moglie di David Rossi) e la figlia della donna Carolina Orlandi, da anni impegnate per far sì che si continui a indagare sulla morte dell’uomo. Antonino Monteleone aveva, inoltre, raggiunto anche Giuseppe Mussari, ex Presidente del MPS ed ex Presidente dell'ABI, Associazione Bancaria Italiana. Da quando era stato indagato e travolto dalle polemiche per l’acquisizione di Antonveneta da parte di MPS, non aveva più parlato né delle vicende bancarie, né della morte di Rossi. Nel corso del nuovo servizio, Antonino Monteleone ha incontrato Pierluigi Piccini, ex dirigente del Monte dei Paschi e sindaco di Siena dal 1990 al 2001. Di seguito alcuni stralci.

Iena: Lei crede che David Rossi si sia suicidato?

Piccini: No, ho seri dubbi su questa ipotesi. Non credo che David Rossi si sia suicidato.

Iena: Quello che voglio capire è se lei crede che sia una forzatura non riconoscere il suicidio oppure effettivamente ci sono delle anomalie tali che… 

Piccini: No, le anomalie ci sono. Le anomalie ci sono, è inevitabile. E poi David fa un errore storico: lui dice che sarebbe andato dai magistrati a raccontargli tutto. E dice: “Io di questa città conosco tutto dai tempi del Piccini fino ad oggi”. David Rossi fa il grande errore di dire “io parlo”.

Iena: Cioè non c’è complottismo dietro l’ipotesi di dire che forse David non s’è ammazzato o non s’è ammazzato da solo, diciamo?

Piccini: No, no.

Iena: Ma se uno invece volesse ipotizzare che quello di David è stato il suicidio di un ragazzo che ha vissuto la cresta dell’onda di un potere, che è rimasto da solo e che ha ceduto?

Piccini: No, tutte cazzate. David Rossi ha gestito più di 50 milioni di euro in quattro anni, aveva le porte aperte dappertutto.

Iena: Lei a che ora ha saputo, ad esempio, che era successo quello che era successo?

Piccini: Io? Un quarto d’ora dopo.

Iena: E lei ha pensato “Oddio, è impazzito David”, o ha pensato “Non quadra”?

Piccini: No no, conoscendo la razionalità di David, se è rimasta come lo conoscevo io, non è possibile che si suicida. La città è convinta che sia stato ucciso.

Iena: Ma può avere questa benedetta perquisizione (ndr, si riferisce alla perquisizione fatta nell'ufficio privato e nell'abitazione di David Rossi nell’ambito dell’inchiesta MPS pochi giorni prima della morte), per la fuga di notizie, aver… cioè, tu sei uno che si mangia il mondo, a un certo punto ti succede l’ultima cosa che ti aspettavi che ti succedesse…

Piccini: Ma uno che mangia il mondo, scusa eh, ha paura di una perquisizione?

Iena: Dice… pelo sullo stomaco ce lo doveva avere?

Piccini: Mah! Ma scusa eh? Allora, sennò veramente… Ci sono molte cose che non tornano in questa vicenda.

Piccini: Questo è strano (ndr, si riferisce al fatto che dopo la morte non sarebbero state ritrovate né memorie né appunti) perché David aveva l’abitudine, quando faceva l’addetto stampa mio, di prendere sempre appunti. Cioè, io mi ricordo che noi avevamo un modo di lavorare, lui era quello che mi teneva la memoria sostanzialmente e aveva sempre appunti oppure mi faceva gli appunti sulle cose che succedevano, e quindi poi la memoria la teneva lui. Questo fatto che lui non abbia lasciato nulla…

Iena: David non faceva solo l'addetto stampa?

Piccini: Macché, lui era il braccio destro di Mussari su tante cose, non scherziamo. Ma uno che gestisce 54… 50 milioni di euro in 4 anni, ma ti rendi conto di quanti sono? Che lui avesse un particolare anche, come dire, appeal all'interno della banca perché era il braccio destro di Mussari e potesse indirizzare dei finanziamenti, questo sì.

Iena: Ma dire che fosse addentro ad alcune decisioni, comunque al cuore delle decisioni della banca?

Piccini: Questo sì.

Iena: Ma con ruoli attivi o con ruoli di spettatore privilegiato?

Piccini: Sicuramente con Mussari sì, sicuramente sì. E poi dopo, come addetto stampa, per forza doveva sapere le operazioni. Quelle da dire, quelle da non dire, come gestirle, per forza doveva saperlo.

Iena: Quindi non può essere un uomo rimasto solo che è crollato?

Piccini: Ma quale solo? No, lui aveva la possibilità, lui ha dialogato con tutti i direttori dei giornali di tutta Italia. Non aveva un problema di lavoro, assolutamente.

Iena: No, di lavoro, però dico che rimani da solo, sei sottoposto a una pressione che non ti è mai capitata nella vita e si rompe una lampadina in testa… come quando salta un fusibile, non lo puoi prevedere…

Piccini: E dice alla madre “vengo a prendere le polpette”?

Iena: Per non farla preoccupare…

Piccini: E poi s’ammazza? Dai, via, su. Alla madre dice “guarda, sì, prepara le polpette che le vengo a prendere”, e poi s’ammazza? Come se la madre non se ne sarebbe accorta che muore? Cioè, non esiste… Ma dai, ma non esiste “vengo a prendere le polpette alla madre”.

Iena: No perché non vorrei che passassimo per super complottisti…

Piccini: Non ti sembra strano? Tu a tua madre dici “mamma, vengo a prendere le polpette” e poi t’ammazzi? Così la madre non se ne accorge che ti sei ammazzato? Dai, via. No, no.

Iena: Ma sa perché glielo dico? Perché io vengo dalla cronaca giudiziaria e quindi ho un po' di sudditanza psicologica nei confronti dell'autorità giudiziaria.

Piccini: Però l'indagine è stata fatta male. Il problema parte male questa indagine, all'inizio; e, devo dire, anche la famiglia, nel momento dello shock, ad esempio, non si rende bene conto di quello che sta succedendo, no? Sono pentiti perché involontariamente sono spariti dei vestiti… Io dico che gli errori nascono al momento in cui iniziano a fare le indagini.

Iena: Una questione che uno dovrebbe riuscire a risolvere per rilanciare il dubbio sulla veridicità del suicidio è: chi ti può volere morto? Ok, non mi sono suicidato, quindi quale sarebbe il movente? In che modo io mi sono messo in un casino?

Piccini: E allora c'è un'altra storia parallela… un avvocato romano mi ha detto “Ma perché vi rigirate tanto i coglioni?”. E io: “Ma scusa perché? Era un’amica mia, dove il marito era nei servizi…”. Ma, guarda, dice: “Devi indagare su alcune ville fra l'aretino e il mare… e i festini che facevano lì. Perché la magistratura potrebbe anche avere abbuiato tutto perché scoppia una bomba morale”. Non so se mi sono spiegato? Questo filone non è stato mai preso.

Iena: Questo potrebbe avere ostacolato la realizzazione di una buona indagine?

Piccini: E questo avvocato romano mi ha detto: “Ma non state lì a girare tanto le scatole…C'è una villa fra Siena e Arezzo e c'è una villa al mare, dove facevano i festini”. Chi andava in queste feste? Chi ci andava? Ci andavano anche i magistrati senesi ad esempio? Mah. Ci andava qualche personaggio nazionale? Mah. La cocaina era… gira a fiumi in questa città.

Iena: Va beh gira in Italia, ovunque…

Piccini: Sì, domandalo a **** quanta ne… quanto uso ne fa?

Iena: Ne fa o ne faceva?

Piccini: Ne fa. Questa è un'altra storia parallela e io mi fermo qui…

Iena: No, ma fermo un attimo. Io quando sento questa cosa del festino dico: “Perfetto, qui c'è la chiave per capire perché fanno le indagini…”.

Piccini: Ad un certo punto io posso anche capire la magistratura che di fronte a una cosa del genere… guarda che ti sto a dire… cerchi di chiudere perché altrimenti diventa una cosa molto difficile.

Iena: E ok, e questa è la chiave, ma rimane sempre…

Piccini: E lo posso anche capire…

Iena: …sempre rimane irrisolto ciò che ha reso un capo ufficio stampa una persona da eliminare.

Piccini: Ma lo sai quanta roba gira al mondo? Ma lo vedi che ancora non riescono a risolvere il… si sono mangiati una banca. Perché si sono mangiati una banca?

Iena: Ma lo IOR? (ndr, Istituto delle opere di religione)

Piccini: Ragazzi, mi volete mandare… che volete fare di me? Spiegatemelo, mi volete rovinare?

Quando la Iena prova a chiedere a Piccini se, in questa storia, possa avere qualcosa a che fare anche lo IOR - Istituto per le opere di religione, comunemente conosciuto come "Banca vaticana" -  Piccini preferisce fermare le sue rivelazioni.

L’orologio, il video, le ferite. Perizie e misteri del caso Rossi. L’uomo delle comunicazioni del Monte dei Paschi di Siena morto tre anni fa. Per ricordarlo domenica 6 marzo c’è un corteo a Siena, scrive Sergio Rizzo il 5 marzo 2016 su "Il Corriere della Sera". «A tre anni dalla morte alzate la testa, rompete il silenzio». È scritto su un manifesto che chiama a raccolta per un corteo silenzioso domenica pomeriggio a Siena, davanti alla sede del Monte dei Paschi, chi ha a cuore la verità sulla fine di David Rossi. La moglie e la figlia del dirigente della banca senese che fu trovato morto sotto la sua finestra non si sono rassegnate. E il caso, archiviato come suicidio, tre mesi fa è stato riaperto dalla procura di Siena. Che ora ha il compito di diradare le nebbie che avvolgono l’episodio più inquietante di una storia capace di spingere il Monte sull’orlo del baratro. È mercoledì sera. A quell’ora, nelle giornate di inizio marzo, rinfresca un po’. Il torrente umano che scorre senza sosta lungo via Banchi di Sopra sfilando davanti a piazza Salimbeni si interrompe di tanto in tanto. Le stradine lì intorno sono deserte. Vicolo di Monte Pio, alle spalle del Monte dei Paschi di Siena, poi, è un budello chiuso dove non si vede mai nessuno. Ma non quel mercoledì sera di tre anni fa, il 6 marzo 2013. Ci sono delle persone, e c’è anche una macchina che sbarra l’ingresso del vicolo. Ai loro piedi, disteso per terra, un uomo sta agonizzando. È caduto da una finestra: si è buttato da solo o qualcuno l’ha aiutato? Si chiama David Rossi, ha cinquant’anni ed è un alto dirigente del Monte dei Paschi di Siena, che sta attraversando il momento più difficile dei suoi cinque secoli e passa di vita. Una tempesta giudiziaria la sta scuotendo dalle fondamenta. Sulla costosissima acquisizione dell’Antonveneta si allungano ombre pesanti: i magistrati sospettano reati gravissimi, dall’insider trading alla truffa. Rossi è il responsabile della comunicazione della banca, uno degli uomini che sono stati più vicini all’ex presidente Giuseppe Mussari, l’epicentro della bufera. E adesso è lì, a terra, con quegli uomini intorno. Quando arriva la polizia, però, non c’è nessuno. L’inchiesta è rapidissima e il caso viene subito archiviato: suicidio. Tutti gli indizi, secondo i magistrati, depongono in questa direzione. Rossi è stressato, il 19 febbraio hanno perquisito casa sua. Due giorni prima, ha scritto in una mail all’amministratore delegato Fabrizio Viola «stasera mi suicido sul serio aiutatemi». E poi non c’è forse quel biglietto lasciato alla moglie («Toni, ho fatto una cavolata troppo grossa...»)? Già, quel biglietto... Antonella Tognazzi riconosce la scrittura del marito. Ma c’è qualcosa che non convince. Come se quel messaggio non fosse stato scritto in piena libertà. David stava passando un brutto momento, d’accordo, ma non c’erano state avvisaglie di un gesto simile. E poi non la chiamava mai «Toni». Anche le perizie hanno lasciato molti dubbi, però sono state liquidate frettolosamente. Decisamente troppo. I familiari vogliono vederci chiaro e insieme all’avvocato Luca Goracci rimettono pazientemente in fila tutti i fatti. Il 16 novembre 2014 Antonella Tognazzi dice a Report di non credere al suicidio. E la trasmissione di Milena Gabanelli mostra un frammento del filmato ripreso dalle telecamere di sorveglianza dove si vede un oggetto, forse un orologio, che cade dall’alto sul selciato dove da qualche minuto è riverso Rossi. Un dettaglio sconcertante, e non isolato. Le perizie di parte ne sono piene. L’ora registrata nel video non corrisponde a quella effettiva: è avanti di 16 minuti. Il perito sostiene che potrebbe essere anche stato manomesso. Anche se il presunto autore non è riuscito a occultare la presenza di persone vicino al corpo di Rossi. Secondo il perito compaiono poco dopo la caduta di David e restano lì fino alla sua morte avvenuta 22 minuti dopo l’impatto. «Tali figure umane — sottolinea la relazione — non sono mai state oggetto di approfondimento, secondo quanto in atti». Così la stessa dinamica della caduta, che le perizie di parte giudicano incompatibile con l’ipotesi del suicidio. Sul cadavere vengono poi riscontrate ecchimosi e ferite tipiche di una colluttazione. Quindi c’è l’oggetto che cade, dopo diversi minuti, e nello stesso momento in cui qualcuno, sul telefonino di Rossi rimasto nel suo ufficio mentre lui è a terra esanime, digita un numero: 4099009. E che cosa cercava chi è entrato quella sera nel computer di David, usando le sue credenziali? Nell’istanza di riapertura del caso c’è la ricostruzione minuziosa dello scambio di mail avvenuto due giorni prima della sua morte fra Rossi e Viola. David gli dice che vuole parlare con i magistrati. E prima possibile. «Vorrei garanzie di non essere travolto da questa cosa, per questo lo devo fare subito, prima di domani. Mi puoi aiutare?». Ma perché David ha bisogno di parlare con i pubblici ministeri? «Vedo che stanno cercando di ricostruire gli scenari politici e i vari rapporti. Ho lavorato con Piccini, Mussari, Comune, fondazione, banca. Magari — scrive ancora — gli chiarisco parecchie cose, se so cosa gli serve». Passa qualche minuto, però, e cambia idea: «Ho deciso che meglio di no. Non avendo niente da temere posso tranquillamente aspettare che mi chiamino. Si può fare con calma». Calma che Rossi purtroppo non avrà.

David Rossi di Monte dei Paschi di Siena non si è suicidato ma è stato assassinato, scrive “Mercati 24” il 22 novembre 2015. David Rossi era un bravo ragazzo, amante del suo lavoro, che voleva riportare la storica banca Monte dei Paschi di Siena a splendere di nuovo. Ma così non è stato, e non si è suicidato. Lo scandalo del Monte dei Paschi, purtroppo, non è più solo un fatto finanziario, è diventato qualcosa di tragico. Avremmo preferito 1000 volte occuparci di una delle solite truffe forex che in fondo non causano vittime. Ma questa volta dobbiamo parlare di una vita umana che è stata spezzata. Il 6 Marzo 2012 successe qualcosa che scosse profondamente il mondo della finanza, ma anche quello dell’opinione pubblica, in quanto questo fatto fu pubblicato su qualsiasi media. Uno scandalo da 1,2 miliardi di euro. Quel giorno di Marzo, David si buttava dalla finestra di un palazzo, dopo lo scandalo MPS da diversi miliardi di euro, secondo Il Fatto: Tra le 18.49 e le 18.58 di quel giorno, pubblicò due lanci riguardo la quantificazione del danno richiesto da Mps a Nomura e Deutsche Bank, oltre che a Mussari e Vigni (di MPS). Una cifra (1,2 miliardi di euro) che in quel momento, secondo Briamonte, era nota a pochissime persone). Ma non è questo quello che è successo veramente secondo l’avvocato Luca Goraggi della procura di Siena, che ha deciso di fare “una vera luce” sul caso, per cercare la verità, che i familiari di David stanno cercando disperatamente da anni. Secondo le perizie, la caduta non sarebbe stata accidentale. I biglietti di addio alla moglie, ritrovati in un cestino, sarebbero stati scritto sotto coercizione fisica o psichica. Anche le telecamere di sicurezza confermerebbero, secondo i tecnici della difesa, che prima analisi della caduta è completamente errata. Rossi fu ritrovato su un vicolo di Monte Pio, proprio dopo gli scandali di Monte di Paschi di Siena, che coinvolse Mussari e Vigni. L’indagine venne inspiegabilmente chiusa nel 2014, affermando il suicidio. Un anno fa fu anche rifiutata la richiesta di riapertura delle indagini. Adesso l’inchiesta è stata riaperta ufficialmente, e il Movimento 5 Stelle esulta. I Grillini chiedevano infatti la riapertura dell’inchiesta da anni ormai, sono stati finalmente ascoltati, e giustizia (speriamo) sarà fatta. David si era trattenuto fino a tardi nella sua stanza ufficio di Rocca Salimbeni, nell’antico palazzo della banca. Era stanco, preoccupato, ma non ne aveva parlato con nessuno, neppure con gli amici di una vita. Poco prima delle dieci, quel volo, che adesso è sospetto a fa parte di uno dei più grandi misteri nell’Italia dell’alta finanza, corrotta, sporca e composta da mille segreti silenziosi. Negli ultimi giorni Rossi era apparo molto stanco e provato. Non era tra gli indagati, ma era comunque stato già perquisito dalla Guardia di Finanza, evento che lo scosse tantissimo. Gli era morto il padre da poco. Era molto giù di morale. In uno dei biglietti trovati nell’ufficio, scritti apparentemente da lui, era stata trovata la scritta “Ho fatto una cavolata”. Un copione di un suicidio. Rossi “è stato suicidato”, ma non si è certamente suicidato. Un evento troppo carico di ombre e pochissime luci, che è stato dovuto riaprire con un supplemento di indagini, per fare chiarezza e per mettere una volta per tutte il punto a questa situazione.

Secondo l’avvocato della moglie, “Ucciso da almeno due persone”. La tesi dell’avvocato Luca Goracci è che l'ex capo della comunicazione dell'istituto, morto il 6 marzo 2012 dopo essere volato giù dalla finestra del suo ufficio a Rocca Salimbeni, sia stato "prima colpito alla testa e poi buttato da almeno due persone". L’indagine venne chiusa nel marzo 2014 catalogando la morte come suicidio, scrive Andrea Tundo il 16 novembre 2015. “Sarebbe stato prima colpito alla testa e poi buttato dalla finestra almeno da due persone”. È la tesi, sostenuta da tre perizie, rappresentata dall’avvocato Luca Goracci alla Procura di Siena, che ha deciso di riaprire il caso sulla morte di David Rossi, capo della comunicazione del Monte dei Paschi di Siena deceduto il 6 marzo 2013 dopo essere volato giù dalla finestra del suo ufficio a Rocca Salimbeni. L’istanza di riapertura era stata depositata dal legale della vedova di Rossi, Antonella Tognazzi, dieci giorni fa, e oggi il procuratore della Repubblica Salvatore Vitello, in accordo con il sostituto Andrea Boni, ha deciso di ricominciare a indagare sul caso che finora era sempre stato catalogato come suicidio. Invece secondo le perizie grafologica, medico legale e dinamico-fisica sulla caduta – già “oggetto di valutazione” da parte della Procura e che hanno portato alla decisione di ricominciare a indagare “sui temi di prova evidenziati” – la caduta di Rossi non sarebbe stata accidentale. Le indagini di parte, che saranno presentate alla stampa martedì a Roma, avrebbero evidenziato che i tre biglietti di addio alla moglie, ritrovati nel cestino dell’ufficio del capo comunicazione della banca senese, sarebbero stati scritti “sotto coercizione fisica o psichica”, sostiene la perizia del professor Giuseppe Sofia, già collaboratore di numerose procure italiane. E un ulteriore segno che dimostrerebbe come le lettere d’addio non siano state scritte da Rossi sarebbero le ecchimosi sulle braccia riscontrate nell’esame autoptico “chiaro segno di afferramento”. Oltre all’analisi dei filmati delle telecamere di sicurezza che confermerebbero, secondo i tecnici della difesa, come la prima analisi della caduta fosse errata. Rossi fu ritrovato cadavere sul selciato del vicolo di Monte Pio, attorno alle 20 del 6 marzo di due anni fa, nel pieno della bufera per lo scandalo derivati che coinvolse il Monte dei Paschi fino agli ex vertici, Giuseppe Mussari e Antonio Vigni. L’indagine venne chiusa nel marzo 2014 catalogando come “suicidio” la morte del capo comunicazione della banca senese. E poco più di un anno fa, il 10 novembre 2014, la Procura generale aveva rigettato la prima richiesta dei famigliari per la riapertura dell’inchiesta. Nei giorni immediatamente successivi alla morte, i magistrati toscani avevano anche ricevuto un esposto dell’ex consigliere di amministrazione di Mps, Michele Briamonte, che chiedeva di verificare un’eventuale connessione tra la morte di Rossi e la pubblicazione da parte dell’agenzia di stampa Reuters, tra le 18.49 e le 18.58 di quel giorno, di due lanci riguardo la quantificazione del danno richiesto da Mps a Nomura e Deutsche Bank, oltre che a Mussari e Vigni. Una cifra (1,2 miliardi di euro) che in quel momento, secondo Briamonte, era nota a pochissime persone.

Mps, Indagine sulla morte di David Rossi. Parla la vedova: "Non si è ucciso, ora ho le prove. Voleva parlare con i pm", scrive Simona Poli su La Repubblica il 18/11/2015. La prima piccola luce. Dopo tre anni in cui sembrava che David fosse stato inghiottito dal buio, che a nessuno interessasse scavare nel mistero della sua morte. È un giorno di speranza per Antonella Tognazzi, vedova di David Rossi, il responsabile della comunicazione di Mps che il 6 marzo 2013 cadde dalla finestra del suo ufficio a Rocca Salimbeni dopo aver lasciato un biglietto di addio proprio a lei. La riapertura dell’inchiesta potrebbe far chiarezza su quel suicidio a cui Antonella non crede. Insieme ai legali, a due consulenti tecnici e a un gruppo di parlamentari Cinque Stelle ieri era a Montecitorio per dare corpo ai suoi sospetti.

Come pensa che sia morto suo marito?

«Non certo buttandosi giù di sua volontà. Il medico legale ha riscontrato lesioni che non hanno niente a che vedere con la caduta. Lo hanno spinto, almeno in due, anche se non posso sapere quante persone ci fossero in quella stanza. Ora voglio conoscere il nome degli assassini di mio marito».

Il vostro legale, Luca Goracci, lascia intendere che David potrebbe aver pagato la sua intenzione di essere ascoltato in procura.

«Io so soltanto che lui voleva andare dai giudici per sapere che cosa cercassero, che cosa volessero da lui. Questo pensiero lo tormentava, ne parlavamo spesso».

Potrebbero riesumare la salma, lei è d’accordo?

«Per ora è solo un’ipotesi. Laddove fosse necessario, vedremo».

Quando ha iniziato ad avere dei dubbi sulla versione del suicidio?

«Appena mi sono ripresa dallo shock. All’inizio mi sembrava di stare su un altro pianeta, i magistrati mi dicevano che era tutto lampante, che gli indizi concordavano, erano quasi arrivati a convincermi. Io ero malata quando morì David, venivo da un’infezione che mi aveva causato febbre altissima, proprio quella sera avrebbe dovuto farmi un’iniezione, lo stavo aspettando. Lo chiamai alle 19 e mi disse “tra una mezzoretta sono a casa”. Succedeva spesso che facesse tardi in ufficio, quello poi era un periodo difficilissimo al lavoro. Ma quando ho visto che passava il tempo e non tornava mi sono preoccupata, ho pensato a un malore e ho mandato mia figlia a cercarlo».

Quella telefonata fu l’ultimo contatto tra di voi?

«L’ultima volta che ho sentito la sua voce, sì. Nel pomeriggio era passato a salutarmi per vedere come stavo».

La calligrafia del biglietto è autentica però.

«La calligrafia sembrerebbe la sua, anche se la scrittura è a strappi, con cambiamenti continui, insomma strana. Ma è stato proprio il biglietto a farmi capire che David non diceva quello che pensava, che lo stavano costringendo. Mi ha messo lui sulla strada giusta».

Il biglietto di addio nascondeva un secondo messaggio?

«Esatto, proprio così. Quelle parole, “Toni amore mio ti chiedo scusa”, non facevano parte del nostro vocabolario quotidiano. Lui sapeva che non mi piace il diminutivo Toni e mi chiamava Antonella, a differenza di tutti gli altri. Non ci chiamavamo mai amore perché non era quello il nostro stile. E David non era un tipo che chiedesse scusa. Messe in fila una dietro l’altra in quel contesto queste espressioni potevano avere solo un senso: farmi capire che chi stava scrivendo non era lui, che in quel momento qualcuno lo stava forzando. Solo io avrei potuto afferrare quell’sos in codice, lo ha fatto apposta, mi ha aperto gli occhi».

Nel frattempo sembrava che il caso fosse chiuso.

«Già, avevano archiviato in fretta. Ma i miei stessi sospetti sono nati anche nelle persone che mi affiancavano, cominciavano a venir fuori molti elementi strani, non tutto era così lineare come avevano voluto farmi credere. Ad esempio, quella storia dell’email che David avrebbe scritto due giorni prima della morte all’amministratore delegato, in cui chiedeva se fosse il caso di andare dai giudici. Possibile che in due giorni nessuno la avesse letta? Prima mi dicono che Viola si trovava a Dubai, poi invece si scopre che alla mail era stata data una risposta. Qualcosa non torna».

Suo marito era stato sottoposto a stress fortissimi. Il 19 febbraio la Guardia di finanza aveva perquisito casa vostra.

«Stava vivendo una situazione di disagio. Non si capacitava del fatto che invece di chiamarlo in procura per sentire la sua versione avessero perquisito la casa. “Che cercano qui?”, mi diceva».

Come si sente oggi?

«Mi auguro che adesso la magistratura con vera coscienza si rimetta al lavoro e dia quelle risposte che per anni sono state negate. Ho vissuto tanti momenti di sconforto, per tre anni ho sopportato questo silenzio pesantissimo, atroce. Con tutte le mie forze ora voglio credere che le cose cambieranno, che si cercherà la verità. Oggi posso finalmente farmi ascoltare, finora nessuna voce autorevole si era sollevata per chiedere di analizzare i punti oscuri di questa storia. Che sono tanti, troppi».

David Rossi, il giallo del suicidio e quel numero misterioso. Era il 6 marzo 2013: il manager Mps senza vita da oltre 30 minuti. Sul suo cellulare venne digitato un numero. Relativo a un conto dormiente, scrive Alessandro Rossi il 31 Marzo 2015 su “Lettera 43”. Un numero di telefono? No, un numero di conto. Il cellulare di David Rossi, responsabile della comunicazione del Monte dei Paschi deceduto misteriosamente il 6 marzo del 2013, si rianimò all’improvviso mezz’ora dopo il suo tragico volo da una finestra. Lui era già morto e qualcuno compose sul tastierino un numero di sette cifre. Le incongruenze sulla morte: segni di colluttazione e dinamica non chiara. Per comprendere appieno la storia di David occorre partire dai suoi amici. Una volta ne aveva molti. Chiamava Renato Pozzetto, chiamava Daniela Santanché, chiamavano giornalisti dei più importanti quotidiani, della Rai, di Mediaset. Chiedevano informazioni, pubblicità, sponsorizzazioni, piccoli favori. Chiamarono anche quella maledetta sera del 6 marzo, fino a pochi minuti prima che Rossi finisse giù da una finestra, forse nemmeno quella del suo ufficio, spinto da una follia suicida o dalla mano di qualcuno. Di amici a David, ora che è morto, ne sono rimasti davvero pochi. Si abbandona chi cade in disgrazia, figuriamoci chi cade da una finestra. In occasione del secondo anniversario della sua morte, un ricordo su Facebook di David Taddei, amico e socio nelle tante avventure di comunicazione prima di arrivare a Palazzo Salimbeni, con una spruzzata di condivisioni. Dolore, rinnovato e ancora intenso, in famiglia. Poco altro. Forse, a questo punto, non vuol dir nulla, ma David Rossi ha ancora qualche amico che ha usato le sue capacità professionali per provare a scrivere, o quantomeno a raccontare, una verità diversa da quella delle carte della giustizia che prima a Siena e poi a Firenze ha deciso che David si è ucciso buttandosi giù dalla finestra del suo ufficio alle 19.43. Già, l’ora della morte e tutto quello che l’ha preceduta e seguita. Qui comincia un’altra storia, un giallo che per certi versi arriva a somigliare a quello di Roberto Calvi, raccontato dalla telecamera di sorveglianza di Mps che ha ripreso il volo letale di David nel vicolo del Monte Pio, che si intuisce, anzi si capisce proprio, se si ha il fegato di guardare le foto del corpo esanime sul tavolo dell’autopsia. È difficile ridursi in quel modo con la caduta. Il corpo sull’avambraccio ha un livido in cui si riconoscono bene le dita della presa di una mano, altri lividi simili sull’altro braccio, una contusione di sette centimetri per 10, la misura esatta di un pugno, all’altezza dello stomaco, una ferita triangolare, un buco, sul retro della testa, un graffio classico da colluttazione (simile a un’unghiata) che gli percorre il naso e gli tocca un labbro. E poi la dinamica del volo: se si fosse buttato sarebbe caduto ben più in là di dove lo fa vedere la telecamera di servizio. E perché l’orologio che aveva al polso è caduto a terra addirittura qualche minuto dopo? E quelle luci nel vicolo stretto del Monte Pio, dove David è caduto, che somigliano tanto a segnali luminosi, quelle ombre che paiono far capolino dalla bocca della strada e da una porta lì vicino in uso al Monte dei Paschi. Illazioni? Fantasia? A guardare il video e le foto dell’autopsia vengono i brividi. Non solo per l’umana pietà, ma per quello che si capisce, o quantomeno sembra di capire: forse non è andata come le carte ufficiali raccontano. Le ultime ore: dalla visita alla moglie all'appuntamento con la Ciani. Luca Scarselli, ingegnere, e Luca Goracci, avvocato, sono forse gli amici più cari che David ha ancora da morto. Non lo hanno abbandonato e hanno messo insieme gli elementi che dicono che quello di David Rossi sarà stato anche un suicidio, ma somiglia troppo a un omicidio. Report ha raccontato la storia che hanno ricostruito i due Luca con le famose email, i biglietti, le ricostruzioni, le situazioni improbabili. Lettera43.it ha ricostruito le ultime ore prima che David Rossi volasse giù dalla finestra. Ma prima di arrivare a quei terribili momenti bisogna partire da qualche giorno prima, dal 19 febbraio 2013 quando la guardia di finanza perquisì casa sua cercando, ha sempre detto David, qualcosa che lui non ha mai capito. Dopo quella perquisizione la vita di Rossi non è stata più la stessa. Aveva paura, era convinto che casa e ufficio fossero piene di cimici, che lo seguissero, forse addirittura che qualcuno fosse pronto a fargli del male. In uno sconquasso complessivo, la mattina del 6 marzo 2013, l’inizio di una giornata piovigginosa, David si alzò presto, come sempre, per andare a fare jogging per le vie del centro storico. Uscì e rientrò diverse volte. Percorse la vicina salita, ripidissima di Vallerozzi, la via principale della sua contrada, la Lupa, fece un passaggio davanti al garage Perugini poco distante. Qualcuno lo vide. E notò che Rossi era guardingo, sospettoso, tanto da rientrare in casa e poi riuscire un paio di volte sempre in tenuta da jogging. Aveva un appuntamento alle 9 in banca con Carla Lucia Ciani, coaching manager. David, un maniaco della puntualità, uscì di casa intorno alle 8,30, dopo aver parlato con la moglie Antonella Tognazzi, che non stava bene. La salutò. La banca era distante poche centinaia di metri, 10 minuti a piedi al massimo. La Ciani, invece, arrivò tardi all’appuntamento, circa mezz’ora dopo. David si lasciò andare, anche se il suo carattere non gli consentiva certo slanci espansivi. Nel colloquio furono trattati diversi argomenti finché Rossì le disse: «Mi sto comportando male, da quando ho subito la perquisizione, ho fatto una cavolata dietro l’altra». Sì, ma che tipo di cavolate? «Ho scritto a Viola (Fabrizio, amministratore delegato di Mps, ndr) e gli ho chiesto protezione e forse l’ho fatto irritare». In effetti tra Rossi e Viola c’è uno scambio di email il 4 marzo 2013 in cui David chiese se fosse il caso di andare dai magistrati a raccontare tutto quello che poteva sapere sulle vicende senesi, visto che lui, negli ultimi anni, era stato vicino all’ex presidente dell’Mps Giuseppe Mussari, ma anche a tanti altri personaggi del mondo politico locale. Praticamente Viola gli disse: «Se vuoi chiama i magistrati». E lì, probabilmente, David si sentì solo, scaricato. La mattina del 6 marzo, mentre aspettava la coaching manager, Rossi ricevette diverse telefonate da parte di giornalisti e di personale interno della Banca. Ma lui, almeno stando ai tabulati, non rispose. Tra le 8.54 e le 9.14 parlò al cellulare con la moglie, con il medico di famiglia, Antonio Bardi. Alle 10.04 ricevette una telefonata dalla Fondazione Mps, poi un’altra ancora dal medico e quindi David chiamò la moglie Antonella. Quella confidenza al fratello: «Un amico mi ha tradito». Finito il colloquio con la coaching manager, Rossi telefonò al fratello Ranieri. Dovevano andare a pranzo insieme. Così Rossi riparlò con la moglie, poi con la mamma intorno alle 13,52. Tra le telefonate alla moglie e alla madre si infilarono diverse chiamate di giornalisti ma David non rispose. Alle 15.10 riparlò con Ranieri per andare a pranzo. Prima di uscire richiamò la moglie. Il fratello andò a prendere David con la macchina. Strano, David amava camminare a piedi per la sua Siena. Salì sulla Mitsubishi grigia di Ranieri e andarono allo Snack Bar, un ristorante all’Antiporto, appena fuori Porta Camollia. Durante tutto il percorso David proferì pochissime parole, guardò continuamente lo specchietto e al fratello fece capire che temeva di essere seguito. Al momento di parcheggiare gli chiese di fare una strana manovra proprio come se volesse depistare qualcuno. Al ristorante scelse un tavolo in fondo e si piazzò con le spalle al muro per aver bene aperta la visuale della porta e vedere chi entrava. Si lasciò andare a una confidenza con il fratello: «Ho fatto una cavolata, e un amico di cui mi sono fidato mi ha tradito». Chi? Ranieri non sa dirlo o forse nemmeno glielo chiese. Finito il pranzo, verso le 16, Rossi ripassò da casa, probabilmente per sentire come stesse Antonella. Proprio la moglie gli chiese se avesse avuto risposte da Viola sul possibile colloquio con i pubblici ministeri. David non disse nulla. Era convinto che la sua abitazione fosse piena di microspie al punto da comunicare con moglie e figliastra, più di una volta, tramite messaggi scritti, che vergava su un blocco, di cui poi strappava le pagine: quelle scritte, ma anche quelle sotto per evitare l’effetto della copia per pressione. Intorno alle 16,40 Rossi tornò in ufficio. Nel frattempo lo aveva chiamato un dipendente della banca e una compagnia della guardia di finanza: niente di drammatico, le fiamme gialle chiedevano una sponsorizzazione. Piovevano telefonate ma David continuava a non rispondere. Alle 17.37 ricevette una chiamata da una collega dell’ufficio stampa della banca. Poi alle 19.02 chiamò di nuovo la moglie. «Alle 19.30 vengo a casa», le disse, «così ti faccio l’iniezione. Ho già comprato tutto il necessario. Prima però passo a prendere le polpette che ho ordinato per cena. A dopo». Clic. La storia di Rossi si ferma a quel clic. Non si ferma invece quella del suo cellulare. Stando ai tabulati in mano alla procura alle 20.16, circa mezz’ora dopo il volo dalla finestra e con David ormai morto, alla stessa ora in cui un oggetto (che da moto e posizione finale assunta sembrerebbe essere l’orologio) cade al suolo, il cellulare come d’incanto si rianima e chiama il numero 4099009. Chi l’ha digitato? E soprattutto che numero è? Non è di un telefono, infatti non rispose nessuno. È il numero (o almeno anche il numero) di un conto dormiente del Monte dei Paschi, uno di quei conti che non vengono movimentati da più di 10 anni. E chi lo sa fare, e lo può fare, può usarli in tanti modi. Fino a voler uccidere?

Mps. L’ombra della massoneria dietro il misterioso suicidio di David Rossi, scrive “Articolo tre”. E' trascorso più di un anno. Era il 6 marzo del 2013 e il capo della comunicazione del Monte dei Paschi di Siena, David Rossi, venne trovato morto, precipitato in terra dopo un volo di trenta metri. Subito si parlò di suicidio: erano giorni difficili, a Siena. Il Monte dei Paschi nel bel mezzo dello scandalo; nomi illustri iscritti nel registro degli indagati per il crack che aveva investito l'istituto. Rossi era agitato e aveva paura di finire in qualche modo coinvolto. A dimostrarlo, le e-mail che spedì prima di morire, in cui paventava il suo suicidio e chiedeva aiuto all'amministratore delegato della banca, Fabrizio Viola. Non ricevendo riscontri soddisfacenti, dunque, avrebbe deciso di togliersi la vita, saltando dalla finestra del suo ufficio, sul retro di Rocca Salimbeni. Una ricostruzione che la magistratura ha accolto: il marzo scorso, il caso è stato chiuso. Un punto alla fine di una storia che, in realtà, sarebbe potuta continuare, e rivelare intrecci finora impensabili. La famiglia lo sa. Lo sospetta fin dall'inizio, che quella morte non è stata auto-provocata. Ci sono troppi elementi che non tornano, nella storia. Tralasciando il fatto che Rossi non figurava tra gli indagati dello scandalo Mps, e non rischiava di perdere il proprio posto di lavoro, restano inspiegabili numerosi dettagli. Come mai un suicida, per esempio, si lascia cadere dalla finestra radente al muro, anziché saltare nel vuoto? Perchè mai le tracce sulle scarpe della vittima non risultano compatibili con quelle trovate sul davanzale? Anche alcuni segni sul corpo di Rossi racconterebbero un'altra storia, probabilmente legata alla manomissione del suo pc, avvenuta appena dopo il suicidio. Chi frugò tra i documenti dell'uomo dopo la sua morte e perché? Sono domande, queste, che, con l'archiviazione, sono state messe a tacere. Rossi si suicidò semplicemente perché sottoposto ad un "sovraccarico emotivo", e basta. Di fatto, si è data ragione al pm titolare delle indagini, il sostituto procuratore Aldo Natalini, colui che ha richiesto ed ottenuto l'archiviazione.  Natalini, per inciso, era stato destinatario di un avviso di garanzia da parte del pm di Viterbo Massimiliano Siddi con l'ipotesi di violazione del segreto istruttorio. Era stato infatti intercettato casualmente dalla Procura di Viterbo, mentre essa indagava su un giro di appalti truccati nel Lazio. Il pm parlava al telefono con un indagato, Samuele De Santis, a cui fornì dettagli sull'inchiesta senese e, non fosse sufficiente, spiegava anche le strategie difensive con cui si sarebbero potuti salvare i personaggi illustri coinvolti. Dirigenti del Pd, ma anche i vertici del Mps, Fabrizio Viola e Giuseppe Mussari. L'avviso di garanzia cadde comunque nel nulla: si andò rapidamente verso l'archiviazione. Esattamente come quella per Rossi, avvenuta il 5 marzo scorso. E' importante la data: lo stesso giorno, infatti, nel mondo della massoneria qualcosa si rivoluzionava. Il Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia, Gustavo Raffi, lasciava posto al suo successore, Stefano Bisi, direttore del Corriere di Siena e collega di David Rossi. I due, denunciavano alcuni confratelli "dissidenti" nel lontano giugno 2012, si era conosciuti durante "l'era Mussari", in seno al Mps. "Bisogna evidenziare che il peso della gestione Mussari supportato dai due comunicatori David Rossi e Stefano Bisi ha condizionato i partiti, le giunte comunali e l’informazione cittadina", scrivevano i muratori nel proprio blog "Fratello Illuminato". "Dal 2006 al 2011 la banca Mps ha speso 355 milioni di euro in pubblicità attraverso l’area comunicazione gestita da David Rossi", proseguivano sempre i massoni, ai tempi in cui il nome del capo della comunicazione ancora non riempiva le pagine dei giornali. "Quanti organi d’informazione hanno beneficiato della pubblicità? Forse è solo una coincidenza, ma verso la fine della presidenza Mussari sono stati assunti all’area comunicazione di Mps la fidanzata del Bisi e un altro collaboratore del Corriere di Siena. "E stranamente", attaccavano ancora, "il responsabile dell’area comunicazione di Mps (David Rossi) non ha perso tempo nel rilasciare attraverso un video pubblicato da Siena News parole di elogio al medesimo giornale online (con direttore responsabile Stefano Bisi)". Era proprio verso Bisi che riversavano il loro disprezzo: "Vogliamo parlare dei legami stretti del Bisi con gli ex vertici dell’aereoporto di Ampugnano o del cda dell’università?", si interpellavano. "Vogliamo ricordare gli articoli di elogio scritti dal Bisi sull’acquisto di banca Antonveneta? Il groviglio armonioso ha messo in ginocchio la città. E oggi che strategia si sono inventati i due comunicatori David Rossi e Stefano Bisi?" "Minimizzare e tentare di salvare le sorti del Ceccuzzi", rispondevano dunque, riferendosi all'ex sindaco di Siena, successivamente coinvolto nello scandalo Mps. Ma, sottolineavano, "non perchè amano il Ceccuzzi, ma solo con la speranza di custodire il loro ruolo". "Tutto questo protagonismo del Bisi crea soltanto imbarazzi dentro la massoneria", concludevano. Non senza ricordare le parole di un loro uomo-simbolo, Delfo Del Bino, definito "esponente storico del Goi": "Amiamo l'Europa dei popoli e dei saperi, non quella delle banche". Una citazione, questa, che tentava di prendere le distanze da Bisi, ma soprattutto da quella massoneria intrecciata a doppio filo col potere finanziario. In due anni le cose sono mutate. Alla fine, Bisi è divenuto Gran Maestro del Goi, con buona pace di chi si opponeva al suo "protagonismo". Le speranze che economia e massoneria restassero separate son venute così a crollare. D'altra parte, non poteva essere altrimenti, guardando i precedenti. Basti pensare a Enzo Viani, il presidente dell'Urbs, una società immobiliare verso cui il Goi nutriva non pochi interessi. Viani è anche, neppure a dirlo, ex dipendente del Monte dei Paschi. Soprattutto era colui che Cuccuzzi, prima di diventare sindaco di Siena, prescelse come presidente dell'aeroporto di Ampugnano. Chi lo favorì nell'ascesa a primo cittadino? Ovviamente il Corriere, diretto da Bisi. Semplici triangolazioni, certo. Ma che tracciano uno scenario diverso, rispetto a quello di un disperato capo-comunicazione che sceglie di togliersi la vita, pur amandola profondamente, come dichiarato dalla moglie. Piuttosto, lasciano incombere su tutta la vicenda un'ombra pressante. Quella della massoneria "economica", e su cui i magistrati non hanno ritenuto necessario interpellarsi prima di chiudere il misterioso caso.

Siena e i veleni, oggi come vent’anni fa: David Rossi come le liste massoniche, scrive il 12 ottobre Cecilia Marzotti su "Siena News". Un nome: David Rossi, responsabile dell’area comunicazione di Banca Monte dei Paschi; un dramma la sua morte avvenuta il 6 marzo 2013; una famiglia che non si dà pace; un’inchiesta portata avanti da sei differenti pubblici ministeri e due gup che a distanza di 4 anni arrivano alle stesse conclusioni: è tutto da archiviare. Non basta: arriva il reportage de Le Iene e il popolo senese che ricorda poco e parla tanto si divide come oltre venti anni fa quando furono pubblicate da una testata locale delle false liste massoniche dove si mischiavano massoni veri e falsi. Condizioni temporali diverse anche se il territorio è lo stesso; allora come oggi partirono querele e cause civili. Fin qui il passato e una parte del presente e proprio questa mattina alle 9 e 16 minuti il procuratore capo Salvatore Vitello che ha risposto in “maniera decisa e a volte arrabbiato”, come lui stesso afferma alle domande de Le Iene che lo hanno contattato,  decide di mettere a disposizione della stampa l’ordinanza di archiviazione, l’ultima nonostante varie trasmissioni televisive, e interpellanze  parlamentari,  firmata dal gup Roberta Malavasi e che in parte ricalca le conclusioni a cui era arrivata nel 2013 la sua collega Gaggelli. Chi scrive da allora fino ad oggi ha seguito le indagini e pubblicato senza dare giudizi, né si è anteposta ai titolari dell’inchiesta in maniera che ciascuno liberamente, come è giusto che sia, si potesse fare una propria opinione che si deve basare sui fatti e non sulle parole. E così lo faccio ora riportando le parti salienti dell’ordinanza di 57 pagine depositata lo scorso 4 luglio. Lo avevamo già scritto, ma vista la memoria corta lo riproponiamo. Entriamo nel merito tenendo presente che quest’ultima decisione arriva dopo ulteriori accertamenti caldeggiati dalla famiglia di Rossi che non ha mai creduto che il proprio caro si fosse ucciso. Il gup Malavasi parla di “un’accurata attività investigativa che normalmente non si riserva ai casi di suicidio” descrive le risultanze del medico legale e poi si sofferma sugli ultimi giorni di vita di David Rossi attraverso gli atti depositati dalle parti. Il gup testualmente scrive “niente francamente poteva essere investigato di più e di diverso di quantomeno stato effettivamente fatto e debitamente documentato, al fine di acclarare responsabilità di terze persone nelle vesti di istigatori al suicidio”. E scorrendo le pagine dell’ordinanza si capisce che da quando David Rossi nel febbraio del 2013 ebbe la perquisizione in casa e nel suo ufficio si preoccupa e la sua situazione psicologica si aggrava ulteriormente dopo il Cda del 28 febbraio di quello stesso anno dove era stato deciso di promuovere l’azione di risarcimento danni non solo nei confronti degli ex manager Mussari e Vigni , ma anche di Nomura e Deutsche Bank: Davide Rossi, responsabile della comunicazione non sa nulla eppure il giorno dopo la temuta fuga di notizia c’era stata davvero. Un importante quotidiano aveva riportato tutto e c’erano state implicazioni sul titolo in borsa di Mps tanto che Profumo e Viola presentarono un esposto in Procura. David è sempre più preoccupato, ma non era stato lui a dare la notizia bensì come si legge nell’ordinanza di Malavasi il consigliere del cda Briamonte. E’ il primo marzo del 2013 quando David Rossi esterna alla moglie Antonella Tognazzi “in modo assolutamente irrazionale la paura che all’indomani sarebbe stato arrestato”. Antonella Tognazzi nei giorni successivi non sta bene e finisce persino in ospedale, quando torna a casa sua figlia le riferisce di “…strani taglietti ai polsi del Rossi. Alla richiesta di spiegazioni David prima aveva detto di essersi accidentalmente tagliato con la carta, ma dietro le insistenze della moglie aveva ammesso di esserseli procurati volontariamente dicendo che nei momenti di nervosismo quando vuoi sentire dolore fisico per essere più cosciente… Sai in quei momenti in cui si perde la testa e per ritornare alla realtà hai bisogno di sentire dolore…”. E così continua il gup: “… In quello stesso giorno il Rossi si era mostrato talmente angosciato di essere intercettato che aveva preso a comunicare con i familiari per iscritto…”. L’ordinanza va avanti fino alla morte di David Rossi e il gup infine accoglie in pieno le conclusioni della procura: tutto archiviato. Chi la vuole leggere l’ordinanza per intero può farlo collegandosi al sito della Procura di Siena. Non va interpretata, va letta e non usata per scopi diversi da quelli che possono essere il dolore e gli affetti di una famiglia che ha perso quattro anni fa una persona cara.

MPS-Rossi, caso massonico, scrive Mario Adinolfi su "La Croce Quotidiano" il 12/10/2017. L’ inchiesta di Antonino Monteleone per le Iene sul suicidio di David Rossi che molto probabilmente non è suicidio è interessante. Superficiale, forse, ma interessante perché racconta partendo da uno spaccato secondario un enorme tema della storia recente del nostro paese. Noi qui di seguito su La Croce pubblichiamo un’intervista al professor Luca Fiorito, che di Monte Paschi Siena è stato il più giovane consigliere d’amministrazione dal 2003 al 2006 per essere poi cacciato da Mussari giusto pochi mesi prima dell’acquisizione di Antonveneta che darà il via al disastro che condurrà fino alla morte di David Rossi. Fiorito è senese, nato a Pontassieve (Renzi spunta sempre), ma in tutto e per tutto senese. E sa tante cose. Parla di David Rossi, dell’ex sindaco Piccini, della villetta delle orge, del fuori onda delle Iene che non è un fuori onda ma una pantomima, di Amato e di Tremonti, di Monti e D’Alema, di Letta e di Renzi. Ma soprattutto pronuncia la parola che manca alla inchiesta di Monteleone, quella che la rende superficiale: massoneria. Non si può parlare di banche, Mps, Siena e Antonveneta senza parlare di massoneria nazionale e internazionale. O, come dice Fiorito, di “grembiuli”. Luca Fiorito, 50 anni, oggi è professore di Storia del Pensiero Economico all’Università di Palermo ma una vita fa è stato uno degli uomini più influenti del Monte dei Paschi di Siena. Nato a Pontassieve, senese di adozione, contradaiolo dell’Istrice. L’Istrice è la nemica giurata della Lupa, la contrada di David Rossi, il capo della comunicazione del Monte dei Paschi: se fosse stato in vita l’anno scorso avrebbe partecipato al Gaudio perché la Lupa ha fatto il “cappotto”, ha vinto due edizioni consecutive del Palio. Ma David Rossi è morto, secondo la magistratura si è suicidato, secondo chi ha visto le ultime due puntate della trasmissione le Iene invece è stato ucciso. Luca Fiorito nel 2003 diventa il più giovane consigliere d’amministrazione della banca della sua città fino a quando un certo Giuseppe Mussari nel 2006 lo convoca per dirgli: “Non sussistono più le condizioni politiche per la tua permanenza nel consiglio d’amministrazione del Mps”. Quella che per Fiorito è un’enorme delusione lì per lì, oggi per il docente senese si rivela come una benedizione: “Mussari non lo sapeva, ma facendomi fuori mi ha salvato la vita”. Il consiglio d’amministrazione da cui il giovane professore viene escluso è quello che nel 2007 deciderà l’acquisizione di Banca Antonveneta, fonte di valanghe di guai e di tragedie culminate nel presunto suicidio di David Rossi, caso riaperto dalla inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti.

Professor Fiorito, lei conosceva bene David Rossi?

«Sì, lo conoscevo bene, ho lavorato a diretto contatto con lui».

Che idea si è fatto?

«Io ero tra coloro che erano convinti che si fosse suicidato».

Perché?

«Perché dopo l’avvio dell’inchiesta era stato completamente isolato, l’atmosfera in città si era fatta estremamente pesante per lui. Ed uno abituato a dominare la partita, a distribuire decine di milioni di euro di sponsorizzazioni che fanno diventare chiunque ossequioso e aprono tutte le porte, nel trovarle sbarrate e avendo attorno a sé estrema freddezza poteva perdere il lume della ragione».

Dopo l’inchiesta delle Iene ha cambiato idea?

«Le immagini sono impressionanti, alcuni dettagli riportati anche. Sospendo il giudizio. Conosco Antonella, la moglie di David, di certo posso dire che è una persona di altissimo valore. Si batta per la verità».

Qual è la verità? Secondo l’ex sindaco Piccini, Rossi è stato ucciso. Ha ragione lui e la convince quel che dice nel fuori onda delle Iene?

«Ma quale fuori onda, è tutta una pantomima, Piccini sapeva benissimo che lo stavano registrando, lo dice anche e ripete più volte di essere candidato a sindaco. Una buona mossa da campagna elettorale. Piccini ha una enorme intelligenza ed è l’unico personaggio del contesto ad avere un’altra gamba. Ma parla anche da “amante delusa” perché al posto di Mussari voleva esserci lui, fu fregato da Giuliano Amato e Giulio Tremonti».

Lo stesso Amato che chiede i soldi della sponsorizzazione Mps per il suo circolo del tennis a Orbetello?

«Certo. è cosa nota, la filiera Amato-Mussari-Rossi è agli atti ed è ormai conosciuta a tutti. Rossi gestiva le sponsorizzazioni, gliene derivava un grande potere. Ma non si deve fare un errore».

Quale?

«Quello di buttarla in politica. La politica a Siena non ha mai davvero toccato palla sulle questioni grosse. Anche su Antonveneta, erano altri gli interessi che contavano».

Quali?

«I grembiuli».

La massoneria?

«Certo e a livello internazionale. O, come dicono quelli che parlano bene, le relazioni finanziarie internazionali consolidate. Dicono di D’Alema. D’Alema non è neanche laureato, non sa distinguere un derivato da una melanzana».

Però poteva sapere far comprare a 9 miliardi qualcosa che ne vale 6 e ha 7 miliardi di debiti, come nel caso dell’acquisizione di Antonveneta da parte di Mps. Perché lo esclude?

«Perché quelle decisioni venivano prese ad altri livelli, il potere che conta nelle banche non è quello politico. Poi, certamente Mussari era amico personale di più di un presidente del Consiglio. Ma per consolidare la propria posizione, non per trattare le acquisizioni».

Piccini parla di ville dei festini. Tutto inventato?

«No, a Siena di questa famosa villa si parla da sempre. Ma quando si fanno quel tipo di denunce si indica il posto con l’indirizzo preciso, si fanno dei nomi. Se si sta sul generico è una mossa da campagna elettorale, Piccini è in campagna elettorale. A Siena, peraltro, è l’uomo di maggiore levatura che abbiamo».

I politicanti italiani volevano solo i soldi per il circolo del tennis?

«Volevano tante cose, ma non avevano una politica industriale. Gli ultimi tre governi hanno completamente ignorato il caso Monte Paschi minimizzandolo, è incredibile come presidenti del Consiglio del calibro di Monti, Letta e soprattutto Renzi abbiano ritenuto così di poco conto quel che accadeva a Mps. Si sono dimostrati incompetenti. Poi si è dovuto correre ai ripari mettendo di fatto le mani in tasca, e tanto, ai contribuenti italiani. E a pagare il prezzo sono stati i sottoscrittori di tre successivi aumenti di capitale che sono andati letteralmente bruciati. Ma se non recuperiamo sovranità sul sistema bancario persino parlarne è inutile. Anche per questo Siena è vittima e non carnefice».

Per la verità Antonino Monteleone e i suoi autori mostrano una Siena omertosa e complice, non è così?

«Neanche più Matteo Salvini pensa che l’omertà sia una caratteristica esclusiva di Crotone o Partinico. Omertosa è la provincia italiana, chiusa in sé stessa. E di questo è morto David Rossi, qualsiasi sia la storia della sua fine».

Caso Rossi, Valentini: “Siena non è come la dipingono Le Iene. L’ex funzionario esiste davvero? Scrive il 18 Ottobre 2017 "Antennaradioesse". Ancora rivelazioni piccanti nel corso della trasmissione Le Iene andata in onda ieri sera su Italia 1. Un nuovo servizio dedicato al caso della morte di David Rossi (lungo ben 21 minuti) ha proposto la testimonianza di un ex funzionario del comune di Siena, di cui non viene rivelata l’identità, che ha confermato le feste a base di sesso e droga a cui avrebbero partecipato numerosi personaggi di quello che viene definito “il groviglio armonioso”. Questa descrizione della città fatta dalla donna viene nuovamente rigettata dal sindaco Valentini che, dopo aver risposto alle dichiarazioni di Pierluigi Piccini qualche giorno fa, torna a dire che Siena non è una città depravata e si chiede anche se la misteriosa funzionaria esista oppure no. “Io rifiuto questa immagine di Siena come città pruriginosa, di provincia, dove circola la droga a fiumi, ci sono festini hard, dove ci sono perversioni in ogni angolo e in questo clima poi maturano reati e delitti. Poi, come in tutte le città, ci sarà chi consuma droga e ci saranno avventure extraconiugali, ma il modo in cui viene presentata non corrisponde al vero, è deformata. Poi siamo sicuri che questa donna ex funzionario del comune in pensione esiste davvero o non è una montatura come è successo qualche anno fa con un’altra trasmissione, sempre sull’argomento del Monte dei Paschi? Prima di dare un giudizio vorrei saperne di più. Quello che mi interessa invece di più è la disponibilità dimostrata dalla magistratura, attraverso le parole del Procuratore Vitello, di riaprire le indagini qualora ci fossero elementi tali che richiedono un approfondimento. Io questo chiedo ai magistrati: se ci sono ancora dei lati oscuri bisogna andare avanti finchè non ci sia l’assoluta certezza che le cose sono andate così come è scritto nelle sentenze. Lo si deve ai familiari di Rossi e a tutta la città”. 

David Rossi ucciso perché non parlasse. I festini? Un freno alle indagini". La morte del manager Mps, parla la figlioccia: «Sapeva tante cose», scrive Pino Di Blasio il 12 ottobre 2017 su "La Nazione". Ognuno recita una parte in questo tormentato dramma sulla morte di David Rossi, che rischia di assumere i contorni di una commedia tragica. E che riaccende a Siena quel falò delle vanità che ha bruciato le ricchezze di una banca di 5 secoli, 50 miliardi in pochi anni, e le ambizioni di una classe dirigente improvvisata e incompetente (per sua stessa ammissione). Assieme alla vita di un giovane manager diventato troppo potente. L’ultimo petardo, esploso attorno all’inchiesta su quel volo fatale da una finestra di Rocca Salimbeni, il 6 marzo 2013, è lanciato dall’ex sindaco Pierluigi Piccini, nell’intervista rubata, sostiene lui, dalle Iene. Dopo aver detto che «l’ipotesi del suicidio di David è una cazzata», che «un uomo che ha gestito 50 milioni in quattro anni non perde la testa per una perquisizione», Piccini ha rivelato che, dietro la morte di David e le indagini non certo complete, ci sarebbero festini in ville nell’Aretino e sul mare, che avrebbero visto personaggi nazionali e giudici divertirsi insieme, senza freni, con tanto di sesso e droga. Affermazione prima derubricata come «intervista rubata», poi depotenziata con «a Siena tutti sanno dei festini, ma nessuno parla». Infine ribadita dall’ex sindaco, finito nel mirino della procura di Genova: che ha aperto un fascicolo, al momento senza ipotesi di reato, dopo che il procuratore capo di Siena aveva trasmesso alla sede competente il testo dell’intervista. «Confermo la disponibilità a parlare di tutto ciò che so – ha dichiarato ieri Piccini – e che ho detto già da molti anni, consapevole di sostenere un’ipotesi scomoda: soprattutto per me». Dai giudici altre reazioni veementi: la presidente della Corte d’appello di Firenze, Margherita Cassano e il procuratore generale, Marcello Viola hanno chiesto al Csm di «aprire una pratica a tutela dell’operato dei pm della procura di Siena» per le dichiarazioni dell’ex sindaco. In mezzo a questa nuova bufera, la persona che sembra mantenere la barra dritta è Carolina Orlandi, figlioccia di David Rossi, che oggi presenterà, assieme alla madre Antonella Tognazzi, moglie di Rossi, il libro di David Vecchi sul «suicidio imperfetto del manager Mps». «Non spetta a me trovare le risposte a tutte le incongruenze dell’inchiesta – è l’esordio di Carolina –; le abbiamo chieste più volte e ce l’hanno sempre negate. Se questa nuova pressione mediatica serve a spingere qualcuno a guardarsi dentro e a dire la verità, ben venga. Io resto convinta che tanti sanno e che dietro la morte di David ci siano interessi forti. Altrimenti l’inchiesta sarebbe stata condotta diversamente». Carolina Orlandi non crede al suicidio: è stata la persona più vicina a David Rossi anche negli ultimi giorni di vita, il suo giudizio non è marginale. «Penso che David sia stato ucciso perché voleva parlare, aveva tante informazioni sugli affari della banca, sentiva una forte pressione addosso. Anche a me aveva detto che non sapeva i motivi della perquisizione disposta dai magistrati sull’inchiesta Antonveneta. Era scosso, ripeteva che avrebbe preferito parlare con i pm. Due giorni dopo è morto». Siena era nel pieno dello scandalo derivati, delle indagini su Alexandria, Santorini e sui tentativi di occultare le voragini sui bilanci del Monte dei Paschi, aperte dallo sciagurato acquisto di Antonveneta. «Il Monte era al centro della bufera – ricorda Carolina – e qualcuno non sapeva cosa avrebbe voluto dire David ai giudici. Forse ha preferito togliersi il problema. Ma io non so chi ha deciso che David dovesse morire». C’è anche una risposta efficace sulla polemica in merito ai festini hard rivelati da Piccini, primo datore di lavoro, da sindaco, di David Rossi dal 1997 al 2001. «I festini a luci rosse – è la tesi di Carolina – non c’entrano direttamente con il delitto, non sono il movente della morte di David. Io penso che Piccini abbia voluto indicare una ragione del perché le indagini sarebbero state condotte in quel modo. Più che un movente, un deterrente a indagare, un possibile messaggio a magistrati eventualmente troppo zelanti». Carolina Orlandi non spera in una terza inchiesta su quel suicidio imperfetto, nonostante le incongruenze, dall’uomo nel vicolo col telefono mai identificato, ai fazzolettini insanguinati, bruciati come reperti inutili. Il procuratore capo di Siena, Salvatore Vitello, ha già ribadito che «ben sette magistrati sono stati titolari di indagini sul decesso di Rossi; magistrati intervenuti in momenti diversi, con approfondimenti investigativi e accertamenti, i cui risultati sono stati da tutti ritenuti convergenti verso l’ipotesi suicidio». «Sono tanti gli elementi che non tornano – conclude Carolina – e non spettava alla famiglia impedire di buttare i vestiti di David due giorni dopo. Con il senno di poi, avremmo fatto cose che sarebbero state utili». La figlia del manager preferisce glissare sulle risposte strappate all’ex presidente Mps, Giuseppe Mussari: «Ha detto che quel che pensa mia madre Antonella è Vangelo? Preferisco non commentare. Non conosco Mussari, non l’ho mai visto né prima né dopo. So che David era l’unico uomo rimasto della vecchia dirigenza della banca e doveva gestire la comunicazione in mezzo a uno scandalo finanziario enorme». A distanza di 4 anni a mezzo, di sicuro c’è solo che David Rossi è morto: sul come e sui perché ognuno ha la sua verità.

Suicidio Monte Paschi, «Rossi fu ucciso e i pm coprono i festini». Gli avvocati: ora basta, scrive Errico Novi il 14 Ottobre 2017 su "Il Dubbio". La rabbia dell’avvocatura di Siena contro l’ex sindaco che “sul caso del suicidio del dirigente della banca infanga l’intera magistratura”. C’è una tragedia, alla base di tutto il resto. Ma poi sulla tragedia si scatena l’assurdo della fake news più insensata. La storia è quella di una morte che ha sconvolto il sistema finanziario del Paese e di certo l’intera città di Siena: il suicidio – ritenuto tale dai magistrati – del povero David Rossi, capo della comunicazione del Monte dei Paschi, che precipitò dalla finestra del suo ufficio il 6 marzo 2013. Un ex sindaco, Pierluigi Piccini, parla a “Le Iene”, senza sapere di essere registrato, di festini a cui avrebbero partecipato esponenti della politica nazionale e della magistratura locale. Aggiunge che forse gli stessi giudici avrebbero «abbuiato» la vicenda, nascosto la verità, perché altrimenti sarebbe scoppiata «una bomba morale». Elementi di riscontro? Glielo chiede il Corriere della Sera, che mercoledì scorso pubblica la seguente risposta dell’ex primo cittadino: «Ho solo riportato voci che mi ha raccontato qualcuno, mi sembra un avvocato romano, e anche queste circolano da tempo in città. Non sono novità, almeno per noi senesi». Altro solido argomento: «Nel 2013 durante un’assemblea di Mps un consigliere comunale parlò pubblicamente di personaggi orgiastici e pervertiti». Cosa c’entri questo con la dinamica dei fatti che quella maledetta sera portarono al volo mortale di Rossi, non si capisce. Eppure Piccini non ha dubbi: «David Rossi non si è ucciso, è stato assassinato. Ne sono assolutamente convinto». Sempre sulla base della diceria raccolta da «un avvocato» di cui non ci si ricorda neppure se fosse o meno «romano». Tutto esemplare. Paradigmatico. Un’intera categoria, la magistratura di Siena, scaraventata indiscriminatamente e disinvoltamente nel fango, sulla base di informazioni claudicanti. Un canovaccio a cui si ribella non solo la locale sottosezione dell’Anm, che chiede un immediato «intervento a tutela» da parte del Csm, subito sollecitato in modo formale dalla presidente della Corte d’appello di Firenze Margherita Cassano; a dire basta è anche l’avvocatura. In un comunicato, il presidente dell’Ordine di Siena Nicola Mini esprime «sconcerto per le modalità con cui sono stati fatti riferimenti indiscriminati a magistrati del Tribunale di Siena». E confida che la Procura di Genova «possa svolgere adeguati accertamenti per non addensare altre nubi su un caso che ha profondamente turbato l’intera cittadinanza». A conferma di un dato: contro la barbarie delle fake news e dell’informazione senza regole in campo giudiziario, avvocatura e magistratura sono dalla stessa parte. Alleate contro la macchina del fango. E spesso costrette a battersi contro un apparato mostruoso. Certo, le “rivelazioni” hanno un inevitabile riverbero giudiziario: è già partita l’inchiesta–ter, condotta dalla Procura di Genova, che ascolterà Piccini come persona informata sui fatti. Non si può escludere che l’ipotesi dell’omicidio mascherato sia ancora percorribile. Ma, come ha ricordato il primo cittadino attuale Bruno Valentini, «chi sa deve parlare ai pm», non alle Iene. E invece si è scelto lo stile dello sputtanamento indiscriminato. Le “ipotesi” dell’ex sindaco sono state carpite con l’inganno, dunque la patologia non è Piccini ma il processo mediatico che lo eleva a fonte attendibile. Sistema che forse non dirà qualcosa di nuovo sulla tragedia di David Rossi, ma che di sicuro ha coperto di infamia l’intera magistratura senese.

"Falle nel suicidio di Rossi" L'autogol dei giudici su Mps. La Procura mette on line la sentenza di archiviazione Ma lo stesso gip ammette incongruenze nella dinamica, scrive Luca Fazzo, Venerdì 13/10/2017, su "Il Giornale". La verità si può afferrare: come si possono afferrare i polsi di un uomo, tenendolo sospeso sul precipizio, e poi lasciandolo andare a schiantarsi venti metri più in basso. Quell'uomo si chiamava David Rossi, e da quattro anni il suo fantasma agita i sonni di una città. La Siena del potere secolare, che quella morte vuole archiviare per sempre insieme alla stagione dell'onta, delle porcherie venute a galla e che l'hanno travolta. Ma anche della città che vuole sapere, della folla incredibile che ieri sera invade Palazzo Patrizi per la presentazione di un libro sul «suicidio imperfetto» del portavoce di Mps. L'immagine di Rossi, sospeso nel vuoto, fuori dalla finestra del terzo piano di Palazzo Salimbeni, sede del Monte dei Paschi e cuore della città, esce vivida dal documento che ieri fa irruzione nella scena. Subissata dalle accuse, imputata di avere affossato le indagini per coprire un circuito di perversione e di festini, la Procura senese fa una mossa a sorpresa: mette in rete un atto giudiziario, l'ordinanza con cui nel luglio scorso il giudice Roberta Malavasi archiviò per la seconda volta le indagini sulla morte di Rossi. È una mossa intelligente, quella del procuratore Salvatore Vitello, perché a una lettura veloce le 58 pagine dell'ordinanza appaiono solide, e si prestano a fare piazza pulita di molti dubbi: persino l'inverosimile comportamento dei due colleghi di Rossi, che nel vicolo Monte Pio si accostano al corpo dell'amico e se ne vanno senza fare nulla, assume una spiegazione. Ma è anche una mossa disperata, quella di Vitello. Perché nella stessa sentenza, infrattate tra le righe, saltano fuori due conferme a quanto in città si dice da quattro anni. La prima è che le indagini sono state fatte con sciatteria ingiustificabile: tanto che ora il nuovo giudice deve fornire una ricostruzione dei fatti radicalmente diversa da quella che un suo collega firmò il 5 marzo 2014, quando per la prima volta l'inchiesta venne affossata: a partire dall'agonia di Rossi al suolo, che secondo il primo giudice - supportato dai medici legali - durava pochi attimi, e che ora si scopre protratta per venti interminabili minuti. Seconda conferma: la versione del suicidio ha una falla, un elemento inspiegabile. Lo dice lo stesso giudice Malavasi a pagina 55: le tracce di sfregamento lasciate dall'orologio sul polso di Rossi sono incompatibili col volo dalla finestra e invece del tutto spiegabili con la scena dell'uomo, tramortito da un colpo alla testa, che viene tenuto oltre il davanzale, e poi precipita quasi all'inpiedi: «suggerendo piuttosto l'intervento di una azione di trascinamento dell'orologio dall'avambraccio verso la mano, compatibile con un afferramento, seguito da un trascinamento o da una sospensione». Da chi, per conto di chi, per coprire cosa? Su questo Siena si interroga da quattro anni, sospesa tra la rozza chiacchiera popolare, «erano tutti finocchi», e la dietrologia del grande complotto finanziario, dei santuari inviolabili che temevano il pentimento annunciato di David Rossi, del numero di conto allo Ior del Vaticano che il presunto suicida digita prima di morire. Ora il j'accuse di Piccini chiude in qualche modo il cerchio, perché accomuna le due piste in una sola, racconta di una «storia parallela» dove politica e massoni, potere e sesso si incontrano in un solo sistema di potere: ed è un'accusa forte, perché viene da un uomo che del sistema di potere senese ha fatto parte per anni. E che racconta come anche nella sacralità di una assemblea della banca un consigliere comunale si fosse alzato per denunciare le manovre di «personaggi orgiastici e pervertiti». «La Procura in fondo non ha colpe, perché in quel mondo nessuno può andare a scavare», dice un senese che queste storie le conosce bene. Ma più che di sudditanza ora sulla magistratura locale viene calata un'ombra di collusione piena col sistema di potere, anche nei suoi lati più inconfessabili. In fondo anche questo riprende gossip che girano da tempo, con financo l'indirizzo della villa dove i «personaggi orgiastici» avrebbero compiuto le loro gesta. Non è con le chiacchiere da bar che si fanno le inchieste giudiziarie, certo. Ma ora la procura di Genova nell'inchiesta ter, dovrà per forza ricostruire il percorso delle voci, partendo dalla avvocatessa romana (sposata ad un ex dei servizi segreti) che l'ex sindaco Piccini indica come sua fonte. È un terreno delicato, perché va inevitabilmente a lambire la figura della vittima di questa storia. Cosa sapeva David Rossi del circuito oscuro di Siena? Anche di questo voleva parlare con i giudici? Ieri sera, davanti a un'intera città arrivata ad ascoltare la storia del «suicidio imperfetto» raccontata nel libro del giornalista Davide Vecchi la moglie Antonella va giù piatta: «Di queste cose David non mi ha mai parlato. Neanche come pettegolezzo».

PRIMA ARCHIVIAZIONE. (Tratto dal sito web de Le Iene).

Ordinanza di accoglimento di richiesta di archiviazione da parte del Gip di Siena Monica Gaggelli per la morte di David Rossi.

TRIBUNALE DI SIENA

Ufficio del Giudice per le Indagini Preliminari.

Ordinanza di accoglimento di richiesta di archiviazione,

all'esito di udienza disposta ai sensi degli articoli 409 e 410 c.p.p.

Il G.1.P. del Tribunale di Siena, d.ssa Monica Gaggelli a scioglimento della riserva assunta all'udienza in camera di consiglio fissata ai sensi degli articoli 409 e 410 c.p.p. in seguito all'opposizione, proposta dall'Avv. Goracci, in rappresentanza e difesa della p.o. Antonella TOGNAZZI, avverso la richiesta di archiviazione presentata dalla locale Procura della Repubblica in persona dei Pubblici Ministeri dott. Nicola Marini e dott. Aldo Nata lini, nel p.p. n. 962/2013 rgnr mod.44, il 07.03.2013 promosso contro ignoti, in ordine all'ipotesi di reato di cui all'art 580 c.p. in seguito alla morte di David Rossi (coniuge della p.o. opponente) avvenuta a Siena il 06.03.2013:

PREMESSO CHE

I Pubblici Ministeri nella propria richiesta di archiviazione osservano, in ordine al fatto, che "il giorno 6 marzo 2013 verso le ore 20:40 veniva rinvenuto, nella stradina privata di proprietà di BMPS, denominata vicolo del Monte Pio, il cadavere di David ROSSI, Responsabile dell'Area Comunicazione di Banca Monte dei Paschi di Siena, precipitato dalla finestra del suo ufficio sito al terzo piano di palazzo Sansedoni. La Volante della P.S. recatasi sul posto avvisava questa A.G. che immediatamente presenziava personalmente al primo sopralluogo in loco per la ricostruzione dell'accaduto, disponendo quindi la rimozione de l cadavere ed il sequestro degli ambienti lavorativi. All'interno dell'ufficio occupato dal dott. ROSSI venivano rinvenuti tre fogli manoscritti (ai fogli 67,68 e 69: in copia ai fogli 48-51 e nel fascicolo fotografico ai fogli 316-316 bis) indirizzati alla moglie dal sicuro contenuto suicidiario (Ciao Toni, mi dispiace ma l'ultima cazzata che ho fallo è troppo grossa. Nelle ultime settimane ho perso; Ciao Toni, Amore l'ultima cosa che ho fallo è troppo grossa per poterla sopportare. Hai ragione. Sono fuori di testa da settimane; "Amore mio, ti chiedo scusa ma non posso più sopportare questa angoscia. In questi giorni ho fallo una cazzata immotivata. Davvero troppo grossa. E non ce la faccio più credimi, è meglio così ". Nell' ufficio venivano inoltre rinvenuti fazzolettini sporchi di sangue e carta protettiva per cerotto da automedicazione, la cui compatibilità con le lesività cutanee constatate su entrambi i polsi sin dal primo sopralluogo (v. foto n 11 - 14 fogli 306bis-307: v. rei. Polizia Scientifica in foto. 298-299) veniva definitivamente riscontrata in sede di C.T. medico-legale, in termini di "lesioni dagli avambracci ed ai polsi, di modesta entità, [. . .] prodotte poco prima della precipitazione per meccanismo autolesivo" (ved. rei. Fol. 450).

Quanto a ipotesi di reato inizialmente prospettata ed alle indagini esperite al fine di verificarne la sostenibilità in giudizio, osservano i Pubblici Ministeri come "benché sin da subito fosse evidente la natura suicidiaria del decesso, peraltro [ ... ] preceduto da gestualità chiaramente autolesive, questa A.G. disponeva un'intensa attività investigativa onde acclararne la spontaneità ed escludere l'esistenza di eventuali soggetti istigatori (art 580 c.p.), anche in ragione del contesto storico in cui era maturato il fatto, rappresentato dalla pendenza de l proc. pen. 845/201 2 N.R. mod. 2 1, nell'ambito del quale il ROSSI, quale terzo, era stato oggetto di perquisizione in data 19.2.20 13, nonché di escussione come p.i.f. in ordine ai suo i rapporti con MUSSARI (v. verbale di s.i.t. in foll. 989-991 e minuta del decreto di perquisizione in fo ti. 523-525). Le diffuse attività di indagine e perite si sviluppavano oltre che nell'espletamento di rilievi tecnici e di C.T. medico-legale nell'acquisizione delle immagini della videosorveglianza esterne al luogo della defenestrazione (ritraenti la parte finale della caduta del ROSSI: v. verbale in fai. 13 e correlato CD video in foll. 125 bis-128), nell'immediata perquisizione dell'abitazione del defunto e dell'ufficio, nel sequestro con successiva clonazione in procedura di sicurezza (write block) d i tutti i supporti informatici in uso al ROSSI (PC fisso, portatili, cellulari, chiavette Usb), nonché nell'analisi dei tabulati telefonici delle utenze in uso al predetto (vb. Voi. lrl: foll. 524-988). Venivano quindi escusse tutte le persone che, in ambito lavorativo, più strettamente avevano collaborato nell'ultimo periodo col deceduto (v. s.i.t. MINGRONE Bernardo, FILIPPPONE Giancarlo, SONDI Lorenza. PROFUMO Alessandro, VIOLA Fabrizio, GALGANI Chiara, CIANI Carla Lucia, DALLA RIVA Ilaria), anche al fine di escludere che fosse da attribuire al ROSSI la fuga di notizie circa il promovimento dell'azione civile nei confronti di Banca NOMURA in relazione all'operazione ALEXANDRIA e DEUTSCHE BANK in relazione all 'operazione SANTORINI: fatto per il quale questo Ufficio, su denuncia di BMPS - aveva iscritto il proc. pen. n 874/2013 mod. 44 per insider Jrading commesso la sera del 28.2.1O13, dopo il Cda di BMPS. Onde conoscere gli aspetti comportamentali del ROSSI relativi agli ultimi giorni antecedenti al decesso, venivano inoltre escussi i suo i famigliari (v. s.i.t. TOGNAZZI Antonella, O RLANDI Carolina, ROSSI Ranieri), nonché da ultimo alcun i giornalisti che con lui ebbero contatti (MUGNAINI Domenico, VECCHI Davide e STRAMBI Tommaso)."

In ordine alle ragioni poste a fondamento della conclusiva richiesta di archiviazione, rileva no e ritengono infine i pubblici ministeri che " il risultato Investigativo ha portato ad escludere, senza dubbio alcuno, che per la morte di ROSSI David ricorrano responsabilità di terze persone, nella veste di istigatori. Le stesse conclusioni del C.T. medico legale convergono nel senso di "assenza di segni attribuibili ad azione violenta di terzi " (v. relazione C.T. Gabbrielli in foll 450-456). In vero il triste episodio autosoppressivo è sicuramente maturato nelle ultime settimane nella psiche del defunto nel contesto della tempesta, anche mediatica oltre che giudiziaria, che ha subito l'istituto senese a seguito delle investigazioni rivolte nei confronti del vecchio management di BMPS e che ha finito col travolgere lo stesso ROSSI, legato da profonda amicizia con l'allora presidente MUSSAR) Giuseppe, principale indagato nell'ambito del procedimento sull'acquisizione di BANCA ANTONVENETA [ ... ] e nel filone sul c.d. scandalo derivati [ ... ] Proprio tale legame - per i timori che fosse "male inquadrato dagli inquirenti ( v. ma il a sua firma inviata a VIOLA il 04.03.2013) - aveva ingenerato nel ROSSI un crescente stato di tensione culminato con l'estremo gesto, a fronte di un sovraccarico emotivo divenuto insopportabile a seguito della perquisizione da lui subita il 19/02/201 3 [ ... ] Da quel momento in poi si è palesata di giorno in giorno, una sorte di ossessione, tanto evidente da essere percepita sia dai suoi più stretti collaboratori che dai suoi famigliari.

Emblematici in tal senso i gesti di autolesionismo di cui si avvedono la stessa moglie e la di le i fi glia, siccome avvenuti nei giorni immediatamente precedenti al suicidio e reiterati il giorno stesso del decesso, come evidenziato nella relazione medico-legale.

In sostanza, nella mente del ROSSI nelle ultime settimane si erano create due forti ossessioni:

- la prima, quella di non essere in grado di gestire il ruolo che pure anche il nuovo management gli aveva confermato ed anzi potenziato; e ciò perché il momento che stava vivendo era molto critico essendo necessario ricostruire attraverso la giusta comunicazione l'immagine dell'istituto bancario, fortemente compromessa da mesi;

- la seconda, quella che la sua datata amicizia col principale indagato nell'indagine MPS lo avrebbe portato addirittura ad un coinvolgimento diretto nella vicenda, ad essere intercettato e financo ad essere arrestato.

Alla prima paura, era poi correlata quella di essere licenziato, avendo introiettato una sorta di convinzione di essere estromesso dalle informazioni sensibili della Banca sene e: timore nondimeno assolutamente immotivato sulla base d i quanto ricostruito da questa A.G. (v s.i.t. VIOLA, PROFUMO e DALLA RIVA) ed in effetti smentito da due circostanze obiettive: il suo collocamento in seno al Comitato Direttivo della Banca ed il suo inserimento nel c.d. piano di coatching, ruoli, entrambi in rea ltà destinati soltanto ai responsabili di direzione, categoria cui a ben vedere il ROSSI non apparteneva.

Alla seconda paura seguiva invece una forte e crescente demoralizzazione per il fatto che un (temuto, ma da lui percepito come diretto) coinvolgimento nelle indagini MPS avrebbe prodotto quale effetto perverso quel lo della perdita della immagine che lui in anni si era costruito come funzionario integerrimo e capace. Illuminanti in tal senso [ ... ] le dichiarazioni rese alla coatch CIANI che ebbe ad intervistare il ROSSI la mattina stessa del suicidio [ ... ] La disastrosa condizione emotiva che viveva ROSSI negli ultimi giorni antecedenti il suicidio, emerge plasticamente dal drammatico ondivago scambio di mail intrapreso la mattina del 4 marzo 20 13 con l'Amministratore delegato VIOLA: evidenti sono gli sbalzi d i umore rispetto alla prima richiesta di aiuto allo stesso rivolta alle ore 10.30 ("stasera mi suicido sul serio. Aiutatemi!: v. fol. 157). pure non pervenuta all'unico destinatario, ma alla quale sono poi seguite altre mail, sempre dirette all'A.O., con toni meno allarmanti e più distesi.

Le coeve indagini svolte nell'ambito del proc. pen. n. 1169/2013 n.r. mod. 21 - culminate con l'individuazione del responsabile della fuga di notizia sull' azione di responsabilità in persona del consigliere BRIAMONTE Michele, attinto da misura interdittiva, consentivano infine di escludere che fosse questo il movente del gesto suicidario, se non in termini putativi."

Concludono i due pubblici ministeri in virtù di queste considerazioni chiedendo l'archiviazione del procedimento perché il fatto non sussiste, "non trovando l'iniziale ipotesi accusatoria alcun riscontro investigativo, non essendovi istigatori cui attribuire il fatto suicidario, trattandosi di gesto assolutamente volontario e comprovato dagli atti per cui è procedimento".

....

L' avv.to Goracci, per converso nell'interesse della p.o. Antonella TOGNAZZI (coniuge del deceduto ROSSI) nell'opporsi, con rituale atto scritto, alla suddetta richiesta di archiviazione evidenzia in primo luogo "alcuni aspetti delle indagini, meglio emergenze investigative, che avrebbero dovuto stimo lare [ ... ] altre considerazioni, indagini più approfondite, anche ed eventualmente indirizzate verso altre ipotesi di reato". Venendo all'ipotizzato evento suicidiario assume l'opponente l'esistenza di non poche " perplessità", desumibili sia dalle lesività presenti sul corpo de l deceduto che dalla dinamica della caduta. Sotto il primo aspetto il difensore opponente riportandosi alle note del proprio CTP (prof. Norelli) si interroga in termini critici rispetto alle conclusioni del CTP medico-legale de l PM (prof Gabbrielli) su "qua le possa essere l'origine della lesività al volto del deceduto, la cui genesi - così si assume - non si attaglia alla lesività che possa essersi prodotta nella caduta [ ... ] . Analogamente può dirsi per quanto attiene alla lesività delle braccia ed all'addome, eventualmente giustificabile con una dinamica di posizionamento sul davanzale assai complessa per un evento suicidiario [ ... ]. Ed ancora nulla si dice della lesività agli arti inferiori, del pari non giustificabile con la caduta né dell'origine della lesività toracica di cui ci si limita ad enfatizzare la gravità [ .. . ]. Ancora la ferita lacero-contusa occipitale si presentava di dimensioni assai ridotte e triangolare, come ridotta era la lesività cranica, poco compatibile con una precipitazione da altezza di circa 15 metri e le "ferite" ai polsi si sono rivelate in realtà aree d i mera disepitelizzazione, di cui neppure si è ritenuto di indagare, se non l'origine, quantomeno la data d i formazione [ ... ]. Quanto poi alla assenza di segni attribuibili a violenza di terzi, sembra doveroso do mandarsi in base a quali elementi di certa dimostratività il C.T. abbia inteso pronunciarsi, posto che di tale aspetto nella relazione non sono forniti alcuna elaborazione e approfondimento". Per quanto attiene alla dinamica del la caduta, analogamente, il difensore della parte offesa opponente, rinvia alla relazione del proprio CTP (ing. Scarselli), il quale complessivamente ravvisa "criticità importanti riferibili alla dinamica del suicidio, costituito dall'azione della vittima che si lancia nel vuoto dalla finestra" e sostiene che " la posizione iniziale da cui si è originato il moto, la assenza di segni lasciati dalla vittima sulla finestra dalla quale si sarebbe lanciato, i segni di sfregamento sulle scarpe, evidenziano elementi la cui origine e le cui cause sono al momento oscure e non si spiegano con il me ro presunto suicidio della vittima".

Perplessità, secondo l'opponente s u aspetti aventi rilevanza, prima ancora che con riferimento all' ipotesi di reato di istigazione al suicidio, in relazione all’ipotesi di omicidio volontario, mediante defenestrazione, emergerebbero anche da altri elementi. Ossia:

- dall'ora del decesso, asseritamente "del tutto incerta in considerazione che l'ora riportata nel filmato non è corretta essendoci una discrepanza di circa 16 minuti, con la conseguenza che nel momento in cui la BONDI usciva dal proprio ufficio alle ore 20.05 circa e vedeva la porta dell'ufficio del ROSSI aperta, già questi avrebbe dovuto essersi gettato fuori dalla finestra; stranamente la stessa porta quando il FILIPPONE alle 8.35 circa, su richiesta della moglie (del ROSSI), si reca presso l'ufficio del collega ROSSI veni va trovata chiusa;

- dal rinvenimento delle lettere, inviate alla moglie, tutte accartocciate e cestinate;

- dalle discordanti dichiarazioni de l Dott. MINGRONE, "dove viene dichiarato dallo stesso di non conoscere neppure ove si trovasse l'ufficio di ROSSI mentre lo stesso risulta ben a conoscenza di cosa vi sia nelle stanze attigue [ ... ) la sala riunioni e la sala piccola";

- dalla diversa posizione, rilevata da l confronto tra le immagini del filmato mediante video-telefonino eseguito al momento del primo accesso della Polizia nell'ufficio de l ROSSI (ore 2 1.30) e le fotografie scattate dagli inquirenti durante il successivo sopralluogo (ore 01.30 circa), in relazione ad alcuni oggetti presenti della stanza, in particolare alla posizione della giacca sulla sedia del ROSSI nonché a quella degli occhiali, visibili sulla scrivania dattilo solo nelle fotografie delle ore 01.30.

Anche "sulla chiamata al 11 8, su chi tale chiamata ad a quale ora la stessa sia stata effettuata, sugli interventi eseguiti dai soccorritori, sulle indagini medico legali effettuate e su quanto non effettuato" l'opponente sol lecita "a porre la necessaria attenzione".

Vengono inoltre dall'opponente contestate le modalità di acquisizione delle mail, per come risultanti dal verbale di esecuzione del decreto di perquisizione ispezione informatica e sequestro probatorio del 07.03.2013 ore 10:30 (a foll. 42 fase. PM) ed a tale riguardo è avanzato il dubbio che talune mail "il cui contenuto potrebbe avere rilevanza anche con riferimento all'ipotesi di cui all'art 580 c.p. potrebbero addirittura essere state eliminate, ovvero modificate prima dell'acquisizione [ ... ]."

Ove si dovesse ritenere appurato il suicidio - osserva ancora l'opponente - in relazione sia alla all'ipotesi di reato di cui all'art. 580 c.p. che a quella dell'omicidio colposo con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro (dell'art 2087 c.c. e dell'art 28 d. Ivo 81 /08), si deve considerare che "è pacifico che si sia verificato un decesso di un lavoratore che prima di gettarsi dalla finestra, [ ... ] aveva mandato al datore di lavoro, in persona dell'amministratore delegato e del vice direttore del personale o comunque di una stretta collaboratrice del responsabile delle risorse umane, una mail in cui preannunciava il suicidio. Tale mail non sembra sia stata neppure mostrata all'Amministratore delegato in sede di interrogatorio e tanto meno risulta essere stata sentita la destinataria, oltre all'amministratore, della lettera del Rossi, per conoscere, da questa direttamente, quali attività ha ritenuto di intraprendere a fronte di una comunicazione di tal genere alla quale non hanno fatto seguito le altre mail inviate al solo amministratore delegato."

Sotto questo versante l'opponente richiamandosi alle "osservazioni psichiatrico-forensi sulla morte di D. Rossi" del proprio CT P (prof. L. Loretti) lamenta inoltre la sottovalutazione dello "stress lavorativo correlato" al quale il ROSSI è stato sottoposto negli ultimi tempi, in ragione d i una situazione lavorativa emersa da più fonti come "estremamente pesante e non certo per la perdita di punti di riferimento o di appoggio, ma anche per trovarsi, esso ROSSI, in prima linea" e denuncia il mancato approfondimento della correlazione causale che anche questa situazione potrebbe aver avuto con il suicidio.

Allo stesso riguardo osserva infine l'opponente che i timori nutriti dal ROSSI, sia per quanto concerne la sua posizione giudiziaria che per quanto concerne la sua posizione lavorativa, erano oltre che del tutto legittimi, diversamente da quanto ritiene la pubblica accusa, ancorati a vari dati oggettivi qua li, secondo l'opponente, il fatto che al ROSSI fosse stata tolta la responsabilità della Comunicazione Interna, affidando la alla nuova dirigente delle Risorse Umane (DALLA RIVA), che il ROSSI fosse stato estromesso da "un'attività tipicamente dal medesimo sempre svolta, data la segretezza della notizia, poi ugualmente trapelata (il riferimento è all'episodio specifico inerente la fuga di notizie sulla decisione adottata dal CdA del M.P.S. il 28.2.20 13, di promuovere l'azione di risarcimento danni nei confronti dell'ex presidente e dell'ex direttore genera le della banca, MUSSARI e VIGNI, nonché delle due banche estere implicate nel cd scandalo dei derivati), che inoltre da tempo girasse negli uffici della Banca anche il nome di colui che avrebbe dovuto sostituire esso ROSSI, stanti i suoi rapporti con la vecchia dirigenza. " li problema - così l'opponente continuando a ribattere sullo stesso argomento- è che tali timori [ .. . ] fondati o meno che siano stati erano stati evidenziati e palesati ed evidente era la situazione psicologica del ROSSI, non altrettanto evidente l'azione della Banca a tutela del proprio dipendente."

Conclude quindi il difensore, nonché rappresentante, della p.o. TOGNAZZI l'atto di opposizione chiedendo previa fissazione dell'udienza camerale ex art 4 1 O c.p.p. la restituzione degli atti al Pubblico Ministero "affinché assuma informazioni e svolga ulteriori indagini anche eventualmente con incarico a consulenti tecnici, sulle seguenti circostanze:

- "modalità di acquisizione delle ma il in atti e di accesso al computer di D.Rossi, nonché effettiva ricezione da parte di Sandretti Bruna della mail inviata da l dott. Rossi la mattina del 4 marzo 20 13 nella quale preannunciava il suicidio con richiesta di aiuto e di tutte le ma il rinvenibili nel server della Banca;

- modalità acquisizione del documento di valutazione rischi ivi compresa la valutazione del rischio stress lavoro correlato;

- attività svolta dal datore di lavoro in prevenzione ed a anche a seguito della mail inviata dal Dott. Rossi;

- effettiva e reale ora dell'evento e su chi effettivamente presente in sede MPS all'ora dell'evento, considerato il descritto passaggio di un soggetto dinanzi alla porta d i David Rossi, individuato dal piantone;

- dinamica della caduta in base alla posizione del corpo risultante dal filmato acquisito della telecamera di videosorveglianza;

- su chi abbia allertato ed a quale ora i soccorsi e sull'attività svolta dai primi soccorritori, in particolare sulle modalità di esecuzione del massaggio cardiaco;

- sulle cause della morte di David Rossi con le precisazioni indicate".

In ipotesi il Procuratore Generale presso la Corte di Appello avochi a sé le indagini; All'esito venga ordinata l'iscrizione nel registro degli indagati degli autori dei reati ritenuti sussistenti e disporre l'esercizio dell'azione penale contro di essi per i reati che saranno ravvisati.

OSSERVA

I motivi opposti avverso la richiesta di archiviazione in esame debbono ritenersi infondati e parimenti sono da respingersi le avanzate richieste di investigazione suppletiva: tutto questo per le seguenti ragioni.

In primo luogo, contrariamente a quanto assume e contesta la p.o. opponente, in forza delle risultanze di molteplici fonti di prova, attendibili, congrue e tra loro del tutto convergenti, nessun punto oscuro può ritenersi sussistere e nessuno dubbio, né da l punto di vista medico-legale né sul versante delle valutazioni più prettamente giuridiche, è consentito ragionevolmente avanzare in ordine al fatto che il dott. ROSSI si sia suicidato, il 6 marzo del 20 13 alle ore 20, 15 circa, gettandosi volontariamente (e non venendo buttato e spinto di sotto con violenza da terze persone ) dalla finestra del proprio ufficio (posto al terzo del palazzo che ospita la sede lega le della Banca Monte de i Paschi di Siena), affacciante sul vicolo privato e senza sfondo denominato vicolo di Monte Pio, all'arrivo dei primi soccorritori (circa venti minuti dopo il drammatico fatto) rinvenuta completamente aperta . Di quel terribile e tragico volo, di circa 15 metri, il filmato della telecamera n. 6 dell'impianto d i video sorveglianza della banca, inquadra gli ultimi tre metri mostrando il dott. ROSSI "che precipita dall'alto. Impatta con le natiche sul selciato dove rimane in agonia in posizione supina per qualche minuto ".

Circa tempi e causa del decesso del ROSSI, in forza della CT medico- legale de l prof. GABBRIELLI (esperita nelle forme dell'art. 360 c.p.p., a lla effettiva presenza di un CT P nominato dalle pp oo, ancorché diverso dal prof. Norelli, autore delle successive note critiche, allegate all'atto di opposizione di che trattasi 2 V. verbale a f.lio 13 e cd video a foll. 125 bis-128 fase. PM. in questa sede) deve ritenersi assolutamente certo che "la morte fu determinata da shock traumatico per lesioni osteo-viscerali multiple toraciche (fratture costali multiple, stravasi emorragici polmonari endoalveolari infiltrazione emorragica della radice aortica) encefaliche (frattura occipitale con edema cerebrale) e del rachide (frattura da scoppio di l ./.) e sopravvenne dopo pochi minuti dalla produzione delle lesioni.{ . .] le lesioni mortali furono prodotte per violento urlo della testa e del tronco contro una superficie rigida anelastico per precipitazione da grande altezza".

Non contestate su questo punto le conclusioni de l CT medico legale prof. Gabbrielli, l'opponente (alla luce delle note del proprio CT prof Norelli) solleva invece perplessità l'oppone nte rispetto alle ulteriori conclusioni, attinenti all'assenza nel corpo del defunto di segni attribuibili a azione violenta di terzi ed alla presenza di lesioni da taglio agli avambracci e ai polsi, prodotte poco prima della precipitazione per meccanismo autolesivo, dalle quali pure il prof Gabbrielli fa discendere la sua valutazione tecnica complessiva di piena compatibilità della morte de qua con l'evento suicidiario.

Tali perplessità o critiche dell'opponente non sono nondimeno minimamente fondate.

Quanto all'assenza sul corpo del ROSSI di tracce obiettive riferibili ad atti di violenza altrui ragionevolmente il prof. Gabbrielli lo afferma, ritenendo che anche tutte le lesività non letali rilevate sul corpo del defunto, al volto, addome ed arti inferiori e superiori - ad eccezione d i quelle riferibili ad autolesionismo - trovino la loro causa e genesi nella fase finale del tragico volo, ovvero nell'impatto (non avvenuto nel medesimo istante) delle varie parti del corpo del ROSSI con il suolo. Considerato invero che, come mostra chiaramente il filmato della video camera che ha ripreso la drammatica fase d i atterraggio del de cuius (giunto vivo a terra) è di tutta evidenza che il primo violentissimo impatto al suolo è avvenuto con i glutei, per la precisione con una maggiore e anticipata aderenza a terra della natica destra, a causa di una leggera rotazione sagittale de l corpo sul fianco destro - in tal modo venendo attutito l'impatto, che immediatamente ne è seguito, delle gambe allungate in avanti parallelamente al suolo e con il tronco, oramai privo del sostegno della cassa toracica in quanto esplosa al precedente violento impattare sul selciato (cd effetto "sacco di noc;'') molto reclinato in avanti verso le gambe stesse, ecco che, contrariamente a quanto assume l'opponente, appare riscontrata la compatibilità con questa prima fase dell'atterraggio, sia delle lesività cutanee (quali aree disepitelizzate ed escoriazioni violacee) rilevate in corrispondenza di fianchi e gambe (più accentuatamente a destra stante l'inclinazione del corpo giusto appunto da quella parte) e sia pure dell' ulteriore tenue lesività apprezzata all'addome e più precisamente in zona paraombelicale: quest'ultima con ogni probabilità derivante dal contatto e dallo strusciamento dei tessuti molli dell'addome contro la fibbia in metallo della cintura de i pantaloni indossati da l defunto, durante il già descritto piegamento del busto verso le gambe allungate in avanti.

Considerato poi che, continuando a scorrere le immagini de l suddetto filmato, si rileva chiaramente che dopo il primo impatto di natiche (necessariamente il più violento), il corpo ha effettuato un rimbalzo all'indietro e che, così sollecitato, il tronco si è risollevato dalla posizione reclinata in avanti, assumendo dapprima una posizione perpendicolare al suo lo per poi, completando la rotazione all'indietro, far aderire a terra schiena, testa nonché le braccia interamente distese ed allungate sopra la testa stessa e che nel contempo le immagini de l ridetto filmato documentano che nel momento in cui la schiena ha impattato al suolo il volto del ROSSI era piegato a sinistra e che soltanto in seguito ad un'ultima sollecitazione rotatoria ha raggiunto una posizione di quiete perfettamente frontale, ecco che francamente del tutto fuori luogo appaiono le perplessità sollevate dall' opponente (e dal CT.p. Norelli) anche in merito alle lesività cutanee rilevate in corrispondenza del volto (più significativamente a sinistra), nonché della parte dorsale delle braccia, stante che pure la loro genesi si rive la assolutamente compatibile con la dinamica della caduta, anziché - come si adombra, ma non si dimostra - con l'azione violenta di terzi in una supposta, ma mancante del più minimo elemento di riscontro, aggressione antecedente alla defenestrazione, trovandosi - sempre a seguire la logica della contro ipotesi, puramente teorica, adombrata dall'opponente - la vittima e l'omicida ancora all'interno dell'ufficio del terzo piano.

Altrettanto senza fondamento la difesa della p.o. opponente sostiene che le evidenze probatorie non offrano riscontro al le lesioni da taglio agli avambracci e ai polsi di modesta entità, prodotte poco prima della precipitazione per un meccanismo autolesivo, di cui non soltanto al punto 5 delle conclusioni della CT medico legale del prof. Gabbrielli, ma anche al referto e alla relazione medica approntali dai medici del 118. Ed a fronte della contestazione da parte della difesa opponente, se non della origine di siffatti taglietti a polsi e avambracci, della relativa datazione, inferibile dall'indicazione temporale usata dal CT Gabbrielli (ove si esprime in termini di "poco prima della precipitazione"), è agevole per converso richiamare la difesa stessa a prestare attenzione al cerotto ancora presente, al momento del rinvenimento del cadavere, sul polso sinistro della salma, a coprire una di queste lesioni, ad un altro cerotto, evidentemente staccatosi durante la caduta o al momento dell'impatto, ritrovato accanto al cadavere, nonché ai fazzolettini sporchi d i sangue, trovati all'interno del cestino dell'ufficio del dott. ROSSI e, da ultimo, alle cartine di protezione per cerotti da auto medicazione, rinvenute sul pavimento ed all'interno de l cestino del bagno posto nello stesso corridoio ed a poca distanza dall'ingresso del!' ufficio del compianto dott. ROSSl, trattandosi di ulteriori riscontri, in presenza dei quali la valutazione del CT medico legale del prof. Gabbrielli in termini di compatibilità di tali lesioni con meccanismi di autolesionismo compiuti poco prima della precipitazione deve ritenersi addirittura prudenziale, posto che le risultanze complessive, anche a tale riguardo, convergono addirittura verso la certezza.

Tutto ciò esposto e considerato, non meno avulse dalle concrete risultanze istruttorie versate in atti ed anzi in contrasto con le stesse - di talché anche fuorvianti- appaiono le ricostruzioni meramente ipotetiche elaborate nell'interesse della difesa opponente dal CT ing. Scarselli, relativamente alla posizione assunta dal ROSSI sulla finestra nei frangenti immediatamente precedenti all'inizio della precipitazione.

Premesso che, l'ing. Scarselli conclude per l'assenza di segni lasciati dalla vittima sulla finestra dalla quale si sarebbe lanciato, in stridente contraddizione con altri passaggi delle sue elaborazioni, ove dà, in modo più obiettivo, conto di segni inequivocabili in tal senso, rilevati dagli inquirenti in sede di primo sopralluogo, in corrispondenza del davanzale di detta finestra, costituiti da 4 cavetti in metallo ''anti-volatili" - di cui tre sottostanti ed il quarto sovrastante una sbarra metallica di protezione anti-caduta posta a 35 cm dalla soglia - significativamente incurvali verso il basso e con una delle due estremità (quella di sinistra) sganciate dal muro, unitamente a lievi scalfiture della parte inferiore della intelaiatura in legno della finestra, oltre che a frammenti di legno sul davanzale, sia all'interno che all'esterno del davanzale stesso, non c'è chi non veda come trattasi di segni de l tutto compatibili con una salita sul davanzale in questione d i una persona che, da qui, presumibilmente previo iniziale appoggio in posizione seduta o quasi sulla suddetta barra di protezione, con la schiena verso l'esterno ed i piedi appoggiati sulla soglia (il che spiega anche le tracce di materiale lapideo bianco - come bianca è la soglia, in marmo o materiale simile, della finestra di che trattasi, rilevata sotto la suole delle scarpe del defunto, come pure spiega la lieve lacerazione della pelle presente sulla punta delle scarpe - dandosi il suicida una lieve spinta, con i piedi puntati contro l'intelaiatura in legno della finestra, si è lanciata cadere, all’indietro, per non vedere l'altezza ed il vuoto.

Se tutto questo non si dovesse ritenere sufficiente (ma così non è) a offrire la piena dimostrazione della morte cagionata, non dalla violenta azione di terzi, bensì da atto di auto-soppressione, come non considerare l'assenza del benché minimo segno e traccia di aggressione ante (ipotetica) defenestrazione all'interno dell' ufficio del ROSSI, trovato invero in perfetto ordine - come mostrano sia le immagini del filmato svolto con il video telefonino intorno alle ore 20.40 dal primo ufficiale della polizia di stato (sovr. Marini Livio) che vi ha fatto ingresso, e sia pure i rilievi fotografici delle successive ore 1.30 circa - e come non tener conto da ultimo, quale ulteriore e dirimente riscontro, delle tre lettere incomplete costituenti all'evidenza, in una con l'ultimo commiato alla moglie l'esternazione della volontà suicidiaria da parte di colui che sta per metterla in atto ("Ciao Toni, mi dispiace ma l 'ultima cazzata che ho fatto è troppo grossa- Nelle ultime settimane ho perso"; Ciao Toni, Amore l'ultima cosa che ho fallo è troppo grossa per poterla sopportare. Hai ragione, sono fuori di testa da settimane; ''Amore mio, ti chiedo scusa ma non posso più sopportare questa angoscia. In questi giorni ho fatto una cazzata immotivata, davvero troppo grossa. E non ce la faccio più credimi, è meglio così ").

Molto debole è invero l'argomento opposto della difesa TOGNAZZI, desumendolo dal fatto che le tre lettere di commiato erano state dal defunto cestinate, secondo cui il ROSSI, ancorché dopo averci pensato, avrebbe accantonato il proposito suicidario, salvo poi essere rafforzato in tale intendimento da terzi e quindi dietro l'imput di questo supposto istigatore metterlo in atto - se non addirittura, come si adombra dalla parte opponente, essere direttamente ucciso per mani di altri (!) - ove si consideri che molto più semplicemente e con piena aderenza alle concrete risultanze, i tre messaggi incompleti e cestinati trovano una spiegazione del tutto congrua nella incapacità di trovare le parole "giuste" (che invero non esistono) da scrivere per spiegare ed al tempo stesso per chiedere scusa alla persona amata per un atto estremo e del tutto irrazionale quale il suicidio, nel momento cui si è definitivamente deciso di attuarlo.

E contrariamente ai rumors della stampa, nei primi giorni delle indagini, circa l'esistenza di una lunga telefonata che il dott. ROSSI avrebbe intrattenuto con una persona in corso di identificazione dopo l'ultima chiamata fatta alla moglie, per concordare l'orario del rientro a casa, è il caso per converso di sottolineare come i tabulati del traffico telefonico dei telefoni cellulari e del telefono fisso di ufficio del dott. ROSSI, sono a dimostrare che quest'ultimo si chiude nel più asso luto isolamento poco dopo lo scoccare delle ore 18 del giorno in cui, due ore più tardi (quando tutti i colleghi di lavoro erano usciti), si sarebbe ucciso, dopo un breve colloquio con la collega Chiara GALGANI 10 dai contenuti ed atteggiamenti complessivamente congrui ed implicanti, all'apparenza, anche programmi di lavoro per il giorno successivo (stante che ROSSI confermava alla GALGANI che l'indomani avrebbe accompagnato l'amministratore delegato VIOLA ad un evento a Firenze) e dopo un'ultima telefonata, pure essa dai toni e contenuti, ancorché sbrigativi, all'apparenza tranquillizzanti, fatta alla moglie alle ore 18:02, per confermarle il ritorno a casa alle 19 e 30. Dopo di allora nessun'altra chiamata risulta il ROSSI aver più fatto ed a nessun altra telefonata aver egli più risposto ed inoltre né risulta aver inviato sms, né risposto ed anzi nemmeno letto gli sms che sono continuati ad arrivargli, principalmente dalla moglie, pure con ciò il suicida denotando la volontà oramai definitivamente e tragicamente maturata nel proprio intimo, senza sollecitazioni o rafforzamenti da parte di terzi, di prendere commiato dal mondo, in una con l'intendimento di creare le condizioni (quali le rassicurazioni alla moglie circa il suo arrivo a casa all'ora convenuta, il normale colloquio di lavoro con la collega per non allarmarla ed indurla a lasciare normalmente il posto di lavoro) affinché, nell'attuazione di questo suo ultimo disperato proposito, non gli fosse invero più di intralcio niente e nessuno.

Per concludere la ricostruzione delle ultime ore di vita del ROSSI ed al fine di confutare le asserzioni dell'opponente circa molteplici punti oscuri e inesplorati dalle indagini, attinenti a modalità e tempistica degli accertamenti operali dagli inquirenti nelle ore immediatamente successive al rinvenimento del cadavere del dott. ROSSI, sulla scorta delle minuziose risultanze istruttorie versate e documentate in atti, è opportuno precisare quanto segue.

L'ultima persona che la sera del decesso ha visto vivo il ROSSI è stata la predetta GALGANO alle ore 18.00 circa. Ella quando alle ore 19.30 lasciava il posto di lavoro, transitando davanti all'ufficio (attiguo al proprio) del ROSSI lo trovava chiuso. Alla portineria posta nell'androne principale dell'edificio la GALGANO interloquiva con il portiere RICCUCCI. Alla domanda rivoltale da quest'ultimo su chi ci fosse ancora a lavorare nell'ala del terzo piano del palazzo dal quale ella proveniva, la GALGANO rispondeva che c'era ancora sicuramente la collega BONDI - che lavora nella sua stessa stanza), mentre non era sicura che ci fosse ancora il ROSSI dato che la porta del suo ufficio (due porte dopo il proprio) era chiusa. A questo punto la presenza del ROSSI era stata confermata alla GALGANO dallo stesso portiere RICCUCCI dicendole che non lo aveva visto uscire.

Alle ore 20.05 circa anche la BONDI aveva lasciato il posto di lavoro e transitando pure essa, in ragione della vicinanza e dell'apertura sullo stesso corridoio dei due uffici, dinanzi a quello del ROSSI aveva notato la porta aperta e la luce accesa ed all' interno non sembrava esserci nessuno. La BONDI che non faceva caso a come si presentasse la finestra (se chiusa o aperta), aveva supposto che il ROSSI fosse in giro per altri uffici (fermo restando che poteva trovarsi anche all'interno del bagno, dove si ricordi che sono state individuate tracce del recente uso di cerotti corrispondenti a quelli che sono stati rinvenuti applicati sulle ferite ai polsi del ROSSI). E' il caso di precisare che erra l'opponente nel sostenere che a quell'ora il ROSSI doveva essere in realtà già morto. Questo perché l'orario, delle 19.59, riportato sulle immagini del filmato della videocamera di sorveglianza che riprende gli ultimi tre metri della precipitazione del ROSSI è sì sfalsato di circa I 0-15 muniti, sennonché non va corretto - come fa il difensore - arretrandolo della stessa frazione oraria e cioè collocando la morte del ROSSI tra le ore 19:44 e 19:49 precedenti, bensì stante che gli inquirenti hanno accertato che l'orologio dell'impianto di video sorveglianza era in ritardo, l'ora della morte del ROSSI va per converso spostata in avanti alle ore 20: 10 - 20:15. Quindi il ROSSI pur celandosi alla vista della BONDI, presumibilmente anche perché recando visibili segni delle autolesioni che con ogni probabilità si era appena inferto, non intendeva sottoporsi a imbarazzanti spiegazioni, è pressoché certo che fosse ancora vivo. Ed in virtù di tutto questo, di nessuna aderenza alla emergenze probatorie è la ulteriore considerazione della difesa opponente secondo cui giacché il FILIPPONE - che è la persona, amico nonché collega del ROSSI, che per primo alle ore 20.35 circa entrando nella stanza dello stesso ed affacciandosi alla finestra spalancata, fatta la tragica scoperta dà l'allarme, ancorché chiamando soltanto il 118 e non anche la polizia - riferisce alla vedova TOGNAZZI - ma non invero direttamente agli inquirenti quando viene assunto a s.i.t. - di aver trovato la stanza del defunto chiusa, un terzo soggetto - ovvero, nella prospettiva dell'opponente, il presunto istigatore del suicidio se non il diretto omicida - l'avrebbe chiusa, lasciato non visto la stanza del delitto. Per converso, in forza del materiale probatorio disponibile a chiudere la porta della stanza, prima di accingersi al micidiale salto nel vuoto, si deve ritenere che sia stato lo stesso suicida. Si è già detto che il primo ad accedere dopo la tragedia nella stanza del ROSSI è stato Giancarlo FILIPPONE, intorno alle 20.30, collega nonché buon amico del medesimo che avendo smesso di lavorare, quella sera intorno alle ore 18, dopo che la vedova TOGNAZZI, poco prima delle ore 20.00, gli aveva telefonato chiedendogli di andare a controllare cosa stesse facendo il marito in quanto non era ancora rientrato a casa e dopo che anche lui aveva cercato, senza ottenere risposta, d i comunicare con il ROSSI, con un sms, era ritornato in ufficio, intorno alle ore 20.30 e, entrando nella stanza di David ed affacciandosi alla finestra aperta aveva visto, nel vicolo sottostante, il corpo esanime del collega ed amico. A quel punto aveva dato l'allarme al portiere RICCUCCI, nonché comunicato la tragica notizia anche al la figlia (ventunenne) della TOGNAZZI, Carolina ORLANDI, pure essa mandata dalla madre (bloccata a casa dalla convalescenza per una brutta polmonite) alla ricerca di chi era oramai atteso a casa da circa un'ora.

Mentre il FILIPPONE, l'ORLANDI ed il RICCUCCI stavano percorrendo il corridoio che dall'ufficio del ROSSI riporta alle scale principali e quindi all'uscita, dall'altra ala dello stesso piano (il terzo) del palazzo, i tre avevano visto sopraggiungere Bernardo MINGRONE (capo ufficio della direzione Finanziaria della Banca). Riferisce nelle sue s.i.t. quest'ultimo 16 che, appresa anche lui la sconcertante notizia, accompagnato dal FILIPPONE, si era recato, nella stanza de l ROSSI constatando, affacciandosi alla finestra che lo stesso giaceva al suolo esanime nel vicolo sottostante. Quindi riunitosi i tre uomini nel vicolo sottostante attorno al collega che, riverso a terra supino con i piedi rivolti verso l'edificio (nella stessa posizione in cui sarà rinvenuto dai soccorsi medici e della polizia), non dava segni di vita, era stato proprio il MINGRONE (quindi vi è già risposta, negli atti, all'interrogativo che anche a tale riguardo pone la difesa TOGNAZZI nella sua opposizione) appreso da FILIPPON E e RICCUCCI che non lo avevano ancora fatto, a chiamare il 118. Ritornando al più volte menzionato filmato della telecamera della videosorveglianza n 6, mette conto precisare che le immagini mostrano per circa venti minuti il corpo immobile e senza più segni vitali (con piena convergenza con la morte sul corpo per cui conclude la CT medico legale del prof. Gabbrielli) del ROSSI prima che un passante se ne accorga, accedendo a quel vicolo senza sfondo e scarsamente frequentato ed allontanandosi nel giro di pochi istanti, probabilmente per chiamare la polizia tanto che la chiamata alla sa la operativa, seguita a distanza di pochissimi minuti dall'arrivo di un equipaggio della Volante sul posto è pressoché sovrapponibile alla rapida inquadratura di detto passante (20:40). Mette conto soffermarsi a questo punto sulla tempistica degli arrivi della polizia e de i magistrati requirenti in loco, nonché sulla cronistoria degli atti di indagini espletati nelle ore immediatamente successive al rinvenimento de l cadavere. Orbene tutto è minuziosamente documentato. Un equipaggio della Volante, comandato dal Sov. L. Marini, viene inviato sul posto, in seguito alla segnalazione del rinvenimento del cadavere, giunta telefonicamente alla sa la operativa alle ore 20.40 circa. Quando ne l giro di pochi minuti successivi la pattuglia della volante giunge in loco, preso atto che il 11 8 è già stato chiamato (i medici al loro arrivo si impegneranno in manovre di rianimazione che rimarranno prive di ogni risultato), guidato dal MINGRON, il capo equipaggio in persona del già nominato Sov. Marini si faceva condurre nella stanza del deceduto ed effettuato un primo filmato mediante il proprio video telefonino, usciva chiudendo la porta a chiave, che portava con sé. Nel frattempo sul posto erano giunti oltre ai soccorsi medici anche i Carabinieri, tra cui il comandante della Stazione di Siena Centro (m.llo Cardiello), il quale nell'atto di informare telefonicamente dell'accaduto il PM di turno, cioè il dott. N. Marini, riceva da questi l'ordine di piantonare l'ingresso dell'ufficio del ROSSI, fino al suo arrivo. L'ordine veniva eseguito. Intorno alle 21.30 gi ungevano i sostituti N. Marini, A. Natalini e A. Nastasi e ivi trattenendosi fino alle 23:30 effettuavano un primo sopralluogo all'interno dell'ufficio, alla ricerca di prime tracce utili alla ricostruzione ed alla spiegazione di quanto avvenuto. Dopo di che, giusto appunto alle ore 23.30, la stanza dell'ufficio del deceduto veniva sequestrata, la porta d'ingresso chiusa a chiave - la chiave depositata in Questura - e sigillata con carta. L'ufficio piantonato dai Carabinieri. Sempre alle 23.30 dopo l'intervento del medico legale e della polizia scientifica il cadavere del ROSSI veniva rimosso per essere trasferito presso il dipartimento di scienze medico legali (per una più accurata ispezione esterna del cadavere oltre che per l'autopsia, questa disposta su esplicita richiesta della famiglia, laddove i sostituti procuratori, essenzialmente per rispetto della salma e non ravvisandone l'assoluta necessità, inizialmente avevano pensato di non eseguirla (anche su ciò la difesa opponente calcando in modo eccessivamente critico l'accento, sembrando insinuare incapacità e miopia investigativa, se non di peggio, senza nessun fondato sospetto ex ante e riscontro investigativo ex posto ad autopsia eseguita).

Alle successive ore 00:30, di nuovo avuta la presenza in loco dei sostituti NATALINI e NASTASI rimossi i sigilli alla stanza del ROSSI, la polizia scientifica aveva effettuato un più accurato sopralluogo documentandolo anche fotograficamente che si concludeva alle ore 01.50 ed a questo punto l'ufficio veniva di nuovo richiuso e sigillato con nastri di carta bollati e controfirmati, nonché piantonato continuativamente da un componente dell'equipaggio della Volante 2 della Squadra Mobile.

Queste le precauzioni, assolutamente congrue, adottate per assicurare l'integrità del campo delle indagini da eseguire in loco, prive di fondamento sono per converso le perplessità e gli interrogativi con cui la difesa della p.o. opponente lascia trasparire dubbi di inquinamento probatorio, laddove evidenzia come il confronto tra il filmato mediante video-telefonino effettuato dal Sov. Marini al primo accesso nell'ufficio del deceduto poco dopo le ore 20.40 ed i rilievi fotografici della polizia scientifica durante il loro sopralluogo dalle ore 0:30 alle ore I :30 circa successive consente di apprezzare lo spostamento del la giacca del deceduto appoggiata allo schienale della sedia con ruote della scrivania, nonché degli occhiali del deceduto, con ciò la difesa subodorando l'ingresso di terzi soggetti in detta stanza, alla ipotetica ricerca e/o eliminazione di tracce della sua precedente presenza, fisica ovvero virtuale (cioè mediante collegamenti on line), che ne potessero rivelare il coinvolgimento attivo nel suicidio se non - nella prospettiva ancorché più remota mai abbandonata dalla difesa opponente- nell'assassinio del ROSSI. Ipotesi assolutamente sganciata dal contesto reale ove si consideri che, tranne che nelle ore in cui nel corso della lunga notte operativa tra il 6 ed 7 marzo, g li stessi inquirenti si sono trattenuti all'interno dell'ufficio del defunto (mette conto ribadire ininterrottamente dal le 2 1.30 alle 23.30 quindi dalle successive 0,30 fino alle 1.50) intenti nella doverosa ricerca di tracce di eventuali reati e di eventuali indizi di colpevolezza attingenti specifici soggetti - in tali operazioni, tutte debitamente documentate anche fotograficamente, inevitabilmente muovendo e spostando alcune cose - è stato piantonato dalla polizia, oltre che chiuso a chiave (la chiave depositata in questura) e sigillata la porta d'ingresso . Ciò detto, si deve infine aggiungere che, contrariamente ai punti oscuri denunciati anche a tale specifico riguardo dalla difesa che si oppone all'archiviazione chiedendo supplementi di indagini assumendo pure sotto questo aspetto che vi sia ancora da fare chiarezza, che nessun mistero aleggia intorno a i quattro ingressi, o presunti tali, al P.C. fisso dell'ufficio de l ROSSI dopo il suo decesso, segnatamente, per come rilevato dall'ispezione informatica dalle ore 21 :50 alle ore 21 :56 dello stesso 6 marzo e quindi dalle successive ore 1:24 alle 1:37". Infatti le verifiche tecniche condotte dalla Polizia Postale - alla presenza dei sostituti procuratori Natalini e Nastasi - avvalendosi in operazioni prettamente esecutive del dott. Bemardini (dirigente de l Responsabile Area Facility Management)- hanno consentito di acclarare che si è trattato di accidentali riattivazioni de l sistema operativo del PC in funzione standby in orari in cui, per come risulta da quanto sopra evidenziato, deve indubitabilmente ritenersi riscontrata la presenza operativa, all'interno dell'ufficio de l deceduto, degli inquirenti, per essi intendendosi i componenti di vari corpi di polizia giudiziaria e gli stessi pubblici ministeri. Così testualmente dal verbale di ispezione informatica ed di acquisizione di atti del 7.03.2013 ore 14:30" i quattro eventi sono dovuti a meccanismi di riavviazione del sistema operativo a fronte di sollecitazioni meccaniche esterne (movimenti di mouse o tastiera) effettuati in coincidenza dei predetti orari, debitamente verificati e riscontrati; pertanto si può affermare che non è stato effettuato alcun accesso al P. C. in uso al ROSSI nei predetti orari, né da postazione fissa né da remoto ".

...

Niente francamente ritiene questo giudice che poteva essere investigato, di più e di diverso di quanto è stato effettivamente fatto e debitamente documentato, al fine di acclarare responsabilità di terze persone nella veste di istigatori de l suo suicidio - ipotesi questa, prima facie, meritevole di attenzione giudiziaria, che ha consentito, nel contempo di dipanare anche il più remoto dubbio in ordine all'ipotesi omicidiaria.

Le sommarie informazioni testimoniali assunte da i parenti e famigliari più stretti, come pure da i collaboratori più stretti in ambito lavorativo, del ROSSI, non lasciano dubbio alcuno in ordine al fatto che gli ultimi mesi di vita dello stesso erano stati vissuti con un crescente malessere interiore che aveva nondimeno raggiunto il suo apice, dando a tal punto luogo a comportamenti anomali percepiti sia in ambito famigliare che sul posto di lavoro, negli ultimi cinque giorni antecedenti al decesso.

Per ben inquadrare il drammatico epilogo che c i occupa, occorre rifar i da abbastanza lontano ed è quello che è stato fatto opportunamente dagli inquirenti assumendo anche al riguardo informazioni dai famigliari e collaboratori più stretti del deceduto.

Risalendo alla fine del 2011 inizi del 2012, la nomina in seno alla Banca MPS - ove ROSSI era stato assunto come Responsabile Area delle Comunicazioni nel maggio del 2006 - del nuovo presidente e del nuovo amministratore delegato nelle persone di Alessandro Pro fumo e di Fabrizio VIOLA, subentrati rispettivamente a Giuseppe MUSSARI e Antonio YIGNI, il ROSSI è uno dei pochi uomini di punta della precedente dirigenza in senso lato (la qualifica del deceduto non era invero di dirigente propriamente detto bensì, come già detto, di responsabile area) ad essere confermato ed a guadagnarsi senza nessuna difficoltà la fiducia sia dei nuovi datori di lavoro che dei nuovi colleghi con cui era in più stretto rapporto lavorativo, essendo peraltro rimasti buoni, come in passato, i rapporti anche con i collaboratori del vecchio staff che, come lui, erano stati confermati nel nuovo (tali soggetti debbono complessivamente identificarsi in DALLA RIVA Ilaria - responsabile della direzione Risorse Umane- GALGANI Chiara - responsabile dell'ufficio Stampa - BONO! Lorenza - vice capo ufficio stampa - FILIPPONE Giancarlo - funzionario preposto all'ufficio personale dell'Area Comunicazioni).

Nel novembre del 2012, in coincidenza per il dott. ROSSI con un lutto famigliare (decesso de l padre), è fatto notorio che esplode il cd scandalo MPS così chiamata, nei mass media (stampa, social network, blog) che gli danno ampissima risonanza a livello locale e nazionale, l'inchiesta giudiziaria avente ad oggetto svariate operazioni finanziarie della banca senese negli anni della dirigenza MUSSARI-VIGNI. Aumentato a partire da allora, in modo molto considerevole ed in continua crescita nei mesi successivi. il lavoro e di sicuro anche lo stress lavorativo del Rossi, essendosi trovato in prima linea, come capo dell' Area Comunicazioni a rispondere alle pressanti richieste dell'opinione pubblica e nel contempo a gestire l'enorme flusso di comunicazioni che dietro gli imput della nuova dirigenza, al fin e di salvaguardare e di recuperare l'immagine della Banca, dovevano essere veicolate all'esterno, è il caso di precisare, onde dissipare anche su questo versante possibili equivoci e fra intendimento dei fatti e delle emergenze istruttorie, che è la stessa vedova TOGNAZZI nelle sue prime s.i.t. del 17.4.2013 ad affermare che era stato lo stesso ROSSI a "manifestare a chiare lei/ere di voler in qualche modo essere aiutato nella propria attività" nonché "di essere almeno in parte sgravato. " Se così è, osserva questo giudice che deve essere letto in sintonia per l'appunto con i desiderata, più che legittimi dello stesso ROSSI, stante l'aggravio lavorativo al quale stava andando sempre di più incontro, e non invece come un primo indice (secondo la posizione assunta dalla difesa TOGNAZZI nell'opporsi alla presente richiesta di archiviazione) di una diminuzione di fiducia progressiva ed immotivata (e per questo implicante mobbing, sempre stando alla più recente linea difensiva intrapresa dalla p.o TOGNAZZI) nei confronti del dipendente ROSSI da parte de l nuovo datore di lavoro, la decisione presa (da VIOLA) di affiancargli la DALLA RIVA attribuendo ad essa la direzione delle Comunicazioni Interne, lasciando al ROSSI le Comunicazioni Esterne e creando rapidamente (gennaio 2013) nuove metodologie di lavoro, su imput dello stesso ROSSI, al fine di assicurare uniformità nell'agire delle due aree delle comunicazioni. Su tutto ciò hanno riferito con piena convergenza oltre ai predetti VIOLA e DALLA RIVA - la consulente coach della Banca (nominata pure essa nel novembre 2012 all'esplodere dello scandalo MPS) Carla Lucia CIANI. Questa in particolare ha spiegato che, su indicazioni dello stesso ROSSI, il quale evidenziava da un lato la difficoltà a gestire a livello manageriale da so lo l'enorme flusso di comunicazioni negative riguardanti BMPS, dopo l'esplosione dello scandalo giudiziario/mediatico attribuibile alla vecchia dirigenza e, dall'altro, le necessità di adottare modalità di lavoro che garantissero coerenza tra comunicazione interna ed esterna, venne creata (in seguito ad un incontro con il ROSSI avvenuto il 30 gennaio 201 3) una sorta di task force, de finita situation room. In pratica si trattava di " n gruppo di persone - capeggiato dal ROSSI - che decideva in maniera evoluta gli interventi stampa da effettuare, nel senso che tutte le comunicazioni stampa venivano gestite collegialmente, definendosi in sede di gruppo di lavoro (comprensivo delle altre f unzioni) gli interventi ufficiali da effettuare. Per iniziativa dello stesso ROSSI io - così testualmente nelle s.i.t. la Ciani- venivo messa a conoscenza - a mezzo mail - dei report di questo gruppo di lavoro. Posso dire che rispetto a tale nuovo assetto organizzativo il ROSSI fu molto confortato, in termini di condivisione di responsabilità con i suoi colleghi anche perché questo doveva essere il modello per una gestione più coordinata dell'area comunicazione esterna ".

Nella medesima direzione, di conferma ed anzi di obiettivo accrescimento di fiducia della nuova dirigenza in favore del ROSSI, era andata la decisione presa dall'A. D. VIOLA nel successivo mese di febbraio 20 13 di designare ROSSI " Invitato Stabile" del Comitato Direttivo. Il Comitato Direttivo - come ha spiegato VIOLA- è un consesso all'interno del quale i dirigenti delle varie direzioni discutono collegialmente dei progetti aventi implicazioni in più settori, con funzioni anche consultive e preparatorie delle decisioni che dovranno essere assunte dal CdA. Che Rossi fosse stato soddisfatto ed avesse preso come un positivo riconoscimento anche questa iniziativa non lo affermano soltanto il dr VIOLA e la d.ssa CIAN  ma anche la sig. TOGNAZZI - nelle s.i.t. Del 17 apri le 20 13 già ricordate- affermando che il marito ne era orgoglioso, salvo aggiungere che tale inserimento essendo stato effettuato prima della perquisizione subita presso l'ufficio e l'abitazione il 19 febbraio (su cui infra) non fu dal medesimo ritenuto un elemento positivo di valutazione da parte della dirigenza successivamente a questa iniziativa giudiziaria nei suo i confronti che, per converso, temeva che avesse messo in dubbio, agli occhi de lla dirigenza, la sua affidabilità. A questo ultimo riguardo, sulla scorta delle risultanze istruttorie e segnatamente delle s.i.t. della CIANI, è però necessario parzialmente correggere il quadro emergente dai ricordi della sig. TOGNAZZI. Riferisce infatti la CIANI che il dr VIOLA le manifestò per la prima volta l'intendimento che il ROSSI venisse inserito nel progetto di coatching riservato alla prima linea manageriale, durante un incontro a Milano che ebbero lunedì 11 febbraio 20 13. Alla fine della medesima settimana la segreteria de l dr VIOLA le aveva comunicato che ROSSI era stato inserito nel suddetto comitato direttivo. Con una successiva mail giungente questa volta alla CIANI dalla segreteria della DALLA RIVA. Il 26 febbraio (quindi siamo oltre la data della perquisizione eseguita nei confronti de l ROSSI il 19 febbraio e dallo stesso vissuta come una ricaduta negativa sulla sua affidabilità azienda le) veniva confermata la volontà di inserire il ROSS I tra i destinatari del progetto di coatching, il che implicava anche la conferma del ROSSI quale componente stabile d i quel comitato direttivo, ed in conseguenza di ciò la CIANI fissò ed effettivamente tenne con il ROSSI proprio la mattina de l giorno del decesso (dalle ore 9:30 alle 12.00) il primo incontro individuale di coach con il medesimo, all'interno del suo ufficio; il 13 marzo avrebbe dovuto esserci il primo incontro di gruppo.

Abbiamo già accennato a quanto era accaduto in data 19 febbraio a l ROSSI. Lo stesso era stato destinatario di una perquisizione non solo in ufficio ma anche all'interno della propria abitazione, ancorché non come persona indagata, nell'ambito dei proc. pen. nn 845/20 12 e 3861/20 12 N .R. mod. 21, instaurati nei confronti dei precedenti vertici de lla direzione della banca (MUSSARI e VIGNI) per vari reati ravvisati nelle operazioni finanziarie finalizzate e conseguenti all'acquisizione di banca Antonveneta. Nella stessa data allorchè erano scattate anche le perquisizioni a carico dei predetti due indagati di eccellenza, il ROSSI era stato inoltre interrogato dagli inquirenti in qualità di persona informata dei fatti in ordine ai suoi rapporti, anche successivi all'uscita da MPS con MUSSARI, con il quale erano noti anche i consolidati rapporti di amicizia.

Era da allora che lo stato d'animo del ROSS I aveva cominciato a dare segni di notevole turbamento e forte preoccupazione. Ed era da allora che il ROSSI aveva cominciato a temere per un suo maggiore coinvolgimento in tal i inchieste giudiziarie in conseguenza di un erroneo accostamento, operato dagli inquirenti, della sua persona a l vecchio management ed in particolare, data anche la loro amicizia, al MUSSAR! e, contemporaneamente a manifestare crescente preoccupazione anche per il mantenimento del posto di lavoro in conseguenza della perdita di fiducia da parte del nuovo management pure essa messa dal ROSSI in diretta correlazione che le temute implicazioni personali nelle indagini in corso. Così la TOGNAZZI nelle s.i.t. de l 17 aprile 20 13: " Ha comincialo a temere di essere coinvolto o semplicemente sospettato nella vicenda giudiziaria. Tale convinzione nasceva dalla circostanza del legame che lo avvicinava al Presidente MUSSARI, nel senso che egli riteneva che essendo indagato il MUSSARI. La vicenda poteva in qualche modo interessare anche lui, per il necessario rapporto di vicinanza che aveva anche con il presidente (ex) anche se l'ultima volta che si erano sentiti era a Natale {. . .} Mio marito non si capacitava circa le colpe che lo potessero coinvolgere non trovandone alcuna. la perquisizione del suo ufficio e e dell'abitazione avevano generato in lui la preoccupazione che il nuovo management potesse, per queste circostanze, dubitare di lui, nel senso che potesse pensare che in qualche modo lui non fosse leale nei confronti della Banca, dubitando così della sua onestà ed integrità professionale, al punto da poter essere addirittura licenziato. Posso dire che queste non erano solo sue paure, perché lui mi riferì di alcune voci senza però farmi i nomi- secondo le quali era imminente la sua sostituzione con un professionista proveniente da Milano. Tali voci mi furono riportate dal ROSSI successivamente alle perquisizioni e non negli ultimi giorni [. . .].

E similmente il dott. VIOLA "(...) premesso che il I9 febbraio ... lo informai io del decreto di perquisizione nei suo confronti: lui sbiancò letteralmente a da quel giorno con David ebbi un atteggiamento quasi da padre a figlio perché lui si mostrava molto preoccupato. Io più volte lo rassicurai che lui aveva la nostra piena fiducia. Dopo la perquisizione lui ritornò da me, ma io gli raccomandai di non dirmi niente, così come era accaduto per gli altri dipendenti escussi o perquisiti: gli precisai che, questo, non era un atto di sfiducia nei suoi confronti, ma era una raccomandazione di riservatezza. Lui prese allo di questo. Dall'indomani tuttavia iniziò a ridirmi di sentirsi "messo in mezzo" da qualcuno; ciclicamente tornava spesso su questo argomento [ . .] Ribadisco che - come nuovo management - avevamo piena fiducia nel ROSSI circostanza che gli espressi ripetutamente; lui mi manifestò la preoccupazione di una sua sostituzione: io lo tranquillizzai dicendo che stava bene al suo posto e che non avevamo alcun segnale favorevole al suo licenziamento avendo peraltro gestito in maniera o/lima l'ultima fase della crisi (...).

Quindi il dott MINGRONE, riferendo in merito a confidenze ricevute dal collega non più in vita, la sera del 28 febbraio durante una cena alla quale era presente anche il presidente Profumo; "(. . .) la cena è stata un'iniziativa del dr Profumo, in quanto avevamo terminato il consiglio di amministrazione a tarda ora e quindi si era deciso di cenare insieme. Il Rossi si era unito a noi in quanto lo avevamo incontrato uscendo. Ho conosciuto il ROSSI da metà giugno 2012 ho sempre pensato che fosse una persona abbastanza apprensiva per il lavoro; infatti in tale serata l'oggetto principale della discussione f u proprio il suo staio di malessere in virtù della perquisizione che aveva subito giorni addietro, Lo stesso ebbe infatti a rappresentare la sua ansia nel non comprendere le ragioni che avevano condotto l'A.G. ad effettuare tale perquisizione; ricordo che egli si domandava appunto se fosse proprio il suo rapporto di conoscenza direi/a con I' avv. Giuseppe Mussari ad avere indotto ciò, ovvero i colloqui telefonici che aveva avuto nel periodo fino a Natale 2012 ... Sia io che il dr Profumo abbiamo cercato di tranquillizzarlo dicendogli che lo stesso rispose, questo mi colpì molto: <evidentemente ho fallo qualcosa di sbagliato>. La mia percezione del momento fu che si riferisse a probabili errori di valutazione, e/o di opportunità nell'ambito dei rapporti mantenuti con l'ex presidente Mussari. Nella serata fece anche un riferimento generico ad una notizia stampa afferente ad un gruppo, a me sconosciuto, della 'Birreria" che, a quel punto ho capito, lui aveva frequentato insieme all'ex presidente Mussari (sempre fino a dicembre 20I2) ma della cui frequentazione a quel punto si rammaricava, la serata si concluse serenamente".

Mette conto precisare che la riunione del CdA terminata nella tarda serata del 28.2.2013, a cui ha fatto riferimento il dr Mingrone nelle sue sommarie informazioni testimoniali, è quella in seno alla qua le era stato deciso di promuovere l'azione di risarcimento danni non soltanto nei confronti dei precedenti vertici manageriali della Banca (ossia de i ridetti MUSSARI e VIGNI), ma anche di due banche estere (Nomura e Deutsche Bank) implicate in due imponenti operazioni di finanza strutturata rivelatesi disastrose per i conti dell'istituto di credito senese. E' opportuno aggiungere che data la importanza e la delicatezza della decisione da adottare, la convocazione del CdA era stata effettuata in forme molto riservate, in particolare senza indicare nell'ordine del giorno l'intendimento di fare causa oltre che ai precedenti amministratori - notizia che già circolava e che costituiva un'iniziativa pressoché obbligata per il nuovo management- anche alle predette due banche straniere. La segretezza con cui era stata gestita questa delicatissima ed importantissima decisione derivava dal fatto che ove fosse diventata di dominio pubblico prima della iscrizione delle cause civili in questione - ed in particolare di quelle nei confronti delle banche estere - nei registri de l Tribunale delle Imprese di Firenze c'era il rischio per BMPS di essere battuta sul tempo da una più tempestiva iscrizione presso la competente Autorità Giudiziaria estera di una speculare azione legale nei propri confronti da parte delle predette banche. Per questo non solo ROSSI ma nessun altro del!' Ufficio Stampa e de lla intera Area COMUNICAZIONI, ne era stato anticipatamente messo al corrente e la direttiva assunta era nel senso che anche al successivo comunicato stampa ufficiale, soltanto successivamente all'iscrizione delle cause giudiziarie, avrebbe provveduto direttamente il dr Mingrone. Non potendo - pare alla scrivente - neppure questa decisione de i vertici del CdA essere obiettivamente interpretabile come uno smacco ed un segno di mancanza di fiducia nei confronti, in modo specifico, del ROSSI e, tanto più ciò deve ritenersi, alla luce di quanto continua a riferire il Dr Mingrone in merito a quella serata conclusasi con la sua cena al ristorante in compagnia de l dr Profumo e de l dr Rossi. Accadde infatti che mentre si stavano recando al ristorante, il Rossi aveva ricevuto una chiamata telefonica di qualcuno che, dalla risposta che il ROSSI gli dava, si capi va che gli domandava di confermare se se fosse vero o meno che il CdA di quella sera avesse deciso l'azione di responsabilità in questione. La risposta di ROSSI era stata "se fosse vero me lo avrebbero dello". Terminata la telefonata il dr PROFUMO, evidentemente non nutrendo riserve sull'affidabilità del ROSSI, lo aveva messo al corrente della decisione dal CdA effettivamente presa in tal senso i ed a quel punto gli era stato mostrato anche il comunicato stampa riguardante la notizia e gli era stato chiesto di dare i suoi consigli sulla stesura finale. Invero la temuta fuga di notizia la mattina dopo c'era stata davvero, in forza di un articolo di stampa apparso su un importante quotidiano a tiratura nazionale; per essa, anche in ragione delle implicazioni che c'erano state sulle quotazioni in borsa de l titolo MPS, VIOLA e PROFUMO aveva no presentato un esposto in Procura e gli esiti dell’inchiesta giudiziaria (d i al p.p. n. 874/201 3 mod. 44 poi passato al registro noti con il n. 11 69/20 13 rgnr mod 2 1) che ne era seguita ed aveva portato all'individuazione del responsabile in un consigliere del CdA (M. Briamonte), si erano conosciuti nel maggio successivo.

Premesso, che in ragione della stretta vicinanza temporale tra questa fuga di notizia e la morte del ROSSI, opportunamente gli inquirenti avevano sulle prime svolto indagini anche al fine di verificare possibili collegamenti tra i due eventi, nell'eventualità che fosse da individuarsi nella fuga di noti zie il movente del gesto suicidario ed anche quello dell'ipotetico istigatore (in questo contesto non essendoci all'evidenza alcuno spazio, neppure puramente astratto e logico, per la percorribilità della terza ipotesi, quella dell'omicidio), evidenziato che nessuna emergenza investigativa era andata in questo senso, occorre in questa sede aggiungere che parimenti negati ve si sono di fatto rivelate le risultanze circa l'ipotetica immeritata colpevolizzazione, che sul luogo di lavoro il ROSS I avesse potuto subire, negli ultimi cinque giorni di vita, siccome infondatamente sospettato di essere lui l'autore della indebita divulgazione di siffatta in formazione di natura price sensitive. Ciò alla luce di quanto è emerso dalle dichiarazioni informative non soltanto di PROFUMO e di VIOLA, ai quali più d i ogni altro in ambito lavorativo avrebbero potuto in astratto imputarsi, condotte commissive o omissive discriminatorie indotte dalla presunta indebita colpevolizzazione de l ROSSI, ma anche dalle dichiarazioni, rilasciate dai colleghi di lavoro del deceduto ed in particolare da quelle della GALGANI Chiara.

PRUFUMO, pur non negando di aver inizialmente nutrito dei sospetti su un possibile coinvolgimento de l ROSSI sulla ridetta fuga di notizie, in ogni caso non solo non risulta averli manifestati al diretto interessato - con il quale nei pochi giorni lavorati vi successivi prima del tragico gesto aveva continuato ad interloquire normalmente in relazione a questioni ed affari di sua competenza (in particolare l'ultimo norma le colloquio di lavoro tra i tra i due c'era stato il 5 marzo) - ha aggiunto che, esternati confidenzialmente questi suoi primi dubbi al VIOLA, lo stesso I marzo, ne aveva avuto da quest'ultimo un immediato ritorno negativo. Sentito sul lo stesso argomento direttamente anche l'A.D. VIOLA, nel confermare lo scambio di opinioni, in forme assolutamente riservate con il Pres PROFUMO, in un colloquio del I marzo, ha altresì ripetuto anche agli inquirenti di aver scartato immediatamente l'ipotesi che il ROSSI potesse essere in qualche modo coinvolto nella ridetta fuga di notizie. A tale riguardo con estrema verosimiglianza - quindi attendibilmente dichiarando: "non ho mai messo in relazione il comportamento del ROSSI alla fuga di notizie circa l'avvio dell'azione di responsabilità varala dal CdA il giovedì precedente...Peraltro, sapendo che ROSSI è persona riservatissima l'ultima cosa che - secondo me - avrebbe fatto nello stato di agitazione peraltro in cui era - era parlare ai giornali".

Alquanto significative si sono inoltre rivelate le dichiarazioni della Galgano la quale, se per un verso ha confermato la circostanza che nelle ultime settimane di vita del collega girassero con qualche insistenza voci in me rito alla sua imminente sostituzione, per altro verso ha precisato che l'origine di questi rumors - il termine è quanto ma i appropriato in questo caso alla luce delle risultanze istruttorie sul punto - non era intranea agli ambienti de l BMPS bensì era da individuarsi in ambito giornalistico ed ha aggiunto che ai giornalisti che, nel tentativo d i avere conferme della notizia che asserivano d i aver avuto da fonti confidenziali l'avevano contattata, la notizia in questione era stata da le i smentita.

Così la GALGAN I (responsabile del settore "Relazione Media"): " ROSSI David, se non ricordo male, non mi ha mai espresso timori circa la perdita del suo posto di lavoro. Tuttavia c'erano delle voci in tal senso: mi ricordo in particolare una telefonata - se non vado errata avvenuta il giorno del CdA del 28.2.2013 in cui il giornalista Mugnaini Domenico dell'ANSA mi riferì che giravano voci circa la sua possibile sostituzione con un professionista di Milano...Giovedì 7 marzo fui chiamata dal giornalista STRAMBI Tomaso della Nazione che mi invitò ad incontrarlo per riferirmi che un suo collega di cui non mi fece il nome gli aveva dello che quel giorno si sarebbe a lui presentata una persona qualificatasi come nuovo responsabile dell'Area Comunicazione MPS. Mi sono quindi informata con la responsabile delle Risorse Umane Ilaria DALLA RIVA e con lo stesso VIOLA i quali mi hanno risposto che non era assolutamente vero: ho anche condiviso la posizione da tenere con il giornalista, che richiamai per smentire la notizia. Nel pomeriggio del 7 marzo mi chiamò anche C'AMBI Carlo, redattore di libero, il quale fece riferimento ancora alla sostituzione del ROSSI: anche in tal caso smentire tali voci.

Per concludere sul punto si deve altresì rimarcare che sentiti sull'argomento, nel corso delle indagini, direttamente i giornalisti. Questi non solo no n hanno inteso rivela re la fonte confidenziale della notizia in questione, ma neppure ne hanno confermato. Non tutti ed in ogni caso nessuno in modo persuasivo e cogente, il contenuto. Taluni di loro danno inoltre atto di smentite della notizia ricevute dal lo stesso ROSSI.

SIT Tomaso STRAMBl (giornalista de La Nazione): " Non mi ha mai esternato paure particolari per il posto di lavoro: né difficoltà di sorta in relazione alla nuova gestione di BMPS".

SIT Davide VECCHI (giornalista del Fatto Quotidiano): " Vidi per l'ultima volta ROSSI David una se/limano dopo la perquisizione a suo carico, circa nel febbraio ... parando delle varie ipotesi sui motivi per cui anche lui era stato perquisito non riusciva ad inquadrare le ragioni ed era stupito del suo coinvolgimento ... Preciso che in quei giorni io e altri colleghi avevano scritto che la Banca lo aveva affiancalo all'interno della sua area; sul punto lui - a mia domanda - rispose che non stato affiancato e che comunque si stava riorganizzando tutto, ma che non era più operativo come prima.

SIT Domenico MUGNAINI (agenzia ANSA Firenze): Vidi per l'ultima volta ROSSI David il 1 marzo 2013: era tranquillo. Successivamente l'ho sentilo per telefono il 4 marzo 2013 per due volte ... nella seconda occasione abbiamo scherzato e lui mi chiese - facendo riferimento ad una telefonata del 28/2/2013 tra noi - che lo avrebbe sostituito. lo gli dissi di non sapere nulla."

In tutte queste risultanze si debbono al fine calare i comportamenti, pur nella loro complessiva anormalità indicativi di stati emotivi ondivaghi, tenuti dal ROSSI, dentro le mura domestica in modo forse ancora più eclatante che non sul lavoro.

Questo perché venerdì 1.3.20 13 alla TOGNAZZI il ROSSI aveva esternato in modo assolutamente irrazionale la paura che l'indomani sarebbe stato addirittura arrestato, dicendo testualmente che sarebbero andati a prelevarlo nella giornata di sabato stante la chiusura per il week end de i mercati finanziari. Ed alla risposta della moglie che, sdrammatizzando ed evidentemente non dando troppo peso alle parole del marito, gli diceva che se poi il temuto arresto il giorno dopo non fosse avvenuto si sarebbe dovuto tranquillizzare, ROSSI aveva chiuso il discorso affermando "sarebbe già una buona cosa" . Questo accadeva venerdì I marzo, il sabato e la domenica successiva la TOGNAZZI aveva dovuto concentrarsi sui suoi problemi di salute ed era stata anche ricoverata in ospedale dove pur rinviandola al domicilio le avevano diagnosticato una brutta polmonite. Lunedì 4 marzo, seppur formalmente in ferie per accudire la moglie, ROSSI aveva trascorso molte ore in ufficio, impegnato in particolare in un carteggio epistolare via mail con VIOLA, in ferie a Dubai, su argomenti lavorativi e non ed era stato nel contesto di questo scambio prolungato di comunicazioni in rete che ROSSI aveva inviato a VIOLA anche l'HELP contenente una esternazione esplicita del proposito suicidiario (su cui infra).

Risalgono a martedì 5 maggio, come riferiscono la moglie del ROSSI e la di lei figlia ventunenne Carolina ORLANDI (convivente con la coppia), le anomalie più allarmanti compiute dal congiunto (o per lo meno, in quella data, scoperte) dentro casa.

La giovane si era infatti accorta di strani taglietti a i polsi del ROSSI ed era andato a riferirlo alla madre. Alle richieste di spiegazioni ROSSI prima aveva detto di essersi accidentalmente tagliato con la carta, ma dietro le insistenze della moglie aveva ammesso di esserseli procurati volontariamente dicendo, così nei ricordi della vedova "hai visto, nei momenti di nervosismo, quando vuoi sentire dolore fisico per essere più cosciente" e ne lla rievocazione dell'ORLANDI: " ... sai com'è quando uno ha quei momenti in cui perde la Lesta per ritornare alla realtà ha bisogno di sentire dolore". Sempre, quello stesso giorno, il ROSSI si era mostrato talmente angosciato dalla preoccupazione di essere intercettato che aveva preso a comunicare con le famigliari per iscritto. Sul punto molto evocativamente l'ORLANDI: "Dopo di ciò (n.b.: l'Orlandi ha appena finito di raccontare la scoperta de i tagli ai polsi) egli iniziò a comportarsi in modo alquanto strano, prendendo un blocchetto e cominciando a scrivere ciò che mi voleva dire. Nel primo foglio scrisse < non parlare di questa cosa né fuori né in casa> lo allora stando al suo gioco e ritenendo che si riferisse non solo ai segni sulle braccia ma alla situazione in generale scrissi lui a quel punto mi guardò e annuì. Questo modo di colloquiare durò per circa un cinque minuti. Davide allora strappò i fogli su cui avevamo scritto e se li tenne per sé. Io allora tornai nella mia camera e presi un blocco sul quale scrissi: <nonostante tu in questo periodo non abbia molta considerazione di me, di me ti puoi fidare: Ma mamma lo sa? Anche i nostri telefoni sono sotto controllo?> Egli lesse il mio scritto dicendo che per la prima parte il discorso non tornava, rimaneva sul vago sul discorso relativo alle intercettazioni e al fatto se mia mamma lo sapesse o meno. Lui prese i fogli e li strappò. Strappò anche quello con la scrittura ricalcata. Poi li consegnò a me. Dopo circa una decina di minuti visto che mi accingevo ad uscire per recarmi in contrada, Davide mi seguì fuori delle scale dicendomi a voce bassa di buttarli lontano e di guardarmi attentamente intorno mentre lo facevo. Il giorno successivo, parliamo del 6 marzo ... ".

E la Tognazzi rievocando le reazioni dal marito allorché sempre il giorno 5 marzo lei cercava di tranquillizzarlo e riportarlo alla ragione in relazione alla paura delle microspie in casa, ha dichiarato che il ROSSI andava ripetendo che "c'era la probabilità che qualcuno poteva interpretare malamente alcuni accadimenti o episodi o frequentazioni pregresse".

Considerato che relativamente al giorno 5 marzo vi è anche la rievocazione del Pres. Profumo, il quale con convergenza con i racconti attinenti a comportamenti de l ROSSI nella medesima data afferma nelle s.i.t. del successivo 7 marzo riferisce: '' ... Ricordo che due giorni fa lo invitai a raggiungermi nel mio ufficio per ragioni di lavoro e lui in quell'occasione mi rinnovò la sua preoccupazione; temeva in particolare di poter subire conseguenze penali dalle indagini in corso mostrava preoccupazione addirittura di essere arrestato. Legava tali sue preoccupazioni alla circostanza di aver frequentalo anche recentemente, il cd gruppo della birreria, di cui si parla nelle cronache locali. Mi fece anche il nome della persona che aveva incontrato, ma non lo ricordo anche perché non conosco coloro che farebbero parte di quel gruppo così denominato. Lo tranquillizzai dicendogli che a mio avviso non aveva nulla da temere, in quanto non risultava indagato, aggiungendo tra l'altro che a noi non erano giunte indicazioni che andassero in senso contrario rispetto alla sua permanenza dentro la banca. Insomma gli rinnovai la nostra fiducia invitandolo a continuare serenamente al suo lavoro ... ", sono anche da sottolineare i flash fomiti dall'ORLANDI sul corso della funesta giornata del 6 marzo, al termine della quale il ROSSI sarebbe morto o, per meglio dire, non potendosi nutrire più alcun dubbio, alla stregua di tutto quanto fin qui rassegnato, lo stesso si sarebbe ucciso, gettandosi dalla finestra de l suo ufficio. Ha invero riferito al riguardo la giovane che al mattino poco prima che ROSSl uscisse di casa lo aveva sentito parlare con sua madre. La TOGNAZZI con tono preoccupato invitava il marito a reagire ed ad uscire dallo stato in cui versava. Non appena ROSSI era uscito di casa. la TOGNAZZI aveva chi amato al telefono il cognato Ranieri ROSSI, dicendogli piangendo che era molto preoccupata per Davide, il quale era giunto a compiere atti di autolesionismo, invitandolo pertanto a parlare con lui, cosa che era accaduta all'ora di pranzo in quanto i due fratelli avevano mangiato assieme. Davide dopo il pranzo con il fratello Ranieri, intorno alle 16 era ripassato da casa. Era stato allora che l'ORLANDI aveva sentito la madre fa re riferimento con il marito a e-mail da ROSSI inviate a l dr VIOLA (su cui infra) per chiedergli, in relazione alla sua situazione, se poteva parlare con i pubblici ministeri ed alla domanda della Tognazzi se avesse ottenuto il colloquio con i magistrati, Davide aveva risposto che non era quello il momento di parlarne, stante la presenza in casa della suocera. In relazione al pranzo del 6 marzo con il fratello, Ranieri ROSSI, a sua volta riferisce direttamente che oltre a parlargli di cose normali, gli aveva confidato di essere" preoccupato per una cavolata che aveva fallo e che un suo amico/conoscente di cui si era fidalo lo aveva tradito". E quando di ciò Ranieri ROSSI aveva parlato - sembra successivamente al decesso del fratello - con la TOGNAZZI - quest'ultima, come dichiara a s.i.t.- come prima cosa aveva pensato "ad un giornalista al quale David possa aver dato fiducia nel tempo e che poi possa averlo tradito alla prima occasione o che DAVID potesse aver dello cose di troppo ad un amico giornalista che poi le avrebbe pubblicate." E che, in particolare il giorno in cui si sarebbe tolto la vita, il ROSS I fosse tormentato, come una specie di mono-ossessione, da una o più "cavolate" che, nelle sue valutazioni soggettive necessariamente condizionate dalla disastrosa condizione emotiva culminata nell'atto autosoppressivo serale, è un fatto da ritenersi assolutamente acclarato ove, oltre alle SS Il Tf dei predetti due famigliari, ed al contenuto delle tre lette re incomplete, di addio e di scuse per il gesto estremo a cui si accingeva nell'isolamento creato all'interno de l proprio ufficio, si consideri infine che la demoralizzazione per tali supposte cavolate era stato l'argomento centrale del colloquio individuale, durato più di due ore, del ROSSI con la coach CIANI, in ufficio, la mattina del 6.

"Mi ha manifestato una situazione di ansia derivante dalla perquisizione subita, in un contesto già problematico ... disse che era un momento in cui gli stava cadendo addosso il mondo ... la morte del padre, la crisi del Monte, lo stato di salute della moglie le perquisizioni da lui subite. Insomma lui si sentiva dentro una serie di situazioni negative che non riusciva a gestire. Io ho cercato di affrontare il discorso riferendomi alle competenze manageriali che possono essere di supporto in questi casi. Lui mi ha detto che da quando aveva subito la perquisizione e dalle vicende del Cd.A precedente, si era messo insistentemente a pensare rispetto a tutto quello che in questi anni era accaduto nella sua vita lavorativa: in questo senso lui continuava a chiedersi senza trovare risposta se c'era qualcosa che avrebbe potuto comprometterlo. Si sentiva quasi il senso di disgrazia imminente: questo era fortissimo tant'è che usava espressioni quali "ho paura che mi possono arrestare", .. ho paura di perdere il lavoro,  come se  accusato di qualcosa automaticamente perdesse il lavoro. Io gli sottolineai l'inutilità di continuare a rimuginare sul passato: gli precisai che sapevo che non era indagato e che aveva la fiducia di VIOLA e PROFUMO. Nel momento in cui gli dicevo queste cose anche lui disse che era vero: gli precisai che io stessa ero la prova della fiducia del nuovo management. Lui mi ha dello che addirittura pensava che io fossi lì per aiutarlo a comunicare le sue dimissioni ... Abbiamo considerato che la sua leva motivazionale al lavoro era basata sul prestigio. La sua leva prestigio era molto forte e di conseguenza nel momento in cui l'ha visto a rischio o ha immaginato che lo fosse a rischio il suo ruolo. è entrato in angoscia perché fino ad allora si è sentito protetto ...

Lui mi disse: <io mi sto comportando male, da quando ho subito la perquisizione ho fallo una cavolata dietro l'altra>. Avevo il desidero di tranquillizzarlo non banalizzando ma alleggerendo la cosa. Gli chiesi a cosa rispondessero questa cavolaie di cui parlava, lui non mi rispose ... si è aperto solo in parte nel senso che disse di aver fatto una cavolata mandando una comunicazione a VIOLA chiedendo protezione. In ciò quindi mostrando la sua fragilità all'azienda e dall'altra temendo di aver messo a disagio VIOLA se non addirittura irritato. Gli chiesi se VIOLA gli avesse risposto: egli mi disse di sì e che lo aveva tranquillizzato. Abbiamo parlato del perché avesse avuto bisogno di scrivere questa mail a VIOLA: lui mi parlò del senso di frustrazione e di bisogno che viveva. Lui peraltro sapeva che VIOLA era fuori banca e immagino che sapesse che era fuori banca per lavoro; e quindi questa mail era fuori contesto, avendo atteso un momento sbagliato per scrivergli. Io gli dissi che l'indomani VIOLA sarebbe tornato e che avrebbe potuto chiarire il tulio con lo stesso. Lui mi rispose dicendomi. Mi disse anche che gli aveva riscritto scusandosi con VIOLA per averlo disturbato. A me ha dato l'impressione che perso il lavoro avrebbe perso se stesso, proprio perché non c'era in lui un distacco tra vita privata e vita lavorativa, quasi che il suo ruolo professionale fosse tutta la sua vita. Lui mi continuava a dire di aver fallo delle cavolate, ma l 'unica cavolata rappresentatami come tale è stata questa mail scritta a VIOLA. Ho cercato di capire quale altre cose avesse fatto, ma non mi ha rivelato alcunché. Tornava su questa definizione di aver fatto delle cavolate, dichiarando di essersi comportato come un pazzo. Ribadisco il plurale riferito all'espressione cazzale commesse. Poi il riferimento ad una cazzata al singolare, evidentemente quella più recente, mi è stata spiegata in relazione alla mail scritta al dr. VIOLA. Quando ha iniziato a parlarmi della frustrazione, a prefigurarsi delle pre-immagini negative, mi parlò della paura di essere arrestalo, del fallo che sua moglie non fosse in condizioni di sostenersi; che avrebbe perso il lavoro se fosse successo qualcosa di grave .... Oggi (la CIANI veniva sentita a s.i.t. il 13.3.2013) ci sarebbe stato un incontro di team, cioè in gruppo con gli altri manager. Alla fine dell'incontro individuale. ROSSI salutandomi disse che gli aveva fatto bene parlare un po' ".

Ed ora veniamo alle mail dal ROSSI, come è documentai mente riscontrato, inviate il giorno 4 marzo ali' amministratore delegato, alle quali deve dirsi certo che il medesimo si riferisse nel colloquio di coach la mattina prima di suicidarsi, manifestando al riguardo uno sconforto incontrollabile, proprio per il fatto stesso di averle inviate, in ta l modo mostrandosi - questo credeva il ROSSI - fragile e non all'altezza del suo prestigioso livello professionale.

Il carteggio online in questione aveva avuto inizio la mattina, in forza di una prima mail delle 9:24 inviata al ROSSI da VIOLA chiedendogli di parlare di lavoro. in particolare della" Vicenda mutui prato", con ciò intendendo fare riferimento ad indagini recentemente avviate dalla Guardia di Finanza di Prato in merito a mutui " facili" (stando al taglio giornalistico della notizia) per circa 80 milioni erogati, tra il 2005 al 2009, da filiali del MPS di Prato, per l'acquisto della prima casa a immigrati di nazionalità cinese, rivelatisi insolvibili e privi di garanzie e la necessità di parlarne con il responsabile delle Comunicazioni nasceva dal fatto che su questa inchiesta, il 2 marzo, il TG 5 aveva incentrato un servizio televisivo.

Rossi alle 9:36 rispondeva al "parliamo della vicenda mutui Prato? " di VIOLA dicendogli: "ma non era Dubai?

Al che VIOLA, alle 9.48: "sì ma e 'è il telefono".

Malgrado le ferie di entrambi (stante che anche il ROSSI, come riferito dalla TOGNAZZI e dai colleghi di lavoro, non avrebbe dovuto recarsi a lavoro quel giorno) v'è prova documentale in atti che nel corso della manina si dedicavano alla stesura di una lettera sostanzialmente di protesta, inviata, alle ore 10.33, ancorché a firma di VIOLA, dal ROSSI dalla sua e.mail dell'ufficio ( "david.rossi2@banca.mps.it) al Vice direttore di TG5 (dr Pamparana), autore del servizio televisivo contestandogli di non aver messo in buona luce la Banca, lettera alla quale il giornalista aveva risposto, sempre sulla posta elettronica del ROSSI, alle successive 10:49. E' in questo interfacciarsi, durato un'ora e più per la faccenda dei "Mutui di Prato" ed il servizio curato al riguardo del predetto giornalista, che alle ore 10:13 ROSSI lancia a VIOLA anche un HELP del seguente testuale tenore "Stasera mi suicido sul serio. Aiutatemi".

VIOLA questa mail, che dai dati estrapolabili dal P.C. fisso di ufficio del ROSSI risulta tra la posta inviata, non ricorda di averla ricevuta. Sia o non sia sincero nel dire ciò VIOLA, ciò che più rileva è che quando all'incirca tre ore dopo, ovvero alle ore 13:09, ROSSI, supponendo che ancorché senza rispondergli VIOLA abbia comunque letto il messaggio in questione, ritorna sull'argomento, anche se in modo meno esplicito, chiedendo e rappresentando ancora l'urgenza:" Ti posso mandare una mail sul tema di stamani. E' urgente domani potrebbe già essere tardi", VIOLA questa volta risponde. A questo punto la risposta di VIOLA, delle 13.45, è: "Mandami la mail". E Rossi quindi gli scrive: "ho bisogno di un confatto con questi signori perché temo che mi abbiano male inquadrato come elemento di un sistema e di un giro sbagliati, Capisco che il mio rapporto con certe persone possa averglielo fallo pensare ma non è così. Se mi avessero chiamato a testimoniare glielo avrei spiegato, invece mi hanno messo nel mirino come se fossi chissà cosa. Almeno è l'impressione che ne ho ricavato. Avendo lavorato con tutti, sono perfettamente in grado di ricostruire gli scenari, se è quello che cercano. Però vorrei delle garanzie di non essere travolto da questa cosa. Per questo lo devo fare subito. Prima di domani. Non ho contatti con loro ma lo farei molto volentieri se questo può servire a tutti. Mi può aiutare?"

La risposta del VIOLA a questa e.mail, non è di totale chiusura verso il bisogno rappresentato né di negazione dell'aiuto richiesto, stante che, dando peraltro da pensare che non afferri l'intero significato del messaggio ricevuto, in particolare riguardo alla tempistica indicata, scrive: "La cosa è delicata, Non so e non voglio sapere cosa succederà domani. Lasciami riflettere ".

ROSSI a quel punto scrive ancora: "Non so nemmeno io. Ma almeno si può provare a vedere se hanno interesse a parlare con me stasera, vedo che stanno cercando di ricostruire gli scenari politici ed i vari rapporti. Ho lavorato con Piccini. Mussari, comune, fondazione, banca. Magari gli chiarisco parecchie cose, se so cosa gli serve. L'avrei fatto anche prima ma nessuno me lo ha chiesto."

Al che, conclusa VIOLA la breve pausa di riflessione, segnatamente durata, stante l'orario delle sue due risposte, dalle 14:24 alle successive 14:40, scrive ancora al ROSSI: Ho riflettuto. Essendo la cosa molto delicata, credo la cosa migliore sia quella che tu alzi il telefono e chiami uno dei pm per chiedere appuntamento urgente. Qualsiasi altra soluzione potrebbe essere male interpretata. Oltretutto mi sembrano delle persone molto equilibrate.

Ebbene, osserva al riguardo la scrivente che, se - come sembra - quello che ROSSI intendeva ricevere dal VIOLA era un sorta di autorizzazione per potersi mettere a completa disposizione dei sostituti della locale Procura, nelle loro indagini tese a ricostruire le faccende di rilevanza penale attinenti al passato del MPS, insieme ad una sorta di manleva, ossia di rassicurazione di assenza di eventuali ripercussioni negative, di questa sua iniziativa, sul mantenimento del suo posto di lavoro, ebbene VIOLA con il suo ultimo messaggio di fatto rispondeva affermativamente ad entrambe le richieste del suo dipendente, rassicurandolo anche sull'equilibrio dei magistrati che avrebbe potuto contattare con una semplice telefonata al loro ufficio quella sera stessa.

A quel punto, in ciò trovando riscontro l'andamento ondivago dello stato emotivo del ROSSI e delle relative manifestazione esteriori, sottolineato dai pubblici ministeri nella loro richiesta di archiviazione, il contenuto dei suoi successivi messaggi cambia ed infatti con ulteriori mail con le quali si chiude il lungo carteggio epistolare del 4 marzo con l'amministratore delegato, in ferie a Dubai, ROSSI scrive (mail delle ore 15.10)". Hai ragione, sono io che mi agito e mi sono spaventato dopo l'altro giorno", nonché (mail delle successive 17: 12) " In effetti ripensandoci sembro pazzo a farmi tutti questi problemi. Scusa la rottura".

Tutto ciò risultante in merito al contenuto di queste mail, quanto a modalità e tempistica della relativa acquisizione è opportuno aggiungere che erano state le stesse mail già tutte individuate - in forza delle attività di ispezione informatica e di successiva estrazione di copie forensi, demandate dagli inquirenti alla Polizia Postale - quando, in data 21 marzo veniva esaminato - per la seconda volta stante la prima audizione avvenuta il giorno immediatamente successivo al decesso - il dr VIOLA tanto che in sede di s.i.t. gli erano state mostrate e gli era stato richiesto di esplicitarle3. Pertanto non risponde al vero quanto per converso assume la difesa TOGNAZZI relativamente al fatto che erano state individuate, in particolar modo l'HELP contenente l'esplicito proposito suicidario, soltanto dopo il dissequestro e la restituzione dei computers e dei telefoni del ROSSI ai famigliari (giugno 2013) e grazie alle sole ricerche, asseritamente più specifiche e mirate, intraprese a ta l punto dagli stessi famigliari. E quanto all'apparente incongruenza tra le mail acquisite in forza dell'attività informatica demandata alla polizia Postale e le stesse mail, riversate negli atti de l fascicolo in seguito alla copia che ne aveva fatto, con propri programmi di conversione, la sig. Chiara BENEDETTI, moglie di uno dei due fratelli del compianto David ROSSI, incongruenza costituita dalla presenza, in particolare nella mail con oggetto "HELP", contenente l'esternazione del proposito suicidario, di seguito all'indicazione di VIOLA Fabrizio, quale destinatario primario, della indicazione - non presente nelle mail estratte dalla Polizia Postale - di SANDRETTI Bruna (segretaria della DALLA RIVA) come secondo destinatario in campo CC, ebbene una seconda verifica informatica apprestata dal personale tecnico della Polizia Postale ha accertato essere questo mero frutto di un malfunzionamento del software di conversione, rilevatosi crackato utilizzato, si ha ragione di ritenere in perfetta buona fede, da lla BENEDETTI nel recupero delle mail in questione .

Con il che priva di fondamento ed ancorata ad un erroneo presupposto di fatto rimane la ulteriore considerazione critica della difesa opponente secondo cui sulla ma il di "Help", ingiustificatamente non sarebbe stata sentita la predetta Sandretti per conoscere, da questa direttamente, quali attività aveva essa ritenuto di intraprendere a fronte di una comunicazione di tal genere,  alla quale non avevano fatto seguito le altre mail - dai contenuti come sembra implicitamente riconoscere la stessa difesa TOGNAZZI riconosce un contenuto molto più tranquillizzanti - inviate al solo amministratore delegato. Di fatto è - come va ribadito- che tutte le mail in questione hanno avuto come unico destinatario il dr VIOLA.

...

Sulla scorta di tutto quanto ampiamente rassegnato ritiene la scrivente che debba essere senz'altro condivisa e quindi accolta la motivata richiesta di archiviazione de i Pubblici Ministeri.

Superflua ogni altra considerazione in punto di manifesta insostenibilità dell'ipotesi dell'omicidio volontario e di assenza di ogni e qualsiasi lacuna o lato oscuro al riguardo colmabile con supplementi investigativi, anche relativamente all'ipotesi, prima facie prospettata del reato di istigazione al suicidio (ex art 580 c.p.), all'esito delle indagini scrupolosamente esperite, risulta altrettanto certo difettare i requisiti costituti vi minimi della fattispecie criminosa anche nella forma - non già della determinazione ovvero dell'agevolazione, bensì - del solo rafforzamento dell'altrui proposito di suicidio : ove si consideri che, sotto il profilo oggettivo, occorre la dimostrazione di una condotta, ancorché a forma libera ( e se del caso anche omissiva) in ogni caso causalmente idonea I a consolida re nel suicida nel suo proposito di auto-soppressione e, quanto all'elemento psicologico , pur essendo richiesto il solo dolo generico, è nondimeno necessario non soltanto la conoscenza della obiettiva serietà del suddetto proposito, ma anche la consapevolezza nonché la volontà di concorrere con la propria condotta a spingere l'altro in quella disperata direzione. (cfr Cass. Pen. Sez V nr 22782 del 28.04.2010 e sez V nr 3924 del 26.10.2006)

Correttamente mantenuta, fino alla fine delle indagini l'iscrizione del procedimento contro ignoti, non si vede infatti quale condotta con cotali caratteristiche oggettive e soggettive possa essere ravvisata nelle risultanze attinenti al caso di specie ed è pertanto ancor più remoto chiedersi a chi una siffatta condotta possa essere attribuita.

La sottolineatura da parte della difesa opponente della mail, di richiesta di aiuto e di rivelazione di proposito suicidario del 4 marzo, peraltro sganciata - e con lettura quindi fuorviante anche di questa sola parte delle risultanze fattuali - dal più ampio carteggio che in quel giorno risulta esserci stato tra il dr VIOLA ed il dr ROSSI ed inoltre erroneamente ritenendo che quella stessa mail e non le altre dal contenuto molto più tranquillizzante, sia stata inviata oltre che al dr Viola anche alla segreteria della Direzione delle Risorse Umane e lasciata cadere nel vuoto, pare suggerire- sulla base di presupposti di fatto insussistenti - che questa dovrebbe essere la condotta tipicamente riconducibile alla fattispecie di cui all'art 580 e che nella stessa direzione dovrebbero anche essere ricercati gli autori del reato. Nello stesso senso secondo la difesa opponente deporrebbero un contesto lavorativo e condotte tenute, in tale ambito, nei confronti e contro il Rossi, che non soltanto nella sua percezione interiore fortemente condizionata - questo è certo - dallo stato di grave turbamento psicologico in cui versava, ma anche obiettivamente tendevano ad isolarlo e mettevano a rischio anche il mantenimento del posto di lavoro. Sennonché le risultanze delle indagini riportano un contesto lavorativo nettamente diverso. Connotato da vicinanza, comprensione, rassicurazione, riconferma di fiducia, sostegno anche psicologico, a fronte delle varie manifestazioni di forte demoralizzazione e perdita di autostima che peraltro stando a quello che lo stesso dr Rossi lasciava capire - ai colleghi di lavoro, ai suoi superiori ai suoi famigliari - gli derivava da problematiche estranee all'attività lavorativa o per lo meno a quella attuale. In ragione di tutto questo, non ritiene questo giudice fondata l'opposizione all'archiviazione neppure nell'ottica pure delineata dall'opponente della derubricazione in omicidio colposo, non ravvisandosi profili di colpa né generica né specifica nel datore di lavoro del deceduto ai quali sia causalmente riconducibile il suicidio dello stesso e non potendo di certo essere sufficiente il mero fatto dell'aver il suicida scelto di uccidersi sul luogo di lavoro.

S' impone pertanto l'archiviazione del procedimento.

P.Q.M.

Visti gli articoli di legge in epigrafe Accoglie la richiesta e per l'effetto ordina l'archiviazione del procedimento e la restituzione degli atti al Pubblico Ministero. Autorizza il rilascio di copie alle parti che ne faranno richiesta ai sensi dell'art. 116 co 2° c.p.p. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di sua competenza.

Siena 04.3.20 14 – Dr M. Gaggelli.

OPPOSIZIONE ALL’ARCHIVIAZIONE. (Tratto dal sito web de Le Iene).

Opposizione alla richiesta di archiviazione dell'Avvocato Paolo Pirani difensore di Ranieri Rossi, il fratello di David.

TRIBUNALE DI SIENA

GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI

OPPOSIZIONE DELLA PERSONA OFFESA ALLA RICHIESTA DI ARCHIVIAZIONE

ex art. 410, c. 1 C.P.P.

Proc. Pen°8636/15 R.G.N.R.- PM Dr. Salvatore Vitello e Fabio Maria Gliozzi

A carico IGNOTI

All'Ill.mo Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di Siena

***

Il sottoscritto Avv. Paolo Pirani, difensore di fiducia e procuratore speciale di Ranieri ROSSI, Filippo ROSSI, Vittoria RICCI, Simonetta GIAMPAOLETTI volge la presente opposizione alla richiesta di archiviazione per illogicità della stessa rispetto alle risultanze probatorie.

Preliminarmente si evidenzia come lo scrivente procuratore – stante la quantità dei documenti da analizzare - ha ritenuto con il collega Avv. Luca Goracci (che a sua volta produrrà la propria opposizione) di dividere le attività le cui risultanze saranno tra loro integrative sia nel contenuto che nelle relative richieste, riservandosi ogni opportuna allegazione e successiva integrazione nei termini di legge.

A parere di codesto difensore il fascicolo in questione avrebbe dovuto avere ben altra conclusione se non altro con riferimento a molteplici circostanze che avrebbero meritato maggiori approfondimenti ed adeguata considerazione.

L’attività investigativa condotta tace completamente sulle anomale risultanze che si evincono dai tabulati telefonici, la cui lettura sconfessa le conclusioni probabilistiche alle quali si perviene nella richiesta di archiviazione. Se nel corso del fascicolo iscritto al RGNR 962/2013 mod.44 STUDIO LEGALE PIRANI Avv. Paolo Pirani Via Vitelleschi 5 – 01016 – Tarquinia (VT) Pec: avv.paolopirani@legalmail.it Telefax 0766.855756 – Cell. 347.6104747 2 potevano sussistere dubbi sulla genuinità dei citati tabulati (i quali potevano anche essere frutto di errori materiali nella copiatura in formato “excel” da parte della Polizia Giudiziaria all’uopo incaricata) non altrettanto può dirsi nell’odierno procedimento dove - in virtù dell’allegazione dei file in originale dei detti tabulati - risulta “oltre l’ogni ragionevole dubbio” (e quindi con certezza probatoria!) che alle ore 20:16:49 qualcuno (e non certo David ROSSI già esanime a terra!) risponde per ‘3’ secondi alla chiamata della figlia Carolina Orlandi. Questi ‘3’ secondi bastano a confutare tutte le valutazioni probabilistiche a fondamento delle conclusioni (fatte proprie dai PM) dei CCTT della Procura ZAVATTARO-CATTANEO. L’aver sottaciuto questo incontestabile dato nella ricostruzione della dinamica appare di estrema gravità tanto più che discrasie negli orari erano già state oggetto di attenzioni da parte dello stimatissimo Collega Goracci in fase di opposizione alla richiesta di Archiviazione nel procedimento iscritto al RGNR 962/2013.

NESSUNA INDAGINE È STATA CONDOTTA PER INDIVIDUARE CHI (CON CERTEZZA) ALLE ORE 20:16:49 ABBIA UTILIZZATO IL CELLULARE DEL COMPIANTO DAVID ROSSI.

Meritevole altresì di indagine è la chiamata effettuata alle ore 20:16:52 dall’utenza cellulare del ROSSI al numero 4099009, telefonata della cui esistenza non vi è dubbio alcuno così come descritto dal CTP Simone Bonifazi (doc.1).

Incrociando i due dati emerge “oltre ogni ragionevole dubbio” che qualcuno alle ore 20:16 utilizzasse il cellulare del ROSSI, rispondendo dapprima per ‘3’ secondi alla Carolina ORLANDI – ‘figlia’ del ROSSI - per poi chiamare con immediata successione la sconosciuta utenza predetta.

Al fine di una maggiore completezza investigativa onde scongiurare – come venne fatto in sede di disamina del fascicolo della prima indagine iscritta al RGNR 962/2013 mod.44 - errate valutazione circa gli orari si precisa:

1. L’ora riportata nel video DVR (così come accertato dal Tecnico ‘SECCIANI’ vgs. pagina 128 del fascicolo RGNR 962/13 Mod.44) non è esatta. In detto verbale verrà dichiarato “ORA DVR 01:37 ORA ESATTA 01:21”. Pertanto, tutti gli orari riportati nel video debbono essere arretrati di 16 minuti per ottenere l’esatto orario di riferimento;

2. Alle ore 19:59:23 ore DVR e quindi 19:43:23 ore reali nel video si intravede per la prima volta l’immagine del corpo di ROSSI in caduta;

3. Alle ore 21:03:08 ore DVR e quindi 20:47:08 ore reali nel video si intravede per la prima volta l’immagine del FILIPPONE; Da quanto sopra appare evidente che alle ore 20:16 ad utilizzare il cellulare del ROSSI non potesse essere quest’ultimo poiché il video lo ritrae a terra dalle ore 19:59:23 (ovvero 19:43:23 ore reali). Tutto ciò non è stato minimamente affrontato nella nuova indagine così come non tenuto in considerazione dal CT della Procura Ten. Col. ZAVATTARO le cui presunzioni valutative risultano essere viziate dal totale silenzio sul punto nonché inequivocabilmente sconfessate da dati certi ed incontrovertibili: NELLA STANZA DEL ROSSI 30 MINUTI DOPO LA CADUTA C’ERA QUALCUNO CHE È DIFFICILE IPOTIZZARE NON ABBIA COINVOLGIMENTO ALCUNO CON LA MORTE DELLO STESSO.

Tutto ciò avrebbe meritato, e merita, adeguato approfondimento investigativo!

Partendo da questi dati certi (forse gli unici della vicenda!) appare ictu oculi come si sarebbe dovuto procedere sin dalla prima indagine con una maggiore attenzione ai dettagli (che poi tanto dettagli non sono) e chiedersi: chi e perché qualcuno era all’interno dell’ufficio del ROSSI alle 20:16 intento ad utilizzare il cellulare di questi?

Altro dato non trascurabile si ricava a Pagina 136 del fascicolo RGNR 962/2013 mod.44 (verbale elenco acquisizione chiamate) nel quale si dà atto che si è proceduto ad estrapolare l’elenco delle ultime chiamate dal telefono fisso aziendale. In tale documento si legge “Stante le caratteristiche 4 tecniche dell’apparecchio telefonico (QUALI????) suddetto, idoneo a fornire un output cartaceo o informatico dell’elenco chiamate, si è proceduto ad una trascrizione manuale da intendersi accurata, salvo involontari errori umani (???)”.

Dalle annotazioni emergenti in sede di acquisizioni del telefono fisso dell’ufficio (allegato al detto verbale e contraddistinto con la pagina 137 del proc. Pen. 962/2013 mod.44) emerge che il giorno 6.3.2013 il ROSSI riceveva le seguenti chiamate alle quali viene data risposta:

- ore 09:29:29 da Bianciardi Simona

- ore 14:59:06 da Bianciardi Simona

- ore 17:27:20 da Filippone Gianluca

- ore 18:08:58 da PIERACCINI Lorenza

Alle ore 18:20:09 risulterà anche che la PIERACCINI Lorenza chiama il ROSSI senza però ricevere risposta.

A pagina 524 e ss. del proc. pen 962/2013 mod. 44 gli inquirenti (verbale della G. di F.) scriveranno che gli unici contatti avuti da David nella giornata del 06.03.2016 sono i seguenti:

Tognazzi Antonella, la moglie;

Bardi Antonello, medico;

Chiucchiu Claudio, Adn Kronos;

Montalbano Alfredo, BMPS;

Gallerini Paolo, B&G Assicurazioni;

Fondazione MPS;

Rossi Ranieri, il fratello;

Sorge Vittorio, BMPS;

Ricci Vittoria, la mamma;

Picchi Duccio, BMPS;

Graziani Alessandro, Il Sole 24 Ore;

Compagnia di Augusta, Guardia di Finanza;

Masoni Franco, ex coniuge di Stasi Luisa;

Galgani Chiara, BMPS;

Ognibene Silvia, Reuters;

Graziola Gerardo, Il Sole 24 Ore;

Massaro Fabrizio, Il Corriere della Sera";

Scarselli Luca, ingegnere titolare di Studio;

Filippone Giancarlo, suo capo segreteria in BMPS;

Roberta Amoruso, Il Messaggero.

Quanto descritto dagli inquirenti nel citato verbale risponde ad una verità parziale! Il ROSSI intrattenne il giorno 6 marzo 2013 conversazioni anche con la PIERACCINI Lorenza che MAI è stata escussa a SIT.

Certo è che La PIERACCINI Lorenza alle ore 18:20 si trovava presso la sede di Rocca Salimbeni (vgs tabulato pagina 137 RGNR 962/2013 mod.44) ed essendo una delle ultime persone a conferire con il ROSSI prima del tragico evento sarebbe stato utile chiederle di cosa avessero parlato, quale fosse lo stato emotivo del medesimo e se questi avesse da svolgere attività fuori ufficio e se fosse in compagnia di terzi.

Stessa notazione vale anche per la BIANCIARDI, con la quale il ROSSI si è sentito nel primo pomeriggio: non è mai stata sentita né indicata tra gli interlocutori del 6.3.2013.

Sempre dalla lettura dei tabulati (quelli in formato originale) emerge altro dato sconcertante e che avrebbe meritato adeguato approfondimento di indagine.

Alle ore 15:41:00 David riceve dall’utenza 0931521894 intestata alla Guardia di Finanza di Augusta sull’utenza del proprio ufficio 0577294519 una chiamata della durata di 406 secondi. Come emerge dagli atti del procedimento (vgs SIT di Ranieri ROSSI) a quell’ora il David ROSSI si trovava con il fratello fuori dell’ufficio; pertanto, chi ha risposto a quella chiamata di quasi 7 minuti? Chi aveva accesso all’ufficio del ROSSI al punto tale di rispondere dal suo interno? Tutte queste domande avrebbero trovato adeguata risposta se si fosse indagato su chi avesse effettuato la chiamata (cosa molto semplice considerando che il chiamante era un appartenente alla G. di F. di Agusta che avrebbe potuto riferire l’identità ed il contenuto di quella lunga conversazione). Sempre dalla lettura dei tabulati emergono delle incongruenze in alcuni soggetti escussi a SIT, circostanza anch’essa che merita adeguato approfondimento.

Dai tabulati è comprovato che Il VIOLA ha diversi contatti telefonici con il ROSSI anche tra le ore 09:50 e le 13:09 come dimostra questo estratto. Ciò nonostante il VIOLA dichiarerà difformemente al vero di non aver “parlato telefonicamente prima dell’invio delle email”.

Senza dubbio, la difformità tra quanto dichiarato e quello che emerge dai tabulati (anche in considerazione del contenuto della email delle ore 10:13 dal contenuto “HELP/aiutatemi stasera mi suicido, sul serio”) avrebbe meritato maggiori approfondimenti se non altro circa la necessità di escutere nuovamente il VIOLA per adeguati chiarimenti.

Dai tabulati risulta che alle ore 19:41 il FILIPPONE chiama il ROSSI (che non risponde) e subito dopo invia un sms; al sostituto procuratore dott. MARINI riferirà che quanto sopra fu eseguito solo dopo aver ricevuto una chiamata dalla TOGNAZZI, moglie di David, che era preoccupata dal fatto che il marito non gli rispondeva. Questa versione dei fatti è però “sconfessata” proprio dal 11 tabulato riportato a pagina 985 del fascicolo RGNR 962/13 dove la TOGNAZZI chiamerà per la prima volta David (dopo averci parlato alle 19:02) alle ore 20:06; sino a questa ora, infatti, non vi era motivo di chiedersi dove stesse il ROSSI. Pertanto il FILIPPONE darà una versione non corrispondente al vero. In verità c’è da dire che il FILIPPONE sarà escusso altre due volte (Il 18.01.2016 ed il 17.06.2016) apportando delle modificazioni ai fatti come narrati nell’immediatezza dell’accaduto. Per opportuna completezza si riporta anche il contenuto integrale delle citate SIT.

Le succitate tre dichiarazioni risultano tra loro differenti ed incoerenti con quelle del RICCUCCI Massimo, il quale, a SIT del 18.01.2016, riferirà “Ricordo che erano trascorse le 20:00, non ricordo però l'orario preciso. Quando ricevevo una telefonata da parte del dr. FILIPPONE Giancarlo che mi 14 chiedeva se il dr. ROSSI avesse lasciato la sede. Gli facevo presente di non averlo visto uscire e la circostanza era abbastanza anomala visto che il dr. ROSSI generalmente lasciava l'ufficio prima di quell'ora. Non era tra le persone che si trattenevano fino alle 21.00. Il dr. FILIPPONE mi chiedeva di trattenere il dr. ROSSI qualora l'avessi visto uscire dicendogli che stava per arrivare. Dopo circa IO minuti vedevo giungere in portineria, dalla p.za Salimbeni, il dr. FILIPPONE in compagnia di una ragazza a me sconosciuta. Solo in seguito seppi essere stata, se non erro, la figlia della compagna del dr. ROSSI, ma non ne sono sicuro. Il dr. FILIPPONE mi diceva che stavano andando nell'ufficio del dr. ROSSI. Ricordo che prendevano l'ascensore per raggiungere il terzo piano del Palazzo SPANNOCCHI, dove era situato l'ufficio del dr. ROSSI. Dopo qualche istante squillava il telefono; era il dr. FILIPPONE che mi diceva di raggiungerlo immediatamente al terzo piano. Bloccavo le porte scorrevoli dell'ingresso in modo che nessuno potesse più entrare o uscire e salivo di corsa le scale. Giunto a destinazione, il dr. FILIPPONE, evidentemente scioccato, mi invitava ad affacciarmi alla finestra dell'ufficio del dr. ROSSI e così facendo notavo nel vicolo sottostante, vicolo Monte Pio, il corpo esanime di un uomo che riconoscevo subito per il dr. ROSSI. [la ragazza] Era scesa in portineria con l'ascensore ed infatti il dr. FILIPPONE mi diceva di andare ad aprire le porte per permettere alla ragazza di allontanarsi dall'edificio. Rifacevo di corsa le scale e giunto in portineria ricordo perfettamente di aver trovato il dr. MINGRONE che stava cercando di uscire mentre era occupato in una telefonata. Non ho il ricordo della presenza della ragazza che penso fosse risalita dal dr. FILIPPONE proprio perché aveva trovate le porte chiuse. Aggiornavo subito il dr. MINGRONE su cosa fosse accaduto ed assieme a lui rifacevo le scale per tornare nell'ufficio del dr. ROSSI. Anche il dr. MINGRONE si affacciava alla finestra dopodiché tutti e tre riscendevano le scale. Strada facendo il dr. MINGRONE allertava il 118 e subito dopo le Forze dell'Ordine, non so se il 112 o il 113. Giunti in portineria, non ricordo se trovavamo anche la ragazza. Rammento che facevo uscire sia il dr. MINGRONE che il dr. FILIPPONE e chiudevo subito le porte, come richiestomi dal dr. MINGRONE per evitare sempre che nessuno potesse uscire o entrare”.

Delle due l’una: o FILIPPONE (chiamava con il telefono) RICCUCCI mentre era nella stanza di David oppure scendeva (senza chiamare il RICCUCCI) con Carolina Orlandi al piano terra. I dubbi saranno chiariti dal Bernardino MINGRONE il quale verrà escusso due volte ed in entrambi i casi dichiarerà quanto contenuto nell’ultima SIT del 02.07.2016 di cui si riporta un estratto.

Da ciò si evince come la versione fornita dal RICCUCCI non sia conforme al vero in quanto questi non ricevette alcuna telefonata dal FILIPPONE quando questi si trovava nell’ufficio del ROSSI. Resta pertanto da domandarsi perché tante discrasie e contraddizioni (MINGRONE a parte) tra i protagonisti di quello che è il primo avvistamento del corpo di David? Perché dare versioni differenti ed in taluni casi anche incompatibili?

Ed ancora il RICCUCCI Massimo nelle SIT del 18.01.2013 (pagina 200 del fascicolo RGNR 8636/2015 mod.44) dichiarerà “ […] Cosa fece successivamente? Avvisavo telefonicamente il mio capo servizio. Guido GUIGGIANI, di quanto stava accadendo e attraverso i monitor a cui erano collegate le telecamere di videosorveglianza perimetrale del palazzo, seguivo le scene di vicolo Monte Pio. Di lì a poco giungevano le Forze dell’Ordine ed altri funzionari della Banca.

[..] Oltre a quelle perimetrali, nella sede storica di p.za Salimbeni, erano installate altre telecamere? Sì, l'interno era videosorvegliato da telecamere che riprendevano le portinerie ed altri locali non accessibili quali l'archivio storico e la pinacoteca. Per il resto, nessun altro locale, piano o ufficio risultava e risulta tutt'ora videosorvegliato. Le immagini delle telecamere penso fossero registrate ma non ho alcuna notizia in merito”.

Le suddette affermazioni inducono ad una riflessione: se il RICCUCCI ha seguito dal monitor le scene del vicolo di Monte Pio dopo il rinvenimento del corpo di ROSSI, come è possibile che lo stesso non abbia notato nulla di particolare dalle ore 19:43 alle 21:03? Anche su questo aspetto nulla veniva richiesto approfonditamente al RICCUCCI.

Ed ancora. Nel verbale indicato quale annotazione del 07.03.2013 a firma del Sov. Livio Marini (vgs pagina 2 fascicolo iscritto al RNGR 962/2013 mod. 44) si legge che alle ore 21:25 davanti l’ufficio di David ROSSI “transitava certo FANTI Gianni […] il quale riferiva di non essersi accorto di nulla”. A parere di chi scrive sarebbe utile escutere a SIT tale soggetto al fine di richiedere informazioni utili a comprendere chi fosse a quell’ora presente oltre quelli già escussi e soprattutto se quel giorno avesse avuto modo di incontrare il ROSSI.

Fatta questa doverosa premessa giova segnalare come l’impugnata richiesta di Archiviazione si fondi sulle considerazioni espresse nella propria relazione dai CT della Procura Ten. Col. Fabrizio ZAVATTARO e Dott.ssa Cristina CATTANEO, relazione che merita le seguenti valutazioni ed osservazioni critiche:

Si legge a pagina 4. In realtà quando si parla di Sentenza i consulenti errano, in quanto la prima indagine si concludeva con un Decreto di Archiviazione. Se questo “errore” può ritenersi scusabile per la Dott.ssa Cattaneo (avulsa dalla conoscenza delle norme processuali) non altrettanto varrebbe per il Ten. Colonnello Zavattaro il quale, anche per il ruolo di PG che riveste, ben dovrebbe conoscere la differenza tra “Decreto” e “Sentenza”. A parere di chi scrive queste imperfezioni etimologiche e concettuali contraddistingueranno gran parte dell’elaborato.

Sin dalle prime pagine si evidenzierebbe l’importanza di “un’analisi meticolosa (da un punto di vista tecnico) del video ripreso dalla telecamera che mostra il soggetto precipitare”. Tanto che “Questo esame rappresenta un punto chiave dell’attuale processo” (sic!). Eppure nonostante l’Ing. Luca SCARSELLI avesse sollecitato più volte ZAVATTARO all’esecuzione di una analisi tecnica del video, il consulente della Procura ha sempre dichiarato che detto esame esulava dal quesito, salvo poi considerare il video come dirimente per le spiegazioni che verranno fornite dal consulente della procura in modo del tutto “apodittico” e senza alcuna consulenza sullo stesso.

Si legge sempre a pagina 4 “gli approfondimenti richiesti, nei fatti, si incardinano in un ampio contesto di elementi investigativi già valutati e di elementi tecnici da rivisitare, pertanto i nuovi risultati tecnici avranno il compito di rafforzare o diminuire l’efficacia delle prove a sostegno della sentenza di archiviazione a suo tempo emessa”. Già da queste righe si comprende il senso e l’utilità della relazione che i consulenti andranno a redigere: NON un atto per valutare acriticamente le prove in atti e quelle ulteriori acquisite (e quindi come atto dirimente per la ricerca della verità oggettiva), ma uno STRUMENTO per rafforzare le prove a sostegno della tesi del suicidio. Pertanto, tutta la relazione – come in effetti si legge – sarà redatta e “calzata” sull’ipotesi suicidiaria della prima indagine, ponendo a fondamento della stessa ipotesi “suggestive” (termini ripetutamente utilizzati nella relazione) e prive di validi sostegni probatori.

A pagina 8 si legge. I consulenti dichiareranno che l’orologio interno del videoregistratore risultava sfasato di circa 40 minuti, dato non rispondente al vero così come dimostrato dagli atti contenuti nel fascicolo dai quali risulta.

Quella che viene indicata come sfasatura di “circa 40 minuti” è in realtà una sfasatura di 16 minuti in avanti rispetto all’ora esatta. Pertanto la dichiarazione dei consulenti sul punto appare NON CORRETTA!

Ed ancora pur volendo considerare quanto descritto a pagina 16. Non si riesce a comprendere dove abbiano potuto ricavare il succitato minutaggio di 40 minuti di sfasatura.

Ugualmente meritevoli di confutazione sono le affermazioni contenute da pagina 40 a pagina 65 della relazione di cui si riportano le fotografie allegate.

Queste le fotografie estratte dal primo intervento. Queste le fotografie scattate dalla scientifica. Evidente è la modificazione dello stato dei luoghi così come più volte evidenziato e ribadito dalle parti offese. Orbene il Ten Col. ZAVATTARO sul punto dichiarerà (vgs. pagina 44) “Anche se le foto prodotte non riproducono esattamente i luoghi filmati due ore prima, si osserva che le ‘modifiche’ sono di modestissima entità, si nota che la sedia del Rossi (che ha un basamento con rotelle) è ruotata di circa 90 gradi, le ante degli armadi sono aperte e la finestra risulta chiusa. Il resto non pare aver subito alcuna alterazione, in particolare l’oggettistica della scrivania è rimasta sostanzialmente inalterata, se non per qualche piccolo spostamento. La posizione delle restanti sedie, dei tappeti e dell’attaccapanni non risulta modificata. L’ufficio, nel complesso, appare pulito e in ordine, la P.G. non ha rilevato tracce di azioni violente (non sono segnalate effrazioni, scardinamenti, rotture e nemmeno tracce di sangue nella stanza o di altri liquidi…) e tutte le immagini confermano questa circostanza: il pavimento in marmo con venature appare lucido, i tappeti sono sempre ben distesi, i libri e gli oggetti, anche leggeri o fragili, sono disposti sui tavoli, in situazione di normalità del quotidiano e non rivelano indizi che possano supportare azioni di carattere violento nell’ambiente, nemmeno da parte del Rossi stesso”.

Quanto affermato dallo ZAVATTARO desta le seguenti valutazioni critiche: una scena del crimine modificata è una scena del crimine inquinata’e la cosa più grave è che lo è stata da chi avrebbe dovuto preservarne il cd. “congelamento”.

L’analisi della scena del crimine, che si realizza attraverso il sopralluogo giudiziario, costituisce il punto di partenza di ogni indagine. Individuare, cristallizzare, raccogliere ed analizzare le tracce presenti sul luogo dell’evento significa riuscire a ricostruire le modalità con cui lo stesso è avvenuto ed identificarne il responsabile. Che si tratti di suicidio, omicidio o accidente dunque, questo momento è prodromico ed imprescindibile.

Chiaro è che nel caso in trattazione l’iniziale attività è stata eseguita con estrema “leggerezza” e con altrettanta “leggerezza” si è considerato normale che un luogo sia stato modificato (a prescindere da chi abbia posto in essere detta condotta) prima dell’arrivo della scientifica.

Quelle che il Consulente dichiara essere “modifiche di modestissima entità” sono al contrario macroscopici ed evidenti spostamenti che in taluni casi hanno determinato anche il non rinvenimento di molti oggetti dalla scrivania, oggetti che non è dato sapere se avessero potuto avere rilevanza (vgs. agende/quaderni nell’angolo in fondo a destra della scrivania come si evince dalle fotografie allegati al doc. 2).

Per dovere di verità, occorre evidenziare che a pagina 2 del fascicolo RGNR 962/2013 mod.44 (verbale di annotazione a firma di Sov. Livio MARINI) si legge: “alle ore 20:40, su disposizione della S.O., la volante veniva inviata in via dei Rossi dove era stato segnalato un avvenuto suicidio. […] nell’immediatezza – accedendo all’ufficio – lo scrivente effettuava una ripresa video con il proprio cellulare, che viene momentaneamente riversata nel server della Questura. […] lo scrivente chiudeva a chiave l’ufficio lasciandolo nelle condizioni in cui lo aveva trovato (quindi come dimostrato dal video in atti) e portando con se la chiave. Presso la portineria trovava il Maresciallo Cardiello Marcello il quale contattava direttamente il Sostituto Procuratore Nicola Marini ricevendo disposizione di presidiare l’ufficio del ROSSSI, in attesa del suo intervento. Poco dopo giungevano i sostituti procuratori MARINI, NATALINI, NASTASI. Dopo un primo sopralluogo finalizzato a rinvenire tracce utili per la spiegazione del gesto suicida l’ufficio del ROSSI, su delega verbale del Dott. MARINI veniva sottoposto a sequestro, chiuso a chiave e sigillato”.

Quando la scientifica interverrà nella stanza del ROSSI (alle ore 00:45 del 7.3.2013 vgs. pagina 298 del fascicolo RGNR 962/2013 mod.44) troverà un ben evidente spostamento (come rappresentato e fotograficamente documentato vgs doc.2) di taluni oggetti.

Peccato che proprio sulla posizione di taluni oggetti come ritrovati e rinvenuti successivamente dalla scientifica (ricordiamo dopo un primo sopralluogo NON documentato e fotografato) si è fondata e basata l’attuale e pregressa richiesta di Archiviazione.

Si legge a pagina 45 della relazione ZAVATTRO-CATTANEO “Queste sono le uniche immagini, per cui non è possibile stabilire con precisione la sequenza temporale degli oggetti che sono stati cestinati, tuttavia si nota che tra i più superficiali ci sono dei frammenti di carta e almeno un fazzoletto di carta. In considerazione del ruolo rivestito dal Rossi, è ragionevole ipotizzare che il cestino dovesse essere ripulito giornalmente, pertanto tutto il materiale deve essere riferito alla giornata del 6 marzo. I frammenti di carta costituiscono, in parte o in toto, i biglietti di addio manoscritti dal de cuius. I fazzoletti, non completamente dispiegati, nel numero minimo di 3, riportano numerose macchie di sostanza rossastra, con ogni ragionevolezza trattasi di 46 tamponature su ferita sanguinante (il che giustifica il fatto che il fazzoletto fosse chiuso, perché aumenta il potere assorbente)”.

1. Quando si legge “In considerazione del ruolo rivestito dal Rossi, è ragionevole ipotizzare che il cestino dovesse essere ripulito giornalmente, pertanto tutto il materiale deve essere riferito alla giornata del 6 marzo” trattasi di una valutazione priva di rilievi e riscontri probatori in quanto all’epoca non fu escusso a SIT nessun addetto alle pulizie. Al contrario, considerato il livello del materiale riposto nel cestino è lecito ipotizzare che fosse risalente a più giorni; nonostante ciò la relazione ZAVATTARO-CATTANEO dà per scontato che questi siano stati utilizzati e gettati poco prima dell’evento. Giova all’uopo ricordare come nel caso di specie trattasi di un cestino per la sola carta e, pertanto, resta difficile ipotizzare che fosse (contrariamente a quanto sostenuto in relazione) svuotato quotidianamente.

2. La relazione descrive queste macchie sui fazzolettini come frutto di un “tamponamento” e gli aloni come conseguenza di liquidi individuabili in saliva, acqua e siero (sic!! testuali parole utilizzate in relazione). Ancora una volta si afferma che i fazzolettini siano collocati nella parte superiore del cestino; detto particolare non risponde a verità in quanto i fazzolettini non risultano visibili.

Da notare come non siano visibili i fazzolettini. Il contenuto del cestino appare svuotato e quindi NON può essere dichiarato come dato certo che i fazzolettini siano stati rinvenuti nella parte superiore del cestino della spazzatura.

3. “I frammenti di carta costituiscono, in parte o in toto, i biglietti di addio manoscritti dal de cuius”. Detta circostanza non trova riscontro alcuno né dalle fotografie né dai verbali di sopralluogo (redatti a seguito di contaminazione e modifica). I biglietti manoscritti saranno consegnati dai PM alla scientifica (vgs pagina 299 ultimo capoverso del fascicolo del PM dove si legge “durante il sopralluogo i PM intervenuti hanno mostrato per documentarle tre lettere probabilmente del sig. ROSSI e rinvenute nel cestino dell’ufficio da loro stessi quando hanno effettuato una prima ispezione”) e quindi NON potevano essere dalla PG fotografati.

4. “I fazzoletti, non completamente dispiegati, nel numero minimo di 3, riportano numerose macchie di sostanza rossastra, con ogni ragionevolezza trattasi di 46 tamponature su ferita sanguinante (il che giustifica il fatto che il fazzoletto fosse chiuso, perché aumenta il potere assorbente)”. Trattasi di fazzoletti che sono stati distrutti, pertanto, non utili ai fini probatori e per ogni valutazione. Non è lecito sapere se il colore rossastro nei fazzolettini sia sangue e nel caso lo fosse potrebbe essere di chiunque anche del probabile aggressore di David. Qualche perplessità desta l’interpretazione della forma, perché non è detto che la lesione potesse essere necessariamente triangolare (quindi quella del labbro) oppure una di quelle precedenti, basti pensare a una escoriazione che è in parte “profonda” e in parte più “superficiale”, per cui i capillari possono risultare rotti solo per una parte della superficie della lesione (quella più profonda) e il sangue che fuoriesce e che viene tamponato chiaramente non va a riprodurre fedelmente lo “stampo” della ferita. Peraltro, va considerato che quando il fazzolettino viene usato come tampone può essere spostato leggermente per tamponare più volte oppure può essere anche fatto scorrere sulla ferita creando disegni irregolari e aloni, cosicché non è possibile risalire alla forma della ferita.

Si legge da pagina 49 a 51 della relazione ZAVATTARO-CATTANEO “L’insieme di questi dati è aderente ad un’ipotesi di calpestamento dello zoccolo in legno, con un verosimile inizio nella zona centrale per poi spostare l’attività sul lato sinistro, schiacciando i fili antipiccione (in particolare quello centrale), in prossimità del margine sinistro della finestra.

Nella porzione interna della mensola abbiamo infatti un assembramento di schegge nella zona centrale, all’esterno invece si nota una concentrazione di residui legnosi nella parte sinistra e, delle tre molle sul lato sinistro, in effetti, notiamo che quella più interna è stirata, ma non tanto quanto quella centrale che è visibilmente molto più deformata e allungata anche rispetto a quella superiore, che ha subito sicuramente una forte stress azione estensiva, tanto da provocare il distacco del filo proprio da quel lato”.

Anche nel caso di specie si denota come ogni assunto acquisito come certo sia in realtà sia sfornito di certezze probatorie; infatti, non vi è la benché minima prova (certa ed oltre ogni ragionevole dubbio) che i fili antipiccioni così come rinvenuti siano la diretta conseguenza di un “contatto” di ROSSI con la finestra. Infatti, nulla esclude che tale condizione (filo superiore e centrale staccati) fosse già presente in precedenza al decesso di David e quindi non legata all’evento del 6.3.2013. In ogni caso la prova così come condotta dal Vigile del Fuoco (che non può essere chiamata simulazione!) non è stata eseguita con la dinamica “suicidiaria” descritta dallo ZAVATTARO. Ma vi è di più!

Confrontando le due foto a seguire allegate nella relazione. Immagini della finestra in condizioni normali (acquisizione 16 dicembre 2015) 28 e B. 6.3.2013 Particolare del davanzale, si noti l’abbondanza di schegge di legno, sia all’interno che all’esterno.

Possiamo notare come, anche in condizioni normali (fotografia il 16.12.2015), la parte lignea della finestra presenta schegge all’interno ed all’esterno. A questo confronto aiuta fortunatamente la superficie chiara del marmo esterno che funge da contrasto cromatico con la barra scura di legno. Anche in questo caso le considerazioni in materia fornite in relazione dai CT ZAVATTARO-CATTANEO risultano essere oggettivamente sconfessate.

Ed ancora. Viene fornita la ricostruzione della caduta sulla simulazione (che si ribadisce non può essere definita tale) condotta da un Vigile del Fuoco munito di cinture per la sicurezza con peso ed altezza differenti rispetto a DAVID.

La prima considerazione che deve essere effettuata è che David a detta di tutti i soggetti escussi era un tipo atletico (frequentatore di palestre) di corporatura esile ed alto tra 1,65 e 1,70 mt. Orbene, anche a voler considerare valida la tesi ricostruita dallo ZAVATTARO quest’ultimo non considera che per un atleta la risalita afferrando la sbarra sarebbe stata molto agevole. Peraltro, lo ZAVATTARO non fornisce adeguata spiegazione alla rottura/strappo della camicia, la quale non trova compatibilità con la stesse fotografie allegate dal Consulente a supporto della sua relazione.

Come si nota la posizione assunta dal Vigile del Fuoco mostra un arco proprio all’altezza dell’addome (in corrispondenza del quale è possibile vedere la grondaia retrostante), circostanza incompatibile con i segni di rottura e strappo presenti nella parte inferiore della camicia di David.

In sostanza secondo la ricostruzione fornita dai Consulenti del PM David avrebbe avuto un contatto con il davanzale della finestra solo con le proprie scarpe, ma in questo caso, a parere di questa difesa, (pur volendo considerare plausibile la punta delle scarpe consumata) non troverebbe spiegazione alcuno lo stato in cui è stata trovata la camicia dello stesso.

Scrive infatti ZAVATTARO “si notano alcune lacerazioni/abrasioni e la mancanza di due bottoni, a livello dell’addome. La circostanza di uno strisciamento sullo spigolo esterno del davanzale, situazione peraltro osservata anche nell’esperimento del 25 giugno, coerente con l’azione di 30 schiacciamento/strisciamento della fibbia contro l’addome, sotto il peso del Rossi stesso, oltre ad aver provocato le citate striature sulla cute ha certamente comportato anche analogo stress alla porzione di camicia interna al pantalone, provocando con ogni probabilità non solo la fuoriuscita della stessa dai pantaloni (cosa che spiegherebbe anche il perché nel filmato il Rossi precipita con l’indumento in quelle condizioni) ma anche la perdita di un paio di bottoni e la lacerazione visibile nell’immagine sottostante”. Delle due l’una: o l’addome ha strisciato sul davanzale (o sullo spigolo di questo) o David ha assunto la posizione del Vigile del Fuoco. Le due descrizioni sono tra loro antitetiche e contraddittorie e pertanto incoerenti con una ipotesi suicidiaria.

Si legge a pag.170 della relazione di ZAVATTARO-CATTANEO. Orbene come si noterà in relazione alla camicia viene detto “l’addome presenta striature ed ecchimosi compatibili ad analoga situazione di schiacciamento e strisciamento; la cintura può aver lasciato i segni della fibbia e la camicia puo’ essere stata danneggiata per stiramento ed essere fuoriuscita dai pantaloni”; ma come ha potuto l’addome schiacciarsi o strisciare se lo stesso sopralluogo del 25.6.2016 (vgs. fotografie allegate alla relazione) ha mostrato un arco proprio in corrispondenza dell’addome? Risibile è inoltre la dedotta affermazione che la lacerazione della camicia si sarebbe provocata in conseguenza della fuoriuscita dai pantaloni.

Si legge ancora in relazione ZAVATTARO-CATTANEO “un’eventuale ipotesi omicidiaria, che preveda quindi l’intervento di terzi e magari un’azione preventiva di tramortimento (che giustificherebbe l’assenza di grida) non spiegherebbe, viceversa, l’intero quadro degli elementi raccolti e, anzi, appare in contrasto con alcuni tasselli del mosaico”.

Giova, all’uopo, ricordare come la ricostruzione crimino-dinamica va eseguita mediante l’unione di tutti i tasselli, affinchè si arrivi ad una plausibile risposta oltre “l’ogni ragionevole dubbio”. Al contrario, i dubbi all’epoca riscontrati trovano certezze ma nel senso diametralmente opposto a quello che si legge nella relazione. Infatti, qualora DAVID avesse maturato la volontà di suicidarsi per poi avere un ripensamento, qualora avesse preso coscienza della difficoltà a risalire, avrebbe senza dubbio gridato aiuto. Il fatto che nessuno lo abbia udito rende ancor più probabile che lo stesso sia stato dapprima tramortito, fatto uscire con forza dalla finestra e fatto cadere come descritto nel video. Giova altresì ricordare come il sig. Paolo LIBERTAI escusso a SIT il 9.02.2016 32 riferirà “non ricordo di aver udito nulla di strano. Faccio presente che le stanze della sede storica sono ben insonorizzate: una volta chiusa la porta è difficile udire voci o rumori esterni”. E’ quindi plausibile che nessuno abbia udito alcunché, ma ciò non vuole dire che il ROSSI non sia stato attinto ed aggredito da terzi.

Le contraddizioni tra i due consulenti firmatari della relazioni si evincono in modo inconfutabile nelle esposizione che segue: SCRIVE LA CATTANEO, SCRIVE ZAVATTARO.

La CATTANEO riferisce di un “sforzarsi/strisciare” contro strutture lineari della finestra e del davanzale mentre il Ten Col. ZAVATTARO nulla riferisce in merito ad un possibile sfregamento del ROSSI con il davanzale. Tutto ciò denota l’assoluta carenza critica della relazione in atti, la quale piuttosto che analizzare in senso oggettivo tutti i dati raccolti e rappresentare più ipotesi plausibili, ha ritenuto di sostenere la tesi “suicidiaria”.

A pagina 35 della richiesta di Archiviazione si legge.

Quanto al punto 1 (pagina 35 Richiesta di archiviazione). Giova rilevare come l’ordine apparente dell’ufficio del ROSSI, così come documentato e ripreso dall’operatore della volante, non può essere ritenuta prova di una mancanza di azioni concitate e violente di terze persone. Infatti, dapprima non può dimenticarsi il lungo decorso temporale intercorrente fra la precipitazione del ROSSI ed il primo soccorso; così come non può sottacersi quanto già ampiamente evidenziato circa l’utilizzo del cellulare di David quando questi era già riverso a terra. Occorre peraltro evidenziare come tutte le lesioni frontali - NON compatibili con la caduta - siano pienamente compatibili con l’intervento di terzi. All’uopo giova evidenziare come riguardo la lesività esterna, anche per i consulenti del PM, non vi è una chiara spiegazione con la modalità di precipitazione per quanto riguarda le lesioni del volto (di cui è già detto), le lesioni alla faccia antero-mediale delle braccia (lesione R e lesione I), quelle dell’addome (G e H), ginocchio destro (Y); però, nelle considerazioni finali non sono menzionate, nello specifico, né la lesione X (alone ecchimotico con area escoriata figurata della faccia interna della coscia destra) né la lesione Z (alone ecchimotico del terzo distale della faccia mediale della gamba destra). I CCTT del PM, non scendono nei dettagli nel fornire spiegazioni, quand’anche ipotetiche, circa le modalità con cui queste singole lesioni possano essersi prodotte nello specifico, ma si limitano a dare spiegazioni generiche che, secondo il sottoscritto, non consentono di fornire all’organo Giudicante tutte le informazioni richiamate preliminarmente da Loro stessi a pagina 5 e 6 della consulenza. All’uopo ci si riserva di integrare la detta memoria con le osservazioni critiche sul punto da parte del CTP Dott. Angelo Stamile.

Quanto al punto 2 (pagina 35 Richiesta di archiviazione). I Consulenti, senza accertamenti o riscontri, oggettivi in tal senso, danno per scontato che i biglietti ritrovati nel cestino dell’ufficio di David Rossi siano “biglietti di addio scritti dal de cuius”. (pag. 45). Ancora una volta gli stereotipi e il pregiudizio anticipano, sostituendosi a loro, i riscontri scientifici e l’oggettività: si dà per scontato che i biglietti siano: 1) stati scritti spontaneamente da David; 2) scritti contestualmente alla precipitazione e dunque, riferibili necessariamente a quel 6 marzo 2013; 3) sicuramente biglietti di addio che danno fondamento pertanto all’idea di un suicidio.

In merito all’interpretazione relativa al contenuto e alla significatività dei messaggi all’interno dei biglietti si discuterà più avanti. Così come compiutamente descritto nella propria relazione di consulenza dalla CTP Dr.ssa Francesca De Rinaldis (alla quale ci si riporta integralmente - doc.3- e della quale si riportano i passaggi ritenuti più salienti), vale la pena invece sottolineare come i Consulenti considerino la certezza che si tratti di biglietti di addio, come la base sulla quale costruire la dinamica, ormai data per certa, di un suicidio: siccome David ha lasciato dei biglietti che sono sicuramente di addio, allora deve essersi altrettanto sicuramente ucciso! Si tratta di un ragionamento sillogistico1 alquanto pericoloso poiché non basato su riscontri oggettivi incontrovertibili e, come vedremo più avanti, non diversamente interpretabili. Pericoloso inoltre perché, chi legge, al pari dei Consulenti scriventi, potrebbe persuadersi di tale convincimento e basare su tale convincimento (suggestivo) la costruzione di un pensiero che vada via via strutturandosi e rafforzandosi, attorno alla convinzione di un suicidio.

La convinzione preconcetta, e come vedremo per altro ampiamente controvertibile, che i biglietti siano “certamente” di addio muove l’analisi interpretativa dei consulenti della Procura ZAVATTARO-CATTANEO ed è inoltre posta a fondamento della richiesta di archiviazione del febbraio 2017, unitamente alle condizioni di ordine della stanza del Rossi e alla dinamica della caduta. Tutti e tre gli elementi posti a fondamento della richiesta di archiviazione non sono oggettivabili poiché controvertibili e criticabili, dunque lontani da quelle caratteristiche di obiettività e scientificità che debbono essere poste a fondamento della verità.

A pag. 59 della Consulenza ZAVATTARO-CATTANEO si legge che i biglietti vengono ritrovati nel cestino dell’ufficio di Rossi. Si dà per scontato che siano contestuali alla precipitazione, ma valgono a tal proposito le stesse riflessioni per il rinvenimento del fazzolettino con le presunte macchie di sangue e per il resto del materiale rinvenuto nello stesso cestino: non è possibile stabilire con certezza se quel materiale fosse stato gettato lo stesso giorno né tantomeno se sia stato lo stesso Rossi a gettarlo.

La polizia scientifica si limiterà, infatti, a fotografarli una volta ricostruiti; infatti, dalle immagini non si vede alcun biglietto recante scritte in superficie nemmeno una volta che il relativo contenuto viene vuotato. Priva di valore probatorio (non essendo stato escusso a SIT qualche addetto e/o dipendente della ditta delle pulizie presso la sede di MPS all’epoca dei fatti) l’affermazione che si legge nella relazione dei CCTT della Procura “in considerazione del ruolo rivestito dal Rossi è ragionevole ipotizzare che il cestino venisse svuotato giornalmente”; quanto sopra per diversi motivi:

a) Dal momento che i bigliettini e le scritte sono state ritenute come prova fondamentale nella vicenda era doveroso informarsi sulla frequenza di svuotamento del cestino negli uffici, presso il personale MPS o presso la ditta eventualmente appaltante

b) Il cestino in questione è evidentemente un cestino della carta da riciclare, che come è noto in nessun ufficio viene svuotata quotidianamente

c) Il cestino non è vuoto e contiene diverso materiale oltre ad un libro, difficile ipotizzare che tutto sia stato buttato in un solo giorno dove peraltro David è stato impegnato in varie altre attività all’esterno dell’ufficio stesso. In mancanza di queste argomentazioni/investigazioni ogni riferibilità “presunta” dei biglietti a quel 06.3.2013 appare destituita di fondamento. Pertanto, tutta la ricostruzione in merito dedotta (e non provata) descritta nella relazione ZAVATTARO-CATTANEO resta disancorata a dati certi così da divenire essa stessa la causa della assoluta infondatezza delle conclusioni alle quali i medesimi CC.TT. pervengono.

Tanto più se le interpretazioni psicologiche sui biglietti, sono offerte da chi non ha competenza specifica per questo tipo di interpretazione in quanto i due consulenti non sono né psicologi né tanto meno, grafologi. Dato per cui, i tecnicismi che si trovano descritti non trovano attendibilità. I consulenti parlano di una INDUBBIA paternità data dalla comparazione con altri scritti SICURAMENTE autografati dal Rossi.

Qualora in Consulenti avessero estrapolato tali affermazioni “certe” da risultanze tecniche effettuate da altri, avrebbero comunque dovuto fare specifico riferimento alle fonti. In assenza di tali fonti certe nella consulenza, è ipotizzabile che tali deduzioni siano proprie dei Consulenti e quindi scientificamente deboli ed infondate, in mancanza di competenze specifiche e riscontri obiettivi di comparazione.

Le osservazioni sul punto fornite dai Consulenti sono pertanto sommarie e approssimative: ogni interpretazione data trova altre spiegazioni contrarie comunque differenti. Dunque, ogni interpretazione non ancorandosi a parametri o a supporti obiettivi certi, non è attendibile come fondamento di verità.

I Consulenti danno, infatti, per certa una ricostruzione relativa all’ordine cronologico dei tre biglietti che è totalmente arbitraria: scrivono: “ (…) analizzando le immagini dei tre manoscritti, è stato possibile ricostruire la sequenza cronologica di produzione di questi messaggi, studiando le variazioni delle caratteristiche stilistiche, più legate alla forma e al contenuto e, in ultima analisi, allo stato psicologico del soggetto, che ha evidenziato una progressione coerente”.

Va innanzitutto premesso che un’analisi che si basa sulla mera osservazione delle immagini dei tre biglietti è oltremodo superficiale ed inattendibile.

La ricostruzione dei Consulenti ha come unico fondamento la convinzione preconcetta dei medesimi che David ROSSI si sia suicidato e dunque, sulla base di tale convinzione, elaborano la ricostruzione cronologica più conformante al loro pregiudizio. Dunque NON SI TRATTA DI UNA RICOSTRUZIONE OGGETTIVA E SCIENTIFICA, BENSÌ DI UNA RICOSTRUZIONE MERAMENTE SOGGETTIVA E PREGIUDIZIEVOLE CHE SODDISFA IL PERSONALE CONVINCIMENTO MA CHE NON DÀ RISCONTRO OBIETTIVO DEI FATTI.

È ancor più palese, nell’analisi di questi scritti, come i Consulenti, convinti dell’ipotesi suicidaria, facciano convergere necessariamente in tal senso l’analisi degli scritti: alludono alla presenza di un turbamento emotivo che si va placando fino alla razionale decisione di “uscire di scena”. Allora, se ciò fosse vero perché ROSSI non avrebbe dovuto lasciare un messaggio dove esplicitava chiaramente la sua intenzione e decisione suicida, lucidamente maturata a questo punto, in una posizione chiara, visibile, in modo che potesse essere facilmente ritrovata a condivisa? Gettare via uno scritto definitivo, certo, conclusivo, come lo definiscono i Consulenti, con il rischio che nessuno mai lo possa trovare o leggere, appare contraddittorio rispetto ad una chiara e lucida decisione di porre consapevolmente fine alla propria vita. I Consulenti parlano di consapevolezza emotiva di ROSSI, poiché dà un nome al suo malessere: angoscia. L’appellativo angoscia non definisce un oggetto certo, bensì uno stato psichico pervadente, confuso, dove spesso l’oggetto scatenante è inconscio. Dire di essere angosciati è lontano da una definizione certa del proprio oggetto di malessere. I consulenti parlano di una convinzione di ROSSI che va maturando rispetto la non sanabilità della sua situazione. Viene dunque spontaneo domandarsi: QUALE SITUAZIONE? Lavorativa? Sentimentale? Esistenziale? Non è dato sapere con certezza…. Si lascia supporre in maniera suggestiva che il ROSSI viva un malessere dal quale non trova via d’uscita, tuttavia tale malessere non è ancorato ad alcun riscontro oggettivo certo. Certamente tale visione romanzata è molto drammatica e avvincente, o come amano dire i Consulenti, “suggestiva” ma comunque non oggettivamente inquadrata. L’affermazione di tale tipo di convincimento deve basarsi su una buona conoscenza del David Rossi “persona” in riferimento al suo modo di essere, di determinarsi e di reagire rispetto alle criticità della vita: parametri ampi di conoscenza del Rossi ad oggi assenti, per cui le considerazioni sulla sua personalità sono affidate a elementi, dati per scontati, desunti dalle conoscenze investigative fin qui raccolte, e quindi superficiali e incompleti oltre che viziati da proiezioni soggettive.

Quanto affermato dai Consulenti a questo punto appare altamente CONTRADDITTORIO; fanno riferimento ad un aspetto emotivo che domina sul controllo razionale: il controllo emotivo aumenta (e dunque se l’emotività è più controllata, il quadro razionale prevale), oppure prevale sull’assetto razionale?

Probabilmente i Consulenti non si sono nemmeno accorti di aver dato interpretazioni contraddittorie, se il fine era quello di ancorare i messaggi ad una chiara lettura in senso ad un’intenzione suicidaria, val la pena affidarsi a qualunque interpretazione converga in tal senso!

Ma vi è di più! Nei biglietti si parla di un evento al passato “che ho fatto”: lo stato emotivo di chi scrive non è esplicativo o ancorato a cosa farà o potrebbe fare, bensì a qualcosa che è accaduto prima, rispetto al quale egli sente ancora il bisogno di motivare, giustificarsi, con la moglie.

È esclusivamente la moglie la destinataria dei biglietti, che probabilmente non avrebbe neanche mai letto.

ROSSI sembra alludere ad una spiegazione rispetto a fatti o circostanze della quali aveva già discusso o che aveva già condiviso con la moglie e che sente ulteriormente il bisogno di spiegarle, motivarle. È, specialmente questo specifico scritto, un tentativo di comunicare ulteriormente alla moglie il proprio vissuto.

“Credimi è meglio così”: cosa? Per i Consulenti “è meglio così che lui esca di scena, si uccida”; al contrario invece, Rossi sembra voler convincere la moglie rispetto ad una decisione presa che la medesima probabilmente non condivideva e che era stata probabile fonte di discussione. “Credimi è meglio così” è allusivo di un tentativo di convincimento rispetto a qualcosa che la moglie già conosce: David Rossi comunica solo emotivamente perché probabilmente la moglie (unica e sola destinataria degli scritti), già conosce l’oggetto di discussione e non ha bisogno di spiegare oltre quello che loro già sanno. Predomina in David Rossi il desiderio di arrivare alla moglie affinché lei possa accogliere e comprendere.

Nelle loro considerazioni e valutazioni sull’analisi dei biglietti, i Consulenti affermano che: “(…) la causa più verosimile sia stata la condizione di travaglio interiore, condizionata da un forte stress psicologico” (pag. 64).

Ora, è pur vero che ROSSI potesse essere afflitto da una condizione di stress psicologico, ma non è possibile dare un’interpretazione certa, né tantomeno univoca, sulla causa che ha determinato tale stato. Allo stesso modo, affermare che il Rossi vivesse uno stato di travaglio interiore e stress psicologico, non è la conditio sine qua non per decidere certamente di uccidersi.

E ancora, i Consulenti parlano di un “chiaro processo di progressione emotiva, psicologica, che collega i tre scritti” (pag. 64).

Innanzitutto l’ordine dato agli scritti è arbitrario e dettato da un libero convincimento, tale per cui è inattendibile parlare di una chiara progressione. Tale chiara progressione semmai è coerente con ciò da cui i Consulenti stessi sono persuasi. Loro stessi poi affermano contraddittoriamente “abbiamo potuto vedere come il Rossi vada acquisendo controllo emotivo”, per poi improvvisamente affermare che il lato emotivo predomina su quello razionale!

Ogni considerazione valutazione fatta si basa su una premessa data per certa ma mai oggettivamente riscontrata: ROSSI ha scritto quei biglietti, quando era solo nel suo ufficio, prima di uccidersi!

Ancora, i riferimento all’analisi dei biglietti, a pag. 65 della loro Consulenza, i Consulenti affermano: “d) ancora più difficile ipotizzare una dettatura di un testo ideato da terzi, così ricco di risvolti psicologici e in un continuum emotivo;”

Peccato che il continuum emotivo, di cui parlano i Consulenti, sia quel continuum che loro arbitrariamente hanno dato agli scritti.

Proseguono i Consulenti (pag.65): “f) (…) affinché il Rossi scrivesse i biglietti di addio alla moglie e, soprattutto, l’addio annunciato alla propria vita (…)”

I Consulenti alludono all’intenzione coercitiva sul Rossi nel fargli scrivere dei biglietti di addio alla vita: peccato che non c’è in nessuno dei tre biglietti un chiaro significato di addio alla vita né tantomeno l’esplicitazione di un’intenzione suicidaria. (I Consulenti sono totalmente persuasi, e vogliono persuadere, del fatto che si tratti di chiari biglietti di addio).

Sempre nello stesso passaggio della relazione i Consulenti fanno riferimento al fatto che il ROSSI, qualora fosse stato costretto a scrivere questi biglietti di addio, avrebbe comunque nel frattempo preso consapevolezza del fatto che stesse andando verso la fine della propria vita, e che quindi avrebbe tentato una reazione, una resistenza. A questo punto i Consulenti si lanciano in un’interpretazione, ci si permette di dire, romanzesca, da film d’azione: Rossi avrebbe potuto lasciare un messaggio ‘in codice’ (pag. 65) lasciando un segno anche piccolo avendo la penna in mano e delle ferite sanguinanti per cui “avrebbe potuto utilizzare sia l’inchiostro che il sangue, o entrambi …”. A parte l’ilarità che suscita, tale osservazione, la stessa si basa su riscontri dati ancora una volta per assodati, quando assodati non sono: Rossi stava perdendo sangue nel momento in cui scrive; la stanza è in ordine non c’è quindi l’intrusione di terzi. La stanza potrebbe essere stata riordinata, oppure, non è stata mai scomposta per il probabile ingresso di persone (o una persona) nota, rassicurante, non allarmante.

In base a quanto sopra affermato, criticando e capovolgendo l’interpretazione dei biglietti data dai Consulenti della Procura, è possibile dare un’interpretazione alternativa degli stessi che dunque sconfessa l’oggettività e l’attendibilità attribuita all’analisi dei Consulenti medesimi, recepita, lo si ribadisce, a fondamento della richiesta di archiviazione.

È possibile infatti, attribuire ai biglietti un ordine cronologico inverso rispetto a quello fornito dai Consulenti:

IL BIGLIETTO NUMERO 3 DEI CONSULENTI, POTREBBE ESSERE IL NUMERO 1: prima prova a spiegare con più parole, anche con maggior tono e coinvolgimento affettivo alla moglie, lo stato emotivo che lo caratterizza e che caratterizza una “sua scelta”, che potrebbe essere una scelta qualunque, probabilmente già discussa e non condivisa dalla medesima.

BIGLIETTO NUMERO 2: non soddisfatto dei toni e della qualità dello scritto, ne produce un secondo, dove si evidenzia un primo distanziamento emotivo dalla moglie: non più solo amore, ma “Toni, Amore”, indirizzando con maggiore direttività il suo messaggio in modo più fermo, deciso, controllato; 42 Utilizzare il nomignolo “Toni” che a detta della moglie non era solito utilizzare, potrebbe essere funzionale ad esercitare un distacco emotivo ed un controllo razionale rispetto a quello che vuole spiegare alla moglie medesima che altrimenti rischierebbe di venir meno (è come se Rossi volesse tentare di “mantenere il timone” della situazione)

BIGLIETTO NUMERO 1 DEI CONSULENTI CHE DIVENTA IL BIGLIETTO 3: appare come se man mano Rossi decida di distaccarsi dal coinvolgimento emotivo col quale scrive alla moglie. Appare come se, progredendo nello scrivere, prendendo sicurezza in sé, arrivi a non considerare più opportuno spiegare nulla alla moglie, come se avesse deciso di non doverle più giustificare niente! Ecco perché getta i biglietti: non deve spiegarle nulla!

SE FOSSERO BIGLIETTI DI ADDIO ALLORA SI, LI AVREBBE FATTI RITROVARE. NE AVREBBE SCRITTO UNO DEL QUALE SI SAREBBE SENTITO SODDISFATTO E CHE AVREBBE LASCIATO IN BELLA VISTA! Si blocca sulle motivazioni sulle spiegazioni, come dicono i Consulenti, forse perché la moglie, destinataria dei biglietti, conosce il contenuto dell’azione alla quale Rossi si riferisce.

Forse c’era stata una discussione pregressa, o un’opinione condivisa, in merito a quella “cazzata”.

A conferma del fatto che non si trattasse di biglietti di addio del Rossi, è possibile fare anche altre considerazioni:

1- Rossi aveva manifestato un’aperta preoccupazione in quei giorni, in particolare la giornata del 6.03.2013, come anche confermato nelle SIT, per le condizioni di salute della moglie, colpita da una brutta polmonite. Rossi, dedito alla cura della moglie pertanto, l’aveva rassicurata circa il suo rientro in casa per le 19.30 con la cena. Un’azione pertanto di estrema premura ed attenzione per la moglie, quindi: perché uccidersi gravandola di un sì grande dolore? E soprattutto perché darle un peso così grande in un momento di estrema fragilità, senza lasciare un chiaro segnale di addio e motivazioni?

2- Rossi era molto legato alla propria famiglia d’origine soprattutto alla madre. Ci teneva a che la madre conservasse una buona opinione a suo riguardo e che non si trovasse mai nella condizione di dover vivere sofferenze da egli stesso causate. A riprova di ciò c’è l’affermazione raccolta dalla stessa madre di Rossi per la quale, il figlio a seguito della perquisizione subita il 19.02.2013, le avrebbe confessato che il suo timore più grande era quello di dare una delusione o un dolore in conseguenza di ciò proprio a lei. Rossi infatti, come verso la moglie, possedeva un’attitudine protettiva verso tutte le figure affettivamente care: piuttosto che porsi in condizione di creare disagio, era piuttosto lui a correre per sorreggere ed incoraggiare. Quindi: perché indirizzare le sue ultime parole, qualora fossero parole di addio, solo alla moglie, e non lasciare un biglietto alla madre per motivare le ragioni di un gesto suicidario? E soprattutto, perché gravare la madre di un così grande dolore inaspettato dopo anche la scomparsa del padre? Tali interrogativi, sorti nell’ambito della conoscenza delle attitudini comportamentali afferenti all’area affettiva intima del Rossi, non trovano risposta all’interno della dinamica dei fatti come ricostruita fin qui nelle indagini.

Da ultimo, seppur non in ordine di importanza, in correlazione all’analisi dei biglietti, è doveroso fare una riflessione a parte in merito al fatto che gli stessi fossero stati strappati e gettati.

Da quanto desunto dalle SIT del 18.04.2013, di Carolina Orlandi, figlia di Antonella Tognazzi, moglie di Rossi, la stessa riferisce che la sera del 5 marzo 2013, mentre erano in casa loro, Rossi aveva preso un blocchetto per scriverle quello che aveva da dirle.

Tale specifico episodio denuncia come ROSSI fosse in quel periodo solito scrivere i propri pensieri sui fogli, non a voce, per timore anche di essere intercettato. Tale percezione persecutoria non trova riscontro in un quadro clinico di tipo psichiatrico, che come si è potuto apprezzare non aveva caratterizzato e non caratterizzava nel presente la condotta di Rossi medesimo, pertanto deve fondarsi sulla constatazione di dati certi.

Tuttavia quello che rileva a tal riguardo è proprio l’abitualità, correlata all’attualità del periodo, di depositare i propri pensieri in forma scritta, di far pervenire la propria opinione all’altro, nel casi specifico la moglie, attraverso scritti, scritti dei quali automaticamente poi era solito disfarsi.

C’è una particolarità però nel caso specifico: la sera del 5 marzo si raccomanda con Carolina di gettare i fogli fuori casa facendo attenzione a che nessuno la vedesse, mentre nel caso della comunicazione che deve dare alla moglie, del pensiero che vuole condividere o che inizialmente pensa di condividere con la moglie, decide di disfarsene ma NON di buttarlo in un luogo anonimo, distante, bensì nel cestino del suo stesso ufficio. Tale atto è indicativo del fatto che, scegliendo di affidare un intimo pensiero, al cestino del suo ufficio, egli, David Rossi, in quel posto, nel suo ufficio, si sentisse sicuro.

Tale gesto porterebbe a far decadere quel senso di sfiducia e di abbandono di Rossi vissuto e percepito nei confronti dell’Istituto Bancario su cui è stata impiantata e costruita la motivazione che ha spinto al gesto suicida.

Per altro, non potendo contestualizzare tali scritti in maniera oggettiva ad una data precisa, poiché potrebbero essere stati scritti dal Rossi anche giorni prima della sua morte, l’unico riscontro certo che ad oggi possiamo fare sui biglietti in base a quanto evidenziato, è che la condotta di affidare pensieri e parole ad uno scritto anziché al parlato, fosse caratterizzante l’ultimo periodo di Rossi, per cui il significato dell’esistenza di tali biglietti va ascritto a tale condotta, non a un significato di commiato.

Quanto al punto 3 (pagina 35 Richiesta di archiviazione). Sulle risultanze medico-legali codesto procuratore si riserva di depositare le considerazioni del CTP Dott. Angelo STAMILE, il quale ha in ogni caso elaborato le valutazioni tecniche che di seguito si andranno a descrivere. Giova all’uopo rilevare alcune considerazioni che meritano adeguato approfondimento partendo proprio dalle lesioni frontali che – è dato acclarato - NON sono compatibili con la caduta.

Condivisibile è la questione dei possibili soccorsi non attivati in quanto il tempo di circa 20 minuti in cui il Rossi è sopravvissuto (in uno stato di semi-coscienza tenuto conto del grave politraumatismo subito ma visti i movimenti degli arti superiori e del capo chiaramente non afinalistici), è venuto meno ad un tentativo di salvataggio che avrebbe offerto delle chance di sopravvivenza all’uomo. Non sono certo io il primo a dirlo, e a farlo notare, ma come medico legale credo che se avessi avuto la possibilità di vedere ed esaminare il filmato della videosorveglianza, quale CT del PM, non avrei avuto dubbi nel tenere conto di quanto da questo si evince (ombre, fari di auto e sagome di persone) e questo, non solo per la questione dei soccorsi, ma anche ai fini di quella che sarebbe potuta essere una spiegazione plausibile circa la dinamica dei fatti.

Non ci sono dubbi circa la causa della morte, insita nella gravità delle lesioni traumatiche, non tanto quelle del capo, quanto quelle toraco-addominali, che per l’appunto non sono state “immediatamente” mortali ma che prima di condurre all’arresto cardio-respiratorio hanno dato luogo ad un quadro di shock emorragico e, probabilmente, anche di insufficienza respiratoria acuta, oltre che ad una paralisi del corpo dalla vita in giù (interessamento midollare da trauma del rachide lombare).

Riguardo la lesività esterna, anche per i consulenti del PM, non vi è una chiara spiegazione con la modalità di precipitazione per quanto riguarda le lesioni del volto (di cui è già detto), le lesioni alla faccia antero-mediale delle braccia (lesione R e lesione I), quelle dell’addome (G e H), ginocchio destro (Y); però, nelle considerazioni finali non sono menzionate, nello specifico, né la lesione X (alone ecchimotico con area escoriata figurata della faccia interna della coscia destra) né la lesione Z (alone ecchimotico del terzo distale della faccia mediale della gamba destra). I CCTT del PM, non scendono nei dettagli nel fornire spiegazioni, quand’anche ipotetiche, circa le modalità con cui queste singole lesioni possano essersi prodotte nello specifico, ma si limitano a dare spiegazioni generiche che, secondo il sottoscritto, non consentono di fornire all’organo Giudicante tutte le informazioni richiamate preliminarmente da Loro stessi a pagina 5 e 6 della consulenza.

Per quanto riguarda l’arto superiore destro questo tocca a terra prima con l’avambraccio e la mano e poi con la superficie dorsale quando ricade all’indietro, tanto potrebbe spiegare tutta la lesività presente sulla faccia volare dell’avambraccio e sul palmo della mano compresa la piccola lesione lineare2 , ma non quella sulla faccia mediale del braccio (lesione R), che peraltro presenta caratteri escoriativi, ossia di compressione e strisciamento (circostanza che non si è prodotta al momento dell’urto del corpo a terra), né quella sulla faccia mediale del braccio sinistro (lesione I), visto che l’arto superiore sinistro tocca a terra solo nella parte finale della caduta e con la superficie dorsale.

Ragionamento simile vale per le lesioni N e O del polso sinistro in quanto l’arto superiore di questo lato urta a terra solo nella fase finale della caduta e con la superficie dorsale. Credo che a questo punto sia importante sottolineare come il polsino della camicia fosse abbottonato e ben posizionato intorno al polso (si vede bene nei frame della caduta), quindi la cute dell’avambraccio e del polso era completamente coperta e protetta; nella consulenza non sono stati fatti riferimenti particolari all’orologio (se non a pagina 80), a tal riguardo l’avv. Luca Goracci e l’ing. Luca Scarselli hanno sempre sostenuto che l’orologio sia caduto successivamente; del resto è anomala la posizione del cinturino rispetto a quella del corpo così come quella del quadrante dell’orologio. È altamente plausibile che la lesione N e la lesione O non si siano prodotte al momento dell’urto finale dell’arto superiore con la superficie dorsale, e se questa è un ovvietà per la lesione N, visto che è sulla superficie volare, di non dissimile chiarezza è la spiegazione per lesione O; in effetti, se questa lesività si fosse prodotta con l’urto finale del braccio, intanto le lesioni avrebbero dovuto avere caratteristiche cromatiche e demarcazione molto più blanda rispetto a quella risultata, basti paragonare queste due lesioni (N e O) con le ferite dello stesso distretto controlaterale, ossia quelle della superficie volare dell’avambraccio destro (S e T) che risultano molto meno marcate nonostante questa parte del corpo abbia battuto al suolo al momento del impatto primario (ossia quello dotato di maggiore energia e quindi maggiore vis lesiva), e questo grazie alla presenza della manica della camicia che ha “protetto” la cute). Pensare poi che possa essere stato l’orologio al momento dell’urto a terra è del tutto inverosimile perché se fosse stato l’orologio, due sarebbero potute essere le possibilità (entrambe da scartare): a) se l’orologio fosse stato indossato sotto il polsino della camicia, ossia posto a contatto diretto con la pelle, sarebbe stato possibile darsi una spiegazione per la lesione O, ma non la N, restando comunque inspiegabile come mai l’orologio non sia rimasto trattenuto nella manica della camicia da dove credo non sarebbe potuto uscire (tanto più che la mano quando urta a terra non si muove più fino alla ripresa dei successivi movimenti, ma questi non possono certo giustificare il ritrovamento del quadrante e del cinturino in posti così distanti); se invece l’orologio fosse stato indossato esternamente all’indumento, intanto credo si potesse quanto meno intravedere dal filmato (orologio con quadrante e cinturino scuro su camicia bianca, un contrasto evidente) e poi lo stesso sarebbe rimasto comunque a contrasto tra selciato e braccio (per lo stesso motivo sopra addotto).

Con ogni probabilità (molto più attendibile di quella descritta dai CCTT dei PM) queste lesioni (N e O), così come la lesione Q sono originate in un frangente antecedente la caduta, quale conseguenza di una stretta presa al polso quando l’orologio era ancora indossato.

Per quanto riguarda l’escoriazione del ginocchio destro (Y), richiamo brevemente in nota quanto già detto a pagina 9.

Restano l’alone ecchimotico con area escoriata figurata della faccia mediale della coscia destra (X) e l’alone ecchimotico del terzo distale della faccia mediale della gamba destra (Z), entrambe mai menzionate nella ricostruzione della dinamica, neanche da ultimo a pagina 166 della relazione: “ La presenza quindi di strappi alla camicia anteriormente con sottostanti escoriazioni superficiali, così come di escoriazioni e ecchimosi lievi in regione ascellare e alla superficie anteriore delle braccia, di escoriazioni alle ginocchia e alla punta delle scarpe, e di escoriazioni al volto riconducibili forse all’urto contro spigoli (strutture lineari della finestra, del davanzale…), è suggestiva di un dibattersi o di uno sforzarsi/strisciarsi della parte anteriore del corpo contro le strutture della finestra e del muro esterno”.

A questo punto, nel riportarmi a quanto correttamente scritto dai consulenti del PM circa i limiti della scienza nei casi di precipitazione circa la aspecificità diagnostica delle lesioni conseguenti ad impatto a terra fra omicidio, suicidio ed evento accidentale, non si può che sottolineare, in effetti, quella che è l’importanza sia dei dati circostanziali che di una dettagliata indagine sul cadavere. Ma, all’esito di tutto l’operato, i consulenti del PM sposano l’ipotesi del suicidio facendo riferimento al precedente autolesionismo (ma quante persone compiono questo gesto che resta isolato?) e ai tre biglietti ritrovati la sera del decesso e ritenuti essere di commiato, ritenendo altresì non chiaramente indicative dell’intervento da parte di terzi le lesioni sul corpo del Rossi, avvalorando il tutto anche per il mancato ritrovamento di DNA di terze persone sotto le unghie del Rossi medesimo.

Riguardo gli elementi che possano indicare una palese colluttazione (dalle impronte digitate da afferramento sul corpo, a lesioni contusive o materiale subungueale che riporta la presenza di DNA di terze persone non spiegabile in altro modo), l’unico riscontro, in negativo, è l’assenza di reperimento di materiale genetico sotto le unghie, ma si badi bene non perché non potrebbe essercene stato, ma perché non è stato possibile repertarlo a distanza di tre anni. Per quanto riguarda poi le altre due tipologie di lesioni, credo che, se da una parte possa essere ipotizzato che le escoriazioni al volto possano essere riconducibili “forse” all’urto contro spigoli (strutture lineari della finestra, del davanzale…), per un suggestivo dibattersi o di uno sforzarsi/strisciarsi della parte anteriore del corpo contro le strutture della finestra e del muro esterno, non può, allo stesso tempo, essere escluso:

- che con un azione a sorpresa e forzosa il Rossi possa essere stato aggredito con calci (alla regione genitale cosicché si spiegherebbe la lesione X alla coscia destra) e pugni e/o ancora calci all’addome (spiegazione delle lesioni G e H), così da lasciarlo tramortito;

- che in conseguenza di tanto possa essere stato afferrato e fatto passare al di fuori dalla finestra in posizione pressoché prona e con i piedi rivolti verso la finestra, senza che potesse invocare aiuto per lo stato di ottundimento in cui versava nel frangente;

- che tale azione possa essere stata condotta da più persone (almeno due);

- che nella fase della defenestrazione il ROSSI ha potuto urtare il volto contro le medesime strutture della finestra procurandosi le lesioni poi riscontrate (A, C, D, e F); lesioni che alternativamente potrebbero essere state prodotte in un frangente precedente per azione diretta da parte di aggressori, sempre nell’ambito di azione di afferramento;

- che in una siffatta dinamica la presa ultima del corpo può essere stata il polso sinistro, circostanza quest’ultima che spiegherebbe bene: la genesi delle lesioni escoriate N, O e la lesione ecchimotica Q, quale conseguenza di una stretta/presa violenta del polso; il contestuale strappo dell’orologio dal polso medesimo (oggetto fatto poi cadere in un secondo momento); il leggero sbilanciamento del peso del corpo verso destra, che lo ha fatto arrivare a terra impattando maggiormente su questo lato; la posizione dell’arto superiore sinistro che resta elevato in caduta, mentre il destro era disteso lungo il corpo.

Azioni e movimenti del corpo nell’ambito di un “travaglio” quale quello proposto dai consulenti del PM che possano giustificare siffatte ubicazioni e lesività non possono però conseguire che all’assunzione di posizioni anomale del corpo (anche estreme). Resta ancor più difficile ipotizzare come in un siffatto scenario possano essersi prodotte anche le lesioni N, O e Q del polso sinistro.

Si legge a pagina 38 della relazione ZAVATTARO-CATTANEO “la prima (l’ipotesi di omicidio ndr) prevede che il Rossi sia stato spinto/forzato a cadere dalla finestra, e che questi atti, resi ancora più disparati dal tentativo di salvarsi e di vincolarsi, e magari anche l’aggrapparsi alle strutture della finestra e poi da lì cadere, abbiano portato agli urti contro le superfici delle strutture della finestra e del muro”. Detta ipotesi “non si può escludere in assoluto in base agli elementi medico legali (anche se gli accertamenti tecnici sulla finestra dell’ufficio del Rossi, contenuti nella prima parte della relazione, la rappresentano come impossibile, ndr), tuttavia non ha elementi circostanziali o biologici che la supportino: non vi sono segni chiaramente attribuibili a terze persone (lesioni formate, DNA di terzi”.

Quanto sopra trova la sua smentita in dette considerazioni incontestabili:

1. Le lesioni frontali NON sono compatibili con la caduta e quindi antecedenti la stessa.

2. Gli accertamenti tecnici sulla finestra e la relativa simulazione con il Vigile di Fuoco (che simulazione NON è!) così come anche riferito dalla stessa CT dr.ssa CATTANEO non sarebbero dirimenti. A dover di verità un dato se non è dirimente non lo è sia in un senso che nell’altro, risultando mera presunzione ogni diversa qualificazione ad esso attribuita

3. Risibile come la mancanza del DNA (ricercato – e solo su richiesta delle parti – dopo oltre 3 anni!) venga considerato elemento dirimente a giustificare una chiara ed evidente mancanza di terzi alla condotta dei quali ricondurre la precipitazione del ROSSI. Sul punto senza tediare codesto GIP lo scrivente procuratore si riporta alle precise e puntuali osservazioni del proprio CT dott.ssa Marina BALDI (doc. 4) che dichiara “la sera in cui si è verificato l’evento pioveva. Non era una pioggia torrenziale, ma, come recita la CT medicolegale del Prof. Gabbrielli “Era in atto una leggera pioggia”. Ciò sta a significare che il corpo di Davi Rossi, è rimasto esposto alla pioggia per alcune ore, dalle 20 circa (l’orologio reperito accanto al corpo aveva la lancetta delle ore ferma tra le 8 e le 9 che corrisponderebbe al fatto che l’orologio interno della telecamera di sorveglianza fosse sfalsata di circa 35-40 minuti) ad ALMENO le 22,30, ora in cui è iniziato il sopralluogo, come risulta dai verbali, con l’ispezione del corpo, che “giaceva supino sul selciato”, con il volto rivolto verso l’alto. Viene osservato anche che “Il cadavere indossava indumenti bagnati”. Questa prima osservazione non è di banale importanza: le tracce biologiche estranee che si possono depositare nel corso di una colluttazione, o tramite percosse perpetrate a mani nude sulla cute di un individuo sono decisamente esigue. Infatti, a meno che un eventuale aggressore non abbia ferite sanguinanti, nel qual caso il deposito di cellule nucleate è cospicuo, il contatto tra superfici rilascia piccoli quantitativi di DNA, che variano, oltre per le modalità di deposizione, anche per caratteristiche peculiari del soggetto, essendoci una grande variabilità individuale tra chi rilascia cellule epiteliali con facilità e chi, invece, ne rilascia pochissime. E’ quindi evidente che in ogni caso, il quantitativo di cellule nucleate, ipotizzando una aggressione con percosse, non avrebbe potuto essere cospicuo. La permanenza del cadavere alla pioggia per quel lungo periodo temporale, con il viso rivolto verso l’altro, potrebbe aver dilavato le ferite del Rossi, rendendo di fatto impossibile reperire DNA estraneo che invece poteva essere presente”. Ed ancora “Lo stato di conservazione della salma, descritto in sede di operazioni peritali in data 22 aprile 2016, non ha consentito di valutare le lesioni che erano state evidenziate nell’autopsia eseguita dal Prof. Gabbrielli, all’epoca dei fatti. I prelievi sono quindi stati eseguiti seguendo uno schema corporeo fornito dal Professore nel corso della autopsia eseguita in data 7 marzo 2013, essendo questa l’unica possibilità che si rendeva attuabile in questa circostanza, a causa della decomposizione della salma. Anche questo dettaglio non può essere tralasciato. Il fatto di non avere riscontrato DNA estraneo non deve stupire. Risulta infatti evidente che in molte delle tamponature eseguite sulla salma, non hanno consentito nemmeno l’individuazione del DNA del Rossi, nonostante si trattasse di tamponature effettuate sulla cute dello stesso, quindi con una quantitativo di materiale biologico, a causa dello stato di decomposizione che risultava, come è ovvio, in stato molto avanzato. Ad esempio delle tamponature effettuate sul viso, identificate con le sigle da L ad O, solo una ha consentito di estrapolare il profilo della vittima”.

4. Alle ore 20:16 (come già ampiamente esposto e dimostrato) terzi hanno utilizzato il cellulare del ROSSI. Da qui anche le non rilavanti considerazioni dei consulenti ZAVATTARO-CATTANEO fatte proprie dalla Procura circa la non compatibilità di una colluttazione con lo stato di ordine dell’ufficio di David. Infatti, chiunque (e probabilmente proprio colui o coloro che alle 20:16 hanno utilizzato il cellulare del ROSSI) ha potuto – con la tranquillità ed il tempo necessario riordinare la stanza. All’uopo non si dimentichi che la sig.ra Lorenza BONDI sentita per ben due volte a SIT (il 07.03.2013 vgs. pagina 27 del fascicolo RGNR 962/2013 mod.44 e il 18.01.2016 vgs. pagina 216 del fascicolo RGNR 8636/2015 mod.44 ) confermerà che uscendo tra le ore 20:00 (seconde SIT) e le 20:05 (prime SIT) passando avanti l’ufficio del ROSSI “l’uscio era aperto e la luce accesa ma all’interno nessuno” mentre la Chiara GALGANI escussa a SIT l’11.03.2013 (vgs. pagina 118 del fascicolo RGNR 962/2013 mod.44) riferirà di essere uscita tra le 19:20 e le 19:30 circa e “per uscire sono passata davanti alla porta del ROSSI e notai che la porta era chiusa”. Il Giancarlo FILIPPONE (escusso SIT per ben 3 volte) riferirà che alle 20:30/20:35 circa “l’ufficio di David era chiuso” (vgs pag. 219 del fascicolo RGNR 8636/2015 mod.44 SIT del 18.01.2016). Gli inquirenti non hanno affatto considerato che poco prima della precipitazione (come riferito dalla Galgani) l’ufficio di David fosse chiuso, che alle ore 20:00 circa (quando ROSSI era già precipitato) come riferito dalla BONDI la porta dell’ufficio di ROSSI era aperta e con luce accesa e che alle ore 20:30 circa (quando ROSSI era già precipitato) come riferito dal FILIPPONE la porta dell’ufficio di David era chiusa e con luce accesa. La puntuale dichiarazione sulla circostanza dei sommari informatori unitamente alle risultanze dei tabulati cosi come agli atti prova oltre l’ogni ragionevole dubbio che qualcuno quando il ROSSI era precipitato è entrato nella sua stanza avendo interesse a farlo tanto che è stato utilizzato il suo telefono!

Pertanto, alla luce di queste prove e dati certi appare molto più probabile l’ipotesi omicidiaria rispetto a quella suicidiaria la quale si reggerebbe solo ed esclusivamente sulle valutazioni dei biglietti relativamente al significato dei quali ritiene lo scrivente procuratore di aver già dato ampia ed esaustiva descrizione (all’uopo vgs. relazione della Dr.ssa Francesca DE RINALDIS- doc. 3). La richiesta di Archiviazione prende spunto dagli accertamenti tecnici condotti nella prima indagine e dunque, dai riscontri riportati nella prima richiesta di archiviazione dell’agosto 2013, che è integralmente riportata.

Al fine di un’evidenza psicologico-forense, si prendono in considerazione alcuni passaggi significativi che vengono riportati nella richiesta di archiviazione dai quali è possibile desumere spunti interpretativi che ancora una volta evidenziano la mancanza di oggettività e di interpretazione univoca di quello che invece è stato posto come fondamento di certezza investigativa.

In particolare:

- a pag. 4 della Richiesta di Archiviazione, riportando la vecchia Richiesta di Archiviazione del 2013, si legge: “In sostanza, nella mente del Rossi nelle ultime settimane si erano create due forti ossessioni: - la prima quella di non essere in grado di gestire il ruolo che pure, anche il nuovo managment, gli aveva confermato ed anzi potenziato; e ciò perché il momento che stava vivendo era molto critico essendo necessario ricostruire attraverso la giusta comunicazione l’immagine dell’Istituto bancario, fortemente compromessa da mesi; - la seconda quella che la sua datata amicizia con il principale indagato nell’indagine MPS lo avrebbe portato addirittura ad un coinvolgimento diretto nella vicenda, ad essere intercettato financo di essere arrestato;” Scriverà al riguardo la CTP Dott.ssa DE RINALDIS (vgs. doc. 3) di cui si riporta un estratto

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La condizione descritta è certamente sintomatica di un quadro di tensione psichica e preoccupazione, e seppur suggestiva, non è per questo giustificativa di una scelta drastica come il suicidio. L’insofferenza e le difficoltà collegate al contesto lavorativo e al peso emotivo che questo comportava, potevano certamente essere elaborate da Rossi attraverso soluzioni alternative che potevano ad esempio concretizzarsi attraverso la scelta di una dimissione. Pertanto l’abbandono del contesto lavorativo e della difficoltà esistenziale ad esso correlato, non necessariamente correlano a senso unico con una scelta suicidaria, laddove un’uscita di scena può coincidere ance con la decisione di dimettersi.

Non era la prima volta che Rossi si trovava a vivere un contesto di disagio con senso di fallimento in contesto lavorativo: già in precedenza, prima dell’ingresso in MPS del 2006, egli aveva intrapreso percorsi professionali che si erano rivelati fallimentari, deludenti. In quei percorsi Rossi aveva profuso energie, risorse, aspettative che pure si sono rivelate essere fallimentari. In tali frangenti Rossi ha sempre dimostrato di possedere le risorse per rimettere in discussione sé stesso e ripartire con nuove energie in altri percorsi. La sua vena creativa lo rendeva eclettico, modellabile, non rigido certamente, e dunque gli avrebbe permesso ora, come nel passato, di attingere a risorse e competenze per ripartire.

In qualità di Consulente Tecnico di Parte, in un colloquio avuto personalmente con i familiari di Rossi, e nello specifico con il fratello Ranieri e con la madre, gli stessi riferendomi dei suoi primi passi i MPS, raccontano di come la scelta di intraprendere tale strada professionale avesse inizialmente incontrato i timori del padre di Rossi che lo avrebbe invitato a riflettere circa le garanzie professionali di tale scelta. Raccontano i familiari di Rossi che egli si rivolse al padre, fermo nella sua scelta, rassicurandolo, dicendogli: “Non mi preoccupo se le cose dovessero non andare bene in MPS, sono sicuro che certamente mi metterò a fare qualcos’altro!”.

Da tale affermazione del Rossi è deducibile la sua capacità di attingere alla risorse per fronteggiare i problemi, sorretta da spirito di adattabilità e desiderio di mettersi in gioco, sempre! Val la pena infatti sottolineare come Rossi, pur in una condizione di stress non fosse mai, nemmeno nell’ultimo periodo, venuto meno all’onorare i suoi impegni e le sue responsabilità professionali. Il piano del rendimento lavorativo era rimasto invariato. Anzi, erano proiettate alla progettualità futura: prima fra tutte, la partecipazione alla conferenza stampa del 7 marzo 2013, giorno successivo alla sua morte, a Firenze!

A tal riguardo si riporta uno stralcio significativo delle SIT di Galgani Chiara, che dal 2006 conosceva il Rossi e con il quale collaborava in maniera diretta.

Afferma la Galgani che intorno alle 17.37 del 6.03.2013, telefona al Rossi per chiedere la disponibilità di un colloquio finalizzato alla discussione di aspetti lavorativi tra cui quelli relativi all’evento del 7 marzo a Firenze. “Rossi al telefono si disse disponibile ad incontrarci”, afferma la Galgani nelle SIT dell’11.03.2013, e ancora: “Io gli sottoposi delle domande di lavoro, lui mi rispose in maniera puntuale e precisa; notai che le sue risposte erano puntuali, anche se talora, terminato di rispondermi si rivolgeva verso il suo pc”.

Le affermazioni della Galgani denotano come il Rossi, a distanza di appena due ore dalla sua precipitazione, mantenga un costante atteggiamento di attenzione ed assolvimento del dovere lavorativo. Il suo stesso essere distratto dal guardare verso il pc si colloca come atteggiamento “normale” all’interno del contesto nel quale avviene: Rossi, sotto la forte pressione lavorativa del periodo, era preso a monitorare costantemente la fuoriuscita di nuove notizie relative alla Banca MPS.

- Le SIT di Ciani Carla Lucia:

Val la pena spendere ancora qualche parola in merito alla tensione psichica vissuta dal Rossi negli ultimi giorni della sua vita, e ancora una volta lo si fa attenendosi a spunti offerti dalla richiesta di archiviazione che rifacendosi alla precedente richiesta di archiviazione del 2013, che riporta per intero, pone ancora una volta in evidenza le SIT della Sig.ra Ciani Carla Lucia, consulente aziendale– coach che ha avuto modo di dialogare con David Rossi nelle date del 30.01.2013 e 06.03.2013.

Il Rossi aveva mostrato gradimento verso le decisioni dell’azienda ad essere inserito in un gruppo di coaching, di solito riservato alle élite dell’azienda stessa. La Ciani aveva appreso del gradimento di Rossi dal Dott. Viola a seguito di un loro incontro a Milano in data 11.02.2013. È Rossi a chiedere alla Ciani che il loro incontro concordato per la mattina del 6.03.2013, avvenga presso il suo ufficio (pag. 5 della Richiesta di archiviazione: “(…) fissammo l’incontro per il 06.03.2013 presso l’ufficio dello stesso Dott. Rossi: sede che fu scelta dallo stesso Rossi avendo io dato indicazione che l’incontro poteva essere svolto anche lì o anche in altri luoghi (…)”).

La decisione di Rossi di fissare l’appuntamento di coaching nel suo ufficio, è ulteriormente indicativo del fatto che egli, nel suo ufficio, si sentisse a proprio agio, sereno, pronto ad aprirsi, come di fatto poi avvenuto nel colloquio con la Ciani (9.30-12.00).

Certamente il quadro psichico derivante dalle SIT della Sig.ra Ciani, relativo al Rossi riguarda una persona in forte stato di tensione emotiva e pervasa da un senso di disgrazia imminente, che ben si presta quale interpretazione suggestiva per una prodromica preparazione al suicidio. Tanto è vero che la Procura riporta ad integrum tali SIT quale dimostrazione della predisposizione suicida del Rossi.

Vanno però fatte delle dovute precisazioni critiche rispetto alla lettura dell’emotività del Rossi in relazione al colloquio con la Ciani, che ancora una volta, offrono spunti di riflessione che ci fanno conoscere aspetti ed attitudini comportamentali diversi del Rossi, rispetto alla visione pregiudizievole costruita in corso di indagine sul medesimo.

Infatti, la Ciani parla di un David Rossi, “riservato”, non era infatti mistero per nessuno che egli fosse una persona riservata rispetto alle persone con le quali non condivideva rapporti amicali intesi in senso stretto.

Il suo essere riservato non lo qualifica comunque come persona “chiusa” o non predisposta ad aprirsi/esprimere sé stesso, ciò in constatazione di due evidenze:

1. Prima che giornalista Rossi è un’artista, una persona che ha fatto dell’arte e dell’espressione artistica identificata nella scrittura, nella pittura, nel disegno, il suo mezzo di espressione verso il mondo. Tutto ciò che non viene veicolato nel verbale vive attraverso la creazione pratica ed artistica per Rossi. Ciò è indicativo della sua normale ed innata predisposizione introspettiva e dunque di contatto con la propria emotività che viene attraverso tali canali espressa ed agita. Una persona che ha un facile accesso al proprio mondo interno e al proprio vissuto emotivo, non è certamente una buona candidata ad una condotta suicidaria;

2. Rossi si lascia andare ad aprirsi in maniera spontanea ed immediata con la stessa Ciani, che vede per la seconda volta nel corso di tutta la sua esistenza e con la quale non ha ancora instaurato rapporti confidenziali, lasciandosi a raccontare e condividere il proprio vissuto emotivo. Si trattiene a parlare di sé, dei suoi sentimenti, non ha fretta di concludere il colloquio. Una persona, come dimostra in tale frangente di essere come appunto il Rossi, in grado di entrare in contatto con i propri contenuti angosciosi e di esprimerli è certamente una persona che non agisce azioni difensive verso il proprio mondo interno, capace di guardare alla sua angoscia reagendo.

Ciò lo rende allo stesso modo, una personalità non candidabile al suicidio.

La Ciani appare inoltre colpita dal fatto che Rossi fosse distratto dal cellulare, ma ricordiamo che tale osservazione ha fondamento oggettivo di essere, dato dal fatto da un lato, che fosse in uno stato di preoccupazione per la salute della moglie e dall’altro lato, che fosse normale, in orario lavorativo, e nello specifico relativo alle mansioni di Rossi, tenere sotto controllo il telefono, la ricezione di mail ed sms di aggiornamento ad esempio rispetto alle notizie.

Un dato dunque, quello della distraibilità verso il telefono che non concerta e che anzi si inserisce in un quadro di “norma” rispetto quanto ci si possa attendere dal Rossi in quel dato frangente.

Ulteriore errore di definizione della personalità del Rossi è commessa dalla Ciani nell’affermare che in Rossi “non c’era più un distacco tra vita privata e vita lavorativa, quasi che il suo ruolo professionale fosse tutta la sua vita”.

Al contrario, infatti, il Rossi teneva nettamente separati i due ambiti, al punto che la sua vita privata non aveva accesso al contesto lavorativo: il suo stesso ufficio non riportava tracce di sé, della sua famiglia che si potessero palesare in foto alle pareti o ad oggetti collegati ad affetti personali; continuava a coltivare le sue passioni, come quella per la Contrada della Lupa e a coltivare il suo giro di amicizie e di affetti familiari, al di fuori del contesto lavorativo.

Ancora la Ciani descrive il Rossi come qualcuno che fino a quel momento fosse stato “beneficiato da una sorta di iper-protezione” da parte dell’azienda dipingendo un quadro personologico che non appartiene di fatto al Rossi medesimo. Infatti tale affermazione della Ciani, lo vorrebbe come una persona che ha goduto di agevolazioni e facilitazioni sulle quali si è adagiato.

La storia di vita personale e professionale di Rossi, desunta dai colloqui con i familiari, lo vuole invece come una persona attenta, capace e diligente sul lavoro, scelto proprio per le capacità che nel tempo ha saputo dimostrare e che gli hanno fatto guadagnare fiducia e stima. Si è sempre contraddistinto per la sua intraprendenza, per la sua caparbietà e capacità di fare fronte allo stress e alle difficoltà operando sempre in direzione della “soluzione dei problemi”. Dunque, non certamente una persona che si adagia, bensì un punto di riferimento egli stesso per l’altro.

Quindi, quanto dedotto rispetto al profilo di personalità del Rossi, dalle SIT della Ciani, riportate integralmente nel ricorso, appare filtrato in primis da una percezione soggettiva della medesima e in seconda istanza superficiale: la Ciani non può delineare un quadro personologico del Rossi per ovvie ragioni date dal fatto che non è un professionista abilitato a deduzioni cliniche e ha una conoscenza superficiale del Rossi circoscritta a due singoli incontri.

È opportuno fare una riflessione a parte rispetto a quello che la Ciani definisce, rivolgendosi alla perquisizione subita dal Rossi in data 19.02.2013, un “dramma”.

Ad onore del vero non è un mistero, e lo stesso Rossi non lo ha mai trattato come tale, che la perquisizione subita abbia avuto un duro impatto sul suo assetto emotivo. Era a conoscenza di tutti, poiché gliene parlava apertamente, che tale evento lo avesse fortemente scosso.

Tale evento che è stato preso quale incipit del disagio esistenziale del Rossi, trova però una chiave di lettura che fin qui non è stata presa in considerazione:

la circostanza lo ha sconvolto, ma non travolto, nel senso che Rossi non si sottrae al suo dovere professionale e non viene mai meno ad una elaborazione emotiva cosciente del fatto stesso che si rivela proprio nella sua attitudine comportamentale a voler condividere con gli altri il disagio vissuto.

Inoltre egli non si sofferma a vivere passivamente, con senso di impotenza e perdizione l’accaduto, cerca anzi di reagire positivamente attivandosi alla ricerca di soluzioni. Quella che è un’azione subita, seppur portatrice di tensione e preoccupazione, diviene al tempo stesso stimolo per tentare una riparazione attiva.

Per spiegare e rendere chiaro quanto appena affermato si deve, però, necessariamente fare riferimento allo scambio di e-mail con il Dott. Viola.

Analisi del contenuto delle mail scambiate con il Dott. Viola il giorno 4.03.2013: si riporta lo scambio di e-mail tra il Dott. Viola e Rossi del 4.03.2013:

La prima mail è quella delle 9.25 che Viola invia a Rossi, dunque è Viola a contattare per primo il Rossi che per altro, con la sua risposta “ma non eri a Dubai?” sembra quasi stupito della richiesta di Viola che lo invita a parlare della vicenda Mutui Prato. Anzi, è lo stesso Viola che, rispondendo “Si ma c’è il telefono”, esorta Rossi a continuare la conversazione.

Emerge per altro dall’analisi dei tabulati telefonici, che Rossi e Viola abbiano avuto una conversazione telefonica quella mattina contestualmente a questo primo scambio di mail, circostanza che però lo stesso Viola, nelle SIT del 21.03.2013, afferma di non ricordare (“Non sono in grado di dire se ci sentimmo per telefono subito dopo questa mail delle ore 9.24 (…) Non ricordo di aver parlato telefonicamente con Rossi prima dell’invio di queste ultime mail che mi vengono mostrate (quelle delle 13.09) (…) Ribadisco che la telefonata se c’è stata, è successiva a queste mail che mi vengono mostrate”).

Non emerge un vissuto depressivo e di resa da parte di Rossi nei confronti di una situazione vissuta come schiacciante e dominante, non appare come una situazione nella quale egli si sentisse intrappolato, senza via di fuga, anzi emerge con chiarezza da parte sua l’intenzione di una partecipazione attiva, di un ruolo propositivo nel volersi mettere in gioco nella definizione del suo ruolo e della sua persona, che si palesa nella richiesta di andare a parlare con i Magistrati. Dunque non si evidenzia nelle mail da parte di Rossi un appello accorato di aiuto, né il senso delle mail medesime si limita ad una confidenza di uno stato emotivo di sofferenza, passività, bensì si evidenzia dinamicità, movimento di intenti e progettualità futura. E ancora, si manifesta l’urgenza del volersi mettere in gioco in assenza di vissuti di colpa, sconfitta, sopraffazione: Rossi vuole assumersi il ruolo di colui che esponendosi, potrebbe aiutare anzi tutti!

È semmai, lo stesso destinatario di tale motivazione di intenti, il Dott. Viola, a far desistere Rossi, dalla volontà di andare a “raccontare, spiegare, esprimere la sua persona ed il suo ruolo”.

Significativa è anche l’ultima mail che Rossi invia a Viola il 4.03.2013 alle ore 17:12:

“In effetti, ripensandoci, sembro pazzo a farmi tutti questi problemi. Scusa la rottura… Ciao David”.

Rossi pare aver fatto una riflessione attorno ai suoi pensieri e ai suoi sentimenti, che va nel verso della razionalizzazione. Egli mostra dunque, seppur in un periodo che genera stress e tensione continua, di saper riflettere su se stesso e fare ordine nei suoi pensieri in modo lucido, ordinato, consapevole. La chiarezza e la sicurezza maturate, lo portano dunque a voler concludere la conversazione con Viola, salutando e firmandosi, come a voler dire che la questione per lui è risolta, chiara, chiusa.

La conversazione tra Viola a Rossi, tuttavia, appare raccontare molto di più di quello che si legge, è opportuno prestare attenzione ad alcuni particolari:

nella mail delle 01:09 PM di Rossi a Viola, si legge: “Ti posso mandare una mail su quel tema di stamani? È urgente. Domani potrebbe già essere troppo tardi”.

Quale è “il tema di stamani”? la questione Mutui Prato per la quale Viola ha contattato Rossi, oppure qualcosa che attiene ad un contenuto relativo alla telefonata della mattina della quale non si conosce il contenuto?

E ancora, “domani”, è un modo di dire generico che rimanda all’urgenza generale della vicenda nella quale è coinvolta la Banca al momento, oppure rimanda ad una contingenza specifica di un fatto che realmente sarebbe accaduto l’indomani e del quale il Rossi era stato messo a conoscenza?

I dubbi e lo stesso ragionamento appena fatto, sul significato del termine “domani”, si rafforzano dalla lettura della mail che Viola invia a Rossi alle 14.24: “La cosa è delicata. Non so e non voglio sapere cosa succederà domani. Lasciami riflettere”.

Certamente, tali circostanze meritano di essere approfondite. Nello specifico, rifacendoci alle SIT della Sig.ra Galgani Chiara dell’11.03.2013, la medesima riferisce.

La Galgani dunque fa riferimento ad una perquisizione del giorno 5.03.2013 a carico di due consiglieri del Cda, dunque il giorno dopo, (“domani”) lo scambio di mail tra Viola e Rossi. Allo stesso modo la Galgani afferma che il Rossi non ne fosse particolarmente turbato o sconvolto.

E ancora, occorre fare attenzione alla mail che alle 15:11:13, Rossi invia a Viola: “Hai ragione, sono io che mi agito e mi sono spaventato dopo l’altro giorno”.

Cosa aveva spaventato Rossi l’atro giorno? Certamente “l’altro giorno” rimanda ad una dimensione temporale non facilmente ascrivibile ad una data precisa, ma tuttavia ravvicinata nel tempo, prossima allo scambio delle mail.

La cosa che ha spaventato Rossi potrebbe essere pertanto quella “cazzata” che egli afferma di aver fatto e per la quale si era mostrato agitato, preoccupato.

Tuttavia, a fronte degli ennesimi tanti, troppi interrogativi e dubbi, sarebbe stato opportuno, e lo è oltremodo ora, indagare verso la comprensione di tali circostanze che sono rimaste inesplorate e che chiarirebbero sia la comprensione dello stato d’animo e delle intenzioni del Rossi, che l’autenticità delle dinamiche relazionali tra egli ed i suoi interlocutori nell’ultimo periodo della sua vita.

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Di rilievo anche alcune osservazioni sulla metodologia delle campionature.

Così come puntualmente descritto nella relazione a firma del CTP dott.ssa Fabrizia Fabrizi de Biani (doc. 5) si rileva come la consulenza fornita dal Dr. Casamassima, richiesta dal Ten. Col. Davide Zavattaro in qualità di consulente del P. M. Fabio Maria Gliozzi, riguarda l’analisi di campioni provenienti dal muro esterno sottostante la finestra dalla quale è avvenuta la caduta di David Rossi.

L’analisi è stata condotta tramite microspettrometria FTIR. La relazione riporta le immagini e la descrizione solo di alcuni dei campioni prelevati (campioni 2, 3 e 9) le cui immagini al microscopio sono riportate nella relazione stessa insieme alla descrizione dei punti specifici che sono stati analizzati. Sono stati analizzati con lo stesso metodo anche due campioni indicati come “tomaia di scarpa” (in pelle), utilizzati come confronto. Lo scopo dell’analisi infatti è quello di identificare tracce delle scarpe di David Rossi, per verificare se le abrasioni visibili sulle stesse siano state prodotte dallo sfregamento contro il muro al di sotto della finestra. Secondo le conclusioni cui si giunge attraverso le analisi così descritte una parte del materiale analizzato è un miscuglio di silicati e di materiale di natura proteica, compatibile anche con il materiale delle tomaie di scarpa. Viene aggiunto inoltre che analisi più accurate ed esplicative sarebbero possibili solo con un termine di paragone certo.

Considerazioni preliminari.

La prima considerazione, di carattere principalmente logico, riguarda la decisione di usare campioni di riferimento ragionevoli, ma pur sempre arbitrari: la tomaia è la parte superiore di una scarpa, ma non è questa la parte abrasa nelle scarpe di David Rossi, identificabile invece nella giunzione tra prima e seconda suola (Fig. 1)

Questa parte è spesso in cuoio, ma non è raro che sia in gomma e non è stato chiarito di quale materiale fossero le scarpe in questione, attualmente non più disponibili, ma delle quali si poteva forse reperire lo stesso modello.

La seconda obbiezione, più rilevante, riguarda l‘assenza di un vero bianco nelle analisi prodotte: in presenza di presunti campioni positivi (i campioni di tomaia) mancano infatti campioni rappresentativi di un vero negativo, che nel caso specifico possono essere identificati solo da prelievi effettuati con modalità ed in condizioni le più possibili analoghe a quelli di interesse specifico, per esempio facendo prelievi sotto un’altra finestra, possibilmente alla stessa altezza e certamente dallo stesso lato dell’edificio di quella dell’ufficio di David Rossi.

Tale accortezza, come si vedrà, è tutt’altro che superflua, dato che il segnale FTIR che viene interpretato come compatibile con la traccia delle scarpe è sostanzialmente un segnale indicativo della presenza di materiale proteico, ubiquitario negli organismi viventi. E’ quindi necessario usare come confronto negativo (bianco) alcuni campioni prelevati da un muro nelle quali siano riprodotte il più fedelmente possibile (umidità, esposizione solare, altezza del muro al livello del prelievo, eventuale possibilità per un uccello di appoggiarsi sul davanzale) le condizioni che si hanno sotto la finestra dalla quale è avvenuta la caduta di David Rossi.

La tecnica analitica.

La spettroscopia FTIR è sicuramente una tecnica analitica molto potente e nel caso specifico della microspettromentria si ha la possibilità di analizzare separatamente la superficie (profondità dell’ordine di qualche decimo di micron) di regioni molto piccole di un campione (risoluzione dell’ordine di qualche micron). In generale, campioni anche molto complessi forniscono spesso spettri IR relativamente semplici e tuttavia ricchi di informazioni fornite dalle posizioni dei picchi, caratteristici dei gruppi funzionali (piccoli gruppi specifici di atomi legati tra loro) e relativamente sensibili all’intorno chimico, quindi alla presenza di gruppi funzionali vicini, oppure alla presenza di interazioni deboli e quindi capaci di dare talvolta informazioni anche strutturali. Tuttavia, all’aumentare della complessità di un campione e soprattutto in presenza di miscugli, buona parte di queste informazioni normalmente vengono perse a causa della sovrapposizione di molti segnali vicini.

Nel caso specifico, i campioni, per quanto analizzati puntualmente (su microregioni) sono senz’altro per loro stessa natura costituiti da un miscuglio di specie chimiche.

Inoltre la spettroscopia FTIR delle proteine, specie chimiche molto complesse, richiede, per dare risultati altamente informativi, una specifica manipolazione del campione, che deve essere puro. Il gruppo peptidico, il gruppo ripetitivo che costituisce le proteine, produce fino a 9 bande: amide A e B, che possono essere coperte dal segnale dell’onnipresente acqua (un largo segnale nella regione 3600-3000 cm-1) e amide I-VII. Di queste ultime, la prima (1600-1700 cm-1, fig. 2) è quella maggiormente diagnostica, la seconda, sebbene più complessa da studiare, deve essere comunque almeno visibile, mentre la altre possono essere talvolta coperte da altri segnali.

Le analisi presentate nella relazione.

Nel caso presente l’analista rileva in alcune parti dei campioni (identificate come particelle “scure” e “verdi”) i picchi corrispondenti ai segnali amide I e amide II, li confronta visivamente con quelli analoghi individuati nei campioni “tomaia” e saggiamente rinuncia all’identificazione specifica della proteina maggiormente presente nella tomaia (collagene), limitandosi ad affermare che tali picchi indicano la presenza di materiale proteico. Successivamente il software di matching, in dotazione allo strumento, individua, tra una collezione di spettri presente in un database, quei composti che hanno spettri simili a quello registrato e che dovrebbero dare indicazioni riguardo la natura del materiale analizzato. Si ottiene così una lista di sostanze (di natura effettivamente proteica) che suggerisce di identificare il materiale come: lievito di birra, semi di ricino, semi di peperoncino, semi di mostarda, muco nasale, insetti schiacciati o, solo secondariamente, come pelo di capra o di volpe. Vedremo che non è casuale che le prime sostanze proposte siano sostanzialmente sempre di origine vegetale. I picchi residui (principalmente un largo picco centrato a 1000 cm-1), che non rientrano nel matching, vengono identificati attraverso una analoga procedura di matching come dovuti alla presenza di alluminosilicati.

L’analista succintamente conclude che la particelle sono costituite da un miscuglio di alluminosilicati e materiale proteico compatibile con i residui che potrebbe avere lasciato una scarpa.

Le analisi supplementari.

Avendo individuato nella mancanza di un “bianco” il difetto principale della procedura analitica, si è provveduto a raccogliere campioni dal muro sottostante la finestra della stanza accanto all’ufficio di David Rossi. Le finestre si trovano sostanzialmente nelle stesse condizioni di esposizione a luce ed umidità ed i campioni sono stati prelevati prendendo come riferimento per l’altezza il nastro adesivo residuo che era rimasto ad indicare uno dei punti del precedente prelievo poi sottoposto alla analisi qui commentata.

Nel nostro caso, gli spettri FTIR sono stati ottenuti con un comune FTIR- ATR (descritto successivamente), che ci ha permesso di analizzare i campioni tal quali, senza ulteriore manipolazione, ma che non concede la risoluzione spaziale della microspettrometria e che prevede lo schiacciamento delle particelle che sono pressate da una punta di diamante. Di conseguenza, non è stato possibile limitarsi ad analizzare solo la loro superficie e si sono conseguentemente ottenuti spettri nei quali la presenza di alluminosilicati è maggiormente evidente (fig. 3e), ma nei quali è pure del tutto evidente, di nuovo, la presenza di materiale proteico, come indicato dalla presenza dei picchi amide I e amide II a frequenze perfettamente sovrapponibili (Fig 3a, b) a quelle degli spettri presentati nella relazione del DR. Casamassima (Fig 3c).

Paradossalmente, si sarebbero quindi trovate tracce di materiale proteico compatibile con la tomaia di scarpe in pelle anche nei campioni prelevati sotto la finestra della stanza accanto all’ufficio di David.

Non potendo più supportare ragionevolmente l’ipotesi che di scarpe si potesse trattare, è stato necessario trovare un’altra spiegazione per la presenza di questo materiale proteico ed è sembrato opportuno esplorare l’ipotesi che si trattasse di materiale organico proveniente da muffe, licheni o funghi. In effetti, anche secondo la relazione che qui critichiamo, particelle “nere”, “scure” o “verdi” esaminate nei precedenti campioni presentano tutte indistintamente il segnale proteico, il che supporta l’origine vegetale di tale segnale, piuttosto che il fatto che si tratti di tracce di pelle animale.

Una rapida ricerca su internet ci ha permesso di individuare uno spettro sorprendentemente simile a quelli registrati nel corso delle analisi del Dr. Casamassima (fig. 3d), presentato dal Museum of Fine Arts di Boston come lo spettro di una generica muffa (unidentified mold).

E’ da segnalare inoltre che la banda amide I degli spettri prelevati dal muro sotto entrambi gli uffici, così come quella dello spettro della muffa trovata come riferimento, è preceduta da un piccolo segnale a 1740 cm-1 dovuto alle catene laterali degli aminoacidi ed assente nello spettro della tomaia (collagene).

Alla luce di questi nuovi risultati, appare senz’altro più plausibile l’ipotesi che in entrambi i casi, ovvero nella precedente e nella nostra analisi, siano stati registrati gli spettri di una specie vegetale, consueta presenza sui muri di mattoni, piuttosto che le tracce di scarpe. Sembra sensato quindi concludere che la tecnica e la modalità di indagine utilizzata non possano fornire assolutamente alcuna indicazione riguardo la dinamica dell’evento che ha condotto alla morte di David Rossi, ogni diversa interpretazione dei risultati apparendo come una ingiustificata forzatura dei dati.

ULTERIORI CONSIDERAZIONI SULLA RELAZIONE DEI CC.TT. ZAVATTARO-CATTANEO

I. In diverse parti si nota che sia la dott.ssa Cattaneo utilizzi immagini dell’autopsia ma non quelle a maggior qualità e ad alta risoluzione della Polizia Scientifica acquisite a seguito di specifica richiesta del sottoscritto difensore e del Collega Goracci nell’aprile del 2016. Questo porta spesso ad interpretazioni ambigue e/o errate. In ogni caso è incomprensibile come mai in alcuni casi vengano usate le immagini della scientifica mentre in altri trascurate. Lesione U, in questo caso si sottolinea che l’immagine è di scarsa qualità concludendo che “i margini della lesione appaiono arrotondati… e ciò potrebbe suggerire una datazione maggiore rispetto agli eventi precedenti la morte”.  Al contrario se avessero utilizzate le immagini della scientifica prese nell’immediatezza (ore 11.30 del 6 Marzo 2013) si sarebbero accorti della presenza di sangue fresco all’interno del palmo della mano in corrispondenza della lesione. Questo suggerisce immediatamente che le lesività in oggetto è di natura recente. A parere di chi scrive è grave che pur avendo a disposizione foto di alta qualità (trasmesse una volta acquisite dal Collega Goracci via email a TUTTI i consulenti) vengano utilizzate per le comparazioni e/o descrizioni fotografie di scarsa qualità ottenute dalla stampa del fascicolo preesistente (RGNR 962/2013 mod.44).

II. La relazione inizia con una prolusione di carattere quasi filosofico che spiega quale sia l’approccio che il giudice deve tenere in casi dubbi, citando la relativa letteratura di riferimento (pag 5). Non è chiaro lo scopo di questa prolusione, viene citato un testo poco diffuso nelle aule di giustizia definendolo come di non facile lettura sia per la lingua (!) che per la densità di concetti che le rigorose formule matematiche: Fundamentals of Probability and Statistical Evidence in Criminal Proceedings Guidance for Judges, Lawyers, Forensic Scientists and Expert Witnesses. Colin Aitken, Paul Roberts, Graham Jackson; Royal Statistical Society. In questo lavoro viene illustrato il teorema di Bayes e la teoria secondo la quale si potrebbe applicare a livello legale per individuare le probabilità di colpevolezza. Tradotto in parole semplici (ed in italiano) ll teorema di Bayes (conosciuto anche come teorema della probabilità delle cause), proposto da Thomas Bayes deriva da due teoremi fondamentali: il teorema della probabilità composta e il teorema della probabilità assoluta. Viene impiegato per calcolare la probabilità di una causa che ha scatenato l'evento verificato. Per esempio si può calcolare la probabilità che una certa persona soffra della malattia per cui ha eseguito il test diagnostico (nel caso in cui questo sia risultato negativo) o viceversa non sia affetta da tale malattia (nel caso in cui il test sia risultato positivo), conoscendo la frequenza con cui si presenta la malattia e la percentuale di efficacia del test diagnostico. Formalmente il teorema di Bayes è valido in tutte le interpretazioni della probabilità. Modelli statistici di tipo bayesiano contengono caratteristiche aggiuntive, non presenti in altri tipi di tecniche statistiche, che richiedono una formulazione di un insieme di distribuzioni a priori per ogni parametro sconosciuto. Le distribuzioni a priori sono la parte predominante del modello statistico, come parte che esprime la distribuzione di probabilità delle osservazioni date nei parametri del modello. Le specifiche di un insieme di distribuzioni a priori per un problema potrebbe coinvolgere iperparametri e iperdistribuzioni a priori. Sono di fatto modelli matematici in cui si mettono dei numeri e da questo si ottiene probabilità maggiori o minori che un evento possa accadere, non è comprensibile come sia stato utilizzato nell’attuale contesto in cui le variabili indipendenti da considerare sono numerose e oltretutto nessuna di queste è traducibile in numeri.

La relazione ZAVATTARO-CATTANEO continua affermando che il testo non ha avuto la sperata diffusione nelle aule di giustizia, definendolo tuttavia una pietra miliare largamente utilizzata in molti paesi e utilizzata dal giudice per raggiungere una decisione. Quindi afferma di utilizzare l’approccio baynesiano definendolo come “unico strumento decisionale equilibrato e rigoroso” in quanto valuta sia gli elementi a favore dell’ipotesi difensiva sia quelli relativi a supporto all’ipotesi opposta. Aggiunge inoltre che in Italia al contrario di altri paesi vi è stata meno sensibilità (i soliti retrogradi gli italiani) e di conseguenza il percorso per un’adozione diffusa è più lento, pun non mancando sentenze di giudici ordinari e della Cassazione. Le sentenze sopra citate (Gip Gennari Tribunale Milano 18.05.2015) appare contrariamente al caso di specie si riferiscono ad una situazione ben precisa: probabilità di positività ad un test medico quindi ben traducibile in un numero. In questo caso avendo ben definito la variabile da inserire nel teorema ed essendo questa unica, è evidente che il teorema stesso possa trovare applicazione. Caso enormemente diverso quello in questione dove nessuna variabile può essere tradotta in un numero e dove le variabili da considerare sono praticamente infinite. Citare una sentenza e la relativa letteratura senza considerare i limiti applicativi del teorema di Bayes appare oltremodo “superficiale” e “suggestivo” di un voler giustificare in base a un modello matematico (non attuabile nel caso di specie!) le scelte e le considerazioni fatte.

III. Nella relazione ZAVATTARO-CATTANEO e così come anche nella richiesta di Archiviazione si afferma che David sia uscito spontaneamente calpestando lo zoccolo di legno della finestra (formando numerose schegge di legno) nonché i fili del davanzale esterno. Se così fosse dal momento che le scarpe erano imbrattate di materiale biancastro (come documentato da foto scientifica autopsia) questo dovrebbe ritrovarsi su davanzale interno/esterno ed in particolare sul montante della finestra in legno. Nella relazione si afferma che il legno è stato sbriciolato dall’azione delle scarpe; ebbene questa affermazione risulta incoerente con il fatto che essendo le stesse impregnate di materiale bianco sotto la suola non abbiano lasciato traccia alcuna. Perché tale materiale non si ritrova sul davanzale e sul legno e su nessuna altra struttura della finestra o sul fan coil davanti alla finestra?  Da queste fotografie si nota come nessun segno delle scarpe (sia di polvere bianca sia dei materiali neri pelle e cuoio) appare sulla finestra e sul fan coil sottostante. Si notano invece alcuni particolari importanti che contraddicono la versione secondo cui è salito in piedi sul davanzale. -Schegge di legno anche sul fan coil. - Due ammaccature evidenti nel montante - Presenza di una scheggia di legno nell’addome oltre che di altro materiale analogo a quello del davanzale -Presenza di schegge di legno anche sui pantaloni.

IV. CONSIDERAZIONI SU ANALISI MERCEOLOGICHE.

Tecnica analitica. La tecnica utilizzata a quanto si evince dalla relazione è la EDS (ENERGYGY DISPERSIVE X-RAY SPECTROSCOPY). L’analisi EDS, è una tecnica microanalitica mediante raggi X qualitativa e semiquantitativa che può fornire informazioni sulla composizione elementare di un campione. Le informazioni generate da analisi EDS può anche aiutare a identificare rivestimenti, e in alcuni casi, sostanze inorganiche estranee presenti in un campione. In parole semplici si rileva la % di atomi di un certo campione. Ovviamente in presenza di materia organica saranno preponderanti C, N, O. Utile per esempio per trovare tracce di metalli non tipici della materia organica. Si deve tenere presente che è un test qualitativo o al massimo semiquantitativo, infatti i tracciati riportano le sostanze in % relativa e non assoluta. Da notare anche che in presenza di quantità significative di analita si evidenziano picchi ben netti mentre quando l’analita stesso è poco si hanno tracciati di incerta interpretazioni. Quindi non tutti gli spettri EDX della relazione hanno stessa forza probatoria.

Criticità generiche della procedura. Per una corretta procedura analitica è particolarmente fondamentale la fase di raccolta e/o conservazione del campione. In questo caso sono emerse notevoli difficoltà in quanto dovendo analizzare tessuti in alterato stato di conservazione, oltretutto in un corpo che era stato lavato più volte, come emerge dalla relazione è ovvio che sia oltremodo difficoltoso fare prelievi esatti nei punti corrispondenti alle lesioni in quanto non visibili, si è proceduto quindi per approssimazione. Oltre a questo altri problemi di tipo preanalitico sono evidenti come citato nella relazione:

i) Inquinamento da metalli provenienti dalla cassa zincata

ii) Inquinamento da metalli presenti nel materiale utilizzato per la saldatura

iii) Inquinamento causato dai ferri chirurgici utilizzati nella prima autopsia

iv) Inquinamento dovuto al materiale utilizzato per prelevare i campioni e analizzarli. Ad esempio dei metalli costituenti la cassa dell’orologio (ferro cromo, nickel) indossato da David le cui impronte sono ben impresse sul polso non si trova traccia alcuna nelle riportate analisi.

v) Non esistono i cosiddetti “bianchi” ovvero analisi di parti del corpo esposte ad agenti esterni ma non lesionate. Avere analizzato solo una parte del piede coperto da scarpa e calzino non è ovviamente sufficiente in quanto non si riesce a dimostrare che in parti non lesionate non vi siano tracce di intonaco e/o materiale cementizio di vario tipo. Ipotesi non certo trascurabile in quanto David aveva una casa in ristrutturazione che visitava spesso.

vi) Si dà spesso per scontato che un oggetto colpendo un corpo lasci tracce del materiale di cui è fatto l’oggetto stesso. Se per i punti i),ii),iii) non sussistono attribuzioni di sorta per l’esecutore dell’indagine attuale, lo stesso non si può dire per il punto iv); infatti è un grave errore ‘inquinare’ il campione da analizzare con un possibile analita. Lo stesso dicasi per il punti v) e vi).

Nello specifico.

Lesione A. La lesione A come riportata nel referto è stata attribuita al contatto con oggetto di ottone che e’ una lega contenente zinco e rame a cui peraltro possono essere aggiunti altri metalli in piccole quantità (e.g. piombo). Sulla stessa lesione si osserva però risulta evidente un residuo di titanio (Ti) (prelievo 7a analisi 17) circostanza non considerata dalla Cattaneo. Non ne viene dato né cenno né spiegazione. Il titanio e’ molto utilizzato come rivestimento e come materiale di costruzione e di rivestimento in diversi oggetti ma non nell’ottone. Quindi può derivare da altro esempio cassa di orologio. Non da escludersi che possa trattarsi anche di pittura bianca, o altro oggetto contenente titanio in forma metallica o di ossido. L’analisi stessa infatti non distingue la composizione molecolare. Ad esempio il diossido di titanio è composto comune anche in diversi coloranti, creme solari cemento e vernici. Però l’alta percentuale di titanio in quel residuo e’ sospetta. Oltretutto in nessuno degli altri campioni analizzati esiste percentuale simile. Il gancio interno della finestra è di ottone e ha tracce minime di titanio, nessuno dei materiali analizzati presenta tracce rilevanti di titanio. La presenza di titanio appare rilevante e perché non viene considerata?

Lesione H. Per la lesione H (graffi su addome) si trovano cromo ferro e nickel si suppone compatibili con fibbia della cintura ma anche come dice la relazione con i ferri chirurgici utilizzati per la prima autopsia. Come detto precedentemente sarebbe stato ovviamente utile per dirimere la questione analizzare altri punti non in corrispondenza della lesione ma della sutura chirurgica toracica in modo da essere sicuri che i metalli trovati derivassero da ferri chirurgici. L’attività posta in essere appare non corretta dal punto di vista analitico.

Altre lesioni. Piombo e stagno delle altre lesioni sono ragionevolmente dovuti alla saldatura fatta sulla cassa infatti si trovano in zone esposte e non coperte dai vestiti. La lega Sn-Pb costituisce il materiale con cui si eseguono le saldature delle casse zincate.

Lesione D prelievo 8. In questo caso risulta molto evidente solo il piombo e in quantità pari al 100%. Essendo una lega quella della saldatura costituita in maggioranza (oltre al 60% di stagno) pare oltremodo strano. Risulta un picco molto evidente nel tracciato quindi ha alta significatività analitica anche in un contesto qualitativo come quello dell’analisi effettuata. Questa lesione evidente sia dal punto di vista anatomopatologico che dal punto di vista analitico-merceologico, non risulta presa in considerazione nella relazione. Una possibile spiegazione della prevalente presenza di piombo potrebbe forse trovarsi nella composizione chimica stessa della lega utilizzata per la saldatura. Essendo questa una lega eutettica (punto di fusione minore nella lega rispetto ai metalli singoli) raffreddandosi può avere nucleazione di cristalli di fase ricca di piombo con intorno zone a prevalenza stagno. Quindi esiste la possibilità (seppur remota) che una volta riscaldata repentinamente per effettuare le saldature possa rilasciare particelle con prevalenza piombo. Questo aspetto doveva essere comunque analizzato e considerato specialmente in presenza di una lesione altamente significativa e non spiegabile con la caduta come la lesione D. Resta comunque molto strano (ammesso che sia possibile) che questo fenomeno si verifichi solo in corrispondenza di questa lesione. Da tenere presente inoltre che quel tipo di analisi dice la % dei singoli atomi ma niente sulla molecola di origine. Il piombo quindi potrebbe essere qualche materiale fatto di piombo metallico o in alternativa un ossido o sale di piombo per esempio il minio, noto per essere utilizzato come antiruggine ma anche nelle pitture antiche essendo di tipico colore rosso.

Lesione N. In questo caso è stato trovato oro (Au). Su questo risulta un grave errore analitico in quanto si ammette che la presenza di oro sia dovuta alla procedura stessa. Non è ammissibile che un esperto tecnico possa contaminare (tanto più se in sede di accertamento ex art 360 c.p.p.) il campione da analizzare con l’analita stesso. Da notare che l’oro viene trovato in corrispondenza della superficie volare lato ulnare del polso sinistro ma non in nessuna altra parte analizzata. Oltretutto mancano i tracciati, vengono solo riportati quelli di analisi sulla stessa lesione dove non vi è oro. L’oro viene solo menzionato sotto la tabella scrivendo: “Solo oro circa 4 residui”.  Controllo materiali costituenti la cassa: In questo caso risulta evidente una “grave omissione”, in quanto si conclude che nella superficie interna si trova solo zinco e zolfo. Questo non è esatto, infatti come visibile nel tracciato riportato a pag 135 della relazione esiste una rilevante quantità di rame (Cu) evidenziata da due picchi ben visibili. Al contrario non risulta presente zolfo. Dal momento che si ritrova nella lesione A del rame pur volendo dire che si tratta di materiale compatibile con il gancio della finestra (identificandolo come ottone), è ovviamente incomprensibile come mai si ometta di segnalare che il rame è contenuto anche all’interno della cassa. Non bisogna certo trascurare che l’ufficio di David così come molti atri uffici sono dotati di innumerevoli oggetti in ottone come ad esempio tutte le maniglie delle finestra con apertura ad anta che si trovano sulla sinistra (entrando nella stanza) della scrivania. Le conclusioni fatte nella relazione pertanto non sono minimamente supportate da dati analitici riportati nella relazione stessa e denotano limiti tecnici ed interpretativi. Giova tra l’latro evidenziare che in sede di sopralluogo veniva solo “campionato” il gancio d’ottone collocato sul davanzale della finestra e non quello superiore, il quale si vuole presumere (senza prova certa) che abbia la stessa composizione di quello oggetto di analisi.

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DATI GEOMETRICI DERIVANTI DAL RILIEVO CON LASER SCANNER 3D ESEGUITE NEL SOPRALLUOGO DEL 02.02.2017

DISTANZA ORIZZONTALE DAVANZALE - PIEDE DELLA FACCIATA CM. 18,31 E NON CM. 8,1

MISURA RILEVATA IN EVIDENTE CONTRASTO CON QUANTO DICHIARATA DA ZAVATTARO NELLA SUA RELAZIONE, CHE INDICA LA MISURA DI 8,1 RILEVATA CON FILO A PIOMBO (!) (pagina 28, ultimo rigo).

La differenza orizzontale rilevata con il laser scanner 3d tra il piede della facciata e il filo esterno del davanzale della finestra dell’ufficio del Rossi è di 18,31 cm. – vedere sezione B). Il punto di impatto del bacino assunto da Zavattaro è a cm. 98 dal piede della facciata sottostante la finestra del Rossi.

CIÒ DETERMINA CHE LA DISTANZA ORIZZONTALE COMPLESSIVA TRA IL LATO ESTERNO DEL DAVANZALE ED IL PUNTO DI IMPATTO È CM. 116.

Se il Rossi si fosse veramente lasciato cadere da una posizione “rannicchiata” con il corpo completamente esposto all’esterno rispetto alla finestra (spalle al vuoto) e quindi l’asse del suo bacino sia da ritenere sporgente rispetto al davanzale IL CORPO, IN CADUTA, AVREBBE DOVUTO COMPIERE UNA DISCESA DIAGONALE IN ALLONTANAMENTO DALLA FACCIATA (PER UNO SPAZIO DI CIRCA CM. 70) CHE LA RIPRESA VIDEO NON RIVELA (CADUTA CON TRONCO VERTICALE COME DICHIARATO DALLO STESSO ZAVATTARO A PAGINA 8 DELLA RELAZIONE).

Tutte queste osservazioni, confortate dal rilievo 3d posto a confronto con quanto dichiarato in termini di verticalità della caduta, distanze rilevate e posizione degli elementi di confronto (asta metrica di 2 mt.) portano alle seguenti considerazioni:

Se davvero il Rossi si fosse lasciato cadere dalla posizione suddetta è difficile pensare al fatto che, cadendo verticalmente, non abbia riportato contatti con la facciata nel tratto sottostante il punto di distacco (lesioni del viso non compatibili con lo sfregamento in facciata);

Se dalla posizione di rilascio si fosse spinto indietro è difficile pensare che in una caduta di circa m. 14.00 non abbia acquisito alcuna rotazione (distacco delle mani con punte dei piedi sulla facciata – punto di rotazione??);

E’ altrettanto impensabile che il corpo del Rossi potesse compiere, in volo, una traiettoria parallela alla facciata;

Se si fosse spinto per allontanarsi dalla facciata tutte le considerazioni sulla caduta libera dovrebbero essere invalidate. Interverrebbero forze ulteriori non considerate.

Sempre a pagina 28 ultimo rigo, Zavattaro fornisce un elenco di dati geometrici tra i quali:

“L’altezza del davanzale della finestra dell’ufficio è di 14,40 m.”

LA MISURA RILEVATA CON IL RILIEVO 3D E’ ML. 14,36. TALE DIFFERENZA APPARE INSIGNIFICANTE MA SPIEGHERO’ IN SEGUITO PERCHE’ CONTIENE UN ERRORE IMPORTANTE 97

“L’edificio adiacente dista 3,48 metri al livello della finestra e 3,33 a livello del suolo.”

AFFERMAZIONE CHE NON CONSENTE DI CONFERMARE L’INCLINAZIONE DELLA FACCIATA DELLA FINESTRA DEL ROSSI SE NON VIENE RILEVATA L’INCLINAZIONE VERTICALE DELLA FACCIATA ANTISTANTE – DATO INUTILE.

Compatibilità con il posizionamento dell’asta di riferimento Un attento posizionamento della sagoma a terra permette di affermare che la caduta del Rossi sia avvenuta in una posizione più prossima all’asse verticale della facciata.

ASSUNZIONE DEI RIFERIMENTI ALTIMETRICI SUL CORPO IN CADUTA Paragrafo 2.1.1.1 – Calcolo dello spazio percorso tra i due fotogrammi Ricostruzione dello spazio percorso e della velocità. Per procedure con la ricostruzione della dinamica della caduta, con particolare riferimento al tempo di volo e quindi alla determinazione a ritroso della distanza coperta dal corpo del Rossi in caduta, finalizzata a stabilire il più probabile punto di inizio del volo, Zavattaro INDIVIDUA LA DISTANZA DEL COLLETTO DELLA CAMICIA DEL ROSSI TRA DUE FRAMES CONSECUTIVI (appena compare in visione rispetto al punto di vista delle telecamera di sicurezza e subito dopo l’impatto a terra). Tale distanza VERTICALE viene misurata sui frames in 360 pixel che:

- rapportati ad un’asta di misura nota (ml. 2.00) POSIZIONATA NEL PUNTO DI IMPATTO DELL’ASSE DEL BACINO DEL ROSSI STESSO;

- rilevata dallo stesso punto di vista del filmato (medesima telecamera);

- rapportata al valore determinato di ogni singolo pixel (0,65 altezza di ogni singolo pixel) consente a Zavattaro di ricavare l’altezza coperta dal Rossi in caduta ed il tempo impiegato NELLO SPAZIO IN VISIONE DI TELECAMERA.

ZAVATTARO STABILISCE CHE LO SPAZIO PERCORSO TRA I DUE FRAMES È COMPRESO TRA CM. 239 E CM. 244 IN UN TEMPO COMPRESO TRA 153 E 156 MILLISECONDI. SULLA BASE DI QUESTI DATI RICOSTRUISCE LA VELOCITÀ DI CADUTA, CONSIDERANDO I MARGINI DI ERRORE DELLA DISTANZA (CM. 239/244) E DI TEMPO (MS 135/156) E STABILISCE CHE LA VELOCITÀ DI CADUTA PUÒ ESSERE AVVENUTA NELL’INTERVALLO COMPRESO TRA 16,09 M/S (PARI A 57,91 KM/H) E TRA 16,7 M/S (PARI A 60,11 KM/H), E CHE IL TEMPO DI VOLO E’ COMPRESO TRA 1,64 E 1,75 SECONDI. Estratto della relazione di Zavattaro – Pagina 20 Di conseguenza, sulla base di alcune considerazioni relative agli studi effettuati sui corpi in caduta libera e sull’incidenza dell’attrito dell’aria e di tutti I possibili fattori di frenamento Zavattaro ricostruisce a ritroso la più probabile altezza di caduta utilizzando un calcolatore on-line accessibile al seguente indirizzo web. Nel citato calcolatore Zavattaro inserisce i seguenti dati:

- Peso corporeo del Rossi (già noto);

- Distanza percorsa nell’unità di tempo (ricavata con il sistema dell’asta metrica dal filmato);

- Tempo di volo (ricavato dal filmato in relazione alla temporizzazione dei frames.

- COEFFICIENTE DI ATTRITO DELL’ARIA, considerato un valore medio di 0,17 Kg/m tra il valore di 0,24 Kg/m (attrito dell’aria su un corpo in caduta libera in posizione orizzontale rispetto al suolo – parallelo) e 0,10 Kg/m (attrito dell’ria su un corpo in caduta libera in posizione verticale rispetto al suolo – perpendicolare).

Con questo procedimento, e per tentativi, Zavattaro RICOSTRUISCE L’INTERVALLO DELLE PIU’ PROBABILI ALTEZZE COPERTE DAL ROSSI IN BASE AI DATI NOTI/RICAVATI/ASSUNTI, determinando che:

- Assumendo l’intervallo di altezza (colletto-colletto) di cm. 239 nell’unità di tempo di 153 ms, e quindi una velocità di volo di 16,09 m/s equivalenti ad una velocità di 57,91 km/h, il ROSSI SAREBBE DOVUTO PARTIRE DA UNA ALTEZZA DI ML. 13,50;

- Assumendo l’intervallo di altezza (colletto-colletto) di cm. 244 nell’unità di tempo di 156 ms, e quindi una velocità di volo di 16,7 m/s equivalenti ad una velocità di 60,11 km/h, il ROSSI SAREBBE DOVUTO PARTIRE DA UNA ALTEZZA DI ML. 14,80.

Al termine di questi calcoli Zavattaro stabilisce che le due altezze probabili di partenza (ml. 13,50 e ml. 14,80) sono compatibili con l’altezza della finestra del Rossi da terra, ed in particolare con la posizione di un corpo in trattenuta all’esterno della finestra stessa.

CONSIDERAZIONI DETERMINAZIONE DELLA DISTANZA DEL COLLETTO TRA I DUE FRAMES: L’individuazione dell’intervallo verticale tra le due diverse posizioni del colletto della camicia del Rossi tra i due frames consecutivi appare piuttosto dubbia. Pur comprendendo l’opportunità di assumere il colletto come riferimento costante tra le due immagini appare piuttosto empirica l’assunzione delle due linee orizzontali di riferimento, in ragione della scarsa qualità delle immagini. Anche un errore di soli 5-10 cm. nel determinare lo spazio percorso nella medesima unità di tempo (assumibile in 153 ms ad esempio) PUO’ MODIFICARE IN MODO CONSISTENTE IL CALCOLO A RITROSO PER LA DETERMINAZIONE DELL’ALTEZZA DI CADUTA (al tempo=0 per intendersi). Tale affermazione può essere supportata da due esempi: - DISTANZA COLLETTO/COLLETTO DI ML. 2.30 ANZICHE’ ML. 2.39 NEL TEMPO DI 153 MS Utilizzando la stessa formula per la determinazione della velocità: 2,30 / 0.135 = 15,03 Calcolo della velocità (con incidenza della gravità): 15,03 + 9,806 x (0,153/2) = 15,78 m/s I tentativi di elaborazione compiuti con il calcolatore Casio fino a ritrovare la velocità di 15,78 m/s HANNO CONSENTITO DI VERIFICARE CHE LO SPAZIO DI CADUTA COMPLESSIVO È PARI A 13,10 ML. MINORE DI QUELLO STABILITO DALLA RELAZIONE DI ZAVATTARO CON UN TEMPO DI VOLO (1,64 secondi) COMUNQUE COMPATIBILE CON IL TEMPO RICAVATO DAI FRAMES 103 - DISTANZA COLLETTO/COLLETTO DI ML. 2.55 ANZICHE’ ML. 2.44 NEL TEMPO DI 153 MS Utilizzando la stessa formula per la determinazione della velocità: 2,55 / 0.135 = 16,66 Calcolo della velocità (con incidenza della gravità): 16,66 + 9,806 x (0,153/2) = 17,41 m/s I tentativi di elaborazione compiuti con il calcolatore Casio fino a ritrovare la velocità di 17,41 m/s HANNO CONSENTITO DI VERIFICARE CHE LO SPAZIO DI CADUTA COMPLESSIVO È PARI A 16,07 ML. MAGGIORE DI QUELLO STABILITO DALLA RELAZIONE DI ZAVATTARO CON UN TEMPO DI VOLO (1,82 secondi) COMUNQUE COMPATIBILE CON IL TEMPO RICAVATO DAI FRAMES NE CONSEGUE CHE ANCHE UN ERRORE di +/- CM. 10 NELLA DETERMINAZIONE DELLA POSIZIONE DEL COLLETTO NEI DUE FRAMES PUO’ INCIDERE NOTEVOLMENTE NELLA RICOSTRUZIONE DEL CALCOLO DELL’ALTEZZA DEL CORPO AL MOMENTO DELLA PARTENZA E CHE I DUE ESEMPI APPENA RIPORTATI SMENTISCONO SOSTANZIALMENTE QUANTO RIPORTATO A PAGINA 25 DELLA RELAZIONE DI ZAVATTARO (Vedere sotto – in rosso il confronto con il range calcolato con +/- 10 cm. di errore di rilevazione.

ALTRE CONSIDERAZIONI RIGUARDO ALLA MISURA DELLA DISTANZA TRA I DUE FRAME: Utilizzando la foto di dettaglio (DSCN9169.jpg) è stato ricollocato, con sufficiente precisione, la posizione dell'asta (linea magenta) durante i rilievi svolti da Zavattaro, all'interno del modello 3D ricavato con il laser scanner. Si è poi posizionato un'asta, come riferimento rispetto al contesto, di uguale misura in corrispondenza del centro della finestra (linea verde). La differenza tra i punti alla base delle due aste è 14 cm. 105 Sono state poi effettuate alcune prove spostando il punto di appoggio a terra dell'asta, per verificare che tipo di variazione determina nel calcolo dell'altezza tra le due posizioni del corpo in caduta (i due frame). Ogni 10 cm di spostamento dell'asta si ha una modifica di circa 2,30 cm. nel calcolo dell'altezza. Come detto in precedenza, cambiando anche di pochi centrimetri l'altezza tra i due punti della caduta, si hanno delle variazioni considerevoli nel calcolo del punto di partenza. Zavattaro, nella sua perizia, non ha parlato di questo ulteriore elemento di incertezza, così da rendere non precisa e quindi attendibile il risultato della relazione. Quanto sopra con riserva di allegazione di relazione a firma del Geom. Pierfrancesco Binella e dell’Arch. Andrea Magrini.

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Ulteriori necessità investigative. Emerge dai tabulati che il ROSSI avesse in uso due cellulari ‘Iphone’ e ‘Blackberry’ utilizzati entrambi ed aventi l’identico numero (3358033179). Quanto sopra si evince dal fatto che risultano essere attribuiti due codici IMEI. In virtù di quanto sopra appare necessario procedere all’analisi (copia forense) anche del Blackberry al fine di poter ricercare traccia di sms e/o altro contenuto eventualmente cancellato dal ROSSI prima della precipitazione.

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Per i suesposti motivi visto l'art.410 c.p.p

PROPONE

Opposizione alla richiesta di Archiviazione e chiede che la S.V. Ill.ma, sulla base di quanto suesposto, e con ulteriore riserva di motivi ed integrazioni documentali voglia disporre la prosecuzione delle indagini preliminari consistenti:

A) nella escussione a SIT di: 1) PIERACCINI Lorenza sul contenuto delle telefonate tra lei ed il ROSSI intercorse il 04.03.2013 nonché del 06.03.2013; quale fosse lo stato emotivo del ROSSI e soprattutto se il ROSSI avesse impegni e/o incontri con qualcuno tra le 18:00 e le 20:00 del 06.03.2013; 2) Simonetta BIANCIARDI (segretaria di David ROSSI) che potrà riferire sugli impegni del ROSSI nel giorno 06.03.2013 tra le ore 18:00 e le ore 20:00 così da poter ricostruire nel dettaglio proprio le ore immediatamente antecedenti e concomitanti alla precipitazione del ROSSI; 3) VIOLA Fabrizio sul contenuto delle telefonate intercorse la mattina del 04.03.2013 ed in relazione alle quali questi escusso a SIT il 21.03.2013 dichiarerò difformemente al vero di non aver “parlato telefonicamente prima dell’invio delle email” del pomeriggio; 4) FILIPPONE Giancarlo sul motivo per il quale escusso a SIT nell’immediatezza del fatto dichiarò – contrariamente al vero – di aver contattato il ROSSI (tramite chiamata e poi sms alle ore 19:41) a seguito della chiamata della TOGNAZZI quando in realtà quest’ultima lo chiamò dopo le 20:02; 5) RICCUCCI Massimo sul motivo per il quale escusso a SIT ha dichiarato difformemente dal MINGRONE e dal FILIPPONE di aver ricevuto da questi (mentre era nell’ufficio di ROSSI unitamente alla Carolina ORLANDI) una telefonata che lo avvisava di quanto accaduto; 6) FANTI Gianni sulla circostanza se conoscesse il ROSSI e se quel pomeriggio avesse avuto modo di incontrarlo e chi era presente in Banca quella sera oltre quelli già escussi.

B) acquisizione dei fogli di servizio presso la Guardia di Finanza- Compagnia di Agusta al fine di conoscere l’identità di colui il quale appartenente a detto “Corpo” ha intrattenuto la chiamata delle ore 15:41 del 06.03.2013 sull’utenza fissa dell’ufficio di DAVID ROSSI della durata di 406 secondi al fine anche di poter chiedere allo stesso l’identità di colui/colei il quale/la quale parlò telefonicamente;

C) acquisire informazioni circa l’utenza telefonica 4099009 (risultante inequivocabilmente dai tabulati telefonici originali acquisiti) digitata alle ore 20:16 dal cellulare di David ROSSI quando questo era già riverso a terra;

D) individuare la ditta incaricata di eseguire il servizio di pulizia presso la sede di MPS di rocca Salimbeni al fine di individuare l’addetta/o a tale incombenza al terzo piano di detta sede ed in particolare all’ufficio di ROSSI onde richiedere la frequenza con la quale veniva eseguito lo svuotamento dei cestini della spazzatura e della carta;

E) acquisizione della copertura radioelettrica di tutte le celle di interesse investigativo;

F) analisi dei telefonini cellulari in uso al ROSSI attività investigative e di indagine tutte necessarie al reale accertamento di quanto accaduto la sera del 06.03.2013 dalle ore 18:20 alle ore 21:02 nell’ufficio del ROSSI David, risultando certo che le ferite frontali non risultano compatibili con la caduta e che terzi fossero erano presenti all’interno dell’ufficio predetto prima dei soccorsi e quando il ROSSI era esanime a terra.

Il tutto con riserva di ulteriori richieste che saranno ritenute necessarie in corso di attività di indagine difensiva.

Si chiede infine che la S.V. Ill.ma Voglia, ai sensi dell'art. 410 c.p.p., fissare udienza di comparizione delle parti in Camera di consiglio per la discussione.

Si producono in copia (con riserva di produzione degli originali delle relazioni):

1) Relazione Simone BONIFAZI

2) Fotografie di comparazione tra primo video e sopralluogo della scientifica 

3) Relazione a firma della Dr.ssa Francesca De Rinaldis

4) Relazione a firma della Dr.ssa Marina Baldi

5) Relazione a firma del CTP dott.ssa Fabrizia Fabrizi de Biani

Tarquinia/Siena, lì 20.02.2017 Avv. Paolo Pirani

Opposizione alla richiesta di archiviazione nel procedimento contro ignoti da parte della moglie e della figlia di David Rossi difese dall'Avvocato Luca Goracci.

Ufficio del Giudice per le Indagini Preliminari

Presso il Tribunale Ordinario di Siena

Opposizione alla richiesta di archiviazione

ex art. 410 c.p.p.

per Antonella Tognazzi, nata a Siena il XXXXXXX, res.te in Siena, via XXXXXX (c.f.: xxxxxxxxxxxxxxxx), Carolina Orlandi, nata xxxxxxxxxx – C.F.: xxxxxxxxxxxxxxxx res. xxxxxxxxxxxxxxxxxxxx, nella qualità di persone offese nel proc. R.G. n. 8636/2015 difese, come da nomina in atti dall’Avv.to Luca Goracci (c.f. xxxxxxxxxxxxxxxxxxx) del Foro di Siena, con Studio in Siena, via Camollia n. 140.

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Ill.mo Sig. Giudice per le Indagini Preliminari, il sottoscritto difensore nell’interesse delle proprie assistite propone opposizione alla richiesta archiviazione nel procedimento contro ignoti RGNR n. 8636/2015 avanzata dai Procuratori della Repubblica Dott. Salvatore Vitello e Dott. Fabio Maria Gliozzi con richiesta del 08.02.2017 notificata a questo difensore in data 09.02.2017.

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Prima di entrare nel merito della presente opposizione e ce ne vorrà scusare l’Ill.mo Giudice da subito occorre svolgere una considerazione di carattere generale non senza aver premesso che per la ristrettezza dei tempi e la mole del materiale da esaminare, tra i legali vi è stata una concordata divisione dei compiti anche al fine di evitare sovrapposizioni di argomentazioni, in alcuni casi comunque inevitabili.

Le motivazioni addotte dai Procuratori della Repubblica a fondamento della richiesta di archiviazione, non lasciano e non possono lasciare sodisfatti per la sostanziale evanescenza dei temi che le caratterizzano e la non corrispondenza di talune affermazioni a quella che è, invece, la oggettività delle circostanze.

Valga per tutti, il riferimento (secondo capoverso della introduzione) all’esito di “plurimi accertamenti, anche di natura tecnica” svolti nel procedimento originario, che avrebbero potuto risultare sodisfattivi della istruttoria, condotta; quando, al contrario e come più volte si è avuto occasione di notare sia nella prima opposizione alla richiesta archiviazione, sia nella istanza di riapertura ed avocazione alla Procura Generale, sia nell’ultima istanza di riapertura presentata nel 2015, che, ove plurimi accertamenti e non solo quelli sollecitati da questo difensore, anche di natura tecnica, fossero stati non solo eseguiti ma anche correttamente svolti, certamente non ci si sarebbe trovati nella necessità di procedere, tardivamente, al loro espletamento.

Ed è proprio a motivo di tali, evidenti, lacune nella acquisizione di elementi di conoscenza, in quanto accertamenti di natura tecnica non furono eseguiti o lo furono in modo sommario ed insufficiente, non sono risultate chiare e non risultano ancora oggi, per l’organo inquirente, le circostanze in cui avvenne il decesso di David Rossi, le cause precise della morte e l’inquadramento penalistico delle azioni.

Anche se più volte si è dovuto sottolinearlo giova ancora una volta ricordare, per quanto attiene in particolare le attività medico-legali, e non è questo difensore che lo dice ma sono gli stessi consulenti nominati dalla Procura della Repubblica che lo affermano ( già a carte 224 e quindi nella relazione depositata) la assoluta mancanza di un’indagine di sopralluogo e di accertamenti radiografici, la lacunosità e la inesattezza nella descrizione dei reperti e nella definizione della loro origine causale; aspetti questi, tutti, in dettaglio evidenziati nella relazione del Prof. Norelli Gian Aristide a suo tempo depositata.

Lacune e inesattezze riguardo alle quali, finalmente, si è deciso di cercare chiarimenti, anche se a distanza di tanto tempo ognuno era consapevole che la acquisizione di dati utili avrebbe potuto essere una vana illusione, essendosi modificato lo stato dei luoghi e scomparsa ogni possibilità di acquisire validi reperti.

Ciò premesso e premesso anche il convincimento che la certezza non avrebbe potuto essere acquisita con le presenti, nuove perlopiù o rinnovate attività istruttorie, non può ritenersi convincente la richiesta di archiviazione, in quanto sorretta da una metodologia argomentativa palesemente insufficiente.

Tutta la prima parte della richiesta di archiviazione è rappresentata da una pedissequa ripetizione del contenuto della precedente attività istruttoria e della archiviazione concessa all’epoca; argomenti, tutti, la cui sostanziale insufficienza e scarsa dimostratività probatoria è dimostrata in re ipsa dalla necessità dell’odierna indagine, in parte necessariamente surrogata, dalle osservazioni della Parte Lesa ( all’epoca solo la Sig,ra Antonella Tognazzi) che, pur tardivamente ritenute fondate, hanno imposto l’esecuzione di attività e la reinterpretazione di reperti, condizionando il doveroso superamento di quanto svolto all’epoca dei fatti.

Non può non stupire pertanto che, per rinnovare la richiesta di archiviazione, il PM ricorra ad argomenti la cui scarsa consistenza è dimostrata dalla necessità della riapertura dell’istruttoria e dalla esecuzione di atti che non furono all’epoca espletati o lo furono solo parzialmente ed in modo sommario ovvero stante il convincimento immediatamente maturato che si fosse trattato di suicidio, diretta solo al raggiungimento della prova dell’evento suicidario.

Prova che non c’era e non c’è neppure a seguito delle nuove indagini che anzi confermano l’ipotesi omicidiaria.

Per questo si impone a questa difesa di ripercorrere, siccome sempre attuali, anche ai fini del supplemento di indagini che sarà richiesto quanto da subito evidenziato con la prima opposizione nella quale ci si permetteva di porre all’attenzione del Giudice per le Indagini Preliminari che, oltre alla ipotesi di reato per la quale erano state aperte le indagini, ipotesi mai modificata anche in conseguenza della apertura di un nuovo fascicolo, la istigazione al suicidio esistessero e dovessero essere prese in considerazioni anche altre ipotesi di reato.

Pur nell’assoluto convincimento che di omicidio e non di suicidio od altro si sia trattato era doveroso, affrontare anche l’aspetto giuslavoristico della responsabilità del datore di lavoro su cui incombe l’onere giuridico di tutelare il proprio dipendente dal rischio stress lavoro correlato (art. 28 L. 81/2008). Nel richiamare il contenuto della prima opposizione e ferma l’ipotesi omicidiaria, anche per la ironia manifestata nel confronti del sottoscritto legale che “navigava a vista” e non poteva fare altrimenti vista la nebbia che circondava e circonda il caso, si riporta un piccolo passo della stessa opposizione:

“Più volte la Cassazione si è espressa nel senso di non escludere e quindi condividere l'assunto che il suicidio non rappresenta un evento idoneo ad interrompere il nesso di causalità tutte le volte che l'illecito ha determinato nel soggetto leso dei gravi processi di infermità psichica, concretizzantisi in psicosi depressive o in altre gravi forme di alterazioni dell'umore e del sistema nervoso e di autocontrollo. Rispetto a tali infermità il suicidio non si configura, infatti, quale evento straordinario o atipico tale da risultare estraneo alla sequela causale ricollegabile all'iniziale condotta illecita. Condotta illecita da rinvenirsi, nella fattispecie, nella violazione delle norme a tutela del lavoratore mediante una condotta omissiva violatrice di quell’obbligo di garanzia che fa capo al soggetto chiamato ad attivarsi anche in via eccezionale al fine di evitare l’evento, obbligo che incombe necessariamente sul datore di lavoro, obbligo impeditivo riconducibile all’art. 40 cpv c.p., quale soggetto titolare della posizione di garanzia e come tale garante nella relazione protettiva tra datore di lavoro e lavoratore.

Proprio per gli obblighi conseguenti alla titolarità della posizione di garanzia, non può in assoluto escludersi che una condotta anche anomala, ma non più di tanto visto il numero di casi di suicidio in situazioni quali quella vissuta dal Rossi, tenuta dalla parte lesa, non escluda il nesso di causa con una condotta precedente stante la situazione di interdipendenza tra causa sopravvenuta e cause preesistenti”.

Non si poteva e non si può, con le norme di garanzia poste a tutela del lavoratore vigenti da anni affermare che David Rossi si era gettato dalla finestra siccome stressato per motivi di lavoro e trascurare il necessario svolgimento di indagini anche sul punto.

Non a caso veniva chiesto oltre allo svolgimento di altre indagini, anche che venissero svolte indagini sugli accessi effettuati nel computer di David Rossi computer che come risulta dalle fotografie acquisite nel procedimento de quo ( in precedenza erano solo in formato pdf) risultava bloccato, e non riattivabile con il semplice movimento del mouse, ( come tecnicamente evidenziato nella prima opposizione alla archiviazione) richiesta che viene reiterata essendo tale attività di indagine ritenuta necessaria non solo con riferimento alla ipotesi di omicidio colposo per violazione degli obblighi posti a tutela del lavoratore di cui alla normativa citata ma anche in considerazione del fatto che sui propositi suicidari e quindi email e bigliettini lasciati da David Rossi, sui quali sarà cura di questa difesa tornare nel prosieguo si fonda, in parte, il convincimento dei consulenti e quindi la nuova richiesta di archiviazione.

Come dedotto nella ultima istanza di riapertura, quella che ha dato poi origine al presente procedimento a cui integralmente si rimanda, a sostegno della richiesta di supplemento di indagine, i dati indicati circa le telefonate intercorse tra l’A.D. Viola e David Rossi forniti in formato excell (da un primo necessariamente sommario esame dei tabulati originali di cui le difese delle parti offese hanno potuto prendere visione solo a seguito della notifica della richiesta di archiviazione, per tale motivo si fa espressa riserva dopo una compiuta analisi di ulteriormente argomentare ) sono confermati, sul punto, dalla acquisizione dei tabulati originali, essendo la e-mail del 4 marzo 2013 avente ad oggetto Help del tutto avulsa dal contesto (presumibile) delle telefonate e (sicuramente) delle e-mail intercorse tra Viola e Rossi, considerato che in questa Rossi aveva espressamente manifestato l’intento di suicidarsi e le conclusioni alle quali sono giunti i consulenti incaricati, quali considerazioni certamente non complottiste di questo difensore potrebbero farsi se la e-mail non fosse stata inviata e, se lo fosse stata, quale attività sia stata intrapresa dal datore di lavoro per fronteggiare una chiara volontà del proprio dipendente di suicidarsi?

Si deduceva nella istanza di riapertura.

E proprio la corrispondenza, e-mail del giorno 4 marzo 2013, intercorsa tra Rossi e Viola necessita di un attento esame.

A seguito di un servizio del TG5 del giornalista Pamparana sui mutui concessi da banca MPS ai cinesi a Prato si sviluppano una serie di colloqui tra i massimi livelli della Banca, Presidente ed Amministratore Delegato a seguito dei quali l’AD Fabrizio Viola, alle ore 9.25 della mattina del 4 marzo 2013 si risolve a scrivere una mail a Rossi del seguente contenuto: “parliamo della vicenda mutui Prato”.

Rossi, alle ore 9.36 risponde, forse sorpreso dalla richiesta: “ma non eri a Dubai?”

Alle ore 9.48 Viola scrive a Rossi: “si ma c’è il telefono.”

Esaminando i tabulati delle telefonate si ricava che immediatamente, alle ore 9.49, Rossi chiama Viola che evidentemente, è indicata durata 0, non risponde ma lo stesso Viola richiama immediatamente dopo, alle ore 9.50 e tra i due intercorre una conversazione telefonica.

Conversazione telefonica che nuovamente intercorre tra Viola e Rossi ed è Viola a chiamare Rossi alle ore 10.27.

Tra queste due conversazioni, alle ore 10.13 si colloca la e-mail di Rossi: “stasera mi suicido sul serio aiutatemi”.

Pur non conoscendo quale sia il contenuto delle telefonate sarebbe logico supporre che la prima, quella delle 9.50 fosse relativa ai mutui di Prato mentre la seconda avrebbe dovuto interessare la e-mail dove viene minacciato il suicidio da parte di Rossi.

In realtà, leggendo la corrispondenza successiva appare lecito e logico desumere che tra i due non si sia parlato della e-mail relativa al suicidio visto che Rossi, alle ore 01.09 P.M. scrive a Viola: “Ti posso mandare una mail su quel tema di Stamani? E’ urgente, domani potrebbe essere troppo tardi”.

Ricevuta la comunicazione, alle ore 13.45 si annota la risposta da Viola:” Mandami la mail”, evidentemente Rossi temeva di disturbare sapendo che Viola era a Dubai.

Alle ore 2.12 P.M. Rossi scrive:” Ho bisogno di un contatto con questi signori perché temo che mi abbiano male inquadrato come elemento di un sistema e di un giro sbagliati. Capisco che il mio rapporto con certe persone possa farglielo pensare ma non è così. Se mi avessero chiamato a testimoniare glielo avrei spiegato, invece mi hanno messo nel mirino come se fossi chissà cosa. Almeno è l’impressione che ne ho ricavato. Avendo lavorato con tutti, sono perfettamente in grado di ricostruire gli scenari, se è quello che cercano. Però vorrei garanzie di non essere travolto da questa cosa, per questo lo devo fare subito, prima di domani. Non ho contatti con loro ma lo farei molto volentieri se questo può servire a tutti. Mi puoi aiutare?

Prima di esaminare le successive conversazioni si impone una digressione: il contenuto di questa e-mail, esula completamente dagli argomenti che si presumono essere stati trattati nel corso delle due precedenti conversazioni telefoniche la prima riguardante quasi sicuramente i mutui di Prato e la seconda, ipoteticamente la e-mail del preannunciato suicidio, ipotesi questa che evidentemente se vi fosse stata, era sicuramente ormai passata, ammesso e non concesso che l’ipotesi suicidio sia stato argomento della conversazione delle 10.27, considerato che Rossi non scrive, con riferimento all’argomento di stamani mattina, né dei mutui di Prato né del suicidio ma chiede a Viola aiuto per parlare con i Pubblici Ministeri e garanzie “Vorrei garanzie di non essere travolto da questa cosa”.

Un soggetto che minaccia il suicidio non fa programmi di andare a parlare con i Procuratori della Repubblica per raccontare ciò che può sapere.

Ritornando ad esaminare i contenuti della posta elettronica, alla ultima e-mail descritta di Rossi, Viola risponde alle ore 14.24: “La cosa è delicata. Non so e non voglio sapere cosa succederà domani. Lasciami riflettere.”

Alle ore 02.28 P.M. Rossi insiste sulla necessità di essere messo in contatto con gli inquirenti tanto da scrivere:” Non so nemmeno io. Ma almeno si può provare a vedere se hanno interesse a parlare con me stasera, vedo che stanno cercando di ricostruire gli scenari politici ed i vari rapporti. Ho lavorato con piccini, Mussari, comune, fondazione, banca. Magari gli chiarisco parecchie cose, se so cosa gli serve. L’avrei fatto anche prima ma nessuno me lo ha chiesto.”

Alle 14.40 Viola risponde a Rossi:” Ho riflettuto. Essendo la cosa molto delicata credo che la cosa migliore sia quella che tu alzi il telefono e chiami uno dei pm per chiedere un appuntamento urgente. Qualsiasi altra soluzione potrebbe essere mal interpretata. Oltretutto mi sembrano persone molto equilibrate”.

Passano solo tre minuti e Rossi, alle ore 14.43 scrive:” Ho deciso che meglio di no. Non avendo niente da temere posso tranquillamente aspettare che mi chiamino. Anche perché non ho notizie particolari da riferire ma solo di scenario. Si può fare con calma. Grazie comunque Ciao”.

Rossi, temendo evidentemente di aver disturbato Viola, alle ore 05.12 P.M. gli scrive nuovamente: “In effetti ripensandoci sembro pazzo a farmi tutti questi problemi. Scusa la rottura… Ciao”.

La risposta di Viola:” Capisco che il momento non sia facile. E quindi ti capisco. Nei limiti del possibile stai sereno”, chiude lo scambio epistolare del giorno 4 marzo 2013 tra i due.

Di cosa fosse a conoscenza Rossi non è dato a sapersi, certo non lo andava a riferire ai familiari, ma incrociando certe risultanze processuali ed in particolare le dichiarazioni rese da Marco Morelli dinanzi al Dott. Nastasi il 26 luglio 2012 nell’ambito delle indagini relative al processo denominato Antonveneta, suggestivo è il fatto che Rossi, per come riferito dallo stesso Morelli sia stato chiamato, quale responsabile dell’area comunicazione a far parte di quella squadra che si doveva occupare dell’organizzazione della operazione di finanziamento inerente l’acquisto di Antonveneta, operazione di finanziamento che riguardavano anche il famigerato contratto con Nomura di cui Morelli riferisce di non sapere nulla, rispondendo alla domanda precedente a quella in cui riferisce di aver inserito David Rossi nella squadra, sulla cui notorietà all’interno della banca non è compito di questa difesa entrare.

Strano, e sicuramente chi scrive sarà tacciato di complottista, ma forse non più di tanto in base a ciò che si legge sui quotidiani, viste le indagini che sono in corso a Milano, seguite dal Sostituto Procuratore Generale Dott. Felice Isnardi, che nel dicembre 2012 Rossi accompagni il presidente di Banca MPS, all’epoca Profumo a Roma dal Direttore de Il Fatto Quotidiano, all’epoca Padellaro, ( quanto affermato risulta dalle cartelle outlook nel cd posta di David Rossi inserito nel fascicolo relativo al procedimento archiviato) e che il successivo 23 gennaio 2013 il quotidiano esca con un articolo a firma Marco Lillo proprio sul “mandate agreement” della cui esistenza ci si accorge solo nel mese di ottobre 2012 per essere stato rinvenuto in una cassaforte presente in una stanza, cassaforte mai aperta in precedenza.

Scusandoci per la digressione e tornando alle e-mail, già nella precedente opposizione alla archiviazione a cui per completezza comunque si rimanda, quanto alla del tutto inconsueta, per usare un eufemismo, estrazione delle e-mail dal computer di Rossi si osservava riportando testualmente quanto riferito in atti:

“Alle operazioni sopradescritte di esecuzione del sequestro e acquisizione dei dati, è presente il Dr. Leandri Fabrizio, Responsabile Area Revisione Interna, il quale nel corso dell'attività, su ordine dell'A.G. Chiede al Dr. Montalbano e al Dr. Bernardini, del Consorzio Operativo Banca MPS, il ripristino della password disabilitata nonché il backup della casella di posta elettronica di Rossi David ed il rilascio in formato digitale dei file di log dalle ore 20 del 06/03/2013 alle ore 12 del 07/03/2013.

Il Dr. Leandri si riserva di consegnare detta documentazione per posta elettronica, non appena fosse pervenuta.

Solitamente, per fare in modo di non correre rischi di manomissioni da parte degli Amministratori di Sistema, si procede al ritiro delle copie di backup (che per definizione sono non modificabili) direttamente sul luogo e si ricostruisce la struttura dei dati off-line.

La spedizione via posta risulta alquanto inconsueta e non solo per la vicinanza tra sede MPS ed uffici giudiziari.

L'invio tramite posta dei files richiesti non garantisce la corrispondenza con ciò che potrebbe essere rinvenuto all'interno di una copia di backup estratta direttamente dal server. Il file di posta elettronica del tipo “ .pst”, agli atti, ad esempio, non è una copia di backup della casella di posta di Rossi David (l'estensione stessa del file .pst ne è la dimostrazione). I file .pst potrebbero essere facilmente modificabili, non essendo stata fatta una acquisizione secondo le indicazioni forensi”.

Tale indagine è ritenuta da questa difesa indispensabile e sempre possibile almeno nella casella di posta dell’AD Viola.

Venendo alle indagini svolte successivamente alla riapertura, limitandosi alle critiche che discendono da osservazioni oggettive e rifuggendo da interpretazioni che, per la loro soggettività, potrebbero essere intese come deduzioni di parte e quindi equivalenti a quelle del PM, giova richiamarsi alla consulenza grafologica del Prof Sofia, a quella tecnica dell’Ing Scarselli a quella medico-legale del Prof Norelli, già depositate ed a quella che si deposita sempre a firma dell’Ing. Luca Scarselli alle quali non è stata data per i motivi che vedremo una esaustiva risposta.

Relativamente alla CT grafologica, la Procura della Repubblica si limita a rilevare che la stessa terminologia adottata nella relazione di parte rende arduo l’inquadramento delle affermazioni all’interno della certezza probatoria. Come a dire che, ammesso e non concesso che se ne possano condividere i contenuti di merito, non è tramite il rilievo grafologico che si perviene alla certezza penale. Il che è oltre ad essere condivisibile, anche se altrettanto ovvio e, si pensa, condivisibile è che nessuno può aver mai ritenuto di pervenire alla certezza penale, muovendo da un solo aspetto della dimostratività di azioni tecniche, ognuna dovendosi inquadrare all’interno di un ragionamento più complesso e dinamico, di cui ogni atto tecnico è come la tessera finalizzata al completamento del mosaico della conoscenza; per cui se si vuole interpretare la CT grafologica, in un contesto diverso rispetto a quello prospettato dalla parte che l’ha promossa, si dovrebbe procedere ad una consulenza equivalente, per vedere quale sia l’interpretazione conferita al dato tecnico da altro esperto di diversa nomina che potrebbe fornire, anche, una analoga interpretazione del dato.

Come vedremo, alcune delle lesività evidenziate dal prof. Norelli, già indicate come non compatibili con la caduta e compatibili invece anche con segni di afferramento, non hanno trovato alcuna dimostratività certa, quanto alla loro origine nella consulenza della Prof.ssa Cattaneo e del Colonnello D. Zavattaro che semplicemente hanno preferito glissare o ipotizzare dinamiche astrattamente idonee, ma non certo su tutte le lesività riscontrate e desumibili di reperti fotografici, il riferimento è a tutte le lesioni presenti sulla parte anteriore del corpo, dalla testa ai piedi ed in particolare ma senza trascurare le altre, se non altro, per la evidenza per quanto concerne le lesività di cui alla parte superiore della mano sinistra, a quelle sul volto, a quelle sulla parte inferiore dell’avanbraccio destro dovendosi riconoscere, ancora una volta, che si preferisce apoditticamente contrastare interpretazioni che provengono da diversa matrice, piuttosto che attivarsi per approfondire la conoscenza e verificare, in ogni modo possibile, la realtà degli eventi.

Per quanto attiene le osservazioni medico-legali che, almeno in parte, sono state recepite, deve osservarsi che della loro interpretazione è fatto un uso che merita ulteriori considerazioni.

Giusto le osservazioni dei Periti, infatti, il PM si pone il quesito, correttamente nell’essenza delle necessità istruttorie, se si sia trattato di omicidio o di suicidio ed è questo un quesito cui ciascuno sarebbe felice di poter fornire risposta; non era questo, però, il tema su cui si interrogava il medico legale e non era questo il dubbio cui pensava di poter fornire certe e dirimenti soluzioni al momento in cui si ottenne la riapertura della attività istruttoria.

Si muoveva, infatti, la archiviazione, su errati orientamenti medico-legali che, unitamente ad altri non ben condotti atti istruttori, avevano indotto l’altrettanto errato convincimento che si potesse nella specie escludere con certezza l’intervento di terze persone ed ogni reperto risultasse convergente, con pari certezza, verso l’ipotesi suicidaria.

I Periti attuali hanno condiviso, in gran parte le osservazioni medico-legali del Prof. Norelli, pervenendo a conclusioni che permangono, ovviamente dubitative, siccome viziate ab origine per quelle carenze alle quali i medesimi fanno riferimento, oltre che da grossolani errori, ma che sono ben lungi dall’escludere il ruolo di terze persone e propendono per l’ipotesi suicidaria, non certa, solo perché non sussistono elementi di certezza relativi all’ipotesi di omicidio.

Sembra di rivivere il caso dell’anarchico Pinelli.

Assumono aspetto di evidente forzatura concettuale, dunque, le osservazioni della Procura che cercano di mettere in contraddizione elementi medico-legali (inoppugnabili) forniti dalla Parte Lesa, condivisi dai periti con osservazioni tecniche ugualmente inoppugnabili che derivano dalla stessa Parte, anch’esse in larga parte condivise.

Parimenti, una forzatura evidente si palesa nel momento in cui le opinioni dei Periti dell’Ufficio si assumono convergere in via quasi esclusiva verso l’ipotesi suicidaria.

Prima e piuttosto che da elementi tecnici (già abbondantemente segnalati e discussi nelle osservazioni a suo tempo depositate, rilevati ed in larga misura ora condivisi dai consulenti) l’errore nel ragionamento dei Procuratori della Repubblica deriva dal modo in cui si è posto il quesito; e cioè se nella specie si fosse trattato di omicidio o di suicidio, sul presupposto errato che l’istruttoria odierna fosse la prima, condotta nella immediatezza degli eventi.

Purtroppo non è così: posto che l’odierna indagine deriva da una ricusazione dell’esito della prima, che si era conclusa con l’apodittica affermazione che trattavasi nella specie di atto suicidario, perpetrato con evidente assenza di terze persone e con lesività del tutto compatibili, in via esclusiva, con una dinamica suicidaria degli eventi e che non ha trovato e non trova fondamento.

Cosa è possibile dedurre oggi, invece, all’esito di una nuova istruttoria, consapevoli che la possibilità di acquisire ulteriori parametri utili all’accertamento della verità potesse essere preclusa dalla intempestività degli atti a suo tempo effettuati e dalla loro censurabile parzialità, nonché dal tempo ormai trascorso che ne aveva cancellato o alterato le tracce? Si può certamente dedurre che se esiste un ragionevole dubbio, questo è proprio in riferimento a quell’ipotesi suicidaria erroneamente dedotta come certa ed all’assenza dell’intervento di terze persone all’epoca, del pari, dichiarata con certezza dai consulenti su basi che essi stessi definiscono assolutamente incerte, come dire nessuna certezza ma solide conclusioni.

Le indicazioni medico-legali che avrebbero potuto darsi allora, con ogni probabilità avrebbero potuto andare oltre il ragionevole dubbio che può ammettersi oggi e la ricostruzione degli eventi avrebbe sicuramente potuto (immodificati gli ambienti e tempestivamente esaminati e campionati tutti i possibili siti di reperti biologicamente utili) risultare assai più convincente e realistica di quanto, in realtà, è stato oggi consentito.

Diversamente da quanto si era dedotto all’esito della prima istruttoria, si è confermato come i segni rilevati sul cadavere siano ben lontani da escludere la possibilità di intervento di persona o persone diverse dal Rossi e che le lesioni agli arti non avevano le caratteristiche del tentativo di azione autosoppressiva ( non possono essere definiti tali i piccoli tagli non rispondendo ai requisiti delle classiche ferite di assaggio ) diversamente da quanto era stato erroneamente dedotto all’epoca dal consulente dei PM.

Se ci si vuole esprimere in altri termini potremmo affermare che l’ipotesi suicidaria e non quella omicidiaria non può ammettersi come certa e neppure accettabile al di là di ogni ragionevole dubbio.

Limitandosi per il momento agli elementi oggettivi risultanti dagli atti e confermati al di là di ogni dubbio, non solo ragionevole, si chiede questa difesa su quali basi, se si esclude quella del non rilevamento di tracce genetiche appartenenti a terze persone, possano i consulenti affermare che non vi siano state terze persone nell’ufficio di David Rossi.

Si premette che tali considerazioni erano state già evidenziate e minimamente tenute in considerazione nella prima opposizione quindi nella prima istanza di riapertura e reiterate nell’ultima e risultano confermate anche dalle ulteriori indagini eseguite.

Si tralasciano i lievi spostamenti di sedia, giacca, oggetti sulla scrivania (come definiti dai consulenti Cattaneo e Zavattaro) non perché non rilevanti, diversi sarebbero i criteri da seguire in certi casi per una corretta acquisizione degli elementi probatori, per focalizzare l’attenzione su riscontri oggettivi e testimoniali che invece dimostrano la presenza di persone nell’ufficio.

L’attività di indagine svolta dopo la riapertura, sollecitata anche dalle difese delle parti offese ha portato gli inquirenti a sentire nuovamente alcuni soggetti già sentiti come persone informate sui fatti, a sentirne di nuovi, ad acquisizione di materiale probatorio rilevante.

Iniziando dalle dichiarazioni.

Dichiarazioni Bondi Lorenza. E’ confermato, e la stessa lo ha sempre, anche la sera stessa dell’evento, dichiarato di essere uscita dall’ufficio verso le 20, non occorre evidenziare il minuto. Sentita il 18 gennaio 2016, dopo la riapertura la Bondi non solo ribadisce di essere uscita verso le venti ma dichiara:” Ricordo perfettamente che al momento di andarmene, transitando necessariamente davanti al suo ufficio (di David Rossi n.d.r.) notavo la porta aperta e la luce accesa. In tale occasione non le viene richiesto di come fosse la finestra, sul punto nella precedente dichiarazione aveva riferito di non ricordare se questa fosse aperta o chiusa. La circostanza non rileva ai fini che interessano.

Dichiarazione Filippone Giancarlo. Il Filippone, amico di Rossi David conferma quanto da sempre sostenuto da questa difesa, siccome riferito dalla figlia della Sig.ra Tognazzi, Carolina Orlandi che al momento del suo arrivo nell’ufficio di David Rossi la porta era chiusa: “L’ufficio di David era chiuso per cui invitavo Carolina a sedersi nel mio ufficio e ad aspettarmi. Bussavo alla porta di David e vedendo che dagli spiragli fuoriusciva la luce entravo…..” Incrociando le dichiarazioni rese dal Filippone con quelle rese dal Riccucci, sentito sempre in data 18 gennaio 2016, e dalla Orlandi risulta incontestabile che il Filippone e la Orlandi siano giunti nell’ufficio di David Rossi non prima delle 20.30.

Filippone dichiara infatti di aver ricevuto la telefonata di Antonella Tognazzi verso le 20.20 e di aver chiamato il portiere per chiedere di david Rossi; Riccucci riferisce di aver ricevuto una chiamata dal Filippone trascorse le venti e di averlo visto arrivare insieme ad una ragazza, poi conosciuta come Carolina Orlandi circa dieci minuti dopo, quindi non prima delle 20.30.

Siccome dal rapporto di acquisizione video (carta 128 fascicolo R.G. 962/2013) chiaramente si legge: “SI EVIDENZIA CHE L’ORARIO DI REGISTRAZIONE NON E’ ESATTO. SI RISCONTRA ORA DVR 01.37 ORA ESATTA 01.21, essendo il corpo di David Rossi caduto, per come appare nel primo fotogramma del video alle ore 19.59.23, l’ora esatta a cui deve essere riportato il timing della caduta e quella delle ore 19.43.23.

Quindi al di là di ogni ragionevole dubbio, quando la Bondi è uscita dal lavoro, alle 20.05 ed è passata davanti all’ufficio di David Rossi notando con certezza la porta aperta e la luce accesa, il corpo di David Rossi già giaceva nel selciato del vicolo di Monte Pio da circa 20 minuti.

Quindi se alle 20.30 circa la porta venne trovata chiusa, qualcuno doveva pur avervi provveduto, certamente non poteva essere stato David a chiuderla.

Il Riccucci non sa dirci chi fosse rimasto negli uffici della Banca, si limita ad indicazioni generiche basate su ricordi e tutti i soggetti sentiti, indicati come coloro che solitamente potevano trattenersi sino a quell’ora di fatto non apportano elementi utili all’indagine.

Non si ritiene per il momento neppure indispensabile evidenziare le altre incongruenze che emergono dalle deposizioni del Riccucci, del Filippone e del Mingrone pur rilevanti sotto certi profili ma non utili in quanto riferite ad avvenimenti successivi di alcune decine di minuti alla caduta del corpo.

Resta il fatto inconfutabile che la porta sia stata chiusa e che a chiuderla non potesse essere stato David.

Se anche i consulenti avessero letto con attenzione gli atti non avrebbero potuto non notare tale circostanza ma essendosi limitati per come indicato nella relazione a leggere probabilmente solo il provvedimento di archiviazione ed il rapporto degli agenti di PS ove si dice che l’ora del DVR è indietro di circa dieci minuti non potevano non cadere nell’evidente errore, errore ancora più grossolano laddove si indicano in quaranta i minuti di sfasamento tra l’ora del DVR e quella reale.

Anche a voler pensare che la porta si potesse essere chiusa da sola, circostanza da escludersi in quanto trattasi di porte di una certa pesantezza inserite in ambiente insonorizzato, visto che a domanda degli inquirenti i testi che si trovavano non lontani dall’ufficio di Rossi riferiscono di non aver udito nulla proprio in considerazione della insonorizzazione dei locali, un altro elemento oggettivo e inconfutabile emerge da un pur necessariamente sommario esame dei tabulati acquisiti, di cui le difese ne hanno potuto prendere visione a seguito della richiesta archiviazione.

Già nei precedenti tabulati in formato excell, seppure non giuridicamente attendibili ma sui quali, almeno con riferimento ad alcuni dati non vi era motivo di dubitare, emergevano certe attività svolte sul telefono di David Rossi alle ore 20.16 del 6 marzo 2013, telefono che veniva rinvenuto sulla di lui scrivania.

Dal tabulato ufficiale di cui si allega estratto emerge, al rigo 209 che alle ore 20.16.49 qualcuno rispondeva al telefono di David Rossi, la chiamata era stata effettuata da Carolina Orlandi, in quanto è indicata la durata di 3 secondi.

Immediatamente dopo, rigo 210, alle ore 20.16.52 sempre un soggetto, necessariamente diverso dal Rossi probabilmente lo stesso che aveva preso il telefono in mano, digitava un numero di telefono e partiva una chiamata.

Trattasi del famoso n 4099009 da alcuni, in vari articoli anche di stampa indicato come numero di riferimento di un conto dormiente, i.e. conto sul quale non vengono eseguite operazioni da anni, da altri come numero di un conto aperto presso lo IOR, la Banca del Vaticano.

Nello stesso lasso di tempo, alle 20.32, ora del DVR e quindi alle 20.16, ora effettiva dall’esame del video della caduta registrato dalla telecamera di sorveglianza si nota la caduta di un grave avente un moto leggermente parabolico, non perfettamente perpendicolare, indice questo di una velocità iniziale con componente orizzontale che rimbalzando al suolo va ad assumere una posizione compatibile con quella di quiete in cui è stato trovato l’orologio ma soprattutto indice del fatto che qualunque cosa fosse non poteva trattarsi di un oggetto caduto spontaneamente.

Quindi o si afferma che un grave cade da solo, ma se così fosse il moto non avrebbe avuto una componente orizzontale oppure qualcuno lo ha aiutato a cadere, tertium non datur.

Questi gli elementi oggettivi da subito evidenti nel fascicolo delle indagini che da soli escludono che Rossi potesse essere stato solo nel proprio ufficio al momento della precipitazione.

Di contrario avviso ma su basi estremamente fragili sono le convinzioni dei consulenti che escludono la presenza di terze persone nell’ufficio in particolare per non essere state rinvenute in questo tracce genetiche riferibili a terze persone.

Sulle tracce genetiche si impone subito una digressione, pur lasciando al consulente di parte nominato Dott.ssa Baldi ogni migliore argomentazione.

L’ufficio che non è stato chiuso nel tempo, ad eccezione del periodo in cui venne posto sotto sequestro, all’epoca dell’accesso, nel corso delle indagini era occupato dall’Avv.to Quagliana, come può non presentare neppure tracce di DNA della persona che lo occupava; analogamente per quanto concerne l’orologio ed il telefono sui quali sono state eseguite le altre indagini genetiche.

L’orologio non è mai stato sequestrato, senza alcuna precauzione venne consegnato da un militare dell’arma alla Sig.ra Tognazzi e da questa consegnato al sottoscritto difensore che lo ha conservato si in una busta ma senza alcuna precauzione. In svariate occasioni dai consulenti e dal sottoscritto legale, anche il giorno del sopralluogo in cui l’oggetto venne nuovamente sequestrato fu preso in mano e fotografato tanto che venne rappresentata da subito la eventualità che vi fossero tracce genetiche di più persone: a sorpresa dalla relazione si legge che sull’orologio siano state rinvenute tracce genetiche appartenenti al solo David Rossi. Anche in questo caso tertium non datur, o sono stati completamente sbagliati i tamponi o le indagini genetiche non servono a nulla.

Analogamente per quanto concerne il telefono oggetto di analisi, a fronte del rinvenimento di tracce genetiche riferibili a David Rossi ed a due persone di sesso femminile legate da rapporto di filiazione, probabilmente madre e figlia e quindi Tognazzi Antonella e Carolina Orlandi, si ritiene di dover evidenziare che lo stesso telefono, così come tutti gli altri apparati informatici, all’indomani del dissequestro vennero consegnati alla moglie e da questa portati per le indagini a Chiara Benedetti, legata alla vedova per il fatto di aver sposato il di lei fratello, che evidentemente in più occasioni deve aver avuto tra le mani il telefono stranamente senza lasciare tracce del suo patrimonio genetico.

Venendo alla relazione dei consulenti a questi era posto un preciso quesito: “Presa visione degli atti di causa (in particolare consulenze di parte a firma dell'Ing. Luca Scarselli e del Prof. Gian Aristide Norelli) e compiuto ogni necessario accertamento, dicano i consulenti se la morte di Rossi David sia riconducibile ad intervento di terze persone oppure sia riconducibile a gesto suicida. Riferiscano altresì quanto altro utile ai fini di giustizia.”

Nella parte iniziale della presente opposizione si scriveva che la assoluta mancanza di un’indagine di sopralluogo e di accertamenti radiografici, la lacunosità e la inesattezza nella descrizione dei reperti e nella definizione della loro origine causale, aspetti questi, tutti, in dettaglio evidenziati nella relazione del Prof. Norelli Gian Aristide a suo tempo depositata erano stati fatti propri dai consulenti della Procura.

Gli stessi, da subito evidenziavano un aspetto: “E’ importante ricordare la circostanza che, alla luce degli atti processuali, l’esito delle indagini si concluse con un giudizio di ‘suicidio’. Sostanzialmente la sentenza si è basata sugli esiti delle testimonianze, dell’autopsia e delle investigazioni operate dalla P.G., prescindendo da un’analisi meticolosa (da un punto di vista tecnico) del video ripreso dalla telecamera che mostra il soggetto precipitare. Questo esame rappresenta un punto chiave dell’attuale processo” e che “Compito degli scriventi, pertanto, consiste nel tentativo di una più oggettiva possibile ricostruzione dei fatti, incarico che sarà svolto tramite il riesame degli atti, in particolare di quelli tecnici non ripetibili a distanza di tre anni (sopralluogo con relative immagini, prima autopsia ecc…) e con l’effettuazione di tutte quelle attività tecnico-scientifiche di approfondimento che possano portare nuovi elementi ovvero dirimere i dubbi circa le contestazioni mosse dai consulenti della famiglia, con la limitazione di dover lavorare senza la disponibilità di tutti i reperti e con uno stato dei luoghi modificato nei dettagli.”

In particolare la Prof. Cattaneo, per la parte di propria competenza in più occasioni, nella relazione ha evidenziato: “Tutto ciò è stato effettuato nella piena consapevolezza che si andava a lavorare su materiale che già era stato esposto ad una prima autopsia, e quindi “contaminato”, ma anche lavato. Era tuttavia doverosa, seppur complessa e comportante lunghe attese, la suddetta sequenza di analisi di tipo medico legale al fine di tentare in tutti i modi di giungere a dati concreti e utili per rispondere ai quesiti posti” La consapevolezza di andare a lavorare su un materiale contaminato ed anche lavato, sicuramente non una sola volta, il corpo dopo l’autopsia viene nuovamente lavato prima della vestizione, e con materiali, in particolare spugne e strumenti per autopsia che non vengono sterilizzati ma semplicemente lavati, su un tavolo settorio che è sempre lo stesso non ha però impedito, in assenza di alcuna certezza di arrivare a quasi solide certezze.

Certezze che non possono essere date neppure dagli esiti degli accertamenti merceologici tanto che in relazione si legge: “Nei campioni si apprezza una presenza massiva di Zinco, Piombo e Stagno in diverse aree cutanee, da probabile contaminazione proveniente dalla cassa interna zincata, inoltre si rileva una diffusa presenza di Calcio, che tuttavia è da considerarsi un contaminante molto diffuso in diversi ambienti (ad esempio nell'acqua) o da relazionare ai processi putrefattivi (adipocera). Nella regione ombelicale si apprezza la massiva presenza di Cromo, Ferro e Nichel (almeno 20 residui); questi potrebbero essere dovuti al contatto con la fibbia in metallo della cintura indossata dalla salma per le esequie o da contaminazione di materiale utilizzato per la prima autopsia (ferri, tavolo anatomico). Al capo posteriormente sono presenti scarse particelle simili anche queste potenzialmente riconducibili ai ferri da autopsia.”

Certezze che non possono esistere ed anzi devono essere escluse, relativamente alle lesività tutte, presenti nella parte anteriore del corpo, che non possono dirsi raggiunte né attraverso le indagini merceologiche ne attraverso la ricostruzione, per certi aspetti, fantasiosa della dinamica della caduta che prevederebbe condotte del Rossi a dir poco incredibili, contrastanti con le prove di simulazione eseguite e sconfessata da considerazioni tecniche sulle quali nel prosieguo, pur facendo proprie le considerazione del consulente di parte Ing. Scarselli brevemente ci soffermeremo.

Non essendo infatti spiegabile con la dinamica della caduta tutta una serie di lesioni, in particolare, come detto quelle presenti nella parte anteriore del corpo e distribuite su tutto questo, dagli arti inferiori alla testa, circostanza questa confermata dai consulenti della Procura della Repubblica, pur mancando i fazzolettini con cui Rossi si sarebbe tamponato una piccola ferita, pur mancando i vestiti e le scarpe, non essendo, per stessa ammissione dei consulenti dell’ufficio utili di fatto i reperti merceologici e genetici, questi con elucubrazioni non solo al limite dell’incredibile ma addirittura sconfessate da quanto dai medesimi affermato traggono pseudo certezze dal nulla.

Due presupposti fondamentali devono essere posti alla base del ragionamento.

La datazione delle lesività. La Prof. Cattaneo afferma che in conseguenza dello stato del cadavere non è possibile datare scientificamente l’orario delle lesioni, combinazione ha voluto che la cassa zincata nella quale era deposto il corpo di David Rossi per la inumazione non fosse stata dotata della valvola di sfiato con la conseguenza che il corpo immerso nei liquidi si presentava in avanzato stato di saponificazione e non di mummificazione. Di fatto, e la domanda se la pone anche la Prof Cattaneo, essendo le lesioni al volto visibilissime, se fossero state presenti da prima qualcuno avrebbe dovuto averle viste: considerato che fino al primo pomeriggio Rossi si era intrattenuto con il fratello Ranieri che era passato da casa a far visita alla moglie, che risulta a chi scrive che verso le 17 - 17.30 era uscito per prendere un caffe con tale Fulvio Muzzi, che fino alle 18.20, dai tabulati acquisiti risulta essere presente negli uffici della banca la Sig.ra Pieraccini Lorenza, che come risultante dai tabulati intrattiene ben sei conversazioni telefoniche con Rossi e mai risulta essere stata escussa a SIT tra il giorno 4 ed il giorno 6, l’ ultima delle quali dopo le 18 del 6 marzo 2013 in occasione della quale chiama senza ricevere risposta, che allo stesso Filippone, sebbene più volte sentito non è stato mai chiesto se si fosse incontrato con i Rossi, anche se si ritiene evidente che le lesività siano di pochi minuti anteriori all’evento, forse potrebbe essere di aiuto sentire tali persone al fine di determinare sino a quale ora del pomeriggio David non presentasse alcun segno visibile sul volto, anche se gli stessi consulenti affermano (pag 46 relazione): “l’ultima testimonianza visiva del Rossi risale ad una collega, che lo avrebbe incrociato nei locali della banca intorno alle ore 18,00, senza segnalare la presenza di ferite.”

I fazzolettini gli abiti e le scarpe. Esaminando le fotografie in atti, i consulenti Cattaneo e Zavattaro scrivono (pag 45 relazione): “Queste sono le uniche immagini, per cui non è possibile stabilire con precisione la sequenza temporale degli oggetti che sono stati cestinati, tuttavia si nota che tra i più superficiali ci sono dei frammenti di carta e almeno un fazzoletto di carta. In considerazione del ruolo rivestito dal Rossi, è ragionevole ipotizzare che il cestino dovesse essere ripulito giornalmente, pertanto tutto il materiale deve essere riferito alla giornata del 6 marzo. I frammenti di carta costituiscono, in parte o in toto, i biglietti di addio manoscritti dal de cuius. I fazzoletti, non completamente dispiegati, nel numero minimo di 3, riportano numerose macchie di sostanza rossastra, con ogni ragionevolezza trattasi di tamponature su ferita sanguinante (il che giustifica il fatto che il fazzoletto fosse chiuso, perché aumenta il potere assorbente)”, ed arrivano ad affermare, quanto alle macchie presenti sui medesimi che: “Le macchie di sangue potrebbero dunque essere dovute ai tamponamenti su una di queste ferite e, in particolare, la forma triangolare e la dimensione delle tracce, potrebbe essere ricondotta a quella al labbro inferiore (peraltro zona molto irrorata dai vasi, quindi con abbondante flusso, circostanza che giustificherebbe anche i numerosi tamponamenti)”. Mentre i biglietti accartocciati e strappati, non uno di questi veniva rinvenuto in bella mostra sulla scrivania, tutti erano stati cestinati, venivano prelevati, i fazzolettini verranno prelevati solo alcuni giorni dopo, posti sotto sequestro, mai esaminati e distrutti nel mese di settembre a seguito di ordine di distruzione del reperto del 14 agosto 2013, senza alcuna comunicazione alla parte offesa, che avrebbe potuto opporsi alla distruzione. I fazzolettini si trovavano in base alla documentazione fotografica dentro una scatola di cartone, all'interno di un sacco di plastica bianco. Le prime due fotografie mostrano la scatola che contiene vari oggetti tra i quali un libro e, la fotografia ripresa da sopra il cestino, scattata si presume prima che il contenuto dello stesso venisse, quanto alla dislocazione, modificato, mostra almeno un fazzolettino. La terza fotografia, ove sono raffigurati vari fazzolettini con evidenti tracce rossastre è evidentemente stata scattata una volta svuotato il cestino, tanto che il libro che prima era in posizione obliqua, appoggiato al bordo della scatola si vede in posizione orizzontale con sopra svuotato il contenuto della scatola. Ammesso e non concesso, che si tratti di tracce ematiche, che queste siano servite a tamponare la ferita al labbro, anche per l’alone presente intorno ad alcune delle tracce rosse, che siano di epoca di poco anteriore all’evento, ma essendo stati distrutti non è possibile adesso compiere alcuna verifica, considerato che gli stessi consulenti, e la visione delle fotografie non lascia adito a dubbi su questo, affermano che la ferita al labbro ed alla parte sinistra del naso, compresa probabilmente quella presente sulla pinna nasale, sono da riferirsi ad un unico evento, occorre stabilire come David Rossi possa essersi, da solo, procurato tale ferita. Sicuramente, ci scusi il Giudice la lapalissianità del ragionamento, non possono essere avvenute nella fase della caduta in quanto David Rossi non avrebbe certo potuto poi gettarli nel cestino, quindi sono necessariamente precedenti al posizionamento del corpo sulla finestra ed alla successiva caduta e, con altrettanta certezza non si può affermare che siano appartenuti al Rossi. Visto che in base alle fotografie, lo stesso consulente medico legale afferma però che un conto è vedere il corpo nell’immediatezza, un conto esaminare le fotografie, si afferma che la lesione può essere stata prodotta a seguito di urto, sfregamento compressione contro una parete, spigolo, non tagliente, si deduce che o David Rossi ha preso a testate uno spigolo e poi visto che gli usciva del sangue ha deciso di tamponarsi la ferita oppure qualcuno ha sbattuto la faccia di David Rossi contro uno spigolo. Analogo ragionamento deve farsi per la piccola ferita rotondeggiante presente sulla fronte. Dopo aver riferito che tutto è contaminato, che le tracce di rame sono rilevate su gran parte delle lesioni presenti sul corpo di David, si parla comunque di tracce minime, come per magia appare la possibilità che questa sia stata causata dall’urto contro il nottolino interno su cui si chiude la finestra, sia quello posto in alto che quello posto in basso in base alla lega con cui è composto il materiale. Al di là della stranezza che essendo l’ottone una lega venga trovato quasi esclusivamente del rame scrivono i consulenti:” Osservando gli elementi maggiormente (o unicamente) rappresentati sulle lesioni sul corpo del Rossi (Al, Si, Ti, Cu) (come ricordato sopra) insieme a K-feldspato (silicato di alluminio), si può apprezzare come tali elementi siano maggiormente presenti nelle strutture del muro esterno (malta e mattone) (Si, Al), sulle persiane (Si, Al), sul gancio metallico della finestra (soprattutto rame Cu). Ciò è suggestivo (con tutti i limiti detti precedentemente relativamente al lavaggio e alla contaminazione della salma) di un contatto in particolare: della sede del capo della lesione A (regione frontale destra) con il gancio della finestra (sopra o sotto),della lesione C all’occhio di sinistra e del polso e della mano sinistra e del polso della mano destra con il muro esterno o l’anta”, dovrebbero spiegare i consulenti, in base alle misure, altezza di David Rossi e altezza della finestra come David Rossi avrebbe potuto urtare la testa contro il nottolino, gancio superiore e se tali altezze non risultassero, come non risultano compatibili, come Rossi avrebbe potuto sbattere contro il gancio inferiore, se non spinto da qualcuno.

Le lesività sulla parte anteriore del corpo di David Rossi. I consulenti affermano che le lesività presenti sulla parte anteriore del corpo possono essere state causate anche da una colluttazione con terze persone ma non avendo trovato tracce genetiche riferibili a terzi si sono sforzati di individuare in quale altro modo le stesse potessero essere state originate. Premesso che di alcune di queste non sono riusciti a dare alcuna spiegazione ne logica ne deduttiva nè tantomeno scientificamente apprezzabile, si pensi alle ecchimosi ed abrasioni all’interno della coscia destra, nella zona inguinale, la piccola lesione tonda sotto il ginocchio a quelle presenti sull’addome che non possono essere state causate dalla cintura la cui fibbia non contiene nichel come riferito verbalmente dal Colonnello Zavattaro che aveva svolto accertamenti in tal senso direttamente dal produttore Prada ( il nichel è sostanza altamente allergizzante ), al fine di cercare una plausibile spiegazione delle altre, si deve osservare che la fantasia ha prevalso sulla realtà oggettivamente dimostrata dal consulente di questa difesa Ing. Scarselli e condivisa dallo stesso consulente Zavattaro nella parte della relazione afferente la dinamica su due aspetti fondamentali.

I punti fermi condivisi dai consulenti sulla dinamica della precipitazione. Premesso:

a) che per quanto sopra riportato l’analisi meticolosa del video (da un punto di vista tecnico) ripreso dalla telecamera che mostra il soggetto precipitare rappresenta un punto chiave dell’attuale processo (parafrasi di quanto scritto dai consulenti sopra riportata per esteso);

b) che nessuna perizia sul video sia mai stata disposta nonostante espressamente sia stato richiesto;

c) che questo era il punto di partenza posto dai consulenti a base delle proprie valutazioni;

d) che anche sul video acquisito nel corso delle indagini devono sollevarsi delle perplessità siccome contenuto in una chiavetta USB avente capacità di 8GB mentre la sera della acquisizione il video venne riversato in due chiavette di 4GB ciascuna, (si veda rapporto acquisizione);

e) che il DVR sul quale venivano registrate le immagini del sopralluogo effettuato in sede di accertamenti irripetibili non era lo stesso in base alla descrizione del modello sempre contenuta nel medesimo rapporto di acquisizione;

f) che la posizione della telecamera anche se di pochi gradi risultava spostata rispetta a quella originale con cui vennero riprese le fasi della caduta del corpo di David Rossi,

g) che diversamente da quanto affermato in relazione il DVR come risulta dalla scheda del produttore non era adattativo, ovvero non aumentava la velocità dei frames in caso di movimento;

h) che inequivocabile e descritta dagli stessi consulenti è la presenze di persone che entrano nel vicolo, non transitando semplicemente lungo via dei Rossi;

i) che tali persone accedono al vicolo quando David Rossi era ancora vivo,

j) che il video, circostanza questa sempre sostenuta appare non genuino per le motivazioni tutte di cui alle precedenti relazioni a firma Ing. Luca Scarselli;

k) che dal video emerge chiara la presenza di fonti luminose attribuibili ai fari posteriori, stop, di autovetture che come da indagini difensive effettuate non possono essere attribuite ad autovetture in transito bensì ad autovettura, sempre la stessa per la distanza focale e l’altezza delle proiezioni delle luci ed a sorgenti luminose provenienti da dietro la telecamera;

l) che è necessario in queste indagini appurare chi fossero tali persone non tanto per la ipotesi di omissione di soccorso quanto per verificare se questi si trovassero in luogo al fine di accertarsi che Rossi decedesse, fatte queste premesse si osserva:

Scrivono i consulenti della Procura e su tale aspetto quanto in premessa non rileva:” Il Rossi era in una posizione iniziale che non dà luogo a rotazione, con il tronco e il viso rivolti verso il muro, paralleli ad esso... (omissis) Questo dato, unitamente alle valutazioni dei paragrafi precedenti, è di forte supporto all’ipotesi che il Rossi abbia iniziato la precipitazione da una posizione iniziale già completamente esterna alla finestra, con busto eretto, rivolto verso la parete. Poiché dai fotogrammi che mostrano gli ultimi metri di caduta non si notano variazioni significative alla posizione del tronco e degli arti superiori del Rossi e in considerazione, inoltre, che il tempo di volo è in ogni caso esiguo (tra 1,67 e 1,75 secondi), appare ragionevole considerare che tale posizione della parte superiore dovesse essere quella della separazione dal manufatto.

Da tali considerazioni, basate su leggi della fisica e non su mere supposizioni risulta evidente:

1) Che David Rossi “fosse appeso” all' esterno della finestra;

2) Che David Rossi non era seduto sulla sbarra di protezione. Dal primo punto anche con riferimento alle ipotesi avanzate dai consulenti circa la natura delle lesività e al necessario intervento da parte di terzi si evidenziano riportandosi alla consulenza dell’Ing. Scarselli a cui si rimanda i seguenti punti: 1) In relazione allo sviluppo della dinamica a partire da corpo appeso volontariamente: la precipitazione del Rossi non trova spiegazione, per distanza di caduta, per posizionamento delle braccia e delle gambe, se non con un intervento da parte di terzi; 2) In relazione alla dinamica ipotizzata: tentativo di scalare il muro per raggiungere la grondaia (fuga?): questa ipotesi, che Rossi volesse scappare da qualcuno confligge con il dato di non aver trovato tracce dei presenza di terzi nella stanza e avrebbe dovuto sollecitare ai consulenti l’ipotesi non certo peregrina che Rossi potesse essersi incontrato con qualcuno, magari nel tunnel sotterraneo che conduce ad altri palazzi del Monte dei Paschi di Siena, che si affacciano sia nella Piazza dell’Abbadia che nello stesso vicolo di Monte Pio dalla parte opposta a quella da cui David Rossi veniva gettato al suolo, meglio defenestrato ( espressione questa usata dai PPMM in occasione della prima richiesta di archiviazione) circostanza questa suggerita dalla presenza di sostanza bianca sotto la suola delle scarpe che potrebbe essere stata calpestata proprio all’interno del tunnel;

3) Sul prelievo n. 9 posto a 190 cm dal davanzale relativamente al segno lasciato dalla punta delle scarpe: si spiega solo con la condizione che qualcuno stesse trattenendo il Rossi per i polsi delle braccia (essendo l'altezza del Rossi non superiore a cm. 170) e quindi, banalmente, si giustifica solamente con l'intervento da parte di terzi nell' inizio del moto di precipitazione. Da subito si deve far notare che se le tracce attribuibili astrattamente alla tomaia della scarpa, non alla gomma che è quella effettivamente abrasa ma che non presenta tracce di colore rossastro, come sarebbe ipotizzabile se fosse stata strusciata contro i mattoni, sono state trovate a distanza di cm. 45, cm. 60 e cm. 190 (pag. 36 della relazione) ed hanno tutte la medesima matrice non possono essere attribuite alle scarpe del Rossi, scarpe che non attirarono l’attenzione del personale del 118, sentito a sit, anche se questi riferiscono che i pantaloni erano perfetti, puliti stirati addirittura con la piega. Tale circostanza lascia ipotizzare che le tracce di sporco riferibili secondo il Col. Zavattaro a sfregamento contro i mattoni, sulla base delle prove di posizionamento eseguite ma con persona attiva e ben fissata a cavi di protezione, che puntava i piedi, le ginocchia e le cosce contro i mattoni, come da fotografie inserite nella consulenza, potrebbero essere derivate dal fatto che il corpo venne, dopo l’intervento del personale del 118 girato su se stesso, come risultante dalle fotografie in atti;

4) Posizione in cui è stato trovato l'orologio, non compatibile con il vettore della quantità di moto del braccio sinistro del Rossi durante la precipitazione;

5) Segni di afferramento lasciati dall' orologio sul polso sinistro;

6) Presenze nell' ufficio alle ore 20:16 (chiamata telefonica, oggetto che cade);

7) Presenza di persone all' ingresso del vicolo, la cui presenza non era occasionale ma finalizzata a celare il corpo del Rossi a terra ed evitare che venisse soccorso;

8) I segni sulle scarpe la cui origine è da far risalire ad una aggressione, afferramento, tentativo di immobilizzazione. A maggior ragione per incompatibilità relativa alla geometria (quote) dei segni attribuiti e per la qualità merceologica delle sostanze sulle punte e suole.

Punti questi tutti analiticamente analizzati nella consulenza tecnica.

In modo esattamente contrario a come ha fatto, dunque, avrebbe dovuto argomentare la Procura della Repubblica, in questa fase dell’indagine, riconoscendo l’errore in capo alla prima istruttoria di aver optato per l’ipotesi suicidaria considerandone una inconsistente certezza donde la necessità di esplorare ancora la consistenza ed il valore probatorio dell’ipotesi alternativa a quella che si è dimostrato essere viziata dal ragionevole dubbio; una ipotesi che indubbiamente deve essere approfondita anche alla luce di elementi probatori che vanno oltre la mera indagine tecnica, che deve essere dimostrata, ma che è credibile nella sua realtà essenziale, che pone l’intervento di terze persone, alla luce delle caratteristiche delle lesioni, come elemento non solo di probabilità logica ma oseremmo dire scientifica da valersi nella ricostruzione penale dei fatti che esitarono nella morte di David Rossi.

Si chiede pertanto che il Giudice, anche con riferimento all’ipotesi accusatoria di cui all’art. 580 c.p., “in tesi: previa fissazione dell’udienza camerale ex art. 410 III Cod. Proc. Pen., voglia disporre la restituzione degli atti al Pubblico Ministero affinché assuma informazioni e svolga ulteriori indagini anche eventualmente con incarico a consulenti tecnici sulle seguenti circostanze:

- Modalità di acquisizione delle mail in atti e di accesso al computer di David Rossi, contenuto di tutte le mail presenti nel server MPS relative a David Rossi, e di Fabrizio Viola;

- Sulle azioni intraprese dal datore di lavoro in prevenzione, anche a seguito della mail inviata dal Dott. Rossi in cui si preannunciava il suicidio.

- Che siano sentiti i Sig.ri Viola Fabrizio circa la ricezione delle e-mail nelle forme ritenute opportune; la Sig.ra Pieraccini Lorenza ed il Sig. Fanti Gianni, che ebbe a transitare davanti alla porta dell’ufficio di David Rossi come individuato dal piantone presente, il Sig. Fulvio Muzzi titolare della impresa MCM circa l’incontro avvenuto con il Rossi il pomeriggio del 6 marzo 2016 nonché la Sig.ra Simona Bianciardi segretaria di David Rossi circa gli appuntamenti di Rossi nei giorni immediatamente precedenti l’evento e la sera dell’evento

- Sia disposta consulenza tecnica sul video in atti di cui si afferma essere presente la versione estratta dal DVR.

- E su tutte le altre che dall’esame degli atti riterrà necessarie.

- In ipotesi: il Procuratore Generale presso la Corte di Appello, a mente dell’art. 412 e 413 Cod. Proc. Pen., avochi a se l’indagine e svolga le indagini sopra indicate e tutte quelle che reputerà necessarie ai fini del corretto accertamento dei fatti. All’esito, voglia ordinare al Sostituto Procuratore assegnatario ex art. 415 I Cod. Proc. Pen. di provvedere all’iscrizione nel Registro degli Indagati gli autori dei reati ritenuti sussistenti e disporre l’esercizio dell’azione penale contro di essi per i reati che saranno ravvisati. Si deposita in forma cartacea : 1) Relazione Tecnica Ing. Luca Scarselli; 2) Sit Marco Morelli; In formato digitale CD contenente: 1)Relazione tecnica Ing. Luca Scarselli; 2) Sit Marco Morelli; 3)Cartella Frames estratti dal video della caduta e video relativi a: a)Persone presenti nel vicolo; b)Luci di fari posteriori di autovetture; c)Luci proiettate dalla parte posteriore della telecamera; d)Filmato di autovetture che transitano in Via dei Rossi altezza intersezione vicolo Monte Pio; 4)Estratto tabulato telefonate. Siena, 20 febbraio 2017.

MEMORIA INTEGRATIVA. (Tratto dal sito web de Le Iene).

Memoria integrativa dell'opposizione alla sentenza di archiviazione presentata dall'Avvocato Luca Goracci.

Tribunale di Siena

Ufficio del Giudice per le indagini preliminari

Nel Procedimento RG 8636/2015 mod. 44

Ecc.mo Sig. Giudice, le ulteriori indagini svolte, all’indomani del deposito della richiesta di archiviazione e della successiva opposizione e le ulteriori emergenze anche di natura processuale impongono a questa difesa la redazione della presente memoria corredata anche da nuovi accertamenti tecnici che si sottopongono alla attenzione della S.V. Ill.ma. Purtroppo, e da qui si ritiene di dover procedere, causa investimento mentre attraversava la strada il Prof Norelli Gian Aristide che aveva fatto pervenire una breve nota di osservazioni alla relazione Cattaneo Zavattaro, non solo è impossibilitato a partecipare alla udienza ma neppure è stato in grado di portare a termine il proprio lavoro. Tale bozza viene riportata nella presente memoria e fatta propria da questo difensore. Scrive il Prof Norelli: “Quanto alle osservazioni sulla indagine attuale, limitandosi alle critiche che discendono da osservazioni oggettive e rifuggendo da interpretazioni che, per la loro soggettività, potrebbero essere intese come deduzioni di parte e quindi equivalenti a quelle del PM, giova richiamarsi alla CT medicolegale. Per quanto attiene le osservazioni medico-legali non può che compiacersi che, almeno in parte, le posizioni del CT di Parte Lesa siano state recepite, anche se della loro interpretazione è fatto un uso che merita ulteriori considerazioni. Giusto le osservazioni dei Periti, infatti, il PM si pone il quesito, correttamente nell’essenza delle necessità istruttorie, se si sia trattato di omicidio o di suicidio ed è questo un quesito cui ciascuno sarebbe felice di poter fornire risposta; non era questo, però, il tema su cui si interrogava il medico legale e non era questo il dubbio cui pensava di poter fornire certe e dirimenti soluzioni al momento in cui si ottenne la riapertura della attività istruttoria. Si muoveva, infatti, da errati orientamenti medici-legali che, unitamente ad altri non ben condotti atti istruttori, avevano indotto l’altrettanto errato convincimento che si potesse nella specie escludere con certezza l’intervento di terze persone ed ogni reperto risultasse convergente, con pari certezza, verso l’ipotesi suicidiaria. I Periti attuali hanno condiviso, in gran parte le osservazioni medico-legali di Parte Lesa, pervenendo a conclusioni che permangono, ovviamente dubitative, ma che sono ben lungi dall’escludere il ruolo di terze persone e propendono per l’ipotesi suicidiaria, non certa, solo perché non sussistono elementi di certezza relativi all’ipotesi di omicidio. Assumono aspetto di evidente forzatura concettuale, dunque, le osservazioni del PM che cercano di mettere in contraddizione elementi medico-legali (inoppugnabili) forniti dalla Parte Lesa, con osservazioni tecniche (non medicolegali, dunque) che deriverebbero dalla stessa Parte. Come del pari forzatura evidente si palesa nel momento in cui le opinioni dei Periti si assumono convergere in via quasi esclusiva verso l’ipotesi suicidiaria. Prima e piuttosto che da elementi tecnici (già abbondantamente segnalati e discussi nelle osservazioni a suo tempo depositate, rilevati ed in larga misura condivisi dai Periti) l’errore nel ragionamento del PM deriva dal modo in cui si è posto il quesito; e cioè se nella specie si tratti di omicidio o di suicidio, come se l’istruttoria odierna fosse la prima che è stata condotta nella immediatezza degli eventi. Non è così, pervero: posto che l’odierna indagine deriva da una ricusazione dell’esito della prima, che si era conclusa con l’apodittica affermazione che trattavasi nella specie di atto suicidiario, perpetrato con evidente assenza di terze persone e con lesività del tutto compatibile, in via esclusiva, con una dinamica suicidiaria degli eventi. Cosa è possibile dedurre oggi, invece, all’esito di una nuova istruttoria, consapevoli che la possibilità di acquisire ulteriori parametri utili all’accertamento della verità era preclusa dalla intempestività degli atti a suo tempo effettuati e dalla loro censurabile parzialità, nonché dal tempo ormai trascorso che ne aveva cancellato o alterato le tracce? Si può certamente dedurre che esiste il ragionevole dubbio, ma proprio in riferimento a quell’ipotesi suicidiaria erroneamente dedotta come certa ed all’assenza dell’intervento di terze persone all’epoca, del pari, dichiarata con certezza. Le indicazioni medico-legali che avrebbero potuto darsi allora, con ogni probabilità avrebbero potuto andare oltre il ragionevole dubbio che può ammettersi oggi e la ricostruzione degli eventi avrebbe sicuramente potuto (immodificati gli ambienti e tempestivamente esaminati e campionati tutti i possibili siti di reperti biologicamente utili) risultare assai più convincente e realistica di quanto, in realtà, è stato oggi consentito. Diversamente da quanto si era dedotto all’esito della prima istruttoria, si è confermato come i segni rilevati sul cadavere siano ben lontani da escludere la possibilità di intervento di persona o persone diverse dal Rossi e che le lesioni agli arti non avevano le caratteristiche del tentativo di azione autosoppressiva come all’epoca si era erroneamente dedotto. Si è detto, in altri termini che l’ipotesi suicidiaria non poteva ammettersi come certa e neppure accettabile al di là di ogni ragionevole dubbio. In modo esattamente contrario a come ha fatto, dunque, avrebbe dovuto argomentare il PM, in questa fase dell’indagine, riconoscendo l’errore in capo alla prima istruttoria di aver optato per l’ipotesi suicidiaria considerandone una inconsistente certezza donde la necessità di esplorare nell’unica sede in cui sia possibile farlo (e cioè il processo), la consistenza ed il valore probatorio dell’ipotesi alternativa a quella che si è dimostrato essere viziata dal ragionevole dubbio (omicidio vs suicidio); una ipotesi che indubbiamente deve essere approfondita anche alla luce di elementi probatori che vanno oltre la mera indagine tecnica, che deve essere dimostrata, ma che è credibile nella sua realtà essenziale, che pone l’intervento di terze persone, alla luce delle caratteristiche delle lesioni, come elemento di probabilità logica da valersi nella ricostruzione penale dei fatti che esitarono nella morte di David Rossi.” Nelle poche ma significative righe si colgono alcuni aspetti fondamentali. La relazione del Prof Norelli, che insieme alle altre depositate ha reso necessaria la riapertura del caso, è da considerarsi come un giro di boa in una regata dal quale dover ripartire ma non con ipotesi, bensì con elementi certi e con indagini a tutto raggio. Le argomentazioni del Prof. Norelli hanno trovato conferma nelle indagini dei consulenti della Procura che al di là di mere ipotesi, anche contraddittorie tra loro, dopo aver necessariamente escluso che le lesività presenti nella parte anteriore del corpo di Rossi possano essere in alcun modo compatibili con la dinamica della caduta neppure con argomentazioni tecniche e non medico legali sono riusciti a dimostrare la etiopatogenesi di alcune lesioni, meglio sarebbe dire la riferibilità di certe lesioni ad un momento o movimento o tentativo o ipotesi. Certo dire dopo oltre tre anni che non vi sono tracce di DNA di terze persone ( strano che non siano state trovate tracce di DNA di Rossi o di chi adesso occupa quell’ufficio o delle persone che solitamente svolgono lavori di pulizia, ma la circostanza sorprende relativamente atteso che nessuna traccia di materiale genetico, ad eccezione di quello del Rossi sia stata rinvenuta nell’orologio e che nel telefono siano state rinvenute tracce di DNA appartenente a due donne, “legate tra loro” quando il cellulare è stato nella detenzione di altra persona, ingegnere informatico. Solo per esempio ma il ragionamento, per quanto sopra, è valido per tutte le lesioni alla parte anteriore del corpo di Rossi, se si scorre la consulenza Cattaneo Zavattaro, e sono i consulenti della Procura che parlano anche di ipotesi di colluttazione, nessun riscontro, neppure in via ipotetica offrono i consulenti per la chiara lesione all’inguine e per le ecchimosi, in particolare evidenti segni lasciati da una mano sull’avambraccio destro, lesioni pur presenti e riportate nella documentazione fotografica in atti. Queste le lesività più evidenti suggestive di un calcio nei genitali la prima e di un afferramento la seconda. Scriveva il Prof Norelli nella relazione depositata allegata all’istanza di riapertura: “Anche per la lesività alle braccia ed agli arti inferiori può manifestarsi stupore per la carenza di motivazioni sull’origine della stessa. Appare evidente, infatti, come le aree ecchimotiche o abraso-escoriate agli arti, mal si attengano alle conseguenze della caduta e come risulti ancor meno giustificabile la loro genesi con il meccanismo di precipitazione. Difficile, ancor più, giustificarne l’origine con una dinamica di posizionamento sul davanzale più che dubbia per un evento suicidiario, che, del resto, come meglio potrà dirsi tramite relazione tecnica, è logicamente ben difficile da ammettere, sol che si presti minima attenzione al filmato della caduta. Il soggetto è visto precipitare in posizione orientata ventralmente verso la parete, senza che minimamente se ne discosti lungo l’intero tempo della precipitazione. Un’ipotesi suicidiaria di tal genere potrebbe solo evocarsi nel caso in cui il Rossi si fosse arrampicato sul davanzale, rimanendo poi appeso per gli arti superiori mantenendo il corpo parallelo ventralmente al piano del muro; ma anche ove si fosse lasciato andare abbandonando la presa, un pur minimo spostamento soprattutto della parte superiore del corpo in divergenza dal muro avrebbe dovuto rendersi evidente, per l’involontario, anche se minimo, movimento di spinta che una manovra siffatta necessariamente comporta. Senza voler indulgere a interpretazioni suggestive, peraltro, appare indubbio che una dinamica di precipitazione del tipo di quella osservata nella specie può solo giustificarsi con un corpo inerte che sia lasciato andare, in posizione ventrale tangenziale alla parete; in modo, dunque, assolutamente incompatibile con un evento suicidiario.” E sempre il Prof Norelli a conclusione del proprio elaborato afferma:” Quanto, poi, alla assenza di segni attribuibili a azione violenta di terzi, sembra doveroso domandarsi in base a quali elementi di certa dimostratività il C.T. abbia inteso pronunciarsi, posto che, di tale aspetto, nella relazione non sono forniti alcuna elaborazione né alcun approfondimento, il che rende le conclusioni del CT del PM ulteriormente non condivisibili, sol che si consideri che taluni segni agli arti superiori, in particolare, risultano quantomeno suggestivi per possibili manovre di afferramento. E’ da rilevare, dunque e contrariamente a quanto sostenuto, come molteplici possano essere gli elementi che depongono per l’intervento di terzi nello svolgimento dei fatti che portò a morte il Rossi, sia per quanto attiene la dinamica considerata in sé (precipitazione del tutto anomala), sia per la lesività presentata la cui origine merita puntuale approfondimento e se è indubbiamente vero che molti fatti non possono ormai più avere possibilità di accertamento obiettivo, in quanto l’approfondimento avrebbe potuto/dovuto svolgersi all’epoca, per altri si ritiene che argomentazioni più attente ed una ricostruzione, pur tardiva, elaborata su base scientifica dei diversi aspetti della vicenda, esaminando anche il materiale fotografico presente nel fascicolo del PM, potrebbe indurre a riconsiderare ipotesi, fino ad ora accantonate, in assenza di puntuale ed approfondita motivazione”. Nessuna puntuale ed approfondita motivazione emerge dalla consulenza disposta dopo la riapertura del caso, anzi l’esatto contrario. E’ incontestabile che il Rossi non presentasse sul volto, parte sicuramente visibile del corpo alcun segno evidente di lesioni almeno sino alle 18 del pomeriggio del 6 marzo 2013, le lesini quindi devono essere state prodotte nel lasso di tempo che corre dalle 18 circa all’ora della precipitazione, 19.43.23, I consulenti della procura, in uno slancio di onestà intellettuale, affermano che le lesioni presenti nella parte anteriore del corpo siano compatibili anche con una ipotesi di colluttazione avvenuta ovviamente prima della precipitazione. Fermo restando il dato certo che neppure con la più ampia serie di ipotesi formulate e formulabili sia stato possibile per i consulenti attribuire a causa non estranea alla condotta ipotetica del Rossi la genesi di alcune lesioni, ( lesioni al polso sinistro, lesioni all’avambraccio destro, lesioni alla coscia destra tra le altre) altrettanto inconfutabile è il dato che se i fazzolettini sequestrati, rinvenuti nella scatola di cartone posta dietro la scrivania del Rossi, inopinatamente distrutti senza alcun avviso alla parte offesa e senza alcuna necessità, se sottoposti ad esame genetico, avrebbero potuto dirimere alcuni dubbi attese le considerazioni dei consulenti Cattaneo e Zavattaro. Se e qualora le tracce fossero state di natura ematica e se il sangue rinvenuto fosse appartenuto al Rossi e fosse stato lasciato sul fazzoletto a seguito di tamponamento della ferita sul labbro, automaticamente verrebbero scartate le ipotesi di una genesi delle ferite da strusciamento, ammesso che sia possibile, con la parte esterna della finestra in un tentativo di fuga ovvero a seguito di ripensamento, di risalita: non essendo per l’esito andate a buon fine le due ipotesi Rossi non poteva certamente aver provveduto a lasciare i fazzolettini all’interno del proprio ufficio. Analogo ragionamento deve essere svolto, sempre a confutazione di quanto affermato dai consulenti della Procura con riferimento alle macchie presenti sui pantaloni. Questa difesa non sa se i Consulenti di parte abbiamo potuto prendere visione delle dichiarazioni rese dal personale del 118 ma certamente quanto dichiarato da quel personale, concordemente, confligge drasticamente con l’ipotesi che le tracce di colore bruno rossastro presenti nei pantaloni possano essere conseguenza di uno strusciamento contro la parete in mattoni. Tutti i soggetti intervenuti affermano che i pantaloni di Rossi erano perfettamente puliti, con la piega tanto che tutti avevano notato l’abbigliamento, scarpe comprese. Pur non avendo fatto attenzione alla suola delle scarpe, la descrizione dei pantaloni è inequivocabile e, se si raffrontano le macchie presenti con il colore del selciato si ritiene di poter affermare che le macchie siano conseguenza del fatto che il corpo di Rossi sia stato girato su se stesso almeno due volte, dal medico legale intervenuto e dalla scientifica. Rimanendo sulle informazioni fornite dal personale del 118 si osserva come queste non si limitino alla descrizione dei pantaloni e delle maniche della camicia che riferiscono essere state abbottonate al polsino. A tutti è stato chiesto se abbiano o meno notato la presenza dell’orologio. Le risposte sono tutte univoche e sorprendenti in quanto non solo nessuno degli intervenuti ha notato la cassa dell’orologio posta a poca distanza dal corpo ma neppure hanno notato il cinturino che si trovava proprio accanto alla caviglia destra del Rossi e non lo ha notato uno dei volontari che ha abbassato i calzini che indossava Rossi per posizionare gli elettrodi alle caviglie. Se da un lato si può comprendere come nella concitazione del momento una persona possa non prestare attenzione all’ambiente circostante, nel momento in cui, accertato il decesso viene data precisa disposizione di raccogliere tutto il materiale e quindi viene svolta una ricognizione nelle zone limitrofe al corpo dove è stato comunque effettuato l’intervento, il fatto che nessuno abbia notato il cinturino dell’orologio lascia logicamente supporre che questo possa non esservi stato, allo stesso modo la cassa, poco lontana che essendo in acciaio e trovandosi nella zona illuminata dalla luce posta proprio sopra a questa avrebbe dovuto anche riflettere la stessa. Questa difesa è consapevole che in più occasioni, senza peraltro mai espressamente parlare di orologio ha rappresentato la possibilità che il grave che si vede cadere, con moto parabolico alle ore 20.16 ( 20.32 ora DVR) possa essere l’orologio, anche per la posizione che a seguito del rimbalzo può, detto grave, essere andato ad assumere in quiete, ma stanti le precise e circostanziate dichiarazioni dei volontari del 118 non si può escludere che l’orologio sia stato posizionato successivamente in loco. In tal senso, riesaminate le videoriprese effettuate con il telefonino, atteso che nelle stesse sono ripresi dall’ alto alcuni soggetti che prestano o hanno appena prestato i soccorsi ad integrazione delle richieste già formulate si chiede che sia disposta una nuova indagine sul suddetto video al fine di verificare se all’ora, nota, in cui gli agenti della scientifica effettuarono tali riprese, siano o meno visibili l’orologio ed il cinturino sul selciato. Non ingannino le macchie bianche che si vedono dall’alto in quanto se raffrontate con le fotografie in atti, queste rappresentano variazioni di colore della pavimentazione ma non risulta visibile alcun oggetto che rifletta la luce. Tornando alla consulenza Cattaneo Zavattaro se la stessa, sotto un profilo strettamente medico legale nulla ha apportato di dirimente alle indagini, evidenziando semmai la lacunosità di quanto svolto in precedenza, anche con riferimento alla dinamica della caduta, e per altri aspetti ancor più dirimenti, è da ritenersi del tutto insufficiente per non dire inutile. Eppure la ricostruzione ere da ritenersi indispensabile per verificare, secondo l’assunto della procura se ed in che modo Rossi potesse essersi procurato le ferite alla parte anteriore del corpo e se queste fossero state prodotte con “l’ausilio” di terze persone. Al fine di tentare una ricostruzione della dinamica, e con la necessaria attenzione al dato di fatto che sul filmato della caduta si sono basate molte delle ipotesi avanzate dai consulenti della Procura, filmato quanto alla genuinità sempre contestato da questa difesa, occorre svolgere alcune brevi considerazioni prima di riportarsi alla relazione del consulente di parte Ing. Scarselli che si deposita allegata alla presente memoria. Il ten. col. Zavattaro, per approfondire gli aspetti cinematici dell'evento, nel corso del sopralluogo del giugno dello scorso anno, provvedeva ad effettuare una ripresa di un’asta metrica, posta sulla verticale del punto di contatto a terra del corpo di Rossi, al fine di poter calcolare l’altezza a cui poteva trovarsi il corpo del medesimo durante la caduta. Il Col Zavattaro scriveva nella relazione a Sua firma: (omissis) ...Attraverso lo stesso sistema di videoregistrazione dell’epoca si è effettuata una ripresa delle operazioni, in modo da lasciare inalterate le eventuali distorsioni introdotte dall’apparato originale...(omissis) L’ unico modo, per poter effettuare un calcolo che potesse avesse una base scientifica, si fondava nella assoluta certezza che il sistema di registrazione nei due eventi, quello del 6 marzo e quello del 25 giugno fosse lo stesso. No solo tale certezza è lungi dall’esistere ma addirittura sussistono più che fondati dubbi per non dire certezze che i due sistemi siano stati realmente gli stessi e che quindi il consulente abbia comparato elementi di due video che non risultano essere stati generati dallo stesso sistema di videoregistrazione. Da ciò deriva ineluttabilmente che tutti i calcoli di natura cinematica, da riferirsi agli ultimi tre metri circa della precipitazione, siano affetti da errori, la cui entità non è determinabile. Scrive l’Ing Scarselli nella relazione che si deposita: “Preliminarmente, tuttavia, occorre richiamare quanto è stato già riportato nelle memorie tecniche precedenti e mai confutato: a) è un fatto che nella acquisizione dei due files ( i due files sono i due filmati quello più breve e quello più lungo relativi alla telecamera di videosorveglianza n. 6 in atti n.d.r.) effettuata dal tecnico Secciani (l’ unico la cui firma sia riconoscibile nel report di intervento) non siano state seguite le “best practices” della acquisizione forense di files video b) è un fatto che nel fascicolo della procura non siano mai stati inseriti i files *.arv estratti la notte del 7/03/2013, ma la loro estrapolazione in formato *.avi, creata il giorno 11/03/2013 (perché? ...la domanda si pone sia per la data di creazione che per il formato dei files del filmato). Solamente l’8 luglio 2016 sono stati acquisiti i due files con estensione *.arv, su supporto di memoria USB, trasmesso dalla Questura di Siena, dove era depositato. C’è un fatto che il supporto di memoria abbia una capacità pari a 8 GB e non di 4 GB, come descritto nella scheda tecnica compilata il 7/03/2013 e riportata in atti d) è un fatto che sugli stessi files non siano mai stati estrapolati i dati (il codice HASH) necessari per verificare che gli stessi non siano stati contraffatti nel tempo o modificati nella creazione delle copie. Ci si consenta di chiosare che la sola corrispondenza della data di un file non è garanzia alcuna di identità; qualsiasi studente al primo anno di un istituto tecnico è in grado di modificare tale parametro con facilità, senza bisogno di alcun software di hackeraggio. e) è un fatto che, al momento del sopralluogo, il videoregistratore da cui sono stati estratti i files di confronto (in relazione al quale il tecnico Valdambrini ha affermato trattarsi dello stesso videoregistratore in funzione la sera del 6/3/2013) fosse di modello differente da quello descritto in atti. Trattavasi di EVERFOCUS mod. EDSR e non di EVERFOCUS mod. EDR , come indicato dal Secciani nella scheda di intervento (secondo grave errore compiuto nella compilazione del report, se di tale evenienza trattasi, che fa seguito alla errata dimensione dei supporti di memoria) f) è un fatto che lo stesso videoregistratore risulti mancante di uno dei due Hard Disk di memoria, che risulta asportato dalla propria sede. g) è un fatto che nessun dato tecnico relativo alla videocamera (tipologia, apertura focale, ottica utilizzata) sia stato analizzato né alla data del 06/03/2013, né in occasione del sopralluogo del 25/06/2016. Sulla base di tali dati di fatto non contestabili, esaminati i files dei due filmati, quello della caduta e quello del sopralluogo l’Ing. Scarselli afferma:” Poiché i metadati di un file sono inseriti dal software (il programma) che li ha creati, possiamo affermare che i due files riferiti alla data del 06/03/2013 e quelli di confronto, estratti dal DVR il 25/06/2016, non sono stati generati dallo stesso software. Poiché un sistema di videoregistrazione è composto dal sistema di ripresa, dal videoregistratore e dal software che consente di estrarre i filmati dallo stesso, possiamo sicuramente affermare che, alla data del 25/06/2016 i files estratti non si riferiscono allo stesso sistema in funzione la sera del 06/03/2013.” Omissis – “non sono stati estratti da un supporto di memoria collegato alla presa USB del DVR utilizzato al momento del sopralluogo del 25/06/2016; nello specifico possiamo affermare che, non solo non vi è certezza che quel DVR abbia generato i files video del 06/03/2013, ma che è chiaro come gli stessi file *.arv non siano stati generati dal software ivi contenuto. - con elevata probabilità i due files del 06/03/2013, acquisiti alla data dell’08/07/2016, sono stati generati da un software installato su un pc, visto il maggiore dettaglio dei metadati. Possiamo insinuare, con elevata probabilità di cogliere nel segno seppure non avendone la certezza, che possano essere estratti dal software HDD READER PROGRAM, così come risulta da quanto riportato nel manuale fornito dal costruttore EVERFOCUS.” Poiché il Colonnello Zavattaro afferma”: Attraverso lo stesso sistema di videoregistrazione dell’epoca si è effettuata una ripresa delle operazioni, in modo da lasciare inalterate le eventuali distorsioni introdotte dall’apparato originale...” è evidente che non essendo lo stesso sistema e non avendo il Colonnello Zavattaro neppure appurato se lo fosse, necessariamente sono caducate tutte le ipotesi di partenza e messi in discussione tutti i risultati raggiunti in relazione alla analisi cinematica dell’ evento, per esempio la velocità di impatto, dalla quale desumere l’ altezza dalla quale il moto si possa essere originato. Ma gli approfondimenti eseguiti, anche con l’ausilio di altri programmi, indicati nella relazione, dall’Ing. Scarselli portano ad ulteriori riflessioni tutte fondate su dati tecnici anche del costruttore del DVR che inficiano ancor più il lavoro del consulente della Procura, ammesso e non concesso che quanto già evidenziato non sia da solo idoneo a disporre un accertamento specifico sul video, non per la eventuale identificazione delle persone che in più occasioni hanno fatto accesso nel video per una ipotesi criminosa che non interessa minimamente questa difesa se non nella parte in cui l’eventuale identificazione dei soggetti possa in qualche modo essere ricollegata a David Rossi ovvero alla Banca MPS ovvero ancora a terze persone non facenti parte direttamente di questa o non più facenti parte, ma per la necessaria certezza che quel video rappresenti realmente cosa accaduto la sera del 6 marzo e perché da questo si possano determinare senza vizi di partenza, velocità ed altezza di precipitazione. Nella parte della propria consulenza, relativa alle “Conseguenze del formato digitale dei files relativamente alla analisi cinematica del moto” il consulente della parte offesa dopo aver illustrato i motivi che lo portano ad affermare che i due filmati della caduta non siano stati estratti attraverso lo stesso supporto di memoria collegato alla presa USB del DVR utilizzato al momento del sopralluogo del 25/06/2016 e che nello specifico gli stessi file *.arv non siano stati generati dal software contenuto nel DVR attesa la più ampia descrizione dei dati di riferimento essendo i file della caduti corredati di più esplicativi metadati che indicano come la loro estrazione sia avvenuta per il tramite un software installato su di un PC e trattandosi di files mpg4 come gli stessi siano facilmente modificabili, quanto al calcolo delle distanze durante il moto del corpo, osserva: “Infatti il consulente della Procura ha proceduto, per via indiretta, al calcolo dei parametri cinematici del moto (distanza percorsa in un intervallo di frame, velocità stimata di arrivo a terra, altezza da cui si è originata la precipitazione) considerando le immagini estratte dai frames, alla stregua dei fotogrammi di una pellicola fotografica di un filmato; dalle informazioni di codifica dello stesso possiamo sicuramente affermare che non siamo in queste condizioni. Il formato video dei files (di tutti i files, sia quelli riferiti alla data del 06/03/2013 che quelli estratti durante le operazioni peritali del 25/06/2016) è l' MPEG4-Visual (standard matrix H.263), come risulta evidente dalla descrizione dei metadati, specificatamente per quelli del 06/03/2013. Brevemente, per meglio specificare a cosa ci si riferisca con il formato del file video, si deve puntualizzare quanto segue: per esigenze di riduzione dell'estensione dei files (in termini di dimensioni in byte), nella digitalizzazione di un filmato si mettono in atto delle elaborazioni matematiche che riducono il numero dei bit da memorizzare, o trasmettere. Ciò è possibile in ragione delle zone aventi stessa informazione nello stesso frame (una macchia di uno stesso colore, per esempio) oppure che risultino inalterate fra frames consecutivi (lo sfondo in secondo piano di un corpo in movimento); tale operazione matematica, ottenuta mediante un'elaborazione di vettori e matrici, si chiama codifica. Per la riproduzione del filmato, successivamente alla trasmissione della successione dei bit, occorre effettuare una operazione inversa detta decodifica, che consenta di associare alle informazioni codificate quelle proprie di ogni singolo pixel (scala dei grigi, RGB e altro). Ne deriva che, come è noto anche al grande pubblico, per poter visualizzare un filmato al PC, occorre disporre del CODEC (delle chiavi cioè di codifica e decodifica). Già quanto riportato finora fa comprendere come il metodo con il quale si sono calcolate le distanze del corpo durante il moto risulti effettivamente semplicistico, tuttavia c'è un'altra ragione sostanziale in base alla quale l'elaborazione dei consulenti della Procura non risulta essere corretta, che sarà chiaro nel seguito. Il formato MPEG4-visual fa parte di quei sistemi di compressione video che vengono definiti “lossy”, cioè comportano una perdita di informazione rispetto alla immagine in origine; infatti i “frames” elaborati in una codifica MPEG-4 non sono tutti e soli quelli che si otterrebbero dalla fotografia istantanea della scena ma, per ridurne la dimensione, vengono elaborati matematicamente. Se si tiene conto inoltre che, per la ridondanza spaziale, si opera sul singolo frame con matrici di 8x8 o 16x16 pixel per dare il valore ad ogni singolo pixel o inserire un macroblocco, risulta evidente che il colletto della camicia del Rossi, preso come riferimento per il calcolo della velocità della caduta, non solo non abbia una posizione certa da riferire all' asta metrica del 25/06/2016 (fissa e non in movimento), ma non sia univocamente individuabile. Nella consulenza, infatti ... “(omissis)...Per il Rossi si è scelto di utilizzare il bordo del colletto, più nitido rispetto ad altre parti del corpo e più stabile rispetto ad altre parti del corpo (quali la spalla destra o la mano sinistra, che pare abbia un movimento ‘fuori asse’ dovuto al probabile allargamento del braccio in prossimità del momento dell’impatto)...(omissis)” Sorge il dubbio fondato, per esempio, che la striscia bianca, associata dai consulenti, alla immagine dell' avambraccio sinistro, possa essere la traccia della caduta dei pixel bianchi della camicia, che producono una striscia in maniera analoga a quanto ricavabile per la testa e il volto del Rossi. Orbene, questa è una indeterminazione che dà conseguenze non da poco, se si considera che un errore di 30 cm sulla distanza percorsa dal corpo nella caduta, preso per buono l'intervallo di tempo stimato in perizia che contesteremo nel seguito, è in grado di spostare la quota dell'altezza di inizio precipitazione alla finestra del piano superiore, sulla quale non sono mai stati effettuati approfondimenti. Per quanto riguarda poi il calcolo dell'intervallo temporale fra i frames, seppure non contestando il metodo seguito in perizia, possiamo sicuramente affermare che quanto ricavabile durante la riproduzione del filmato non ha alcuna corrispondenza con quello in acquisizione. Contrariamente a quanto affermato dal tecnico Valdambrini, presente al momento del sopralluogo di giugno in occasione delle varie simulazioni, e su quanto dichiarato erroneamente dal medesimo si è adagiato acriticamente il consulente della Procura senza verificare con le schede del produttore quale fosse il frame rate su quale era impostata la ripresa della videocamera si deve affermare senza ombra di dubbio che questo era fisso e non variabile. Afferma il Col. Zavattaro: “Per le osservazioni di cui sopra non è comunque garantita una stabilità sulla frequenza di riproduzione delle immagini (frame rate), in quanto operativamente variabile a seconda dei movimenti percepiti durante la ripresa, pertanto risulta necessario procedere ad una misurazione diretta, con un sistema ad alta precisione, in grado di poter rilevare quantitativamente l’effettivo tempo che intercorre tra un fotogramma e il successivo all’atto della caduta del corpo...(omissis)” L’affermazione semplicemente non corrisponde a verità in quanto esaminata la scheda tecnica del produttore si rileva senza che ciò possa essere revocabile in dubbio che:” Dall' esame che lo scrivente ( Ing. Scarselli ndr) ha condotto sulla documentazione tecnica di corredo del DVR, redatta dal costruttore EVERFOCUS, si ricava come il sistema non sia in grado di avere un frame-rate (cioè una velocità di ripresa) adattivo, ma consenta di operare con due frame-rate differenti, impostati precedentemente, facenti capo al funzionamento “normale” e quello riferito ad eventi impostati, normalmente associato al movimento di un bersaglio nella zona di ripresa o in una matrice di pixel da definire. Omissis Poiché dalle 19:59:23 (orario DVR) del filmato del 06/03/2013, la scena presenta movimento continuo, ci sarebbe da aspettarsi un aumento del frame rate, rispetto a quelli di inizio ripresa. Invece, prendendo alcuni intervalli a campione, da quelli con immagine praticamente fissa a quelli relativi alla caduta, si ha praticamente lo stesso frame rate (fps frame per second). Le conseguenza sono facilmente intuibili e comunque ben precisate nella relazione tecnica: Essendo il DVR impostato su un frame-rate fisso le ipotesi sulle quali si basa il calcolo della velocità, per via indiretta dalla misura dello spazio e del tempo nota la accelerazione di gravità, sono da ritenersi errate con la inevitabile conseguenza che ogni risultato riferito a tale paragrafo della perizia sia da ritenere non valido. In particolare non è corretto il calcolo della distanza percorsa da un punto fisso della camicia durante la traiettoria in quanto affetto da un errore dovuto alla perdita dei dati del CODEC (lossy), come risultata evidente dall' approfondimento informatico sul file video; b) non è conosciuto l'intervallo di tempo che intercorre fra i fotogrammi. Rimanendo ancora sul video, altre peculiarità si sono palesate a seguito degli ulteriori accertamenti svolti sullo stesso che oltre alla presenza di persone, non semplici passanti che visto il corpo per ignavia o timore si allontanavano dimostrano come nel vicolo o meglio nelle finestre degli uffici della Banca MPS che su questo si affacciano vi sia stata una certa attività La visualizzazione del filmato della caduta con utilizzo di un nuovo software per la visualizzazione del filmato, ha portato alla scoperta di nuovi elementi che in orari ben precisi evidenziano una attività svoltasi alle finestre. Scrive l’Ing. Scarselli “Nei fotogrammi in successione che proponiamo è evidenziata la configurazione delle luci sulla parte superiore del fanale anteriore destro dell'autocarro. La variata disposizione delle luci proviene dalla riflessione di luci provenienti dall' alto, come risulta evidente dall' angolo che l'ipotizzato cammino del raggio ottico forma con la verticale a destra dell'immagine; è evidente come nessuna meraviglia debba destare la riflessione prima della precipitazione. Potrebbe essere stata prodotta dalla camicia bianca del Rossi durante il posizionamento sul davanzale. Quello che risulta inspiegabile è come una luce in posizione praticamente coincidente si generi dopo cinque secondi che Rossi è precipitato. Come se qualcuno avesse aperto o si fosse affacciato alla finestra ovvero acceso la luce. In varie occasioni questo difensore ha avuto modo di affermare che il video poteva essere stato manomesso. Esaminato nuovamente, con specifico software l’Ing. Scarselli, premesso che già nelle precedenti relazioni tecniche erano state avanzate serie perplessità sul video stesso, afferma: “Già nella relazione tecnica dell' ottobre 2015, senza essere a conoscenza del formato di compressione del file video originale e disponendo del solo file in *.avi, avevamo rilevato una zona dell' immagine (quella in fondo all' ingresso del vicolo, a sinistra) con una matrice di pixel che poteva essere originata da una matrice di filtraggio o ad un rumore localizzato. Nella trattazione attuale, proponiamo l'analisi con l'istogramma della scala dei grigi, ottenuto dalla elaborazione di due fotogrammi con MATLAB, in corrispondenza della comparsa dell'offuscamento localizzato che origina altresì l' insorgenza del “blocking”, cioè della nascita di un raggruppamento di pixel in una macroarea multipla di matrici di 16 pixel. Da questo esame e dagli altri che si confida vengano disposti, si rileva icto oculi la differente distribuzione del livello dei grigi fra 100 e 150, fra frames successivi ed in assenza di variazioni significative del contesto dell'immagine. Con onestà intellettuale e da ingegnere, il consulente della parte offesa scrive:” Resta aperta la questione se trattasi di artefatto da compressione (dovuto cioè al formato MPEG-4) oppure a qualche altra evenienza associata all' estrazione. Nelle evenienze associate all’estrazione, o successive a questa, trattasi di mera considerazione di questo difensore, non può escludersi che due riprese, in due giorni diversi possano essere state assemblate insieme, con utilizzo di programmi che lo consentono, al fine di eliminare – offuscare, quanto accadeva nella parte finale del vicolo, opposta a quella in cui era posizionata la telecamera n. 6. Attività evidentemente non perfettamente riuscita. Si riportano comunque le conclusioni alle quali è giunto il consulente di parte che si fanno proprie: “L' approfondimento informatico condotto sul file, mai effettuato durante le indagini tecniche dai consulenti, ha messo in evidenza criticità tali da mettere in discussione tutte i risultati di natura cinematica riportati in perizia. Infatti, dalla estrazione dei metadati dei files facenti riferimento alla notte del 06/03/2013, e da quelli estratti dal videoregistratore della videosorveglianza della banca durante il sopralluogo del 25/06/2016, si è evidenziato come gli stessi presentino un grado di dettaglio differente. In particolare, quelli estratti il 25/06/2016, non riportano alcun dettaglio sul formato video con il quale sono stati generati. La conclusione che se ne trae, essendo differente l'impronta sui files, è che siano stati generati da due software di dispositivi differenti, seppure con le caratteristiche di formato proprie o compatibili con quelle del costruttore EVERFOCUS. Durante le operazioni peritali il consulente tecnico ten.col. Zavattaro, sentito il tecnico P.I. Mirko Valdambrini, ha assunto per certo che il metodo di estrazione dei files fosse lo stesso, al fine di poter effettuare le comparazioni necessarie ai calcoli cinematici. Tale ipotesi non è verificata e quindi cadono le ipotesi sulle quali si basa lo studio effettuato in perizia. L' approfondimento condotto sul formato di compressione dei files video, MPEG-4 Visual, ha portato a conoscenza che, a causa di tale compressione, il filmato riprodotto non ha tutte le informazioni di quello in acquisizione (codifica lossy) e presenta artefatti tipici da compressione (il blocking per esempio, che consiste nel raggruppamento di pixel in macroaree). Ne deriva la impossibilità di misurare sui fotogrammi ottenuti da questo filmato i singoli pixel, che è il metodo riportato in perizia per il calcolo della velocità di precipitazione e quindi dell'altezza da cui si è originato il moto. In aggiunta, approfondendo le caratteristiche tecniche riportate dal costruttore per il DVR presente al momento del sopralluogo (di modello differente da quello descritto in atti), si è evidenziato come sia priva di fondamento l’affermazione che esso lavori con un frame rate (frequenza di acquisizione dei fotogrammi) adattivo al contesto, ma come tale parametro dovesse essere stato impostato fisso alla data delle riprese e mai ricavato in perizia dai consulenti. Con ciò viene a cadere anche la misura del tempo fra i fotogrammi, utilizzato per la misura indiretta dei parametri cinematici. Alla luce di ciò possiamo affermare che i risultati del paragrafo relativo agli approfondimenti cinematici vengono completamente ad essere privi di un qualsiasi supporto tecnico-scientifico. Ulteriori approfondimenti sull' artefatto (da compressione? da blocking?) evidenziabile in corrispondenza dell'ingresso del vicolo, a sinistra dell'immagine, hanno evidenziato una variata disposizione del contenuto informativo dei pixel in due frames consecutivi, in assenza di evidente variazione di contesto dell'immagine. Infine, l'analisi del video, condotta con software di maggiore definizione, ha portato ad evidenziare una serie di variazioni e riflessioni luminose, univocamente individuabili come presunta attività alle finestre della banca, sulla verticale dell'ufficio del Rossi, proseguita dopo la caduta dello stesso. Si puntualizza che l'attività tecnica messa in opera dallo scrivente in parte è tale da confutare le risultanze a cui giungono i consulenti, dall' altra parte introduce elementi innovativi (sulla analisi informatica dei files e sull' approfondimento relativo al sistema di videosorveglianza), mai emersi durante le indagini. Ci permettiamo pertanto, vista la importanza del reperto costituito dai files esaminati, di suggerire una futura attività di indagine tecnica che riguardi: - l' acquisizione delle informazioni del sistema di videosorveglianza, buona parte delle quali ignote (tipo di videocamera, caratteristiche sulla focale per esempio) - l' estrazione di filmati diurni e notturni dal sistema di videosorveglianza, utilizzando sia il software del DVR che l' HDD Reader, utilizzando come sorgente la traccia delle videocamere nell' Hard Disk - la verifica, nelle impostazioni del DVR, della data in cui risulta essere asportato l' Hard Disk, risultato mancante al momento del sopralluogo. - la richiesta, al costruttore EVERFOCUS, di fornire le impostazioni del CODEC, al fine di poter esaminare i files video direttamente con software di natura professionale, potendo quindi operare con tecniche di miglioramento. Questo anche al fine di poter meglio descrivere tutta quella attività di persone all' ingresso del vicolo, appena citata nelle indagini tecniche dei consulenti - la verifica della praticabilità, con algoritmi di decompressione a ritroso (“image restoration”), di ripristinare tutto quanto si è perso durante la compressione “lossy” del filmato. - l’utilizzo di sofware di analisi video e tecniche di correlazione, al fine di ricercare artefatti introdotti durante la codifica inter frames. Queste operazioni, a giudizio dello scrivente, rappresentano il minimo indispensabile, e quanto strettamente necessario, per poter effettuare uno studio scientifico della dinamica dell'evento; in assenza di ciò, l'unico utilizzo che si può fare del reperto in atti (i due filmati che si riferiscono al 06/03/2013) è quello specifico della videosorveglianza, cioè la segnalazione di accessi e le operazioni svolte dai soggetti che siano individuabili nella regione della ripresa. Quanto sopra dando per scontato la integrità dei filmati e l'assenza di artefatti che, al momento, soprattutto perché sui file di interesse nessun approfondimento informatico è stato condotto, non si possono a priori escludere. Le ulteriori evenienze processuali, in particolare l’acquisizione del tabulati originali e la ulteriore attività di indagine svolta con la assunzione di informazioni da parte del gestore della telefonia mobile, nonché quanto dichiarato dal Dott. Viola sentito come testimone nel processo che vede imputata la vedova Rossi impongono nuove considerazioni e richieste. Quanto affermato dal Gestore lascia perplessi, anche per le conseguenze che implica l’affermazione contenuta nella risposta data alla richiesta della Procura della repubblica. Affermare che un numero presente nei tabulati e riferito ad una chiamata che risulta essere stata effettuata in due occasioni dal telefono in uso al Rossi quando questi si trovava sul selciato è stato erroneamente rappresentato su questi, oltre a far correre un serio rischio di istanze di revisione in tutti i processi che hanno visto la loro definizione in base ai tabulati telefonici, l’errore potrebbe essersi verificato anche in altri casi, di per se non è sufficiente, in assenza di altre indagini specifiche ad escludere che tale numero sia stato effettivamente digitato sul telefono di Rossi. Interpellati da questo difensore per le vie brevi gli utenti dei cellulari che avrebbero avuto tale inopinata deviazione a seguito del ricorso al servizio SOS ricarica, gli stessi, e trattasi di Carolina Orlandi per quanto concerne la chiamata delle 20.16 e di Paolo Tripaldi per la chiamata delle 22.28. Chiamate alle quali risulta essere stata addebitata una durata e quindi che abbiano ricevuto risposta, gli stessi hanno escluso di aver fatto ricorso al servizio SOS ricarica. In particolare la Orlandi ricorda di aver chiamato, lungo il tragitto che dalla banca la conduce alla propria abitazione, ove si recava per avvertire a voce la madre, il proprio ragazzo e di aver mandato dei messaggi ad alcune amiche senza aver mai composto il numero 40916, per ricorrere al servizio di ricarica per esaurimento credito telefonico. Analogamente il giornalista Tripaldi che non ricorda di aver fatto ricorso a tale servizio, sembra assai strano a chi scrive che un giornalista che lavora necessariamente con il telefono possa rimanere senza credito. In ogni caso al fine di accertare se effettivamente tali persone abbiano fatto o meno ricorso al servizio citato occorre procedere alla acquisizione da parte di Telecom dei dati di fatturazione delle ricariche alle due utenze telefoniche in uso ai soggetti indicati. Sempre rimanendo in ambito telefonico ritiene indispensabile per i motivi che vedremo che sia acquisita la indicazione geografica delle stazioni radio base di tutti i gestori della telefonia mobile. Dai tabulati telefonici si evidenziano, nella giornata del 6 marzo 2013. Spostamenti del Rossi che vede agganciato il proprio telefonino a varie celle telefoniche, diverse da quella usuale che solitamente aggancia quando si trova nel proprio ufficio, celle che si trovano anche nella immediata periferia di Siena quasi ad indicare una uscita dello stesso dalla sede della banca MPS, ma non solo per recarsi con il fratello nella zona dell’ Antiporto di Camollia; l’esame dei tabulati indica anche come il telefono di Rossi non si sia trovato nell’ufficio dello stesso nell’orario che va dalla 19.06 alle 20.15 del 6 marzo ma probabilmente in altre zone della banca non da ultimo il sottopasso ove le suole delle scarpe di Rossi potrebbero aver calpestato quella sostanza bianca presente in queste ( come ipotizzato anche dal Col. Zavattaro). Ritiene questa difesa che ricostruire gli spostamenti del Rossi il pomeriggio del 6 marzo sia indispensabile considerato che altre persone per quanto dichiarato nelle sommarie informazioni in atti non hanno visto il Rossi nel proprio ufficio. Per ultimo e nella sempre denegata ipotesi in cui si propenda per l’ipotesi suicidaria si deposita verbale della fonoregistrazione della deposizione nel processo che vede imputata la Tognazzi Antonella, del Dott. Fabrizio Viola alla udienza del 22 febbraio 2017 dinanzi al Tribunale di Siena. La mail avente ad oggetto help e recante la frase: Stasera mi suicido sul serio Aiutatemi, se letta come preannuncio dell’ipotesi poi realizzatasi due giorni dopo, chi scrive la legge come una ironica affermazione di chi oberato dal lavoro non ce la fa a svolgere tutte le incombenze, visto che è stata inviata dopo il servizio del giornalista Pamparana sui mutui concessi ai cinesi a Prato, come a dire mancava anche questa storia, giornalista a cui Rossi dalla propria email risponde con lettera a firma di Viola, non può non avere alcun riflesso relativamente alla responsabilità del datore di lavoro. Viola, nelle deposizioni afferma di non aver letto la email, di aver letto quella più lunga dove chiedeva aiuto per andare a parlare con i Procuratori della repubblica di Siena, ma dice anche che le email al medesimo indirizzate, aggiunge questo difensore non solo quando lo stesso non si trovava nella sede della banca ma a maggior ragione quando si trovava fuori da questa venivano lette dalla sua segreteria composta da una o due persone, (la Pieraccini e la Bartolomei n.d.r.) Persone che si ritiene opportuno siano sentite per sapere se mai abbiano letto questa email e quale attività successiva alla lettura abbiano intrapreso. Si allegano: 1) Copia trascrizione verbale fonoregistrazione deposizione Dott. Viola; 2) CD contenente i files in copia operazioni 25.06.16 e chiavetta USB 08.07.2016; 3) Relazione Ing. Luca Scarselli.

Siena, 21 giugno 2017 Avv Luca Goracci

Procedimento N. 8636/2015 R.G.N.R.; N. 795/2016 R.G. G.I.P.

TRIBUNALE ORDINARIO DI SIENA UFFICIO DEI GIUDICI PER LE INDAGINI PRELIMINARI E DELL'UDIENZA PRELIMINARE

ORDINANZA CHE DISPONE L'ARCHIVIAZIONE (artt. 409 c.p.p.)

Il giudice, visti gli atti del procedimento indicato in oggetto iscritto a carico di ignoti per il reato di cui all'art. 580 c.p. c.p. in danno di David Rossi, deceduto il 6 marzo 2013; letta la richiesta di archiviazione depositata dal P.M. il 16 marzo 2017, unitamente alle opposizioni di Antonella Tognazzi e Carolina Orlandi, difese dall'Avv. Luca Goracci e, disgiuntamente, da Vittoria Ricci, Ranieri e Filippo Rossi e Simonetta Giampaoletti, difesi dall'Avv, Paolo Pirani a scioglimento della riserva trattenuta all'udienza camerale del 26 giugno 2017, sentito il pubblico ministero e i difensori degli opponenti;

OSSERVA

Premessa Sì procede con riferimento alla morte di Davide Rossi, all'epoca responsabile dell'area comunicazione di Banca Monte dei Paschi di Siena, avvenuta per precipitazione dalla finestra del suo ufficio, sito al terzo piano dell'immobile di proprietà della banca che affaccia sul vicolo Monte Pio, ove fu rinvenuto cadavere intorno alle 20.30 del 6 marzo 2013.

La Procura della Repubblica - rappresentata dal Dott. Marini, di turno esterno, al quale furono affiancati i Dott.ri Nastasi, Natalini e Grosso, nell'eventualità interferenze con i procedimenti all'epoca pendenti a carico dei vecchi vertici della banca dei quali erano assegnatari - iscrisse il procedimento nel registro delle notizie di reato (proc. n. 962/2013) ipotizzando la consumazione del reato di cui all'ad. 580 c.p. - istigazione o aiuto al suicidio e diede avvio ad una accurata attività investigativa che normalmente non si riserva ai casi di suicidio, ma che questo frangente era giustificata, ed anzi necessitata, dal ruolo che la vittima aveva rivestito all'interno dell'istituto bancario travolto dallo scandalo Antonveneta e da quello sui derivati (ed infatti il mese precedente, pur non essendo indagato, Rossi aveva subito la perquisizione locale del domicilio e dell'ufficio).

I pubblici ministeri si recarono personalmente sul luogo del fatto e presero parte alle attività di sopralluogo, perquisizione ed ispezione che, fra la notte del 6 marzo d il pomeriggio del giorno seguente, interessarono il tratto del vicolo Monte Pio ove fu rinvenuto il cadavere di David Rossi ed il suo ufficio, e che condusse al sequestro di materiale di primario interesse investigativo, in particolare il filmato della telecamera di sicurezza della banca che aveva ripreso la parte finale della caduta, tre lettere di addio indirizzate ad Antonella Tognazzi (Toni), la moglie, trovate a pezzi nel cestino a fianco della scrivania e l'I-Phone della vittima, rivelatosi utile per la lettura dei messaggi di testo e per la rubrica.

Sul posto fu inoltre convocato il Prof. Mario Gabbrielli, ordinario di medicina legale dell'Università di Siena, che compì la prima ispezione esterna sul cadavere che il giorno dopo sottopose ad autopsia, nell'ambito dell'incarico di consulenza tecnica conferitogli dai pubblici ministeri per l'accertamento delle cause della morte.

Furono poi sequestrati e successivamente sottoposti ad accertamenti informatici, diversi supporti - computer portatili e fissi, pen drive ecc... - sequestrati nell'ambito delle attività di perquisizione che, da palazzo Salimbeni, furono estese all'abitazione di David Rossi, al suo veicolo e ad un ufficio di cui disponeva presso la sede di Milano.

Fra i documenti informatici debbono essere menzionati anche i messaggi di posta elettronica ricevuti ed inviati dalla vittima negli ultimi 30 giorni, che la polizia giudiziaria acquisì il 7 marzo dal responsabile dell'area facility managment di BMPS. Dott. Bernardini.

Si citano infine, per l'importanza rivestita nella ricostruzione delle ultime ore di vita della vittima e del suo stato emotivo, le dichiarazioni rese dalle persone informate dei fatti (familiari, colleghi di lavoro, ed altri) e i tabulati del traffico telefonico delle utenze (quella mobile e quella fissa) in uso a Rossi.

Terminata l'indagine, i pubblici ministeri chiesero l'archiviazione del procedimento per l'insussistenza del fatto.

All'archiviazione si oppose Antonella Tognazzi, lamentando l'oscurità delle modalità di acquisizione di certe fonti di prova e, complessivamente, la superficialità dell'attività investigativa.

L'opponente sosteneva che il marito fosse stato ucciso, adducendo come la precipitazione al suolo, caratterizzata da un moto perfettamente verticale, fosse poco compatibile con l'ipotesi che si fosse lanciato volontariamente nel vuoto. Il cadavere inoltre presentava lesività indipendenti dalla caduta, che quindi non potevano essere state cagionate che da un terzo.

Inoltre, quand'anche si fosse trattato di suicidio non era stata adeguatamente verificata l'eventualità di una responsabilità dei vertici aziendali per omicidio colposo con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o l'intervento di terzi istigatori.

Con arto depositato il 5 marzo 2014, il giudice per le indagini preliminari rigettò l'opposizione ed archiviò il procedimento con una ordinanza che è necessario richiamare testualmente - contraddistinta da un diverso carattere si stampa - sia perché costituisce l'antecedente processuale dell'odierna delibazione, sia perché contiene la dettagliata esposizione di tutte le emergenze indiziarie, che quindi, nel seguito, si daranno per note.

La prima ordinanza

Circa tempi e causa del decesso del ROSSI, in forza della CT medico- legale del prof. GABBRIELLI (esperita nelle forme dell' art. 360 c.p.p., alla effettiva presenza di un CTP nominato dalle pp. 00.1 ancorché diverso dal prof. Norelli, autore delle successive note critiche, allegate all'atto di opposizione di che trattasi in questa sede) deve ritenersi assolutamente certo che "la morte fu determinata da shock traumatico per lesioni osteo-viscerali multiple toraciche (fratture costali multiple., stravasi emorragici polmonari endoalveolari infiltrazione emorragica della radice aortica) .encefaliche... (frattura occipitale con edema cerebrale) e del rachide (frattura da scoppio di L4) e sopravvenne dopo pochi minuti dalla produzione delle lesioni.[..] Le lesioni mortali i furono prodotte per violento urto dello testo e del tronco contro una superficie rigida anelastico per precipitazione do gronde altezza".

Non contestate su questo punto le conclusioni del CT medico legale prof. Gabbrielli, l'opponente (alla luce delle note del proprio CT prof Norelli) solleva invece perplessità rispetto alle ulteriori conclusioni, attinenti all'assenza nel corpo dei defunto di segni attribuibili a azione violento di terzi ed alla presenza di lesioni do taglio agli avambracci e ai polsi, prodotte poco prima della precipitazione per meccanismo autolesivo, dalle quali pure il prof Gabbrielli fa discendere la sua valutazione tecnica complessiva di piena compatibilità della morte de qua con l'evento suicidiario.

Tali perplessità o critiche dell'opponente non sono nondimeno minimamente fondate. Quanto all'assenza sul corpo del ROSSI di tracce obiettive riferibili ad atti di violenza altrui ragionevolmente il prof. Gabbrielli lo afferma, ritenendo che anche tutte le lesività non letali rilevate sul corpo del defunto, al volto, addome ed arti inferiori e superiori - ad eccezione di quelle riferibili ad autolesionismo - trovino la loro causa e genesi nella fase finale del tragico volo, ovvero nell'impatto (non avvenuto nel medesimo istante) delle varie parti dei corpo del ROSSI con il suolo. Considerato invero che, come mostra chiaramente il filmato della video camera che ha ripreso la drammatica fase di atterraggio del de cuius (giunto vivo a terra) è di tutta evidenza che il primo violentissimo impatto al suolo è avvenuto con i glutei, per la precisione con una maggiore e anticipata aderenza a terra della natica destra, a causa di una leggera rotazione sagittale del corpo sul fianco destro - in tal modo venendo attutito l'impatto, che immediatamente ne è seguito, delle gambe allungate in avanti parallelamente al suolo e con il tronco, oramai privo dei sostegno della cassa toracica in quanto esplosa al precedente violento impattare sul selciato (ed effetto "sacco di noci") molto reclinato in avanti verso le gambe stesse, ecco che, contrariamente a quanto assume l'opponente, appare riscontrata la compatibilità con questa prima fase dell'atterraggio, sia delle lesività cutanee (quali aree disepitelizzate ed escoriazioni violacee) rilevate in corrispondenza di fianchi e gambe (più accentuatamente a destra stante l'inclinazione del corpo giusto appunto da quella parte) e sia pure dell'ulteriore tenue lesività apprezzata all'addome e più precisamente in zona paraombelicale: quest'ultima con ogni probabilità derivante dal contatto e dallo strusciamento dei tessuti molli dell'addome contro la fibbia in metallo della cintura dei pantaloni indossati dal defunto, durante il già descritto piegamento del busto verso le gambe allungate in avanti.

Considerato poi che, continuando a scorrere le immagini dei suddetto filmato, si rileva chiaramente che dopo il primo impatto di natiche (necessariamente il più violento), il corpo ha effettuato un rimbalzo all'indietro e che, così sollecitato, il tronco sì è risollevato dalla posizione reclinata in avanti, assumendo dapprima una posizione perpendicolare al suolo per poi, completando la rotazione all'indietro, far aderire a terra schiena, testa nonché le braccia interamente distese ed allungate sopra la testa stessa e che nel contempo le immagini del ridetto filmato documentano che nel momento in cui la schiena ha impattato al suolo il volto del. ROSSI era piegato a sinistra e che soltanto in seguito ad un'ultima sollecitazione rotatoria ha raggiunto una posizione di quiete perfettamente frontale, ecco che francamente dei tutto fuori luogo appaiono le 4 perplessità sollevate dalli opponente (e dal CT.p. Norelli) anche in merito alle lesività cutanee rilevate in corrispondenza del volto (più significativamente a sinistra), nonché della parte dorsale delle braccia, stante che pure la loro genesi si rivela assolutamente compatibile con la dinamica della caduta; anziché,  come sadombra ma non si dimostra, con l'azione violenta di terzi in una supposta, ma mancante del più minimo elemento di riscontro, aggressione antecedente alla defenestrazione, trovandosi - sempre a seguire la logica della contro ipotesi, puramente teorica, adombrata dall'opponente - la vittima e l'omicida ancora all'interno dell'ufficio del terzo piano.

Altrettanto senza fondamento la difesa della p.o. opponente sostiene che le evidenze probatorie non offrano riscontro alle lesioni da taglio agli avambracci e ai polsi di modesta entità, prodotte poco prima de/la precipitazione per un meccanismo autolesivo, di cui non soltanto al punto 5 delle conclusioni della CT medico legale del prof. Gabbrielli, ma anche al referto e alla relazione medica approntati dai medici del 118.

Ed a fronte della contestazione da parte della difesa opponente, se non della origine di siffatti taglietti a polsi e avambracci, della relativa datazione, inferibile dall'indicazione temporale usata dal CT Gabbrielli (ove si esprime in termini di "poco prima della precipitazione"), è agevole per converso richiamare la difesa stessa a prestare attenzione al cerotto ancora presente, al momento del rinvenimento del cadavere, sul polso sinistro della salma, a coprire una di queste lesioni, ad un altro cerotto, evidentemente staccatosi durante la caduta o al momento dell'impatto, ritrovato accanto al cadavere, nonché ai fazzolettini sporchi di sangue, trovati all'interno del cestino dell' ufficio del dott. ROSSI e, da ultimo, alle cartine di protezione per cerotti da automedicazione, rinvenute sul pavimento ed all'interno del cestino del bagno posto nello stesso corridoio ed a poca distanza dall'ingresso dell'ufficio del compianto dott. ROSSI, trattandosi di ulteriori riscontri, in presenza dei quali la valutazione del CT medico legale del prof. Gabbrielli in termini di compatibilità di tali lesioni con meccanismi di autolesionismo compiuti poco prima della precipitazione deve ritenersi addirittura prudenziale, posto che le risultanze complessive, anche a tale riguardo, convergono addirittura verso la certezza.

Tutto ciò esposto e considerato, non meno avulse dalle concrete risultanze istruttorie versate in atti ed anzi in contrasto con le stesse - di talché anche fuorvianti- appaiono le ricostruzioni meramente ipotetiche elaborate nell'interesse della difesa opponente dal CT ing. Scarselli, relativamente alla posizione assunta dal ROSSI sulla finestra nei frangenti immediatamente precedenti all'inizio della precipitazione.

Premesso che, l'ing. Scarselli conclude per l'assenza di segni lasciati dalla vittima sulla finestra dalla quale si sarebbe lanciato, in stridente contraddizione con altri passaggi delle sue elaborazioni, ove dà, in modo più obiettivo, conto di segni inequivocabili in tal senso, rilevati dagli inquirenti in sede di primo sopralluogo, in corrispondenza del davanzale di detta finestra, costituiti da 4 cavetti in metallo "anti-volatili" - di cui tre sottostanti ed il quarto sovrastante una sbarra metallica di protezione anti-caduta posta a 35 cm dalla soglia - significativamente incurvati verso il basso e con una delle due estremità (quella di sinistra) sganciate dal muro, unitamente a lievi scalfiture della parte inferiore della intelaiatura in legno della finestra, oltre che a frammenti di legno sul davanzale, sia all'interno che all'esterno del davanzale stesso, non c'è chi non veda come trattasi di segni del tutto compatibili con una salita sul davanzale in questione di una persona che, da qui, presumibilmente previo iniziale appoggio in posizione seduta o quasi sulla suddetta barra di protezione, con la schiena verso l'esterno ed i piedi appoggiati sulla soglia (il che spiega anche le tracce di materiale lapideo bianco - come bianca è la soglia, in marmo o materiale simile della finestra di che trattasi, rilevata sotto la suole delle scarpe del defunto, come pure spiega la lieve lacerazione della pelle presente sulla punta delle scarpe - dandosi il suicida una lieve spinta, con i piedi puntati contro l'intelaiatura in legno della finestra, si è lanciata cadere, all'indietro, per non vedere l'altezza ed il vuoto.

Se tutto questo non si dovesse ritenere sufficiente (ma così non è) a offrire la piena dimostrazione della morte cagionata, non dalla violenta azione di terzi, bensì da atto di auto-soppressione, come non considerare l'assenza del benché minimo segno e traccia - - di aggressione ante (ipotetica) defenestrazione all'interno dell' ufficio del ROSSI, trovato invero in perfetto ordine - come mostrano sia le immagini del filmato svolto con il video telefonino intorno alle ore 20.40 dal primo ufficiale della polizia di stato (sovr. Marini Livio) che vi ha fatto ingresso, e sia pure i rilievi fotografici delle successive ore 1.30 circa - e come non tener conto da ultimo, quale ulteriore e dirimente riscontro, delle tre lettere incomplete costituenti all'evidenza, in una con l'ultimo commiato alla moglie l'esternazione della volontà suicidiaria da parte di colui che sta per metterla in atto ("Ciao Toni, mi dispiace ma l'ultima cazzata che ho fatto è troppa grossa. Nelle ultime settimane ho perso"; "Ciao Toni, Amore l'ultimo cosa che ho fatto è troppa grossa per poterlo sopportare. Hai ragione, sono fuori di testo da settimane"; "Amore mio, ti chiedo scusò ma non posso più sopportare questa angoscia in questi giorni ho fatto una cazzato immotivata, davvero troppo grossa. E non ce la faccio più credimi, è meglio così").

Molto debole è invero l'argomento opposto della difesa TOGNAZZI, desumendolo dal fatto che le tre lettere di commiato erano state dal defunto cestinate, secondo cui il ROSSI, ancorché dopo averci pensato, avrebbe accantonato il proposito suicidario, salvo poi essere rafforzato in tale intendimento da terzi e quindi dietro l'imput di questo supposto istigatore metterlo in atto - se non addirittura, come si adombra dalla parte opponente, essere direttamente ucciso per mani di altri (i) - ove si consideri che molto più semplicemente e con piena aderenza alle concrete risultanze, i tre messaggi incompleti e cestinati trovano una spiegazione del tutto congrua nella incapacità di trovare le parole "giuste" (che invero non esistono) da scrivere per spiegare ed al tempo stesso per chiedere scusa alla persona amata per un atto estremo e del tutto irrazionale quale il suicidio, nel momento cui si è definitivamente deciso di attuarlo.

E contrariamente ai rumors della stampa, nei primi giorni delle indagini, circa l'esistenza di una lunga telefonata che il dott. ROSSI avrebbe intrattenuto con una persona in corso di identificazione dopo l'ultima chiamata fatta alla moglie, per concordare l'orario del rientro a casa, è il caso per converso di sottolineare come i tabulati del traffico telefonico dei telefoni cellulari e del telefono fisso di Ufficio del dott. Rossi sono dimostrare che quest'ultimo si chiude nel più assoluto isolamento poco dopo lo scoccare delle ore 18 del giorno in cui, due ore più tardi (quando tutti i colleghi di lavoro erano usciti), si sarebbe ucciso, dopo un breve colloquio con la collega Chiara GALGANI dai contenuti ed atteggiamenti complessivamente congrui ed implicanti, all'apparenza, anche programmi di lavoro per, il giorno successivo (stante che ROSSI confermava alla GALGANI che l'indomani avrebbe accompagnato l'amministratore delegato VIOLA ad un evento a Firenze) e dopo un'ultima telefonata, pure essa dai toni contenuti, ancorché sbrigativi, all'apparenza tranquillizzanti, fatta alla moglie alle ore 18:02, per confermarle il ritorno a casa alle 19 e 30. Dopo di allora nessun'altra chiamata risulta il Rossi aver più fatto ed a nessun altra telefonata aver egli più risposto ed inoltre ne risulta inviato sms, né risposto ed anzi nemmeno letto gli sms che sono continuati ad arrivargli, principalmente dalla moglie, pure con ciò il suicida denotando la volontà oramai definitivamente e tragicamente maturata nel proprio intimo, senza sollecitazioni o rafforzamenti da parte di terzi, di prendere commiato dal mondo, in una con l'intendimento di creare le condizioni (quali le rassicurazioni alla moglie circa il suo arrivo a casa all'ora convenuta, il normale colloquio di lavoro con la collega per non allarmarla ed indurla a lasciare normalmente il posto di lavoro) affinché, nell'attuazione di questo suo ultimo disperato proposito, non gli fosse invero più di intralcio niente e nessuno.

Per concludere la ricostruzione delle ultime ore di vita del ROSSI ed al fine di confutare le asserzioni dell'opponente circa molteplici punti oscuri e inesplorati dalle indagini, attinenti a modalità e tempistica degli accertamenti operati dagli inquirenti nelle ore immediatamente, successive al rinvenimento del cadavere del dott. ROSSI, sulla scorta delle minuziose risultanze istruttorie versate e documentate in atti, è opportuno precisare quanto segue.

L'ultima persona che la sera del decesso ha visto vivo il ROSSI è stata la predetta GALGANO alle ore 18.00 circa. Ella quando alle ore 19.30 lasciava il posto di lavoro, transitando davanti all'ufficio (attiguo al proprio) del ROSSI Io trovava chiuso. Alla portineria posta nell'androne principale dell'edificio la GALGANO interloquiva con il portiere RICCUCCI. Alla domanda rivoltale da quest'ultimo su chi ci fosse ancora a lavorare nell'ala del terzo piano del palazzo dal quale ella proveniva, la GALGANO rispondeva che c'era ancora sicuramente la collega BONDI - che lavora nella sua stessa stanza), mentre non era sicura che ci fosse ancora il ROSSI dato che la porta del suo ufficio (due porte dopo il proprio) era chiusa. A questo punto la presenza del ROSSI era stata confermata alla GALGANO dallo stesso portiere RICCUCCI dicendole che non lo aveva visto uscire.

Alle ore 20.05 circa anche la BONDI aveva lasciato il posto di lavoro e transitando pure essa, in ragione della vicinanza e dell'apertura sullo stesso corridoio dei due uffici, dinanzi a quello del ROSSI aveva notato la porta aperta e la luce accesa ed all'interno non sembrava esserci nessuno. La BONDI che non faceva caso a come si presentasse la finestra (se chiusa o aperta), aveva supposto che il ROSSI fosse in giro per altri uffici (fermo restando che poteva trovarsi anche all'interno del bagno, dove si ricordi che sono state individuate tracce del recente uso di cerotti corrispondenti a quelli che sono stati rinvenuti applicati sulle ferite ai polsi del ROSSI). E' il caso di precisare che erra l'opponente nel sostenere che a quell'ora il ROSSI doveva essere in realtà già morto. Questo perché l'orario, delle 19.59, riportato sulle immagini del filmato della videocamera di sorveglianza che riprende gli ultimi tre metri della precipitazione del ROSSI e si sfalsato di circa 10-15 muniti, sennonchè non va corretto - come fa il difensore - arretrandolo della stessa frazione oraria e cioè collocando la morte del ROSSI tra le ore 19.44 e 19.49 precedenti, bensì stante che gli inquirenti hanno accertato che l'orologio dell'impianto di video sorveglianza era in ritardo, l'ora della morte del ROSSI va per converso spostata in avanti alle ore 20:10 - 20:15. Quindi il ROSSI pur celandosi alla vista della BONDI, presumibilmente anche perché recando visibili segni delle autolesioni che con ogni probabilità si era appena inferto, non intendeva sottoporsi a imbarazzanti spiegazioni, è pressoché certo che fosse ancora vivo. Ed in virtù di tutto questo, di nessuna aderenza alla emergenze probatorie è la ulteriore considerazione della difesa opponente secondo cui giacché il FILIPPONE - che è la persona, amico nonché collega del ROSSI, che per primo alle ore 20.35 circa entrando nella stanza dello stesso ed affacciandosi alla finestra spalancata, fatta la tragica scoperta dà l'allarme, ancorché chiamando soltanto il 118 e non anche la polizia - riferisce alla vedova TOGNAZZI - ma non invero direttamente agli inquirenti quando viene assunto a s.i.t. - di aver trovato la stanza del defunto chiusa, un terzo soggetto - ovvero, nella prospettiva dell'opponente, il presunto istigatore dei suicidio se non il diretto omicida - l'avrebbe chiusa, lasciato non visto la stanza del delitto. Per converso, in forza del materiale probatorio disponibile a chiudere la porta della stanza, prima di accingersi al micidiale salto nel vuoto, si deve ritenere che sia stato lo stesso suicida. Si è già detto che il primo ad accedere dopo la tragedia nella stanza del ROSSI è stato Giancarlo FILIPPONE, intorno alle 20.30. collega nonché buon amico del medesimo che avendo smesso di lavorare, quella sera intorno alle ore 18, dopo che la vedova TOGNAZZI, poco prima delle ore 20.00, gli aveva telefonato chiedendogli di andare a controllare cosa stesse facendo il marito in quanto non era ancora rientrato a casa e dopo che anche lui aveva cercato, senza ottenere risposta, di comunicare con il ROSSI, con un sms, era ritornato in ufficio, intorno alle ore 20.30 e, entrando nella stanza di David ed affacciandosi alla finestra aperta aveva visto, nel vicolo sottostante, il corpo esanime del collega ed amico. A quel punto aveva dato l'allarme al portiere RICCUCCI, nonché comunicato la tragica notizia anche alla figlia (ventunenne) della TOGNAZZI, Carolina ORLANDI, pure essa mandata dalla madre (bloccata a casa dalla convalescenza per una brutta polmonite) alla ricerca di chi era oramai atteso a casa da circa un'ora.

Mentre il FILIPPONE, l'ORLANDI ed il RICCUCCI stavano percorrendo il corridoio che dall'ufficio del ROSSI riporta alle scale principali e quindi all'uscita, dall'altra ala dello - stesso piano (il terzo) del palazzo, i tre avevano visto sopraggiungere Bernardo MINGRONE (capo ufficio della direzione Finanziaria della Banca). Riferisce nelle sue s.i.t. - quest'ultimo che, appresa anche lui la sconcertante notizia, accompagnato dal FILIPPONE, si era recato, nella stanza del ROSSI constatando, affacciandosi alla finestra che lo stesso giaceva al suolo esanime nel vicolo sottostante. Quindi riunitosi i tre uomini nel vicolo sottostante attorno al collega che, riverso a terra supino con i piedi rivolti verso l'edificio (nella stessa posizione in cui sarà rinvenuto dai soccorsi medici e 8 della polizia), non dava segni di vita, era stato proprio il MINGRONE (quindi vi è già risposta, negli atti, all'interrogativo che anche a tale riguardo pone la difesa TOGNAZZI nella sua opposizione) appreso da FILIPPONE e RICCUCCI che non lo avevano ancora fatto, a chiamare il 118. Ritornando al più volte menzionato filmato della telecamera della videosorveglianza n. 6, mette conto precisare che le immagini mostrano per circa venti minuti il corpo immobile e senza più segni vitali (con piena convergenza con la morte sul corpo per cui conclude la CT medico legale del prof. Gabbrielli) del ROSSI prima che un passante se ne accorga, accedendo a quel vicolo senza sfondo e scarsamente frequentato ed allontanandosi nel giro di pochi istanti, probabilmente per chiamare la polizia tanto che la chiamata alla sala operativa, seguita a distanza di pochissimi minuti dall'arrivo di un equipaggio della Volante sul posto è pressoché sovrapponibile alla rapida inquadratura di detto passante (20:40). Mette conto soffermarsi a questo punto sulla tempistica degli arrivi della polizia e dei magistrati requirenti in loco, nonché sulla cronistoria degli atti di indagini espletati nelle ore immediatamente successive al rinvenimento del cadavere. Orbene tutto è minuziosamente documentato. Un equipaggio della Volante, comandato dal Sov. L. Marini, viene inviato sul posto, in seguito alla segnalazione del rinvenimento del cadavere, giunta telefonicamente alla sala operativa alle ore 20.40 circa. Quando nel giro di pochi minuti successivi la pattuglia della volante giunge in loco, preso atto che il 118 è già stato chiamato (i medici al loro arrivo si impegneranno in manovre di rianimazione che rimarranno prive di ogni risultato), guidato dal MINGRONE, il capo equipaggio in persona del già nominato Sov. Marini si faceva condurre nella stanza del deceduto ed effettuato un primo filmato mediante il proprio video telefonino, usciva chiudendo la porta a chiave, che portava con sé. Nel frattempo sul posto erano giunti oltre ai soccorsi medici anche i Carabinieri, tra cui il comandante della Stazione di Siena Centro (m.11 Cardiello), il quale nell'atto di informare telefonicamente dell'accaduto il PM di turno, cioè il dott. N. Marini, riceva da questi l'ordine di piantonare l'ingresso dell'ufficio del ROSSI, fino al suo arrivo. L'ordine veniva eseguito. Intorno alle 21.30 giungevano i sostituti N. Marini, A. Natalini e A. Nastasi e ivi trattenendosi fino alle 23:30 effettuavano un primo sopralluogo all'interno dell'ufficio, alla ricerca di prime tracce utili alla ricostruzione ed alla spiegazione di quanto avvenuto. Dopo di che, giusto appunto alle ore 23.30, la stanza dell'ufficio del deceduto veniva sequestrata, la porta d'ingresso chiusa a chiave - la chiave depositata in Questura - e sigillata con carta. L'ufficio piantonato dai Carabinieri. Sempre alle 23.30 dopo l'intervento del medico legale e della polizia scientifica il cadavere del ROSSI veniva rimosso per essere trasferito presso il dipartimento di scienze medico legali (per una più accurata ispezione esterna del cadavere oltre che per l'autopsia, questa disposta su esplicita richiesta della famiglia, laddove i sostituti procuratori, essenzialmente per rispetto della salma e non ravvisandone l'assoluta necessità, inizialmente avevano pensato di non eseguirla (anche su ciò la difesa opponente calcando in modo eccessivamente critico l'accento, sembrando insinuare incapacità e miopia investigativa, se non di peggio, senza nessun fondato sospetto ex ante e riscontro investigativo ex posto ad autopsia eseguita).

Alle successive ore 00:30, di nuovo avuta la presenza in loco dei sostituti NATALINI e NASTASI rimossi i sigilli alla stanza del ROSSI, la polizia scientifica aveva effettuato un più accurato sopralluogo documentandolo anche fotograficamente che si concludeva alle ore 01.50 ed a questo punto l'ufficio veniva di nuovo richiuso e sigillato con nastri di carta bollati e controfirmati, nonché piantonato continuativamente da un componente dell'equipaggio della Volante 2 della Squadra Mobile.

Queste le precauzioni, assolutamente congrue, adottate per assicurare l'integrità del campo delle indagini da eseguire in loco, prive di fondamento sono per converso le perplessità e gli interrogativi con cui la difesa della p.o. opponente lascia trasparire dubbi di inquinamento probatorio, laddove evidenzia come il confronto tra il filmato mediante video-telefonino effettuato dal Sov. Marini al primo accesso nell'ufficio del deceduto poco dopo le ore 20.40 ed i rilievi fotografici della polizia scientifica .durante il loro sopralluogo dalle ore 0:30 alle ore 1:30 circa successive consente di apprezzare lo spostamento della giacca del deceduto appoggiata allo schienale della sedia con ruote della scrivania, nonché degli occhiali del deceduto, con ciò la difesa subodorando l'ingresso di terzi soggetti in detta stanza, alla ipotetica ricerca e/o eliminazione di tracce della sua precedente presenza, fisica ovvero virtuale (cioè mediante collegamenti on line), che ne potessero rivelare il coinvolgimento attivo nei suicidio se non - nella prospettiva ancorché più remota mai abbandonata dalla difesa opponente nell'assassinio del ROSSI. Ipotesi assolutamente sganciata dal contesto reale ove si consideri che, tranne che nelle ore in cui nel corso della lunga notte operativa tra il 6 ed 7 marzo, gli stessi inquirenti si sono trattenuti all'interno dell'ufficio del defunto (mette conto ribadire ininterrottamente dalle 21.30 alle 23.30 quindi dalle successive 0,30 fino alle 1.50) intenti nella doverosa ricerca di tracce di eventuali reati e di eventuali indizi di colpevolezza attingenti specifici soggetti - in tali operazioni, tutte debitamente documentate anche fotograficamente, inevitabilmente muovendo e spostando alcune cose - è stato piantonato dalla polizia, oltre che chiuso a chiave (la chiave depositata in questura) e sigillata la porta d'ingresso. Ciò detto, si deve infine aggiungere che, contrariamente ai punti oscuri denunciati anche a tale specifico riguardo dalla difesa che si oppone all'archiviazione chiedendo supplementi di indagini assumendo pure sotto questo aspetto che vi sia ancora da fare chiarezza, che nessun mistero aleggia intorno ai quattro ingressi, o presunti tali, al P.C. fisso dell'ufficio del ROSSI dopo il suo decesso, segnatamente, per come rilevato dall'ispezione informatica dalle ore 21:50 alle ore 21:56 dello stesso 6 marzo e quindi dalle successive ore 1:24 alle 1:37". Infatti le verifiche tecniche condotte dalla Polizia Postale - alla presenza dei sostituti procuratori Natalini e Nastasi - avvalendosi in operazioni prettamente esecutive del dott. Bernardini (dirigente del Responsabile Area Facility Management)- hanno consentito di acclarare che si è trattato di accidentali riattivazioni del sistema operativo del PC in funzione standby in orari in cui, per come risulta da quanto sopra evidenziato, deve indubitabilmente ritenersi riscontrata la presenza operativa, all'interno dell'ufficio del deceduto, degli inquirenti, per essi intendendosi i componenti di vari corpi di polizia giudiziaria e gli stessi pubblici ministeri. Così testualmente dal verbale di ispezione informatica ed di acquisizione di atti del 7.03.2013 ore 14:30 "i quattro eventi sono Le dovuti a meccanismi di riattivazione del sistema operativo a fronte di sollecitazioni meccaniche esterne (movimenti di mouse o tastiera) effettuati in coincidenza dei predetti orari, tutti debitamente verificati e riscontrati; pertanto si può affermare che non è stato effettuato alcun accesso al P. C. in uso al ROSSI nei predetti orari, né do Postazione fissa né da remoto.

Niente francamente ritiene questo giudice che poteva essere investigato, di più è di diverso di quanto e stato effettivamente fatto e debitamente documentato, al fine di acclarare responsabilità di terze persone nella veste di istigatori del suo suicidio - ipotesi questa, prima facie, meritevole di attenzione giudiziaria, che ha consentito, nel contempo di dipanare anche il più remoto dubbio in ordine all'ipotesi omicidiaria.

Le sommarie informazioni testimoniali assunte dai parenti e famigliari più stretti, come pure dai collaboratori più stretti in ambito lavorativo, de! ROSSI, non lasciano dubbio alcuno in ordine al fatto che gli ultimi mesi di vita dello stesso erano stati vissuti con un crescente malessere interiore che aveva nondimeno raggiunto il suo apice, dando a tal punto luogo a comportamenti anomali percepiti sia in ambito famigliare che sul posto di lavoro, negli ultimi cinque giorni antecedenti al decesso.

Per ben inquadrare il drammatico epilogo che ci occupa, occorre rifarsi da abbastanza lontano ed è quello che è stato fatto opportunamente dagli inquirenti assumendo anche al riguardo informazioni dai famigliari e collaboratori più stretti del deceduto.

Risalendo alla fine del 2011 inizi del 2012, la nomina in seno alla Banca MPS - ove ROSSI era stato assunto come Responsabile Area delle Comunicazioni nel maggio del 2006 - del nuovo presidente e del nuovo amministratore delegato nelle persone di Alessandro Profumo e di Fabrizio VIOLA, subentrati rispettivamente a Giuseppe MUSSARI e Antonio VIGNI, il ROSSI è uno dei pochi uomini di punta della precedente dirigenza in senso lato (la qualifica del deceduto non era invero di dirigente propriamente detto bensì, come già detto, di responsabile area) ad essere confermato ed a guadagnarsi senza nessuna difficoltà la fiducia sia dei nuovi datori di lavoro che dei nuovi colleghi con cui era in più stretto rapporto lavorativo, essendo peraltro rimasti buoni, come in passato, i rapporti anche con i collaboratori del vecchio staff che, come lui, erano stati confermati nel nuovo (tali soggetti debbono complessivamente identificarsi in DALLA RIVA Ilaria responsabile della direzione Risorse Umane- GALGANI Chiara - responsabile dell'ufficio Stampa - BONDI Lorenza - vice capo ufficio stampa - FILIPPONE Giancarlo - funzionario preposto all'ufficio personale dell'Area Comunicazioni).

Nel novembre del 2012, in coincidenza per il dott. ROSSI con un lutto famigliare (decesso del padre), è fatto notano che esplode il cd scandalo MPS così chiamata, nei mass media (stampa, social network, blog) che gli danno ampissima risonanza a livello locale e nazionale, l'inchiesta giudiziaria avente ad oggetto svariate operazioni finanziarie della banca senese negli anni della dirigenza MUSSARI-VIGNI. Aumentato a partire da allora, in modo molto considerevole ed in continua crescita nei mesi successivi, il lavoro e di sicuro anche lo stress lavorativo del Rossi, essendosi trovato in prima linea, come capo dell'Area Comunicazioni a rispondere alle pressanti richieste dell'opinione pubblica e nel contempo a gestire l'enorme flusso di comunicazioni che dietro gli imput della nuova dirigenza, al fine di salvaguardare e di recuperare l'immagine della Banca, dovevano essere veicolate all'esterno, è il caso di precisare, onde dissipare anche su questo versante possibili equivoci e fraintendimento dei fatti e delle emergenze - istruttorie, che è la stessa vedova TOGNAZZI nelle sue prime. s.i.t. - del 17.4.2013 ad affermare che era stato lo stesso ROSSI a "manifestare a chiare lettere di voler in qualche modo essere aiutato nella propria attività" nonché "di essere almeno in parte sgravato". Se così è, osserva questo giudice che deve essere letto in sintonia per l'appunto con i desiderata, più che legittimi dello stesso ROSSI, stante l'aggravio lavorativo al quale stava andando sempre di più incontro, e non invece come un primo indice (secondo la posizione assunta dalla difesa TOGNAZZI nell' opporsi alla presente richiesta di archiviazione) di una diminuzione di fiducia progressiva ed immotivata (e per questo implicante mobbing, sempre stando alla più recente linea difensiva intrapresa dalla p.o TOGNAZZI) nei confronti del dipendente ROSSI da parte del nuovo datore di lavoro, la decisione presa (da VIOLA) di affiancargli la DALLA RIVA attribuendo ad essa la direzione delle Comunicazioni Interne, lasciando al ROSSI-le Comunicazioni Esterne e creando rapidamente (gennaio 2013) nuove metodologie di lavoro, su imput dello stesso ROSSI, al fine di assicurare uniformità nell'agire delle due aree delle comunicazioni. Su tutto ciò hanno riferito con piena convergenza oltre ai predetti VIOLA e DALLA RIVA- la consulente coach della Banca (nominata pure essa nel novembre 2012 all'esplodere dello scandalo MPS) Carla Lucia CIANI. Questa in particolare ha spiegato che, su indicazioni dello stesso ROSSI, il quale evidenziava da un lato la difficoltà a gestire a livello manageriale da solo l'enorme flusso di comunicazioni negative riguardanti BMPS, dopo l'esplosione dello scandalo giudiziario/mediatico attribuibile alla vecchia dirigenza e, dall'altro, le necessità di adottare modalità di lavoro che garantissero coerenza tra comunicazione interna ed esterna, venne creata (in seguito - ad un incontro con il ROSSI avvenuto il 30 gennaio 2013) una sorta di taskforce, definita situation room. In pratica si trattava di "un gruppo di persone, capeggiato dal ROSSI, che decideva in maniera evoluta gli interventi stampa da effettuare, nel senso che tutte le comunicazioni stampa venivano gestite collegialmente, definendosi in sede di gruppo di lavoro (comprensivo delle altre funzioni) gli interventi ufficiali da effettuare. Per iniziativa della stessa ROSSI io - così testualmente nelle s.i.t. la Ciani - venivo messa a conoscenza - a mezzo mail - dei report di questo gruppo di lavoro. Posso dire che rispetto a tale nuovo assetto organizzativo il ROSSI fu molto confortato, in termini di condivisione di responsabilità con i suoi colleghi anche perché questo doveva essere il modello per una gestione più coordinata dell'area comunicazione esterna".

Nella medesima direzione, di conferma ed anzi di obiettivo accrescimento di fiducia della nuova dirigenza in favore del ROSSI, era andata la decisione presa dall'A.D. VIOLA nel successivo mese di febbraio 2013 di designare ROSSI "Invitato Stabile" del Comitato Direttivo. Il Comitato Direttivo - come ha spiegato VIOLA - è un consesso all'interno del quale i dirigenti delle varie direzioni discutono collegialmente dei progetti aventi implicazioni in più settori, con funzioni anche consultive e preparatorie delle decisioni - che dovranno essere assunte dal CdA. Che Rossi fosse stato soddisfatto ed avesse preso come un positivo riconoscimento anche questa iniziativa non lo affermano soltanto il dr VIOLA e la d.ssa CIANI ma anche la sig. TOGNAZZI - nelle s.i.t. del 17 aprile 2013 già 12 ricordate - affermando che il marito ne era orgoglioso, salvo aggiungere che tale inserimento essendo stato effettuato prima della perquisizione subita presso ufficio e l'abitazione il 19 febbraio (su cui infra) non fu dal medesimo ritenuto un elemento positivo di valutazione da parte della dirigenza successivamente a questa iniziativa giudiziaria nei suoi confronti che, per converso, temeva che avesse messo in dubbio, agli occhi della dirigenza, la sua affidabilità. A questo ultimo riguardo, sulla scorta delle risultanze istruttorie e segnatamente delle s.i.t. della CIANI, è però necessario parzialmente correggere il quadro emergente dai ricordi della sig. TOGNAZZI. Riferisce infatti la CIANI che il dr VIOLA le manifestò per la prima volta l'intendimento che il ROSSI venisse inserito nel progetto di coatching riservato alla prima linea manageriale, durante un incontro a Milano che ebbero lunedì 11 febbraio 2013. Alla fine della medesima settimana la segreteria del dr VIOLA le aveva comunicato che ROSSI era stato inserito nel suddetto comitato direttivo. Con una successiva mail giungente questa volta alla CIANI dalla segreteria della DALLA RIVA. Il 26 febbraio (quindi siamo oltre la data della perquisizione eseguita nei confronti del ROSSI il 19 febbraio e dallo stesso vissuta come una ricaduta negativa sulla sua affidabilità aziendale) veniva confermata la volontà di inserire il ROSSI tra i destinatari del progetto di coatching, il che implicava anche la conferma del ROSSI quale componente stabile di quel comitato direttivo, e di conseguenza di ciò la CIANI fissò ed effettivamente tenne con il ROSSI proprio la mattina del giorno del decesso (dalle ore 9:30 alle 12.00) il primo incontro individuale di coach con il medesimo, all'interno del suo ufficio; il 13 marzo avrebbe dovuto esserci il primo incontro di gruppo.

Abbiamo già accennato a quanto era accaduto in data 19 febbraio al ROSSI. Lo stesso era stato destinatario di una perquisizione non solo in ufficio ma anche all'interno della propria abitazione, ancorché non come persona indagata, nell'ambito dei proc. pen. nn. 845/2012 e 3861/2012 N.R.mod. 21, instaurati nei confronti dei precedenti vertici della direzione della banca (MUSSARI e VIGNI) per vari reati ravvisati nelle operazioni finanziarie finalizzate e conseguenti all'acquisizione di banca Antonveneta. Nella stessa data allorché erano scattate anche le perquisizioni a carico dei predetti due indagati di eccellenza, il ROSSI era stato inoltre interrogato dagli inquirenti in qualità di persona informata dei fatti in ordine ai suoi rapporti, anche successivi all'uscita da MPS con MUSSARI, con il quale erano noti anche i consolidati rapporti di amicizia.

Era da allora che lo stato d'animo del ROSSI aveva cominciato a dare segni di notevole turbamento e forte preoccupazione. Ed era da allora che il ROSSI aveva cominciato a temere per un suo maggiore coinvolgimento in tali inchieste giudiziarie in conseguenza di un erroneo accostamento, operato dagli inquirenti, della sua persona al vecchio « management ed in particolare, data anche la loro amicizia, al MUSSARI e, contemporaneamente a manifestare crescente preoccupazione anche per il mantenimento del posto di lavoro in conseguenza della perdita di fiducia da parte del nuovo management pure essa messa dal ROSSI in diretta correlazione che le temute implicazioni personali nelle indagini in corso. Così la TOGNAZZI nelle s.i.t del 17 aprile 2013: "Ha cominciato a temere di essere coinvolto o semplicemente sospettato nella vicenda giudiziaria. Tale convinzione nasceva dalla circostanza del legame che lo avvicinava al Presidente MUSSARI, nel senso che egli riteneva che essendo indagato il MUSSARI, la vicenda poteva in qualche modo interessare anche lui, per il necessaria rapporto, di vicinanza che aveva anche can il presidente (ex) anche se l'ultima volta che si erano sentiti era a Natale [..]. Mio marito non si capacitava circa le colpe che lo potessero coinvolgere non trovandone alcuna. La perquisizione del suo ufficio e dell'abitazione avevano generato in lui la preoccupazione che il nuovo management potesse, per queste circostanze, dubitare di lui, nel senso che potesse pensare che in qualche modo lui non fosse leale nei confronti della Banca, dubitando così della sua onestà ed integrità professionale, al punto da poter essere addirittura licenziato. Posso dire che queste non erano solo sue paure, perché lui mi riferì di alcune voci - senza però farmi i nomi - secondo le quali era imminente la sua sostituzione con un professionista proveniente da Milano. Tali voci mi furono riportate dal ROSSI successivamente alle perquisizioni e non negli ultimi giorni [.]".

E similmente il dott. VIOLA 24: "[...] premetto che il 19 febbraio ... lo informai io del decreto di perquisizione nei suo confronti: lui sbiancò letteralmente a da quel giorno con David ebbi un atteggiamento quasi da padre a figlio perché lui si mostrava molto preoccupato. Io più volte lo rassicurai che lui aveva la nostra piena fiducia. Dopo la perquisizione lui ritornò da me, ma io gli raccomandai di non dirmi niente, così come era accaduto per gli altri dipendenti escussi o perquisiti; gli precisai che, questo, non era un atto di sfiducia nei suoi confronti, ma era Una raccomandazione di riservatezza. Lui prese atto di questo. Dall'indomani tuttavia iniziò a ridirmi di sentirsi "messo in mezzo" da qualcuno; ciclicamente tornava spesso su questo argomento [...] Ribadisco che - come nuovo management - avevamo piena fiducia nel ROSSI circostanza che gli espressi ripetutamente; lui mi manifestò la preoccupazione di una sua sostituzione; io lo tranquillizzai dicendo che stava bene al suo posto e che non avevamo alcun segnale favorevole al suo licenziamento avendo peraltro gestito in maniera ottima l'ultima fase della crisi [...]".

Quindi il dott MINGRONE, riferendo in merito a confidenze ricevute dal collega non più in vita, la sera del 28 febbraio durante una cena alla quale era presente anche il presidente Profumo; "[...] La cena è stata un'iniziativa del dr Profumo, in quanto avevamo terminato il consiglia di amministrazione a tarda ora e quindi si era deciso di cenare insieme. I! Rossi si era unito a noi in quanto lo avevamo incontrato uscendo. Ho conosciuto il ROSSI da metà giugno 2012 ho sempre pensata che fosse una persona abbastanza apprensiva per il lavo ro; infatti in tale serata l'oggetto principale della discussione fu proprio il suo stato di malessere in virtù della perquisizione che aveva subito giorni addietro, Lo stesso ebbe infatti a rappresentare la sua ansia nel non comprendere le ragioni che avevano condotto l'A.G. ad effettuare tale perquisizione; ricorda che egli si domandava appunto se fosse proprio il suo rapporto di conoscenza diretta con l'avv. Giuseppe Mussari ad avere indotto ciò ovvero i colloqui telefonici che aveva avuto nel periodo fino a Natale 2012 ... Sia io che il dr Profumo abbiamo cercato di tranquillizzarla dicendogli che «se non aveva fatto nulla di male non doveva assolutamente preoccuparsi» lo stesso rispose, questo mi colpì molto: «evidentemente ho fatto qualcosa di sbagliato». La mia percezione del momento fu che si riferisse a 14 probabili errori di valutazione, e/o di opportunità nell'ambito dei rapporti mantenuti con l'ex presidente Mussari. Nella serata fece anche un riferimento generica ad una notizia stampa afferente ad un gruppo, a me sconosciuto, della "Birreria" che, a quel punto ha capito, lui aveva frequentato insieme all'ex presidente Mussari (sempre fino a dicembre 2012) ma dello cui frequentazione a quel punto si rammaricava. La serata si concluse serenamente".

Mette conto precisare che la riunione del CdA terminata nella tarda serata del 28.2.2013, a cui ha fatto riferimento il dr Mingrone nelle sue sommarie informazioni testimoniali, è quella in seno alla quale era stato deciso di promuovere l'azione di risarcimento danni non soltanto nei confronti dei precedenti vertici manageriali della Banca (ossia dei ridetti MUSSARI e VIGNI), ma anche di due banche estere (Nomura e Deutsche Bank) implicate in due imponenti operazioni di finanza strutturata rivelatesi disastrose per i conti dell'istituto di credito senese. E' opportuno aggiungere che data la importanza e la delicatezza della decisione da adottare, la convocazione del CdA era stata effettuata in forme molto riservate, in particolare senza indicare nell'ordine del giorno l'intendimento di fare causa oltre che ai precedenti amministratori - notizia che già circolava e che costituiva un'iniziativa pressoché obbligata per il nuovo management - anche alle predette due banche straniere. La segretezza con cui era stata gestita questa delicatissima ed importantissima decisione derivava dal fatto che ove fosse diventata di dominio pubblico prima della iscrizione delle cause civili in questione - ed in particolare di quelle nei confronti delle banche estere - nei registri del Tribunale delle Imprese di Firenze c'era il rischio per BMPS di essere battuta sul tempo da una più tempestiva iscrizione presso la competente Autorità Giudiziaria estera di una speculare azione legale nei propri confronti da parte delle predette banche. Per questo non solo ROSSI ma nessun altro dell'Ufficio Stampa e della intera Area COMUNICAZIONI, ne era stato anticipatamente messo al corrente e la direttiva assunta era nel senso che anche al successivo comunicato stampa ufficiale, soltanto successivamente all'iscrizione delle cause giudiziarie, avrebbe provveduto direttamente il dr Mingrone. Non potendo - pare alla scrivente - neppure questa decisione dei vertici del CdA essere obiettivamente interpretabile come uno smacco ed un segno di mancanza di fiducia nei confronti, in modo specifico, del ROSSI e, tanto più ciò deve ritenersi, alla luce di quanto continua a riferire il Dr Mingrone in merito a quella serata conclusasi con la sua cena al ristorante in compagnia del dr Profumo e del dr Rossi. Accadde infatti che mentre si stavano recando al ristorante, il Rossi aveva ricevuto una chiamata telefonica di qualcuno che, dalla risposta che il ROSSI gli dava, si capiva che gli domandava di confermare se fosse vero o meno che il CdA di quella sera avesse deciso l'azione di responsabilità in questione. La risposta di ROSSI era stata "se fosse vero me lo avrebbero detto". Terminata la telefonata il dr PROFUMO, evidentemente non nutrendo riserve sull'affidabilità del ROSSI, lo aveva messo al corrente della decisione dal CdA effettivamente presa in tal senso ed a quel punto gli era stato mostrato anche il comunicato-stampa riguardante la notizia e gli era stato chiesto di dare i suoi onsi.gli sulla stesura finale. Invero la temuta fuga di notizia la mattina dopo c'era stata davvero, in forza di un articolo di stampa apparso su un importante quotidiano a tiratura 15 nazionale; per essa, anche in ragione delle implicazioni che c'erano state sulle quotazioni in borsa del titolo MPS, VIOLA e PROFUMO avevano presentato un esposto in Procura e gli esiti dell'inchiesta giudiziaria (di al p.p. n. 874/2013 mod. 44 poi passato al registro noti con il n. 1169/2013 rgnr mod 21) che ne era seguita ed aveva portato all'individuazione del responsabile in un consigliere del CdA (M. Briarnonte), si erano conosciuti nel maggio successivo.

Premesso: che in ragione della stretta vicinanza temporale tra questa fuga di notizia e la morte del ROSSI, opportunamente gli inquirenti avevano sulle prime svolto indagini anche al fine di verificare possibili collegamenti tra i due eventi, nell'eventualità che fosse da individuarsi nella fuga di notizie il movente del gesto suicidario ed anche quello dell'ipotetico istigatore (in questo contesto non essendoci all'evidenza alcuno spazio, neppure puramente astratto e logico, per la percorribilità della terza ipotesi, quella dell'omicidio), evidenziato che nessuna emergenza investigativa era andata in questo senso, occorre in questa sede aggiungere che parimenti negative si sono di fatto rivelate le risultanze circa l'ipotetica immeritata colpevolizzazione, che sul luogo di lavoro il ROSSI avesse potuto subire, negli ultimi cinque giorni di vita, siccome infondatamente sospettato di essere lui l'autore della indebita divulgazione di siffatta informazione di natura price sensitive. Ciò alla luce di quanto è emerso dalle dichiarazioni informative non soltanto di PROFUMO e di VIOLA, ai quali più di ogni altro in ambito lavorativo avrebbero potuto in astratto imputarsi, condotte commissive o omissive discriminatorie indotte dalla presunta indebita colpevolizzazione del ROSSI, ma anche dalle dichiarazioni, rilasciate dai colleghi di lavoro del deceduto ed in particolare da quelle della GALGANI Chiara.

PRUFUMO, pur non negando di aver inizialmente nutrito dei sospetti su un possibile coinvolgimento del ROSSI sulla ridetta fuga di notizie, in ogni caso non solo non risulta averli manifestati al diretto interessato - con il quale nei pochi giorni lavorativi successivi prima del tragico gesto aveva continuato ad interloquire normalmente in relazione a questioni ed affari di sua competenza (in particolare l'ultimo normale colloquio di lavoro tra i tra i due c'era stato il 5 marzo) - ha aggiunto che, esternati confidenzialmente questi suoi primi dubbi al VIOLA, lo stesso 1 marzo, ne aveva avuto da quest'ultimo un immediato ritorno negativo.

Sentito sullo stesso argomento direttamente anche l'A.D. VIOLA, nel confermare lo scambio di opinioni, in forme assolutamente riservate con il Pres PROFUMO, in un colloquio del i marzo, ha altresì ripetuto anche agli inquirenti di aver scartato immediatamente l'ipotesi che il ROSSI potesse essere in qualche modo coinvolto nella ridetta fuga di notizie, a tale riguardo con estrema verosimiglianza - quindi attendibilmente - dichiarando: "non ho mai messo in relazione il comportamento del ROSSI alla fuga di notizie circa l'avvio dell'azione di responsabilità varata dal CdA il giovedì precedente ... Peraltro, sapendo che ROSSI è persona riservatissima l'ultima cosa che - secondo me - avrebbe fatto nello stato di agitazione peraltro in cui era - era parlare ai giornali".

Alquanto significative si sono inoltre rivelate le dichiarazioni della Galgano la quale, se per un verso ha confermato la circostanza che nelle ultime settimane di vita del collega 112 girassero con qualche insistenza voci in merito alla sua imminente sostituzione, per altro verso ha precisato che l'origine di questi rumors - il termine è quanto mai appropriato in questo caso alla luce delle risultanze istruttorie sul punto - non era intranea agli ambienti del BMPS bensì era da individuarsi in ambito giornalistico ed ha aggiunto che ai giornalisti che, nel tentativo di avere conferme della notizia che asserivano di aver avuto da fonti confidenziali l'avevano contattata, la notizia in questione era stata da lei smentita.

Così la GALGANI (responsabile del settore "Relazione Media"):"ROSSI David, se non ricordo male, non mi ha mai espresso timori circa la perdita del suo posto di lavoro. Tuttavia c'erano delle voci in tal senso: mi ricordo in particolare una telefonata - se non vado errata avvenuta il giorno del CdA del 28.2.2013 - in cui il giornalista Mugnaini Domenico dell'ANSA mi riferì che giravano voci circa la sua possibile sostituzione con un professionista di Milano.... Giovedì 7 marzo fui chiamato dal giornalista STRAMBI Tomaso della Nazione che mi invitò ad incontrarla per riferirmi che un suo collega di cui non mi fece il nome gli aveva detto che quel giorno si sarebbe a lui presentata una persona qualificatasi come nuovo responsabile dell'Area Comunicazione MPS. Mi sono quindi informata con la responsabile delle Risorse Umane Ilaria DALLA RIVA e con lo stesso VIOLA i quali mi hanno risposto Che non era assolutamente vero: ho anche condivisa la posizione da tenere con il giornalista, che richiamai per smentire la notizia. Nel pomeriggio del 7 marzo mi chiamò anche CAMBI Carlo, redattore di Libero, il quale fece riferimento ancora alla sostituzione del ROSSI; anche in tal caso smentii tali voci".

Per concludere sul punto si deve altresì rimarcare che sentiti sull'argomento, nel corso delle indagini, direttamente i giornalisti, questi non solo non hanno inteso rivelare la fonte confidenziale della notizia in questione, ma neppure ne hanno confermato, non tutti ed in ogni caso nessuno in modo persuasivo e cogente, il contenuto. Taluni di loro danno inoltre atto di smentite della notizia ricevute dallo stesso ROSSI.

SIT Tomaso STRAMBI (giornalista de-La Nazione): "Non mi ha mai esternato paure particolari per il posto di lavoro; né difficoltà di sorta in relazione alla nuova gestione di BMPS".

SIT Davide VECCHI (giornalista del Fatto Quotidiano): "Vidi per l'ultima volta ROSSI David una settimana dopo la perquisizione a suo carico, circa fine febbraio...parlando delle varie ipotesi sui motivi per cui anche lui era stato perquisito non riusciva ad inquadrare le ragioni ed era stupito del suo coinvolgimento... Preciso che in quei giorni io e altri colleghi avevano scritto che la Banca lo aveva affiancato all'interno della sua area; sul punto lui- a mia domanda- rispose che non stato affiancato e che comunque si stava riorganizzando tutto, ma che non era più operativo come prima".

SIT Domenico MUGNAINI (agenzia ANSA Firenze): "Vidi per l'ultima volta ROSSI David il 1 marzo 2013: era tranquillo. Successivamente l'ho sentito per telefono il 4 marzo 2013 per due volte... nella seconda occasione abbiamo scherzato e lui mi chiese - facendo riferimento ad una telefonata del 28/02/2013 tra noi - che lo avrebbe sostituito. lo gli dissi di non sapere nulla."

In tutte queste risultanze si debbono al fine calare i comportamenti, pur nella loro complessiva anormalità indicativi di stati emotivi ondivaghi, tenuti dal ROSSI, dentro le mura domestica in modo forse ancora più eclatante che non sul lavoro.

Questo perché venerdì 1.3.2013 alla TOGNAZZI il ROSSI aveva esternato in modo assolutamente irrazionale la paura che l'indomani sarebbe stato addirittura arrestato, dicendo testualmente che sarebbero andati a prelevarlo nella giornata di sabato stante la chiusura per il week end dei mercati finanziari. Ed alla risposta della moglie che, sdrammatizzando ed evidentemente non dando troppo peso alle parole del marito, gli diceva che se polli temuto arresto il giorno dopo non fosse avvenuto si sarebbe dovuto tranquillizzare, ROSSI aveva chiuso il discorso affermando "sarebbe già una buona cosa". Questo accadeva venerdì 1 marzo, il sabato e la domenica successiva la TOGNAZZI aveva dovuto concentrarsi sui suoi problemi di salute ed era stata anche ricoverata in ospedale dove pur rinviandola al domicilio le avevano diagnosticato una brutta polmonite. Lunedì 4 marzo, seppur formalmente m'ferie per accudire la moglie, ROSSI aveva trascorso molte ore in' ufficio, impegnato in particolare in un carteggio epistolare via mai] con VIOLA, in ferie a Dubai, su argomenti lavorativi e non ed era stato nel contesto di questo scambio prolungato di comunicazioni in rete che ROSSI aveva inviato a VIOLA anche l'HELP contenente 'una esternazione esplicita del proposito suicidiario (su cui infra).

Risalgono a martedì 5 maggio, come riferiscono la moglie del ROSSI e la di lei figlia ventunenne Carolina ORLANDI (convivente con la coppia), le anomalie più allarmanti compiute dal congiunto (o per lo meno, in quella data, scoperte) dentro casa.

La giovane si era infatti accorta di strani taglietti ai polsi del ROSSI ed era andato a riferirlo alla madre. Alle richieste di spiegazioni ROSSI prima aveva detto di essersi accidentalmente tagliato con la carta, ma dietro le insistenze della moglie aveva ammesso di esserseli procurati volontariamente dicendo, così nei ricordi della vedova "hai visto, nei momenti di nervosismo, quando vuoi sentire dolore fisico per essere più cosciente" e nella rievocazione dell'ORLANDI: "...sai com'è quando uno ha quei momenti in cui perde la testa per ritornare alla realtà ha bisogno di sentire dolore". Sempre, quello stesso giorno, il ROSSI si era mostrato talmente angosciato dalla preoccupazione di essere intercettato che aveva preso a comunicare con le famigliari per iscritto. Sul punto molto evocativamente l'ORLANDI: "Dopo di ciò (n.b.: l'Orlandi ha appena finito di raccontare la scoperta dei tagli ai polsi) egli iniziò a comportarsi in modo alquanto strano, prendendo un blocchetto e cominciando a scrivere ciò che mi voleva dire. Nel primo foglio scrisse «non parlare di questa cosa nè fuori nè in casa» allora stando al suo gioco e ritenendo che si riferisse non solo ai segni sulle braccio ma alla situazione in generale scrissi «mai fatto...ma ci sono le cimici?» lui a quel punto mi guardò e annuì. Questo modo di colloquiare durò per circa un cinque minuti. Davide allora strappò il foglio su cui avevamo scritto e se li tenne per sé. Io allora tornai nella mia camera e presi un blocco sul quale scrissi: «nonostante tu in questo periodo non abbia molta considerazione di me, di me ti puoi fidare: ma mamma lo sa? Anche i nostri telefoni sono sotto controllo?» Egli lesse il mio scritto, dicendo che per la prima parte il discorso non tornava, rimaneva sul vago sul discorso relativo alle intercettazioni ed al fatto che mia mamma lo sapesse. Lui prese i fogli e li strappò. Strappò anche quello con la scrittura ricalcata. Poi li consegnò a me. Dopo circa una decina di minuti, visto che mi accingevo ad uscire per recarmi in contrada, Davide mi seguì fuori dalle scale dicendomi a voce bassa di buttarli lontano e di guardarmi attentamente intorno mentre lo facevo, il giorno successivo. Parliamo del 6 marzo..."

E la Tognazzi rievocando le reazioni dal marito allorché sempre il giorno 5 marzo lei cercava di tranquillizzarlo e riportarlo alla ragione in relazione alla paura delle microspie in casa, ha dichiarato che il ROSSI andava ripetendo che "c'era la probabilità che qualcuno poteva interpretare malamente alcuni accadimenti o episodi o frequentazioni pregresse".

Considerato che relativamente al giorno 5 marzo vi è anche la rievocazione del Pres. Profumo, il quale con convergenza con i racconti attinenti a comportamenti del ROSSI nella medesima data afferma, nelle s.i.t. del successivo 7 marzo riferisce: "...Ricordo che due giorni fa lo invitai a raggiungermi nel mio ufficio per ragioni di lavoro e lui in quell'occasione mi rinnovò la sua preoccupazione; temeva in particolare di poter subire conseguenze penali dalle indagini in corso mostrava preoccupazione addirittura di essere arrestato. Legava tali sue preoccupazioni alla circostanza di aver frequentato anche recentemente, il cd gruppo della birreria, di cui si parla nelle cronache locali. Mi fece anche il nome della persona che aveva incontrato, ma non lo ricordo anche perché non conosca coloro che farebbero parte di quel gruppo così denominato. Lo tranquillizzai dicendogli che a mia avviso non aveva nulla da temere, in quanto non risultava indagato, aggiungendo tra l'altro che a noi non erano giunte indicazioni che andassero in senso contrario rispetto alla sua permanenza dentro la banca. Insomma gli rinnovai la nostra fiducia invitandolo a continuare serenamente al suo lavoro...". Sono anche da sottolineare i flash forniti dall'ORLANDI sul corso della funesta giornata del 6 marzo, al termine della quale il ROSSI sarebbe morto o, per meglio dire, non potendosi nutrire più alcun dubbio, alla stregua dì tutto quanto fin qui rassegnato, lo stesso si sarebbe ucciso, gettandosi dalla finestra del suo ufficio. Ha invero riferito al riguardo la giovane che al mattino poco prima che ROSSI uscisse di casa lo aveva sentito parlare con sua madre. La TOGNAZ7I con tono preoccupato invitava il marito a reagire ed ad uscire dallo stato in cui versava. Non appena ROSSI era uscito di casa, la TOGNAZZI aveva chiamato al telefono il cognato Ranieri ROSSI, dicendogli piangendo che era molto preoccupata per Davide, il quale era giunto a compiere atti di autolesionismo, invitandolo pertanto a parlare con lui, cosa che era accaduta all'ora di pranzo in quanto i due fratelli avevano mangiato assieme. Davide dopo il pranzo con il fratello Ranieri, intorno alle 16 era ripassato da casa. Era stato allora che l'ORLANDI aveva sentito la madre fare riferimento con il marito a e-mail da ROSSI inviate al dr VIOLA (su cui infra) per chiedergli, in relazione alla sua situazione, se poteva parlare con i pubblici ministeri ed alla domanda della Tognazzi se avesse ottenuto il colloquio con i magistrati, Davide aveva risposto che non era quello il momento di parlarne, stante la presenza in casa della suocera. In relazione al pranzo del 6 marzo - con il fratello, Ranieri ROSSI, a sua volta riferisce direttamente che oltre a parlargli di cose normali, gli aveva confidato di essere "preoccupato per una cavolata che aveva fatta e che un suo amico/conoscente di cui si era fidato lo aveva tradito". E quando di ciò Ranieri ROSSI aveva parlato - sembra successivamente al decesso del fratello - con la TOGNAZZI quest'ultima, come dichiara a s.i.t. - come prima cosa aveva pensato "od un giornalista al quale David possa aver dato fiducia nel tempo e che poi possa averlo tradito alla prima occasione o che DAVID potesse aver detto cose di troppo ad un amico giornalista che poi le avrebbe pubblicate".

E che, in particolare il giorno in cui si sarebbe tolto la vita, il ROSSI fosse tormentato, come una specie di mono-ossessione, da una o più "cavolate" che, nelle sue valutazioni soggettive necessariamente condizionate dalla disastrosa condizione emotiva culminata nell'atto autosoppressivo serale, è un fatto da ritenersi assolutamente acclarato ove, oltre alle SS Il TI dei predetti due famigliari, ed al contenuto delle tre lettere incomplete, di addio e di scuse per il gesto estremo a cui si accingeva nell'isolamento creato all'interno del proprio ufficio, si consideri infine che la demoralizzazione per tali supposte cavolate era stato l'argomento centrale del colloquio individuale, durato più di due ore, del ROSSI con la coach CIANI, in ufficio, la mattina del 6.

"Mi ha manifestato una situazione di ansia derivante dalla perquisizione subita, in un contesto già problematico disse che era un momento in cui gli stava cadendo addosso il mondo... la morte del padre, la crisi del Monte, lo stato di salute della moglie, e perquisizioni da lui subite. Insomma lui si sentiva dentro una serie di situazioni negative che non riusciva a gestire. Io ho cercato di affrontare il discorso riferendomi alle competenze manageriali che possono essere di supporto .in questi casi. Lui mi ha detto che da quando aveva subito la perquisizione e dalle vicende del CdA precedente, si era messo insistentemente a pensare rispetto a tutto quello che in questi anni era accaduto nella sua vita lavorativa: in questo senso lui continuava a chiedersi senza trovare risposta se c'era qualcosa che avrebbe potuto comprometterlo. Si sentiva quasi il senso di disgrazia imminente questo ero fortissimo tant'è che usava espressioni quali "ho paura che mi possono arrestare" "ho paura di perdere il lavoro" come se - accusato di qualcosa - automaticamente perdesse il lavoro. Io gli sottolineai l'inutilità di continuare a rimuginare sul passato; gli precisai che sapevo che -non era indagato e che aveva la fiducia di VIOLA e PROFUMO. Nel momento in cui gli dicevo queste cose anche lui disse che era vero: gli precisai che io stessa ero la prova della fiducia del nuovo management. Lui mi ha detto che addirittura pensava che io fossi lì per aiutarlo a comunicare le sue dimissioni... Abbiamo considerato che la sua leva motivazionale al lavoro era basata sul prestigio. La sua leva prestigio era molto forte e di conseguenza nel momento in cui l'ha visto a rischio o ha immaginato che lo fosse a rischio il suo ruolo, è entrato in angoscia perché fino ad allora si è sentito protetto...

Lui mi disse: «io mi sto comportando male, da quando ho subito la perquisizione ho fatto una cavolata dietro l'altra». Avevo il desidero di tranquillizzarlo, non banalizzando ma alleggerendo la cosa. Gli chiesi a cosa rispondessero questa cavolate di cui parlava, lui non mi rispose... si è aperto solo in parte nel senso che disse di aver fatto una cavolata mandando uno comunicazione a VIOLA chiedendo protezione, in ciò quindi mostrando la sua fragilità all'azienda e dall'altra temendo di aver messo a disagio VIOLA se non addirittura irritato. Gli chiesi se VIOLA gli avesse risposto; egli mi disse di sì e che lo 20 aveva tranquillizzato. Abbiamo parlato del perché avesse avuto bisogno di scrivere questa mail a VIOLA; lui mi parlò del senso di frustrazione e di bisogno che viveva. Lui peraltro sapeva che VIOLA era fuori banca e immagino che sapesse che era fuori banca per lavoro; e quindi questo mail era fuori contesto, avendo atteso un momento sbagliato per scrivergli. Io gli dissi che l'indomani VIOLA sarebbe tornato e che avrebbe potuto chiarire il tutto con lo stesso. Lui mi rispose dicendomi «che cosa mi potrà dire?». Mi disse anche che gli avevo riscritto scusandosi con VIOLA per averlo disturbato. A me ha dato l'impressione che perso il lavoro avrebbe perso se stesso, proprio perché non c'era in lui un distacco tra vita privata e vita lavorativa, quasi che il suo ruolo professionale fosse tutta la sua vita. Lui mi continuava a dire di aver fatto delle cavolate, ma l'unica cavolata rappresentatami come tale è stata questa mali scritta a VIOLA. Ho cercato di capire quale altre case avesse fatto, ma non mi ha rivelato alcunché. Tornava su questa definizione di aver fatta delle cavolate, dichiarando di essersi comportato come un pazzo. Ribadisco il plurale riferito all'espressione cozzate commesse. Poi il riferimento ad una cozzata al singolare, evidentemente quella più recente, mi è stata spiegata in relazione alla mail scritta a! dott. VIOLA. Quando ha iniziato a parlarmi della frustrazione, a prefigurarsi delle pre-immagini negative, mi parlò della paura di essere arrestato, dei fatti che sua moglie non fosse in condizioni di sostenersi; che avrebbe perso il lavora se fosse successo qua/casa di grave.... Oggi (la CIANI veniva sentita a s.i.t. il 13.3.2013) ci sarebbe stata un incontro di team, cioè in gruppo con gli altri manager. Alla fine dell'incontro individua/e, ROSSI salutandomi disse che gli aveva fatta bene parlare un po’".

Ed ora veniamo alle mail dal ROSSI, come è documentalmente riscontrato, inviate il giorno 4 marzo all'amministratore delegato, alle quali deve dirsi certo che Il medesimo si riferisse nel colloquio di coach la mattina prima di suicidarsi, manifestando al riguardo uno sconforto incontrollabile, proprio per il fatto stesso di averle inviate, in tal modo mostrandosi - questo credeva il ROSSI - fragile e non all'altezza del sua prestigioso livello professionale.

Il carteggio on line in questione aveva avuto inizio la mattina, in forza di una prima mail delle 9:24 inviata al ROSSI da VIOLA chiedendogli di parlare di lavoro, in particolare della "Vicenda mutui Prato", con ciò intendendo fare riferimento ad indagini recentemente avviate dalla Guardia di Finanza di Prato in merito a mutui "facili" (stando al taglio giornalistico della notizia) per circa 80 milioni erogati, tra il 2005 al 2009, da filiali del MPS di Prato, per l'acquisto della prima casa a immigrati di nazionalità cinese, rivelatisi insolvibili e privi di garanzie e la necessità di parlarne con il responsabile delle Comunicazioni nasceva dal fatto che su questa inchiesta, il 2 marzo, il TG 5 aveva incentrato un servizio televisivo.

Rossi alle 9:36 rispondeva al "parliamo della vicenda mutui prato?" di VIOLA dicendogli: "ma non era Dubai?"

Al che VIOLA, alle 9.48: "sì ma c'è ml telefono".

Malgrado le ferie di entrambi (stante che anche il ROSSI, come riferito dalla TOGNALLI e dai colleghi di lavoro, non avrebbe dovuto recarsi a lavoro quel giorno) v'è prova documentale in atti che nel corso della mattina si dedicavano alla stesura di una lettera 21 sostanzialmente di protesta, inviata, alle ore 10.33, ancorché a firma di VIOLA, dal ROSSI dalla sua e.mail dell'ufficio ("david.rossi2@ banca. mps.it) al Vice direttore di TG5 (dr Pamparana), autore del servizio televisivo contestandogli di non aver messo in buona luce la Banca, lettera alla quale il giornalista aveva risposto, sempre sulla posta elettronica del ROSSI, alle successive 10:49.

E' in questo interfacciarsi durato un'ora e più per la faccenda dei "Mutui di Prato" ed il servizio curato al riguardo del predetto giornalista, che alle ore 10;13 ROSSI lancia a VIOLA anche un HELP del seguente testuale tenore "Stasera mi suicido sul serio, aiutatemi".

VIOLA questa mail, che dai dati estrapolabili dal P.C. fisso di ufficio del ROSSI risulta tra la posta inviata, non ricorda di averla ricevuta. Sia o non sia sincero nel dire ciò VIOLA, ciò che più rileva è che quando all'incirca tre ore dopo, ovvero alle ore 13:09, ROSSI, supponendo che ancorché senza rispondergli VIOLA abbia comunque letto il messaggio in questione, ritorna sull'argomento, anche se in modo meno esplicito, chiedendo e rappresentando ancora l'urgenza: "Ti posso mondare una mail sul tema di stamani. E' urgente domani potrebbe già essere tardi", VIOLA questa volta risponde. A questo punto la risposta di VIOLA, delle 13.45, è: "Mandami la mail". E Rossi quindi gli scrive: "Ho bisogno di un contatto con questi signori perché temo che mi abbiano male inquadrato come elemento di un sistema e di un giro sbagliati, Capisco che il mio rapporto con certe persone possa averglielo fatto pensare ma non è così. Se mi avessero chiamato a testimoniare glielo avrei spiegato, invece mi hanno messo nel mirino come se fossi chissà cosa. Almeno è l'impressione che ne ho ricavato. Avendo lavorato con tutti, sano perfettamente in grado di ricostruire gli scenari, se è quello che cercano. Però vorrei delle garanzie di non essere travolto da questo cosa, per questo io devo fare subito, prima di domani. Non ho contatti con loro ma lo farei molto volentieri se questo può servire a tutti. Mi può aiutare?"

La risposta del VIOLA a questa e-mail, non è di totale chiusura verso il bisogno rappresentato né di negazione dell'aiuto richiesto, stante che, dando peraltro da pensare che non afferri l'intero significato del messaggio ricevuto, in particolare riguardo alla tempistica indicata, scrive: "La cosa è delicata, Non so e non voglio sapere cosa succederà domani. Lasciami riflettere".

ROSSI a quel punto scrive ancora: "Non so nemmeno io. Ma almeno si può provare o vedere se hanno interesse a parlare con me stasera, vedo che stanno cercando di ricostruire gli scenari politici ed i vari rapporti. Ho lavorato con Piccini, Mussari, comune, fondazione, banca. Magari gli chiarisco parecchie cose, se so cosa gli serve. L'avrei fatto anche prima ma nessuno me lo ha chiesto".

Al che, conclusa VIOLA la breve pausa di riflessione, segnatamente durata, stante l'orario delle sue due risposte, dalle 14:24 alle successive 14:40, scrive ancora al ROSSI: "Ho riflettuto, Essendo la cosa molto delicata, credo Io cosa migliore sia quella che tu alzi il telefono e chiami uno dei pm per chiedere appuntamento urgente. Qualsiasi altra soluzione potrebbe essere male interpreta. Oltretutto mi sembrano delle persone molto equilibrate".

Ebbene, osserva al riguardo la scrivente che, se - come sembra - quello che ROSSI intendeva ricevere dal VIOLA era un sorta di autorizzazione per potersi mettere a completa disposizione dei sostituti della locale Procura, nelle loro indagini tese a ricostruire le faccende di rilevanza penale attinenti al passato del MPS, insieme ad una sorta di manleva, ossia di rassicurazione di assenza di eventuali ripercussioni negative, di questa sua iniziativa;- sul mantenimento dei suo posto di lavoro, ebbene VIOLA con il suo ultimo messaggio di fatto rispondeva affermativamente ad entrambe le richieste del suo dipendente, rassicurandolo anche sull'equilibrio dei magistrati che avrebbe potuto contattare con una semplice telefonata al loro ufficio quella sera stessa.

A quel punto, in ciò trovando riscontro l'andamento ondivago dello stato emotivo del ROSSI e delle relative manifestazione esteriori, sottolineato dai pubblici ministeri nella loro richiesta di archiviazione, il contenuto dei suoi successivi messaggi cambia ed infatti con ulteriori mail con le quali si chiude il lungo carteggio epistolare del 4 marzo con l'amministratore delegato, in ferie a Dubai, ROSSI scrive (mail delle ore 15.10) "Hai ragione, sono io che mi agito e mi sono spaventato dopo l'altro giorno", nonché (mail delle successive 17:12) "In effetti -ripensandoci sembro pazzo a farmi tutti questi problemi. Scusa la rottura".

Tutto ciò risultante in merito l contenuto di queste mail, quanto a modalità e tempistica della relativa acquisizione è opportuno aggiungere che erano state le stesse mail già tutte individuate - in forza delle attività di ispezione informatica e di successiva estrazione di copie forensi, demandate dagli inquirenti alla Polizia Postale -quando, in data 21 marzo veniva esaminato - per la seconda volta stante la prima audizione avvenuta il giorno immediatamente successivo al decesso - il dr VIOLA - tanto che in sede di s.i.t. gli erano state mostrate e gli era stato richiesto di esplicitarle. Pertanto non risponde al vero quanto per converso assume la difesa TOGNAZZI relativamente al fatto che erano state individuate, in particolar modo I'HELP contenente l'esplicito proposito suicidario, soltanto dopo il dissequestro e la restituzione dei computers e dei telefoni del ROSSI ai famigliari (giugno 2013) e grazie alle sole ricerche, asseritamente più specifiche e mirate, intraprese a tal punto dagli stessi famigliari. E quanto all'apparente incongruenza tra le mail acquisite in forza dell'attività informatica demandata alla polizia Postale e le stesse mail, riversate negli atti del fascicolo in seguito alla copia che ne aveva fatto, con propri programmi di conversione, la sig. Chiara BENEDETTI, moglie di uno dei due fratelli del compianto David ROSSI, incongruenza costituita dalla presenza, in particolare nella mail con oggetto "HELP', contenente l'esternazione del proposito suicidario, di seguito all'indicazione di VIOLA Fabrizio, quale destinatario primario, della indicazione - non presente nelle mail estratte dalla Polizia Postale - di SANDRETTI Bruna (segretaria della DALLA RIVA) come secondo destinatario in campo CC, ebbene una seconda verifica informatica apprestata dal personale tecnico della Polizia Postale ha accertato essere questo mero frutto di un malfunzionamento del software di conversione, rilevatosi crackato utilizzato, si ha ragione di ritenere in perfetta buona fede, dalla BENEDETTI nel recupero delle mail in questione.

Con il che priva di fondamento ed ancorata ad un erronea presupposto di fatto rimane la ulteriore considerazione critica della difesa opponente secondo cui sulla mail di "Help", ingiustificatamente non sarebbe stata sentita la predetta Sandretti per conoscere, da questa direttamente, quali attività aveva essa ritenuto di intraprendere a fronte di una comunicazione di tal genere, alla quale non avevano fatto seguito le altre mail - dai contenuti come sembra implicitamente riconoscere la stessa difesa TOGNAZZI riconosce un contenuto molto più tranquillizzanti -   inviate al solo amministratore delegato. Il fatto è - come va ribadito - che tutte le mail in questione hanno avuto come unico destinatario il dr VIOLA.

Sulla scorta di tutto quarto ampiamente rassegnato 'ritiene la scrivente che debba essere senz'altro condivisa e quindi accolta la motivata richiesta di archiviazione dei Pubblici Ministeri.

Superflua ogni altra considerazione in punto di manifesta insostenibilità dell'ipotesi dell'omicidio volontario e di assenza di ogni e qualsiasi lacuna o lato oscuro al riguardo colmabile con supplementi investigativi, anche relativamente all'ipotesi, prima facie prospettata del reato di istigazione al suicidio (ex art 580 c.p.), all'esito delle indagini scrupolosamente esperite; risulta altrettanto certo difettare i requisiti costitutivi minimi della fattispecie criminosa anche nella forma - non già della determinazione ovvero dell'agevolazione, bensì - del solo rafforzamento dell'altrui proposito di suicidio: ove si consideri che, sotto il profilo oggettivo, occorre la dimostrazione di una condotta, ancorché a forma libera (e se del caso anche omissiva) in ogni caso causalmente idonea a consolidare nel suicida nel sud proposito di auto-soppressione e, quanto all'elemento psicologico, pur essendo richiesto il solo dolo generico, è nondimeno necessario non soltanto la conoscenza della obiettiva serietà del suddetto proposito, ma anche la consapevolezza nonché la volontà di concorrere con la propria condotta a spingere l'altro in quella disperata direzione. (cfr Cass. Pen. Sez V nr 227-22-del 28.04.2010 e sez V nr 3924 del 26.10.2006)

Correttamente mantenuta, fino alla fine delle indagini, l'iscrizione del procedimento contro ignoti, non si vede infatti quale condotta con cotali caratteristiche oggettive e soggettive possa essere ravvisata nelle risultanze attinenti al caso di specie ed è pertanto ancor più remoto chiedersi a chi una siffatta condotta possa essere attribuita.

La sottolineatura da parte della difesa opponente della mail, di richiesta di aiuto e di rivelazione di proposito suicidario del 4 marzo, peraltro sganciata - e con lettura quindi fuorviante anche di questa sola parte delle risultanze fattuali - dal più ampio carteggio che in quel giorno risulta esserci stato tra il dr VIOLA ed il dr ROSSI ed inoltre erroneamente ritenendo che quella stessa mail e non le altre dal contenuto molto più tranquillizzante, sia stata inviata oltre che al dr Viola anche alla segreteria della Direzione delle Risorse Umane e lasciata cadere nel vuoto, pare suggerire - sulla base di presupposti di fatto insussistenti - che questa dovrebbe essere la condotta tipicamente riconducibile alla fattispecie di cui all'art 580 e che nella stessa direzione dovrebbero anche essere ricercati gli autori del reato. Nello stesso senso secondo la difesa opponente deporrebbero un contesto lavorativo e condotte tenute, in tale ambito, nei confronti e contro il Rossi, che non soltanto nella sua percezione interiore fortemente condizionata - questo è certo - dallo stato di grave turbamento psicologico in cui — versava, ma anche obiettivamente tendevano ad isolarlo e mettevano a rischio anche il 24 mantenimento del posto di lavoro. Sennonché le risultanze delle indagini riportano un contesto lavorativo nettamente diverso, connotato da vicinanza, comprensione, rassicurazione, riconferma di fiducia, sostegno anche psicologico, a fronte delle varie manifestazioni di forte demoralizzazione e perdita di autostima che peraltro stando a quello che lo stesso dr Rossi lasciava capire - ai colleghi di lavoro, ai suoi superiori ai suoi famigliari - gli derivava da problematiche estranee all'attività lavorativa o per lo meno a quella attuale.

In ragione di tutto questo, non ritiene questo giudice fondata l'opposizione all'archiviazione neppure nell'ottica pure delineata dall'opponente della derubricazione in omicidio colposo, non ravvisandosi profili di colpa né generica né specifica nel datore di lavoro del deceduto ai quali sia causalmente riconducibile il suicidio dello stesso e non potendo di certo essere sufficiente il mero fatto dell'aver il suicida scelto di uccidersi sul luogo di lavoro.

La riapertura delle indagini.

Il 17 novembre 2015 la Procura della Repubblica ha riaperto le indagini accogliendo l'istanza avanzata in tal senso da Antonella Tognazzi, sulla base di vecchi argomenti e nuove allegazioni. Il nuovo fascicolo - iscritto, come il primo, a carico di ignoti per il 13 reato di cui all'art. 580 c.p. - ha preso numero 8636/2015.

Nell'istanza (si vedano le pag. 2 e ss.) esponeva di avere commissionato ad un collegio di esperti grafologi - il Prof. Giuseppe Sofia ed il Dott. Antonio Sergio Sofia - la verifica dell'autenticità delle tre lettere d'addio rinvenute nell'ufficio del marito il giorno della sua morte, insospettita dall'utilizzo di termini che mai nel corso del rapporto erano stati utilizzati.

I consulenti, pur ritenendo che le lettere fossero state scritte di pugno da Davìd Rossi, avevano ravvisato nella sua grafia delle irregolarità ed anomalie - in particolare la contemporanea presenza di tratti fluidi e sciolti e di movimenti lenti, incerti o stentati - che suggerivano una realizzazione presumibilmente forzata (psicologicamente e fisicamente) e quindi una scrittura condizionata dalla mancanza della piena libertà dei movimenti (la consulenza è a pag. 94 e ss.).

Conseguentemente - così si legge nell'istanza di riapertura delle indagini - la vedova - aveva incaricato i propri consulenti storici, Ing. Scarselli e Prof. Norelli, di approfondire gli accertamenti già compiuti nel primo procedimento sui profili cinematici e su quelli 25 medico-legali, all'esito dei quali l'ipotesi del maleficio aveva trovato più solida conferma.

L'ing. Scarselli, con un primo elaborato, aveva posto in discussione l'attendibilità dei video versati in atti, che a suo giudizio presentavano non poche criticità, sia per le modalità di estrazione, che avevano portato alla creazione dei due files formato *.avi che non erano quelli estratti la notte fra il 6 ed il 7 marzo dalla videocamera di vicolo Monte Pio, sia per la qualità dei fumati (per il dettaglio dei rilievi si veda a pag. 35 e ss.). Con una seconda relazione di consulenza tecnica l'Ing. Scarselli aveva affrontato il tema della ricostruzione della dinamica della precipitazione, fondando le proprie considerazioni sulle immagini in formato *.avi contestate nella prima relazione, ma ritenute evidentemente di una certa concludenza (pag. 52 e ss.). Nel merito, l'ingegnere ribadiva come il corpo del Dott. Rossi fosse caduto con forte componente verticale e senza alcuna rotazione, -ossia con una traiettoria incompatibile cori l'ipotesi di suicidio della vittima. Infatti, così proseguiva il consulente, se lo stesso si fosse seduto sulla sbarra e si fosse abbandonato all' indietro, o anche se avesse compiuto la stessa operazione in posizione con le gambe flesse e il busto piegato in avanti, si sarebbe impressa una rotazione al corpo. In conclusione, per spiegare la traiettoria del corpo, così come è rappresentata nella documentazione, occorre una posizione di partenza del baricentro ('addome) più in basso del torso, in posizione quasi eretta, analogamente rispetto alle gambe che devono essere orizzontali o leggermente inclinate verso l'alto. La partenza in tale posizione è possibile solamente con l'intervento di terzi.

A conforto, l'Ing. Scarselli poneva l'attenzione sulle profonde abrasioni rilevate sulla punta delle scarpe del Dott. Rossi (si veda la foto a pag. 58) le quali (abrasioni), non potendo essere derivate da uno strisciamento sul davanzale o sul telaio della finestra, che non recavano segni corrispondenti, dovevano necessariamente essere imputate dell'azione di una forza di coercizione sulla vittima, presumibilmente riassumibile in una colluttazione, afferramento e immobilizzazione la cui intensità è tale da far pensare all'azione di due persone contemporaneamente.

Anche il Prof. Norelli si esprimeva per la insostenibilità dell'ipotesi auto soppressiva (v. pag. 66 e SS.): il soggetto è visto precipitare in posizione orientata ventralmente verso la parete, senza che minimamente se ne discosti lungo l'intero tempo della 26 precipitazione. Un'ipotesi suicidiaria di tal genere potrebbe solo evocarsi nel caso in cui il Rossi si fosse arrampicato sul davanzale, rimanendo poi appeso per gli arti superiori mantenendo il corpo parallelo ventralmente al piano del muro; ma anche ove si fosse lasciato andare abbandonando la presa, un pur minimo spostamento soprattutto della parte superiore del corpo in divergenza dal muro avrebbe dovuto rendersi evidente, per l'involontario, anche se minimo, movimento di spinta che una manovra siffatta necessariamente comporta. Senza voler indulgere a interpretazioni suggestive, peraltro, appare indubbio che una dinamica di precipitazione del tipo di quella osservata nella specie può solo giustificarsi con un corpo inerte che sia lasciato andare, in posizione ventrale tangenziale alla parete; in modo, dunque, assolutamente incompatibile con un evento suicidiario.

Quanto al resto, il Prof. Norelli, si limitava a ribadire in termini maggiormente assertivi le perplessità già avanzate in sede di opposizione nel proc. 962/13. Sottolineava come molte delle lesioni rilevate sul corpo della vittima non potessero essersi prodotte nella caduta, menzionando in particolare le escoriazioni sul viso, non imputabili all'impatto, né ad un urto tangenziale sul muro, perché ciò avrebbe determinato una componente di spinta orizzontale che invece era assente. Anche le lesività ai polsi e agli avambracci, che il Prof. Gabrielli aveva arbitrariamente e contraddittoriamente classificato come lesioni da taglio prodotte poco prima della precipitazione per meccanismo autolesivo avevano in realtà una genesi incompatibile con la caduta, così come le aree ecchimotiche ed abraso-escoriate alle braccia e agli arti inferiori e la lesività toracica. Il consulente ha in verità dubitato della riferibilità alla caduta dall'alto anche della ferita lacero contusa a tutto spessore riportata da David Rossi in regione occìpitale mediana, in corrispondenza con il punto in cui la testa impatto sul selciato. A tale ferita infatti non corrispondeva una omologa frattura occipitale, ma solo la frattura della fossa cranica posteriore e ciò induceva il sospetto di una lesione del cuoio capelluto determinata dall'azione di un corpo contundente indotta altrove rispetto al punto di arresto. Ulteriori perplessità riguardavano gli strappi presenti sulla camicia i quali, non trovando giustificazione nella dinamica della precipitazione, suggerivano anch'essi l'azione violenta di un terzo.

A sostegno della richiesta di riapertura delle indagini, la vedova del Dott. Rossi richiamava la necessità di rileggere tutte le emergenze istruttorie alla luce della corretta collocazione temporale del fatto (non già alle 20. 10, come ritenuto dal GIP nell'ordinanza di archiviazione, ma alle 19.43). Più precisamente - come meglio esplicitato nell'atto di opposizione il cui contenuto appare opportuno esporre in questa sede - si segnalava da parte del difensore come dai tabulati telefonici dell'utenza mobile di David Rossi, alle ore 20:16:49, risultasse una chiamata di tre secondi, in entrata dall'utenza di Carolina Orlandi, ed immediatamente dopo, alle 20:16:52, una chiamata in uscita verso il numero 4099009 indicato in vari articoli di stampa come numero di riferimento di un conto dormiente, da altri come numero di un conto aperto presso lo IOR, Banca del Vaticano. Posto che a quell'ora David Rossi era già morto, ad utilizzare il telefono non poteva che essere stato il suo assassino, la stessa persona che doveva avere gettato dalla finestra dell'ufficio il suo orologio da polso, ossia il grave che alle - ore 20.16 della ripresa video (ora reale) si vedeva cadere dall'alto nei pressi del corpo e rimbalzare sul selciato.

Chiedeva, inoltre, il difensore di svolgere accertamenti sulle figure umane e sui veicoli che si intravedevano transitare in via Dei Rossi nelle riprese della telecamera installata in vicolo Monte Pio o di cui si intuiva comunque la presenza.

Le indagini furono riaperte col proposito di dissipare ogni dubbio su di una vicenda drammatica che, oltre ad avere segnato, come ovvio, la vita dei congiunti, aveva scosso fortemente l'opinione pubblica.

A tale proposito la Procura della Repubblica si è attenuta, dando seguito a tutte le sollecitazioni investigative.

Il primo obiettivo dell'integrazione è stato quello di definire con la maggiore precisione possibile la scena del delitto e, contemporaneamente chiarire ogni dettaglio nel procedimento di acquisizione degli elementi di prova.

A questo fine sono stati sentiti Massimo Riccucci, il custode, e tutti i dipendenti che erano soliti trattenersi fino a tarda ora nell'ala dell’edificio ove aveva sede l'ufficio di David Rossi (Bigi Daniele, Liberati Paolo, Guariso Maria, D'Antonio Armando, Clarelli Nicola Massimo, Lisi Carlo Quagliana Renzo Filippo Riccardo) senza ottenere nuove informazioni utili (pag. 200 e ss.).

Sono stati risentiti anche Bondi Lorenza, che ha confermato quanto dichiarato nell'immediatezza dei fatti (pag. 216) e Filippone Giancarlo, che ha avuto occasione di tD precisare come la porta dell'ufficio di Davide Rossi, quando vi si recò insieme a Carolina Orlandi intorno alle 20.30 di quella notte, fosse chiusa senza giri di chiave (pag. 219).

La polizia giudiziaria ha poi proceduto ad assumere a sommarie informazioni tutti membri dell'equipaggio dell'ambulanza della Pubblica Assistenza che quella notte fu inviata in vicolo Monte Pio. Nella scheda d'intervento a pag. 5 del fascicolo 962113, si legge che il mezzo giunse sul posto alle 20.50. A bordo vi erano il medico del 118, Dott.ssa - Elisabetta Pagni, l'autista Giulia Perugini, gli operatori Paolo Maurizio Colombo e Gianluca Monaldi e la tirocinante Maria Coletta. - Tutti hanno ricordato l'abbigliamento impeccabile dell'uomo rinvenuto già cadavere, che indossava scarpe pulite e apparentemente nuove, pantaloni scuri con la piega e una camicia immacolata, che Monaldi, incalzato dalla Dott.ssa Pagni, aveva dovuto strappare sul davanti per tentare le manovre di rianimazione. Quelli dì loro che avevano operato sul corpo - la Pagni, Monaldi e la Coletta - si sono detti certi che non portasse orologi o bracciali ai polsi; nessuno ricordava di avere visto orologi nelle vicinanze (pag. 304 e ss.).

Dagli accertamenti sul furgoncino tg BT013JB che la notte del 6 marzo (ma anche la mattina del 7marzo, seppure in altra posizione) si trovava parcheggiato all'imbocco del vicolo Monte Pio è emerso che era intestato alla ditta L.D. s.n.c. di Lazzeri Andrea, Doganieri Fabio e Benvenuti Gianfranco, che in quei giorni stava compiendo piccoli lavori edili in un immobile della banca sito nella vicina P.zza dell'Abbadia (v. s.i.t. pag. 319 nelle quali Lazzeri Andrea ha confermato che era sua abitudine lasciare il mezzo in sosta nel vicolo cieco).

Si è poi ripercorso il procedimento di acquisizione dei filmati della videocamera di sorveglianza al fine di chiarire come si fosse giunti alla creazione dei due files in formato *.avi presenti in atti.

Risultava pacificamente dagli atti della prima indagine che al riversamento della registrazione avesse provveduto personale tecnico della ditta che curava la sorveglianza della banca. Nella relazione di intervento a pag. 128 del fascicolo 963/13 si legge che H salvataggio aveva riguardato la frazione temporale che andava dalle ore 19.59 alle ore 21.03 del 6 marzo 2013, che era stata trasferita su due chiavette USB, una perla banca e l'altra per le forze dell'ordine, con l'avvertimento che l'orario di registrazione non era esatto, poiché "si riscontra: ora DVR 01.37, ora esatta 1:21 ".

Nella annotazione di servizio delle 3 di notte, il Sovr. Marini e l'Ass. Gigli della Questura davano atto che le operazioni erano state eseguite dal tecnico Secciani Luigi della società Consitt s.r.l. e che la chiavetta, opportunamente sigillata, sarebbe stata custodita in Questura a disposizione dell'autorità giudiziaria (verbale di acquisizione a pag. 13 del fascicolo 963/13).

In data 12 marzo 2012 la Questura depositò in Procura un CD sul quale erano stati caricati il file delle riprese col telefonino effettuate dal Sovr. Marini e le immagini riprese e registrate da quella videocamera, ossia quella posizionata sul vicolo Monte Pio, con la precisazione si trattava di due files informato .avi, uno più breve e uno più lungo; che potevano essere aperti riprodotti con un comune media player (il CD è a pag. 126 del fascicolo 963/13.

La chiavetta col file originale in formato *.arv, inizialmente non trasmessa perché non riproducibile e non leggibile con programmi più diffusi, è stata materialmente acquisita ai fascicolo il 29 giugno 2016 su richiesta del pubblico ministero e messa a disposizione delle parti che ne hanno tratto copia (pag. 336-337).

E' opportuno chiarire fin da subito come nessun dubbio possa essere avanzato in ordine alla genuinità del file originario in formato *.arv, che è stato custodito dalla Questura senza soluzione di continuità dal momento della sua estrazione da parte di Secciani a quello del deposito agli atti del procedimento, né sul fatto che le copie in formato *.avi registrate sul CD contengano le stesse immagini - per qualità e numero - di quelle della registrazione originale in formato *.arv, con l'unica differenza della velocità di acquisizione, che nella copia in formato *.avi è accelerata rispetto a quella reale, così che il video risulta di 7 minuti più breve dell'altro.

Si conferma pertanto la piena affidabilità della prova documentale alla quale tutte le parti, i consulenti degli opponenti al pari degli inquirenti, si sono riferite per la ricostruzione degli eventi.

E' stata altresì acquisita la registrazione delle chiamate che la sera del 6 marzo 2013 pervennero ai numeri di emergenza del 118 e del 112. Si è così definitivamente 30 accertato che a compierle fu, in entrambi i casi, Mingrone Bernardo (i CD sono a pag. 1018 e 1021). Non risulta precisamente l'ora, che tuttavia può essere agevolmente desunta aliunde, posto che Filippo ne giunse a palazzo Salimbeni intorno alle 20:30 e che l'ambulanza della Assistenza Pubblica fu contattata dalla centrale operativa intorno alle 20.45.

Per completare il quadro informativo in vista della rinnovazione degli accertamenti tecnici, è stata sentita la responsabile del dipartimento manutenzioni immobiliari di MPS, Monica Di Renzo, la quale, oltre che confermare che nei piani operativi delta banca non erano installate telecamere di sorveglianza e che non vi era all'epoca dei fatti un sistema di registrazione delle persone che accedevano all'edificio, ha riferito, in merito allo stato dei luoghi, che da allora non erano stati compiuti lavori di manutenzione o sostituzione, né sulla parete esterna che affaccia su vicolo Monte Pio, né sulla finestra dell'ufficio che era stato in uso a David Rossi, salva la sostituzione dei dissuasori per i piccioni. Le riprese effettuate dalle altre telecamere della banca la sera del 6 marzo 2013 non erano più disponibili perché sovrascritte (si vedano le s.i.t. a pag. 187 e a pag. 312).

Tutti questi dati sono stati messi a disposizione dei consulenti tecnici che il pubblico ministero ha nominato per la verifica della causalità della morte, Dott.ssa Cristina Cattaneo, medico legale presso l'Università di Milano, e Ten. Col. Davide Zavattaro del RIS dei Carabinieri di Roma (si veda in particolare a pag. 423-424 il verbale di consegna della chiavetta contenente la registrazione originale della telecamera n. 6 al Ten. Coi. Davide Zavattaro che ha provveduto alla estrazione di copia per sé e per le parti e l'ha restituita mezz'ora dopo agli atti del fascicolo processuale).

I consulenti hanno altresì acquisito ì vetrini istologici, i frammenti di organo inclusi in paraffina, i campioni di sangue e di urine congelati ed il frammento dì muscolo che il Dott. Gabbrielli aveva prelevato durante l'autopsia il 7 marzo 2013 (i reperti, ancora custoditi presso l'istituto di Medicina Legale dell'Università di Siena, sono stati sequestrati dal pubblico ministero il 15.4.2016 - pag. 315). Per completezza sono stati loro consegnati anche l'I-Phone del Doti. Rossi ed il suo orologio da polso, che erano già restituiti ai famigliari nel proc. 963/13.

Per meglio eseguire l'incarico i consulenti hanno ritenuto necessario compiere nuovi accertamenti sulla salma di David Rossi che è stata riesumata, esaminata con TAC total body, sottoposta ad una seconda autopsia durante la quale sono stati esplorati tutti gli organi e le cavità, sono state rimosse le unghie ed effettuati prelievi anche in corrispondenza delle lesioni (non più leggibili) evidenziate nella prima autopsia e sono stati praticati tagli seriali su tutto il coip5 per esporre i tessuti sottocutanei, allo scopo di valutare la presenza di lesioni traumatiche non più rilevabili a livello della cute.

Autorizzati dal Pubblico ministero, hanno compiuto un sopralluogo in vicolo Monte Pio, durante il quale si è proceduto - oltre che a nuove misurazioni, ispezioni e documentazioni dei luoghi - alla repertazione di campioni, prelevati per lo più dal muro esterno all'edificio lungo la linea di verosimile precipitazione del corpo e all'interno dell'ufficio che era stato di David Rossi, in particolare dal davanzale e dal tratto di parete sottostante. Grazie alla collaborazione di un ispettore dei Vigili del Fuoco i consulenti hanno anche potuto condurre una sorta di esperimento giudiziale, con la simulazione di differenti situazioni di uscita dalla finestra dell'ufficio, sia in condizioni di volontarietà che con intervento di terzi (il verbale delle operazioni tecniche è a pag. 330).

Altri accertamenti strumentali di natura tossicologica sono stati eseguiti dalla Dott.ssa - Marina Calligara dell'Università di Milano (il verbale di conferimento incarico è a pag. 431, la relazione di consulenza tecnica è a pag. 446 e ss.), mentre il M.11o Marco Santacroce del laboratorio di Biologia del RIS di Roma è stato incaricato di rilevare i profili genetici presenti sui campioni repertati in sede di riesumazione della salma (unghie, frammenti prelevati dalle area interessate dalle lesioni ormai non più visibili), sugli inerti repertati nel corso del sopralluogo, sull'orologio da polso e sull'l-Phone di Daivid Rossi (il verbale di nomina è a pag.429, la relazione di consulenza tecnica a pag. 526 e ss.).

All'esito degli accertamenti esposti il Pubblico Ministero ha richiesto l'archiviazione del procedimento ai sensi dell'art. 408 c.p.p. per l'infondatezza della notizia di reato.

Avverso tale richiesta hanno proposto opposizione la signora Tognazzi e la figlia, difese - dall'Avv. Luca Goracci e, disgiuntamente, la madre del defunto Dott. Rossi, Vittoria 32 Ricci, i fratelli Ranieri e Filippo Rossi e la cognata Simonetta Giarnpaoletti, difesi dall'Avv. Paolo Pirani.

Le difese degli opponenti, si sono avvalse, oltre che dei consulenti storici, Prof. Norelli e Ing. Scarselli, anche di nuove professionalità in materia informatica, chimicomerceologica, genetica e psicologico forense, le cui considerazioni saranno esaminate nel corpo della presente motivazione, nei limiti della loro rispettiva rilevanza (ne è priva la relazione della Dott.ssa De Rinaldis incentrata sulla psicologia dei consulenti tecnici o Zavattaro e Cattaneo, di cui si vorrebbe dedurre l'inattendibilità dall'esame semanticolessicale dei termini utilizzati e dallo stile narrativo, che tradirebbero pregiudizio e convinzioni preconcette).

Ricostruzione (e parziale rivisitazione) della cronologia essenziale.

Preliminare ad ogni considerazione relativa alla causalità della morte è l'esame delle critiche mosse dalla difesa alla ricostruzione del a cronologia degli eventi accolta nell'ordinanza di archiviazione, che presenta effettivamente alcuni errori di fatto che comunque, per quanto si dirà, non intaccano la sostanza delle conclusioni.

Secondo le dichiarazioni dei famigliari, il 6 marzo 2013 David Rossi pranzò col fratello Ranieri e poi fece rientro a casa.

Alle ore 16:40 circa, uscì nuovamente per recarsi al lavoro.

Giunto in ufficio, intorno alle 17.00 il Dott. Rossi ebbe un breve colloquio con l'amico e collega Giancarlo Filippone, che lasciò Palazzo Salimbeni circa mezz'ora dopo (si vedano le s.i.t. a pag. 218).

L'ultima persona che lo vide vivo fu la collega Chiara Galgani, che si recò da lui intorno alle 18:00. Ha precisato la teste che prima di incontrarlo, onde verificare che si trovasse in ufficio dato che la sua porta era chiusa, Io aveva chiamato più volte, sia al cellulare che al fisso, ottenendo risposta solo all'ultima telefonata, delle 17:37 (pag. 118 fasc. 962/13).

Dalla elaborazione dei tabulati telefonici delle utenze mobile e fissa in uso a Rossi, che occupa pressoché tutto il terzo volume del proc. 962/13, le due chiamate senza risposta risultano, effettuate alle ore 17:34 e 17:35, mentre alle ore 17:37 vi è traccia della conversazione durata 16 secondi.

La coincidenza degli orari consente di superare una ambiguità dovuta alla duplicità delle fonti probatorie che attengono ai contatti telefonici. L'acquisizione dei tabulati da parte del gestore del traffico è stata infatti anticipata dalla stampa del registro eventi contenuta nell'I-Phone di David Rossi (si veda a pag. 85 del fascicolo 962/13), nella quale i dati del traffico telefonico risultano anticipati di un'ora rispetto a quelli dei tabulati (la chiamata voce della Galgani è collocata alle 4:37 P.M.).

Alla luce delle dichiarazioni della Galgani, che ricavò l'ora esatta della chiamata dal registro interno del suo telefono, si conferma pertanto come la fonte attendibile sia esclusivamente quella del tabulato telefonico fornito dal gestore, apparendo al contrario errato il registro eventi, forse a causa della non corretta impostazione dell'orario nel cellulare, o forse perché i dati, per quanto risalenti all'inizio di marzo, furono scaricati dagli inquirenti dopo l'aggiornamento delle impostazioni all'ora legale.

Ciò significa che la telefonata fra David Rossi e fa moglie, che nell'ordinanza del 5 marzo 2014 si dà per avveduta alla 6:02 PM, è in realtà da collocare alle ore 19:02, come difatti risulta dalla lettura dei tabulati telefonici (pag. 985), che a quell'ora riportano una chiamata in uscita versò la sua utenza della durata di 9 secondi, e come disse la Tognazzi nelle sommarie informazioni del 17.4.2013: "l'ultima volta che ci si siamo sentiti è  stato circa alle 19:00 del 6 marzo 2013, quando lo chiamai perché doveva venire a farmi l'iniezione di antibiotico. Egli mi rispose che entro mezz'ora sarebbe arrivato" (pag. 392 del fascicolo 962/13).

Nessuna conversazione è stata compiuta in orario successivo, per quanto dai tabulati emergano chiamate senza risposta da parte di giornalisti e dell'Ing. Luca Scarselli, che in seguito i congiunti nomineranno consulente tecnico.

Intorno alle 19.20-19.30 la Galgani, nel percorrere il corridoio del terzo piano in uscita da Palazzo Salimbeni, passò davanti all'ufficio di David Rossi, notando la porta chiusa. Alle 19.41 pervenne sull'I-Phone dell'uomo l's.m.s. col quale Filippone, sollecitato dalla Tognazzi, lo invitava ad andare a correre insieme il giorno dopo.

Alle 19.43 il Dott. Rossi precipitò dalla finestra. La telecamera di sorveglianza registrò il fatto alle ore 19.59 del suo orologio interno, che corrispondevano, appunto, alle ore 19.43 effettive, stante il ritardo di 16 minuti attestato dal tecnico Secciani ("ora DVR 01.37, ora esatta 1:21"). L'affermazione secondo la quale la caduta si sarebbe verificata 34 19.43 effettive, stante il ritardo di 16 minuti attestato dal tecnico Secciani ("ora DVR 01.37, ora esatta 1:21"). L'affermazione secondo la quale la caduta si sarebbe verificata alle 20:10 è frutto di un travisamento, indotto verosimilmente dal tenore del verbale di acquisizione della registrazione stessa, nel quale si legge che "l'orario riportato sulle immagini porta 10 minuti dì ritardo"(pag. 13 del fascicolo 962/13).

La caduta non determinò la morte immediata di David Rossi, la cui agonia durò venti interminabili minuti. Le registrazioni documentano movimenti volontari delle braccia e della testa, in misura minore anche delle gambe, ed attività respiratoria fino alle ore 20:20 circa (ore 20:04 reali). Durante questo lasso di tempo è possibile apprezzare, riflesse sul muro del vicolo Monte Pio, quello di destra, visto dal punto di ripresa, le ombre di più figure umane che passano per via Dei Rossi e il riflesso di fanali e luci rosse di veicoli.

Si espone fin d'ora come la circostanza non sia affatto sospetta, essendo la via Dei Rossi una strada pubblica, aperta anche al traffico (limitato) veicolare, la quale, superato di pochi passi l'innesto col vicolo Monte Pio, sbocca nella strada principale del centro di Siena. Non stupisce pertanto che alle 19/20 di sera vi fossero dei pedoni o delle auto in transito o in sosta. Gli ulteriori accertamenti tecnici richiesti dall'opponente sulle luci del video, volti comprendere in quale precisa posizione si trovassero i veicoli che le hanno prodotte, oltre che non rispondere ad effettive esigenze investigative, si CD preannunciano superflui, vertendo su di una circostanza, la posizione dei veicoli appunto, probatoriamente indifferente.

Alle 20:00/20:05 anche Bondi Lorenza lasciò la banca e, passando nel corridoio, notò che la porta dell'ufficio di David Rossi era aperta e che lui, nonostante la luce fosse accesa, non era presente (pag. 28 fascicolo 962/13).

Proseguendo nella descrizione della registrazione video, ad ore 20:27:17 (ore 20:11 reali) all'imbocco di vicolo Monte Pio comparve per pochi secondi la figura di un uomo di cui non si apprezzano le sembianze, ma che parrebbe rivolto in direzione della via dei Rossi e non verso il cieco del vicolo ove era disteso il cadavere, parzialmente coperto alla vista dal furgone della ditta L.D. s.n.c. di Lazzeri Andrea.

Infine, alle 21.02 (ore 20.44 reali) la telecamera riprese Filippone e Mingrone - il secondo al telefono, in posizione più arretrata del primo - entrare con passo sicuro nel vicolo, avvicinarsi al corpo inerte e dopo qualche secondo, spostarsi all'intersezione con via Dei Rossi e rimanere in attesa.

Filippone, che come Mingrone ai è riconosciuto nelle immagini, ha sempre detto di avere subito capito che l'amico, in quel momento, era già privo di vita.

Inconsistenza delle allegazioni difensive relative alla presenza di terzi nella stanza del Dott. Rossi dopo la morte.

Quanto sopra precisato in ordine alla cronologia degli eventi, ed in particolare l'arretramento del tempo della caduta di circa mezz'ora rispetto alla valutazione iniziale, non innova il quadro indiziario.

Secondo gli opponenti, la giusta collocazione dell'ora della precipitazione dimostrerebbe invece inoppugnabilmente, come già anticipato, che David Rossi fu assassinato; ciò perché alle ore 20:16:49, ossia dopo la sua morte, i tabulati telefonici evidenzierebbero una chiamata voce di tre secondi fra la sua utenza e quella in uso a Carolina Orlandi, seguita, alle 20:16:52 da una chiamata in uscita al numero 4099009. Esattamente alla stessa ora, il video della telecamera di sorveglianza mostrerebbe caduta di un grave avente un moto leggermente parabolico, non perfettamente perpendicolare, indice questo di una velocità iniziale con componente orizzontale che rimbalzando al suolo, va ad assumere una posizione compatibile con quella di quiete in cui è stato trovato l'orologio, ma soprattutto indice del fatto che qualunque cosa fosse non poteva trattarsi di un oggetto caduto da solo" (pag. 1089).

Dagli accertamenti compiuti sul punto presso la TIM è risultato che le due chiamate afferivano in realtà alla fruizione del servizio S.O.S. autoricarica fornito dal gestore. In altri termini, l'utenza della Orlandi aveva esaurito il credito durante la chiamata, rimasta senza risposta, al numero in uso a Rossi e ciò aveva generato una deviazione di chiamata al numero di servizio 4099009.

Il referente per i rapporti con l'autorità giudiziaria di TIM, Laura Benignetti, nella nota trasmessa il 12.4.2017 non poteva essere più chiara e definitiva: "...possiamo confermare che la chiamata dei 63.2012 rappresentata dai due record di pari NCR delle ore 20:16.49 e delle ore 20.16.53 non costituisce effettiva conversazione tra il chiamante 340 (che finisce il credito) ed il chiamato 335, ovvero non vi è stata risposta del chiamato. Quanto esposto rappresenta la soluzione tecnica/documentativa per rappresentare una originazione (che non va a buon fine) prodotta da un chiamante mobile TIM senza credito. L'utente 340 non ha parlato con l'utente 335 riportato nel campo Chiamato del record alle ore 20:16:49, bensì col menù fonico del servizio SOS ricarica".

Non residua dubbio alcuno che debba essere chiarito tramite l'acquisizione dei dati di fatturazione del servizio di ricarica o tramite l'assunzione a sommarie informazioni della Benignetti e del collega Diana che, il 30 marzo 2017, fornì agli inquirenti una prima risposta, che la stessa TIM ritenne parzialmente inesatta e quindi corresse di propria iniziativa, in considerazione degli ulteriori approfondimenti con specifici settori tecnici della Rete Telecom.

E, d'altronde, sarebbe davvero incredibile che un assassino talmente scaltro da simulare le tracce di un suicidio e dissimulare quelle della propria presenza sul luogo del delitto, sia stato al contempo tanto sciocco da rispondere al telefono della sua vittima dopo averla uccisa, senza contare che la Orlandi, ripetutamente sentita nel corso delle indagini, non ha mai fatto riferimento alcuno ad una chiamata voce col numero del patrigno.

Si noti, infine, come una triangolazione analoga a quella di cui si discute ricorra anche alle ore 22:28, quando all'utenza di David Rossi risulta una chiamata in entrata da parte di altro numero intestato al giornalista Paolo Tripaldi della durata apparente di 14 secondi, immediatamente seguita da una chiamata dal cellulare dì Rossi in uscita al numero 4099009. Poiché a quell'ora la polizia giudiziaria aveva già assunto la custodia dell'ufficio ove si trovava l'I-Phone, è evidente che all'indicazione del tabulato non ha effettivamente corrisposto alcuna conversazione.

Il sequestro dell'ufficio, con materiale occupazione degli ambienti da parte delle forze dell'ordine, costituisce una dirimente prova storica contraria, rispetto ad ogni ipotesi ricostruttiva che, traendo spunto da dati tecnici di significato non univoco, vorrebbe dimostrare la contemporanea presenza di terzi estranei sul luogo del delitto.

Così anche per i quattro amici che risultano dal primo report trasmesso da Marco Bernardini, responsabile area facility managment di BMPS, sul computer in uso a Davide Rossi alle ore 21.50, 21,56, 1.24 e 1.37 della notte del 6 marzo; Poiché i pubblici ministeri sapevano, per esperienza diretta essendo stati personalmente presenti, che nessuno, a quell'ora, poteva essersi collegato al computer dall'ufficio, interpellarono Bernardini che attribuì i quattro eventi a meccanismi automatici di riattivazione del mouse ovvero della tastiera tutti debitamente verificati e riscontrati; pertanto si può affermare che non è stato effettuato alcun accesso al P. C. in uso a Rossi nei predetti orari ne' da postazione fissa né da remoto (pag. 60 proc. 962113). Insistere nel richiedere ulteriori accertamenti informatici per verificare una circostanza già dotata, come detto, di prova storica certa, pare eccedere ogni pur comprensibile scrupolo difensivo.

Anche quanto asserito nell'opposizione circa il lancio dalla finestra dell'orologio di David Rossi, tutto è meno che un dato certo e incontrovertibile. Nei frame selezionati dall'ing. Scarselli (pag. 1136 delle osservazioni alla consulenza tecnica Zavattaro/Cattaneo) non si apprezza alcun orologio in caduta, ma unicamente alcuni luccichii in corrispondenza dal selciato del vicolo reso brillante dalla pioggia, simili ai molti altri che caratterizzano l'intero filmato. Che tali bagliori rappresentino un orologio, o anche solo un grave, che tocca terra e rimbalza, è nulla più che una congettura peraltro poco compatibile, sia con lo iato temporale (parrebbe di circa 5 secondi) che intercorre fra le due immagini, sia con la diversa posizione in cui fu pacificamente rinvenuta la cassa dell'orologio. Neppure l'opponente pare del resto del tutto persuaso della sua tesi, ipotizzando in altra parte dell'atto che l'orologio fosse al polso di David Rossi al momento della caduta, tanto da avere lasciato l'impronta dell'afferramento da parte degli assassini.

Nelle memorie depositate in limine, con una rivoluzione francamente sconcertante della prospettiva probatoria, la difesa della vedova Rossi assume che l'orologio sia stato posizionato in loco-dopo l'allontanamento del personale del 118 (la prova è che nessuno dei soccorritori lo notò intorno al cadavere) e domanda che siano condotte nuove indagini sulle videoriprese fatte dal Sovr. Marini nell'ufficio della vittima, al fine di verificare se, in quelle riprendono il corpo dalla finestra, contornato dai soccorritori, sia possibile individuare l'orologio ed il cinturino.

L'inutilità di una tale indagine emerge con evidenza, solo a ricordare che fra l'orario delle riprese (circa le 21.00) e le ore 22.50, quando la scientifica diede inizio al sopralluogo che documentò la presenza della cassa dell'orologio e del cinturino, sul luogo dei fatti operavano decine di persone - l'equipaggio del 118, i Carabinieri, la Polizia, i tre magistrati - a presidio, oltre che dell'ufficio, anche del vicolo e del corpo. Nell'ultima analisi tecnica depositata dall'opponente - quella a firma dell'lng. Scarselli del 21.6.2017 — il tentativo di dimostrare che nell'ufficio di David Rossi fosse presente un estraneo (di nuovo anche in concomitanza con l'assunta caduta del grave) muove dall'esame delle luci riflesse sul fanale anteriore destro dell'autocarro della ditta L.D. s.n.c. di Lazzeri Andrea che era parcheggiato in vicolo Monte Pio. Tali luminosità puntuali sarebbero state determinato da luci provai-denti dall'altro, come risulta evidente dall'angolo che l'ipotizzato cammino del raggio ottico forma con la verticale a destra dell'immagine. In conclusione "queste riflessioni, unitamente alla caduta dell'oggetto (la cui presenza è certa, essendo caratterizzato dalla scia e il relativo blocking dei pixel), evidenziano senza ombra di dubbio un 'attività alla finestra (o alle finestre) posta in corrispondenza degli uffici della banca, ubicati nella porzione di destra del vicolo per chi guarda nella visuale, della videocamera".

Il sillogismo è davvero sfuggente, non comprendendosi secondo quale criterio di inferenza, alla variazione del riflesso sul fanale del furgone o sulla lamiera sovrastante corrispondano, addirittura senza ombra di dubbio, dei movimenti alle finestre del palazzo, che secondo il consulente si sarebbero ripetuti diverse volte fra le 19:42 e le 20:16 ore reali (si vedano le immagini riprodotte alle pagine. 20/23 dell'elaborato dell'ing. Scarselli), ma non negli unici momenti in cui è certo che alla finestra di Rossi si sia svolta attività, ossia quando Filippone, Mingrone e Riccucci vi si sporsero e - videro il corpo sul selciato del vicolo. Sulla incongruità del ragionamento, nella parte in cui si vorrebbe desumere la prova dell'omicidio da quella di una non meglio precisata (né precisabile) attività ad una o più finestre del palazzo, non pare poi francamente il caso di diffondersi.

Per ragioni analoghe, la presenza di terzi nella stanza non può essere tratta dal fatto che Pilippone, quando si recò nell'ufficio dell'amico alle 20:30, trovò chiusa la porta che Lorenza Bondi, circa mezz'ora prima, uscendo dal palazzo, aveva visto aperta, essendo nozione di comune esperienza che a chiudere una porta, basta alle, volte una folata di vento, entrata da una finestra aperta.

La precipitazione: posizione iniziale e implicazioni.

L'articolata consulenza tecnica svolta a seguito della riapertura delle indagini ha confermato l'ipotesi ricostruttiva avanzata dall'Ing. Scarselli.

Si legge nella consulenza Zavattaro/Cattaneo che un corpo in caduta libera, soggetto solo alla forza di gravità, deve rispettare alcune fondamentali leggi della fisica, fra le quali quella della conservazione del momento angolare: in parole semplici se un corpo inizia la caduta in rotazione, questo continuerà a ruotare mantenendo costante il vettore L (momento angolare), il che si traduce in una velocità angolare costante se non si varia la forma del corpo durante il movimento. In ogni caso, anche variando questa forma (si pensi alle rotazione dei pattinatori sul ghiaccio, che accelera o decelera a seconda che riducano o aumentino l'estensione delle gambe) questa velocità angolare può dunque aumentare o diminuire, ma non cambiare orientazione o annullarsi (...) solo l'intervento di una forza esterna può cambiare questo stato.

Il fumato della telecamera mostra un corpo che precipita in linea sostanzialmente retta, con il capo sullo stesso asse verticale, e con il punto di impatto dei glutei che, con ottima approssimazione, è sulla stessa linea che quella parte del corpo occupa nei fotogrammi precedenti.

Dopo l'impatto dei glutei (appena preceduto da quello dei talloni che si notano rimbalzare) il corpo si piega su se stesso e si carica come una molla, per cui al momento del rilascio dell'energia residua (cioè quella parte di energia cinetica accumulata con la caduta che non è andata dispersa nelle lesioni delle ossa e degli organi interni) si apre, proiettando le braccia all'indietro. La nuca riprende quota fino ad un'altezza di circa un metro prima di colpire, senza alcuna protezione, la pavimentazione del vicolo.

Ne discende che Rossi era in una posizione iniziale che non dava luogo a rotazione, con il tronco e il viso rivolti verso il muro, paralleli ad esso.

Per accertare l'altezza iniziale della precipitazione i consulenti hanno proceduto a ricostruire la velocità di caduta, previa determinazione delle grandezze fondamentali del calcolo, ossia la distanza percorsa in aria dal corpo fra due punti predeterminati, —rappresentati da due fotogrammi estratti dal video originale in formato *.arv, ed il tempo intercorso tra il primo e il secondo fotogramma.

A tal fine, durante il sopralluogo del 25 giugno 2016, il consulente del P.M. ha posizionato un'asta metrica dell'altezza di 2 metri nel punto di atterramento del bacino del Rossi, videoregistrando l'operazione attraverso lo stesso sistema in uso dell'epoca dei fatti, in modo da lasciare inalterate le eventuali distorsioni presenti nell'apparato originale. A questo punto, mettendo in sovrapposizione i due fotogrammi in questione, riportando l'immagine dell'asta di confronto, hanno proceduto alla misurazione dello spazio percorso dal corpo fra i due fotogrammi, prendendo come riferimento il bordo del colletto della camicia, più nitido e più stabile rispetto ad altre parti del corpo.

Per la misurazione del tempo di caduta si è utilizzato il video originale in formato *arv che è stato a sua volta ripreso con una speciale telecamera mentre proiettava le immagini in questione, e ciò per neutralizzare la variazione nella frequenza delle immagini dovuta al sistema di ottimizzazione del movimento di cui era dotato il sistema di registrazione.

In ragione del risultato del calcolo, la quota di precipitazione dei corpo, prendendo a riferimento il bacino, è stata collocata fra i 13,56 metri e i 14,83 metri da terra, ove l'altezza superiore è pressoché sovrapponibile al tubo metallico posto a protezione del davanzale della finestra dell'ufficio di Rossi (l'immagine esplicativa è a pag. 800).

Ciò ha convinto anche i consulenti del P.M. che con ogni probabilità Rossi aveva iniziato la precipitazione da una posizione iniziale già completamente esterna alla - finestra, con busto eretto, rivolto verso la parete.

Oggi gli opponenti contestano il risultato dell'accertamento, che non sarebbe attendibile a causa della grossolanità del sistema di misurazione adottato (l'asta metrica, il filo a piombo ecc...), dell'instabilità dell'elemento preso a riferimento per il calcolo (il colletto della camicia) e della diversità fra il videoregistratore che riprese la caduta e quello da cui sono stati estratti i file di confronto (il primo era marca EVERFOCUS mod. EDR, il secondo EVERFOCUS mod. EDSR), sottolineando come ogni minima 41 variazione dell'interpretazione delle immagini, determini una enorme differenza nell'altezza iniziale calcolata, osservazione sulla quale non si può che convenire e che pare essere stata tenuta ben presente anche dai consulenti, che hanno-dato conto dei limiti tecnici della ricostruzione (il colletto della camicia non e certo predicato come il punto di riferimento ideale, ma come il migliore possibile nelle condizioni date) e delle inevitabili approssimazioni nei dati di base, con conseguente ampio, intervallo nella individuazione del punto si inizio caduta (circa 130 centimetri).

Proprio per questa ragione non appare utile insistere sul piano degli accertamenti scientifici, il cui risultato sarebbe in ogni modo opinabile.

La prova che David Rossi sia caduto da quella finestra, e non da quella del piano di sopra o del piano dì sotto, si trae comunque in modo persuasivo dal fatto che quella fosse la finestra del suo ufficio e che a quel davanzale sia stata rilevata una gran quantità di schegge di legno ed il danneggiamento di tutti e quattro i dissuasori per volatili. Sarà anche una coincidenza, ma ciò collima col risultato dell'accertamento tecnico di Zavattaro, che a sua volta asseconda i rilievi del Prof. Norelli sulla posizione in cui doveva essersi trovato il corpo prima della precipitazione. Al contrario, il sospetto che il fatto possa essere occorso altrove, non trae spunto da elementi concreti, rimanendo a livello puramente congetturale

Il sopralluogo del 25 giugno 2016 fu utile anche per tentare una simulazione delle modalità della caduta. I consulenti chiesero ad un Vigile del Fuoco, opportunamente assicurato, di uscire dalla finestra, senza dare indicazioni su come farlo. Questi, tenendosi alla barra di metallo orizzontale, scavalcò il davanzale rivolto verso la finestra mettendo i piedi nella parte esterna della soglia. Poi, per calarsi dalla finestra, appoggiò le ginocchia sul davanzale, quindi cominciò a distendere le gambe all'esterno, lungo il muro, assicurandosi con entrambe le braccia al davanzale e, al contempo, facendo perno sulla parete con la punta delle scarpe. La sequenza è documentata fotograficamente alle pagine 827 e 828. L'ultima delle foto è illuminante per la chiara convergenza con un altro significativo elemento indiziario che si ricava dall'autopsia alla quale il cadavere fu sottoposto il 7 marzo 2013.

Il Dott. Gabbrielli, infatti, notò nella parte interna di entrambe le braccia delle lesioni pressoché speculari che descrisse come segue:

Al braccio destro terzo medio sulla faccia mediale, area violacea di forma irregolare, delle dimensioni di cm 15x6, che si porta, interessando l'avambraccio, fino alla faccia mediale del gomito destro, nel cui contesto si rileva una area finemente disepitelizzata, nastriforme, longitudinale di cm 12x2...".

Al braccio sinistro "...terzo medio, sulla faccia mediale, complesso di aree violacee occupante una superficie complessiva di cm 7x5 nel cui contesto si apprezzavano aree finemente disepitelizzate, puntiformi, di colorito rossastro..."

I consulenti del P.M. fanno notare come le lesioni, di aspetto nastriforme con caratteri misti di escoriazione ed ecchimosi, siano state cagionate da una azione mista di compressione e strisciamento, con causalità certamente indipendente dall'impatto al - suolo. Entrambe - ma in maniera più evidente quella di destra - presentano inoltre un margine superiore netto, ad indicare una direzione di formazione dall'ascella all'estremo distale dell'arto superiore.

La posizione, le caratteristiche, la direzione delle escoriazioni e la nettezza del margine dal quale hanno avuto origine, rendono estremamente probabile che siano state conseguenza dello sfregamento delle braccia sul davanzale esterno della finestra, in posizione analoga a quella assunta dal Vigile del Fuoco, che è coerente, seppure con minore univocità, anche con l'escoriazione al ginocchio destro rilevata sul cadavere (pag.53), anch'essa non determinata dall'impatto al suolo, ma potenzialmente compatibile con uno sfregamento contro il muro, occorso in questa fase.

Non v'è chi non veda come un tale punto dì precipitazione presupponga dinamiche che, se insolite per un suicidio, sono pressoché inconciliabili con l'omicidio.

La fondatezza dei rilievi avanzati dall'opponente dimostra quindi ulteriormente l'insussistenza del delitto ipotizzato.

Al di là della compatibilità con la condizione post-delictum dei fili antìvolatile alla quale fanno cenno i consulenti del P.M. - dato di difficile apprezzamento, stante la variabilità delle azioni ipoteticamente attribuibili al terzo - si dovrebbe immaginare un assassino il quale, invece di spingere la vittima fuori dalla finestra o di gettarvela come sarebbe più agevole e rapido, l'abbia spostata di peso all'esterno del davanzale, l'abbia trattenuta per gli arti superiori e poi l'abbia lasciata cadere nel vuoto.

Una tale dinamica, anche a prescindere dalla notevolissima forza "fisica necessaria, avrebbe certamente determinato una reazione da parte della vittima, che si sarebbe opposta, ingaggiando una colluttazione, gridando o quantomeno dimenandosi, pregiudicando in questo modo la quasi perfetta verticalità della caduta.

Tanto ciò è vero che l'opponente assume quale presupposto della dinamica di precipitazione un corpo inerte che sia lasciato andare. Sul punto si richiamano le osservazioni del Prof. Norelli, secondo il quale anche solo lo sfregamento del viso contro la parete nella fase della caduta avrebbe impresso al moto una spinta orizzontale. E tuttavia un tale stato di incoscienza non poteva essere stato indotto da sostanze, che risultarono assenti fin dagli accertamenti compiuti all'epoca dal Prof. Gabbrielli.

Il tema è stato approfondito dopo la riapertura delle indagini tramite la consulenza tecnica conferita alla Dott.ssa Marina Calligara dell'Università di Milano, che ha esaminato campioni provenienti da entrambe le autopsie con identico esito.

Nei reperti l'esperta non ha rilevato la presenza di sostanze stupefacenti o psicotrope, né di altri farmaci o sostanze dotate di attività farmacologica, mentre è risultata presente caffeina, sostanza contenuta nel caffè, nel the e nella coca-cola, ecotinina, metabolita della nicotina, indice di esposizione fumo di tabacco. Nei reperti post-esumazione sono state rilevate tracce di acetone e altre sostanze volatili da ricondurre ai fenomeni putrefattivi (ed infatti l'elemento era assente nei campioni repertati post mortem). In conclusione, anche secondo la Dott. Calligara, era da escludere che in tempi antecedenti, anche prossimi, alla morte abbia assunto xenobiotici, ossia sostanze estranee al normale metabolismo di un organismo vivente, in grado di alterare le capacità psicofisiche o di pregiudicare lo stato di salute" (pag. 458).

La difesa si è quindi vista costretta a sostenere che il corpo fosse stato reso inerte da una azione violenta, individuando quest'ultima, come già anticipato, in un colpo infetto con un mezzo contundente nella zona posteriore mediana del capo, così da cagionare la ferita lacero contusa documentata dalla prima autopsia.

Sotto il profilo medico legale, la prospettazione è priva di pregio, poiché la ferita, come evidente anche agli occhi di un profano, ha attinto la testa proprio nella parte interessata dall'urto violento contro il lastrico del vicolo, ed è quindi ragionevole che abbia trovato in quell'urto la sua causa esclusiva. La TAC total-body alla quale la salma è stata sottoposta dopo la riesumazione, ha evidenziato una rima di frattura lineare nella fossa cranica posteriore che oltrepassava la linea mediana, proprio in corrispondenza della lesione al cuoio capelluto.

Osservano sul punto i consulenti che il complesso lesivo composto da una lacerazione del cuoio capelluto abbinata ad una rima di frattura sottostante è un connubio frequentemente rinvenuto nei precipitati, quando la testa è un polo d'urto secondario (nei casi in cui il capo risulta essere il primo punto di impatto le lesioni sono ovviamente maggiori).

E che questa sede del capo sia stata una sede di urto nella caduta è confermato dal video, ma non solo. La letteratura scientifica ci supporta nell'affermare che nella sede dove la lacerazione è stata riscontrata le lesioni sono da attribuire in maniera statisticamente significativa a una caduta piuttosto che a un colpo inferto da terzi (nella remota ipotesi che si possa pensare ad una lesione da aggressione con corpo contundente prima della precipitazione). Esiste infatti la regola della hat-brim line (linea del cappello)".

Ma al di là degli aspetti medico legali, è evidente che se la ferita a tutto spessore di cui si discute fosse stata provocata prima della caduta, certamente avrebbe lasciato tracce ematiche, in particolare macchie da gocciolamento oda contatto, che non sono invece state rinvenute, né sulla finestra, né all'interno dell'ufficio (nonostante i tre sopralluoghi), né nei luoghi prossimi, ove Davide Rossi potrebbe essere stato trascinato, come l'opponente vorrebbe dedurre dai graffi sulle calzature.

Ma in particolare tali tracce non sono presenti sulle superfici che gli ipotetici assassini certamente non hanno avuto modo di inquinare, ossia sugli abiti della vittima, sulle sue - scarpe e, più in generale, sulle parti del suo corpo non attinte della lesione, su cui il sangue sarebbe inevitabilmente colato o gocciolato.

Si ricorda come il personale del 118 sentito dopo la riapertura delle indagini, abbia riferito di una camicia bianca immacolata e di abiti perfettamente pulitg, In effetti, l'esame delle fotografie scattate al momento del sopralluogo (si veda in particolare quella n. 16 a pag. 307 del fascicolo 962/2013) mostrano il colletto posteriore della camicia leggermente intriso di sangue in corrispondenza del bordo superiore, quello a contatto col cuoio capelluto ad indicare che quell'unica macchia si genererò per assorbimento, quando il corpo era già in posizione orizzontale.

Tale considerazione appare decisiva poiché, prescindendo essa dallo stato dei luoghi, conserva appieno la propria efficacia dimostrativa, anche a supporre, come da ultimo gli opponenti, che Rossi possa essere precipitato, non dal suo ufficio, ma dalla finestra del quarto piano.

Prescindendo per il momento dalle obiezioni mosse dalla difesa circa la eziogenesi di altre lesività rilevate sul corpo della vittima e non dovute all'impatto al suolo, sulle quali si tornerà nel seguito, è dato incontestato che nessuna di esse possa avere determinato nel soggetto passivo una condizione di incoscienza.

Viene così meno il presupposto di fatto dal quale dipende la compatibilità fra le modalità di verificazione dell'evento e l'azione di terzi.

Il suicidio annunciato.

La morte costituisce l'inveramento di un proposito che David Rossi manifestava già da alcuni giorni e del quale lui stesso ha inteso lasciare testimonianza scritta.

I tre messaggi di addio - "Ciao Toni, mi dispiace ma l'ultima cazzata che ho fatto è troppo grossa - Nelle ultime settimane ho perso"; "Ciao Toni, Amore l'ultima cosa che ho fatto è troppo grossa per poterla soddisfare. Hai ragione, sono fuori di testa da settimane"; "Amore mio, ti chiedo scusa ma non posso più sopportare questa angoscia. In questi giorni ho fatto una cazzata immotivata, davvero troppo grossa. E non ce la faccio più credimi, è meglio così" - sono autografi e redatti il giorno della morte, mentre nessun elemento avvalora credibilmente l'ipotesi che l'autore non li abbia scritti liberamente.

Premesso che la scorrevolezza e le altre caratteristiche del tratto (le stesse che hanno consentito di apprezzarne l'autenticità) sono ictu oculi incompatibili con l'esercizio di una coazione fisica sul braccio o sulla mano di David Rossi, che avrebbe ovviamente inciso sulla qualità delle scrittura, il ricorrere di una coazione morale non può certo essere dedotta dalle discontinuità del movimento, dalle variazioni del tratto pressorio e dalle altre disomogeneità del tracciato grafico, rilevate dai consulenti dell'opponente, indicative, al più, della condizione soggettiva anomala nella quale versava l'autore. Che tale situazione sia da addebitare alla costrizione di un terzo è pura congettura, specie se si profila, come in questo caso, una causa alternativa ugualmente capace di produrre una alterazione dello stato emotivo, quale l'imminente suicidio.

La spontaneità delle scritture e al contrario avvalorata, sia da elementi intrinseci al testo, che estrinseci.

 Sotto il primo profilo, si rammenta come le lettere siano tre, una non conclusa - nelle ultime settimane ho perso" - le altre due maggiormente articolate, ma espressive dei medesimi contenuti. Si dovrebbe quindi immaginare - e la prospettazione è semplicemente assurda - che la persona entrata nell'ufficio di David Rossi per ucciderlo, insoddisfatto della riuscita stilistica del messaggio di commiato che gli aveva imposto di scrivere, glielo abbia fatto ripetere altre due volte e poi, arreso all'indicibile, abbia strappato tutte e tre le versioni e le abbia gettate nel cestino. Il tutto, s'intende, mentre sullo stesso corridoio erano al lavoro altre persone che avrebbero potuto entrare in ufficio in ogni momento, per coincidenza o anche richiamati dalla vittima se, in un barlume di buon senso, avesse deciso di sottrarsi a morte certa, chiamando aiuto.

L'autore delle lettere, inoltre, fa ripetutamente riferimento ad una cavolata non meglio specificata, in conseguenza della quale era fuori di testa da settimane, ed anche questo .è un importante indice di spontaneità, poiché richiama esattamente, nella sostanza e nella scelta terminologica, il senso di catastrofe imminente che in quei giorni angosciava il Dott. Rossi. Di cavolate, mai davvero descritte nella loro oggettività (la richiesta di protezione inoltrata a Viola? qualche informazione inavvertitamente rivelata ad un amico giornalista?) aveva infatti parlato lo stesso giorno della morte, prima con la Dott.ssa Carla Lucia Ciani, poi col fratello Ranieri col quale si era trattenuto a pranzo.

Il pomeriggio del 4 marzo, per scusarsi con Viola di averlo ossessionato con le sue preoccupazioni, Rossi gli scrisse che doveva essergli sembrato pazzo, espressione che analoga a quella che il giorno dopo avrebbe utilizzato per giustificare con Carolina Orlandi i tagli che si era autoinflitto al polso destro (sai com'è quando uno ha quei momenti in cui perde la testa ...).

D'altronde, era da giorni che David Rossi minacciava il suicidio, sia in maniera espressa— si ricorda la mail inviata a Viola delle ore 10:13 del 4marzo dal testo stasera mi suicido sul serio, aiutatemi - sia per fatti concludenti, con le ferite di assaggio ai polsi di cui si è già parlato, minacce che parvero serissime ai suoi interlocutori.

Il difensore di Antonella Tognazzi assume che la sera del 6 marzo 2013 lui avesse già superato ogni timore di venire scaricato dalla nuova dirigenza o di rimanere avviluppato nello scandalo MPS e che quindi non aveva più alcuna ragione per uccidersi. Anzi, in verità, quell'intenzione non l'aveva mai avuta veramente ed anche quando aveva minacciato via mail il suicidio, lo aveva fatto in tono scherzoso.

L'assistita, all'epoca dei fatti, aveva sul punto l'opinione diametralmente opposta, come dimostra con palmare evidenza il comportamento che tenne il giorno dei fatti.

Non appena il marito uscì di casa per recarsi al lavoro, Antonella Tognazzi chiamò il 1-1 cognato Ranieri Rossi pregandolo in lacrime di parlare con David, raccontandogli naturalmente dei tagli ai polsi che aveva scoperto la sera precedente.

La sera poi, dopo neppure 10 minuti di ritardo rispetto all'ora in cui lo attendeva a casa e pur sapendo che alle 19:02, quando lo aveva sentito l'ultima volta, David stava bene, la signora chiamò Filippone, chiedendogli di controllare cosa stesse facendo, allarmata che non fosse ancora rientrato. Ciò avvenne, lo si ribadisce, in orario antecedente alle 19:41, quando Filippone, aderendo alla sua richiesta, inviò all'amico l's.m.s. esplorativo (domani si va a correre?) al quale lui non rispose.

A partire dalle 20:06 iniziò chiamarlo insistentemente, ogni 2 o 3 minuti ed alle 20:31 gli inviò un s.m.s. dal contenuto eloquente - mi stai terrorizzando, dove sei? - che risulta dalla stampa degli sms archiviati sull' I-Phone della vittima, realizzata nel proc. 962/2013 (pag. 92), riportata anche nella consulenza tecnica informatica prodotta dall'opponente.

La tempistica dimostra come i presagi nefasti della Tognazzi prescindessero dal ritardo del marito, in realtà quasi inesistente, ed avessero causa nel comportamento che questi aveva assunto nei giorni precedenti, gravemente, seriamente e fattivamente indicativo della decisione di darsi la morte.

Al contrario, la donna non temeva che il marito potesse essere stato ucciso - mi stai terrorizzando - nè David Rossi aveva mai manifestato ad alcuno una tale preoccupazione.

La discordanza con l'ipotesi omicidiaria.

Le allegazioni dell'opponente contrastano poi apertamente con la documentazione fotografica dell'ufficio di Rossi che mostra un ambiente in perfetto ordine e perfettamente pulito, senza segno alcuno di violenza, colluttazione o anche solo del passaggio di terzi; che non fu notato neppure da Filippone, Mingrone e Rìccucci che entrarono per primi nella stanza e che nulla dicono in proposito.

Disquisire sulle minime differenze nel posizionamento degli oggetti che si notano nelle due diverse riprese - quella col telefonino del Sovr. Marini e quella che documenta il sopralluogo delle 0,30 - è esercizio di pura retorica, non comprendendosi sulla base di quale criterio di inferenza la rotazione della sedia o lo spostamento delle carte sulla scrivania, o ancora, l'apertura dell'anta di un armadio, costituiscano indizi di omicidio, a maggior ragione perché la immutazione dello stato dei luoghi è pacificamente da addebitare all'azione delle forze dell'ordine e dei magistrati che procedettero ai sopralluoghi (si richiamano sul punto gli argomenti già esposti dal primo GIP, nell'ordinanza del 5 marzo 2014).

Ciò non ha peraltro comportato alcun pregiudizio per le indagini, salvo che per l'accertamento della stratificazione dei rifiuti nel cestino, che avrebbe consentito di determinare con buona approssimazione il tempo (relativo) in cui vi furono gettati i frammenti delle tre lettere e il fazzolettino macchiato di sangue.

Fatta tale precisazione, l'unico dato probatoriamente rilevante che emerge dai sopralluoghi è la totale assenza di indizi di azioni violente, che si sarebbero trovati se Davide Rossi fosse avesse dovuto difendersi da una aggressione, se avesse ingaggiato una lotta, se fosse scappato per la stanza, se fosse stato colpito o trascinato a forza di braccia dai suoi assassini. Al contrario non si è trovato un solo oggetto rotto o rovesciato, né un segno sugli ampi tendaggi o sul tappeto che occupava buona parte del pavimento, né una impronta sul muro bianco, né, come già ampiamente esposto, una sola traccia di sangue, ad eccezione di quelle sul fazzolettino di carta rinvenuto nel cestino, prodotte da una piccolissima ferita, certamente estranea alla causalità del decesso. Se è lapalissiano, infatti, che le lesioni non possono essere avvenute nella fase della caduta in quanto David Rossi non avrebbe certo potuto poi gettarli nel cestino (pag. 1096 della opposizione Tognazzi), è altrettanto ovvio che se fossero state inferte dall'azione violenta degli assassini, David Rossi non avrebbe certo avuto il comodo di tamponarsi il sanguinamento col fazzoletto decine di volte (sulla carta è ripetuta la stessa impronta millimetrica), né l'avrebbero avuto i terzi, assumendo che possa essere stato lui a ferirli nell'ipotetica colluttazione.

Sui luoghi non vi erano nemmeno tracce riferibili all'assunto trascinamento al quale, secondo le difese, sarebbero da ricondurre le pronunciate abrasioni repertate sulla punta delle scarpe che calzava il cadavere quando fu rinvenuto al suolo.

Secondo i consulenti Zavattaro e Cattaneo, con ogni probabilità le abrasioni si produssero per effetto dallo strisciamento contro il muro esterno dell'edificio nella fase della caduta o nei momenti immediatamente precedenti. Gli accertamenti merceologici svolti sui campioni prelevati lungo la linea di precipitazione, "hanno mostrato la presenza di un materiale che potrebbe derivare dalle scarpe del Rossi. Il Vigile del Fuoco, nell'esperimento giudiziale, spontaneamente punta l'estremità anteriore delle scarpe contro il muro, in una posizione molto vicina a quella dei prelievi superiori. Il muro, ricordiamo, è anche leggermente inclinato verso l'esterno, per cui in caso di precipitazione verticale è molto probabile uno strisciamento contro la parete. Anche il colore delle tracce, meglio osservabile sulla fotografia della suola destra, all'obitorio, indica una tonalità che non incompatibile con la parete. Questa situazione, pertanto, in uno 6 più contatti/strisciamenti nell'azione di fuoriuscita dalla finestra e conseguente caduta".

Anche a non condividere tali conclusioni - che non hanno ovviamente il crisma della certezza scientifica - la perdurante incertezza che ne conseguirebbe in merito alle modalità di produzione del danno, non potrebbe certo trasformarsi nella prova positiva della sua derivazione dall'azione violenta di terzi.

L'alternativa causale prospettata dagli opponenti appare, anzi, particolarmente improbabile, considerato il verso dell'abrasione, che procede da sotto a sopra come si vede con chiarezza nella foto riportata a pagina 55 della consulenza: se Rossi fosse stato trascinato di peso (col viso rivolto verso il basso, perché se fosse stato trascinato di spalle avrebbe toccato il tallone) la raschiatura non si sarebbe prodotta sulla suola, ma sulla punta della scarpa con direzione dall'alto verso il basso, senza contare che da qualche parte, nel sopralluoghi compiuti nell'immediatezza, si sarebbero dovute rinvenire le parti distaccate (un pezzetto della suola destra, appunto) o i residui dello sfregamento della gomma o del cuoio contro le superfici.

Ciò che è del tutto inverosimile poi, è che di una tale azione di trascinamento, che gli opponenti assumono compiuta, per la forza che richiede, da almeno due persone e probabilmente a partire da un luogo diverso dall'ufficio, ove le scarpe si sarebbero imbrattate della sostanza polverosa bianca che si vede sulle calzature (ma non negli ambienti interni), non sia accorto nessuno.

Tutti gli eventi di cui sopra - l'accesso negli uffici di uno o più estranei, la costrizione della vittima a redigere le tre lettere, l'esercizio di una forza di coercizione, presumibilmente riassumibile in una colluttazione, afferramento e immobilizzazione la cui intensità è tale da far pensare all'azione di due persone contemporaneamente, il trascinamento del corpo come sopra descritto, la botta inferta alla zona posteriore mediana del capo con uno strumento contundente in modo da tramortire la vittima, ed infine la defenestrazione del corpo inerte sarebbero occorsi in orario compreso fra le 7:02, quando David Rossi parlò per l'ultima volta con la moglie, e le ore 19.43 quando precipitò dalla finestra.

Durante questo lasso temporale, al piano di Rossi erano al lavoro la Bondi e la Galgani, che non videro estranei, né percepirono grida, rumori insoliti o altre incongruità, nonostante il loro ufficio si trovasse a pochi metri da quello del collega, in condizioni ambientali che, secondo la prospettazione dello stesso opponente, avrebbero consentito loro di udire anche solo lo sbattere di una porta chiusa dal vento (si veda a pag. 1089 dell'opposizione Tognazzi).

Si aggiunga che lo stato dei luoghi fu osservato, senza rilievo di anomalie, anche in un momento intermedio da parte della Galgani che, transitando per il corridoio intorno alle ID 19.20-19.30, non notò nulla di strano e poi, nuovamente, dalla Bondi che passò davanti all'ufficio un quarto d'ora dopo la caduta ed ebbe modo dì guardarvi all'interno (ora la porta era aperta).

Gli accertamenti genetici compiuti dal M.llo Santacroce sulle unghie, sugli altri campioni biologici e sugli oggetti che appartennero a David Rossi lasciano invariato il quadro indiziario, non avendo condotto all'isolamento di profili genetici diversi dal suo e da quello dei familiari.

Le ferite anteriori.

Secondo gli opponenti, altra prova del maleficio consisterebbe nel rilievo sul corpo di numerose ferite non determinate dall'impatto al suolo, ossia quelle nella zona interna delle braccia, quelle al volto, all'addome, al ginocchio destro, alla parte interna della coscia destra, alla zona volare degli avambracci e al dorso del polso sinistro.

Durante la prima autopsia tali lesioni, ritenute non sospette, non furono oggetto di indagini specifiche. Dalla loro descrizione e dalle immagini con le quali il medico legale corredò la relazione (escludendo che fossero stata - causate dall'azione di terzi) la tesi degli opponenti non trova riscontro concreto.

L'impatto - al quale tali complessi lesivi appaiono effettivamente estranei - fu preceduto dalle manovre di scavalcamento e sospensione dalla finestra e, infine, dalla caduta verticale lungo la parete, accadimenti che, indipendentemente dalla loro natura volontaria o coatta, ben potrebbero avere cagionato le abrasioni e le escoriazioni non preesistenti.

La precisazione è necessaria perché alcune delle ferite non sono riferibili al tempo immediatamente antecedente alla morte. Le tre aree disepitelizzate, lineari, trasversali, paralle tra loro, superficiali sulla zona volare dell'avambraccio sinistro, poco sopra i polsi, corrispondono certamente alle ferite da taglio che David Rossi si autoinflisse la sera precedente: la Tognazzi e la Orlandi ne hanno riferito diffusamente e quella parte del corpo, all'arrivo del 118, era coperta con due cerotti. Preesistenti, considerati il colore e la morfologia, erano anche la piccola soluzione di continuo lineare delta lunghezza di cm i alla mano destra e le aree disepitelizzate di colorito roseo presentì nella zona volare dell'avambraccio destro, che i consulenti hanno attribuito a lesioni escoriative pregresse molto superficiali.

Quanto al resto, per le lesioni rilevate sulla faccia interna delle braccia, si richiamano le superiori considerazioni in ordine alla loro verosimile derivazione dallo strisciamento della parte anatomica sul davanzale della finestra. Secondo l'opponente, sotto il braccio destro sarebbe apprezzabile l'impronta lasciata da un afferramento, ma né i consulenti, né, con più modesti mezzi, chi scrive, ha notato le quattro ecchimosi di forma 52 circolare di cui si afferma l'esistenza (... non ci sono forme di unghiature, non ci sono segni riconducibili ad afferramento ...).

Anche la lesione riscontrata all'interno della coscia destra, in prossimità della zona genitale - descritta come area violacea di forma irregolare, delle dimensioni di cm 7x3, nel cui contesto si apprezzano finissime aree disepitelizzate di colorito rossastro, puntiformi richiama quelle delle braccia, considerata la disposizione delle puntiformi escoriazioni lungo le strie oblique dall'alto al basso e da mediale a laterale, che i consulenti del P.M. hanno ritenuto suggestiva dello strisciamento della coscia su una superficie lungo questo asse, per esempio lo stesso davanzale. Le caratteristiche delle escoriazioni non paiono invece tipiche di una ecchimosi prodotta da corpi contundenti - o, come ipotizzato dagli opponenti, da un calcio diretto alla zona genitale.

Analoghe considerazioni possono essere estese alle lesioni collocate sull'addome, una in prossimità del fianco destro, verosimilmente ecchimotica (area violacea, di forma irregolare, delle dimensioni di cm 10x7...) e l'altra in regione paraombelicale sinistra, di forma irregolare delle dimensioni di cm 10x7, alla quale si sovrappone una sottile stria escoriativa longitudinale, lineare, verticale, della lunghezza di cm 6,5, come un graffio praticato con la fibbia della cintura. Il prof. Gabbrielli, nella prima autopsia, ipotizzò che gli ematomi fossero conseguenza della compressione del busto contro le gambe, nel rimbalzo eseguito all'impatto al suolo. Parimenti plausibile è che si siano prodotti-con lo scavalcamento della finestra, immaginando che il defunto abbia fatto forza con l'addome sul tubo metallico o sul davanzale (che Rossi, diversamente dal pompiere nella simulazione, si sia appoggiato al tubo metallico, parrebbe coerente col completo distacco del filo antivolatile superiore). Lo stesso è a dirsi per le piccole e aspecifiche escoriazioni sul volto della vittima, che potrebbero essere state generate da qualsiasi sfregamento o urto.

Come ben si comprende, non essendo note le singole azioni in cui si concretizzò l'evento, non è possibile una verifica puntuale del nesso di derivazione, che non può essere apprezzato se non in termini di compatibilità/incompatibilità con l'unica ipotesi ricostruttiva dotata di riscontro fattuale.

I consulenti del pubblico ministero hanno compiuto accertamenti spettrometrici sui campioni prelevati dal cadavere e su quelli repertati in sede di sopralluogo, al fine di verificare se vi fosse una corrispondenza fra gli elementi chimici che consentisse di collegare le lesioni a specifici oggetti.

Queste le conclusioni: nei campioni si apprezza una presenza massiva di Zinco, Piombo e Stagno in diverse aree cutanee da probabile contaminazione proveniente dalla cassa interna zincata, inoltre si rileva una diffusa presenza di Calcio, che tuttavia è da considerarsi un contaminante molto diffuso in diversi ambienti (ad esempio nell'acqua) o da relazionare ai processi putrefattivi (adipocera). Nella regione ombelicale si apprezza la massiva presenza di Cromo, Ferro e Nichel (almeno 20 residui); questi potrebbero essere dovuti al contatto con la fibbia in metallo della cintura indossata dalla salma per le esequie o da contaminazione di materiale utilizzato per la prima autopsia (ferri, tavolo anatomico). Al capo posteriormente sono presenti scarse particelle simili anche queste potenzialmente riconducibili ai ferri da autopsia.

Si apprezza, inoltre, la presenza di oro in corrispondenza della lesione N, polso sinistro lato ulnare, da possibile contaminazione della strumentazione per la preparazione dei campioni di microscopia elettronica a scansìone.

(...) Osservando gli elementi maggiormente (o unicamente) rappresentati sulle lesioni sul corpo del Rossi (Alluminio, Silicio, Titanio e Rame) insieme a K-feldspato (silicato di alluminio), si può apprezzare come tali elementi siano maggiormente presenti nelle strutture del muro esterno (malta e-mattone) (Si, Al, sulle persiane (Si,Al), sui gancio metallico della finestra (soprattutto rame Cu). Ciò è suggestivo (con tutti i limiti detti precedentemente relativamente al lavaggio e alla contaminazione della salma) di un contatto in particolare: della sede del capo della lesione A (regione frontale destra) con il gancio della finestra (sopra o sotto), della lesione C all'occhio di sinistra e del polso e della mano sinistra e del polso della mano destra con il muro esterno o l'anta".

Dissertare sul valore probatorio dei risultati dell'indagine, contestando il nesso di derivazione offerto (timidamente) dai consulenti, non colma il vuoto indiziario che tutt'ora permane sull'opposta ipotesi ricostruttiva.

Da ultimo ci si concentra sull'unica lesione che, a parere di chi scrive, manifesta una possibile derivazione volontaria ed è quella che interessa il polso sinistro, fotografata - già in sede di sopralluogo di polizia giudiziaria e poi di autopsia, che si sovrappone in parte alle ferite da assaggio di cui si è già parlato. Nella regione volare 54 dell'avambraccio, perpendicolarmente ai tre tagli autoinferti, sì nota un un'area disepitelizzata di forma irregolare, ancora sanguinolenta, alla quale corrisponde, sulla superficie dorsale del polso un'area violacea di forma irregolare, delle dimensioni di cm 10x7, nel cui contesto si apprezzano n. 3 aree disepitelizzate di colorito rossobrunastre, lineari, trasversali, ciascuna della lunghezza di cm 1 che sembra riprodurre lo stampo di un oggetto di forma rotonda che, vista la sede, è suggestiva dell'impronta lasciata dalla compressione del quadrante dell'orologio indossato dal Rossi.

La lesione ha caratteristiche poco compatibili con un trauma, dovuto ad esempio all'impatto al suolo del polso (si è già detto come l'urto determinò la proiezione all'indietro delle braccia), suggerendo piuttosto l'intervento di una azione di trazione dell'orologio dall'avambraccio verso la mano, compatibile con un afferramento, seguito da un trascinamento o da una sospensione. Questa non è tuttavia l'unica eziologia plausibile, potendosi immaginare che l'orologio o il cinturino, si siano in qualche modo agganciati ad una sporgenza (forse della finestra o del davanzale), con analoga azione di trazione.

Neppure dalle caratteristiche di questa lesione è quindi possibile dedurre attendibilmente l'intervento di terzi.

Le conclusioni.

Tale ultima considerazione offre l'occasione per chiarire definitivamente quale sia il criterio di valutazione della prova che governa la decisione.

Negli atti degli opponenti vi è frequente riferimento alla insussistenza di prova certa oltre ogni ragionevole dubbio della ricostruzione offerta dai consulenti del pubblico ministero e, più in generale, dei dati fattuali che sostengono la richiesta di archiviazione. La Dott.ssa De Rinaidis - psicologa giuridica, criminologa e psicoterapeuta - superando l'ambito della propria competenza specialistica per avventurarsi in quella di chi scrive, ammonisce, poi, il Tribunale su come la ricerca della verità debba necessariamente basarsi sulla constatazione di dati certi ed oggettivi,-non su deduzioni probabilistiche e "maggiormente convincenti", concludendo che mancano ad oggi quei presupposti di 55 attendibilità e certezza "oltre ogni ragionevole dubbio " che permettano di accettare le motivazioni della richiesta di archiviazione.

L'applicazione del principio invocato conduce in verità al risultato diametralmente opposto rispetto à quello atteso.

La regola di giudizio dell'oltre il ragionevole dubbio è codificata all'art. 533 comma i c.p.p., intitolato alla condanna dell'imputato (il giudice pronuncia sentenza di condanna se l'imputato risulta colpevole del reato contestatogli oltre ogni ragionevole dubbio) e, in combinato disposto con l'art. 530 c.p.p., che impone l'assoluzione dell'imputato anche quando la prova della sua responsabilità manca, o è insufficiente o è contraddittoria, costituisce esplicazione della presunzione di non colpevolezza, principio di rango costituzionale per il quale l'imputato è da considerare innocente fino a che il soggetto onerato dell'accusa, ossia il pubblico ministero, non prova il contrario. Nel presente procedimento il principio non trova applicazione diretta - si versa in fase di indagini, peraltro a carico di ignoti - ma costituisce il necessario riferimento della valutazione relativa alla sostenibilità/insostenibilità in giudizio dell'accusa, posto che l'azione penale non può essere utilmente esercitata se non nella prospettiva della dimostrazione, I nella futura sede dibattimentale, che un reato è stato commesso e che l'imputato ne è l'autore, con la conseguenza che l'incerta ricostruzione del fatto storico non può che determinare l'archiviazione del procedimento.

Il fallimento della prova dell'innocenza rimane irrilevante, poiché all'innocenza - proprio per la regola dell'oltre ogni ragionevole dubbio - è equiparata la mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova della colpevolezza.

Pertanto, quand'anche non si ritenesse congruamente dimostrata la causalità suicidiaria della morte - che a parere di chi scrive emerge invece con ragionevole certezza dal complesso delle attività investigative - non potrebbe comunque che prendersi atto del vuoto probatorio che permane in ordine alla causalità alternativa prospettata dagli opponenti.

Quanto osservato si riflette anche sulla valutazione della richiesta di prosecuzione delle indagini avanzata in sede di opposizione all'archiviazione, poiché i nuovi elementi conoscitivi che ci si attende di acquisire tramite l'ulteriore attività, debbono preannunciarsi come tali da determinare l'utile esercizio dell'azione penale. Nel caso di 56 specie da condurre, in primo luogo, alla acquisizione della prova piena e autosufficiente dell'omicidio.

Poiché nessuna delle nuove indagini prospettate dagli opponenti appare lontanamente capace dì condurre ad un tale risultato probatorio - sul punto sì richiamano le considerazioni già espresse nel corso della motivazione - appaiono superflui anche gli altri approfondimenti volti alla ricerca dei potenziali autori del delitto indimostrato. Si aggiunga che le attività investigative richieste a tal fine dagli opponenti - sentire a sommarie informazioni Fabrizio Viola, le sue segretarie, la Pieraccini e altri colleghi di Rossi, acquisire le mali presenti nella sua casella di posta elettronica, ricostruire i suoi movimenti nel pomeriggio, che precedette la morte - sono già state tutte compiute senza che da ciò sia emerso nulla di più di quanto si è detto.

Ciò determina l'accoglimento della richiesta di archiviazione del procedimento senza necessità di estendere l'iscrizione al reato di omicidio di cui all'art. 575 c.p., né a quello di omicidio colposo con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, reati della cui consumazione non sono emersi indizi. In ordine a quest'ultima fattispecie, in difetto di elementi nuovi, è sufficiente ribadire come l'angoscia di David Rossi, il suo stress di quei giorni, non fossero determinati dallo svolgimento di mansioni lavorative - precondizione necessaria per ravvisare la responsabilità del datore di lavoro per omissione delle regole di sicurezza ma dalle paure di cui si è già parlato. La situazione, inoltre, non fu sottostimata dai vertici aziendali, che lo sostennero fattivamente, tanto da inserirlo nel progetto di sostegno psicologico riservato alla prima linea manageriale. Vale per il resto quanto esposto nella prima ordinanza di archiviazione alla quale ci si riporta integralmente. Cessate le esigenze d'indagine, i telefonini e l'orologio del Dott. Rossi possono essere dissequestrati e restituiti agli aventi diritto.

P.Q.M. Visto l'art. 409 c.p.p., dispone l'archiviazione del procedimento e la restituzione degli atti al Pubblico Ministero. Dissequestro e restituzione ad Antonella Tognazzi dei telefonini e dell'orologio in sequestro.

Siena, 4 luglio 2017 Il Giudice Roberta Malavasi.

DAVID ROSSI, SECONDO VOI QUESTO È UN SUICIDIO? TUTTI I DUBBI SULL’AUTOPSIA. Scrive il 12.10.2017 Gianmichele Laino su "Giornalettismo". Il caso della morte di David Rossi si è mediaticamente riaperto. Dopo il servizio della trasmissione Le Iene e dopo le parole dell’ex sindaco di Siena Pierluigi Piccini, ci sono anche le parole della vedova Antonella Tognazzi a puntare una nuova luce su quel 6 marzo del 2013. Non si è fatta attendere nemmeno la risposta della Procura di Siena che, oggi, ha pubblicato le motivazioni delle sentenze di archiviazione del caso come suicidio. La Tognazzi, in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, ha parlato della versione dei «festini» proposta dall’ex primo cittadino Piccini. Secondo il primo cittadino, infatti, alcuni magistrati sarebbero stati coinvolti in incontri a base di cocaina tra l’Aretino e il litorale toscano e David Rossi avrebbe minacciato di raccontare tutto due giorni prima di morire. La moglie del dirigente del Monte dei Paschi ha chiesto che non si trascuri nessuna pista per riaprire nuovamente l’indagine sulla morte del marito. Un’indagine che, in questi giorni, Giornalettismo sta provando a ripercorrere e che necessita di una spiegazione anche circa le modalità con cui è stata eseguita l’autopsia. Sul corpo di David Rossi, infatti, sono stati ritrovati anche dei segni che, apparentemente, non possono essere collegati alla caduta dalla finestra. Questi stessi segni sono stati analizzati, nel corso dell’autopsia, dal medico legale Gabbrielli che, tuttavia, ha fornito una spiegazione diversa rispetto a quella avanzata dalla famiglia e dai legali di David Rossi. Un’autopsia che, come vedremo, ha una storia tormentata e che – vista la riapertura dell’indagine successiva alla prima archiviazione – è stata eseguita due volte. In effetti, in base anche a quello che viene riportato dalla Procura di Siena nelle motivazioni dell’archiviazione che sono state pubblicate sul suo sito web, in un primo momento gli investigatori volevano evitare di sottoporre il cadavere ad autopsia «per rispetto del defunto» e soltanto in seguito alla sollecitazione della famiglia sono state fatte le opportune indagini. Il corpo di David Rossi mostrava segni sui polsi e sul volto che sembravano incompatibili con la caduta dalla finestra. Il medico legale, nella sua relazione, ha parlato di «ferite dovute ad atti di autolesionismo» che lo stesso Rossi si sarebbe inflitto nelle ore o nei giorni precedenti alla morte. Ad avvalorare questa ipotesi, ci sarebbero anche alcune dichiarazioni della figlia di Antonella Tognazzi, Carolina Orlandi, che avrebbe notato alcune ferite il giorno prima della morte di David Rossi (questo è quello che viene riportato nelle motivazioni dell’archiviazione). Tuttavia, lo stesso perito incaricato dalla Procura – l’anatomopatologa Cristina Cattaneo (che ha lavorato anche al caso di Yara Gambirasio, ndr) – ha affermato che i segni sul corpo di David Rossi potevano essere compatibili con una colluttazione. Lo ha rivelato la stessa Antonella Tognazzi nell’intervista odierna al Corriere della Sera. I segni sulle braccia, sui polsi, sul volto – quindi – possono essere dovuti ad atti violenti messi in pratica da altri prima della caduta del manager del Monte dei Paschi di Siena dalla finestra? L’ipotesi, non seguita dalla Procura, è che quei tagli sul braccio potevano essere il frutto di graffi o della pressione sul polso dell’orologio (lo stesso che, nel video che riprende gli ultimi istanti di vita di David Rossi, sembra volare giù dalla finestra mezz’ora dopo la caduta del corpo). Inoltre, l’analisi sugli indumenti di David Rossi ha portato gli avvocati della famiglia, assistiti da periti di parte, a pensare che sulla camicia siano comparsi squarci non compatibili con il risultato della caduta, che il logorio della punta delle scarpe e della parte frontale dei pantaloni sia determinato da un trascinamento sul muro dell’edificio difficile da procurarsi per una persona che stia tentando il suicidio. Una nuova analisi autoptica è stata effettuata anche successivamente alla riapertura delle indagini richiesta dalla famiglia. L’esito, tuttavia, è stato piuttosto simile. Anche perché, in seguito alla decomposizione del corpo, i segni rilevati sul polso e sulle braccia sono scomparsi. Nonostante, dunque, la difesa della Procura e la mossa della pubblicazione degli atti relativi all’archiviazione delle indagini, i dubbi su queste ferite restano. Così come restano le perplessità circa l’alterazione degli oggetti nell’ufficio di David Rossi e quelle relative alla dinamica della caduta (perché è precipitato di spalle e perché non c’è stata rotazione del corpo?). La sensazione è ancora quella che il caso di David Rossi – alla luce delle nuove rivelazioni, di un rinnovato interesse dei media e nonostante la duplice archiviazione – sia ben distante dall’essere chiuso.

DAVID ROSSI, SECONDO VOI QUESTO È UN SUICIDIO? COSA C’È (E COSA MANCA) NELLE CARTE DELLA PROCURA, scrive il 17.10.2017 Gianmichele Laino su "Giornalettismo". Una mossa a sorpresa, che nessuno si aspettava. La Procura di Siena, con un gesto piuttosto insolito, ha voluto pubblicare le motivazioni delle due sentenze di archiviazione sul caso di David Rossi. Entrambe, hanno confermato che la tesi degli inquirenti è quella di un semplice suicidio. La scelta di inserire questi documenti sul sito web ufficiale della Procura, tuttavia, permette a chiunque un’analisi dettagliata dei provvedimenti presi dagli inquirenti nel corso delle indagini. E a farsi un’idea ancora più dettagliata sulla morte di David Rossi. Una sorta di operazione trasparenza, resasi necessaria – con ogni probabilità – dopo i recenti servizi del programma Le Iene e dopo le interviste dell’ex sindaco di Siena Pierluigi Piccini e della moglie di David Rossi Antonella Tognazzi al Corriere della Sera. Dopo queste inchieste, che hanno risvegliato l’attenzione intorno al caso della morte del capo ufficio stampa del Monte dei Paschi di Siena, è tornata ad aleggiare sulla Procura di Siena l’ombra dei rumors che, a quanto pare, tutti conoscevano nella città del Palio. Ovvero, che alcuni magistrati abbiano partecipato a «festini nelle ville tra l’Aretino e il mare» e che, per evitare l’emergere di questa cosa, abbiano condotto in maniera superficiale le indagini. La Procura, con la pubblicazione degli atti, ha voluto – evidentemente – smentire quest’ultima circostanza. Ma ha prestato il fianco anche a possibili critiche su alcune presunte omissioni che sarebbero state fatte nel corso dell’inchiesta. Innanzitutto, emergono dei dettagli quasi inediti. Gli investigatori, infatti, in un primo momento, non avrebbero voluto effettuare l’autopsia sul corpo di Rossi «per rispetto della salma» (così si legge nelle carte). Soltanto l’insistenza della famiglia ha influito sulla successiva decisione di affidare l’esame autoptico al dottor Marco Gabbrielli. Un esame che ha lasciato molti interrogativi alla famiglia circa le ferite presenti sul corpo e sul volto di David Rossi. I tagli sui polsi e sugli avambracci vengono considerati frutto di un «meccanismo autolesivo» precedente alla caduta. Le ferite sul volto, invece, vengono attribuite alla dinamica della caduta stessa. Quest’ultimo aspetto, in particolare, sembra essere contestabile. Sembra difficile attribuire i tagli perfettamente allineati sul volto a una caduta sulle spalle. Certo, nel video ripreso dalle telecamere di video-sorveglianza, David Rossi sembra muoversi per circa 20 minuti, spostando la testa a destra e a sinistra più volte. Ma è davvero difficile credere che queste ferite possano essere determinate da questi stessi movimenti. Queste conclusioni (a cui si è arrivati al termine della prima indagine) vengono confermate anche dalla seconda inchiesta e da una seconda autopsia avvenuta, tuttavia, quando – a causa della decomposizione del corpo – le evidenze dei tagli e delle ferite risultavano già scomparse. Passiamo, poi, all’analisi dell’ufficio di David Rossi. Secondo la Procura, la stanza si mostra «in perfetto ordine» dopo l’ispezione del sovrintendente Livio Marini (che gira il video con un cellulare alle 20.40 circa) e che ciò viene confermato anche dalle immagini scattate dalla scientifica qualche ora dopo, dalle 23.30 fino alle 01.50 circa. Tuttavia, come vi abbiamo mostrato in un precedente articolo, alcuni oggetti nell’ufficio non erano al loro posto, se si confrontano le immagini del video e le foto scattate dalla polizia. La tesi della Procura punta a minimizzare questi cambiamenti, sottolineando che – in questa fase – le indagini sono state fatte «inevitabilmente muovendo e spostando alcune cose». Ma perché spostare una sedia (che nel video è aderente alla scrivania, mentre nella foto risulta essere girata con la spalliera rivolta verso la finestra)? Perché spostare solo alcuni dei documenti sulla scrivania e non altri? Perché fotografare l’ufficio dopo l’apertura delle ante dell’armadio e non prima? Una leggerezza, forse. Ma, oltre alla spiegazione che tende a banalizzare l’accaduto, nelle carte della Procura non si approfondisce questo particolare aspetto del caso. Le motivazioni della Procura, poi, puntano fortissimo sulle testimonianze che sono state raccolte intorno all’ambiente familiare e a quello di lavoro di David Rossi. In particolare, calcano la mano sul fatto che David Rossi avesse intenzione di suicidarsi perché aveva manifestato il proposito al proprio superiore (l’amministratore delegato di MPS Fabrizio Viola) in una mail in cui gli chiedeva aiuto e gli scriveva – due giorni prima della sua morte – «oggi mi suicido sul serio» e, velatamente, nei colloqui con alcuni familiari (tra cui il fratello) e alcuni colleghi, in cui ribadiva più volte di aver fatto una «cazzata». Il termine ricorre anche nei bigliettini, scritti e poi strappati via, in cui Rossi si sarebbe scusato con la moglie per il gesto suicida. Quello che manca nell’approfondimento della Procura è la natura di questa «cazzata»: si tratta della semplice richiesta di aiuto a Viola (che lo avrebbe messo in cattiva luce con i vertici dell’azienda)? Oppure si tratta della sua partecipazione – che emerge quasi di nascosto in questi documenti della Procura – al cosiddetto «gruppo della birreria» (una sorta di consorteria ben conosciuta a Siena), insieme ad altri esponenti ed ex esponenti di spicco del Monte dei Paschi di Siena? Perché non si è indagato a fondo su questo presunto malessere di David Rossi che, sempre secondo la Procura, lo avrebbe spinto al suicidio? Infine, nelle motivazioni della sentenza, emergono piccole contraddizioni (o precisazioni) tra la prima inchiesta e la seconda. Innanzitutto, nella seconda indagine sono stati rivisti tutti gli orari della cronologia degli eventi (elemento che, secondo la Procura, non cambia nessuna delle conclusioni), poi si parla per la prima volta delle «ombre» che vengono proiettate sul muro e sul selciato e che vengono riprese dalle telecamere del vicolo: a questo proposito, non viene fatto nessun approfondimento sulla figura che, a caduta avvenuta, sembra palesemente affacciarsi nella strada della morte di David Rossi con un cellulare all’orecchio, mentre viene esclusa qualsiasi possibilità che possa essere un orologio quello che sembra rimbalzare accanto al corpo di Rossi mezz’ora dopo la sua caduta. Inoltre, nelle motivazioni della seconda sentenza, per rispondere ai rilievi dei periti di parte sulle dinamiche della caduta di David Rossi dalla finestra, viene ammesso, con un vero e proprio capolavoro di retorica, che queste sono «dinamiche insolite per un suicidio, ma inconciliabili con un omicidio». In più, dalle carte della Procura, non si evince alcun rilievo sui fazzoletti sporchi di sangue ritrovati nel cestino del bagno di cui David Rossi si serviva in ufficio. Insomma, lungi dal dissipare tutti i dubbi sulla morte del dirigente del Monte dei Paschi di Siena, le carte della Procura alimentano – se possibile – ancor di più le domande che, dal 6 marzo 2013 a oggi, tutta Italia continua a porsi su quella strana storia avvenuta nel retro di una banca nell’occhio del ciclone per tanti, troppi motivi.

La Cazzata di David Rossi ed il mistero del gruppo della Birreria, scrive il 18.10.2017 Gianmichele Laino. Continua a restare alta l’attenzione sul caso di David Rossi e sulle recenti dichiarazioni dell’ex sindaco di Siena Gianluigi Piccini che ha puntato il dito contro i magistrati senesi, colpevoli – a suo dire – di aver condotto con superficialità le indagini per non far emergere particolari relativi a «festini che si svolgevano nelle ville tra l’Aretino e il mare». Un’accusa pesantissima, su cui ieri è tornato a far luce il programma Le Iene che ha voluto approfondire queste dicerie che circolano a Siena su party a base di cocaina e di incontri con escort. A questo proposito, sono state raccolte testimonianze da «persone informate» che hanno dato per certa la notizia di questi festini e che li hanno persino descritti. L’unico a non dare peso a queste dicerie è stato Antonio Degortes, il figlio del famoso fantino Aceto (recordman assoluto di vittorie al Palio di Siena), gestore di diversi locali della città toscana e amico di David Rossi. Il nome di Degortes, in realtà, richiama alla memoria un altro fatto raccontato dalle cronache nazionali e locali, proprio qualche giorno prima del suicidio di David Rossi. Un articolo del quotidiano Repubblica, datato 1° marzo 2013 (cinque giorni prima della caduta del dirigente del Monte dei Paschi di Siena dalla finestra del suo ufficio), parla di una presunta lobby politico imprenditoriale – chiamata «gruppo della birreria» – che gestiva alcuni affari economici in città. Tra questi, secondo i rumors dell’epoca, ci sarebbero state anche alcune vendite di immobili del Monte dei Paschi ai figli del fantino Aceto. È opportuno sottolineare che, per quella vicenda, Antonio e Alberto Degortes sono stati completamente scagionati, i loro fascicoli sono stati archiviati e sono anche in corso dei procedimenti per diffamazione per le querele sporte da Degortes alla stampa che si è occupata del caso. Tuttavia, la storia del «gruppo della birreria» riemerge prepotentemente dalle carte della Procura (ovviamente in un contesto diverso), perché nelle motivazioni delle sentenze di archiviazione vengono riportate alcune testimonianze di persone che avrebbero sentito David Rossi parlare di questa presunta lobby. Un collega del dirigente del Monte dei Paschi Bernardo Mingrone ha riferito agli inquirenti di una cena, nel periodo in cui David Rossi si mostrava sempre più preoccupato, in cui l’uomo aveva fatto trapelare la sua partecipazione agli incontri del gruppo della birreria. La circostanza è stata confermata anche dall’allora presidente del Monte dei Paschi di Siena Alessandro Profumo che, agli investigatori, dice: «[David Rossi] temeva di poter subire delle conseguenze penali dalle indagini in corso (sul Monte dei Paschi e Antonveneta, ndr) e mostrava preoccupazione addirittura di essere arrestato. Legava queste sue preoccupazioni alla circostanza di aver frequentato, anche recentemente, il cosiddetto gruppo della birreria di cui si parla nelle cronache locali. Mi fece anche il nome della persona che aveva incontrato, ma non lo ricordo anche perché non conosco chi farebbe parte di questo gruppo così denominato». Possibile, dunque, che la «cazzata» di David Rossi, quella di cui parla in maniera criptica nei biglietti (la cui autenticità, tra l’altro, è messa in dubbio dai periti della famiglia) che avrebbe destinato alla moglie Antonella Tognazzi prima di togliersi la vita, sia legata a questo tipo di frequentazioni? E se – come si evince dalle carte degli inquirenti – questo insieme di preoccupazioni, più o meno giustificate, sono state all’origine del malessere che avrebbe portato Rossi a togliersi la vita, perché non è stata fatta luce più compiutamente su queste sue presunte frequentazioni? Inoltre, l’intento di David Rossi era quello di comunicare con i magistrati per «dire le cose di cui era a conoscenza». Può essere che la frequentazione del gruppo della birreria (e, quindi, le sue dinamiche interne) rientrava nella lista di cose di cui parlare ai magistrati?

Le Iene: Festini sesso e coca a Siena, scrive "Il Corriere di Siena" il 18 ottobre 2017. Con un servizio di oltre venti minuti la trasmissione Le Iene su Italia 1, il 17 ottobre è tornata per la terza volta sul caso della morte di David Rossi e sulla questione dei presunti festini hard sollevata dall'ex sindaco Pierluigi Piccini. Nella prima parte del servizio di Antonino Monteleone viene riassunto il caso della morte di David Rossi e vengono ribaditi ancora una volta tutti i dubbi legati all'inchiesta e all'archiviazione: dagli ematomi ritrovati addosso al corpo dell'ex manager del Monte dei Paschi di Siena agli abiti distrutti, passando per le persone non identificate nel video fino ai mancati riscontri sui cellulari e così via. La parte più interessante è senza dubbio il colloquio telefonico tra Monteleone e il procuratore della Repubblica, Salvatore Vitello. La Iena ribadisce con insistenza che ci sono degli errori materiali nell'ordinanza di archiviazione. E il procuratore, dopo un vivace scambio di vedute, replica testualmente: "...se ci sono stati errori, le persone offese facciano una istanza di riapertura perché ci sono stati degli errori e noi provvederemo". E alla fine del servizio è la moglie di David, Antonella Tognazzi a dichiarare che la famiglia sicuramente presenterà istanza nella speranza che il caso venga di nuovo riaperto. Il lungo servizio delle Iene - visibile cliccando nel link in fondo a questo articolo - dedica ampio spazio alla questione dei presunti festini vip con droga ed escort che si sarebbero tenuti in alcune ville della Toscana - una nella zona del mare e l'altra tra Siena e Arezzo - e a cui avrebbero partecipato alti dirigenti della banca, politici nazionali e personaggi altolocati e forse addirittura magistrati. In particolare viene intervistato l'ex politico e azionista Mps Pierpaolo Fiorenzani che parla di "potere godereccio" e ancora: "I festini si sono sempre usati. Servono per legare relazioni e ricattarsi". Ma nel servizio viene anche intervistata - in questo caso a volto coperto - una ex funzionaria del Comune che non solo conferma l'esistenza dei festini, ma va ben oltre parlando di prostitute di alto bordo, di ex dirigenti della banca coinvolti, di famiglie senesi e tanto altro ancora. Spunta persino un nome, coperto dal bip.

David Rossi. I festini esistevano. Il Braccio destro di Mussari è morto per questo? Scrive Silvana Palazzo per "Il Sussidiario" il 18 ottobre 2017. Il mistero della morte di David Rossi, il capo della comunicazione di Mps caduto il 6 marzo 2013 da una finestra del palazzo sede della banca a Siena, si accompagna a quello dei festini di sesso e coca. Questa vicenda parallela è stata sollevata dall'ex sindaco di Siena, Pierluigi Piccini, che nella puntata scorsa de Le Iene Show aveva rivelato un retroscena senza sapere di essere registrato. «Un avvocato romano mi ha detto: devi indagare su alcune ville fra l'aretino e il mare e i festini che facevano lì. Perché la magistratura potrebbe anche avere abbuiato tutto perché scoppia una bomba morale», il racconto che ha fatto scalpore. L'ex sindaco cita una villa tra Siena e Arezzo e una al mare dove facevano i festini: «Chi ci andava? Ci andavano anche i magistrati senesi ad esempio? Mah. Ci andava qualche personaggio nazionale? Mah». Le sue affermazioni sono state ritenute "pesanti" dalla procura di Siena, che da una parte comprende i dubbi dei familiari sulla morte di David Rossi, considerato il braccio destro dell'ex Presidente MPS e ABI Giuseppe Mussari, dall'altra accusa Le Iene di voler suffragare la propria tesi personale con pesanti accuse ai danni dei magistrati, «additandoli come partecipi di un oscuro disegno criminoso». Magistrati e politici nazionali avrebbero partecipato ai festini organizzati nelle due ville toscane, ma tutto questo cosa c'entra con il caso relativo alla morte di David Rossi? Il sospetto dell'ex sindaco di Siena è che le indagini sono state «abbuiate» per evitare che emergesse lo scandalo. «C'è un potere godereccio. I festini ci sono sempre stati per legarsi e stringere relazioni», ha dichiarato Pier Paolo Fiorenzani a Le Iene Show, l'uomo che aveva evocato già la questione dei festini in una assemblea Mps. La Iena Antonino Monteleone non molla la presa su una vicenda che presenta più ombre che luci e continua la sua indagine parallela per scoprire altri particolari di questa intricata vicenda. E raccoglie una testimonianza importante, quella di un ex funzionario, che resta anonimo: «Le persone che organizzavano questi festini erano legati a Monte dei Paschi. Uno reclutava le prostitute per far divertire questi soggetti. Partecipavano anche persone di alto livello, anche politico. I festini sono avvenuti per anni, tra Siena e Arezzo. Si viene invitati in modo riservato, è un giro di persone altolocate. Anche tra i magistrati ci sono mele marce».

Mps, la morte di David Rossi: la fretta di dire suicidio e le foto sospette. Troppe cose non tornano nella morte del capo della comunicazione della Banca. Le incongruenze nei rilievi, documentate da immagini, file audio e un video, scrive il 19 ottobre 2017 Panorama. Panorama, in edicola dal 19 ottobre 2017, pubblica un servizio di Giovanni Terzi sulla morte di David Rossi, responsabile della comunicazione del Monte dei Paschi di Siena, avvenuta il 6 marzo 2013. Rossi è caduto dalla finestra del terzo piano del suo ufficio a Siena. La sua morte è stata rubricata come "suicidio". Ma, come viene spiegato nel servizio, sono troppe le cose che non tornano. Erano i giorni dello scandalo Mps e Rossi voleva parlare con i magistrati che indagavano. Molte le incongruenze nei rilievi effettuati: agende spostate, un computer prima spento e poi acceso, una finestra aperta e quindi chiusa. Nel servizio, Panorama pubblica alcune immagini e particolari inediti che sollevano nuovi dubbi. In particolare, sono stati confrontati alcuni elementi acquisiti dopo il ritrovamento del dirigente Mps, in due momenti diversi: mentre ancora gli veniva prestato soccorso e durante i rilievi scientifici ufficiali. E dalla comparazioni emergono significative incongruenze.

Qui sotto, pubblichiamo alcune immagini che evidenziano le incongruenze; un file audio inedito con la comunicazione tra la Questura di Siena e il 118, e il video girato poco dopo il ritrovamento di David Rossi.

LA GIACCA. Alle 21.10, nel primo video girato dall’agente Livio Marini, della pattuglia della polizia arrivata sul posto, si vede la giacca di David Rossi appoggiata in modo casuale e frettoloso, sullo schienale della poltrona. Sotto, nella foto scattata alle 00,55, durante i rilievi scientifici, la giacca è invece messa ordinatamente.

IL COMPUTER. In un’immagine dal video, il monitor del computer appare spento. Sotto, nelle foto scattate durante i rilievi scientifici, il monitor è acceso o, comunque, uscito dalla modalità di stand-by. 

LE AGENDE. Nelle prime due immagini, sulla scrivania di David Rossi il video registra la presenza di alcune agende con la copertina nera. Sotto, durante i rilievi scientifici effettuati, le agende risultano spostate rispetto alla posizione originale.

LA FINESTRA. Mentre ancora si sta soccorrendo David Rossi nel vicolo sotto il suo ufficio, il video inquadra la finestra aperta dietro la scrivania. Sotto, alcune ore più tardi, durante i rilievi ufficiali, la finestra è chiaramente chiusa. 

Errori materiali: Il giudice falsa tutti gli orari. Tutta una serie di eventi erano posticipati, addirittura, di 26 minuti. Se la prima ordinanza non fosse stata infetta da quest’errore, quelle indagini fatte dopo 4 anni sarebbero state fatte subito. Stiamo parlando dell’ora della caduta di Davide che viene posticipata di 26 minuti rispetto a quando è realmente avvenuto. Inoltre il giudice ritiene che Davide sia rimasto in vita per qualche minuto, dopo essersi schiantato al suolo. Mentre invece ce ne sono passati oltre 22. Inoltre si dà per sentita la teste Lorenza Pieraccini, cosa non vera.

SUSANNA GUARINO: "ANDAI A DIRE QUALCOSA SU DAVID ROSSI MA NON FU VERBALIZZATO". Scrive il 14-10-2017 "Ok Siena". Si partì subito da una certezza: il giornalista si era suicidato. Si procedette cercando di avallare questa tesi invece che prenderne in considerazione una alternativa. La morte di David Rossi non mi ha mai convinto, e non ne ho fatto mistero fin dal primo momento. Non ho comunque basi solide per sposare l’una o l’altra versione, ma di certo ho molte perplessità su come furono condotte le indagini. Presumibilmente perché si partì subito da una certezza: David si era suicidato. Si procedette cercando di avallare questa tesi invece che prenderne in considerazione una alternativa. E di questo io ne ho le prove. Il pomeriggio del 6 marzo 2013, intorno alle 15,30-16, ero in Vallerozzi. Pioveva e stavo chiacchierando con un’amica quando incrociai David. Aveva il cappuccio in testa e le mani in tasca e scendeva Vallerozzi con passo spedito. Ci salutammo con un ciao. Restai a parlare per diversi minuti e in quel tempo notai uno strano atteggiamento di David, che andò più volte su e giù tra Vallerozzi e Pian d’Ovile, a passo veloce, come cercando qualcosa o qualcuno, e che ad un certo punto mi ripassò vicino quasi correndo, sbattendomi addosso mentre, con il cappuccio sempre in testa, sembrava parlasse da solo. Lui che era sempre così compassato…Poche ore dopo ero in via dei Rossi, fuori da quel vicolo, come tantissime altre persone. E David era pochi metri più in là, a terra, senza vita. Gli strani movimenti mi tornarono subito in mente, e pensando che sicuramente, in una indagine accurata, qualsiasi elemento potesse essere utile, da brava cittadina “non omertosa” un paio di giorni dopo mi presentai in questura per raccontare quel piccolo particolare. Poteva non essere nulla, ma chissà…Fui fatta accomodare nella stanza di un funzionario al quale raccontai quello strano incontro con David e la sensazione che in quel momento avevo avuto, sforzandomi di ricordare ogni piccolo particolare. D’altronde gli investigatori è quello che di solito chiedono, mi pare…Dieci minuti di mia chiacchierata fu conclusa con poche parole del funzionario: sicuramente David era fuori di testa, sicuramente David stava parlando da solo, perchè – mi fu detto – lui non usava mai auricolare visto che nelle perquisizioni non ne era stato trovato neppure uno. Neppure una parola venne verbalizzata, e con una stretta di mano si concluse la mia collaborazione. Mesi dopo, parlando con Antonella, abbiamo ricostruito lo strano comportamento di David in quel pomeriggio, ed abbiamo supposto con chi stesse parlando al telefono. Con l’auricolare, perchè David usava sempre l’auricolare. Non penso quindi di essermi trovata testimone risolutiva del caso ed il mio apporto all’indagine sarebbe stato praticamente nullo. Ma in quel momento, a poca distanza dall’apertura dell’indagine, sarebbe stato DOVERE verbalizzare quello che io, comune cittadino, ero andata spontaneamente a riportare. E’ la procedura e non fu fatto. E così mi è logico pensare che, se non fu fatto con me che mi ero presentata spontaneamente, forse non fu fatto con molti altri che potevano essere cercati e che forse avrebbero avuto da dire anche cose davvero importanti.

Mps, il corpo a terra e le ombre nel vicolo: in un libro il caso del «suicidio imperfetto» di David Rossi. Continua a far discutere la morte dell’ex capo dell’area comunicazione della Banca. Il perito della famiglia: «quello che non torna è anzitutto la dinamica della precipitazione», scrive Nicola Di Turi il 15 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera". La dinamica della caduta, le lesioni sul corpo, la presenza di ombre nel vicolo. E poi la solitudine avvertita dalla famiglia nel corso degli anni. Il caso David Rossi continua a far discutere. La morte dell’ex capo dell’area comunicazione di Banca MPS ha ormai una verità giudiziaria, sancita dalla seconda archiviazione arrivata lo scorso luglio. Proprio ieri la Procura della Repubblica di Siena ha deciso di pubblicare integralmente sul proprio sito l’ordinanza di archiviazione del gip Roberta Malvasi. Un segnale dell’autorità giudiziaria, dopo le polemiche per le ultime dichiarazioni dell’ex sindaco di Siena (e neo-candidato) Pierluigi Piccini. Eppure la famiglia di David Rossi continua a sostenere la tesi dell’omicidio e a rigettare i provvedimenti di archiviazione, che hanno derubricato la morte dell’ex dirigente MPS a un caso di suicidio. «Quello che non torna è anzitutto la dinamica della precipitazione, come arriva a terra il corpo e le modalità di stabilizzazione del tronco. Questi elementi ci hanno fatto subito pensare che non potesse essere un suicidio di qualcuno lasciatosi andare dalla finestra. Lo dicono le leggi della fisica», spiega al Corriere della Sera l’ingegnere Luca Scarselli, perito della famiglia di David Rossi. L’occasione per tornare sul caso arriva nel corso della presentazione del libro “Il caso David Rossi, il suicidio imperfetto” (Chiarelettere), scritto da Davide Vecchi e presentato in anteprima a Siena. Le lancette tornano subito indietro al 6 marzo 2013, a quella tragica serata in cui David Rossi perde la vita. L’ingegner Scarselli è il perito che aveva effettuato la perizia per la famiglia di Rossi allegata alla richiesta di opposizione all’archiviazione del caso, oltre ad aver analizzato per primo il video della caduta dell’ex capo dell’area comunicazione di Banca MPS. «Alle 20.04 si vedono tre fotogrammi che evidenziano un tentativo d’ingresso e d’uscita dal vicolo in cui giace Rossi, presumibilmente per sincerarsi delle sue condizioni. Anche la Polizia Scientifica sottolinea che quell’ombra e quel fermo immagine sono particolarmente deteriorati», ragiona il perito della famiglia Rossi. Le ombre sulla caduta e sul rinvenimento del corpo dell’ex capo dell’area comunicazione di Banca MPS sono diverse, almeno ad ascoltare i consulenti e la famiglia. «L’orologio che viene ritrovato dietro la spalla destra di Rossi è in una posizione incompatibile con la caduta. Anche il gip dice che quell’orologio non può essersi staccato quando Rossi era a terra. Poi ci sono le lesioni sul suo corpo e le scarpe estremamente consumate, con abrasioni anche sulla punta», sottolinea Scarselli. La Sala Patrizi va riempiendosi e arriva anche Antonella Tognazzi, vedova di David Rossi. Nel corso della presentazione del libro prende la parola in una sola occasione, tradendo l’emozione per il ricordo dell’ex marito. Ma sceglie comunque di ribadire la sua posizione, chiarendo come si sia trattato «di un omicidio. David è stato assassinato». In una seconda occasione confessa invece di non aver avvertito affatto la vicinanza della comunità senese. «In questi anni di fatto non c’è stato nessuno che in qualche modo ci abbia portato il proprio contributo. Quando noi andavamo a fare domande, c’era un’indifferenza manifesta nei nostri confronti. Omertà è una brutta parola, ma a Siena c’è stata reticenza», confessa Antonella Tognazzi al Corriere della Sera. David Rossi era considerato il braccio destro dell’ex Presidente MPS e ABI Giuseppe Mussari, che in un dialogo con Le Iene ha dichiarato di trovarsi d’accordo con la vedova dell’ex capo dell’area comunicazione di Banca MPS. «Non so se Mussari non approvi la tesi del suicidio come noi. So però che mi appoggia in quello che sto cercando di fare», dice Antonella Tognazzi. Un segnale chiaro della vicinanza dell’ex Presidente MPS alla famiglia dell’amico e braccio destro David Rossi. In una vicenda che non ha risparmiato zone d’ombra.

Caso David Rossi, c’è posta per Mattarella. La vicenda senese ancora tutta da chiarire, scrive il 25/10/2017 "Il Giornale d’Italia". La lettera della mamma del dirigente di Mps "suicida" recapitata al Quirinale, dopo che la polizia aveva impedito che fosse consegnata a mano al Capo dello Stato. La lettera della mamma recapitata al Quirinale dopo che la polizia aveva impedito che fosse consegnata a mano al Capo dello Stato. Alla fine la lettera della famiglia di David Rossi arriverà al Quirinale. Ma ciò è avvenuto solo quando il caso era ampiamente scoppiato, seppure i “giornaloni” abbiano scelto di non dare alle critiche piovute sulle massime autorità italiane alcun diritto di cittadinanza sulle proprie prestigiose colonne. Dopo la mancata consegna venerdì scorso al Capo dello Stato Mattarella che era ospite a Siena, qualcosa si è mosso. L’annuncio è arrivato su Facebook dalla vedova di Rossi, Antonella Tognazzi: secondo la quale “la lettera, che mia suocera Vittoria, avrebbe voluto consegnare al Capo dello Stato Sergio Mattarella”, da oggi sarà “sulla strada per Roma. Ringrazio personalmente Armando Gradone, Prefetto di Siena che, a seguito di una telefonata da parte del Quirinale, mi ha contattata e si è reso disponibile a fare da tramite con il Presidente della Repubblica. Rimetteremo quindi nelle sue mani la speranza in una giusta attenzione e valutazione a questa terribile vicenda nonché il desiderio di tornare a credere nelle istituzioni”. La consegna sarebbe dovuta avvenire venerdì sera a Siena dove Sergio Mattarella si era recato per il congresso dell’Associazione nazionale magistrati. La madre Vittoria e la vedova Antonella Tognazzi, assieme ad altri familiari, avevano atteso il Presidente in Piazza del Campo ma, nonostante lo staff fosse stato avvertito della loro presenza, erano state accerchiate da 14 poliziotti in borghese. L’episodio aveva gettato nello sconforto le donne, tanto da convincere la più giovane a pubblicare su Facebook uno sfogo che aveva fatto scalpore: "Ci sono giorni in cui tanta è la delusione che a fatica trovo le parole per un qualsiasi commento. Quattordici poliziotti in borghese incaricati di accerchiare una famiglia (in quel momento composta, da un fratello e da quattro donne di cui una mamma di 84 anni e una nipote di 13) che chiede solo che lo Stato dimostri la vicinanza ai cittadini ascoltando le loro richieste, mi è sembrato un segnale tutt’altro che democratico. Mia suocera, Vittoria, aveva scritto una lettera e l’avrebbe voluta consegnare nelle mani del capo dello Stato affinché ci aiutasse a trovare quelle risposte che ancora oggi ci vengono negate. Pazientemente, per oltre 3 ore in piedi, ha aspettato, sperando in un segnale di attenzione alla vicenda che ha stravolto la nostra famiglia, ma che di fatto riguarda tutto il sistema perché libertà e giustizia negate ad un cittadino è un diritto sottratto a tutta la comunità. Lo staff di presidenza era stato avvisato della nostra presenza quindi le scuse del “non li abbiamo visti, non sapevamo, non ce ne siamo accorti” possono solo sottolineare che di fronte al potere non esistono diritti. Continuiamo". Poi, ieri, la schiarita. B. F. 

DAVID ROSSI, LA NUOVA MOSSA DELLA PROCURA CHE ALIMENTA ALTRI DUBBI, scrive il 26.10.2017 Gianmichele Laino su "Giornalettismo". Ultimamente, pare che la procura di Siena stia provando gusto a pubblicare atti ufficiali relativi al suicidio di David Rossi sul proprio sito internet. Nella giornata di ieri, in home page, sono comparse sette pagine di «risposte dei Capi degli uffici giudiziari di Siena alle critiche di merito sull’indagine riguardante la morte di David Rossi». Sempre in nome della trasparenza e della voglia di fare luce su una delle vicende più oscure della cronaca italiana degli ultimi anni. Ma è incredibile come queste operazioni, più che dissipare i dubbi, ne alimentino altri. E così, dopo la pubblicazione delle motivazioni delle due sentenze di archiviazione – avvenuta dopo il servizio de Le Iene e l’intervista al Corriere della Sera dell’ex sindaco di Siena Pierluigi Piccini -, ecco il «chiarimento» della procura sulle metodologie di svolgimento delle indagini, giunte all’indomani dell’uscita del libro del giornalista Davide Vecchi Il caso David Rossi, il suicidio imperfetto del manager Monte Paschi Siena. Le sette pagine in questione sembrano scritte su una superficie di vetro scivolosa. Si dice, ad esempio, che i vestiti di David Rossi non furono posti sotto sequestro dalla Procura. «Ex post – si legge nella lettera di spiegazioni – la critica che viene mossa è comprensibile. Bisogna però calarsi nel contesto iniziale, quando a tutti appariva chiaro l’intento suicidiario». Siccome, quindi, i magistrati erano «convinti» che David Rossi si fosse suicidato, non hanno messo in atto azioni indispensabili (e quasi scontate) per indagini di questo tipo. Un atteggiamento del genere era stato mostrato anche quando gli investigatori, inizialmente, non avevano disposto l’autopsia, che è stata effettuata soltanto in un secondo momento, su richiesta della famiglia di Rossi. Anche i fazzoletti sporchi di sangue, ritrovati nel cestino del bagno utilizzato da David Rossi, furono distrutti perché non si è ritenuto necessario esaminarli, si legge nella lettera di spiegazione della Procura. Superficialità o malafede? Inoltre, vengono etichettate come semplici ipotesi pretestuose quella del lancio dell’orologio – più di mezz’ora dopo la caduta dalla finestra di David Rossi – e quella del coinvolgimento nei fatti dell’uomo al cellulare che, a un certo punto, compare nel video che mostra la stessa caduta del manager MPS. Le motivazioni addotte riguardano sempre «il contesto iniziale» e l’ipotesi «apparsa chiara» del suicidio. Possibile che nessuno degli inquirenti si sia fatto altre domande?

Dalla procura un fascicolo con le dieci risposte sul caso David Rossi.

Tribunale di Siena, Procura della Repubblica di Siena.

Le risposte dei Capi degli Uffici Giudiziari di Siena alle critiche di merito sull'indagine riguardante la morte di David Rossi.

Nell'intento di fornire all'opinione pubblica un quadro di informazioni corretto e completo, senza alcuna pretesa di verità, si rappresentano, in relazione ai punti critici da più parti evidenziati, gli elementi di valutazione sulle indagini, sulla base di un'analisi complessiva (e non parcellizzata) del materiale probatorio acquisito.

La distruzione degli indumenti. Ciò che indossava David Rossi è analiticamente descritto nei rilievi tecnici eseguiti dal Gabinetto di Provinciale di Polizia Scientifica in data 6.3.2013. Di ciò vi è ampia documentazione fotografica e descrittiva. Anche il medico legale che nella prima indagine ha eseguito l'autopsia ha effettuato un'ampia ricognizione fotografica dei vestiti. I vestiti non sono stati sequestrati e, conseguentemente, non essendo nella disponibilità della Procura della Repubblica non potevano essere da questa distrutti. Normalmente, in questi casi, sulla destinazione dei vestiti provvede la struttura medico-legale dove è effettuata l'autopsia, sulla base del consenso dei parenti della vittima. La critica che si muove alla Procura della Repubblica è di non aver provveduto al sequestro. Ragionando ex post la critica è comprensibile. Bisogna però calarsi nella contesto iniziale quando appariva a tutti chiaro l'evento suicidarlo, la cui prova determinante era costituita: dalle lettere d'addio, dagli esiti dell'ispezione medico-legale e dalla relazione autoptica, dall'assenza di tracce di colluttazione o di terzi nell'ufficio da dove il Rossi è precipitato, dalle mail del 6/3/2017, dalla descrizioni delle condizioni psico­fisiche del ROSSI offerte dai sommari informatori (a partire dai familiari, che riferirono di gesti di autolesionismo riferibili ai giorni precedenti) e, in particolare, dalla dott.ssa CIANI (psicologa che intervistò il ROSSI la mattina stessa dell'evento). In quel momento non appariva necessario all'accertamento del fatto il sequestro degli indumenti. La seconda perizia analizza le foto dei vestiti e, con riferimento ai pantaloni, sostiene che le abrasioni siano compatibili con i contatti del corpo con la parte, ed in particolare specifica: "Le tracce visibili sull'addome, in particolare nelle fotografie scottate al carpa nel vico/a, richiamano la forma della fibbia della cintura e, pertanto, potrebbero essere causate dalla sfregamento dell'addome contra una superficie ottusa". In ordine alla camicia si rilevano "lacerazioni/abrasioni e la mancanza di due bottoni, a livello dell'addome". I periti poi proseguono: "La circostanza di uno strisciamento sullo spigolo esterno del davanzale .... coerente con azione di schiacciamento/strisciamento della fibbia contro l'addome, sotto il peso del Rossi stesso, oltre ad aver provocato le citate striature sulla cute ha certamente comportato anche analogo stress alla porzione di camicia interna al pantalone, provocando con ogni probabilità non solo la fuoriuscita della stessa dai pantaloni (cosa che spiegherebbe anche il perché nel filmato il Rossi precipita con l'indumento in quelle condizioni) ma anche la perdita di un paio di bottoni e la lacerazione visibile dell'immagine sottostante. In conclusione, anche per la camicia, l'analisi dei danni subiti dagli indumenti trova giustificazione nelle attività correlata alla precipitazione (in questo caso nella sua fase preparatoria). In definitiva il mancato sequestro degli indumenti non ha impedito, grazie al corredo fotografico, di fornire una spiegazione sulla dinamica del fatto. Avere avuto la disponibilità degli stessi avrebbe potuto consentire un maggiore approfondimento ma, comunque, dall'analisi tecnica basata sulle foto, i vestiti non appaiono avere avuto un ruolo determinante nella ricostruzione dell'evento.

Il contesto di riferimento ed i biglietti di addio. Nell'ufficio del Rossi vengono trovati tre biglietti manoscritti di addio alla moglie. La stessa consulenza della difesa delle persone offese riconosce come propria del Rossi la grafia in tutti i messaggi. La paternità dei manoscritti non è in dubbio (sono stati riconosciuti dalla stessa vedova TOGNAZZI in sede di sommarie informazioni). Nel primo scritto Rossi scrive: "Ciao Toni, mi dispiace, ma l'ultima cazzata che ho fatto è troppo grossa. Nelle ultime settimane ho perso ... ". Nel secondo scritto scrive: "Ciao Toni, Amore, l'ultima che ho fatto è troppo grossa per poterla sopportare. Hai ragione, sono fuori di testa da settimane". Nel terzo scritto ancora: "Amore, mio, ti chiedo scusa ma non posso più sopportare questa angoscia. In questi giorni ho fatto una cazzata immotivata davvero troppo grossa. E non ce la faccio più Credimi, è meglio così. L'ipotesi della "costrizione" nella scrittura dei biglietti è contrastata da varie argomentazioni sostenute con logica spiegazione dai consulenti dell'ufficio, ma soprattutto viene in evidenza un dato di esperienza che porta ad escludere la presenza di un "aguzzino talmente confuso da bocciare se stesso più volte". Da questa considerazione empirica e da altre più sottili sul piano tecnico-scientifico rappresentate nella relazione si fa derivare la conclusione che il Rossi fosse solo nel proprio ufficio nel momento della stesura dei tre biglietti. Peraltro, che nella prima indagine vi fosse un convincimento corale circa il suicidio - anche da parte dei familiari - è evincibile dalla stessa (prima) opposizione delle parti offese e dalla richiesta di avocazione alla P.G., incentrate sulle condizioni di stress lavorativo del ROSSI e su presunte colpe datoriali, con tanto di allegazione di una consulenza psichiatrico-forense ove, previa ricostruzione della situazione lavorativa del ROSSI, la C.T. conclude: "E' possibile ricostruire un nesso causale tra lo stress lavorativo cui è stato sottoposto il Rossi e l'evento suicidario".

Le lesioni al volto ed alla parte anteriore del corpo. Una delle ragioni se non la principale di riapertura delle indagini è stata quella di verificare la genesi delle lesioni sulla parte anteriore del corpo. I Consulenti tecnici nella seconda perizia riferiscono della presenza di cinque lesioni al volto di natura molto probabilmente escoriativa. Tre (dorso del naso, pinna nasale sinistra, emilabbro inferiore sinistro) sono in linea. Certamente su queste lesioni si può dire che non vi è stato un accertamento medico-legale adeguato (soprattutto si denota l'assenza di dettagli per consentirne la datazione). Nella seconda relazione si prende atto che in ordine a tali lesioni non sussistono dati certi su genesi e natura e si formula l'ipotesi di uno strisciamento con un oggetto affilato ma non tagliente. Si indica a tal proposito lo spigolo ma in termini ipotetici. I dubbi sorti su alcuni aspetti della prima perizia medico-legale sono stati descritti ed analizzati ma nulla hanno aggiunto di diverso al quadro complessivo già accertato. Infatti, nella relazione della seconda consulenza medico legale, dopo avere dato atto di aver proceduto alla comparazione tra prelievi dalle lesioni e dai vari oggetti e strutture che componevano l'ufficio del Rossi ed il muro della parete lungo il quale il Rossi è precipitato, si legge: Tali indagini, seppur can i limiti citati, hanno dato supporto a/l'ipotesi che alcune lesioni, in particolare quelle sul volto e alla mano sinistra, hanno avuto origine da uno sfregamento contro un nottolino della finestra, il muro e/o le persiane esterne all'ufficio. La presenza quindi di strappi alla camicia anteriormente con sottostanti escoriazioni superficiali, così come di escoriazioni e ecchimosi lievi in regione ascellare e alla superficie anteriore delle braccia, di escoriazioni alle ginocchia e alla punta delle scarpe, e di escoriazione al volto riconducibili forse all'urto contro spigoli (strutture lineari della finestra, del davanzale ... ), è suggestiva di un dibattersi o di uno sforzo/strisciarsi della parte anteriore del corpo contro le strutture della finestra e del muro esterno. Rispetto a tale situazione, i periti valutano le due ipotesi omicidiaria e suicida ria, e così concludono: La prima prevede che il Rossi sia stato spinto/forzato a cadere dalla finestra, e che questi stessi atti, resi ancora più disperati dal tentativo di salvarsi e divincolarsi, e magari anche aggrapparsi alle strutture della finestra e poi da lì cadere, abbiano portato agli urti contro le superfici delle strutture della finestra e del muro. La seconda, invece, prevede che lo stesso Rossi si sia posizionato per buttarsi dalla finestra e che, forse per un ripensamento/esitazione, sia scivolato o inciampato in qualche struttura rimanendo con i gomiti e le braccia appoggiate al davanzale e le gambe a penzoloni .... e poi precipitando. Anche questa ipotesi comporta azioni che hanno provocato strisciamenti e urti contro le strutture, che potrebbero giustificare la presenza di lesioni anteriori. La prima ipotesi non si può escludere in assoluto in base agli elementi medico-legali, tuttavia non ha elementi circostanziali o biologici che la supportino: non vi sono segni chiaramente attribuibili a terze persone (lesioni formate, DNA di terzi). La seconda ipotesi invece è supportata da elementi, seppur non scientificamente dirimenti, comunque maggiormente suggestivi da un punto di vista medico legale, a cominciare dalle 3 lettere di addio, sempre più dettagliate, scritte dalla mano del Rossi w dai segni di autolesionismo riportati sul polso sinistro, così come le proposizioni dichiarate di uccidersi.

I fazzoletti di carta con le macchie di sangue. Dei fazzolettini di carta con le macchie di sangue contenuti nel cestino sono stati sequestrati in data 12.4.2013. Il dissequestro è stato disposto in data 14.8.2013, a seguire alla richiesta di archiviazione datata 2.8.2013. Si rammenta che - prima del (primo) decreto di archiviazione - via via sono stati dissequestrati dai PM e restituiti agli aventi diritto anche altri oggetti sottoposti a sequestro: dagli effetti personali (pc,pen drive, polizze, registratore, ecc.), alla stanza della banca. Ciò nell'ottica, naturalmente, della progressiva ritenuta superfluità a fini di prova dei reperti. Anche in questo caso, è stata determinante, in allora, la progressiva acquisizione di inequivoci elementi che davano fondamento all'ipotesi suicidiaria (spontanea, senza istigazione alcuna) e, nello specifico, la riconducibilità dei fazzolettini sporchi di sangue e della carta protettiva per cerotto da automedicazione alle lesività cutanee constatate su entrambi i polsi sin dal primo sopralluogo (v. foto e relazione di polizia scientifica); lesioni autoprovocate per meccanismo autolesivo. La decisione che ha portato alla distruzione dei fazzolettini è stata, come per gli indumenti (e per gli altri oggetti in sequestro), il venir meno dell'utilità del reperto a fini probatori, alla luce delle complessive risultanze investigative via via raccolte (fotografiche e esiti medico-legali), con conseguente esclusione della necessità della loro analisi. Si evidenzia che il consulente medico legale dell'epoca prof. Gabrielli ebbe chiaramente ad escludere azioni violente di terzi e perché i familiari riferirono di gesti autolesivi già verificatisi nei giorni precedenti. I consulenti tecnici del PM nominati nella seconda indagine su questo punto specificano quanto segue: "/ fazzoletti, non completamente dispiegati, nel numero minima di 3, riportano numerose macchie di sostanza rossastra, con ogni ragionevolezza trattasi di tamponature su ferita sanguinante (il che giustifica il fatto che il fazzoletto fosse chiuso, perché aumenta il potere assorbente). Appare rilevante il numero complessivo e l'analogia della forma delle macchie, che induce a ritenere il frutto dell'azione di un tamponamento continuativo su una medesima ferita. La presenza di aloni, invece, potrebbe essere indicativo della presenza di liquidi, tipo saliva, siero o acqua. Poiché anche questi fazzoletti risultano nella parte superiore dei residui gettati nel cestino, contestualmente ai frammenti dei biglietti, non si esclude che appartengano all'ultimo periodo di vita trascorso dal Rossi in ufficio. La circostanza appare rilevante in quanto l'ultima testimonianza visiva del Rossi risale ad una collega (Chiara Galganin.d.r.) senza segnalare la presenza di ferite. Il Rossi aveva però dei segni di tagli nei polsi, procuratisi nei giorni precedenti, coperti dalla manica della camicia e da cerotti, quindi non percebili, tuttavia le immagini del cadavere mostrano anche una sequenza di ferite al volto che sarebbero state, al contrario, molto visibili. Il mancato segnalamento conduce alla considerazione che queste debbano essere intervenute quantomeno successivamente alla ore 18,00. Le macchie di sangue potrebbero dunque essere dovute ai tamponamenti su una di queste ferite e, in particolare, la forma triangolare e la dimensione delle tracce, potrebbe essere ricondotta a quella del labbro inferiore ( .... ). In questa ipotesi la ferita tamponata sarebbe dunque occorsa nell'intervallo di tempo tra le 18,00 e le 19,20, ovvero prima della precipitazione. Un'altra spiegazione di queste macchie potrebbe essere quella di un tamponamento ripetuto su un parziale risanguinamento di una più vecchia ferita ai polsi (lesioni precedenti di cui riferisce la figlia nelle informazioni rese in data 18.4.2013, n.d.r.) Appare ovvio dire che con il senno di poi poteva essere utile il mantenimento in sequestro dei fazzolettini di carta, ma c'è da chiedersi, prima di farne diventare un caso determinante per le sorti di un'indagine, quale peso avrebbe potuto avere l'eventuale loro analisi. A tutto concedere, laddove si volesse ritenere che quelle lesioni fossero state causate da una colluttazione all'interno dell'ufficio del Rossi (nel quale - di contro - è pacifica la totale inesistenza di tracce), stante il quadro sopra delineato, non è con i fazzolettini che si sarebbe potuta avere la prova di tale evento. Inoltre, i consulenti d'ufficio della seconda indagine rimarcano il dato dell'assenza di violenza spiegando che: "le condizioni di ordine e pulizia dell'interno dell'ufficio, contestualmente ai verbali dei rilievi della p.g. operante, nonché alla negatività degli esami tossicologici, non mostrano o/cuna traccia riferibile ad attività concitate o violente, tantomeno di terze persone".

Persone presenti nella sede. Le persone presenti nella sede, come individuate dalla p.g., sono state ascoltate. La Bandi Lorenza che esce per ultima riferisce: "Non penso ci fosse qualcun altro. Sicuramente dell'ufficio stampa non vi era più nessuno così come non vi era Paola Graziani, responsabile del Servizio media, e nessuno dell'Ufficio Segreteria."

L'omessa audizione di Pieraccini Lorenza. Il GIP dott.ssa Malavasi nell'ordinanza di archiviazione testualmente scrive: "Si aggiunga che le attività investigative richieste a tal fine dagli opponenti -sentire a sommarie informazioni Fabrizio Viola, le sue segretarie, la Pieraccini ed altri colleghi di Rossi, acquisire le mail presenti nella sua casella di posta elettronica, ricostruire i suoi movimenti nel pomeriggio che precedette la morte- sono già state tutte compiute senza che da ciò sia emerso nulla di più di quanto si è detto". Sebbene l'espressione non sia puntuale il significato della frase è inequivoco: l'audizione della Pieraccini non avrebbe aggiunto alcunchè al quadro probatorio già cristallizzato. Difatti, il nome della Pieraccini emerge dall'elenco estrapolato dalla memoria del telefono fisso d'ufficio in uso al Rossi e relativo alle chiamate effettuate e ricevute dal telefono fisso del Rossi. Tra le varie chiamate risulta il numero interno (294209) di Pieraccini Lorenza di 22 secondi alle ore 18,08, il giorno 6.3.2013. In precedenza vi erano state altre conversazioni telefoniche tra i due, sempre di pochi secondi, il 4 marzo 2013 ed il 27.2.2013. Ebbene, sulla base di questo dato la difesa delle persone offese - che nulla avevo chiesto nel corso delle indagini ai P.M. - in sede di opposizione chiede al GIP di svolgere attività istruttoria integrativa, chiedendo, fra l'altro, di sentire la Pieraccini sui seguenti punti: sul contenuto delle telefonate; quo/e fosse lo stato emotivo del Rossi e soprattutto se il Rossi avesse impegni e/o incontri con qualcuno tra le 18 e le 20 del 6.3.2013. Ebbene sullo stato emotivo del Rossi si ricorda che lo stesso ebbe un lungo colloquio con la coach Ciani Carla Lucia, proprio il 6 marzo 2013, di cui riferisce ampiamente nelle dichiarazioni rese al P.M. in data 13.3.2013, soffermandosi soprattutto sullo stato emotivo del Rossi; sempre sullo stato emotivo del Rossi riferiscono pure tanti altri, tra cui Galgani Chiara, Filippone Gian Carlo e gli stessi parenti del Rossi. Non si comprende poi a che titolo la Pieraccini dovesse sapere degli impegni serali del Rossi, considerando che si tratta di collaboratrice nella segreteria di direzione. Ma, ammesso, che sia così importante, senza necessità di farne un caso di delegittimazione, ben potevano le difese delle persone offese awalersi dell'istituto delle indagini difensive procedendo ad assumere direttamente le informazioni della Pieraccini e chiedere, qualora fossero emerse circostanze rilevanti, la riapertura delle indagini.

La presunta caduta dell'orologio. Il GIP dott.ssa Malavasi nell'ordinanza di archiviazione (pag. 38) sul punto è chiarissima: "quanto asserito nell'opposizione circa il lancio dalla finestra dell'orologio di David Rossi, tutto è meno che un dato certo e incontrovertibile. Nei frame selezionati dall'ing. Scarselli non si apprezza alcun orologio in caduta, ma unicamente alcuni luccichii in corrispondenza del selciata del vicolo, reso brillante dalla pioggia, simili ai molti altri che caratterizzano l'intero filmato". Peraltro sul polso sinistro i consulenti d'ufficio, cosi come risulta dalle foto della polizia scientifica e dai rilievi medico-legali, rilevano una lesione che riproduce lo stampo di un oggetto in forma rotonda che, vista la sede (polso sinistro), è evidentemente l'impronta profonda lasciata per effetto della caduta dalla compressione del quadrante dell'orologio indossato dal Rossi.

L'ufficio di David Rossi. Su questo punto la consulenza d'ufficio rappresenta: "nel CD agli atti vi è un filmato della durata di 35 secondi, che riporta la data di creazione del 6.3.2014, ore 22,04, effettuato dal primo operatore di p.g. che è entrato nello studio del Rossi ..... Le fotografie del sopralluogo dentro l'ufficio, più nitide, sono state scattate invece dopo la mezzanotte, al termine delle riprese nel vicolo .... Anche se le foto prodotte non riproducono esattamente i luoghi filmati due ore prima, si osserva che le "modifiche" (oggetto anche queste di accuse alla Procura della Repubblica, n.d.r) sono di modestissima entità . .... L'ufficio, nel complesso, appare pulito ein ordine, la P.G. non ha rilevato tracce di azioni violente (non sono segnalate effrazioni, scardinamenti, rotture e nemmeno tracce di sangue nella stanza o di altri liquidi..) e tutte le immagini confermano questa circostanza. La stessa ordinanza di archiviazione della dott.ssa MALAVASI sul punto è chiarissima (pag. 49): "Disquisire sulle minime differenze nel posizionamento degli oggetti che si notano nelle due diverse riprese - quella col telefonino del Sovr. Marini e quella che documenta il sopralluogo delle 0,30 - è esercizio di pura retorica, non comprendendosi sulla base di quale criterio di inferenza la rotazione della sedia o lo spostamento delle carte sulla scrivania o, ancora, l'apertura dell'anta di un armadio, costituiscano indizi di omicidio, a maggior ragione perché la immutazione dello stato dei luoghi è pacificamente da addebitare all'azione delle forze dell'ordine e dei magistrati che procedettero ai sopralluoghi".

Cellulare: il presunto mistero del numero 4099009 apparso sul telefonino. Si è sostenuto che il numero 4099009 sarebbe stato digitato due volte dopo la morte del Rossi: addirittura si è adombrato che tale numero corrispondesse ad un conto corrente segreto alludendo, in particolare, allo IOR. Al di là della illogicità di tali illazioni, come risulta dai dati della TIM (nota della dott.ssa Benignatti della TIM), l'utenza della Orlandi aveva esaurito il credito durante la precedente chiamata e ciò aveva generato una deviazione di chiamata al numero di servizio 4099009.

L'ombra all'ingresso di via Dei Rossi. Le due persone che si sono avvicinate dal cadavere del Rossi sono state identificate e sentite nell'immediatezza dei fatti (Filippone e Mingrone). Non si è potuta identificare la persona che ai affaccia sul vicolo apparentemente con un cellulare. Sono stati compiuti accertamenti accuratissimi e di alta tecnologia presso il Gabinetto Nazionale di Polizia Scientifica, ma a causa della pessima qualità del filmato di videosorveglianza non si è potuta ottenere alcuna utile risoluzione. Quanto alla critica circa la mancata acquisizione dei tabulati per individuare le persone presenti nell'area in occasione dell'evento, come già evidenziato per gli indumenti e i fazzoletti sporchi di sangue, nel contesto iniziale tutto deponeva per l'ipotesi del suicidio e quindi l'eventuale acquisizione del traffico di celle non è stata presa in considerazione, né peraltro sollecitata da alcuno. Infine, si intende ribadire che i magistrati di questi Uffici hanno il solo ed esclusivo interesse di accertare la verità e in funzione di ciò (nel rispetto dei ruoli di ciascuno) esprimono ampia disponibilità a valutare e ad approfondire qualsiasi aspetto che - ove opportunamente segnalato - possa essere stato non adeguatamente approfondito. Si spera che, fermo restando il diritto a critica di quanto già compiuto, analogo rispetto per il ruolo e la dignità degli Uffici e l'onorabilità dei magistrati sia tenuto da chi ha a cuore le istituzioni.

Siena 25 ottobre 2017

Il Presidente del Tribunale Roberto Carrelli Palombi

Il Procuratore della Repubblica Salvatore Vitello

Caso David Rossi, tutti i buchi e i punti oscuri del documento di Tribunale e Procura di Siena. Il presidente del tribunale, Roberto Carrelli Palombi, e il procuratore capo Salvatore Vitello hanno firmato e diffuso un documento di sette pagine nelle quali è indicato come hanno agito e perché, per due volte, la morte di Rossi è stata archiviata come suicidio. Un’iniziativa senza precedenti che rappresenta quasi un autogol perché il testo conferma implicitamente che nelle indagini non è stata seguita la procedura standard della polizia scientifica, scrive Davide Vecchi il 26 ottobre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Una nota per difendersi dalle critiche. Una in particolare: aver svolto in maniera frettolosa e superficiale le indagini sulla morte di David Rossi, il manager di Mps trovato senza vita la sera del 6 marzo 2013 nel vicolo sotto la finestra del suo ufficio. Ieri il presidente del tribunale, Roberto Carrelli Palombi e il procuratore capo, Salvatore Vitello, hanno firmato e diffuso un documento di sette pagine nelle quali è indicato come hanno agito e perché, per due volte, la morte di Rossi è stata archiviata come suicidio. Un’iniziativa senza precedenti. Che rappresenta quasi un autogol perché nel testo c’è la conferma di non aver seguito la procedura standard della polizia scientifica: sequestrare ogni elemento, repertarlo, analizzarlo e conservarlo. Si ammette, inoltre, di aver agito sulla base di una convinzione non suffragata dalle indagini ma semplicemente da una deduzione, sensazione avuta nell’immediato, prima ancora di svolgere le indagini. La convinzione che si trattasse di suicidio. Per questo, scrivono, non hanno sequestrato tutti i reperti, non hanno ritenuto necessario analizzare vestiti, fazzoletti di carta sporchi di sangue; non hanno infilato in un sacchetto di plastica il cellulare ma lo hanno usato anche per rispondere a una chiamata (risulta dalle carte: quando gli inquirenti erano nell’ufficio di Rossi subito dopo la sua morte, qualcuno di loro risponde per 23 secondi a Daniela Santanché). Ancora: non hanno cercato Dna o tracce ematiche nell’ufficio; non hanno acquisito e sequestrato i video delle 12 telecamere di sorveglianza ma solamente di una; non hanno compiuto gli esami istologici sulle ferite rilevate sul corpo del manager; non hanno individuato i presenti nella sede di Mps né si sono accertati che esistessero dei registri; non hanno convocato e sentito le persone che nella giornata avevano incontrato Rossi (uno su tutti: il fratello Ranieri, che con lui aveva pranzato). E molto altro. La sintesi è nell’intervista rilasciata al Fatto pochi giorni fa dall’ex procuratore Capo di Firenze, Ubaldo Nannucci: “La procedura standard a quanto pare non è stata seguita”. Tutto questo, ammettono nella nota congiunta Palombi e Vitello, non è stato compiuto perché sin da subito si è ipotizzato il suicidio. Ma la magistratura inquirente non dovrebbe compiere le indagini e arrivare a una conclusione in base a riscontri accertati e concreti? Non solo, nel documento si leggono con frequenza frasi come “col senno di poi”, “ex post”. In particolare per quanto riguarda i vestiti e i fazzoletti sporchi di sangue. I primi andati distrutti il giorno dopo la morte di Rossi, gli altri distrutti dal pm, Aldo Natalini, prima ancora che il gip avesse emesso decreto di archiviazione o disponesse un possibile supplemento di indagini. Ebbene, per quanto riguarda i primi, si legge nella nota, “la critica che si muove alla Procura della Repubblica è di non aver provveduto al sequestro. Ragionando ex post la critica è comprensibile”. Ma, prosegue, “bisogna però calarsi nel contesto iniziale quando appariva a tutti chiaro l’evento suicidiario”. La “prova determinante”, secondo Vitello, “era costituita: dalle lettere di addio, dagli esiti dell’ispezione medico legale e dalla relazione autoptica, dall’assenza di tracce di colluttazione o di terzi nell’ufficio da dove il Rossi è precipitato, dalle mail del 6/3/2017, dalla descrizioni delle condizioni psicofisiche del Rossi offerte dai sommari informatori e in particolare dalla dottoressa Ciani (psicologa che intervistò il Rossi la mattina stessa dell’evento”. Questo si legge nella nota. Ma gli atti dicono altro. Molto altro. I vestiti sono stati distrutti il giorno successivo alla morte di Rossi. Quindi il 7 marzo 2013. La perizia del medico legale è stata depositata il 4 maggio successivo. Quindi due mesi dopo. Le tracce di colluttazione o di terzi non sono state cercate eppure gli stessi periti della procura nel 2015 concludono sostenendo che Rossi è stato percosso prima di cadere dalla finestra. Le mail del 6 marzo sono state portate all’attenzione degli inquirenti e allegate agli atti solamente l’8 marzo, il giorno successivo alla distruzione dei vestiti. Le persone sentite e in particolare la dottoressa Ciani (citata nella nota), è stata escussa il 13 marzo 2013. Dunque rimane la domanda: perché il 7 marzo a Siena invece di seguire la procedura standard e sequestrare, analizzare e conservare per almeno due anni o comunque fino alla conclusione delle indagini e al decreto di archiviazione del gip tutti i reperti, i vestiti sono stati invece andati distrutti? Certo, specifica la nota: “I vestiti non sono stati sequestrati e, conseguentemente, non essendo nella disponibilità della Procura della Repubblica non potevano essere da questa distrutti”. Già: non sono stati sequestrati. Sequestrati dalla procura, invece, è distrutti dalla procura altri reperti fondamentali: sette fazzoletti sporchi di sangue trovati nell’ufficio di Rossi. Cosa spiega la nota in merito? “È stata determinante la progressiva acquisizione di inequivoci elementi che davano fondamento all’ipotesi suicidiaria (spontanea, senza istigazione alcuna) e, nello specifico, la riconducibilità dei fazzolettini (…) alle lesività cutanee constatate su entrambi i polsi sin dal primo sopralluogo”. Certo. Eppure gli stessi periti della Procura nel 2015, quando il magistrato Andrea Boni riapre il fascicolo, sono costretti a limitarsi alle foto dei fazzoletti e concludono che sarebbe stato utile averli perché la forma della macchia di sangue è compatibile con la ferita al labbro di Rossi, non a quella dei polsi. Ma anche qui, “col senno di poi”. Nella nota viene riportata anche una parte della perizia svolta per la procura dal Colonnello dei Ris dei Carabinieri Davide Zavattaro. “Le macchie di sangue potrebbero dunque essere dovute ai tamponamenti su una di queste ferite e, in particolare, la forma triangolare e la dimensione delle tracce, potrebbe essere ricondotta a quella del labbro inferiore (…). In questa ipotesi la ferita tamponata sarebbe dunque occorsa nell’intervallo di tempo tra le 18 e le 19,20, ovvero prima della precipitazione”. Quindi nel 2015 si ipotizza non solo una colluttazione ma anche delle ferite. Mentre, come da atti, i tagli superficiali ai polsi Rossi li aveva almeno dal 5 marzo, come messo a verbale dai familiari del manager, Antonella Tognazzi e Carolina Orlandi. Si arriva così al punto cinque della nota, dedicato alle “persone presenti nella sede”. Come è stato accertato chi c’era? In base alla testimonianza di Lorenza Bondi che ai magistrati dice: “Non penso ci fosse qualcun altro. Sicuramente dell’ufficio stampa non vi era più nessuno (..) e nessuno dell’ufficio segreteria”. Punto. Nel 2015, quando il solito Boni riapre le indagini cosa fa? Chiede a Mps i video di sorveglianza interni, i registrati degli ingressi e delle uscite di quella sera, l’elenco delle telefonate dagli uffici. Nel 2015 però. Troppo tardi: è stato cancellato tutto. Se queste indagini fossero state compiute nel 2013 forse oggi non ci sarebbero tutti questi dubbi. Il punto sei della nota è il motivo per cui le sette pagine sono firmate anche dal presidente del Tribunale: l’omessa audizione di Pieraccini Lorenza. Il giudice per le indagini preliminari Malavasi nel suo decreto di archiviazione scrive che Pieraccini è stata sentita a verbale. In realtà, come hanno rilevato le Iene, non è mai stata sentita. Il gip risponde al presidente del Tribunale e non alla Procura, per questo motivo quindi c’è anche la firma di Palombi. Il gip scrive nell’archiviazione: “Le attività investigative richieste a tal fine dagli opponenti – sentire a sommarie informazioni Fabrizio Viola, le sue segretarie, la Pieraccini ed altri colleghi di Rossi, acquisire le mail presenti nella sua casella di posta, ricostruire i suoi movimenti – sono già state tutte compiute”. Ebbene la nota puntualizza in merito: “Sebbene l’espressione non sia puntuale il significato della frase è inequivoco: l’audizione della Pieraccini non avrebbe aggiunto alcunché al quadro probatorio già cristallizzato”. Talmente cristallizzato da spingere un procuratore capo e un tribunale a dover firmare e divulgare un comunicato stampa di sette pagine. Procure e Tribunali solitamente parlano con gli atti. Non a Siena. A quanto pare. La nota prosegue poi in merito ad altri dubbi o carenze rilevate nelle indagini: la caduta dell’orologio, l’ufficio, il cellulare, l’ombra all’ingresso nel vicolo dove è stato trovato il cadavere. “Si intende ribadire che i magistrati di questi uffici hanno il solo ed esclusivo interesse di accertare la verità e in funzione di ciò esprimono ampia disponibilità a valutare e approfondire qualsiasi aspetto che possa essere stato non adeguatamente approfondito”. A distanza di quattro anni? Con i reperti non analizzati e distrutti? Elementi fondamentali come video e tabulati non acquisiti e andati persi? La nota conclude con queste parole: “Si spera che, fermo restando il diritto a critica di quanto già compiuto, analogo rispetto per il ruolo e la dignità di questi uffici e l’onorabilità dei magistrati sia tenuto da chi ha a cuore le istituzioni”. Proprio per il profondo rispetto nelle istituzioni e nell’assoluta convinzione che la magistratura sia l’unica forma di giustizia possibile in un Paese democratico è doveroso criticare indagini che sembrano lacunose. I riscontri non si trovano “con il senno di poi”.

Mps, cosa non torna davvero nel caso della morte di David Rossi, scrive Fabrizio Colarieti su "Formiche.net" il 27 ottobre 2017. La probabile nuova inchiesta sulla morte di David Rossi, l’ex capo della comunicazione del Monte dei Paschi di Siena, volato giù dalla finestra del suo ufficio a Rocca Salimbeni, il 6 marzo di quattro anni fa, avrebbe bisogno di nuove indagini, ma, forse, anche di lasciare la città del Palio. E’ quello che si chiedono alcuni osservatori in questi giorni dopo una trasmissione tv e l’uscita di un libro.

PERCHÉ SE NE PARLA ANCORA. La morte di Rossi, non proprio esente da dubbi, come, invece, la descrivono le indagini fin qui compiute, era finita in un angolo buio, come vicolo di Monte Pio. Un vicolo tornato a illuminarsi solo grazie a un’inchiesta del programma “Le Iene”. E per rendersi conto di quanto, finora, non è stato fatto per arrivare alla verità – possibilmente rispondendo alla domanda: Rossi è stato ucciso o si è ucciso? – basta leggere, proprio sul sito de “Le Iene”, le carte della doppia inchiesta. Sul caso David Rossi c’è anche un libro molto recente, scritto dal giornalista Davide Vecchi (nella foto) e pubblicato da Chiarelettere () che si concentra proprio su quanto doveva essere fatto e non è stato fatto.

LA DOPPIA ARCHIVIAZIONE. Gli accertamenti avviati nell’ambito dei due fascicoli aperti dalla Procura di Siena e poi archiviati, nel 2013 e nel 2017 dallo stesso tribunale del capoluogo toscano, non solo non sono serviti a fare luce sul caso Rossi ma hanno restituito un elenco di pesanti interrogativi che riguardano sia la morte dell’ex capo della comunicazione del Monte dei Paschi di Siena sia, soprattutto, i gravissimi errori commessi nella fase iniziale delle indagini. E parlare di errori, anche clamorosi, se l’obiettivo è dare una risposta alla famiglia del dirigente, non può essere più un tabù, nemmeno a Palazzo di Giustizia.

IL PREGIUDIZIO. L’inchiesta sulla morte del giornalista ha imboccato una strada in salita fin dal principio per via di quel pregiudizio – l’uomo si è suicidato – che probabilmente è la causa scatenante di numerosi errori e omissioni cominciate dal momento in cui, in vicolo Monte Pio, è stato ritrovato il corpo di Rossi. E così, semplicemente leggendo attentamente le carte, si evidenziano gravi lacune investigative, come sottolineano l’inchiesta e il libro.

LE TELECAMERE. In questa vicenda giocano un ruolo molto importante le immagini, quelle registrate dalle telecamere disseminate lungo tutto il perimetro di Palazzo Salimbeni e nel vicolo dove si è consumata la tragedia. La logica avrebbe voluto che fossero acquisiti – immediatamente, perché dopo 7 giorni il sistema li sovrascrive – tutti i filmati registrati da tutte le telecamere, interne ed esterne alla sede della Banca, e questo non è stato fatto. Ad eccezione del filmato choc che ritrae la parte finale della caduta di Rossi. Nel ricostruire l’accaduto, tra l’altro, c’è stato anche un erroneo calcolo dei tempi legato a un errore (16 minuti in più) nell’orario impresso sulle immagini registrate dallo stesso sistema di videosorveglianza. Come se non bastasse, secondo i periti della famiglia, contrariamente alla buona prassi investigativa, il filmato si interrompe diversi minuti prima dell’arrivo dei soccorsi. L’arrivo del personale del 118 viene usato come “marker” di riferimento temporale certo e per questo si tende a “cristallizzarlo” nei filmati di sorveglianza in eventi del genere.

I CELLULARI. Un’altra anomalia riguarda i tabulati telefonici – chi ha chiamato chi – di tutto il personale che quella sera si trovava nella sede della banca, mai acquisiti dall’autorità giudiziaria. E riguarda, soprattutto, la mancata acquisizione, sempre presso i gestori telefonici, dei tabulati di presenza, cioè l’elenco degli IMSI (cioè dei cellulari) che nei minuti successivi e precedenti al fatto impegnavano le celle telefoniche intorno alla banca. Un elemento, certamente complesso da analizzare, ma che avrebbe potuto aggiungere elementi di prova, anche significativi.

L’AUTOPSIA. La prima autopsia, quella che deve dare le prime risposte e nel corso della quale vengono eseguiti anche accertamenti non ripetibili, è stata lacunosa e superficiale. Le numerose ferite frontali sul corpo di David non vengono sottoposte ad un accurato esame dei tessuti. Tanto da rendere necessaria una successiva riesumazione del corpo di Rossi, che, comunque, non ha consentito, a causa del trascorrere del tempo, di avere informazioni che all’epoca sarebbero state preziose.

LA SCENA DEL CRIMINE. Errori macroscopici vengono compiuti nell’immediatezza del fatto anche all’interno dell’ufficio di Rossi, che in quel momento è a tutti gli effetti la scena di un crimine sconosciuto. Il luogo verrà isolato dagli esperti della polizia scientifica solo diverse ore dopo i fatti e dopo che molte persone avevano avuto accesso ai luoghi, vanificando ogni tentativo di impedire contaminazioni.

LE PROVE DISTRUTTE. I vestiti che indossava David Rossi sono stati distrutti senza mai essere analizzati. Stessa sorte è toccata ad alcuni fazzoletti di carta sporchi di sangue che erano stati rinvenuti nel cestino del suo ufficio: distrutti da un autista in servizio presso il Tribunale su ordine del Pm Aldo Natalini il giorno prima di ferragosto.

ROSSI POTEVA ESSERE SALVATO? David Rossi, se prontamente soccorso, forse poteva salvarsi. Dal video della caduta è evidente che il giornalista non muore sul colpo. Rimarrà in agonia per circa ventidue minuti prima di esalare l’ultimo respiro. Solo alle 20:11 (ore 20:27 secondo il timecode difettoso del video) appare la sagoma di uomo che – telefono in mano – guarda David a terra e se ne va, senza avvisare i soccorsi che verranno allertati circa 40 minuti dopo, quando ormai per David Rossi non c’è più nulla da fare.

LA VERSIONE DELLA PROCURA. In una nota, diramata il 25 ottobre 2017 dal presidente del Tribunale Roberto Carrelli Palombi e dal Procuratore capo Salvatore Vitello, la Procura di Siena riassume le risultanze dell’inchiesta. In merito agli indumenti di Rossi, la Procura afferma che questi “non sono stati sequestrati” e dunque “non potevano essere da questa distrutti” e che “dall’analisi tecnica basata sulle foto” i vestiti “non appaiono avere avuto un ruolo determinante nella ricostruzione dell’evento”. Sulle lesioni al volto e alla parte anteriore del corpo di Rossi, la Procura precisa che “si può dire che non vi è stato un accertamento medico-legale adeguato” e che “nella seconda relazione non sussistono dati certi su genesi e natura e si formula l’ipotesi di uno strisciamento con un oggetto affilato ma non tagliente”. L’ipotesi omicidiaria “non ha elementi circostanziali o biologici che la supportino”, mentre quella suicidaria “è supportata da elementi, seppur non scientificamente dirimenti, comunque maggiormente suggestivi da un punto di vista medico legale”. Per quanto riguarda l’ombra dell’uomo che si avvicina al corpo di Rossi, gli inquirenti affermano di aver compiuto “accertamenti accuratissimi e di alta tecnologia” ma, a causa della pessima qualità del filmato di videosorveglianza, “non si è potuta ottenere alcuna utile risoluzione”.

Morte David Rossi, l'avvocato Goracci replica alla procura. Ecco il documento integrale, scrive il 28.10.2017 "Il Corriere di Siena". Sulla vicenda della morte di David Rossi, ex manager della Banca Monte dei Paschi di Siena, interviene con una lunga nota anche Luca Goracci, legale della famiglia di David che di fatto replica al documento che era stato diffuso dal procuratore Salvatore Vitello e dal presidente del tribunale, Roberto Carelli Palombi. Riportiamo il documento di seguito in maniera integrale.

"La lettura del comunicato congiunto a firma del Presidente del Tribunale di Siena e del Procuratore Capo della Repubblica presso il Tribunale di Siena impone a questo difensore, che per alcuni mesi si è volutamente astenuto dall’intervenire sui media, siccome direttamente chiamato in causa, alcune riflessioni e considerazioni. Se da un lato si apprezza infatti una ammissione di responsabilità circa lo svolgimento delle indagini, dall’altro si vorrebbero quantomeno condividere certe responsabilità con i familiari, e con il difensore incaricato dalla Sig.ra Tognazzi Antonella. Seguendo i punti toccati dal comunicato.

A) La distruzione degli indumenti. Non è a conoscenza di chi scrive se le deposizioni del personale 118 sentito a sommarie informazioni in date dal 14.04.2016 al 21.04.2016, siano state esaminate dai consulenti nominati dalla Procura della Repubblica di Siena, Ten Col Zavattaro e professoressa Cattaneo, all’indomani della riapertura del caso. Viste le incongruenze si ritiene che non lo siano state. Gli abiti indossati da David Rossi vengono descritti dal personale del 118 come impeccabili, puliti, pantaloni con la piega, solo leggermente bagnati per la pioggia, mentre la camicia, per quanto sempre riferito dal personale del 118, che era abbottonata, è stata allargata, strappati i bottoni sulla parte anteriore e aperti quelli delle maniche per posizionare gli elettrodi. I consulenti della Procura ipotizzano che le macchie presenti sui pantaloni siano state procurate dagli ipotetici strusciamenti contro la parete esterna in un ipotetico tentativo di risalita o durante altre incredibili “manovre” che il Rossi avrebbe potuto porre in essere. Occasioni queste in cui anche i bottoni e la camicia avrebbero potuto strapparsi. Il contrasto evidente ed insuperabile imponeva, a sommesso parere di questo difensore, una diversa valutazione delle ipotesi della caduta formulate nella consulenza di parte del Pubblico Ministero ovvero tali ipotesi risultano smentite.

A1) Il mancato sequestro degli indumenti. La critica ex post sarebbe comprensibile se solo si dessero per ammesse alcune circostanze. Si vuole affermare che avrebbe dovuto, il fratello del Rossi, avere l’accortezza nel momento in cui il personale ospedaliero gli restituiva gli indumenti di prenderli e tenerli a casa ovvero chiedere che venissero sequestrati, forse è pretendere troppo e non solo per il comprensibile stato d’animo in cui versava che aveva da poco perso il padre ed il fratello maggiore, a prescindere dalle cause del decesso. Dedurre che anche i familiari, da tale condotta, ipotizzassero da subito il suicidio contrasta con un dato eclatante in quanto furono gli stessi familiari ad insistere perché venisse disposta l’autopsia non credendo all’ipotesi del suicidio.

B) I biglietti di addio. Che la grafia sui biglietti appartenga al Rossi non è mai stato oggetto di contestazione. Non consta però che i consulenti della Procura siano periti grafologi e che a fronte della relazione di un professionista che collabora con tutte le Procure della Repubblica italiane siano sufficienti alcune affermazioni di chi specialista non è, atteso che la specializzazione è elemento fondante per una corretta contestazione. In ogni caso non vi è assoluta certezza in ordine alla datazione ovvero al momento in cui tali biglietti possano essere stati materialmente scritti.   Nessuno di questi si trovava in bella mostra sulla scrivania ma anzi risultavano cestinati, strappati e accartocciati e sebbene richiesto non sembra sia stato appurato ogni quanto tempo il cestino venisse svuotato dagli addetti alle pulizie ovvero quando queste siano state eseguite nell’ufficio del Rossi.

B1) La consulenza psichiatrica forense. L’incarico alla Prof.ssa Lorettu venne affidato nel mese di Maggio 2013, come dalla stessa indicato nella relazione, circa due mesi prima della completa visione delle carte processuali. Al momento dell’affidamento dell’incarico, non avendo potuto prendere visione di elementi diversi dalla e.mail in cui veniva “preannunciato” il suicidio, dei biglietti lasciati, ( entrambi i documenti vennero mostrati alla vedova Tognazzi in occasione dell’interrogatorio nel mese di Aprile 2013) e delle comunicazioni ricevute per via orale: assenza di intervento da parte di terzi e evento causato da stress lavorativo e da stress conseguente ai timori insorti nel Rossi a seguito della perquisizione subita, la Prof.ssa Lorettu, nella relazione, non afferma certo che si tratti di suicidio ma che qualora si fosse trattato di evento suicidario, possibile, la causa di questo dovesse essere attribuita, escluse altre componenti, proprio allo stress lavorativo affermando quindi la sussistenza di responsabilità a carico del datore di lavoro per la necessaria tutela del lavoratore da rischio stress lavoro correlato. Il convincimento, ma più coretto sarebbe stato parlare di iniziale acquiescenza alla ipotesi suicidaria, in epoca anteriore alla visione degli atti, che David potesse essersi suicidato, crollava dopo il primo incontro avvenuto nel mese di Agosto con i consulenti incaricati, avvenuto necessariamente dopo aver estratto copia del fascicolo, all’indomani della richiesta di archiviazione ed  in particolare dopo aver potuto esaminare il video della caduta, le foto dell’autopsia e relazione del Prof. Gabbrielli, ma di fatto era venuto già meno quando, dopo il dissequestro di alcuni oggetti, in particolare telefoni e hard disk, ove erano state rinvenute e-mail di altro tenore successive alla e-mail in cui venne “preannunciato” il suicidio. La professoressa Lorettu a conclusione della propria relazione afferma: “E’ possibile ricostruire un nesso causale tra stress lavorativo cui è stato sottoposto il Rossi e l’evento suicidario”. Non afferma, e non avrebbe certo potuto farlo, che di suicidio si sia trattato.

C) Lesioni parte anteriore del corpo. Si afferma che sulle lesioni non vi sia stato un iniziale accertamento medico legale adeguato e che avendo la consulenza escluso l’intervento di terzi, uscisse confermata la convinzione iniziale formatasi dagli inquirenti sulla ipotesi suicidaria. A prescindere dal fatto che già nella prima opposizione alla archiviazione siano state messe in serio dubbio le conclusioni alle quali era giunto il consulente della Procura, i recenti accertamenti, che per stessa ammissione dei consulenti Cattaneo e Zavattaro, non possono essere ritenuti dirimenti in conseguenza del troppo tempo trascorso che ha inevitabilmente e drasticamente inciso sulla possibilità di recuperare reperti idonei, al di là delle ipotesi, hanno escluso che le lesioni alla parte anteriore del corpo siano compatibili con la caduta, per come questa è evidenziata dalle riprese della telecamera. Era sufficiente esaminare il filmato, per quanto ormai da anni ripetuto, per escludere tale possibilità. Ma se si leggono le dichiarazioni del personale del 118 circa le condizioni dei pantaloni e della camicia anche l’ipotizzato strusciamento non trova un minimo riscontro e con questo crollano le teorie circa la etiopatogenesi delle lesioni, presenti sulla parte anteriore del corpo. I periti della Pubblica Accusa non escludono l’ipotesi omicidiaria, solo evidenziano, dopo tre anni dal fatto, che nell’ufficio già di Rossi, non sono stati trovati segni anche biologici (DNA) che indichino la presenza di terze persone. 

D) Sui fazzoletti. La distruzione del reperto assume rilevanza non tanto per la datazione delle ferite che sicuramente sono state procurate dalle 18 (ora in cui Rossi è stato visto per l’ultima volta e non presentava ferite al volto) e le 19,43, ora della caduta. Evidente che se le tracce fossero state riferibili alle ferite presenti sul viso (e un esame dei fazzoletti avrebbe potuto accertarlo), ad esempio, se fossero stati utilizzati per tamponare le ferite sul labbro del Rossi, essendo i fazzolettini stati rinvenuti nel cestino, il Rossi non avrebbe potuto procurarsi tali ferite durante lo strusciamento nella finestra e nella parete, in un ipotetico tentativo di risalita non essendo rientrato nella propria stanza una volta “appeso” alla finestra.

E) Persone presenti nella sede. Sarebbe stato sufficiente la estrazione delle telecamere interne per controllare chi presente nella sede della banca.

F) Omessa audizione di Pieraccini Lorenza. Siccome non interrogata, sulle circostanza indicate, non possiamo sapere cosa la stessa avrebbe potuto riferire, se ritenuto opportuno provvederanno i difensori a sentirla nell’ambito dei poteri conferiti.

G)  Presunta caduta orologio. Se da un lato non è chiaro che l’oggetto che cade alle 20,16 sia l’orologio è altrettanto chiaro dalle immagini, in particolare la scia luminosa che è possibile vedere nel video e nel frame successivo il punto luminoso, che vi è la caduta di un grave. Il punto è che tale scia non è perpendicolare al suolo ma ha un moto parabolico. Un corpo che cade per gravità non può lasciare una scia parabolica ma necessariamente perpendicolare al suolo non avendo una spinta ovvero una velocità iniziale orizzontale. Il moto parabolico implica invece una velocità iniziale orizzontale che evidentemente il grave possedeva con la conseguenza che non può essere caduto “spontaneamente”. Del resto l’orologio, per come rappresentato nelle fotografie scattate dagli investigatori in occasione del sopralluogo nel vicolo che fissano le condizioni in cui questo si trovava mostra: lancette dei minuti e dei secondi staccate dal perno centrale, lancetta delle ore posizionata tra le 20,15 e le 20,20. Quanto alle ferite presenti nel polso si riportano le considerazioni svolte dai consulenti Zavattaro e Cattaneo:” La lesione ha caratteristiche poco compatibili con un trauma, dovuto ad esempio all’impatto al suolo del polso (si è già detto come l’urto determinò la proiezione all’indietro delle braccia), suggerendo piuttosto l’intervento di una azione di trazione dell’orologio dall’avambraccio verso la mano, compatibile con un afferramento, seguito da un trascinamento o da una sospensione. Questa non è tuttavia l’unica eziologia plausibile, potendosi immaginare che l’orologio o il cinturino, si siano in qualche modo agganciati ad una sporgenza (forse della finestra o del davanzale) con analoga azione di trazione.” Se questo difensore ha argomentato nelle ultime memorie depositate circa la necessità di esaminare il video effettuato dal Sovrintendente Marini con particolare riferimento alla circostanza che vi sia o meno la presenza sul selciato dell’orologio e del cinturino, ciò è dovuto non ad un ripensamento circa il grave che cade alle 20.16 ma al fatto che dalle dichiarazioni rese dal personale del 118, alle quali è stato fatto riferimento sopra circa le condizioni degli indumenti indossati dal Rossi, e di cui le difese hanno potuto prendere visione all’indomani della seconda richiesta di archiviazione, non risulta la presenza, nelle vicinanze del corpo di Rossi del cinturino e dell’orologio. Considerato che sono stati abbassati i calzini, dei quali è ricordato addirittura il colore, per il posizionamento degli elettrodi, chi materialmente eseguì  l’operazione, non può non aver visto il cinturino posizionato, come da  fotografie della scientifica, accanto alla caviglia destra, parimenti, considerato che vennero raccolti su disposizione del medico gli oggetti utilizzati nel corso dell’intervento dei volontari, sparsi intorno al corpo, appare impensabile che questi non abbiano visto la cassa dell’orologio. Se l’oggetto che cade alle 20,16 non è l’orologio ed i volontari del 118 non vedono né la cassa né il cinturino, ognuno tragga le proprie considerazioni.

H) L’ombra all’ingresso di via dei Rossi. All’indomani della prima archiviazione venne dall’Ing. Luca Scarselli depositata una relazione ai C.C. di Siena ove veniva evidenziata la presenza di “ombre”, meglio sarebbe definirle persone, nel vicolo. La difesa Tognazzi depositava istanza di riapertura ed avocazione delle indagini presso la Procura Generale della Corte di Appello di Firenze. La procura Generale trasmetteva il fascicolo a Siena rimettendo alla Procura senese la valutazione sulla eventuale riapertura delle indagini sugli elementi nuovi indicati dalla istante. La locale Procura escludendo che nelle istanze vi fossero elementi nuovi, che la presenza di luci e persone non avessero nessuna relazione causale con l’evento mortale verificatosi, che poteva trattarsi di passanti transitanti sulla pubblica via attratti probabilmente dall’evento, ritenute le doglianze tutte già oggetto di valutazione trasmetteva gli atti all’Ufficio del Giudice per le Indagini preliminari per i provvedimenti di competenza. Volutamente non sono stati toccati alcuni punti siccome oggetto di eventuali ulteriori indagini difensive e ripetuto cosa scritto negli atti depositati e pur avendo apprezzato il precedente comunicato ove si rappresenta la correttezza dei difensori che nelle forme consentite hanno espresso, esercitando le facoltà concesse, il diritto di critica appare adesso ulteriormente criticabile addossare una responsabilità a questo difensore laddove formalmente non avrebbe richiesto o sollecitato l’acquisizione del traffico di celle telefoniche al fine di individuare gli utenti che nel lasso di tempo interessato ebbero ad agganciare il segnale nella zona di via dei Rossi". 

Mps, il giallo delle tre mail prima della morte di Rossi. La segretaria dell'ex amministratore delegato della banca getta un'ombra inquietante sul suicidio: "Aveva paura", scrive Andrea Riva, Domenica 29/10/2017, su "Il Giornale". La morte di David Rossi continua ad essere un grande mistero. Si è davvero suicidato? Oppure qualcuno lo ha ucciso? Difficile rispondere. Questa sera, però, Le Iene hanno mostrato un altro servizio in cui vengono intervistati alcuni personaggi chiave della vicenda, come Lorenza Pieraccini, segretaria dell'ex amministratore delegato del Monte dei Paschi di Siena Fabrizio Viola, e Lorenza Biondi, una collega di David che passò - senza però salutarlo - davanti al suo ufficio (aperto e con la luce accesa, dettagli fondamentali come vedremo dopo) prima della morte del responsabile dell'area comunicazione di Mps. La Pieraccini è un personaggio chiave in tutta questa storia perché poteva leggere tutte le mail di Viola. La donna racconta un fatto molto interessante. Inizialmente David manda una mail alle 8.13 in cui dice: "Stasera mi suicido, sul serio. Aiutatemi!!!". Viola dice di non averla mai letta, ma la Pieraccini lo smentisce e dice: "Io quella mail la stampai e andai da Fanti". Fanti era il responsabile della segreteria di Viola. Quella mail fu quindi letta. Perché nessuno fece nulla? La segretaria racconta di come Rossi stava vivendo quei giorni: "Era sempre in quel modo era...non era lui". Ma non solo. La Pieraccini, che abbiamo detto essere un testimone chiave di quei giorni, non è mai stata sentita da nessuno: "Io personalmente non sono nemmeno stata chiamata dalla Procura, quindi se permette... O hanno paura che magari cioè è bene che mi tengano fuori oppure...". L'avvocato Paolo Pirani, che difende la famiglia Rossi, sostiene l'importanza di sentire questo teste: "Per noi era importante capire se David Rossi avesse detto alla Pieraccini cosa voleva fare o chi voleva incontrare". La Pieraccini racconta poi: "Per me David era una persona che è sempre stata splendida, ma non lo dico ora eh. E David lo sapeva e lo sa. Io David personalmente fisicamente l'ho visto il giorno verso le 2, 2 e mezzo". Ma c'è poi un altro testimone chiave: la dottoressa Lorenza Bondi, collega di David: "Non sto custodendo alcun segreto, ma David era in una condizione psicologica devastante". La Bondi passa davanti all'ufficio di Rossi, la cui porta è aperta e dove si vede la luce accesa. E, come sottolineano le Iene, la versione della Bondi è interessante se confrontata con quella di Giancarlo Filippone, che arriva in banca con la figlia di David e sarà il primo a vedere il cadavere. Quando i due arrivano in Mps, però, trovano la porta chiusa. Chi è stato? Ma torniamo alle mail. Viola si sarebbe perso il messaggio disperato di David delle 8.13: "Stasera mi suicido". La realtà, secondo la Pieraccini, sarebbe però un'altra: "Viola l'ha vista quella mail. Io lo dico a lei e qui lo nego. Io la sua posta la vedevo". Quando la segretaria legge la mail va "dal responsabile della segreteria e gliela fa vedere. L'ho stampata e gliel'ho fatta vedere". David manda poi altre tre mail -alle 15.11, alle 16.43 e alle 17.12 - e si rimangia tutto. Non vuol più parlare. Non vuol più raccontare lo sfacelo economico di Mps. Commenta così la Pieraccini: "Come se avesse paura che qualcuno o ha saputo o da qualche messaggio ha capito. È come se dicesse non voglio più dir nulla perché ha avuto qualche sensazione". Le Iene hanno poi cercato di incontrare il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e Rosy Bindi per poter farli incontrare con i familiari di David, ma nulla. Silenzio totale.

David Rossi, la testimone mai ascoltata: «La mail in cui annunciava il suicidio è stata letta.» Scrive il 30.10.2017 Gianmichele Laino su "Giornalettismo". Una delle poche tracce che David Rossi ha lasciato prima di morire consiste nello scambio di mail avvenuto con l’amministratore delegato del Monte dei Paschi di Siena Fabrizio Viola, due giorni prima del suo tragico volo dalla finestra della banca. Il 4 marzo, mentre il capo dell’ufficio stampa scriveva, l’amministratore delegato si trovava a Dubai, “in vacanza” come avrebbe testimoniato successivamente. In questo carteggio, alle 10.15 di mattina circa, David Rossi gli lancia quello che potremmo definire l’alert: in una mail con oggetto ‘HELP’, il capo dell’ufficio stampa del Monte dei Paschi di Siena scrive «Stasera mi suicido sul serio, aiutatemi». Viola raccontò ai magistrati di non aver mai letto quella mail, che pure risulta essere stata inviata dal computer di Rossi. Invece, rispose alle successive mail dell’addetto stampa MPS, in cui Rossi chiedeva una sorta di autorizzazione per parlare con i magistrati a proposito delle «cose che sapeva» sulla vicenda della banca. Il programma televisivo Le Iene, nella puntata in onda ieri sera, ha però provato a smentire la ricostruzione di Viola, interpellando una testimone chiave. Si tratta della segretaria Pieraccini che, nelle carte della procura di Siena, risulta tra le persone ascoltate dai magistrati. Anche nei documenti di archiviazione, infatti, si legge: «Le attività investigative richieste dagli opponenti (la famiglia di David Rossi, ndr) – sentire a sommarie informazioni Fabrizio Viola, le sue segretarie, la Pieraccini e altri colleghi di Rossi, acquisire le mail presenti nella sua casella di posta, ricostruire i suoi movimenti nel pomeriggio che precedette la morte – sono già state tutte compiute senza che da ciò sia emerso più di quanto già detto». In realtà, però – come confermato a Le Iene dalla stessa Pieraccini -, la donna non è mai stata ascoltata dai magistrati. Perché, dunque, compare questo clamoroso buco nelle indagini? Si tratta di una semplice svista (comunque grave) o di un voluto tentativo di allontanare l’attenzione da una testimone chiave? Infatti, la Pieraccini porta con sé una verità che potrebbe davvero essere molto scomoda: «Impossibile che Viola non abbia letto la mail in cui David Rossi chiedeva aiuto e annunciava il suo suicidio – dice la donna a Le Iene -. Io, da segretaria, riesco a vedere le mail che sono state lette e quelle che non sono state aperte: quella mail era stata vista da Viola. Non solo: io stessa ho stampato il testo della mail e l’ho portato al responsabile della segreteria. Disse che non potevamo farci niente. Da quel giorno non ne abbiamo più parlato: è come se la mail non fosse più esistita. Inoltre, quattro giorni dopo il suicidio di David Rossi, le mail erano sparite dal computer di Viola». Una testimonianza esplosiva. Che, a quanto pare, la procura non ha acquisito. La mancanza di attenzione a quell’alert, infatti, può essere spiegata con il successivo sviluppo della conversazione via mail tra Rossi e Viola? Cinque ore dopo la richiesta di aiuto, infatti, Rossi sembra tranquillizzarsi e, con ben tre mail, sostiene di aver mutato proposito sulla sua decisione di parlare con i magistrati, dice di essere entrato in paranoia e di non avere nulla da temere. Si scusava, infine, con Viola per il disturbo. Nella nota che la Procura di Siena ha pubblicato nella scorsa settimana, si legge che «sebbene l’espressione utilizzata (a proposito della testimonianza della Pieraccioni, ndr) non sia puntuale, il significato della frase è inequivoco: l’audizione della Pieraccini non avrebbe aggiunto alcunché al quadro probatorio già cristallizzato». Poco importa, evidentemente, che la donna – come risulta dai tabulati telefonici di David Rossi – sia stata l’ultima persona a sentire, per pochi secondi (alle 18.08), l’addetto stampa Mps prima della sua caduta dalla finestra. Il procuratore capo Vitiello non ha risposto sul tema. Ma quello delle mail è un punto chiave sul quale i magistrati senesi sono tornati eccome. Da un punto di vista sbagliato: il 1° dicembre si celebrerà il processo che vede imputati il giornalista del Fatto Quotidiano Davide Vecchi e la moglie di Rossi Antonella Tognazzi. Il motivo? Proprio quello scambio di mail che, secondo la procura, la Tognazzi avrebbe passato sottobanco a Vecchi. Circostanza nettamente smentita dai due che, ai tempi dei fatti contestati, non si conoscevano neanche. Insomma, siamo giunti al paradosso che, per la vicenda della morte di David Rossi, gli unici a essere giudicati saranno sua moglie e un giornalista. Sul resto, tra buchi e omissioni, continua a esserci una fitta coltre di mistero.

David Rossi, nuove indagini e il giallo dei fazzoletti spariti. Ancora dubbi sulla fine di David Rossi. La procura di Genova apre due inchieste. Il giallo dei fazzolettini sporchi di sangue distrutti, scrive Andrea Riva, Lunedì 06/11/2017, su "Il Giornale". Emergono nuovi dettagli sulla vicenda di David Rossi. Da un mese Le Iene hanno riportato alla luce questo caso, forse etichettato con troppa fretta come suicidio. Le cose che non tornano nella morte del responsabile della comunicazione di Monte dei Paschi di Siena sono molte: dalla caduta al segno dell'orologio, passando per l'ombra dei festini hard. Ora la procura di Genova ha avviato due indagini e ha disposto il sequestro di tutti i filmati originali e dei fuori onda registrati dal programma di Italia 1. Antonino Monteleone, la "iena" che ha portato avanti l'inchiesta, ha dato la sua disponibilità, ma con dei limiti. Le Iene hanno infatti deciso di non dare quei video, come quello di un funzionario dell'ex funzionario del comune di Siena che racconta dei festini a base di sesso - che potrebbero svelare l'identità delle fonti utilizzate. La procura di Genova, spiega Monteleone, ha infatti aperto due indagini: una per diffamazione e una per abuso d'ufficio. La procura di Siena ha diffuso un comunicato stampa che dovrebbe sciogliere ogni dubbio sulla morte di Rossi. I vestiti di David non sono mai stati analizzati per capire se erano rintracciabili o meno tracce di Dna. Scrive la procura: "Ragionando ex post la critica è condivisibile. Bisogna però calarsi nel contesto iniziale quando appariva a tutti chiaro l'evento suicidario, la cui prova determinante era costituita: dalle lettere d'addio, dagli esiti dell'ispezione medico-legale e dalla relazione autoptica, dall'assenza di tracce di colluttazione o di terzi nell'ufficio da dove il Rossi è precipitato...". Ma qualcosa, come spiega la figlia di David, Carolina Orlandi, non torna: "Un magistrato non può dire a priori: 'Quello si è buttato dalla finestra'". Ma poi c'è un altro punto che è difficilmente spiegabile con un suicidio di questo tipo: le lesioni sul naso e alla bocca, dato che il corpo impatta col sedere. Nessuno ha mai fatto un esame istologico e non si può quindi capire quando David si è procurato quelle ferite. La procura di Siena, a tal proposito, fa una ammissione molto importante: "Certamente su queste lesioni si può dire che non vi è stato un accertamento medico-legale adeguato". E infine un'ultima questione, forse la più rilevante: i fazzoletti di carta sporchi di sangue, distrutti anch'essi prima di essere esaminati. Scrive a tal proposito la procura: "Appare ovvio dire che con il senno di poi poteva essere utile il mantenimento in sequestro dei fazzolettini di carta, ma c'è da chiedersi, prima di farne diventare un caso determinante per le sorti di un'indagine, quale peso avrebbe potuto avere l'eventuale loro analisi". Ma quei fazzolettini sarebbero potuti essere la prova di una eventuale colluttazione all'interno dell'ufficio di Rossi. Colluttazione che, nella ricostruzione delle Iene, dimostrerebbe il perché di alcuni ematomi, come quello all'inguine o al braccio. E poi c'è la grande incognita della testa mai sentita: Lorenza Pieraccini. Dubbi su dubbi. Per un caso che non sembra trovare mai fine.

L’APPELLO DELLA FAMIGLIA DI DAVID ROSSI A MATTARELLA: «MAGISTRATI GRAVEMENTE INADEMPIENTI, EPPURE CONTINUANO A OPERARE», scrive il 31.10.2017 Gianmichele Laino su "Giornalettismo". Nel corso dell’ultimo servizio de Le Iene sul caso David Rossi, le telecamere hanno ripreso la famiglia del manager Monte dei Paschi di Siena mentre cercava di avvicinare il presidente della Repubblica Sergio Mattarella per consegnargli una lettera. Consegna che, però, non è avvenuta a causa del cordone di uomini del servizio di sicurezza schierati per l’occasione in piazza del Campo. Il sito del programma, in ogni caso, ha voluto pubblicare il testo della lettera che la mamma di David Rossi, Vittoria Ricci Rossi, ha rivolto al presidente della Repubblica che è anche a capo del Consiglio Superiore della Magistratura. Si tratta di un documento scritto con il cuore, perché dà semplicemente voce a una donna che chiede di conoscere la verità su quello che è successo al proprio figlio solo per punire i responsabili di quanto accaduto «perché la vera giustizia – si legge nel documento – sarebbe che mio figlio fosse ancora qui, con la sua famiglia». La madre di David Rossi ricostruisce a grandi linee la vicenda giudiziaria relativa alla morte del figlio, caduto da una finestra del Monte dei Paschi di Siena la sera del 6 ottobre 2013. Il dito viene, poi, puntato contro la procura di Siena: «In questi cinque anni – si legge – la procura di Siena è stata largamente omissiva arrivando a trascurare prove evidenti, non considerando fatti e testimonianze di primaria importanti». Si fa riferimento, in modo particolare, a reperti andati distrutti e a condotte superficiali degli investigatori che, secondo la famiglia, avrebbero viziato pesantemente le indagini: «È ancora più grave – scrive la madre di David Rossi – che i magistrati, artefici di tutto ciò, siano ancora liberi di operare come se nulla fosse accaduto, mentre dovrebbero rispondere delle gravi inadempienze commesse». Infine, la signora Vittoria Ricci Rossi elenca le varie istanze fatte dalla famiglia a tribunali, ministri e parlamentari. Il capitolo della morte del manager del Monte dei Paschi di Siena resta una ferita ancora aperta.

IL CORAGGIO DI CAROLINA, LA FIGLIA DI DAVID ROSSI: «RISPONDANO CON I FATTI NON CON COMUNICATI STAMPA», scrive il 6 novembre Giornalettismo. «Penso che la procura debba rispondere con i fatti, non con i comunicati stampa». Carolina Orlandi, figlia della moglie di David Rossi, non si è mai arresa alle archiviazioni che danno suo padre, capo comunicazione dei Monti dei Paschi di Siena, come suicida.  La ragazza, intervistata da Le Iene, non ce l’ha con la procura ma con quello che non è stato fatto finora. «Quello che è stato fatto oggi è stato viziato. Dall’inizio si è partiti dal suicidio. Sono state fatte delle perizie dopo tre anni e mezzo dalla morte. Quindi – ha spiegato la giovane – o si parla di suicidio per mancanza di prove oppure scrivano nero su bianco “non si può sapere perché non sono state fatte bene le indagini”». I vestiti di David Rossi non sono mai stati sequestrati per un esame del Dna, per esempio. Nel comunicato in cui la procura difende il suo lavoro (due archiviazioni per suicidio sulla morte del manager) si ammettono critiche ex post. Critiche che, per esempio, partono anche dagli esami istologici, mai fatti, sulle ferite presenti sul corpo del suicida.

Scrive la procura: «Ragionando ex post la critica è condivisibile. Bisogna però calarsi nel contesto iniziale quando appariva a tutti chiaro l’evento suicidario, la cui prova determinante era costituita: dalle lettere d’addio, dagli esiti dell’ispezione medico-legale e dalla relazione autoptica, dall’assenza di tracce di colluttazione o di terzi nell’ufficio da dove il Rossi è precipitato…». Carolina Orlandi però replica: «Un magistrato non può dire a priori: ‘Quello si è buttato dalla finestra’». Sul corpo di Rossi ci sono lesioni sul naso e alla bocca, ma il corpo, al suolo, è impattato col bacino. Non c’è mai stato un esame istologico su quelle ferite e non si può quindi capire quando David se le sia procura. Prima o dopo esser caduto dalla finestra? La procura di Siena, in merito, ha ammesso: «Certamente su queste lesioni si può dire che non vi è stato un accertamento medico-legale adeguato».

C’è infine un altro elemento, non da poco. I fazzoletti di carta sporchi di sangue presenti sul luogo del suicidio e distrutti anch’essi prima di essere esaminati. «Appare ovvio – spiega la Procura – dire che con il senno di poi poteva essere utile il mantenimento in sequestro dei fazzolettini di carta, ma c’è da chiedersi, prima di farne diventare un caso determinante per le sorti di un’indagine, quale peso avrebbe potuto avere l’eventuale loro analisi». Quei fazzolettini sarebbero potuti essere la prova di una eventuale colluttazione dentro l’ufficio di David Rossi. Si sarebbe potuto risalire o verificarne il Dna presente. Ma se non si cerca, si sa, non si trova.

La Procura di Genova, dopo il lavoro de Le Iene, ha aperto due nuove indagini sulla morte di David Rossi. Una per diffamazione su denuncia dei magistrati senesi che hanno sporto querela dopo l’intervista di Piccini e una d’ufficio per il reato di abuso d’ufficio, che potrebbe riguardare i magistrati senesi. Per entrambe le inchieste dalla procura sono stati emessi due provvedimenti di sequestro di tutto il materiale filmato originale girato sul caso Rossi. Niente beep, niente oscuramenti, la redazione Mediaset e il giornalista Antonino Monteleone hanno dato la loro massima disponibilità. A un patto però. Monteleone si è rifiutato di consegnare parte del girato che farebbe compromettere due fonti anonime e il fuori onda della testimone mai sentita, la segretaria di Viola Lorenza Pieraccini. Questo perché, specialmente quest’ultima, racconta cose che hanno a che fare con la sfera privata dei protagonisti di questa storia e il giornalista ha opposto il segreto professionale alla Procura di Genova. La procura infatti aveva mandato la Guardia di Finanza a sequestrare i filmati a Cologno Monzese. Alla Procura starà bene il rifiuto opposto da Monteleone? Chissà. Intanto non è ancora chiaro cosa potrebbe uscire o meno nella cosiddetta villa dei festini fra Siena e Arezzo. Qualcuno (una avvocatessa con il marito nei servizi) suggerì a Piccinini di puntare su quel luogo, dove si faceva uso anche di stupefacenti, per far scoppiare un bomba morale. Una bomba che avrebbe pesato aldilà dell’esito del lavoro della magistratura. Le dichiarazioni dell’ex sindaco di Siena hanno provocato quel duro comunicato della procura. Comunicato in cui però si fa un mea culpa. Su indagini che ora vanno riviste dalla procura di Genova.

Caso David Rossi, Zanettin (Csm) scrive al Comitato di presidenza: “Valutare incompatibilità vertici procura di Siena”. Il membro laico del Consiglio superiore della magistratura invita il Comitato di presidenza ad aprire una pratica in Prima commissione nei confronti dei vertici del tribunale e della procura senese dopo l'ultimo servizio delle Iene. In questi giorni, tra l'altro, proprio la Prima commissione del Csm sta valutando la posizione dell'aggiunto Aldo Natalini, che indagò sulla morte di Rossi, in relazione alla distruzione dei reperti, scrivono A. Tundo e D. Vecchi il 31 ottobre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". È necessario “valutare eventuali profili di incompatibilità ambientale o funzionale” a carico dei vertici del tribunale e della procura di Siena. Lo sostiene Pierantonio Zanettin, membro laico del Consiglio superiore della magistratura, che ha chiesto al Comitato di presidenza l’apertura di una pratica in Prima commissione, cioè quella disciplinare, nei confronti dei magistrati che indagarono sulla morte di David Rossi, responsabile comunicazione del Monte dei Paschi di Siena. E non sarebbe la prima volta, visto che la stessa commissione ha già vagliato nel 2016 la posizione del pm Nicola Marini e in questi giorni sta valutando quella dell’aggiunto Aldo Natalini, entrambi impegnati in passato nelle indagini su Rossi. L’iniziativa del consigliere in quota Forza Italia nasce a seguito della puntata delle Iene della scorsa domenica dedicata alla morte di Rossi e in particolare all’intervista di Lorenza Pieraccini, ex segretaria dell’ad di Mps Fabrizio Viola, che ha affermato di non essere stata mai ascoltata dalla procura di Siena “nonostante pare evidente avesse molto da dire”, scrive Zanettin. Nell’archiviazione dell’inchiesta per istigazione al suicidio disposta dal gip del tribunale di Siena lo scorso luglio, tra l’altro, Pieraccini viene citata tra le persone ascoltate, pur non essendolo mai stata. Un “errore materiale”, secondo la difesa di Antonella Tognazzi, moglie di Rossi, che potrebbe spingere a una nuova riapertura del caso. Dopo le prime puntate dedicate alla morte del braccio destro di Giuseppe Mussari, precipitato dalla finestra del suo studio a Rocca Salimbeni la sera del 6 marzo 2013 in piena bufera per l’acquisizione di Antonveneta, per “difendersi dalle critiche della stampa”, il presidente del tribunale Carrelli Palombi e il procuratore Salvatore Vitello in un comunicato stampa del 25 ottobre scorso “avevano viceversa puntualizzato” che la testimonianza della segretaria di Viola “non avrebbe aggiunto alcunché al quadro probatorio ‘già cristallizzato’. Tuttavia il servizio delle Iene – sostiene ancora Zanettin – dimostra esattamente il contrario”. La diffusione di una nota pubblica – iniziativa senza precedenti – si era trasformata quasi un autogol. Nel testo, infatti, ci sono diversi passaggi che fanno comprendere come non sia stata seguita la procedura standard della polizia scientifica: sequestrare ogni elemento, repertarlo, analizzarlo e conservarlo. Si ammette, inoltre, di aver agito sulla base di una convinzione non suffragata dall’inchiesta ma semplicemente da una deduzione, sensazione avuta nell’immediato, prima ancora di svolgere le indagini. La convinzione che si trattasse di suicidio. Per questo, scrivono, non hanno sequestrato tutti i reperti, non hanno ritenuto necessario analizzare vestiti, sette fazzoletti di carta sporchi di sangue, non hanno infilato in un sacchetto di plastica il cellulare ma lo hanno usato anche per rispondere a una chiamata (risulta dalle carte: quando gli inquirenti erano nell’ufficio di Rossi subito dopo la sua morte, qualcuno di loro risponde per 23 secondi a Daniela Santanché) e altre diverse mosse ‘maldestre’, come sottolineato da Ilfattoquotidiano.it.  Adesso Zanettin chiede di vederci chiaro, a un anno di distanza da quando fu proprio il Csm a trasmettere gli atti alla procura generale della Cassazione dopo una denuncia dell’Adusbef, dichiarandosi non competente poiché non vi erano provvedimenti di competenza da adottare. Vitello, tra l’altro, era già stato sentito dalla Prima commissione del Csm nel marzo 2016 per un procedimento avviato nei confronti del sostituto procuratore Nicola Marini, titolare della prima indagine sulla morte di Rossi con l’aggiunto Aldo Natalini. E la stessa commissione sta valutando in questi giorni la posizione di Natalini in merito alla mancata analisi dei fazzoletti sporchi di sangue e degli altri reperti, nonché della loro distruzione avvenuta prima della disposizione da parte del gip dell’archiviazione o di un eventuale supplemento d’indagine.

DANIELA SANTANCHÉ: "CHIAMAI DAVID ROSSI LA SERA DEL SUICIDIO". "Gli volevo molto bene, era una persona fantastica". (Blitzquotidiano 30 ottobre 2017). Dai tabulati telefonici esaminati dalla Procura di Siena relativi alla sera del suicidio di David Rossi, emerge che, intorno alle 22, quando il manager di Mps era già morto da circa due ore, il cellulare dell’addetto stampa ricevette una telefonata da Daniela Santanché. Sempre stando ai tabulati, qualcuno (o qualcosa) risponde al telefono per circa 20 secondi.

La versione della Santanché. Daniela Santanché ha provato a dare la sua versione, per la prima volta, durante il programma Agorà, in onda su Rai 3. In studio, c’era anche Davide Vecchi, il giornalista del Fatto Quotidiano autore del libro “Il caso David Rossi, il suicidio imperfetto del manager Monte Paschi Siena”. È proprio lui a tirare in ballo l’argomento, ma la risposta della Santanché è chiara: “Ricordo molto bene quella sera e ricordo molto bene di aver telefonato a David Rossi. Ma è da escludere che io abbia ricevuto una risposta. Volevo molto bene a David Rossi ed era una persona fantastica. Appresi della sua morte dopo poco tempo”.

Il telefono del manager Mps. Nella motivazione delle sentenze di archiviazione, si parla spesso del telefono di David Rossi. Anche perché, sempre dopo la sua morte, sono arrivate diverse telefonate e, dai tabulati, risulta anche una chiamata in uscita. Tra le telefonate in entrata, oltre a quella di Daniela Santanché, c’era anche quella della figlia della moglie di David Rossi, Carolina Orlandi, che avrebbe ricevuto una breve risposta di otto secondi. La procura mette in relazione la chiamata in entrata della ragazza e quella in uscita: “L’utenza della Orlandi – si legge – aveva esaurito il credito durante la procedura di chiamata e ciò aveva generato una deviazione di chiamata al numero di servizio 4099009”. Un numero usato, a quanto pare, per attivare l’addebito.

Mps, un misterioso testimone e il giallo sulla morte di Rossi. "Ho sentito anche uno sparo". Un imprenditore ha raccontato all'avvocato della famiglia del manager scomparso il retroscena di un mancato appuntamento, scrive Sergio Rizzo il 5 Novembre 2017 su “La Repubblica”. Perchè l'avvocato Luca Goracci non abbia mai rivelato l'incontro misterioso, lo spiega egli stesso: "Era la terza o la quarta persona che si presentava millantando di sapere qualcosa sulla morte di David Rossi, poi sparita nel nulla. E non avrei mai potuto provare niente". Certo è che nell'episodio della fine violenta del capo della comunicazione del Monte dei Paschi di Siena ogni particolare rischia di non essere insignificante. La morte, avvenuta mentre infuriava la bufera giudiziaria sull'acquisizione della banca Antonveneta, la sera del 6 marzo 2013 in circostanze mai chiarite, è stata archiviata due volte come suicidio. E ora è giunto il momento di raccontare anche questo episodio, per assurdo che possa apparire. Ecco allora che cosa è successo nei giorni tra la fine di febbraio e i primi di marzo del 2016 al legale che sta minuziosamente seguendo per la famiglia di Rossi questa vicenda, ostinandosi a non credere alla versione ufficiale. "Il caso di David", rievoca Goracci, "era stato riaperto a novembre 2015. A febbraio mi telefona un tizio dicendomi che mi deve parlare del caso Rossi. Non vuole dare il numero di telefono, ma richiama sempre lui. Dopo un appuntamento mancato ci incontriamo nel mio studio: doveva essere l'inizio di marzo 2016. Sui quaranta, un metro e ottanta, distinto. Dice di essere un imprenditore che lavora nel mantovano. Dice di conoscere Rossi e di farsi vivo solo ora dopo tre anni passati all'estero, perché il caso era stato riaperto". Ma quale segreto ha da rivelare? "Mi dice ", continua Goracci, "di aver fissato un incontro con David alle ore 18 del 6 marzo 2013, giorno della sua morte. Però di essere arrivato in ritardo di quasi due ore. Dice perfino di ricordare che il suo orologio, quando si trova ai Ferri di San Francesco segna dieci minuti alle otto". In quel momento David è già a terra nel vicolo. "Il mio interlocutore dice di essere arrivato proprio lì e di aver visto il corpo di Rossi. Fa per avvicinarsi, ma succede l'imprevedibile: viene assalito alle spalle da tre o quattro persone. Dopo una breve lotta si divincola e scappa, mentre sente esplodere un colpo d'arma da fuoco", ricorda l'avvocato. A questo punto Goracci gli chiede il perché di quell'appuntamento. "Ed è lì", spiega il legale della famiglia, "che lui comincia a parlare di conti correnti aperti dalla banca con l'intervento di alcuni dirigenti per i finanziamenti necessari alla sua attività imprenditoriale a Brescia e Mantova". A Mantova anche Rossi si recava spesso, visto che era vicepresidente del Centro Palazzo Te, una Fondazione culturale comunale. Nel racconto affiorano altri particolari: "Lì a Mantova, secondo il mio interlocutore, si frequentavano con cadenze quasi settimanali. E un giorno, forse verso la fine del 2012, lui si sarebbe recato con Rossi a Roma per incontrarsi con una persona che avrebbe consegnato loro una valigetta, e poi David si sarebbe fatto accompagnare all'Ospedale di Siena con quella valigetta". La storia sembra sempre più sconclusionata. Ma Goracci, dopo l'incontro, ricorda un curioso particolare riferitogli in un'occasione dal fratello di David, Ranieri. E verifica quella circostanza: un giorno del 2012 David si era effettivamente presentato in ospedale, dove il padre era ricoverato, proprio con una valigetta.

Era il 7 novembre. "La narrazione prende poi una piega strana, il tizio comincia a parlare di denaro in nero che veniva dalle fatture di operazioni immobiliari a Mantova. Pare tutto assurdo. Ci salutiamo a finisce lì. Non l'ho più visto né sentito. Ma ricordo bene che si era presentato come Antonio Muto". Quando si pronuncia quel nome, a Mantova è automatico associarlo a quello dell'Antonio Muto processato e assolto, tanto in primo quanto in secondo grado, dall'imputazione di contiguità con le cosche mafiose che in quella zona controllano affari, politica e appalti. Oggi ha 55 anni: quando è arrivato da Cutro, nella provincia calabrese di Crotone, era appena un ragazzo che faceva il muratore. Adesso, come lo descrive la giornalista della Gazzetta di Mantova Rossella Canadè nel suo libro inchiesta "Fuoco criminale - La 'ndrangheta nelle terre del Po", è "il costruttore più noto e più chiacchierato della città". A giugno scorso è finito ancora in manette con l'accusa di aver distratto fondi dalla sua società impegnata in una grande iniziativa immobiliare nel centralissimo piazzale Mondadori, poi fallita, in favore di una seconda società creata per una gigantesca speculazione nell'area vincolata di Lagocastello. Operazione che a sua volta ha originato un'inchiesta su presunte pressioni che a dire dei magistrati sarebbero state esercitate su Consiglio di Stato e ministero dei Beni culturali per far cadere quel vincolo. E l'11 dicembre il gip di Roma dovrà decidere se mandare a processo Muto insieme ad alcuni personaggi di primo piano come l'ex senatore democristiano ed ex consigliere della Finmeccanica Franco Bonferroni, l'ex presidente della Commissione Lavori pubblici del Senato Luigi Grillo e l'ex presidente del Tar Lazio Pasquale De Lise. Ma anche l'ex sindaco forzista di Mantova Nicola Sodano, architetto di origini crotonesi che gli inquirenti ritengono cointeressato con Muto nella vicenda Lagocastello. Domanda d'obbligo: che c'entra la banca senese in una vicenda così torbida? Nelle carte dell'inchiesta sulla 'ndrangheta c'è un pentito il quale riferisce ai magistrati di aver appreso da Muto che "a Siena c'era un altissimo funzionario che sboccava i movimenti, anche se poi voleva la sua parte". Non è un pentito qualsiasi, ma il commercialista della cosca. Vero o falso che sia, è un fatto che i soldi per piazzale Mondadori, 27 milioni e mezzo, siano arrivati proprio dal gruppo Monte dei Paschi. A Siena Muto, accompagnato da Bonferroni, ha incontrato a più riprese alcuni dirigenti: una volta pure l'ex amministratore delegato Fabrizio Viola. Quanto a Rossi, anche lui è effettivamente di casa a Mantova, dove il Monte ha rilevato molti anni prima la Banca agricola mantovana. Come detto, David è stato designato nel 2011 alla vicepresidenza del Centro Palazzo Te in rappresentanza della banca senese: lo stesso giorno in cui il sindaco Sodano ne è stato nominato presidente.

Le sorprese, però, non sono finite. Quindici giorni dopo quella misteriosa visita del sedicente imprenditore mantovano all'avvocato Goracci, il giornalista Paolo Mondani che sta conducendo un'inchiesta sui grandi debitori delle banche italiane intervista per Report su Rai3 proprio Antonio Muto. E ci manca poco che l'avvocato Goracci, davanti al teleschermo, caschi dalla sedia: "Non era la stessa persona che avevo incontrato. Decisamente un altro". Qual è allora l'identità del misterioso visitatore? Forse quella di un omonimo? "Antonio Muto costruttori edili fra Mantova e Provincia saremmo una quindicina ", dice l'intervistato a Mondani. Abbiamo controllato. Di Antonio Muto iscritti al registro delle imprese ce ne sono 44, e di questi 4 operano in provincia di Mantova: due sono di Cutro, il terzo di Crotone. Quanti di loro affidati dal Monte dei Paschi?

Siena, busta con due proiettili spedita al prefetto Armando Gradone. All'interno due cartucce da pistola e una lettera di minacce, scrive il 25 novembre 2017 "La Nazione". Due proiettili da pistola e una lettera di minacce. Non si ferma a Siena la stagione delle intimidazioni. Stavolta è toccato al prefetto senese Armando Gradone. All’ufficio di smistamento postale di Siena é giunta una missiva a lui indirizzata che aveva un aspetto sospetto. E stata bloccata e aperta con cautela. All'interno c'erano due proiettili da pistola e un foglio con un testo riportante velate minacce. Dieci giorni fa un'analoga intimidazione era toccata anche al pm che indagò sul caso di David Rossi, Aldo Natalini. Anche in questo caso delle indagini si è interessata subito la Digos sotto la direzione della Procura della Repubblica di Siena, immediatamente informata. La missiva e il contenuto sono stati sequestrati e saranno trasmessi ai laboratori del Servizio Centrale della Polizia Scientifica a Roma per le analisi tecniche e tutte le comparazioni tendenti all’individuazione dell’autore.

Mps: ''Help'', l'email di David Rossi cancellata due giorni dopo la sua morte, scrive il 17 Novembre 2017 "Il Fatto Quotidiano". La rivelazione dell’allora segretaria dell’Ad: “Era destinata proprio a Viola, io la lessi al mio capo. Poi sparì dal server”. Non solo più di una persona in Mps aveva letto l’email con la quale due giorni prima di morire David Rossi chiedeva aiuto a Fabrizio Viola, ma tra quei pochi che avevano accesso alla casella di posta elettronica dell’amministratore delegato qualcuno si è premurato di cancellarla subito dopo la scomparsa del capo della comunicazione della banca. È l’ultimo sconcertante elemento che emerge in merito alla vicenda Rossi. A svelare il particolare è stata Lorenza Pieraccini, all’epoca dei fatti segretaria di Viola, interrogata soltanto l’8 novembre scorso dal pubblico ministero, Serena Minicucci. Pieraccini al pm conferma di aver letto il 4 marzo 2013 la prima – quella con oggetto “help” – delle circa 30 email scambiate tra Rossi e Viola dal testo drammatico: “Stasera mi suicido sul serio. Aiutatemi!!!”. Poi aggiunge: “Dopo tre o quattro giorni” e comunque “dopo il decesso di Rossi – avvenuto il 6 marzo – per curiosità ho fatto l’accesso alla posta di Viola e, cercando l’email con l’oggetto help, non l’ho trovata”. Quindi qualcuno l’ha cancellata. Chi? Chiede il pm. “Non lo so, sicuramente non io”. Chi avrebbe potuto cestinare le email di Viola? “Non mi ricordo se per cancellarle fosse necessario andare nella sua postazione o se si potesse farlo anche dalle postazioni di chi come me aveva l’accesso”. E chi aveva accesso all’email? “Lo staff era composto da 7-8 persone” e “oltre a me poteva leggerla sicuramente Fanti e qualcun altro ma non so dirle chi”. Il dottor Fanti è Valentino Fanti, capo dello staff della segreteria del Cda quindi anche di quella di Viola e superiore di Pieraccini. Il 4 marzo, prosegue la donna, “poiché l’email era stata già aperta anche io la aprii e la lessi. Non posso dire chi prima di me avesse aperto l’email, se Viola o Fanti. Sicuramente l’email era aperta. Quando la lessi, la stampai e la portai subito da Fanti e gliela feci vedere dicendogli ‘Guardi cosa è arrivato’. Poi io sono andata via portando con me la stampa dell’email che distrussi nel tritadocumenti rientrando nella mia stanza”. Qualcuno l’ha poi cancellata definitivamente dal server della banca. Infatti quell’email non comparirà nei primi atti dell’indagine sulla morte di Rossi aperta nel marzo 2013 e assegnata ai pm Nicola Marini e Aldo Natalini, ma sarà allegata solamente mesi dopo e individuata esclusivamente nel cellulare di Rossi nella posta inviata: da qui nessuno aveva potuto cancellarla. Dai server di Mps invece sì. Ma si scopre solamente ora. E si scopre grazie alla testimonianza di una persona che all’interno della banca aveva un ruolo chiave ma che è stata raccolta a distanza di quattro anni dai fatti: addirittura nel secondo decreto di archiviazione per suicidio il gip scrive che Pieraccini era stata sentita su input dei familiari di David, ma non corrisponde al vero. La donna inoltre già a giugno aveva rivelato a Pierangelo Maurizio di Quarto Grado di essersi accorta che l’email era stata letta da qualcuno. Poi poche settimane fa ha ripetuto quanto accaduto a Le Iene aggiungendo di averla “stampata e consegnata a Fanti”, ha detto al giornalista Antonino Monteleone. Infine l’8 novembre, sentita dal pm, ha ricordato un altro elemento: “Dopo la sua morte l’email era sparita”. Lo stesso giorno, l’8 novembre, il pm ha sentito anche Fanti. L’ex capo della segreteria, oggi in pensione, conferma il racconto fatto dalla donna. “Venne nel mio ufficio e mi mostrò la stampa dell’email” con oggetto “help”. Prima di quel momento, dice Fanti, non l’aveva letto. Poi però decide, “non con superficialità, di dare un’occhiata alla posta elettronica del dottor Viola potendo accedervi, avendo la posta condivisa”. E aggiunge un dettaglio importante: “Per quanto a mia conoscenza, soltanto io e la Pieraccini potevamo leggere la posta del dottor Viola”. E chi avrebbe potuto cancellarla? Questo non gli viene chiesto. E non potrà essere accertato facilmente perché, come molti altri aspetti, anche questo è stato ritenuto inutile dagli inquirenti e oggi è impossibile acquisire gli accessi ai pc dell’ufficio di Viola e ricostruire chi l’ha cancellata. Cosa che invece, se fatta nell’immediato, avrebbe portato almeno a individuare il responsabile. Sono passati quasi cinque anni da quelle email, pubblicate per la prima volta sul Fatto il 5 luglio 2013. Email con le quali Rossi annunciava la volontà di andare dai pm e quella con la quale chiedeva aiuto. Tutte inviate il 4 marzo. Solo ora sappiamo che qualcuno le aveva lette, viste, stampate. Che qualcuno avrebbe potuto intervenire. Pieraccini avvisa Fanti, gli dice “bisogna seguirlo. Faccia qualcosa. Lo chiami. Parli con Rossi. Vediamo in che condizioni è”. Fanti come reagisce? Lo racconta al pm. “Quando la Pieraccini uscì dalla mia stanza feci alcune riflessioni: la prima riguardava la natura dell’email. L’email come è noto è un fatto privato, strettamente personale, ancor di più quella che mi veniva mostrata”. La seconda “era che qualche giorno prima della lettura dell’email, avevo incontrato Rossi e mi fece presente il suo stato d’animo. Mi disse che era cambiato in negativo dopo la nota perquisizione” subita il 19 febbraio 2013. “Io gli chiesi se avesse avuto qualcosa da temere e lui rispose tranquillamente di no”. La terza e “ultima riflessione che feci era quella che comunque io mi riconobbi in lui perché anche io stavo vivendo un momento difficile. Io intravedevo in David lo stesso malessere che affliggeva me”. Così, dopo aver letto l’email e fatto queste riflessioni “decisi di dare un’occhiata alla posta elettronica di Viola (…) e vedendo lo scambio delle ultime email mi tranquillizzai”. Perché “Rossi a un certo punto scrive a Viola ‘forse sto esagerando’ e mi ricordo anche la frase con cui chiude lo scambio delle email: ‘Scusa la rottura’. Questo mi tranquillizzò”, dice Fanti. “Quindi mi convincevo di non assumere alcuna iniziativa né di parlare con Rossi”. Era il 4 marzo 2013 quando David chiese aiuto. Lamentandosi anche con il presidente Alessandro Profumo di essere stato tradito da un amico. Di voler parlare con i pm. Di voler raccontare “tutto, ho lavorato con Piccini, con Mussari”. Due giorni dopo viene trovato morto nel vicolo sotto la finestra del suo ufficio. E l’email viene cancellata da qualcuno nella banca. 

David Rossi, il fratello: ''E' stato appeso fuori dalla finestra e poi fatto precipitare. Qualcuno dovrebbe chiederci scusa'', scrive il 28 Novembre 2017 Gisella Ruccia su "Il Fatto Quotidiano". “Troppo spesso sui giornali si riporta la frase: ‘La famiglia di David Rossi sta cercando la sua verità’. È un’affermazione che non sopporto. Cosa è ‘la verità della famiglia’? La verità è unica ed è di tutti”. Esordisce così a “Di Sabato”, su Siena Tv, Ranieri Rossi, fratello di David, il responsabile della comunicazione del Monte dei Paschi di Siena precipitato da una finestra del suo studio di Rocca Salimbeni in circostanze ancora oggi poco chiare. Dopo quasi cinque anni e due inchieste archiviate, la famiglia di David Rossi non si arrende e, per voce di Ranieri, nella trasmissione illustra tutte le prove repertate in una indagine parallela, grazie all’aiuto e alla consulenza di periti, docenti universitari e legali. Ranieri Rossi e il conduttore della trasmissione, Daniele Magrini, espongono con dovizia di dettagli tutti i documenti raccolti: in primis, una ricostruzione in 3D, mai accettata dalla procura di Siena. Nel filmato è digitalizzato tutto il vicolo nel quale è stato trovato il corpo di Rossi. Nel video si evince che la finestra da cui potrebbe essere caduto David non è quella del suo ufficio, ma quella del piano di sopra, perché la precipitazione ha delle dinamiche che non collimano con l’altezza di 14,35 metri della finestra del terzo piano. Viene spiegata anche la misteriosa ombra che si affaccia sul vicolo, mentre Rossi era agonizzante sul suolo: si dimostra che lo sconosciuto avrebbe percorso almeno quattro metri della stradina. Nel corso del programma, sono mostrate le foto della polizia scientifica e della seconda autopsia, avvenuta tre anni dopo la tragica morte di Rossi. “David aveva la camicia fuori dai pantaloni” - spiega il fratello - “Lui abitualmente non la indossava in quel modo. Oppure in qualche modo la camicia è uscita, in qualche fase precedente alla caduta. Questo non è mai stato preso in considerazione dai pm. La camicia ha buchi nella manica destra, lacerazioni, di cui una di 10 cm, e un buco nel margine inferiore sinistro”. Viene poi spiegato il mistero dell’orologio di David e viene ricostruita una ipotesi sulle lesioni riportate sul polso, un ematoma evidente e tre zone "disepitelizzate", come la ha definite l’anatomopatologa Cristina Cattaneo, perito incaricato dalla Procura: quelle lesioni sono spiegabili con una torsione e una successiva forte pressione sul braccio. In più, sotto le scarpe di David Rossi sarebbe stata ritrovata vernice bianca e l’unico ufficio dove si stavano eseguendo lavori di tinteggiatura, come spiega Ranieri Rossi, era appunto quello del piano superiore. Nel primo decreto di archiviazione, invece, si parlava di “polvere di marmo” e a riguardo Ranieri Rossi menziona Davide Vecchi, giornalista de Il Fatto Quotidiano, nonché autore di inchieste sulla morte di David Rossi e del libro “Il caso David Rossi. Il suicidio imperfetto del manager Monte dei Paschi di Siena” (Chiarelettere). Si analizzano poi le macchie riportate sui pantaloni del dirigente di Mps. “Mi hanno consegnato dopo l’autopsia una busta della Coop contenente la camicia e i pantaloni insieme” - rivela Ranieri Rossi - “Era ovviamente una prova compromessa, perché gli indumenti, mai messi sotto sequestro e collocati insieme nella busta, si sono contaminati. C’è però una foto della scientifica che mostra cosa sono chiaramente queste macchie. Stanno a indicare che David è stato appeso fuori dalla finestra e poi fatto precipitare. Non dice ovviamente se si è appeso volontariamente o meno, però dalla foto della scientifica, che mostra il corpo di David sul suolo, risulta che la zona delle ginocchia e quella superiore fino alla cintura sono sporche. Queste macchie evidenziano un contatto con la parete sottostante alla finestra tra il terzo e il quarto piano". Nel secondo decreto di archiviazione, invece, si legge che queste macchie e le lesioni sulla parte anteriore del corpo sono imputabili al tentativo di David Rossi, dopo aver deciso di gettarsi dalla finestra, di compiere una torsione del suo corpo per poter aggrapparsi al davanzale e tentare di risalire. Viene anche esposta la foto della parte anteriore del corpo, immagini in cui sono evidenti schegge di legno e materiale del davanzale sull’addome, ma anche ferite e lividi sull’addome, strisciate, un ematoma all’altezza del fegato. “I periti avrebbero dovuto contestualizzare” - osserva Ranieri Rossi. “Cos’è che ha prodotto quella lesione? Se non ci dicono questo, il lavoro diventa inutile”. C’è anche una foto della ferita riportata sulla mano di David Rossi. “Nella perizia Cattaneo-Zavattaro si parla di lesione dentro la mano, senza capire cosa possa averla generata” - spiega Ranieri Rossi - “E dicono che è riconducibile a giorni prima. Se però si vedono le foto della scientifica, cosa che non hanno fatto i due periti, si nota chiaramente un taglietto con del sangue fresco. Lì c’erano dei fili anti-piccione: David avrebbe afferrato uno di quei fili, quindi è motivata quella lesione. Queste non sono conclusioni che dovevo fare io, ma i periti. Faccio una domanda, anche se sono domande che vanno sempre a vuoto, visto che non abbiamo un interlocutore che ci risponde, se non i comunicati, come ha fatto il procuratore capo di Siena: perché uno che si vuole suicidare, quando si butta, ci ripensa al punto tale da afferrare un filo anti-piccione?”. Ranieri Rossi, poi, commenta alcuni passaggi della seconda archiviazione, come quelli relativi alla porta dell’ufficio di David Rossi, aperta prima della sua precipitazione e misteriosamente chiusa dopo la sua morte. “Nel documento si parla di probabile “folata di vento” come causa” - commenta Ranieri Rossi - “Qui si sta parlando di una persona che è morta, poteva andare qualsiasi cosa, anche un inserviente di passaggio che l’ha chiusa. Chiedo un minimo di rispetto verso la famiglia, verso chi sta male, verso chi ci sta lavorando. In tutta questa storia è stata persa la maggior parte delle prove perché si era creduto a un suicidio. Magari qualcuno dovrebbe chiedere scusa per tutto quello che è successo. Il procuratore capo di Siena, Salvatore Vitello, anche nei suoi comunicati, non ha mai chiesto scusa, perché in fondo hanno sbagliato loro nel non seguire le procedure che sono di norma: repertare tutto e stabilire cosa è successo, non decidere prima e fregarsene del resto. E quella della folata di vento è una spiegazione ridicola che fa arrabbiare".

David Rossi, caso Mps a Le Iene Show: video manomissioni e omissioni, qualcuno ha inquinato la scena del crimine? Antonino Montelone e il perito Luca Scarselli evidenziano le anomalie, scrive il 26 novembre 2017 Silvana Palazzo su "Il Sussidiario". Sono tante le domande che Le Iene Show vorrebbero fare a Nicola Marini, magistrato di turno la tragica sera in cui ha perso la vita David Rossi, ex capo della comunicazione di Mps. La vicenda era stata archiviata come suicidio, quindi sembrava chiusa per sempre, ma la famiglia del dirigente non si è mai arresa. E infatti a quasi cinque anni dalla morte di David Rossi sono state aperte nuove indagini. Secondo la famiglia del dirigente, quelle precedenti non sono state svolte correttamente. “Perché non avete mai acquisito le telecamere della banca?”, chiede la Iena Antonino Monteleone al pubblico ministero quando lo raggiunge, ma senza ottenere una risposta. C'è poi un sospetto: la scena del crimine è stata inquinata? Tante le anomalie nell'ufficio di David Rossi: giacche, documenti e agende spostati prima della foto della scientifica. Perché? Da chi? “Qualcuno ha inquinato la scena del crimine? Qualcuno stava cercando qualcosa?”, prosegue la Iena con gli interrogativi. Le anomalie individuate da Le Iene Show non sono finite qui. Il sospetto è che qualcuno abbia inquinato non solo la scena del crimine, ma anche le prove. Una chiamata sarebbe stata ricevuta dall'ufficio di David Rossi il giorno dopo la morte del dirigente Mps, nonostante fosse sotto sequestro. E così è accaduto con il cellulare dell'ex capo della comunicazione di Mps. C'è poi un altro enigma: il disco dell'hard disk delle immagini delle telecamere della banca è sparito. Ancor più fitto è il mistero relativo al video della telecamera di videosorveglianza del video in cui è caduto David Rossi. L'ingegnere Luca Scarselli, perito della famiglia di David Rossi, ha spiegato a Le Iene Show le sue perplessità: ha individuato la presenza di fanali posteriori durante il filmato, la presenza continua di ombre nel vivo e la perdita di un frame relativa al deterioramento di alcuni pixel. “Andate dal procuratore”, l'unico commento di Nicola Marini.

Morte David Rossi, il video è manomesso? Scrive il 29 Novembre 2017 "Le Iene". Antonino Monteleone evidenzia le nuove anomalie che emergono dalle immagini dell'ufficio di David la sera in cui è morto e dal video della caduta. Continua l’inchiesta di Antonino Monteleone sulla morte di David Rossi. Molti dei misteri che avvolgono la morte dell’allora responsabile dell’area Comunicazione della Banca Monte dei Paschi dipendono dalle scelte investigative del pm Nicola Marini, di turno la sera in cui David vola da una finestra della sede della Banca a Siena. La nostra Iena evidenzia molte anomalie che emergono da video e foto di quella sera. In particolare, confrontando il video registrato dal primo poliziotto entrato nell’ufficio di David Rossi, con le foto scattate dalla polizia scientifica arrivata qualche ora dopo, emergono significative differenze che farebbero pensare a un inquinamento della scena del crimine:

1 – Nel video del primo poliziotto la giacca di David è appoggiata disordinatamente sulla sedia e quest’ultima è rivolta verso la scrivania. Al contrario, nelle foto della polizia, la giacca è sistemata in modo ordinato sulla sedia, che non è più rivolta verso il tavolo, ma parallelamente, tra scrivania e finestra.

2 – I documenti con l’intestazione del Ministero dell’Economia appoggiati sulla scrivania, nel video del primo poliziotto si trovano al centro, su un porta documenti in pelle. Nelle foto della scientifica, invece, si trovano su una pila di documenti spostati più sulla sinistra.

3 – Le due agende nere che nel video sono poggiate all’angolo della scrivania, nelle foto della scientifica non ci sono più, sono state spostate al centro del tavolo.

4 – Le ante della libreria che si trovano entrando sulla destra, nel primo video del poliziotto sono chiuse, mentre nelle foto della scientifica sono aperte.

5 – il monitor del computer nel video è in standby, mentre nelle foto scattate ore dopo appare riattivato.

Ma le anomalie sul sequestro dell’ufficio di David Rossi disposto dal pm Marini non finiscono qui. Infatti, il 7 marzo, la mattina dopo la morte di Rossi, alle 9:39:38, dai tabulati telefonici risulta una chiamata partita da un numero dell’Associazione Bancaria Italiana, a cui qualcuno ha risposto dall’utenza dell’ufficio di David. L’ufficio però a quell’ora doveva essere sotto sequestro e con la porta chiusa a chiave e sigillata. Lo stesso vale per il cellulare di David, che alle 7:33:42 doveva essere spento e sotto sequestro, e invece riceve un messaggio. La nostra Iena si concentra inoltre sul video che riprende la caduta di David dalla videocamera di sorveglianza sul vicolo. Qui sembrano apparire misteriose ombre dal fondo del vicolo in cui giace a terra David. In particolare, alcuni pixel sembrerebbero alterati in modo da non far vedere una figura che sembra affacciarsi. Tutto ciò che si vede è una macchia che compare e scompare.

Caso David Rossi, pm ride in tv. L'inviato de Le Iene: "Cazzo ti ridi?" Le Iene continuano a indagare sul caso di David Rossi. L'inviato va da Nicola Marini, pm di turno la sera della morte del capo comunicazione di Mps, scrive Rachele Nenzi, Martedì 28/11/2017, su "Il Giornale". "Ma perché ride, è una cosa sera!". Sta facendo discutere il servizio realizzato dall'inviato de Le Iene, Antonino Monteleone, sul caso di David Rossi. L'inchiesta della trasmissione di Mediaset continua e dopo le tante rivelazioni dei giorni scorsi, ora si indaga sulle persone che passarono nel vicolo dove fu ritrovato esanime l'allora capo della comunicazione di Monte dei Paschi di Siena. L'inviato de Le Iene è andato ad intervistare il pm che era di turno la sera della morte di Rossi, il magistrato Nicola Marini. Due le domande poste dal giornalista: primo, perché il pm scrisse all'ingegner Scarselli, che gli aveva fatto notare le ombre nel vicolo, che si trattava solo di passanti; secondo, come mai non acquisì le immagini di tutte le videocamere presenti in zona. Inoltre, l'inviato si concentra sul fatto che "alcuni pixel sembrerebbero alterati in modo da non far vedere una figura che sembra affacciarsi". Il magistrato, però, non vuole rispondere alle domande di Monteleone. E dopo aver chiuso la testa della iena nella portiera dell'auto, avvia l'auto cercando di "seminare" il cronista. Monteleone però non si è dato per vinto ed ha corso dietro il pm, continuando a domandare se potesse spiegare perché disse all'ingegner Scarselli, che gli aveva fatto notare le ombre nel vicolo, che si trattava solo di passanti. "Vedo che ha una buona preparazione", dice allora il pm sorridendo al giornalista che lo insegue sorridendo. "Vediamo chi arriva primo laggiù". Monteleone lo "rimprovera": "Ma è una cosa seria, cazzo ride dottore?". A quel punto il magistrato rallenta la corsa della macchina e prova a spiegarsi: "La cosa è seria, ma non va trattata in questo modo".

David Rossi, il pm incastra la testa dell'inviato de le Iene nello sportello. L'inviato de Le Iene, Antonino Monteleone, al pm di Siena, Nicola Marini: "Perché non avete mai acquisito le telecamere della banca?" Scrive Rachele Nenzi, Martedì 28/11/2017, su "Il Giornale". Non si ferma l'inchiesta de Le Iene sul caso della morte di David Rossi. Antonino Monteleone nell'ultima puntata è andato a trovare il pm di Siena, Nicola Marini, il magistrato che era di turno la tragica notte della morte di Rossi. "Siamo da lui - spiega l'inviato delle Iene - perché è il pm che all'ingegner Scarselli che gli faceva notare le ombre nel vicolo scrive che si trattava di passanti". Il pubblico ministero, però, non vuole rispondere alle domande del cronista. E così entra in auto. Monteleone non si dà per vinto e continua a fare domane: "Perché non avete mai acquisito le telecamere della banca?". "Andate dal procuratore", risponde il magistrato. Che nel cercare di lasciare fuori dall'auto l'inviato de Le Iene gli chiude la testa in mezzo alla portiera. "Così mi fa male", dice Monteleone. "Non mi interessa - dibatte il pm - si deve togliere. Io sono cortese, gentile, affabile: lei no. È in un punto dove non ci deve essere". Solo dopo essere riuscito a chiudere la portiera Marini risponde di fronte alle telecamere: "Noi facciamo il nostro lavoro. Accettiamo le critiche. Il procuratore è l'unica persona che può rappresentare l'ufficio all'esterno. Andate dal procuratore a fare le domande...".

Morte David Rossi, pm Siena incastra testa inviato Iene nello sportello dell’auto, scrive la redazione di Blitz Quotidiano il 28 novembre 2017. “Perché non avete mai acquisito le telecamere della banca?” A chiederlo è l’inviato de Le Iene Antonino Monteleone al pm di Siena, Nicola Marini, magistrato di turno che era in servizio la tragica sera in cui ha perso la vita David Rossi, l’ex capo comunicazione di banca Mps, morto il 6 marzo 2013 dopo essere precipitato dalla finestra del suo ufficio a Siena. “Andate dal procuratore”, è la risposta del magistrato senese. Monteleone lo blocca mentre il pm sta salendo in auto: Marini chiude la porta e schiaccia la testa dell’inviato de Le Iene per qualche secondo. La procura di Siena ha intanto fatto sapere di aver aperto due fascicoli modello 45, ovvero quello relativo a fatti non costituenti notizia di reato, a seguito di nuovi elementi e testimonianze riportati da stampa e tv in relazione alla morte di Rossi. I due fascicoli sono finalizzati ad accertare se esistono elementi concreti che possano portare alla riapertura dell’inchiesta sulla morte di Rossi, archiviata per due volte come suicidio. Gli ex vertici di Monte dei Paschi di Siena ma anche le segretarie e alcuni imprenditori. La lista non è ancora completa, ma i primi nomi messi nero su bianco dalla procura di Genova imprimono una accelerata all’inchiesta aperta all’indomani delle dichiarazioni dell’ex sindaco di Siena, Pierluigi Piccini. Dichiarazioni rilasciate durante la puntata delle Iene dedicata alla morte di David Rossi, avvenuta quando era capo comunicazione Mps. Piccini, nell’intervista, aveva detto di aver saputo di ‘festini’ ai quali avrebbero partecipato importanti personaggi della magistratura e della politica.

CASO DAVID ROSSI: INTERROGATO PIER PAOLO FIORENZANI, scrive il 25-11-2017 Ok Siena. L'azionista Mps è stato sentito nell'ambito dell'inchiesta della procura di Genova. Pier Paolo Fiorenzani, azionista Mps che è stato interrogato nell'ambito dell'inchiesta della procura di Genova aperta in seguito delle dichiarazioni dell'ex sindaco di Siena, Pierluigi Piccini, ha dichiarato che i festini cui si faceva riferimento, erano delle voci che circolavano in città su cui non c'è niente di preciso. L'ex sindaco di Siena aveva rilasciato delle dichiarazioni a Le Iene sulla morte di David Rossi, non sapendo di essere ripreso. Aveva detto alle telecamere di essere a conoscenza di festini a cui avevano preso parte politici e magistrati. Dopo tali dichiarazioni, Piccini è indagato per abuso d'ufficio presso la procura di Genova. La morte di David Rossi, che morì cadendo da una finestra della banca senese il 6 marzo 2013, fu definita un suicidio. La famiglia di Rossi non si è mai data per vinta rifiutando l'ipotesi del suicidio. Durante l'interrogatorio Fiorenzani ha dichiarato che di festini si parlò dopo la morte di David Rossi, durante un'assemblea dei soci nel luglio 2013, riferito a un "manipolo di depravati che si era preso la banca".

De Gortes: “Mai organizzato festini e i magistrati senesi non sono miei amici”, scrive il 30 Novembre 2017 Antenna Radioesse. Ogni trasmissione de “Le Iene” sembra scatenare il finimondo a Siena e il caso David Rossi è sempre in primo piano. Da qualche tempo, dopo l’intervista dell’ex sindaco Pierluigi Piccini, la Procura di Genova è al lavoro per approfondire la vicenda dei “festini”. Ieri, nel capoluogo ligure, è stato sentito Antonio De Gortes che stamani ha raccontato ad Antenna Radio Esse le sue verità: “Mai organizzato festini, mai fatto uso di droga nella mia vita. Chi mi conosce – spiega l’imprenditore senese – lo sa. E soprattutto, notoriamente, i magistrati non sono miei amici. Mi ritengo danneggiato da tutta questa storia e sono sorpreso da leggere sulla stampa, già ieri sera, le mie dichiarazioni rilasciate in procura. Adesso vediamo cosa succede, sono pronto a far partite le querele per diffamazione”.

David Rossi, lettera anonima: “Sì, sono stati sparati due colpi di arma da fuoco”, scrive la Redazione di Blitz Quotidiano" il 29 novembre 2017.  “Ci sono nella vita situazioni che vogliono che siano andate in un modo mentre invece sono andate in modo diverso, sì, sono stati sparati due colpi di arma da fuoco in quei giorni, ed io posso scriverlo e a me confermato anche da persone vicine”. E’ il contenuto di una lettera firmata “un vigliacco”, datata 21 novembre, recapitata a Antonella Tognazzi, vedova dell’ex capo comunicazione di banca Mps David Rossi morto il 6 marzo 2013 precipitando dalla finestra del suo ufficio. La lettera è stata mostrata dalla vedova alla trasmissione Le Iene andata in onda martedì sera. Nella lettera si spiega che i colpi sarebbero stati sparati “dall’interno verso l’esterno” e “dove siano finite le pallottole nessuno lo sa, ma a vista, basta vedere nella parte di fronte alla finestra e chissà che non appaiano”. “Sono in questo letto ormai in procinto di passare ad altra vita – si legge ancora -, ma è da giorni anzi da anni che vivo con il rimorso di non aver mai detto cose e/o fatti sulla morte” di Rossi, definito “povero ragazzo”. “Lascio questa mia memoria in busta chiusa sigillata a persona di mia fiducia che non sa cosa possa contenere, e come da accordi la deve imbustare solamente dopo la mia morte. Il perché del Vigliacco? Perché sono una persona umana, e volevo vivere una vita tranquilla fino alla mia morte, nella vita si ha paura dei poteri forti”. La notizia degli spari era già emersa nelle scorse settimana quando, ricorda una nota della trasmissione di Mediaset, l’avvocato della moglie di Rossi, Luca Goracci aveva dichiarato sempre ai microfoni de Le Iene come, un anno e mezzo fa, si sarebbe fatto vivo con lui un misterioso testimone che gli aveva raccontato di “un colpo d’arma da fuoco che qualcuno avrebbe sparato” dopo il suo arrivo nel vicolo e il riconoscimento del corpo di Rossi. L’uomo, ha spiegato Goracci, “sarebbe stato aggredito da alcune persone alle spalle: si è divincolato ed è riuscito a scappare con pugni e calci”.

Mps, lettera anonima sulla morte di Rossi: "Hanno sparato colpi d'arma da fuoco". Lettera anonima recapitata alla vedova di David Rossi: "Dove siano finite le pallottole nessuno lo sa...". E spiega: "Nella vita si ha paura dei poteri forti", scrive Sergio Rame, Mercoledì 29/11/2017, su "Il Giornale". "Ci sono nella vita situazioni che vogliono che siano andate in un modo mentre invece sono andate in modo diverso...". Nell'intricata vicenda della morte di David Rossi, capo della comunicazione di Monte dei Paschi di Siena, spunta una lettera anonima che getta nuove ombre su quanto successo la sera del 6 marzo 2013. Lo scritto, datato 21 novembre, è stata recapita nei giorni scorsi a Antonella Tognazzi, vedova di Rossi, che ieri sera è stata intervistata da Antonino Monteleone alle Iene (video). "Sono stati sparati due colpi di arma da fuoco in quei giorni - si legge - e probabilmente sono stati sparati dall'interno verso l'esterno. Dove siano finite le pallottole nessuno lo sa - continua - ma, a vista, basta vedere nella parte di fronte alla finestra e chissà che non appaiano".

La morte di David Rossi. La sera del 6 marzo 2013 Rossi precipita da una finestra della sede della banca a Rocca Salimbeni. In quelle settimane il Monte dei Paschi di Siena era al centro di un'inchiesta sull'acquisizione di Antonveneta che stava smuovendo anche la politica. Si è subito parlato di suicidio. Ma i familiari di Rossi non ne sono mai stati convinti: per ben due volte si sono scontrati con la procura senese che ha archiviato il fascicolo d'indagine aperto con l'ipotesi di reato d'istigazione al suicidio. Antonella Tognazzi, però, non intende darsi per vinta e sta andando avanti a scavare a fondo per cerca di far emergere la verità. Nelle ultime settimane le Iene hanno provato a seguire questa pista e sono arrivarti a Pierluigi Piccini, ex dirigente del Monte dei Paschi e sindaco di Siena dal 1990 al 2001. Anche lui non crede che Rossi si sia suicidato.

La lettera anonima. Dopo la messa in onda dei servizi delle Iene, vengono aperte quattro nuove indagini, due dalla procura di Genova, che dovrà far luce sui comportamenti dei magistrati senesi, e due dalla procura di Siena. A gettare nuovi misteri sulla vicenda c'è la lettera anonima inviata il 21 novembre alla vedova Rossi. Il mittente si firma "Un Vigliacco". "Sono in questo letto ormai in procinto di passare ad altra vita - scrive - ma è da giorni anzi da anni che vivo con il rimorso di non aver mai detto cose e/o fatti sulla morte di quel povero ragazzo dipendente del Monte dei Paschi di Siena il Sig. David Rossi". E continua: "Ci sono nella vita situazioni che vogliono che siano andate in un modo mentre invece sono andate in modo diverso, sì, sono stati sparati due colpi di arma da fuoco in quei giorni, ed io posso scriverlo e a me confermato anche da persone vicine, e probabilmente sparate dall’interno verso l’esterno, dove siano finite le pallottole nessuno lo sa, ma a vista, basta vedere nella parte di fronte alla finestra e chissà che non appaiano". L'anonimo spiega di aver lasciato queste memorie "in busta chiusa sigillata a persona di mia fiducia che non sa cosa possa contenere" e che, "come da accordi, la deve imbustare solamente dopo la mia morte". "Il perché del Vigliacco? - scrive alla fine della missiva - perché sono una persona umana, e volevo vivere una vita tranquilla fino alla mia morte, nella vita si ha paura dei poteri forti. Chiedo perdono".

Le Iene, il caso MpS: intervista alla vedova di David Rossi, scrive il 29 novembre 2017 Tvzap. Con una lettera anonima è stata recapitata ad Antonella Tognazzi si infittiscono i misteri legati alla morte del capo della comunicazione dell’istituto bancario. I troppi lati oscuri legati alla morte di David Rossi sono ancora una volta al centro delle inchieste delle Iene Show. Antonino Monteleone è tornato ad occuparsi del caso MpS intervistando nella puntata in onda martedì 28 novembre su Italia 1 la vedova, Antonella Tognazzi a cui è stata recapitata nei giorni scorsi una lettera anonima. David Rossi, capo della Comunicazione di Monte dei Paschi di Siena, la sera del 6 marzo 2013, è precipitato da una finestra della sede della banca a Rocca Salimbeni, nel capoluogo toscano. In quelle stesse settimane, MPS era al centro di una grande inchiesta basata sull’acquisizione di Antonveneta. Nel luglio 2017, il gip ha disposto l’archiviazione del fascicolo d’indagine aperto con l’ipotesi di reato d’istigazione al suicidio, accogliendo la richiesta avanzata dalla procura senese e respingendo così l’opposizione avanzata – nel novembre 2015 – dai legali della famiglia Rossi, da sempre convinti che si sia trattato di omicidio. È la seconda archiviazione in questa vicenda: una prima indagine si era chiusa nel marzo 2014. La moglie di David Rossi Antonella Tognazzi e la figlia della donna Carolina Orlandi, che non credono all’ipotesi del suicidio, sono da anni impegnate per far sì che si continui a indagare sulla morte dell’uomo. Anche Pierluigi Piccini, ex dirigente del Monte dei Paschi e sindaco di Siena dal 1990 al 2001, aveva affermato, tra le altre cose, “Non credo che David Rossi si sia suicidato”. Dopo la messa in onda dei precedenti servizi sul caso, sono state aperte quattro nuove indagini: due presso la Procura di Genova (competente a indagare per fatti che riguardano i magistrati senesi) e due presso la Procura di Siena. Antonino Monteleone incontra Antonella Tognazzi, che legge il contenuto di una lettera anonima – datata 21 novembre – che le è stata recapita nei giorni scorsi. Il mittente si firma “Un Vigliacco”; la lettera riporta quanto segue: Oggetto: Le mie ultime memorie. Sono in questo letto ormai in procinto di passare ad altra vita, ma è da giorni anzi da anni che vivo con il rimorso di non aver mai detto cose e/o fatti sulla morte di quel povero ragazzo dipendente del Monte dei Paschi di Siena il Sig. David Rossi. Ci sono nella vita situazioni che vogliono che siano andate in un modo mentre invece sono andate in modo diverso, sì, sono stati sparati due colpi di arma da fuoco in quei giorni, ed io posso scriverlo e a me confermato anche da persone vicine, e probabilmente sparate dall’interno verso l’esterno, dove siano finite le pallottole nessuno lo sa, ma a vista, basta vedere nella parte di fronte alla finestra e chissà che non appaiano. Lascio questa mia memoria in busta chiusa sigillata a persona di mia fiducia che non sa cosa possa contenere, e come da accordi la deve imbustare solamente dopo la mia morte. Il perché del Vigliacco? Perché sono una persona umana, e volevo vivere una vita tranquilla fino alla mia morte, nella vita si ha paura dei poteri forti. Di presunti spari nel vicolo la notte dell’accaduto, aveva parlato anche l’avvocato della famiglia Rossi Luca Goracci che, ai microfoni della Iena, aveva raccontato come, un anno e mezzo fa, si sarebbe fatto vivo con lui un misterioso “testimone”. Goracci aveva detto: “Sono stato contattato telefonicamente da questa persona, poi è venuta allo studio e a parole mi dice che la sera del 6 aveva un appuntamento con David, che ha fatto tardi, e che risalendo su da via de Rossi, arrivato all’altezza del Vicolo di Monte Pio, si è girato e ha visto un corpo in terra. È entrato nel vicolo e si è avvicinato al corpo, e lì ha visto che si trattava di David Rossi che, mi dice, conosceva da qualche mese. E mentre era lì, sarebbe stato aggredito da alcune persone alle spalle: si è divincolato ed è riuscito a scappare con pugni e calci. C’era stato un colpo d’arma da fuoco che qualcuno di questi avrebbe sparato, […] mi dice che avevano il silenziatore nella pistola”.

Che cosa ho scoperto sulla morte di David Rossi. Parla Monteleone (Le Iene), scrive Fabrizio Colarieti su "Formiche.net" il 19/11/2017. Conversazione con Antonino Monteleone, inviato de "Le Iene", sul servizio che indaga le contraddizioni nella morte di David Rossi. Dopo la doppia inchiesta aperta dalla Procura di Genova, che sta muovendo i primi passi, anche la Procura di Siena, per la terza volta, torna a indagare (con due fascicoli al momento a carico di ignoti) sulla misteriosa morte di David Rossi, l’ex capo della comunicazione di Banca Monte dei Paschi, volato giù dalla finestra del suo ufficio a Rocca Salimbeni, il 6 marzo di quattro anni fa. Troppo lungo per arrendersi, secondo i suoi familiari, l’elenco degli interrogativi che riguardano sia la morte del giornalista sia i gravi errori commessi nella fase iniziale delle indagini di cui, tra l’altro, si sta occupando anche il Csm. Ad aggiungere importanti tasselli, che hanno sollecitato le due procure a tornare a indagare su quanto accaduto quella sera – nel caso di Genova sono stati già invitati a comparire gli allora vertici della Banca e altri testimoni mai ascoltati prima – è stata un’inchiesta de “Le Iene”, curata da Antonino Monteleone che a Formiche.net annuncia che continuerà a lavorare su questo caso perché ci sono “fatti ancora inediti”. Sei puntate, ascolti record, una storia torbida che rischiava di essere dimenticata e che, invece, è tornata a galla grazie al tuo impegno e a quello di Davide Vecchi, che alla stessa vicenda ha dedicato un libro.

A che punto siamo con la verità?

«Più si scava in questa storia e più capisco che alla verità siamo ancora lontanissimi. E mi riferisco al chiarire definitivamente tutti i dubbi. Ci troviamo in mezzo a una situazione paradossale: mancano sufficienti elementi per credere che David Rossi abbia tragicamente deciso di togliersi la vita, ma allo stesso tempo i grandi vuoti investigativi e le anomalie che si riscontrano ad esempio sul corpo di David e nel video dell’unica telecamera di sorveglianza acquisito; generano l’idea che sia stato ammazzato senza che questa possa essere esclusa categoricamente».

Perché hai scelto questa storia per il tuo esordio a “Le Iene”?

«È stata una scelta condivisa tra me e l’autore (Marco Occhipinti, ndr). C’erano diverse idee sul tavolo e confesso che, inizialmente, ero un po’ restio perché oltre ad essere già stata lungamente trattata, ero influenzato dalla doppia archiviazione. La mia esperienza giornalistica è condizionata da una fiducia piuttosto profonda per l’operato della magistratura. Quindi mi sono approcciato con molto scetticismo. Ma più leggevamo gli atti dell’inchiesta, guardavamo le foto del corpo del povero Rossi, più ascoltavamo la famiglia, più guardavamo l’inquietante video della caduta più i dubbi aumentavano e abbiamo deciso che al pubblico de “Le Iene” andava raccontato, visto che è un pubblico di giovanissimi molto curiosi, ma lontani dal flusso classico delle notizie sui giornali e in tv. Un esordio con una storia molto complessa e molto dura, con tutto quello spazio a disposizione (il primo servizio durava oltre 36 minuti) dimostra che una scommessa – su di me e su questa vicenda – l’ha fatta l’intero programma. Ha ripagato. Perché l’impatto è stato notevole».

A che punto è la tua inchiesta e in che direzione sta andando?

«Intanto dopo sei servizi in onda e oltre 140 minuti di racconto televisivo, si sono aperte due nuove indagini a Genova e altre due a Siena. Se quest’ultime sfoceranno in una concreta riapertura dell’inchiesta sulla morte di Rossi, sarebbe certamente un merito della nostra trasmissione. Nelle prossime settimane continueremo a ricostruire gli scenari e raccontare fatti ancora inediti di cui siamo venuti a conoscenza».

Avete ricevuto pressioni dopo le prime puntate?

«Non tutte le persone che abbiamo cercato per un’intervista o che hanno detto molte più cose quando la telecamera non era accesa, hanno gradito. Il tema è delicato. Le implicazioni sono molteplici: posso dire che ho potuto apprezzare le spalle larghe di Mediaset e il grande spazio di libertà riconosciuto al programma».

E da parte del Monte dei Paschi?

«Nessuna. Ci tengo anche a dire che in questa storia, se si pensa alla Banca Monte dei Paschi come un secolare istituto che appartiene alla città di Siena e ai senesi dal 1472, l’Istituto è danneggiato da ciò che ha dovuto affrontare per via di manager incapaci. E la Banca è vittima anche delle vicende legate alla morte di David Rossi. È stato un suicidio? Abbiamo già evidenziato che, forse, poteva evitarsi. È stato un omicidio? Beh come si fa a non ritenere l’Istituto una vittima?»

Quando hai deciso di lasciare “Piazza Pulita”, dove eri inviato per Corrado Formigli, qualcuno sui social ha commentato che stavi smettendo di fare il giornalista, si sono ricreduti?

«Non riesco più a star dietro a tutti quelli che qualunque cosa tu faccia nella vita, alzano il ditino per indicare cosa avrei dovuto o non avrei dovuto fare. Se accetti un lavoro in Rai ti dicono che forse lo hai avuto perché sei vicino al governo. Se vai a Mediaset: “eh ma allora Berlusconi…”. Ora sono usciti pure gli sciroccati che accusano La7 di essere filo-M5S. Siamo circondati da persone che vivono nella paranoia. A me, la paranoia non piace. Ho sempre fatto le cose che faccio mettendoci il massimo dell’impegno. Se le ho fatte male è stata colpa mia. Ogni volta che mi è stata data un’opportunità ho cercato di non deludere chi me la dava. Sarà sempre così».

 “Morte dei Paschi”, avvincente libro-inchiesta di Lannutti e Fracassi sul dissesto finanziario di Mps, scrive Roberto Tomei il 30 Novembre 2017 su Il Foglietto. Morte dei Paschi. Dal suicidio di David Rossi ai risparmiatori truffati. Ecco chi ha ucciso la banca di Siena di Elio Lannutti e Franco Fracassi, editore Paper FIRST, Roma, 2017, pp. 280, euro 12. Il libro che qui si presenta è un’inchiesta sul terremoto finanziario che ha sconquassato una delle più antiche e potenti banche del mondo, compromessa dal nefasto combinato disposto di ambigui interessi politici e personali. E come ogni terremoto degno di questo nome anche quello che ha cagionato la “morte dei Paschi” ha avuto le sue vittime. Innanzitutto, David Rossi, l’ex capo della comunicazione della banca, il primo di una lunga catena di suicidi, visto che almeno altre otto persone nel mondo si sono tolte la vita per operazioni collegate a Mps. Una scia di sangue che si mescola alla lunga serie di scandali finanziari che hanno colpito tanti risparmiatori, con riflessi non indifferenti sul bilancio dello Stato, chiamato a operare il salvataggio dell’Istituto. Si spiega così come, a fronte del gran risalto dato alla morte di Rossi, non minore importanza riceva l’ascesa di Mussari, essendo stato ben messo in evidenza l’intreccio perverso tra banche, politica e imprenditoria, che è stato all’origine della fine della banca senese. Di sicuro, il libro contribuisce a tener viva l’attenzione sull’intera storia: da un lato, sulla vicenda particolare della strana fine di Rossi, che alcuni osservatori, nonostante due archiviazioni, ritengono debba essere oggetto di nuove indagini, da svolgere magari fuori della città del Palio; dall’altro, sulla più vasta parabola del nostro sistema, che ha consentito la sciagurata fusione tra banche commerciali e banche d’investimento, così stravolgendo la funzione del credito. Ma, al di là di tutto questo, che certamente non è poco, il libro di Lannutti, Senatore della Repubblica nella scorsa legislatura, noto Fondatore e Presidente di Adusbef ma anche editorialista del Foglietto, e di Fracassi, giornalista di vaglia, si segnala altresì all’attenzione dei lettori perché sa rendere la storia avvincente, dando alla stessa quasi i tratti di un romanzo giallo.

Vaticano, percorso a ostacoli, scrive Pier Francesco De Robertis il 30 novembre 2017 su "La Nazione". La pace non abita in Vaticano, almeno quando si parla di soldi. E al netto di un giudizio esauriente sulla vicenda accaduta ieri – al momento interlocutorio, dal classico dipendente infedele che tradisce la fiducia appropriandosi di fondi o passando all’esterno informazioni riservate, all’esito di uno scontro di potere nei Sacri palazzi – salta all’occhio come i travagli degli organismi che all’interno della Chiesa gestiscono i beni e i denari non conoscano fine. Una maledizione? Un destino tragico e baro? O semplicemente l’ennesima puntata di una guerra intestina che non conosce requie, e anzi, più va avanti l’opera di riforma di papa Francesco più trova opposizioni e finisce per procedere per strappi. Certo è che intorno allo Ior negli ultimi trent’anni è accaduto di tutto, e buona parte dei misteri del mondo (quelli d’Italia quasi tutti) sono transitati per gli austeri stanzoni del torrione Nicolò V. Calvi, la mafia, Marcinkus, la banda della Magliana, la maxitangente Enimont per finire a David Rossi il coinvolgimento dello Ior è diventato un imprenscindibile topos letterario per chi si voleva e si vuole occupare di misteri. Una sorta di fiction, in cui come tutte le fiction la realtà si mescola alla fantasia. Benedetto XVI e soprattutto Bergoglio hanno provato a portare lo Ior nel consesso finanziario internazionale, che dal suo canto invocava da tempo la massima trasparenza (spesso gli stessi che tollerano nella Ue stati come Malta o il Lussemburgo e fin quando non ha deciso di andarsene la Gran Bretagna). Bergoglio ha di fatto compiuto l’opera, perché sono stati cancellati conti sospetti, i bilanci sono diventati pubblici, dall’aprile 2017 lo stato della Città del Vaticano è nella white list italiana e il Vaticano si è dotato di una autorità antiriciclaggio. Qualche colpo di coda però c’è, come mostrano le vicende di monsignor Vallejo Balda e le frequenti dimissioni, spontanee o indotte, di presidenti o direttori generali. Fino al nuovo epilogo di questi giorni.

David Rossi: “Omicidio di Stato per salvare le banche”, scrive Daniele Garlando il 5 novembre 2017 su "Themisemetis.com". Il 9 novembre uscirà un libro sconvolgente, destinato a fare discutere: “Morte dei Paschi. Chi ha ucciso la Banca di Siena” in cui troveremo approfondimenti sulla morte di David Rossi. Abbiamo avuto il piacere e la grande opportunità di parlarne in esclusiva, a pochi giorni dall’uscita, con Elio Lannutti, colui che ne ha curato la pubblicazione, insieme al giornalista Franco Fracassi. Elio Lannutti non è solo un famoso giornalista, scrittore ed economista. Elio Lannutti è un uomo da sempre impegnato nella tutela e difesa dei consumatori e dei cittadini, contro i soprusi del sistema bancario, finanziario e non solo. Basta ascoltare alcuni dei tanti interventi che si trovano online. “Quello di David Rossi è stato un omicidio di Stato, per salvare le Banche”. Di seguito, vi riportiamo solo alcuni stralci delle tante forti dichiarazioni che ha riservato ai nostri microfoni in questa intervista. Insieme abbiamo affrontato la vicenda “Monte dei Paschi” di Siena, e i suoi inquietanti misteri. Senza mezze misure. E specialmente di un caso, quello che riguarda David Rossi, responsabile della comunicazione di MPS, precipitato dalla finestra del suo ufficio a Siena. Caso salito prepotentemente alla ribalta della cronaca nelle ultime settimane, grazie al lavoro di Antonino Monteleone e della sua trasmissione “Le Iene”. Tenetevi forte, perché sono dichiarazioni forti.

“Quello di David Rossi è stato un omicidio di Stato per salvare le Banche, per le quali lo stesso Stato trova venti miliardi in cinque minuti, mentre i terremotati stanno sotto le macerie e sotto la neve”, aveva detto solo pochi mesi fa. “Abbiamo scovato ben otto altri casi” di suicidi sospetti, legati a MPS". Ai nostri microfoni, Elio Lannutti rincara la dose. “David Rossi secondo noi è stata la vittima di quel grande imbroglio e truffa che si chiama Monte dei Paschi di Siena. La più antica Banca, che aveva resistito a calamità e guerre, ma non ha resistito a un avvocato calabrese, al Partito Democratico di cui era la banca di riferimento, e alla finanza criminale”.

E ancora, terribilmente inquietante. “Abbiamo fatto un’indagine” (da cui è nato il libro in uscita il 9 novembre) “… e abbiamo scovato ben altri otto casi” di suicidi sospetti nel mondo, legati alla vicenda MPS. “Un nono non lo abbiamo raccontato: la strana morte al Ministero dell’Economia di un dirigente che è stato trovato impiccato con la sua cravatta al termosifone”. Nel libro ne vengono raccontati però altri nel mondo “tutti legati a quei prodotti tossici”, che non garantiscono la gente, ma “solo i profitti dei banchieri”. Fino ad arrivare alla grande Banca giapponese “Nomura”, e allo strano caso di un altro dirigente suicidato. Dove per prima non arriva la polizia, ma due figuri inquietanti che “portano via tutti i documenti prima che arrivi la polizia”.

Questi sono “misteri criminali”, così senza mezzi termini ci dice Elio Lannutti. “Questo è il Paese alla rovescia, dove gli onesti sono perseguitati, e le cricche premiate”. E “questo è il Paese alla rovescia, dove gli onesti vengono perseguitati e le cricche premiate, come nel caso del governatore Visco”. Riguardo alla recente rinomina di Ignazio Visco a governatore della Banca d’Italia, Elio Lannutti dice semplicemente: “questo è un segnale devastante per i giovani, perché… è la metafora di un Paese che premia i suoi manutengoli. La vigilanza della Banca d’Italia non ha guardato i crack e dissesti di sette banche”.

All’interno dell’intervista, troverete poi parole ulteriormente forti sul “Rosatellum”, “una legge sicuramente incostituzionale. Un “Porcatellum”, che avrà il pregio” (in senso ironico…) “della ingovernabilità, a meno che la gente non si svegli”. A meno che “tutti gli onesti, tutti i vessati e i giovani che sono costretti a scappare all’Estero” non si ribellino, facendo “la rivoluzione delle matite”, attraverso il loro voto. “Come già fatto il 4 dicembre, quando hanno votato in massa un grande NO, nonostante tutti i poteri, le cancellerie europee, gli Stati Uniti d’America, la Confindustria, le banche, fossero tutti a favore dell’uomo di JP Morgan”, Matteo Renzi.

“Il PD invece di difendere i lavoratori, difende banchieri e finanza criminale”. Matteo Renzi, “sconfitto il 4 dicembre soprattutto dai giovani. Aveva promesso di andarsene a casa, sta ancora facendo danni. Ma è l’uomo più odiato dagli italiani”.

Si chiude con l’attacco alla pratica “fraudolenta” della modifica del calendario. Quella per cui ora le bollette si pagano ogni quattro settimane, con conseguente allungamento “dell’anno a tredici mesi, mentre gli stipendi e le pensioni non seguono questa prassi”. Tutto questo “con il consenso del governo e del PD, che invece di difendere i lavoratori e la povera gente, è diventato un OGM, che difende gli interessi dei predatori del mercato, dei banchieri e della finanza criminale”. “Bisogna ribellarsi a questo potere dei manutengoli!”

È forte l’anelito e la passione che il dottor Lannutti ci trasmette, quando parla degli italiani costretti, come lui da giovane, ad andare all’estero. Che è poi il forte messaggio finale che ci lascia.

“Perché questa classe politica marcia, che ha fatto il debito pubblico, che ogni giorno gliene arrestano qualcuno, ha sottratto la speranza. Noi questa speranza la vogliamo coltivare, per quei giovani che se ne devono scappare”. “Bisogna ribellarsi a questo potere dei manutengoli. I giovani devono ritornare in una grande nazione che si chiama Italia, il più bel Paese, rapinato e distrutto dai manutengoli del potere”.

COMPLOTTISTI? IL MAGISTRATO PAOLO FERRARO, MELANIA REA E LE SETTE DI STATO.

Tutt'altra storia è il caso di Paolo Ferraro. Espulso dalla magistratura per aver “inventato” la presenza in Italia di sette e poteri occulti. C’è una storia di ordinaria ingiustizia, che rimbalza sulla rete ma non ottiene visibilità negli “autorevoli media” nazionali e che riguarda il dottor Paolo Ferraro, un giudice già attivo in battaglie esemplari quali la riconquista della nostra sovranità monetaria e della nostra indipendenza nazionale, oggetto delle attenzioni della casta e al quale si vuole, praticamente, togliere la dignità di cittadino ed essere umano. Contro Paolo Ferraro, espulso di recente dalla Magistratura con provvedimento del CSM perché accusato di essersi “inventato” la presenza e l’attività in Italia di massonerie e sette sataniche, sta andando avanti a tappe forzate una “damnatio”. Il Csm ha proposto innanzi al Tribunale di Roma un’istanza per porre Ferraro, addirittura, sotto ad “amministrazione di sostegno e cure farmacologiche”. In sostanza una richiesta di revoca di capacità giuridica di agire. Secondo Paolo Ferraro si tratta in sostanza di un accerchiamento da più lati (ci sono di mezzo le iniziative legali della coniuge separata) per bloccare la sua attività di denuncia e politica. “Per il 14 marzo 2013 – scrive Paolo Ferraro – sono stato convocato in udienza dinanzi al giudice tutelare di Roma (presidente della sezione Tribunale) per la “nomina di amministratore di sostegno” non alla mia anziana madre o alla signora terminale in ospedale… ma a me…Chi sa capisce quanto grave sia questa iniziativa che significa togliere a un soggetto autonomia capacità di agire ed in crescendo intrappolarlo rapidamente nella direzione finale che è stata evidentemente tracciata dall’odio di chi credeva di poter mettere tutto a tacere”. Paolo Ferraro svolgeva la funzione di sostituto pm presso la Procura di Roma ed era definito anche dai colleghi come un magistrato preparato, attento, scrupoloso e molto affidabile che ha sempre portato a termine in modo ottimale i suoi compiti. In ogni caso, verso la fine del 2008 formalizzava una denuncia in Procura assumendo che nella sua abitazione, nel quartiere romano della Cecchignola, nei tempi in cui lui non era in casa, avvenivano rituali satanici, pratiche sessuali in condizioni di ipnosi e comunque sotto l’effetto di sostanze alteranti, che vedevano coinvolti adulti, bambini e quale vittima posta in stato di incoscienza l’allora sua compagna. Una denuncia suffragata da registrazioni audio ambientali. Il sospetto di quanto potesse accadere a danno della sua donna e dei minori conduceva il dott. Ferraro ad intraprendere “ingenuamente e inconsapevolmente comprendendone i tasselli, legami e ruoli solo molto tempo dopo” – sue parole – una lunga e tortuosa attività di studio e approfondimento personali che, a suo dire, lo portavano a scoprire trame occulte e deviate tra i poteri istituzionali dello Stato, gli alti gradi militari (che trovavano nel quartiere della Cecchignola abitazione), psicologi, psichiatri e altri professionisti compiacenti, massoneria e sette sataniche. Perciò le sue “denunce”, inizialmente passavano per i canali “ufficiali e istituzionali”. Ciò l’avrebbe portato a “scoprirsi” e a divenire obiettivo da neutralizzare per tali poteri deviati. Così si spiegherebbero, dal suo punto di vista, un TSO convertito in ricovero volontario nel maggio/giugno 2009, con forzata assunzione di neurolettici; due procedure di dispensa dalle sue funzioni, avviate presso il CSM nel 2009 e 2010 su segnalazione delle Procure di Roma e Perugia e concluse con l’archiviazione; un’aspettativa per infermità di più di un anno (agosto 2011- dicembre 2012), seguita dalla delibera di dispensa dalle sue funzioni assunta per motivi di salute dal CSM lo scorso 06.12.2012 (che intende impugnare al TAR). La notifica del ricorso del Procuratore Capo di Roma per la nomina di un amministratore di sostegno che dovrà acconsentire in sua vece alla somministrazione a lui di psicofarmaci gli è giunta il 7 marzo. Come nota Armando Manocchia, giornalista di imolaoggi, “al di là della fondatezza o meno della sue tesi, va però tutelato il suo diritto individuale di libertà a decidere del suo stato di salute ed, eventualmente, la sua libertà di curarsi o meno; la nomina di un amministratore di sostegno, in assenza di condizioni di pericolosità alcuna, è una violenza per lui e violazione dei diritti e delle libertà fondamentali dell’individuo che non può venire tollerata. Non di meno il gravissimo fatto che lo sta coinvolgendo lede la fondamentale libertà di espressione e manifestazione del pensiero”. Un magistrato denuncia progetti di controllo mentale in Italia e l’esistenza di una setta occulta che coinvolgerebbe alte cariche militari, con legami nella giustizia, nella politica, nella psichiatria e nella massoneria deviata. Difficile individuarli. Coperti da corporazioni, lobby e governi, di destra e di sinistra, manipolano l’opinione pubblica e condizionano le menti di reclute, politici, malati psichici, giovani donne e bambini per avere il controllo sull’agenda mondiale e sulla storia. Il sostituto procuratore aggiunto di Roma Paolo Ferraro è stato ascoltato dai pubblici ministeri che indagano sulla morte di Melania Rea. Ferraro dopo avere raggiunto la procura è stato trasferito nella sede del comando provinciale dei carabinieri di Teramo, nella caserma Porrani per il colloquio con i pm Davide Rosati e Greta Aloisi ai quali lui stesso aveva chiesto di essere sentito sul delitto. L’udienza è durata circa tre ore. Ferraro ha parlato della sua indagine sulla presunta presenza di sette sataniche all’interno delle caserme italiane, partendo da quanto accertato, sempre secondo le sue affermazioni, nella caserma romana della Cecchignola. Il magistrato è stato di recente sospeso dal Consiglio superiore della magistratura, in via cautelativa per quattro mesi, per presunta infermità mentale. L’ex sostituto è stato poi sottoposto a due perizie psichiatriche che hanno stabilito essere sano di mente. Avrebbe riferito che le sue disavventure sono iniziate dal momento in cui fu resa nota la sua indagine su presunte presenze massoniche e di sette sataniche all’interno delle caserme italiane. L’ipotesi è che tali sette potrebbero essere state presenti anche nella caserma di Ascoli Piceno nella quale Parolisi prestava servizio come addestratore di reclute ed essere in qualche modo in relazione con l’atroce delitto di Melania Rea. A proposito di Melania lo stesso ex sostituto avrebbe dichiarato di averla notata o di aver notato una donna molto simile alla vittima, qualche tempo prima della sua scomparsa, negli uffici della procura di Roma.

Ma la Massoneria non è solo magistratura: è pure politica. Se a livello nazionale la polemica tra iscritti al Pd e massoneria crea imbarazzo, a livello locale molto meno, perlomeno laddove è tradizione consolidata. A Perugia, per esempio, dove più di qualcuno ha iniziato a fare “outing”. Mario Valentini, ex sindaco Psi negli anni Novanta e fondatore del Pd perugino, oggi ricorda: “L’esperienza della massoneria, della quale mi onoro di appartenere, è ricca di storia civile e progressista della città.

Il sapere è potere. Tutto quello che non devi sapere...Sara Tommasi e Melania Rea le probabili vittime del “'Monarch” militare, scrive Antonio Del Furbo. Il magistrato Paolo Ferraro continua la battaglia sui presunti abusi avvenuti all'interno della città militare della "Cecchignola". Lui, Paolo Ferraro, l'uomo che ha pagato screditato come uomo prima e come istituzione poi prosegue il viaggio per far conoscere a tutti le sue inchieste. I militari e i servizi segreti non avrebbero mai concluso il progetto di controllo mentale ma addirittura avrebbero rimodulato tale progetto con l'aggiunta di riti satanici e atti sessuali. Il magistrato, come riferito in più circostanze, ha incontrato più volte Melania Rea nei corridoi della procura di Roma. La donna sarebbe stata a conoscenza delle pratiche che si svolgevano all'interno della caserma di Ascoli Piceno e della Cecchignola. «Basi segrete per la manipolazione mentale, angherie sulle reclute, festini a base di sesso e droghe» racconta Ferraro. Poi tiene a precisare che: «quando mi sono unito con la mia nuova compagna e iniziare una convivenza in un appartamento della Cecchignola destinato ai militari, l'ex marito della donna sottufficiale dell'esercito, non si è assolutamente opposto all'unione ma, anzi, l'ha incoraggiata». Ferraro s'insospettisce soprattutto guardando l'atmosfera e gli sguardi di chi gli sta intorno: strani sguardi d’intesa tra vicine di casa, che però non si parlano, anzi all’apparenza sembrano detestarsi, bambini che sembrano automi. Il magistrato comincia a notare strani comportamenti nella moglie che, dopo insistenze da parte di Ferraro, ammette di aver fatto parte di una specie di setta. I racconti appaiono fumosi e con molte lacune. A quel punto il magistrato decide di registrare tutto ciò che avviene in quella casa quando lui è a lavoro: da lì inizia una triste storia. Ferraro scopre che, in sua assenza, all'interno dell'appartamento avvengono fatti indicibili. La sua compagna è la protagonista involontaria di orge di gruppo anche con minori. Si riconosce la voce atona di lei che risponde come un automa a comandi di altre persone. Gemiti suoni risposte strozzate, tentativi di rifiuto “Bevi. No non mi va”. Secondo Paolo Ferraro nella stessa rete sarebbe caduta anche Sara Tommasi che ha più volte dichiarato: «Mi mettono in casa il gas dai bocchettoni. Mi addormento e dormo tantissimo. Mi danno sostanze perché sia più lasciva durante le riprese, dietro ci sono i servizi segreti». La Tommasi ultimamente ha ritrattato tutto dicendo di aver rilasciato tale dichiarazioni solo per farsi pubblicità. Certo è che il beneficio del dubbio ammette anche un'altra ipotesi: che la showgirl possa essere stata ricattata dalla Camorra. La criminalità organizzata gestirebbe il servizio delle escort in tutt'Italia e, tramite Fabrizio Corona e Lele Mora, sarebbe entrata nella fornitura delle prostitute in casa Arcore. Leo Lyon Zagami è un siciliano aristocratico, un massone gran maestro di 33°grado affiliato alla loggia massonica P2 di Monte Carlo, il quale ha rotto i legami con gli illuminati a giugno del 2006 e sta rivelando tutti i segreti inconfessabili del satanismo collegato ai vertici politici degli USA, del Vaticano e dei Gesuiti. Insieme a Zagami, molti altri “pentiti” hanno rivelato segreti che nessuno avrebbe mai potuto conoscere riguardo gli illuminati. L'uomo, che ha vissuto sulla propria pelle i metodi criminali utilizzati dai vertici corrotti di Massoneria e Illuminati che, come denuncia da anni, arriverebbero a utilizzare la manipolazione mentale, la tortura, l’omicidio, il sacrificio di sangue e la pedofilia per compiere i loro obiettivi del tutto “terreni”. Lo SMOM, Corpo Militare dell'Ordine di Malta, avrebbe forti collegamenti con la Cecchignola e ambienti militari italiani. Elio Lannutti, il 17 novembre 2011, presentò un'interrogazione al Ministero della Giustizia e al Ministero della Difesa in cui chiedeva conto delle informazioni a disposizione del Governo sui fatti esposti da Paolo Ferraro e Milica Fatima Cupic. Ancora oggi non se ne sa nulla.

Salvatore Parolisi complice di personaggi innominabili ancora a piede libero: ecco le prove, scrive “La Voce Delle Voci” il 19 Settembre 2015 su “L’Infiltrato”. “Salvatore Parolisi non fu forse assassino ma complice. Di personaggi innominabili”, scrive Rita Pennarola, che in un’inchiesta pubblicata nel 2012 su La Voce delle Voci raccontava una storia cui nessuno dava credito. Salvo ricredersi, come sempre accade con le inchieste de La Voce, dopo anni. Ecco la ricostruzione shock su Salvatore Parolise e i “personaggi innominabili” che sarebbero stati i veri esecutori del delitto. Moventi illogici, che non reggono, eppure diventano prove. Armi del delitto mai trovate. E quell’ombra dei clan che lasciano una firma sul cadavere, senza che nessuno voglia vederla. Lontane dalla prontezza delle Direzioni Antimafia, molte Procure di provincia seguono per mesi ed anni piste passionali, ruotando intorno a gelosie familiari, storie a luci rosse o al massimo sballi da balordi di periferia. Ma ecco come, da Melania alle altre, è possibile ricostruire una storia ben diversa. Manca l’arma del delitto. Oppure è lo stesso cadavere che non viene ritrovato, se non per circostanze del tutto fortuite. O ancora, il movente risulta illogico anche rispetto al più elementare buon senso. Restano così per sempre senza giustizia le ragazze sgozzate e lasciate dentro un bosco seminude, con gli occhi ancora spalancati a guardare il cielo, le mani giunte come in preghiera. Le donne belle e innocenti come Melania Rea. Un classico, la vicenda giudiziaria sul suo tragico destino: corpo ritrovato solo grazie ad un telefonista rimasto anonimo, arma (in questo caso un coltello da punta e taglio) finita chissà dove, movente assurdo. E in carcere con l’accusa di omicidio, ovviamente, il marito. Senza che nessuno (o quasi, come vedremo) dei tanti inquirenti succedutisi intorno a questa atroce vicenda abbia saputo – o più probabilmente, potuto – rispondere ai mille interrogativi lasciati aperti dalla pista passionale. Un quadro da manuale che accontenta tutti, quella moglie gelosa accoltellata dal coniuge innamorato pazzo dell’altra. Così nessuno solleverà più il velo su eventuali traffici della malavita organizzata all’interno dell’esercito. E forse cala una pietra tombale sulle vere ragioni dell’assassinio.

LA LEZIONE DI IMPOSIMATO. «Accade talvolta – dice Ferdinando Imposimato, giudice istruttore nelle più scottanti vicende della storia italiana, da Aldo Moro a Emanuela Orlandi – che il movente di un crimine risulti illogico, non congruente. Ciononostante taluni investigatori continuano a perseguire lo stesso filone d’indagini, che poi o viene smontato in fase processuale, oppure travolge con accuse pesantissime persone risultate poi innocenti». La tesi di Imposimato – che qui non parla in riferimento al delitto Rea, ma risponde ad una nostra domanda sui moventi “illogici” – è stata confermata fra l’altro nel caso della contessa Alberica Filo della Torre: attraverso una rigorosa ricostruzione dei fatti, sulla Voce di aprile 2009 Imposimato smontava la solita pista passionale seguita per vent’anni dagli inquirenti, indicando le responsabilità del cameriere filippino, sbrigativamente scagionato nei primi giorni successivi al delitto. Ed arrestato solo ad aprile 2011, dopo la scoperta del suo Dna in una macchia di sangue nel letto della vittima. «Ero stato colpito – spiega Imposimato – non solo dalla mancata valutazione di indizi che portavano univocamente in direzione del filippino, ma anche da quella che consideravo l’ingiusta incriminazione di alcune persone contro cui non esistevano indizi gravi, precisi e concordanti». Come Roberto Jacono, accusato, arrestato e poi prosciolto, una vita avvelenata da indagini miopi. Perciò ripartiamo da qui. Dalla grande lezione di Imposimato sulla necessità di un solido movente. Che non pare essere un amore folle, per il marito di Melania Salvatore Parolisi. Ma una motivazione forte, come vedremo, manca anche nella ricostruzione giudiziaria attuale di altre vicende che tengono da mesi col fiato sospeso gli italiani. Casi per lo più irrisolti, che nell’immaginario collettivo misurano quanto la nostra magistratura sia in grado di dar pace alle vittime e ai familiari con sentenze e prove definitive. 

IL GIP CHE SAPEVA TROPPO. A disporre l’arresto di Salvatore Parolisi è la Procura di Ascoli Piceno, che indaga fin dal quel giorno (era il 18 aprile 2011), prima per la scomparsa e poi per l’omicidio di Melania, dopo il ritrovamento del cadavere, avvenuto due giorni dopo a Ripe di Civitella. Quest’ultima località è in provincia di Teramo. Perciò, quando a giugno l’autopsia rivela che la donna è stata uccisa nello stesso luogo in cui viene ritrovata, la competenza passa da Ascoli a Teramo. Dove Salvatore, già in carcere, si trova di fronte al giudice per le indagini preliminari Giovanni Cirillo. Non un magistrato qualsiasi, lui. Basti pensare a quel Premio Borsellino assegnatogli nel 2008 durante un incontro pubblico a Roseto degli Abruzzi. Accanto a Cirillo, come relatori, ci sono Luigi de Magistris e Clementina Forleo. Entrambi erano stati colpiti da punizioni “esemplari” ad opera del Consiglio Superiore della Magistratura. La storia di de Magistris e Forleo è nota. Per loro oggi gli effetti di una giustizia non condizionata dai poteri forti stanno finalmente arrivando. Non così nel 2008. Il fatto che in quel tumultuoso periodo Cirillo fosse schierato al fianco dei due coraggiosi colleghi, la dice lunga sulla rigorosa volontà di non lasciarsi condizionare dai ranghi “alti” del potere, quand’anche essi fossero all’interno della stessa magistratura. Cirillo, che conosce a fondo le indagini sul caso Rea, è il gip che il 2 agosto convalida l’arresto di Parolisi richiesto dal pm ascolano Umberto Gioele Monti. Ed è grazie a Cirillo che le attività investigative cominciano ad assumere una diversa fisionomia. Non solo la ricerca spasmodica fra storie di corna a luci rosse e chat per transessuali, ma qualcosa di più solido, quello sfondo inconfessabile di traffici che forse vedono al centro, assieme all’istruttore delle soldatesse Parolisi, interi pezzi della caserma Clementi di Ascoli Piceno. Sembra di essere ad una svolta. Il gip non tralascia alcuna ipotesi, tanto che viene ascoltato il magistrato romano Paolo Ferraro, l’uomo che aveva dettagliato l’esistenza di riti satanici dentro alcuni complessi militari italiani. Il 9 agosto Giovanni Cirillo lascia da un giorno all’altro il tribunale di Teramo. A sorpresa, nel pieno delle indagini sul delitto di Melania, il Csm lo manda a presiedere la Corte d’Assise di Giulianova. Ma lui non molla del tutto. Ed affida a Vanity Fair un’intervista che avrebbe dovuto imprimere la giusta accelerazione alle indagini. E invece è caduta nel vuoto. Il giudice parla con la giornalista di Vanity appena due ore dopo aver lasciato l’incarico: «Da due ore – esordisce – non me ne occupo più, quindi non ho il dovere del silenzio». Cirillo ha ragionato a lungo sulle ragioni alla base del delitto. Sa che la pista della gelosia traballa. E spiega perchè: «Il movente passionale ipotizzato dai magistrati di Ascoli (su cui è interamente basata l’ordinanza di custodia cautelare del pm Monti, ndr), l’idea che Parolisi fosse finito in un “imbuto, stretto fra moglie e amante, non corrisponde alla sua condizione». Di più: «Parolisi non era un uomo disperato, lui con i piedi in due scarpe ci stava a meraviglia e non avrebbe mai lasciato entrambe. I pianti continui con l’amante erano finti, lo scrivono anche i carabinieri nelle intercettazioni: “Finge di piangere”. Inoltre, ha avuto fino all’ultimo rapporti con la moglie. Il movente è un altro». Non può spingersi oltre, Cirillo, consapevole com’è di dover rispettare il lavoro che ha ormai lasciato ai colleghi. Ma uno scenario ampiamente logico e credibile prende corpo dalle sue parole: «Melania – dice il gip – è stata uccisa perché aveva scoperto un segreto inconfessabile, forse legato alla caserma dove Parolisi lavorava. In tutta l’indagine resta un margine di dubbio sul fatto che Parolisi abbia accompagnato la moglie nel boschetto e lì sia intervenuta una persona che, però, non ha lasciato tracce di sé». Questo, aggiunge Cirillo, «sposterebbe tutto su un piano di premeditazione a aprirebbe scenari inquietanti, se Salvatore Parolisi stava rendendo conto a qualcuno di qualcosa che non sappiamo, se la moglie aveva scoperto qualcosa e lui è stato costretto a portarla lì». Non sapremo mai come sarebbero andate avanti le indagini se fosse stato il gip Cirillo a condurle in porto nei lunghi mesi che hanno preceduto il rito abbreviato per Parolisi, iniziato a febbraio e tuttora in corso. Di sicuro, però, nel numero di luglio 2011 la Voce aveva ricostruito questa vicenda in maniera assai simile, con un Salvatore Parolisi costretto dalle sue stesse attività illecite prima a rendersi complice (non sappiamo con quale grado di consapevolezza) dell’assassinio di sua moglie, e poi a tacere, per evitare che dopo la prima, orrenda ritorsione nei suoi confronti, ce ne fossero altre.

LA FIRMA DEI CASALESI. Sì, su quel corpo straziato della giovane mamma di Somma Vesuviana c’è una firma a lettere di fuoco. La firma della camorra. Dopo l’atroce fine di Melania – moglie di un caporalmaggiore che era stato in Afghanistan, e sul cui conto corrente erano stati trovati 100mila euro durante le prime indagini – più nessuno potrà azzardarsi ad agire “in proprio” per trarre profitto da commerci sui canali “esclusivi” di gente come i Casalesi. Un linguaggio, quello degli omicidi di camorra, ben noto a pubblici ministeri e gip che abitualmente si confrontano con corpi “incaprettati” o mutilati in zone particolari, proprio per lanciare un avvertimento agli altri. Storie rimaste sepolte nei fascicoli giudiziari, o sottaciute nel buio dell’omertà per decenni, poi portate alla luce per la prima volta da Roberto Saviano e Matteo Garrone. Oggi sono patrimonio di una certa letteratura, eppure risultano ancora lontane dalla mentalità e dalle attitudini di taluni investigatori, «specialmente – dice un pm antimafia con lunghissima esperienza, oggi in pensione – se parliamo delle Procure di provincia dell’Italia centrale o del Nord, dove le Direzioni Distrettuali Antimafia sono lontane e così pure i metodi investigativi, soprattutto la tempestività delle prime ore, o la conoscenza approfondita di quei dettagli che immancabilmente conducono alle organizzazioni di stampo camorristico». Ma gli indizi, tanti, che nel delitto di Melania Rea potrebbero portare ai clan, pare non abbiano trovato spazio in alcuna attività investigativa specifica. Eppure sono tutti là, a formare una impressionante sequenza. Nei primi giorni di giugno 2011 al 235esimo Reggimento Piceno fa ritorno la soldatessa Laura Titta, napoletana, che proprio presso quel reparto di stanza alla caserma Clementi era stata addestrata nel 2009. Dopo un anno di servizio a Napoli, ormai congedata, stranamente fra aprile e maggio fa domanda per tornare ad Ascoli. Tanto nel 2009 quanto nel giugno 2011, dentro quella caserma l’addestratore delle reclute femminili è il caporal maggiore Parolisi. Ma quando il 14 giugno le forze dell’ordine inviate dalla Dda partenopea arrivano alla Clementi per arrestare la Titta nell’ambito delle indagini sul boss Michele Zagaria, il fresco vedovo Parolisi dichiarerà agli inquirenti ascolani che lui la Titta non la ricorda, non l’ha mai frequentata. E tanto basterà, tanto sarà sufficiente ad allontanare l’immagine dei boss che estendono il loro potere nei reparti delle caserme, infiltrandosi tra le nostre forze armate. La reputazione dell’esercito, anche stavolta, è salva. Anche perché nessuno fra i tanti militari che erano in quell’area il 18 aprile, a quell’ora, per esercitazioni, ha sentito nulla, neppure un gemito della donna colpita con 37 coltellate. E per tutti va bene così.

DA KABUL A TOLMEZZO. Poi c’è un’altra donna. La cui storia, ben al di là di tutte le vere o presunte amanti di Parolisi, serve a chiarire i contorni degli inconfessabili traffici che probabilmente andavano avanti da tempo in quella, come forse in altre caserme italiane. Il 13 agosto del 2011 Alessandra Gabrieli, 28 anni, caporalmaggiore dei parà nell’esercito italiano, viene arrestata a Genova, la sua città, per spaccio di eroina. Il volto segnato dalla droga, la ragazza racconta agli investigatori: «Mi hanno iniziato all’eroina alcuni militari della missione Isaf di ritorno dall’Afghanistan. È successo nel 2007 ed eravamo nella caserma della Folgore a Livorno. Ritengo che quello stupefacente, molto probabilmente, venisse portato direttamente dall’Asia». La giovane, che a settembre è stata condannata in primo grado a tre anni e mezzo di reclusione, aveva raccontato agli inquirenti che quanto capitato a lei era già successo ad altri colleghi. Aprendo di fatto la strada ad un’indagine della magistratura militare sui traffici nelle caserme italiane di droga proveniente dall’Afghanistan, che ne è notoriamente il primo produttore al mondo, con un fatturato salito alle stelle dopo l’arrivo delle forze Isaf. Altra centrale di smercio per hashish e dintorni in arrivo dalle “missioni di pace” deve poi essere stata un’altra caserma, quella degli Alpini a Tolmezzo, dove ha peraltro prestato servizio a lungo Salvatore Parolisi di ritorno dall’Afghanistan e prima di arrivare ad Ascoli. Un anno fa, ad aprile 2011, proprio nello stesso periodo in cui Melania viene assassinata, dentro la caserma di Tolmezzo qualcuno scopre che le canne dei fucili rientrati dall’Afghanistan sono imbottite di hashish. Un ritrovamento casuale, che porta alla scoperta di 360 grammi di sostanza stupefacente contenuta nei fucili. Un metodo ingegnoso, che ricorda tanto l’arte di arrangiarsi. Fatto sta che nessuno si presenta a ritirare quei fucili, benché la notizia delle indagini non fosse stata ancora diffusa. Unico indagato, un militare nato a Capua, che però nega ogni addebito. Ad oggi non si sa nulla né dell’inchiesta aperta dalla Procura militare, né di quella condotta dalla magistratura ordinaria, dopo che i fascicoli erano stati trasferiti da Tolmezzo a Roma. Indizi, solo indizi. Ma come non soffermarsi sulla loro evidenza? Perché ostinarsi a considerare un “depistaggio” quella siringa conficcata sul petto dilaniato di Melania, con accanto un laccio emostatico? «Quasi un marchio – commenta un avvocato del vesuviano da sempre alle prese con omicidi di camorra – quella siringa sul petto. Interpretando bene certi segnali, farebbe pensare più ad una tremenda punizione per il marito, con relativo avvertimento per gli altri, che alla necessità di sopprimere un testimone scomodo, cosa che generalmente i clan fanno con modalità meno appariscenti». E tutto questo, spiegherebbe anche le frasi che Parolisi dice nei primi minuti dopo aver denunciato la scomparsa della moglie («me l’hanno presa»), o le frasi che bofonchia con rabbia da solo in macchina («gli devo strappare il cuore dal petto, mi devo fare trent’anni ma lo devo fare»), e infine lo scambio di battute con la sorella Francesca (lei: «ora esce fuori tutto». E lui: «mi dispiace che ci ha rimesso Melania»). Salvatore sa. Conosce il volto degli assassini, di cui è stato in qualche modo complice. Ma sa ancor meglio che non può e non deve parlare. È la “legge” ferrea della camorra. Se parli, tu o i tuoi familiari prima o poi farete la stessa fine.

PAOLO FERRARO, magistrato di sinistra si candida con Forza Nuova, scrive Emanuele Nusca. Alla fine anche lui si è candidato: il magistrato di sinistra Paolo Ferraro si candida con Forza Nuova alle prossime elezioni politiche. Ferraro sarà capolista nel Lazio delle liste di Forza Nuova. L’annuncio arriva da Roberto Fiore, segretario nazionale del partito. Un’alleanza trasversale tra ex di destra e sinistra che vuole andare al di là degli schemi politici per meglio rappresentare le esigenze della società attuale. In definitiva Ferraro ha scelto di entrare nelle fila di F.N., partito di estrema destra che lo ha accolto dopo la contesa con la Rete dei Cittadini. Paolo Ferraro è sul web dal 201o quando inizia la sua operazione divulgativa della personale esperienza di magistrato controcorrente che scopre, all'interno dei palazzi, vari sistemi spaventosi di controllo mentale, denominati Progetto MONARCH e MK-Ultra e sistemi di massonerie deviate e sette sataniche che agiscono in seno allo stato che noi concittadini continuiamo a credere tale e definire come Italia. Nei numerosi blog scritti nel tempo, Ferraro riassume tutte le vicende che lo hanno portato a documentare le più grandi porcherie che lo stato italiano sia mai stato in grado di concepire attraverso insospettabili colleghi magistrati e militari che operavano ed operano tutt'ora nelle strutture che dovrebbero garantire la nostra sicurezza, quella dei cittadini Italiani. Pare quindi, che abbia tutte le intenzioni di svelare al grande pubblico le sue scoperte e di formare una forza politica che sia in grado di unire il più possibile correnti di pensiero diverse. Sul blog si legge: Il creare una alleanza trasversale e un polo alternativo UNIFICANDO insieme correnti moderate, ed ex di destra e sinistra, con una operazione storico politica mai realizzata, in Italia, richiede una grande elasticità e capacità di rivedere schemi ed etichette.

DAL CASO FERRARO ATTRAVERSO LA GRANDEDISCOVERY, ALLA ENUCLEAZIONE DEL GOLPE STRISCIANTE E DELLE ATTIVITA' E METODOLOGIE CRIMINALI, SINO ALLA RICOSTRUZIONE DEL RUOLO TATTICO E STRATEGICO DELLA "SUPERGLADIO" E DELLA SUA COMPOSIZIONE. SCHEDA RIASSUNTIVA E ARTICOLI RILEVANTI SULLA "SVOLTA" del 2014 2015, si legge sul blog di Paolo Ferraro.

Solo due parole di premessa: un mobbing orizzontale e verticale criminale e posto in essere mediante una impressionante sequenza di falsi ed attività illecite anche a copertura, estrema, nasce da sentimenti inferiori e accerchia un soggetto. In questo caso un soggetto che si ritiene da eliminare per doti, qualità e per non appartenenza ad ambiti socio antropologici e sotterranei di casta. Questa era ed è la chiave di lettura principale, ma posizionata sul piano individuale e sottaciuta sino ad oggi. Mi venne confermato e detto sinanche da Solange Manfredi e glielo aveva analiticamente detto e confermato concreta persona ben interna a quegli ambienti e contemporaneamente cooperante coi servizi. Chiedeteglielo per conferma (non mi costringete a dare la "solita" prova). Mancava integralmente la lettura storico politica e questa è divenuta completa e possibile con quattro anni di lavoro, perchè nella smania malata di distruggere Paolo Ferraro sono stati messi in campo il top delle attività e delle metodologie ed il TOP dei rispettivi referenti. SE e quanto a valle dopo la "scoperta" della Cecchignola e le ulteriori a cascata, vi sia stata una diretta valutazione ancor più "superiore" interferente non possiamo dire con la stessa assoluta certezza con la quale abbiamo informato che a livello nazionale fu "una scelta condivisa". Ma a carte scoperte detto la nitidezza di alcune nostre analisi geopolitiche e storiche e la nostra integrale ricostruzione di forze, metodologie, strumenti ed attività sul piano tattico e strategico, non ha   giocato nel 2011 e 2012 a nostro favore: ha "aggravato" il giudizio sulle nostre effettive qualità personali, e reso "inevitabile" il tentare di portare a termine la nostra totale distruzione. Senza dimenticare che i due esposti memoria dell'ottobre novembre 2012 avevano fatto saltare sulla sedia vari sepolcrini sbiancati dalla preoccupazione: di qui anche la sguaiata e folle reazione del tentativo/proposta di amministrazione di sostegno nel 2013.  Poi i nostri “approfondimenti” con prove analitiche nel 2014, le azioni sotterranee e rappresaglie tra la fine del 2013 e il giugno 2015, e le ulteriori prove che hanno definitivamente posto allo SCOPERTO tutto ed un nucleo operativo che si poggia su basamenti non solo nostrani.  Ora sapete bene e con prove e riscontri analitici quello che per ventitre anni è stato fatto. LA GRANDEDISCOVERY per punti essenziali e metodo. La semplice verità è che quello che ho inizialmente scoperto e che mi ha portato a capire è successo a me ed in quanto tale (anche se vi sono cose simili successe a molti, selezionati per colpirli) solo a me... e la scommessa è stata dimostrarlo in toto ed in vitro facendo rivivere integralmente in audio ed analisi tutto. Dovete tutti aiutare me e voi a vivere l'esperimento reale e concreto che ho messo INTEGRALMENTE a disposizione perché ciò apre cervello cuore istinto ed anima. Il resto, analisi e approfondimenti, viene da solo ... o si capisce solo con la integrale intelligenza di un reale NON PROPRIO rivivendolo anche interiormente come proprio. Solo così il sapere REALE OGGETTIVO scientifico si trasmette profondamente e realmente. Ecco il perché della mia attenzione agli audio ed a vari aspetti emotivi descritti o trasmissibili mediante percezione diretta. LA GRANDEDISCOVERY E' UNA GRANDE SCOMMESSA, la prima della storia ... Questo è certo per tutti gli elementi e le realtà che vi confluiscono e per la intermediazione sui vari piani da me gestita e portata avanti. Entrare e capire, far entrare e far capire. Questo il compito collettivo primario, contrastando i disinformatori e le manovrette atte a cercare di togliere dimensione ed idea al tutto. Poi le analisi più storiche o sofisticate ed il progetto fatto di cultura prove e politica che andiamo costruendo. COMUNQUE ....per i pigri inguaribili (e gli gnorri in malafede) semplifichiamo qui,  segnalando che sono le prove concrete e le analisi ed i riscontri che contano con metodo concreto e storico documentale, empirico e investigativo (gnosis, e cioè conoscenza reale scientificamente riscontrabile, mediante attività di intelligence ), non i meri "racconti": un magistrato ( noto, impegnato e ancor più stimato nel mondo giudiziario romano e diagnosticato per caratteristiche e doti da tempi addietro) viene “messo in mezzo “ con tecniche varie in stile servizi deviati, sin dal 1992, e già attenzionato da prima, ma scopre sempre qualche minuto prima quello che non doveva scoprire e che svela un intero vaso di pandora coinvolgente anche mondi militari ed altri ( oltre quello che gli accadeva vicino), quando nel 2008 riesce ad acquisire prove che gli consentono di capire ed avviare una vera e propria inchiesta, "sotto attacco concentrico". Per tappargli la bocca, visto che continuava ad approfondire e capire, lo sequestrano nel 2009 con una attività da tempo costruita nei suoi presupposti a tavolino dalla psichiatria deviata secondo i moduli dell'ancient Tavistock Institute (ti accerchiano, distruggono famiglie e situazioni personali e poi cercano di tombare il tutto compreso l'accerchiato). L'operazione non riesce per vari motivi, tra cui carattere coriaceo e speciale attitudini della vittima predestinata, così come falliscono ed erano falliti i vari tentativi distruttivi e di inserire step e profili nella vita dello stesso magistrato, un po' ingenuo e puro ma tanto tanto "odiosamente" intelligente. Di fronte ad una valanga di prove montante cercano di delegittimarlo per la via della ignominiosa dispensa dal servizio, ma questa è talmente incongrua sul piano della nota e reale professionalità del magistrato che fanno l'ennesimo autogol, a prescindere dal coacervo di falsità costruite a tavolino e manipolatorie. Non paghi perseguono la via del distruggerlo tramite la morte civile e l'infangamento e sinanche un incredibile tentativo di nominare amministratore di sostegno, dopo aver avviato lo strangolamento economico, destituendolo. Da ultimo tra il settembre 2013 ed il giugno 2015 nel tentativo a tenaglia di distruzione dell'uomo ed intellettuale, e dell'ultimo rapporto interpersonle (quinto) emergono prove finali conclusive su vari piani, di rilievo generale. Dalla analitica ricostruzione con prove del tutto emerge, e viene progressivamente analizzato, uno spaccato tecnico metodologico, storico strategico a matrice anche internazionale, e la normalissima e vera identità di quelli che si definiscono "poteri forti" e che forti non lo sono più perchè INTEGRALMENTE posti allo scoperto, sinanche nei patti e legami con associazioni criminali territoriali.   LA "SUPER GLADIO" come associazione per delinquere condivisa "bicromatica", strettamente inquadrabile nella configurazione legale delle associazioni di stampo mafioso, alla cui scoperta finale si erano "solo" avvicinati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.  LA SUPER GLADIO.  RISPOSTA A CHI OSCILLAVA TRA IL CHIEDERE E PROVOCARE: "Una organizzazione siffatta, composta ai vertici da una nomenclatura trasversale di qualche centinaia di persone di casta pubblico privata e militare e conseguente articolazione sociale (non sufficientemente guidata in modo diretto), con un cordone cultural operativo e teorico alimenta artificialmente il mito di sè (stessa) attivando tutti i simboli, metodiche e strumenti che si poggiano su ignoranza, subcultura e "primitività". Una volta scoperta è inerme, ma può ancora contare sul potere individuale dei singoli e sulle coperture di sistema e sotto alleanze. Una volta spezzata la coesione, disarticolate le alleanze perché incrinata la subalternità, può ancora contare sulle coperture di sistema e sul "lavoro" di "pubblicità" informativo propagandistica e di condizionamento culturale, ma "verso il basso". Non appena disarticolata la "fascia di copertura" inesorabilmente, in fase di crisi, è assoggettata al vaglio di opportunità della sua sopravvivenza e il numero dei "caduti" è direttamente proporzionale alla intensità del giudizio di inopportunità suindicato ed alla incisività della lucida azione avversa. La banalizzazione umana di Aleppe coincide con la sconfitta della organizzazione criminale storicamente determinata. Si riapre poi il nuovo ciclo storico. "Satana" in terra (banali uomini e organizzazioni segrete) è nudo e ormai, grazie al nostro lavoro la gente, e le istituzioni non deviate vedono uomini ed associazioni criminali per quello che sono, sotto copertura e non - di fiori colorati -  " Con ciò introducendosi una riflessione dal titolo illuminante: "LA MITIZZAZIONE AUTOGENA DELLE MOLTEPLICI REALTA' OPERATIVE OCCULTE DELLA SUPERGLADIO tra simbolismo, racconti terrifici, informazioni devianti e numerologie primordialiste". Ma vi è anche un  sottotitolo più semplice, per il diverso simpatico avvocato Franceschetti e correlati disinformatori di "apparato",  e per gli adepti del blog della "crusca della scuola", ostinati nel loro infantile ruolo denigratorio, scambiato per missione disinformativa: " Come ti mitizzo una organizzazione criminale non legata al territorio, e le sue operazioni ed attività, disegnandola come realtà esoterica invincibile implacabile, pericolosa , ingenerando artificialmente omertà e mantenendone la segretezza: Non era il sistema, non era la Rosa rossa. E' un apparato deviato e segreto che ha "esaurito " il suo ruolo tattico, e non lo sa, lo teme solo, confusamente, e confusamente ormai agisce. Liberiamo l'Italia. LA GRANDE DISCOVERY IL CASO PAOLO FERRARO E LE SORTI DELLO STATO. La grande discovery, un'inchiesta circostanziata e corredata da un concreto impianto probatorio attraverso cui si delinea il quadro di una occupazione sistematica dei gangli vitali delle istituzioni da parte di organizzazioni deviate incistate nel cuore dello Stato e nelle sue articolazioni. Ruoli, metodologie, strumenti e tecniche vengono messi a nudo così come messi a nudo protagonisti e una dimensione strategica ignota prima. Il golpe scientifico ed il ruolo della SUPER-GLADIO ed i collegamenti internazionali necessari emergono dettagliatamente. IL CASO PAOLO FERRARO utilizzato come pietra di paragone, strumento di analisi con prove e passpartout alla conoscenza dei sedimenti del vero potere sotterraneo che tiene parzialmente in pugno Repubblica e i tre poteri dello Stato, proprio in quanto il magistrato noto e stimato fu attenzionato e "diagnosticato" sin dal 1992 come un pericoloso potenziale "successore" troppo capace, indipendentemente e rigoroso per non essere fermato, accerchiato, gestito ed infine ( a scoperte avvenute) sottoposto al tentativo di distruzione più eccellente che sia a noi noto. Il CDD (Comitato Difendiamo la Democrazia) indica tappe e strumenti di un apparato criminale che può essere fermato ora che sono individuati proprio i segmenti anche istituzionali e normativi che ha posizionato in un ventennio ed oltre di marcia sotterranea, e che ne è plasticamente raffigurata già una prima nomenclatura di vertice. La partita si gioca sensibilizzando le quote residue degli apparati legali e non deviati dello Stato e se così non fosse avremmo già perso in partenza,  combattendo contro un apparato illegale che ha assommato la forza dello Stato deviata, la forza militare anche internazionale, la forza criminale della grande criminalità organizzata, la potenza degli apparati psichiatrico sociali magistratuali costruiti sotterraneamente per venti anni e di metodologie  tecniche e attività di controllo su vari piani frutto della “intelligence” internazionale, mentre tutti guardavano,  abbindolati, al gioco della politica visibile. A ciò si aggiunge la potenza intrinseca del capitalismo finanziario nonchè infine la FORZA OGGETTIVA DISTRUTTRICE DELLA CRISI STRUTTURALE DEL CAPITALISMO, almeno nell’anziano occidente in particolare mediterraneo, ad oggi. Il nuovo progressivo regime totalitario a copertura pseudo democratica che va macinando diritti libertà e sicurezza sociale, e squinternando valori società e altro, si ferma solo chiamando a raccolta tutte le risorse sociali, statuali ed internazionali, su una analisi completa e chiara e su proposte e priorità conseguenti.

Ascolta il video su “Vera Tv”. Si parla anche del luogotenente De Cicco. Si parla del luogotenente dei Carabinieri De Cicco, in gravissime condizioni all’ospedale per un brutto incidente. E’il quarto episodio che De Cicco subisce. Le telecamere avrebbero permesso di vedere che contro l’auto di De Cicco si è schiantata in contromano un’altra vettura. Commenta Paolo Ferraro: Imposimato tace imbarazzato su Paolo Ferraro, vicende denunce e contesti, e racconta che tra MD e Falcone vi era mero dissenso su mera questione istituzionale strategica, la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, tra l’altro senza neanche spiegare perchè Falcone voleva una maggiore garanzia di giurisdizionalità. VERGOGNA. Chi ha l’ardire di raccontare che vi era mero dissenso tra Falcone e la nomeKlatura di MD e che il tema era “la separazione delle carriere” fa una operazione “amplificatrice di false versioni che hanno gestito la copertura della guerra grave e sotterranea in atto dalla seconda metà degli anni ottanta. Una operazione pertanto semplicemente di sviamento ed occultamento...sul fronte protetto interno della vera supermassoneria di apparato … E lo fa mentre era assente allora e non conosceva…

Eppure Imposimato lo conosciamo con una veste diversa.

Quando il giudice diventa complottista…, scrive John B su “Giornalettismo. Ad alimentare il circo delle teorie complottiste ci si mettono anche i magistrati… Ferdinando Imposimato è uno di quei magistrati che hanno legato il loro nome ad alcuni dei più grandi (se non grandi discussi) misteri della storia italiana degli ultimi decenni. E’ stato responsabile dell’inchiesta giudiziaria per il tentato omicidio di Papa Wojtyla, per il quale fu arrestato Ali Agca, sospettato di aver agito per conto di servizi segreti esteri che volevano togliere di mezzo il papa che stava mandando a rotoli il Patto di Varsavia e la Cortina di Ferro. Prima ancora aveva diretto le indagini sul rapimento di Aldo Moro ed ha preso parte – sempre in qualità di magistrato – a importanti inchieste sugli affari di mafia. Da ultimo ha detto la sua sul caso della sparizione di Emanuela Orlandi, un altro mistero che chiama in causa terribili intrecci tra Vaticano, servizi segreti italiani e stranieri, mafia e banchieri. Adesso Imposimato è un avvocato, nonché presidente aggiunto (onorario) della Cassazione. Tra le tante cose di cui si è occupato gliene mancava una: gli attentati dell’11 settembre 2001. Ma ha rimediato con un annuncio che sta già facendo discutere Web e media. Imposimato sostiene che la CIA sapeva in anticipo degli attentati e non ha fatto nulla per evitare che accadessero. Di più: secondo Imposimato i grattacieli del World Trade Center erano infarciti di esplosivi preposizionati che ne causarono il collasso. La teoria complottista della demolizione controllata delle Twin Tower e dell’Edificio 7 è una tra le più datate e diffuse storielle messe in giro dopo l’11 settembre, ancora oggi cavalcata da una nutrita schiera di sostenitori dell’auto-attentato. In Italia è sostenuta da Giulietto Chiesa (giornalista), Massimo Mazzucco (regista e fotografo), Maurizio Blondet (scrittore), Dario Fo (attore), Franco Cardini (storico medievale), giusto per citare quelli più conosciuti. Negli Stati Uniti la tesi della demolizione controllata è abbracciata da Steve Jones (fisico nucleare), David Ray Griffin (teologo), Richard Gage (architetto) e una innumerevole schiera di altri personaggi che fanno da contorno. Inutile dire che dopo dieci anni di teorie di ogni genere (l’ultima è quella dell’utilizzo di un esplosivo “spalmabile”, derivato da un composto chiamato nano-termite) nessuno è mai riuscito a produrre uno straccio di prova a sostegno di queste fantasie. Imposimato sembra convinto di poter ribaltare la situazione e di riuscire a dare “dignità giuridica” alle teorie complottiste, portando il caso diritto davanti al Tribunale Internazionale dell’Aja. Almeno questo è un elemento di novità: finora i complottisti si erano guardati bene dal rivolgersi ai giudici nonostante affermino da dieci anni che le prove del complotto sono schiaccianti ed evidenti (infatti le hanno trovate strimpellando sui tasti del PC e navigando sul Web). Vedremo come va a finire, considerato che la comunità scientifica (quella vera) non solo non ha alcun dubbio sulla responsabilità di Al Qaeda ma ha anche prodotto fior di documenti che spiegano le dinamiche dei collassi attribuendole alle caratteristiche intrinseche del materiale strutturale (acciaio) e all’azione combinata degli impatti e del calore sviluppato dagli incendi. Né va sottaciuto che un vero e proprio processo c’è già stato: il processo Moussaoui (il cosiddetto 20° dirottatore) ha analizzato ogni particolare relativo agli attentati, comprese le indagini dell’FBI e le segnalazioni della CIA, senza riscontrare alcuna responsabilità di natura dolosa a carico delle autorità americane. Tra l’altro, gli atti delle inchieste ufficiali già hanno evidenziato che non tanto la CIA, quanto proprio l’FBI aveva elementi utili per individuare e rintracciare alcuni dei dirottatori (lo stesso Moussaoui, Al-Mihdhar, i fratelli Al-Hazmi) dopo il loro ingresso in USA, ma gli investigatori ebbero le mani legate dal sistema di garanzie procedurali previste dall’ordinamento giuridico americano (circostanza che ha contribuito non poco alla stesura del controverso Patriot Act). Addirittura uno degli agenti dell’FBI che lavoravano sulle tracce di quei terroristi inviò un messaggio profetico ai suoi colleghi: “Qualunque cosa succeda, un giorno qualcuno morirà, e procedure o meno la gente non capirà per quale ragione non siamo stati più efficaci e non abbiamo dedicato ogni risorsa disponibile per affrontare questa minaccia. Speriamo che la Sezione Legale dell’FBI vorrà difendere questa decisione, specialmente nel momento in cui si saprà che a Osama Bin Laden, la nostra più grande minaccia, sono applicate tutte le garanzie giuridiche”. La teoria di Imposimato, secondo cui la CIA non informò l’FBI, è quindi sbagliata già in premessa. La cosa curiosa è che tutto questo è scritto nero su bianco sul Joint Inquiry, il rapporto definitivo dell’inchiesta condotta dal Congresso americano sull’operato dei servizi di intelligence e di contro-terrorismo con specifico riferimento al fallimento nel prevenire gli attentati dell’11 settembre. Questo rapporto ha preceduto il ben più noto 9/11 Commission Report ed è di gran lunga più importante perché mette a nudo tutti gli errori e le manchevolezze del sistema di sicurezza anti-terrorismo degli Stati Uniti in quegli anni. Probabilmente nessun complottista lo ha mai letto, compreso Imposimato. Del resto chi volete che si metta a studiare un rapporto di 838 pagine? A leggere ciò che scrivono i complottisti, si capisce bene nessuno di loro ha letto nemmeno il 9/11 Report, che di pagine ne ha la metà. Non è nemmeno il caso di parlare dell’inchiesta del NIST o degli atti del processo Moussaoui: decine di migliaia di pagine e documenti. Purtroppo l’aspetto più triste della vicenda è la ricaduta sull’immagine e sul prestigio della magistratura, già notevolmente compromessa da altri episodi. A Imposimato (che di recente ha dichiarato che Emanuela Orlandi è viva e risiede in Turchia assieme ai suoi rapitori) si aggiungono le fantasiose teorie di Priore sulla strage di Ustica, a loro volta riprese recentemente da altri magistrati di rito civile, per non parlare delle sconcertanti “rivelazioni” del sostituto procuratore Paolo Ferraro su sette sataniche massoniche e poteri occulti che controllerebbero quasi ogni aspetto della nostra società. Ci sono almeno un paio di lezioni da trarre da queste vicende. La prima è che queste fantasiose teorie, sostenute anche da persone così “prestigiose”, finiscono per ipotecare la possibilità che informazioni serie e fondate riescano a emergere dal minestrone. La seconda è che la referenzialità di un individuo non è mai sinonimo di veridicità delle sue affermazioni. A quanto pare la paranoia del complottismo può colpire chiunque (anche se sembra manifestarsi con maggiore frequenza con l’avanzare dell’età anagrafica…) e qualsiasi valutazione non può prescindere dalla sussistenza di elementi oggettivi (prove documentali innanzitutto). In conclusione, non si può che rimanere estremamente perplessi e sconcertati, ove si rifletta sul fatto che troppo spesso le nostre vite e le speranze di fare chiarezza su vicende molto gravi sono affidate a persone che solo nel tempo rivelano abnormi tendenze paranoiche. Forse sarebbe il caso di implementare meccanismi che consentano di individuare per tempo certe anomalie, almeno per coloro che esercitano funzioni pubbliche così delicate.

Sono le 12.48. E' il 18 aprile 2011, un lunedì. Sul Pianoro di Colle San Marco, luogo di scampagnate e di giochi sopra Ascoli Piceno, un uomo si aggira disperato. Tiene in braccio una bambina e cerca sua moglie. L’uomo è il caporalmaggiore dell’esercito Salvatore Parolisi, la donna scomparsa è Carmela Rea, che tutti chiamano familiarmente Melania.

"Lo strano caso di Melania Rea" (edito da da Fivestore - R.T.I S.p.A e collana di una serie di Quarto Grado) è il primo libro su un mistero fatto di bugie, tradimenti, segreti. Un delitto che divide l'Italia.

Tutto parte da una misteriosa sparizione e dal successivo ritrovamento del cadavere. Da lì, da quel bosco, inizia uno dei casi più intricati, contraddittori delle nostre cronache giudiziarie, un giallo in cui tradimenti, segreti, bugie e sesso sfociano purtroppo in un finale orribile. La penna è quella attenta di un abile scrittore e cronista di nera, Antonio Delitala, giornalista professionista, saggista, che è mancato all’improvviso poco prima di veder pubblicata la sua opera. “Scrivere di un delitto non è motivo di morbosità. E' il desiderio di capire le cose, di scoprire l’umanità sofferente che li ha generati”. Particolari inediti, trascrizioni degli interrogatori, confessioni di Salvatore Parolisi (unico indiziato dell’omicidio di sua moglie) allo stesso Delitala, arricchiscono il racconto di questo giallo che è ancora un mistero assoluto della cronaca nera italiana. Lo Strano Caso Di Melania Rea non è dunque solo un triste eufemismo col quale appellare uno dei casi di cronaca nera più tremendi ed inspiegabili dell’ultimo anno. E’ una tragedia che porta a sondare i numerosi dubbi che l’opinione pubblica si pone sulle coincidenze e le contraddizioni del caso. Ma soprattutto è un libro in cui l'autore cerca di mostrare l’interiorità di Salvatore Parolisi, un Parolisi diverso e leggermente psicanalizzato da colui il quale era diventato suo speciale confidente, Antonio Delitalia appunto, un giornalista che si era appassionato al caso dell’omicidio Rea ed aveva da sempre portato avanti l’innocenza del Parolisi. Si mostra nel testo tutta la visione più sofferente di un Parolisi che ha vissuto barcamenandosi tra due storie incompatibili, quella con la moglie e quella con l’amante. E, tra sogni premonitori ed incubi nei quali rivede il volto della moglie, Parolisi non sembra chiarire i punti ancora oscuri di questa vicenda. Ed è proprio questo non saper spiegare o non voler spiegare a rendere poco credibile la sua innocenza.

"Scarsa sensibilità per il dolore di una famiglia che ancora non si capacita della perdita di Melania", spiega l'avvocato Mauro Gionni per esprimere il proprio disappunto circa l'iniziativa dei giornalisti Ilaria Mura e Antonio Delitala. Questi ultimi hanno infatti realizzato il progetto di pubblicazione del volume "Lo strano caso di Melania Rea", in cui si narra delle vicende relative all'omicidio della giovane donna di Somma Vesuviana scomparsa il 18 Aprile e ritrovata accoltellata dopo due giorni nel Bosco delle Casermette in zona Ripe di Civitella. Il rappresentante legale di parte dei Rea ha chiarito che il libro è "una pubblicazione inopportuna, considerando che le indagini sono ancora in corso, e che - sostiene l'avvocato - contiene solo riferimenti ad atti parziali, frasi mai dette, o comunque riportate non fedelmente di agenti, avvocati, e altri.

L'uomo, secondo quanto riferito dai colleghi del caporalmaggiore, mentre amici e parenti cercavano la povera Melania, trascorreva le sue ore in caserma. Gli stessi colleghi hanno suggerito a Parolisi: "Forse tua moglie aveva una relazione con un altro uomo, forse è scappata con un altro". I militari, peraltro, alle forze dell'ordine nel corso di un interrogatorio hanno riferito che Parolisi tra il 18 e il 20 era molto preoccupato in parte per la scomparsa della moglie, ma soprattutto per la possibilità che le recenti vicissitudini potessero portare allo scoperto le relazioni extraconiugali che intratteneva con altre donne.

Nel corso delle indagini è stato sentito l'ex sostituto procuratore aggiunto di Roma, Paolo Ferraro; il suddetto aveva portato avanti delle indagini sulle eventuali presenze massonico-sataniche entro l'ambito militare. Per dar credito alle testimonianze raccolte, l'uomo sarebbe stato sottoposto a due perizie psichiatriche che l'hanno identificato come individuo sano di mente. Tali accertamenti si sono resi necessari in quanto il Consiglio superiore della magistratura lo aveva sospeso per quattro mesi per presunta infermità mentale.

Secondo quanto dichiarato dall'uomo, le sue problematiche si sarebbero sviluppate in concomitanza con l'inizio di quel tipo di indagini all'interno del contesto militare nella caserma romana della Cecchignola. Ferraro, in presenza dei pm Davide Rosati e Greta Aloisi, ha dichiarato di aver visto una donna molto simile alla vittima in prossimità della Procura di Roma un po' di tempo prima della inspiegabile scomparsa. Non è ancora stata resa nota l'attendibilità delle dichiarazioni, ma tale avvenimento potrebbe trovar riscontro nella dichiarazione rilasciata da una amica di Melania, Imma Rosa, la quale aveva sostenuto che la donna dopo aver scoperto la relazione extraconiugale del marito con una collega di lavoro, aveva in un primo momento pensato al suicidio e successivamente pensato di procedere per via offensiva denunciando pubblicamente la storia dei due amanti. 

Obiettivamente la denuncia avrebbe danneggiato a livello lavorativo tanto il marito della vittima, Salvatore Parolisi, quanto la sua amante, Ludovica Perrone. Quest'ultima avrebbe infatti riferito agli inquirenti di aver ricevuto minacce dalla vittima nel corso di una conversazione telefonica.

Unico indagato del delitto è il marito della vittima, il caporalmaggiore Parolisi, con l'accusa di omicidio. Intanto vi è un evento strano a danno degli investigatori. É un lavoro da esperti professionisti, ribadiscono gli investigatori: sono state prese di mira due colonne della magistratura e delle forze dell'ordine teramane. Il maresciallo ha condotto le indagini per tutti gli eventi criminosi avvenuti a Teramo. Il giudice ha esaminato il caso Enichem, l'omicidio Fadani e Rea.

Nella notte tra venerdì 18 e sabato 19 novembre 2011 chi ha cosparso di benzina le auto lo ha fatto in modo per così dire professionale, professionisti che hanno operato sapendo esattamente cosa e come fare, ben conoscendo i possessori delle due macchine parcheggiate in via Colombo e via Brescia a Martinsicuro. Marina Tommolini, è stata giudice monocratico a Giulianova e Teramo prima di diventare giudice per le indagini preliminari. È stata anche pretore a Manfredonia, si è occupata di indagini importanti legate alla Enichem, e dell'omicidio Fadani, ed è anche il gip che si dovrà occupare del caso di Salvatore Parolisi. Il maresciallo Spartaco De Cicco è un uomo di spicco del reparto operativo provinciale dei carabinieri. Ha condotto le indagini su tutti gli omicidi degli ultimi tempi, dal caso Fadani a quello di Adele Mazza. Oltre che a vaste operazioni antidroga effettuate in provincia. Gli orari del doppio attentato si possono desumere dalle telefonate di allarme giunte ai vigili del fuoco: la prima alle 5.14, quando in via Brescia brucia l’Audi A4 del maresciallo De Cicco poi alle 5.35, l'allarme per l'incendio in via Colombo che interessa l’Audi A6 bianca del magistrato. I piromani hanno scavalcato il recinto di cemento cospargendo di benzina la vettura, immediatamente prendono fuoco carrozzeria e pneumatici. In seguito all'allarme giungono il prima possibile i vigili del fuoco da Teramo, Nereto e Roseto degli Abruzzi spegnendo il rogo, ma oramai le auto sono carbonizzate. Le indagini si concentrano nei fascicoli delle indagini tenute dal giudice e dal sottufficiale, si cerca anche un solo indizio che unisca i due attentati.  L'unica cosa certa per adesso è il chiaro messaggio intimidatorio che è stato lanciato come una sfida alle istituzioni dalla malavita.

Un magistrato di Teramo e un ufficiale dell'arma di Teramo, che si occupano del caso Melania Rea, sono stati entrambi vittime di due attentati incendiari ai danni delle loro vetture, realizzati alle cinque di mattina del 20 Novembre. Pochi giorni prima era stata acquisita per tre ore dalla Procura di Teramo la testimonianza dettagliata del magistrato dott. Paolo Ferraro, in merito: alla denunciata "presenza di sette esoterico sataniche a partire dall'esercito; alle possibili connessioni e coperture; al coinvolgimento di magistrati, avvocati, e psichiatri arruolati; alle indicazioni relative alla inquadrabilità del fenomeno in un contesto più ampio, che lascia intravedere rapporti e intrecci tra massonerie, satanismo, poteri deviati, aldilà delle correlazioni con il "caso" Melania Rea. E sono stati depositati dati e banca dati che illustrano altresì ascendenze internazionali con utilizzo di tecniche e strumenti elaborati in ambiti militari e dei servizi ". Intimidazioni a giornalisti, silenzio della stampa ufficiale e una miriade di piccoli fatti fanno da corollario, oltre alle intimidazioni e persecuzioni subite dal detto ultimo magistrato. Allontanato dal C.S.M. per una presunta e mai dimostrata "Infermità", il dott. Ferraro è il Pubblico Ministero che indagava su una organizzazione militare che coinvolgerebbe gli alti vertici del potere in massoneria occulta, pedofilia, sette sataniche. La reazione dei cosiddetti poteri forti nei confronti del P.M. non è tardata ad arrivare. Ma anche gli interrogativi.

SALVATORE PAROLISI CON IL MOVENTE INTERSCAMBIABILE. Altra incongruenza. Il delitto di Melania Rea. Salvatore Parolisi è stato condannato per l'omicidio di Melania Rea? Si chiede Michela Murgia. Dipende dai punti di vista. Certo, in un'ottica giuridica la sentenza contro di lui non è nulla di meno che una condanna all'ergastolo, ma le motivazioni che sono state depositate dal giudice Tommasini raccontano piuttosto la storia di un'assoluzione civile. Raccontano, perché è questo che le motivazioni alle sentenze devono fare, e lo fanno nello stesso modo in cui lo fanno i romanzi, al punto che alcuni romanzieri italiani tengono appositi corsi ai giudici per insegnare loro a scriverle in modo narrativo. Se dovessimo quindi vederla dal punto di vista letterario, la ricostruzione del caso Rea mostra una trama che lascia interdetti, perché l'omicida vi appare come una figura fragile e deviata, preda di incontrollabili istinti, ma sottomessa e vessata dalla personalità forte di una moglie che lo umiliava di continuo. Melania Rea viene descritta invece come un'Erinni che faceva vivere il marito «in una sorta di sudditanza morale e fisica, già peraltro esistente per il divario economico e culturale ravvisabile tra le rispettive famiglie d'origine». In che modo venire da famiglie di diversa condizione socio-economica dovrebbe determinare sudditanza morale e addirittura fisica tra due coniugi non è per nulla chiaro, ma il giudice lo racconta come se il rapporto fosse logico. Tutte le ipotesi di premeditazione per odio, avidità e desiderio di vivere senza impedimenti un'altra relazione sono venute a cadere in questa nuova narrazione: quello di Parolisi è un «delitto d'impeto», un altro di quei «delitti passionali» che tante aggravanti fanno cadere nei processi per femminicidio. Di passione, intesa come brama sessuale, nella narrazione del giudice Tommasini ce n'è proprio tanta. Pure troppa per essere letterariamente credibile, al punto che viene presentato come verosimile un uomo che si eccita alla vista della moglie occupata in funzioni fisiologiche in un prato e vuole accoppiarsi sul posto a dispetto della figlia minore che poco distante dorme in auto. Ma persino il lettore di gialli di serie B riterrebbe fuori luogo che nel 2013 il rifiuto di Melania Rea ad avere rapporti sessuali in una situazione come quella venga raccontato come «l'ennesima umiliazione» inferta al marito e che l'omicidio feroce che ne è derivato sia motivato come reazione istintiva a un'umana passione respinta con sprezzo. Nella narrazione della sentenza del giudice Tommasini Melania Rea non è morta perché Parolisi la odiava, la tradiva e non sopportava che i soldi in casa li avesse lei. È morta invece perché ha rifiutato di soddisfare le «impellenti esigenze sessuali» di un uomo certamente bugiardo e avido, ma che lei umiliava ripetutamente e che aveva nei suoi confronti un rapporto di «sudditanza fisica e morale». È Melania Rea che è morta, ma nelle motivazioni della sentenza la vittima alla fine è Salvatore Parolisi. Che brutta storia ha scritto, signora giudice. Da qui lo sfogo di Salvatore Parolisi riportato da Diana Pompetti su “Il Centro”.  «Io e Melania quel giorno siamo stati a Colle San Marco. L’ho sempre detto, nessuno mi ha creduto. Oggi un giudice riconosce questa verità. Ma per me non c’è nessun sollievo. Di che cosa dovrei sentirmi sollevato? Io so di non essere l’assassino. Ma come posso difendermi da accuse che cambiano sempre?» Salvatore Paroli si si prepara ad affrontare il secondo processo di un’altra vita: quella senza moglie, senza figlia, con una condanna di primo grado all’ergastolo. Nella sala colloqui di Castrogno consegna amarezza e paure all’avvocato Nicodemo Gentile, uno dei legali che lo difende con Valter Biscotti e Federica Benguardato. Chi è il caporal maggiore? L’assassino di Melania Rea o lo sventurato protagonista di un destino maligno che gli ha assegnato, in un solo colpo, due tragedie: la moglie ammazzata con 35 coltellate e le accuse contro di lui? «Ora è un uomo molto preoccupato a cui non dà più sollievo nemmeno il fatto di sapersi innocente», dice Gentile, «perchè si trova davanti un’accusa in continua evoluzione, con una dinamica che cambia di giudice in giudice». A cominciare dal movente. Il giudice Marina Tommolini, il magistrato che lo ha condannato all’ergastolo al termine di un rito abbreviato, nelle sue motivazioni ne ipotizza un altro: Parolisi avrebbe ammazzato la moglie perchè lei gli ha negato un rapporto sessuale. «Mi sono difeso dall’imbuto passionale, mi sono difeso dal segreto inconfessabile della caserma e continuerò a difendermi perchè io non ho ucciso», dice all’avvocato, «ma come faccio a difendermi da accuse che cambiano sempre? Il perchè e il come di questo delitto continuano a mutare. Se è così, è davvero facile condannare una persona». Lo fa nel giorno in cui all’Aquila s’inaugura l’anno giudiziario e il presidente della Corte d’appello Stefano Schirò dice che le «sentenze vanno criticate, ma non denigrate». Al suo avvocato, pronto a dire «che c’è il massimo rispetto per il giudice Tommolini, l’unico che ha avuto il coraggio di dire che erano stati violati i diritti della difesa», racconta che non è Melania, non è la loro vita quella tratteggiata nelle sessanta pagine di una sentenza che ha letto e riletto. «Quel 18 aprile non c’era tensione, Melania mi aveva perdonato per il mio tradimento. Melania non è mai stata aggressiva, non è mai stata dominante», dice il caporal maggiore, «da quelle pagine emerge un’immagine distorta di mia moglie». Entro i primi giorni di marzo i legali depositeranno il ricorso in Appello e molto probabilmente già prima dell’estate ci sarà la prima udienza del processo di secondo grado. Processo che Parolisi chiederà di tenere a porte aperte. Nel canovaccio che in questi giorni sta prendendo forma nelle mani dei difensori tanti spunti, a cominciare da quello del vilipendio sul corpo di Melania. Per la Tommolini il caporal maggiore l’avrebbe fatto nella mattinata del 20 aprile, giorno in cui nel pomeriggio venne scoperto il cadavere. «Alle 8.57 di quella mattinata», ricostruisce Gentile, «Parolisi chiama i carabinieri che stanno indagando perchè deve consegnare delle cose che gli hanno chiesto nell’ambito delle ricerche. Gli dicono di aspettare a casa e così lui fa. Resta fino alle 10.49 ad attendere i militari con cui si intrattiene anche a parlare per un po’ di tempo. Come avrebbe fatto a raggiungere il bosco di Ripe in un momento, in cui quella zona era piena di elicotteri e forze dell’ordine impegnati nelle ricerche?». Per tutto il resto bisognerà aspettare l’inizio del secondo processo per l’omicidio di Melania Rea. Parla di “nulla totale” uno dei componenti della difesa di Salvatore Parolisi, l’ex caporalmaggiore condannato all’ergastolo per l’omicidio di sua moglie Melania Rea. Il nulla totale corrisponde al fatto che non c’è niente, secondo Federica Benguardato, che colleghi Parolisi alla scena del crimine. Ed è questa, a suo dire, la vera prova della sua innocenza. L’avvocato del marito di Melania è tornato a parlare del caso nella trasmissione televisiva “Attualità” su Vero, ha parlato delle tanto discusse motivazioni della sentenza di condanna e del ricorso in appello. Un ricorso che, ha spiegato, spingerà sulla mancanza di prove sulla scena del crimine: “Non c’è una sola goccia di sangue o solo un capello che leghi Parolisi alla scena del crimine, la sentenza ha ancora molti dubbi aperti e le interpretazioni sono contraddittorie”. Per questi motivi il lavoro della difesa di Salvatore Parolisi, come avevano già annunciato gli avvocati, si muoverà su due fronti: il ricorso in appello per la sentenza di condanna all’ergastolo e l’azione legale per far incontrare il loro assistito con la figlia Vittoria. Secondo l’avvocato Benguardato, infatti, è importante che i due possano vedersi perché la bimba è stata tenuta lontana dal padre anche prima del processo. A proposito della mancanza di prove nell’omicidio, l’avvocato parla in televisione della questione del Dna rinvenuto sulla bocca di Melania e appartenente a Parolisi. Quella traccia è stata considerata per l’accusa una prova schiacciante ma l’avvocato ha affermato che “non ci sono studi che determinano il tempo di permanenza del Dna all’interno della bocca, quindi nessuno è in grado di stabilire quanto tempo prima è avvenuto il contatto”. Per la difesa di Parolisi, inoltre, ci sono molte incongruenze da chiarire anche riguardo al luogo in cui si trovava Melania Rea il giorno della sua uccisione e, infine, non manca in televisione il riferimento al rapporto tra l’ex caporalmaggiore e la sua amante Ludovica Perrone. “Il giudice ritiene la relazione fra i due non forte, è vero Parolisi tenta nell’immediato di depistare le indagini, ma si giustifica come un tentativo di protezione nei confronti della famiglia e della figlia. Gli indizi a suo carico in questo caso non sono stati, infatti, ritenuti sufficienti dal giudice”, ha affermato l’avvocato. Insomma, sia per la sua difesa che per il giudice che ha emesso la sentenza, l’atteggiamento di Parolisi non può far supporre direttamente un coinvolgimento nell’omicidio.

Accade che, il 5 febbraio scorso (2012), la Cuccarini intervisti via telefono, appunto, Cristina della suddetta coppia - i sedicenti Cristina & Gabrieli sposini in crociera sfuggiti al destino mortale della nave Costa -. Gli ascolti s’impennano, Lorella si commuove. Ma Striscia la Notizia s’accorge che la foto degli sposi usata dalla Rai di sfondo all’intervista è falsa. Palesemente falsa. Al punto che i due ragazzuoli, sotto diversa identità, sembrano essere, invece gli stessi - un po’ più invecchiati - concitati ospiti del legal show "Verdetto Finale" con Tiberio Timperi, guarda caso su Raiuno. Figuranti ad uso di viale Mazzini, parrebbe di prim’acchito. L’avvocato dei due meschini, Giacinto Canzona - un nome, un programma - che all’inizio in diretta s’era indignato contro la mala società che permette gli aborti sulle navi Costa senza risarcirli mai abbastanza, riconosce spudoratamente che Cristina e Gabriele, sì, è vero, non sono proprio quei Cristina e Gabriele; e che la fotografia mandata in onda non è altro che il frutto “di un mero errore materiale”.

Su questa falsa riga scoppia il caso della giornalista ‘postina’ che recapitava le lettere di Salvatore Parolisi all’amante. La notizia shock data il 15 febbraio 2012 dalla trasmissione “Chi l’ha visto?”. La vicenda è finita nelle carte dell’inchiesta della procura di Teramo sull’omicidio di Melania Rea. «Un fatto imbarazzante per la nostra categoria», l’ha definita Federica Sciarelli quando ne ha dato notizia. Increduli i parenti della giovane mamma di Somma Vesuviana, presenti in collegamento video. Con tanto di carte della procura in mano la trasmissione ha svelato che «una giornalista Mediaset» avrebbe fatto da ‘postina’ tra Salvatore Parolisi (in carcere con l’accusa di aver ucciso sua moglie) e l’amante, la soldatessa Ludovica. Le missive sarebbero state intercettate dalla direzione del carcere di Ascoli e, ha assicurato la Sciarelli, sarebbero regolarmente arrivate a destinazione. Ma l’aspetto ancor più inquietante è che la ‘postina’ avrebbe recapitato la missiva quando a Salvatore era stato fatto esplicito divieto di avere contatti con l’esterno e soprattutto con la sua amante. «Cara (nome giornalista, non reso pubblico), la busta bianca chiusa non è per voi», scrive Parolisi nella lettera mostrata da Rai3, «ma tu sai a chi mandarla, mi raccomando che arrivi a destinazione, assicurati che sia li». E nella lettera alla soldatessa Parolisi scrive: «ti ho mandato questa lettere tramite (nome della giornalista) perché sul mio verbale di accusa non posso avere nessunissimo contatto con te. Se riceverai questa lettera mi raccomando non lo dire a nessuno e non fidarti di nessuno». Poi Parolisi consiglia a lei di fare lo stesso: «metti in una busta sigillata la lettera che sarà per me». La giornalista e un suo collaboratore sono stati anche intercettati e la Procura ha scoperto che i due, che lavorano per «una trasmissione Mediaset» avrebbero redatto una finta lettera, spacciandola per una missiva di Parolisi alla loro redazione «e poi letta in trasmissione la sera del suo arresto». Incredulo lo zio di Melania, il signor Gennaro, che ha notato che la lettera spedita da Salvatore a Ludovica era datata 23 marzo, ovvero 4 giorni dopo l’arresto. «Salvatore si preoccupava addirittura di scrivere alla sua amante…» ha detto sconcertato. «Adesso mi viene il dubbio che Salvatore non abbia mai amato Melania…», ha commentato invece il fratello della vittima, Michele, «è sotto gli occhi di tutti… che intrallazzi che ha fatto e che faceva. Non si può accettare che dica ‘amo ancora mia moglie’ quando invece si preoccupava di scrivere ancora alla sua amante. Non è giusto e non accetto che lui continui a dire che ama Melania». Ma nella lettera spedita a Ludovica c’è anche una frase che lascia sconcertati. Salvatore scrive alla sua donna: «ho tante ammiratrici che mi scrivono ah ah ah». Sempre “Chi l’ha visto?” nella puntata ha rivelato che nel corso delle indagini è emerso che il caporal maggiore frequentasse siti di trans (video e foto con contenuti pornografici) sia dal pc di casa che da un personale che portava in caserma. «Si tratta di siti che a Melania non avrebbero fatto piacere», ha commentato il fratello, «era una persona di sani principi e se lo avesse scoperto avrebbe sbattuto il marito fuori casa». E’ possibile che la donna si fosse accorta di quello che stava accadendo e si fosse arrabbiata? Potrebbe essere stato proprio questo il movente del delitto? Dal pc fisso sono stati estratti 145 indirizzi di posta elettronica di cui 5 visibili ed attivi e altri 140 cancellati e recuperati attraverso tecniche di ‘data carving’. «Dalla cronologia di navigazione Explorer normale non emergono siti di particolare interesse», si legge nella relazione dei carabinieri, «mentre dalla navigazione “in private browsing” emergono siti di trans» con immagini molto forti. Anche le foto sono state allegate alle carte dell’inchiesta. «Non abbiamo alcuna intenzione di vederle», ha detto il fratello, «anche se possiamo immaginare il genere...». Sciarelli ha ricordato che nei mesi prima gli avvocati Biscotti e Gentile (difensori anche della Famiglia Scazzi) che difendono Parolisi avevano diffidato i giornalisti a parlare di questa vicenda. «Le carte sono qui», ha detto la giornalista. «Queste sono cose che dice la procura». Infine l’amarezza del fratello di Melania: «Salvatore aveva tante cose da fare: chattare con le trans, telefonare all’amante, tutte cose che riguardavano la sua seconda vita che noi non conoscevamo. Nei momenti successivi alla scomparsa di mia sorella invece di cercare sua moglie tornò in caserma… Andare a cancellare tutto questo gli avrebbe fatto molto comodo». Già. Proprio quella Sciarelli fa la predica a Mediaset e poi sputtana Parolisi ed i suoi avvocati censori. Quella giornalista che ha dato in diretta alla madre la notizia del ritrovamento del corpo di Sarah. La notizia della morte di Sarah viene data in diretta tv alla madre Concetta che era collegata in diretta dalla casa dello zio - l'assassino di Sarah - da Avetrana. Era il 6 ottobre 2010. Era la quarta puntata del programma Chi l'ha Visto? dedicata al caso della scomparsa della 15enne di Avetrana. E poi la svolta. Sarah strangolata e violentata dallo zio. In studio arrivano le prime notizie: i carabinieri sono alla ricerca di un corpo. La conduttrice si trova davanti ad una situazione «terribile»: così Federica Sciarelli definisce la puntata del suo programma “Chi l'ha visto” che ha seguito in diretta i tragici sviluppi della vicenda di Sarah Scazzi, mentre la madre della ragazza era in collegamento. «Le notizie si susseguivano in modo concitato: in un primo momento - racconta la conduttrice - abbiamo cercato di non dire nulla, anche perchè ci auguravamo che si trattasse della solita battuta di ricerca da parte degli investigatori. Poi a un certo punto la situazione è andata fuori controllo perchè alla madre arrivavano le telefonate di altri giornalisti. Allora la mia unica preoccupazione è stata accompagnare in qualche modo la madre di Sarah a casa. Eravamo infatti in collegamento con l'abitazione dello zio: se fossimo stati a casa di Sarah ce ne saremmo andati via noi. Ho cercato anche di allentare la tensione mandando in onda un lungo pezzo di ricostruzione della vicenda, è stato veramente difficile». A chi sottolinea il ruolo invasivo della diretta tv di fronte alla tragedia, la Sciarelli replica: «Se ho sbagliato mi dispiace. La direzione di Raitre ha deciso di mandarci in onda fino a Linea notte, facendo saltare “Parla con me”, ma del resto sarebbe stato assurdo e irrispettoso mandare in onda un programma di satira registrato, che sarebbe stato inevitabilmente fuori tono. Siamo il programma degli scomparsi: dal primo momento abbiamo sostenuto che quello di Sarah non era stato un allontanamento volontario, avremmo preferito che fosse stata trovata viva». Già nel 2008 Chi l'ha visto? seguì in diretta la notizia del ritrovamento dei corpi dei fratellini di Gravina: «Allora però - spiega la conduttrice - avemmo la notizia subito prima della messa in onda. E il padre venne a saperlo mentre era in carcere. Quella di ieri è una situazione che non ci era mai capitato e forse mai ci capiterà più nella vita». Già, davvero dispiaciuta!

Il 9 agosto 2011 Giovanni Cirillo lascia da un giorno all'altro il tribunale di Teramo. A sorpresa, nel pieno delle indagini sul delitto di Melania, il Csm lo manda a presiedere la Corte d'Assise di Giulianova. Ma lui non molla del tutto. Ed affida a Vanity Fair un'intervista che avrebbe dovuto imprimere la giusta accelerazione alle indagini. E invece è caduta nel vuoto. Il giudice parla con la giornalista di Vanity appena due ore dopo aver lasciato l'incarico: «da due ore - esordisce - non me ne occupo più, quindi non ho il dovere del silenzio». Cirillo ha ragionato a lungo sulle ragioni alla base del delitto. Sa che la pista della gelosia traballa. E spiega perchè: «il movente passionale ipotizzato dai magistrati di Ascoli (su cui è interamente basata l'ordinanza di custodia cautelare del pm Monti), l'idea che Parolisi fosse finito in un “imbuto”, stretto fra moglie e amante, non corrisponde alla sua condizione». Di più: «Parolisi non era un uomo disperato, lui con i piedi in due scarpe ci stava a meraviglia e non avrebbe mai lasciato entrambe. I pianti continui con l'amante erano finti, lo scrivono anche i carabinieri nelle intercettazioni: “Finge di piangere”. Inoltre, ha avuto fino all'ultimo rapporti con la moglie. Il movente è un altro». Non può spingersi oltre, Cirillo, consapevole com'è di dover rispettare il lavoro che ha ormai lasciato ai colleghi. Ma uno scenario ampiamente logico e credibile prende corpo dalle sue parole: «Melania - dice il gip – è stata uccisa perché aveva scoperto un segreto inconfessabile, forse legato alla caserma dove Parolisi lavorava. In tutta l'indagine resta un margine di dubbio sul fatto che Parolisi abbia accompagnato la moglie nel boschetto e lì sia intervenuta una persona che, però, non ha lasciato tracce di sè». Questo, aggiunge Cirillo, «sposterebbe tutto su un piano di premeditazione a aprirebbe scenari inquietanti, se Salvatore Parolisi stava rendendo conto a qualcuno di qualcosa che non sappiamo, se la moglie aveva scoperto qualcosa e lui è stato costretto a portarla lì». Non sapremo mai come sarebbero andate avanti le indagini se fosse stato il gip Cirillo a condurle in porto nei lunghi mesi che hanno preceduto il rito abbreviato per Parolisi. Nei primi giorni di giugno 2011 al 235esimo Reggimento Piceno fa ritorno la soldatessa Laura Titta, napoletana, che proprio presso quel reparto di stanza alla caserma Clementi era stata addestrata nel 2009. Dopo un anno di servizio a Napoli, ormai congedata, stranamente fra aprile e maggio fa domanda per tornare ad Ascoli. Tanto nel 2009 quanto nel giugno 2011, dentro quella caserma l'addestratore delle reclute femminili è il caporal maggiore Parolisi. Ma quando il 14 giugno le forze dell'ordine inviate dalla Dda partenopea arrivano alla Clementi per arrestare la Titta nell'ambito delle indagini sul boss Michele Zagaria, il fresco vedovo Parolisi dichiarerà agli inquirenti ascolani che lui la Titta non la ricorda, non l'ha mai frequentata. E tanto basterà, tanto sarà sufficiente ad allontanare l'immagine dei boss che estendono il loro potere nei reparti delle caserme, infiltrandosi tra le nostre forze armate. La reputazione dell'esercito, anche stavolta, è salva. Anche perché nessuno fra i tanti militari che erano in quell'area il 18 aprile, a quell'ora, per esercitazioni, ha sentito nulla, neppure un gemito della donna colpita con 37 coltellate. E per tutti va bene così.

Poi c'è un'altra donna. La cui storia, ben al di là di tutte le vere o presunte amanti di Parolisi, serve a chiarire i contorni degli inconfessabili traffici che probabilmente andavano avanti da tempo in quella, come forse in altre caserme italiane. Il 13 agosto del 2011 Alessandra Gabrieli, 28 anni, caporalmaggiore dei parà nell'esercito italiano, viene arrestata a Genova, la sua città, per spaccio di eroina. Il volto segnato dalla droga, la ragazza racconta agli investigatori: «mi hanno iniziato all'eroina alcuni militari della missione Isaf di ritorno dall'Afghanistan. È successo nel 2007 ed eravamo nella caserma della Folgore a Livorno. Ritengo che quello stupefacente, molto probabilmente, venisse portato direttamente dall'Asia». La giovane, che a settembre è stata condannata in primo grado a tre anni e mezzo di reclusione, aveva raccontato agli inquirenti che quanto capitato a lei era già successo ad altri colleghi. Aprendo di fatto la strada ad un'indagine della magistratura militare sui traffici nelle caserme italiane di droga proveniente dall'Afghanistan, che ne è notoriamente il primo produttore al mondo, con un fatturato salito alle stelle dopo l'arrivo delle forze Isaf. Altra centrale di smercio per hashish e dintorni in arrivo dalle “missioni di pace” deve poi essere stata un'altra caserma, quella degli Alpini a Tolmezzo, dove ha peraltro prestato servizio a lungo Salvatore Parolisi di ritorno dall'Afghanistan e prima di arrivare ad Ascoli. Ad aprile 2011, proprio nello stesso periodo in cui Melania viene assassinata, dentro la caserma di Tolmezzo qualcuno scopre che le canne dei fucili rientrati dall'Afghanistan sono imbottite di hashish. Un ritrovamento casuale, che porta alla scoperta di 360 grammi di sostanza stupefacente contenuta nei fucili. Un metodo ingegnoso, che ricorda tanto l'arte di arrangiarsi. Fatto sta che nessuno si presenta a ritirare quei fucili, benché la notizia delle indagini non fosse stata ancora diffusa. Unico indagato, un militare nato a Capua, che però nega ogni addebito. Ad oggi non si sa nulla né dell'inchiesta aperta dalla Procura militare, né di quella condotta dalla magistratura ordinaria, dopo che i fascicoli erano stati trasferiti da Tolmezzo a Roma. Indizi, solo indizi. Ma come non soffermarsi sulla loro evidenza? Perché ostinarsi a considerare un “depistaggio” quella siringa conficcata sul petto dilaniato di Melania, con accanto un laccio emostatico? «Quasi un marchio - commenta un avvocato del vesuviano da sempre alle prese con omicidi di camorra - quella siringa sul petto. Interpretando bene certi segnali, farebbe pensare più ad una tremenda punizione per il marito, con relativo avvertimento per gli altri, che alla necessità di sopprimere un testimone scomodo, cosa che generalmente i clan fanno con modalità meno appariscenti». E tutto questo, spiegherebbe anche le frasi che Parolisi dice nei primi minuti dopo aver denunciato la scomparsa della moglie («me l'hanno presa»), o le frasi che bofonchia con rabbia da solo in macchina («gli devo strappare il cuore dal petto, mi devo fare trent'anni ma lo devo fare»), e infine lo scambio di battute con la sorella Francesca (lei: «ora esce fuori tutto». E lui: «mi dispiace che ci ha rimesso Melania»). Salvatore sa. Conosce il volto degli assassini, di cui è stato in qualche modo complice?. Ma sa ancor meglio che non può e non deve parlare. E' la “legge” ferrea della camorra. Se parli, tu o i tuoi familiari prima o poi farete la stessa fine.

E a proposito di morti improvvise nell'esercito, sempre in quella tarda primavera del 2011, il 4 giugno, a Kabul viene ucciso il tenente colonnello Cristiano Congiu in circostanze che lasciano aperta la strada a molti dubbi. Se infatti l'esercito si affretta a precisare che si è trattato di un delitto di criminalità comune (avrebbe difeso una donna dagli “scippatori” in suolo afgano...), va ricordato subito che in quel bollente contesto mediorientale Congiu si occupava precisamente di segnalare e consegnare alla giustizia gli artefici dei traffici di stupefacenti, forte di una lunga esperienza in materia. L'aveva acquisita, forse, nei lunghi anni in cui era stato in servizio a Napoli, caserma del Rione Traiano. Un'ombra si allunga, inoltre, su quell'ultimo messaggio di Cristiano affidato alla sua pagina Facebook: «Qualcuno mi vuol far tacere». Scrive il Messaggero all'indomani dell'agguato che «la sua morte potrebbe quindi essere legata alla sua attività di investigatore, un agguato studiato nei minimi particolari per farlo tacere». Sono state aperte ben due inchieste su quei fatti, una della magistratura e l'altra dell'Arma dei carabinieri. Ad oggi, nulla è stato reso noto sui risultati. Congiu, che era balzato alle cronache per aver arrestato un pericoloso esponente dei Casalesi, quel giorno a Kabul aveva ricevuto la visita di una donna americana. Così sintetizza Peacereporter i contorni finali del giallo: «Rimane senza risposta da parte del ministero della difesa l'interrogativo della presenza in quella zona del militare e della sua ospite statunitense, in visita a una miniera di smeraldi a cinque ore da Kabul». L'informatissimo Corsera.it ha da tempo messo in relazione l'elementare puzzle tra l'atroce fine di Melania, l'omicidio Congiu, la presenza di Laura Titta alla Clementi e perfino il “suicidio” di Marco Callegaro, che a metà 2010 aveva denunciato sprechi e strani movimenti nel battaglione dell'esercito di stanza a Kabul. Tutti elementi che, a parte il coraggioso giudice per le indagini preliminari Giovanni Cirillo, nessuno fra gli inquirenti ad Ascoli o a Teramo ha messo in connessione fra loro per dare una spiegazione al massacro di Melania e trovare un movente ben più convincente rispetto a quello del presunto folle amore per la soldatessa: un sentimento che le stesse intercettazioni mostrano invece fragile, se non addirittura inesistente («ma chesta è scema?», dice Salvatore parlando con se stesso di Ludovica). E c'è ancora una frase, detta a botta calda, che accomuna Parolisi ad un'altra protagonista di un caso recente, anche lei imputata per omicidio. Salvatore Parolisi la dice, subito dopo la scomparsa di Melania, all'allora amico Raffaele Paciolla: «me l'hanno presa...». Pari pari l'esclamazione di Sabrina Misseri dopo la sparizione della cugina Sarah Scazzi: «l'hanno presa...».

Chi aveva preso Sarah? E perchè? Anche qui, la cortina di silenzio sulle tante incongruenze della ricostruzione ufficiale, è diventata di piombo. Cristallizzata, per giunta, dalle mille sequenze realizzate per la tv ripercorrendo quasi esclusivamente le carte dell'inchiesta giudiziaria. Nessuno, insomma, che provi almeno una volta a porre apertamente domande sugli stessi investigatori. I quali spesso non guardano dentro quei piccoli squarci rivelatori, illuminanti di un'altra verità. Quella che non si può dire. Forse qualcuno è disposto a scontare 30 anni di carcere piuttosto che svelare i veri mandanti. Un terrore imposto a chi ben conosce logiche e linguaggi della malavita organizzata. 

Legislatura 16 Atto di Sindacato Ispettivo n° 4-06272

Pubblicato il 17 novembre 2011 Seduta n. 637

LANNUTTI – Ai Ministri della giustizia e della difesa. - Premesso che:

il pubblico ministero di Roma, Paolo Ferraro, ha condotto in prima persona un’indagine su una presunta setta satanica, a cui avrebbero aderito anche alcuni esponenti dell’esercito, un gruppo segreto che si riunirebbe in eventi dove confluirebbero riti esoterici e banchetti a base di sesso e droga. Ad avvalorare questa pista ci sarebbero anche dei file audio che contribuirebbero a dissolvere qualsiasi dubbio sulla tesi del magistrato;

l’indagine di Ferraro potrebbe, a detta dello stesso, intrecciarsi anche con il delitto di Ripe di Civitella dove il 20 aprile 2011 fu ritrovata morta Melania Rea, moglie di un caporalmaggiore del 235° Reggimento Piceno;

successivamente il Consiglio superiore della magistratura (CSM), nella seduta del 16 giugno 2011, come si legge su “giustizia quotidiana.it”, ha deliberato di collocare in aspettativa per infermità, per quattro mesi, il pubblico ministero di Roma Paolo Ferraro. Il provvedimento è stato adottato con una procedura d’urgenza, motivata dalla asserita gravità ed attualità dell’inidoneità del magistrato ad adempiere convenientemente ed efficacemente ai doveri del proprio ufficio»;

dopo la decisione del CSM di sospenderlo per quattro mesi dal servizio per gravi motivi di salute, il magistrato decide di rendere pubblica la sua vicenda cominciata quando nel 2008 andò a vivere nella città militare della Cecchignola, a Roma;

pertanto ad oggi Paolo Ferraro rimane sospeso per quattro mesi per motivi di salute, nonostante lui si dichiari perfettamente abile e a suo sostegno ci siano diverse perizie mediche che lo certificano;

i difensori del pubblico ministero denunciano l’anomalia dell’azione del CSM e hanno presentato ricorso al Tar del Lazio per denunciarne l’illegittimità. In particolare gli avvocati Mauro Cecchetti e Giorgio Carta hanno espresso forti critiche verso il modus operandi del CSM nei confronti del loro assistito;

si legge sul sito sopra citato: “Il procedimento cautelare seguito dal Csm risulta non solo costellato di violazioni delle garanzie difensive, ma addirittura atipico, perché non previsto da alcuna norma. Non risulta fondato su alcuna perizia medica, se non una risalente al 2008 che, peraltro, attestava l’idoneità allo svolgimento di attività professionali anche complesse”. Un particolare alimenta ulteriori sospetti nei due legali: “Il Csm – hanno riferito gli avvocati – ha stranamente ritenuto ininfluenti le numerose perizie mediche di parte, private e pubblica del 2011, attestanti la specifica idoneità ed anzi qualità intellettuale del magistrato, ed ha ignorato una denuncia analitica e argomentata depositata in atti, che evidenzia fatti gravissimi a suo danno patiti dal 2009 in poi”. Il pubblico ministero Paolo Ferraro non ha mai avuto provvedimenti disciplinari di alcun tipo, mentre ha sempre avuto giudizi di ottimo rendimento, occupandosi di inchieste anche importanti;

considerato che la signora Milica Cupic, cittadina italiana, lamenta una serie di comportamenti quanto meno opinabili di organi della giustizia militare e civile in ordine a fatti da lei denunciati;

in più occasioni ed in data 4 ottobre 2003, la signora Cupic ha denunciato gravi fatti a sua detta ascrivibili a personaggi identificati e identificabili. In particolare riferiti al suo ex marito, generale a due stelle e dunque alta carica dell’Esercito italiano, che ella ebbe a denunciare già nel 1996 in relazione alla morte violenta della propria figlia e di un sottoufficiale dell’Esercito avvenuta il 3 febbraio 1986;

secondo quanto riferito dalla stessa signora Cupic ella avrebbe altresì avuto modo di segnalare come un alto grado della Guardia di finanza avrebbe favorito la promozione al suo ex marito. Tale personaggio sarebbe poi diventato Comandante Generale della Guardia medesima;

la Procura della Repubblica di Roma, dopo aver ricevuto l’esposto firmato dalla signora Cupic, lo avrebbe trasmesso al Procuratore Aggiunto, dottor Ettore Torri, come esposto anonimo, mentre, ad avviso dell’interrogante, ne risultava esattamente identificato il soggetto che lo aveva inviato;

tali denunce sono state archiviate, ma è evidente che in tal caso la signora Cupic avrebbe dovuto essere indagata per calunnia, cosa che non è mai avvenuta;

sembra per la verità che la denuncia della signora Cupic in merito alla morte del Sottoufficiale e della propria figlia siano state archiviate, giustificandole con il fatto che la signora sarebbe affetta da «sindrome delirante lucida» e che di ciò la procura militare, per quanto riferito dall’interessata, sarebbe stata informata nel 1996, in modo improprio dal Tenente Colonnello dottor Corrado Ballarini di Bologna. La Cupic ha avuto più incontri, di sua spontanea volontà con il Capitano psichiatra criminologo Marco Cannavici nel 1995 presso il Policlinico Militare Celio di Roma, il quale fece in effetti un rapporto al direttore del Celio pro tempore sullo stato psicologico della signora, nel quale tuttavia mai pronunciò la diagnosi che avrebbe portato all’archiviazione;

in data 15 gennaio 2005, la signora Cupic presentò alla procura militare di Roma una formale denuncia contro il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, generale Giulio Fraticelli, per «omissioni in atti d’ufficio», in relazione alle denunce presentate nei confronti dell’ex marito ed alla documentazione a suo dire inviata al generale Pompegnani. Il generale Fraticelli avrebbe comunicato alla signora Cupic di aver relazionato al procuratore Intellisano, il quale, peraltro, in un incontro avvenuto con la Cupic il 7 dicembre 2004, negò di aver mai ricevuto alcuna cosa;

della denuncia di cui sopra esiste traccia nella lettera che la Procura militare della Repubblica presso il tribunale militare di Roma ha inviato allo studio legale Lombardi in data 16 maggio 2005, (Numero 8/C/04INT «mod. 45» di protocollo) a firma del Procuratore Intellisano;

nel dicembre 2004 la Cupic ebbe a presentare una denuncia alla Procura Militare contro il Tenente Colonnello Ballarini inviandola al A.G. Maresciallo Cervelli;

considerato infine che la sospensione del dottor Ferraro, improvvisamente ritenuto inadatto ad adempiere convenientemente ed efficacemente ai doveri del proprio ufficio, appare all’interrogante di dubbia legittimità, si chiede di sapere:

di quali informazioni disponga il Governo sui fatti esposti in premessa;

quali iniziative di competenza intenda adottare.

Intervista a Paolo Ferraro, magistrato sospeso misteriosamente dal CSM.  Su Agenzia Stampa Italia.

Salve e benvenuto. In queste settimane, il caso mosso intorno al nome del Magistrato Paolo Ferraro ha lasciato esterrefatta la pubblica opinione. Come rivelato ai microfoni di SkyTg24, Lei sostiene di aver riscontrato in prima persona, durante il Suo periodo di residenza presso la cittadella militare della Cecchignola, comportamenti ed attività “non normali”, scoprendo un mondo “sotterraneo, sconosciuto, poco chiaro, ambiguo, fumoso”. Attenendoci chiaramente ai limiti imposti dal segreto istruttorio, può dirci più nel dettaglio cosa ha scoperto attraverso le sue indagini?

Sporsi a suo tempo nel Novembre 2008, una Denuncia immediata, avendo proceduto ad un primo ascolto di registrazioni audio relative a sei mattine e due pomeriggi, registrazioni che effettuai avendo acquisito una serie di elementi  che lasciavano sospettare una “situazione ambientale” inquietante. Ebbi dichiarazioni conformi che la disegnavano a grandi linee, e feci ascoltare l’audio sia ad un ufficiale di P.G. particolarmente qualificato, che ad una psicologa incaricata tramite avvocato che ritenevo di fiducia, psicologa cui avevo conferito il compito di un sostegno esterno e affiancamento, ovviamente alle persone da me ritenute vittime dirette o indirette. La qualità dell’audio non era ottimale, anzi era mediocre, sicché indicai subito la necessità di procedere ad elaborazione del volume ed ad un attento ascolto tramite programmi adeguati. Sia l’Ufficiale di P.G., a titolo di amicizia e stima personale, che la psicologa, vagliarono la evidente anormalità della situazione ed anzi quest’ultima in un ascolto durato più di due ore e mezza fornì valutazioni, preoccupate, mentre l’Ufficiale di P.G. parlò di un fenomeno collettivo complesso e allarmante. Dall’ascolto attento emergevano attività già indicate nella conferenza, ma più in particolare la possibilità di individuare uso di sostanze, tecniche o procedure verbali a prima vista inquadrabili come volte al condizionamento dei soggetti che li ricevevano, ma soprattutto un contesto veramente anomalo con ingresso di numerose persone di varie età, senza suonare prima, ed utilizzando chiavi in loro possesso ed una posizione di soppesabile assoggettamento della persona che abitava nell’appartamento. Il tutto secondo una analisi fonica poi progressivamente approfondita da me e da un perito fonico, cui diedi il solo incarico di trascrivere quanto emergeva dalla sola prima registrazione. Comunque alcune frasi apparivano curiosamente pronunciate dagli astanti con tono metrico cadenzato o musicaleggiante, in un paio di casi per fonemi riconducibili a linguaggio “medievalistico”, e colpivano altresì alcune frasi tipiche sintetiche espresse come comandi brevi, cui di norma le risposte erano un assenso implicito ovvero dei “si” che colpivano per atonia ed inespressività. Tra i comandi ricorrente una espressione “nessuno vi è adesso” ovvero “se andiamo via non c’è nessuno”, ovvero “dobbiamo apparire, dobbiamo riapparire”, ma l’elenco sarebbe lungo. Il contesto sembrava ad un ascoltatore inesperto come io ero farneticante, torbido, non riconducibile ad esperienze ordinarie. Anche le modalità di interazione verbale dei soggetti erano talmente inusuali, talvolta cupe, e vocalmente atipiche da lasciare interdetti. Tutto ciò non fu sentito dalla P.G. incaricata. Ma vi erano complessivamente nelle registrazioni più di dieci tra adulti, maschi e donne, e almeno quattro non adulti. Almeno otto i nomi pronunciati. Nelle registrazioni “per decreto” emergevano “frasi, parole e rumori riconducibili alla normale attività quotidiana di una persona all’interno della propria abitazione”. E la persona autrice dei racconti, ma assoggettata, negò poi tutto. Nessuno gli contestò quello che si sentiva. Ma io avevo altri accertamenti fatti, alcune registrazioni di telefonate o colloquio tra presenti, sms ed e-mail utilmente valutabili, feci accertamenti ricordando particolari a suo tempo raccontati, e, dopo l’archiviazione del procedimento, rimasto sbalordito, elaborai le basi audio potenziandone il volume ed estrapolando circa 45 frasi e contesti divisibili sulla base di una precisa griglia logica di classificazione. Non posso dire altro, oltre che a suo tempo solo alcuni amici miei ascoltarono e mi confermarono l’ascolto mediante adeguato strumento audio. Feci una parziale discovery con gli “interessati” e come mi era successo nel Gennaio del 2009 accadde un qualcosa, uno strano incendio sul terrazzo della mia casa in villetta che mi spinse ad andarmi a lamentare della circostanza con l’ufficio mio, che mai mi aveva ascoltato direttamente, né aveva valutato in alcun modo la massa del materiale di prova o indiziario da me raccolto. Il giorno dopo, trasecolando, subii una proposta di TSO eseguita a tempo di blitz in forma coattiva, in assenza di ogni presupposto di legge formale e sostanziale. Quanto segue è anche oggetto di procedimento penale, solo poi scopersi di rapporti intrecciati a mia totale insaputa e alle mie spalle e del ruolo di uno psichiatra che aveva preparato per lo strumento alcuni miei parenti in rapporti comprensibilmente complessi con me. Oggi so che modalità, tempistica, organizzazione e metodi hanno clamorose conferme anche in clamorosi precedenti, basta documentarsi. Ad oggi molte persone hanno valutato, condiviso valutazioni e pubblicato articoli coraggiosi, fedeli e suggestivi per la suggestività della storia, su internet, nel silenzio assordante di una certa stampa cartacea ufficiale.

Se fosse confermato un simile quadro dei fatti, questo sconvolgente scenario esoterico potrebbe allargarsi anche ad altri ambienti militari ed è pertinente ipotizzare dei collegamenti internazionali con simili organizzazioni “deviate” nel resto del mondo?

Ero concretamente a conoscenza di viaggi a nord, e verso Napoli. Del pari di una possibile forma, apparenza politico–militante del gruppo, della presenza ragionevole di ufficiali, alcuni dei quali individuabili foneticamente o perché da me osservati, della presenza tra essi di un uomo dalla voce autorevole arrogante la cui attribuzione a persona è possibile tramite un quadro indiziario concreto e riscontrabile. Fatti concreti, elementi verificabili, non altro. Incredibilmente quando, uscito da un silenzio costretto, raccontai di fatti, contesto, conseguenze patite, trovai un atteggiamento di assoluta volontà di non ascoltare. Fatti precisi indicati sarebbero diventati “frasi criptiche”, “allusioni incomprensibili”, o giudizi “sommari” di assoluta “inverosimiglianza”. Chi li ha pure riportati davanti al CSM, che ha fondato su tali giudizi un provvedimento grave di sospensione cautelare, a fronte di statistiche ineccepibili e numerose certificazioni di sostanziale perfetta salute, non ha tenuto conto di chi fossi, della mia storia, delle mie note capacità, della circostanza peraltro a loro non nota, che era stato depositato un memoriale analitico, chiaro e riferito a fatti oggettivi in una Denuncia a Perugia. La situazione derivatane è assurda, ma presagisco molto di più. È tutto quello che mi è accaduto dal 2009 in poi, pressioni, intimidazioni indirette, inviti ripetuti a tacere, e gli eventi dal Marzo ad oggi che hanno squarciato ulteriori veli. In particolare è vero che io ho notato una donna talmente tanto simile a Carmela Rea in un orario non d’ufficio nei corridoi della procura di Roma, da farmi affermare ancora oggi che era lei o potrebbe essere una sosia e comunque nessuno mi ha mai detto chi fosse, perché fosse accompagnata ad un colloquio riservato alle 19 di sera. Alcuni articoli su internet lanciavano ipotesi parallele alle mie rilevazioni, in Roma, ma soprattutto su internet venne fatto il nome di un alto Ufficiale dell’Esercito e qui debbo fermarmi.

Il provvedimento che ha più lasciato interdetti è stato indubbiamente la sospensione per un periodo di quattro mesi, stabilita dal CSM lo scorso 16 giugno 2011, ufficialmente “per gravi motivi di salute”. Come spiegate questa decisione e quali saranno le principali armi giuridiche cui ricorrerete per opporvi alla decisione?

La decisione, purtroppo si spiega da sola per abnormità, atipicità, essendo carenti entrambi i requisiti rigorosamente chiesti per un provvedimento di dispensa dal servizio. Ma intendo precisare che in casi del genere disinformazione, assenza di conoscenza di dati reali e presunta attendibilità di indicazione fornite da vertici di uffici, o da presunti autorevoli soggetti con responsabilità “politiche” tra i magistrati può avere influito. Il provvedimento allinea documenti, che risultano oggettivamente e criticamente essere destituiti di fondamento, allegando indizi concreti, prove documentali e informazioni ignote al CSM. Quello che colpisce è che sembra che nulla sia accaduto, tutto viene inanellato lasciando fermi, errori valutativi, disinformazioni su fatti precisi. Ma agli atti della commissione è stato depositato un memoriale approfondito, in copia, neanche letto, sembrerebbe.  Ma continuo ad avere fiducia che fatti e dati verranno realmente approfonditi. Se mancherà l’approfondimento necessario, ne potremo trarre varie altre conclusioni. In questa vicenda è a me apparsa evidente una particolare “collocazione” di due magistrati e ho dovuto fornirmene una approfondita spiegazione, che si riverbera sul rilievo e sulla importanza generale dei fatti. Un probabile epicentro. Ma è proprio la magistratura a dovere indagare e valutare. E se non si indaga a fondo non si valuta e se non si valuta non si indaga. Ma se si colpisce chi ha valutato a fondo per conto suo, e ormai indirettamente tutti quelli che condividono valutazioni ed altro, i ragionevoli inquadramenti e le ipotesi accertabili si fanno prospettive concrete. Inquietanti, e perciò io chiedo al CSM di dissipare veli e dubbi e di vagliare fino in fondo, a tutela della immagine e credibilità dell’organo di autogoverno della magistratura.

Paolo Ferraro risulta essere, da più fonti, un magistrato integerrimo e molto stimato nel suo ambiente di lavoro. Dopo la sentenza del CSM, quali sono state le reazioni dei suoi amici e colleghi? Ha percepito degli improvvisi cambiamenti in alcuni dei suoi rapporti inter-personali?

Vi è stato sgomento, sbigottimento, incredulità, nei miei confronti, e preoccupazioni per me, per sé e generali: come starà, ammesso che stia male come dice il vertice dell’ufficio, ma se la vicenda è vera in tutto od in parte riscontrabile, se gli hanno fatto quello che ha poi denunciato, cosa può succedere anche a noi, se lo appoggiamo o se ci trovassimo per sbaglio in una situazione analoga?!.  Ma lo stupore nasce da un prevalente meccanismo di autodifesa psicologica: non voglio, non posso credere, ho paura di credere e ragionare su questi fatti. Avete parlato mai con un malato terminale, che discetta di influenza non curata bene o di piccola bronchite, la speranza e la paura si tramutano in negazione psichica dei fatti, della realtà. Ma chi ha mai parlato di credere. Ho detto, sappiate, verificate ascoltate, valutate. La paura, per me, per la storia, per l’immagine dell’ufficio, per sé è per ora, prevalsa, ma nell’ambito ristretto e solo in parte. Non sono invece mancati abbracci, in bocca al lupo, affermazioni di profonda stima, da magistrati, avvocati e proprio da carabinieri che non lavorano a stretto contatto con me. La frase detta circa quattro mesi fa, senza preavviso, “noi stiamo con lei” e accompagnata da una duplice forte stretta di mano. Io un po’ sbigottito, come ha fatto a spargersi la voce, visto il cupo silenzio che circondava la vicenda...?! Il tono ?! Di chi sa di che storia si tratti, e molti sanno, ritengo, della valenza generale della vicenda: un giovane brigadiere di una stazione CC, sapeva tutto ed alla mia occasionale mera battuta sulle UAV (unità di addestramento) ha fatto dei cenni inequivoci. So per certo che molti sanno, e molti anche senza avere un ruolo qualunque. E allora se di una vicenda strana, coinvolgente in apparenza solo due palazzine sanno in tanti, in varie parti, come può essere un fatto solo locale? Non lo è, ragionevolmente, e molto dipenderà dalle indagini di Ascoli Piceno (e a Teramo un celebre processo ormai conclusosi in Cassazione sull’esercito bianco, a Roma un procedimento di fatti e luogo omologhi, del 2000, e altri avvocati stanno raccogliendo le tracce generali nella recente storia giudiziaria in merito a circostanze che sembrano rinforzare la lettura unitaria del fenomeno).

Questa vicenda è appena agli inizi e la battaglia che si appresta ad affrontare potrebbe non essere delle più semplici. Nella rete, molti cittadini ed una parte dell’informazione non-mainstream si sono stretti intorno a lei, mostrando grande attenzione e stima per la sua storia. Quali sono le aspettative e le speranze di Paolo Ferraro, sia come magistrato sia come uomo?

Verificare e capire, allargando conoscenze e raccogliendo sensibilità e disponibilità. In fondo si tratta solo di una struttura a base di setta, di gruppi di militari, di impossibilità di accertare, di un magistrato della capitale sottoposto a TSO, e su tutto il resto “trasversali dubbi” un polpettone saporito non addentabile agevolmente, ma siamo a dieta, il cuoco è un “visionario”, meglio non fare indigestioni. I curiosi che credono alla democrazia ed ai suoi valori però non la pensano così.

Le massonerie sono ordini iniziatici e istituzioni gerarchiche rivolte alla conoscenza. I membri delle massonerie sono definiti massoni e condividono valori morali, filosofici e spirituali comuni. Nei secoli scorsi le massonerie sono sorte sotto forma di associazioni di mutuo soccorso e come società segrete. In seguito assumono una funzione più speculativa, trasformandosi in confraternite di tipo iniziatico e mistico, caratterizzate dal segreto rituale. Gli affiliati di una massoneria ne condividono gli ideali morali e le regole e sono organizzati in una rigida struttura gerarchica dominata dalla figura del Gran Maestro. Al Gran Maestro viene attribuito il più alto grado di conoscenza, a cui l'affiliato possa aspirare. Le massonerie nel mondo sono migliaia e non è possibile quantificarle, né qualificarle per i loro scopi, avendo ciascuna di esse un proprio regolamento e proprie precipue finalità. In molti casi le massonerie sono regolari e legalmente riconosciute dagli ordinamenti giuridici in cui operano (in Italia, per es., la Gran Loggia Regolare d'Italia). In altri casi vi sono massonerie spurie, che non hanno nulla a che vedere con le associazioni regolari, che mantengono il loro carattere segreto o fenomeni di associazionismo locale che celano il mero raggiungimento di interessi privati, favoritismo e aiuto reciproco tra affiliati.

Dal punto di vista storico la massoneria esiste fin dall'antichità. In origine le società segrete hanno il fine di creare un Ordine, spesso parallelo, con obiettivi spirituali, religiosi, culturali, economici o politici. Nel corso della storia dell'uomo si sono avvicendate centinaia di migliaia di massonerie, tutte caratterizzate dal numero chiuso degli affiliati, da un rito di accettazione e dalla presenza di obiettivi comuni da perseguire. Durante il Medioevo le massonerie hanno avuto anche il compito di conservare la conoscenza delle tecniche e del sapere. Le più note sono le corporazioni di muratori composte dalle maestranze bizantine. Da questo potrebbe derivare il simbolismo muratorio ancora oggi usato in molte corporazioni. Nel corso del periodo pre-industriale le confraternite di mestiere (corporazioni) perdono la loro ragion d'essere. Lo stesso accade con l'avvento dell'Illuminismo alle massonerie dedicate alla conoscenza e alla ricerca scientifica, le quali non devono più condurre in segretezza i propri studi e non devono più temere le accuse di eresia. E' difficile tuttavia dare una definizione generale della massoneria o riassumere un percorso storico del fenomeno in poche righe. Ad esempio, gli Ordini massonici con finalità spirituali o religiose non sono influenzati dall'illuminismo o dalla rivoluzione industriale, avendo scopi diversi dalle altre corporazioni appena citate.

In genere gli storici distinguono le organizzazioni corporative più antiche da quelle più moderne nate alla fine del XVII secolo, in quanto non esiste un nesso di continuità tra le corporazioni di artigiani medievali e quelle speculative nate successivamente. Dal primo '800 all'epoca contemporanea le organizzazioni massoniche conservano perlopiù obiettivi politici, culturali, spirituali ed economico-finanziari.

La piramide è un simbolo antichissimo dalle origini tuttora oscure; il triangolo con l'occhio (poi inglobato nel cristianesimo come simbolo divino) può essere fatto risalire alla prima massoneria. L'utilizzo combinato di questi simboli si realizza sostituendo al vertice della piramide il Delta Luminoso ed ha origine nel 1776, quando il primo di maggio Adam Weishaput (che al tempo insegnava diritto canonico all'università di Ingolstadt) fonda una società segreta nota come Ordine degli Illuminati di Baviera. Weishaput definì l'occhio al vertice della piramide "The Insinuating Bretheren" ma nell'ambiente era più conosciuto come "Occhio Gnostico di Lucifero", od "Occhio Onnisciente". Il significato complessivo della Piramide del Potere è l'ambizione stessa dell'ordine: un governo mondiale guidato da una ristretta elite di sapienti, ovvero loro stessi. Tra gli altri scopi dell'ordine vi era la trasformazione del cristianesimo in una religione "scientifica", in cui la ragione prendesse il posto del divino.

Notare come la Piramide abbia tredici livelli e alla base scritto MDCCLXXVI: questo simbolo è stato studiato accuratamente in modo che chiunque conosca i significati delle metafore utilizzate sia in grado di interpretarlo. MDCCLXXVI non è che 1776 scritto in numeri romani, l'anno in cui nacquero gli Illuminati e in cui venne dichiarata l’indipendenza degli Stati Uniti d’America; le tredici file di mattoni rappresentano le 13 fasi di 13 anni l'una che gli Illuminati avrebbero seguito per conquistare il potere: si parte dalla fondazione e si va fino al 1945. Tuttavia, risalendo la piramide anno per anno, nel 1945 non si raggiunge il vertice, ma lo spazio che separa il corpo della piramide (simbolicamente la "Prima Era") dall'occhio.

Questo intercapedine va interpretato in modo leggermente diverso: rappresenta infatti una fase di 26 anni (13+13) definita "Seconda Era" che inizia nel 1945 e termina nel 1971. Si raggiunge così il Delta Luminoso, ovvero la "Terza Era". In progressione geometrica, questa è formata da tre fasi di 13 anni l'una (39 anni in tutto) che vanno dal 1971 al 2010. A questo punto, secondo i progetti degli Illuminati, nessuno sarebbe più in grado di contestare l'ormai completo "Nuovo Ordine Mondiale".

Questa è solo una delle molte diverse interpretazioni di questo simbolo: il delta luminoso rappresenta anche un elemento “divino” nettamente separato dalla materia (la piramide), ad esso subordinata. Ingrandendo il Delta Luminoso si potrà notare come l’occhio sia in realtà ben poco “umano” in quanto attorniato da squame. Gli illuminati si consideravano infatti strettamente legati ad una antica specie rettile a cui attribuirebbero l’origine della specie umana.

La Piramide del Potere è oggi visibile a tutti sul fronte della banconota da un dollaro a sinistra del Gran Sigillo. Qui sono presenti due scritte: in basso "Novus Ordo Seclorum" ed in alto "Annuis coeptis". La prima è l'obbiettivo stesso degli Illuminati (il Nuovo Ordine Mondiale), la seconda è il loro motto: "la provvidenza ha favorito il nostro impegno" (tradotto anche come "Dio ha acconsentito"). La scritta in basso conterrebbe un grossolano errore ortografico: la scrittura corretta infatti sarebbe “Secolorum” e non “Seclorum”. In realtà questo non è un errore, quanto piuttosto uno stratagemma usato dagli Illuminati per far sì che la scritta sia composta da 13 caratteri.

La Piramide del Potere venne mostrata al mondo per la prima volta il 4 luglio del 1776 sulla bozza della banconota da un dollaro. Questa bozza verrà poi corretta varie volte invertendo tra l’altro la posizione dell’Aquila calva (il Gran Sigillo) e quella della Piramide (che al tempo si trovava a destra), prima della versione definitiva del 20 giugno 1782. Il Congresso approverà l’utilizzo del Gran Sigillo per rappresentare gli Stati Uniti il 15 settembre del 1792. Successivamente, il dollaro verrà modificato numerose altre volte, nel 1933 Franklin Delano Roosvelt (Presidente degli Stati Uniti dallo stesso 1933 al 1945, nonché massone del 32° grado) fece coniare la prima banconota americana da un dollaro con la Piramide ed il Gran sigillo sul lato posteriore (da allora ad oggi si è mantenuta questa impostazione). La Piramide del Potere era visibile anche sullo stemma del DARPA (Defence Advanced Reseach Projects Agency) prima che, nel 2004, questo venisse modificato.

SIGNORAGGIO: AL VERTICE DELLA PIRAMIDE. Che cos’è il signoraggio?

Si tratta di un diritto dei "signori", adottato fin dal passato. Oggigiorno è una delle maggiori cause di indebitamento pubblico e di ulteriore arricchimento dei potenti e dei ricchi. Se ne parla poco, ma esiste, da secoli. Il procedimento è molto semplice: la Banca Centrale Europea produce, ad esempio, una banconota con soli 5 centesimi di spesa, ma l’affitta alle varie nazioni a 100 €. Ciò significa che la società privata che stampa ed emette la banconota guadagna in pratica 95 €. Il signoraggio corrisponde quindi alla differenza tra il valore nominale della moneta (che troviamo scritto su di essa) e i costi di produzione della stessa.

Settimio Severo, imperatore romano vissuto nel III secolo d.C., adottò anch'egli questo metodo, dimezzando il materiale utilizzato per le sue monete, ma mantenendo identico il valore nominale scritto su di esse. La differenza, materiale inutilizzato, rimaneva nelle casse dello stato.

In Europa è la BCE (Banca Centrale Europea) che detiene il diritto esclusivo di battere moneta, arricchendosi alle nostre spalle. E, attenzione, si tratta di una banca privata! Lo stato paga l’affitto della moneta con Titoli di Stato, indebitandosi e, alla fine, chi ci rimette siamo sempre noi, poveri cittadini. Infatti, siamo noi a pagare questo debito, con le tasse. Se invece fosse lo stato a battere moneta, non vi sarebbero tasse. Ma si parla di abbattere un sistema ormai radicato da secoli.

In passato le cose erano diverse, perché un grammo d'oro valeva come un grammo d'oro. Una moneta d'oro aveva un valore intrinseco, pari al suo valore nominale. Solo in seguito i signori iniziarono a coniare monete utilizzando minor materiale prezioso, dando vita al signoraggio. Fin dall’antichità la plebe ha sempre dovuto sottostare alle scelte dei ricchi signori, uniti tra loro in logge di potere e società segrete. La maggior parte dei politici presenti nei vari paesi del mondo, sia che siano di destra sia che siano di sinistra, così come i grandi imprenditori e i fondatori di importanti multinazionali apparterrebbero in molti casi a logge massoniche, e dal vertice della piramide sociale controllerebbero il destino degli uomini.

Guardacaso, la prima banca centrale a livello mondiale fu proprio creata da un massone, William Peterson, che la fondò assieme ad alcuni Fratelli approfittando della situazione di debito pubblico nella quale si trovava il suo paese: si trattava della Banca d’Inghilterra, ed era l’anno 1694. Già Karl Marx ne Il Capitale denunciava senza mezzi termini le banche centrali, definendole “società di speculatori privati”. La Banca d’Inghilterra venne presa come modello di riferimento da tutti gli altri paesi del mondo. Perfino il Vaticano godrebbe del diritto di signoraggio, per via delle molte medaglie ed emblemi messi in circolazione. Nella storia dell’umanità ci furono persone che provarono ad abbattere questo sistema. Una di queste è John F. Kennedy.

Nel giugno del 1964 sfidò la Fed (Federal Reserve Note), società privata che deteneva, e detiene ancora oggi, il monopolio sul conio monetario. A novembre dello stesso anno, il presidente venne eliminato, e proprio a Dallas, una delle sedi delle dodici banche statunitensi. E prima di lui anche altri presidenti avevano tentato di imporre una banconota statale; tra questi ricordiamo Lincoln, McKinley e Roosevelt, tutti e tre uccisi. L'ex questore di Genova Arrigo Molinari citò in giudizio Bankitalia per “la truffa del signoraggio”. Aveva l'udienza il 5 ottobre 2005, ma venne ucciso a coltellate il 27 settembre! Della serie: chi tocca il signoraggio muore.

In Italia, il signoraggio fino a pochi anni fa era diritto della Banca Centrale d’Italia e, in seguito, della Banca Centrale Europea, entrambe private. Ma c’è di più. Tra le banche socie di quest’ultima troviamo anche quella d’Inghilterra, di Danimarca e di Svezia, associate rispettivamente al 15,98 %, 1,72 %, 2,66 %, pur non avendo accettato di aderire all’Euro. Parte del signoraggio europeo finisce quindi nelle tasche di queste società private estere. In pratica, noi italiani stiamo aiutando questi tre paesi a pagare le loro tasse! Questi potenti, a parte il signoraggio, utilizzerebbero anche altri metodi utili al loro arricchimento, sempre alle spalle della povera plebe. I ricchi banchieri e i loro sostenitori sarebbero infatti collegati anche a fondazioni, multinazionali e sette di potere, come Scientology, l’Opus dei, e l’Amway corporation.

POLITICA E MASSONERIA. Ma guarda un po’ cosa vai a scoprire da fonti notoriamente di sinistra, come può essere un’intervista di “Repubblica” a firma di A. Statera. "Quando nel mondo la canaglia impera, la patria degli onesti è la galera", recita ironico il Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia Gustavo Raffi, avvocato ravennate dal profilo un po' risorgimentale, ex segretario locale del defunto Partito repubblicano di Ugo La Malfa, quando gli si chiede di commentare l'improvvisa fiammata antimassonica di parte del Partito Democratico. E l'Opus Dei? E Comunione e Liberazione? E tutti i mariuoli, clericali o non, ormai in circolazione per ogni dove? E tutti i seri problemi del paese che il Pd tende spesso a rimuovere imboccando improbabili vie di fuga? Il Gran Maestro se lo chiede, ma la delibera assunta dalla Commissione di Garanzia presieduta da Luigi Berlinguer, proveniente da una vecchia famiglia massonica il cui capostipite Mario, padre di Enrico e Giovanni, era Gran Maestro della Loggia di Sassari, in fondo non gli dispiace: "Al di là della temporanea sospensione dei fratelli pd iscritti - dice - c'è un percorso serio per capire la questione e non infliggere una censura dogmatica; è un percorso laborioso, ma simile a quello già tracciato saggiamente dal lodo di Valerio Zanone e Giovanni Bachelet". Ma non gli va giù che i problemi interni di un partito in cui si è rivelata difficile la convivenza tra l'anima cattolica ex democristiana con quella laica ex repubblicana, ex socialista ed ex comunista, tirino inopinatamente in ballo "una delle più importanti agenzie produttrici di etica che abbia creato dal suo seno la storia dell'occidente, come il professor Paolo Prodi ha efficacemente definito la massoneria".

Un fatto è certo, i massoni del Partito democratico, che dovranno ora rivelarsi, sono a bizzeffe, come garantisce l'ex sindaco comunista di Pistoia Renzo Baldelli. Col Gran Maestro recalcitrante, che giura di non aver mai chiesto di mostrare la tessera di partito ai suoi fratelli ("Se no verrei messo fuori dal consesso della massoneria mondiale") tentiamo un computo, che ci porta a un totale di oltre 4 mila su quasi 21 mila iscritti in 744 logge, il 50 per cento dei quali concentrati in Toscana, Calabria, Piemonte, Sicilia, Lazio e Lombardia, con la maggiore densità assoluta a Firenze e Livorno. Di questi almeno 4 mila diessini, molte centinaia ricoprono cariche politiche, amministrative o dirigenziali, come in passato il Gran Maestro aggiunto Massimo Bianchi, che è stato vicesindaco socialista di Livorno. Adesso dovranno rivelarsi ed è facile prevedere che non sarà un'operazione indolore.

Ma Gustavo Raffi pensa che potrebbe venirne persino un bene, cioè "la fine di questa leggenda della segretezza, frutto avvelenato delle gesta del materassaio di Arezzo, che non ha ragione di persistere. Ma come si fa - si accalora - a confondere il Grande Oriente, scuola di etica e di classe dirigente, con i mariuoli che infestano il paese anche in false massonerie? Il fascismo, perseguitandola, costrinse la massoneria al segreto, ma oggi siamo un'istituzione trasparente tornata nella storia. Lo dimostrano le decine di nostri convegni culturali con partecipanti del calibro di Margherita Hack, Rita Levi Montalcini, Umberto Galimberti, Giuseppe Mussari, Ignazio Marino, Paolo Prodi, Gian Mario Cazzaniga e tanti, filosofi, storici, accademici di reputazione e scienza preclare. Il Pd si accorge adesso che la sinistra è figlia anche della massoneria? Fanno fede i nomi dei fuorusciti a Parigi durante il fascismo, le Brigate partigiane in Spagna e la Costituente, dove su 75 membri 8 erano massoni, da Cipriano Facchinetti ad Arturo Labriola, Meuccio Ruini... ".

Gran Maestro - lo interrompiamo - per favore, non torniamo a Garibaldi e Bakunin e ai generi massoni di Marx, il fatto è che in un passato più recente le vicende della massoneria ufficiale non sempre sono apparse commendevoli. Tra l'altro, nel governo e nella attuale maggioranza di destra si dice ci sia la più alta concentrazione di massoni (e di Opus Dei) mai vista, come ha rilevato l'ex presidente Francesco Cossiga, che se ne intende. A parte Berlusconi, Cicchitto, che erano nella P2, e al consulente di Gianni Letta, quel Luigi Bisignani che ne era il reclutatore, ce ne sarebbero molti altri, a cominciare da Denis Verdini, che però ha smentito. Per non dire dei Lavori Pubblici, culla della Cricca degli appalti, considerato il ministero col maggior numero di dirigenti massoni. Il Gran Maestro non sfugge: "Io le posso dire in tutta coscienza che, tolti quelli che giocavano a nascondino col materassaio di Arezzo e che con noi non hanno nulla a che fare, abbiamo fatto un'attenta analisi dei nomi emersi come appartenenti alla Cricca e delle intercettazioni telefoniche pubblicate sui giornali. Abbiamo trovato solo un nome nelle nostre liste e l'abbiamo sospeso immediatamente. Se ne emergeranno altri, stia certo subiranno la stessa sorte". Inutile insistere per ottenere il nome, il Gran Maestro garantisce di non ricordarlo, ma promette di ricercarlo, perché dice di sognare una massoneria supertrasparente come quella americana, cui i fratelli sono fieri di appartenere, dove le logge sono indicate al centro delle città con grandi cartelli stradali, "come già abbiamo fatto a Ravenna mettendo la targa sulla nostra sede, perché se ti nascondi finisci alla gogna". Ma nulla autorizza la componente cattolica del Pd a confondere la massoneria storica con pseudomassonerie affaristiche, "se no è come se io dicessi non che un partito è degenerato, ma che tutti i partiti sono degenerati, mentre, pur se disastrati, continuano ad essere il cardine della democrazia. Mai dirò che i partiti inquinano la massoneria, ribaltando l'affermazione di quel parlamentare del Pd, il quale ha osato dire che la massoneria inquina il suo partito". Se la teoria del senatore di Magliano Sabina Lucio D'Ubaldo prendesse piede nel Pd, il Gran Maestro vi scorgerebbe un arretramento clericale e culturale quasi a due secoli fa, all'enciclica "Mirari Vos" di Gregorio XVI che condannò la separazione tra Stato e Chiesa e qualunque libertà di coscienza.

Chissà se la delibera dei garanti pd guidati da un Berlinguer frenerà ora le iscrizioni al partito, notoriamente non in splendida salute, o al Grande Oriente d'Italia, che conta 1600 "bussanti" all'anno, più di un terzo dei quali respinti in attesa di "passaggi all'Oriente Eterno" di anziani fratelli.

Bettino Craxi, l’ultimo uomo di Stato. La storia è talvolta così distante dalla realtà, i fatti vengono stravolti e la verità negata: così l’onore di un uomo viene sfibrato per cancellarne la memoria e la sua stessa vita. Mentre tutti gli scagliavano contro sentenze e ingiurie, mentre il magistrato Antonio Di Pietro spasimava per il grande momento e qualcuno gridava “Tonino facci sognare”, sicuramente nessuno di loro sapeva che lui aveva tentato di salvare l’Italia, e così non restava che un’unica soluzione: andare via il prima possibile, una fuga immediata.

I fatti erano ben diversi, alle spalle vi era un piano, chiamato “Apocalisse”, studiato nei minimi dettagli e gestito direttamente da Londra (Secondo David Icke Londra sarebbe il centro del controllo globale). Nacquero in quegli anni in Italia molte scuole di lingua inglese, come copertura dei servizi segreti; molti agenti del Sisde e del Sismi furono intimoriti, altri si suicidarono: la campagna mediatica dei giornali, e non solo delle televisioni, avanzò impietosa. L’obiettivo di fondo consisteva nel rovesciare i governi e porre al potere dei criminali, dei “contadini”, di destra e di sinistra, islamici e non, per poi privare uno Stato della sovranità monetaria, privatizzare ogni cosa e rastrellare le ricchezze esistenti, creando così un sistema economico completamente diverso, quello del “rent”, dell’affitto, basato dunque non più sul concetto di possesso, bensì su quello di uso. Un ambizioso progetto da realizzare mediante la svalutazione della moneta, la riduzione della spesa pubblica, la deregolamentazione del mercato con politiche liberiste, la fissazione di alti tassi di interessi, con la lotta alla corruzione, la privatizzazione del patrimonio statale e della Banca Centrale, ed infine la rifondazione della Nato come organismo militare per sabotare le iniziative dell’Onu.

In realtà il signoraggio non è il solo problema, ma è un anello di un meccanismo molto più complesso che si serve di una forma di potere centralizzata e piramidale, andando a creare quelle che molti studiosi definiscono società “rettiliane” o demagogie pure. Un sistema questo che si è rivelato efficace, dobbiamo riconoscerlo, in contesti medievali in cui non esisteva la comunicazione di massa, le attuali tecnologie e forme di crimine psicologico: la nostra società rimane tuttora ancorata a schemi di potere antichi e arcaici.

Craxi, come qualcuno prima di lui, aveva intuito che il sistema era concatenato perché ragionava come un uomo di Stato, ed è stato tradito dal serpente che è dentro in noi. Voleva salvare l’Italia, parlava di svolta, di cambiamento e di rinnovamento, parole che certamente hanno fatto tremare gli eminenti Banchieri di Londra. Craxi cercava di combattere uno degli anelli del sistema tramite la “lira pesante”, che consisteva nel coniare la “5 lire in argento” con l’effigie di Garibaldi, cosa che sicuramente non è stata ben gradita alle lobbies bancarie che scatenano guerre sanguinarie solo per imporre il costo di una commissione bancaria in un paese.

Mentre cercava di salvare l'Italia, si accorse cos’è veramente il “potere”. Ho sacrificato la mia vita e venti anni di studi e di ricerche per capire ciò che i politici sostanzialmente dicono in frasi del tutto accidentali. Egli intendeva rifondare il tessuto sociale, il modo di fare economia, e il concetto stesso di partecipazione politica perché aveva intuito che il mercato si stava trasformando: l’economia cresceva tra usura e collusione, e da tempo ormai era in atto un etnocidio, ossia lo sterminio dell’identità etnica, delle tradizioni, e della cultura mediante strategici piani di “globalizzazione” e l’appropriazione dell’intelligenza dei popoli.

Tutto quello che si è realizzato con il Trattato di Maastricht è stato accuratamente programmato nel 1978 da un piano strategico e complesso, che già allora fece le sue prime vittime. Maastricht si è appropriato del potere democratico per antonomasia in quanto va incidere sulla redistribuzione della ricchezza reale, trasferendo in maniera illegittima e incostituzionale la sovranità monetaria ad un ente non rappresentativo della volontà sovrana dei cittadini. L’unione monetaria ha creato una macchina che distrugge, depreda e porta guerra tra i popoli; la banca, dal canto suo, si finge un’istituzione, che entra come un parassita nell’azienda per alimentare un sistema di denaro virtualizzato. I Grandi Banchieri si sono resi responsabili dell’olocausto, senza che nessun tribunale internazionale li abbia mai condannati, e continuano a sterminare popoli in maniera sempre più subdola in forma di etnocidio.

L’eurosocialismo è caduto. Tutte le colonie del regime comunista sono state attaccate perché i sistemi economici ibridi tra comunismo e capitalismo andavano eliminati ad ogni costo in modo da evitare anche lo scontro diretto con la civiltà araba: ed ecco perché Craxi era considerato un filo arabo.

Nel 1992 non era più possibile salvare l’Italia e Craxi aveva un compito tanto complicato quanto impossibile da portare a termine. Mentre Maastricht vedeva nascere l’Europa dei Banchieri Ladroni, la magistratura arrestava Mario Chiesa, e procedeva con gli avvisi di garanzia che avrebbero portato avanti la crociata contro “la corruzione”. Nel luglio del ’92 le parole di Craxi alla camera dei deputati denunciano una criminalizzazione della classe politica, un vero e proprio processo storico e politico ai Partiti, e "un finanziamento irregolare ed illegale al sistema politico,... non è e non può essere considerato ed utilizzato da nessuno come un esplosivo per far saltare un sistema, per delegittimare una classe politica”.

Il Buon Tonino probabilmente solo quando fece il grande gesto teatrale di togliersi la toga dinanzi alle telecamere e di rassegnare le dimissioni dalla magistratura, diede prova di aver capito che era stato usato e manipolato come una pedina in una guerra strategica senza scrupoli. Ma il nostro ex commissario doveva capire che il sangue sporco si deve mischiare con quello nuovo. Mani pulite è stato dunque qualcosa di più, aveva l’obiettivo di controllare le masse, eliminare la classe politica e sostituirla con soggetti dalla mente semplice e poco intelligente, assolutamente inadeguati a contrastare i veri poteri, mentre le privatizzazioni e il saccheggio dell’Italia proseguiva.

Il caso dunque volle che i folli avevano arrestato i sani, e la storia insegna che chi si mette contro questi poteri va eliminato: Jesus fu crocifisso perché chiedeva a Cesare perché sulla moneta veniva coniata necessariamente la sua immagine, l’oro in fin dei conti è sempre oro. “Dai a Cesare ciò che è di Cesare”, ma molti non sanno cosa vuol dire realmente e se lo sapessero credo che diventerebbero tutti improvvisamente kamikaze.

Nello stesso anno, Giovanni Falcone in una macabra esplosione accreditata alla mafia trova la morte; così come l’ingegnere Raul Gardini che muore per mano di un anomalo suicidio: episodi che in realtà nascondono ben altro. Lo stesso scenario che si è venuto a creare ultimamente in Libano con Hariri, che stava organizzando la borsa del Petrolio in euro. In quel periodo tutti gli ambasciatori e le Associazioni sconosciute millantavano democrazie sconosciute, e si meravigliavano scandalizzati della corruzione in Italia, ma non ricordano ciò che la Federal Reserve fece nel 1923, da cui il motivo che spinse gli americani a combattere una guerra mondiale.

A colpire Craxi è stata la finanza internazionale, i Banchieri, un mondo sconosciuto alle masse, gerarchie ristrette e estremamente chiuse, persone che non vedrete mai camminare tra la folla. Lo temevano così tanto che al pensiero che Craxi potesse trovarsi in suolo italiano e rilasciare scomode dichiarazioni li preoccupava seriamente, tanto è vero che era costantemente controllato ad Hammamet.

Le sue parole devono essere di insegnamento a questi politici contadini, diventati i camerieri di Banca Intesa e Unicredit e non più protagonisti della regolamentazione del sistema economico. Si sono autodefiniti pastori del gregge, ma bisogna ricordare che l’unico uomo di Stato che non è stato accettato dall’Inghilterra era Craxi, contrastato dagli stessi giornali che ora santificano Carla del Ponte e additano Slobodan Milosevic per aver condotto una pulizia etnica.

Oggi è l’era dei pappagalli, della civiltà schiavizzata dai banchieri, agganciati a loro volta ai servizi segreti, che hanno creato “comitati di controllo e gestione delle crisi”, utilizzando strutture come la Gladio, e Società di sicurezza per compiere qualsiasi tipo di attentato e di omicidio.

La velocità della magistratura nel vendere l’Italia è stata strabiliante. Accusare Bettino Craxi è stato come chiudere la porta in faccia allo Stato stesso, per il quale si sono combattute guerre, alzate barricate, in nome di una bandiera si moriva con onore dinanzi al plotone di esecuzione, gridando “Viva l’Italia”. Tutto questo non è servito a riunire gli uomini, ma a distruggere la fratellanza, perché alla guida di una nazione erano stati posti piccoli uomini e non Statisti, banali intellettuali che non sapevano cos’è davvero il potere. Spero che oggi la nostra classe politica abbia capito che siamo posseduti dal sistema bancario, e che hanno venduto l’Italia a dei baroni Ladroni.

IL MISTERO SULLA MASSONERIA. Massoneria, politica e criminalità. L’importanza dell’inchiesta di De Magistris, e la dimenticata inchiesta Cordova. Ci aiuta a capire un resoconto del Prof. Paolo Franceschetti.

L’inchiesta portata avanti da De Magistris probabilmente tocca quello che a nostro parere è il problema più grosso del nostro Stato, da decenni: i rapporti tra criminalità organizzata, politica e finanza. Pochi si ricordano dell’inchiesta che nel 1992 Cordova fece sulla massoneria calabrese. E pochi hanno notato le similitudini con l’attuale inchiesta di De Magistris. Vale la pena di ricordarle. Prima però segnaliamo che oggi tutte queste inchieste – ma molto altro ancora - sono raccontate in un libro, Fratelli d’Italia, di Ferruccio Pinotti. Il libro è grande, 800 pagine circa. E’ ben documentato, e contiene anche interviste ad alcuni Gran maestri di diversi Riti. Ma da esso è possibile ricavare alcuni punti fermi che possono essere oggetto di approfondimento.

Analizzare il sistema massonico, e capire tutte le implicazioni che comporta questa istituzione, le interferenza con la società, con la giustizia, ecc., è una cosa impossibile da fare nelle poche righe di un articolo. Sarebbe un po’ come voler spiegare il funzionamento del mondo in poche righe. Il nostro scopo quindi è solo fornire alcuni spunti di riflessione per permettere poi un ulteriore approfondimento a chi lo vorrà fare, rimandando ad altri libri o testi. Evidenziando, in particolare, quei punti che vengono di solito trascurati quando si parla di massoneria, che sono importanti per capire realmente il sistema nel suo insieme.

In massoneria sono iscritte in Italia circa 50.000 persone, tra iscritti ufficiali e non ufficiali. Questo numero immenso di persone è costituito prevalentemente da militari, imprenditori, professionisti, docenti universitari, politici. In altre parole buona parte dell’inteligencia italiana e delle persone che ricoprono incarichi di potere. Tra questi ricordiamo come legati direttamente o indirettamente alla massoneria, Cossiga, Andreotti, Prodi, Berlusconi, De Benedetti, molti componenti legati alla famiglia Agnelli, Vittorio Valletta (dirigente Fiat per molti anni, l’uomo che ha portato la nostra fabbrica al successo degli anni d’oro), i governatori della Banca d’Italia Fazio, Ciampi, Carli, l’ex presidente di Mediobanca Cuccia, l’ex presidente del senato Marcello Pera, ma anche molti cardinali, vescovi, il Preside della facoltà di beni culturali di Bologna Panaino, ecc…

In particolare il mondo bancario, finanziario e imprenditoriale ha legami fortissimi con la massoneria. Oltre ai già citati Agnelli, De Benedetti, e molti presidenti della Banca d’Italia, troviamo Volpi, Joel, Toeplitz, Stringher, Caltagirone, De Bustis (che apparterrebbe agli illuminati, secondo il libro di Pinotti), secondo alcune voci Consorte, Fiorani e tanti altri.

D’altronde, per capire i buoni rapporti tra massoneria e cariche ufficiali dello stato, basti pensare che Prodi alla riunione di apertura del GOI (Grande oriente d’Italia) ha mandato un messaggio di augurio e benvenuto, di cui vale la pena riportare il testo: “La repubblica e il Governo vi salutano, la Repubblica si riconosce nei valori della massoneria”. Il saluto è stato portato dal sottosegretario alle politiche giovanili De Paoli.

Mentre l’ex Presidente della Corte Costituzionale e della RAI Baldassarre ha presenziato di recente ad una riunione del GOI, intervenendo sul tema della tripartizione dei poteri dello stato. In altre parole: i legami tra alte cariche dello stato e massoneria sono fortissimi ed indiscussi. Sono poco pubblicizzati e poco dichiarati, questo si. Ma sono ufficiali. Nulla di strano in ciò. Basti ricordare che il primo parlamento dell’Italia unita era composta in gran parte da massoni come Crispi, Depretis, Zanardelli.

Ogni tanto poi spuntano collegamenti con la massoneria deviata, addirittura da personaggi insospettabili. Pannella infatti tentò di candidare nelle sue liste nientemeno che Licio Gelli, il capo della famigerata P2 al fine, si presume, di fargli avere l’immunità parlamentare. Ma la sua spiegazione ufficiale fu che lo candidava perché in cambio Gelli prometteva di rivelargli i suoi segreti. Una spiegazione delirante, che Pannella dette addirittura in commissione parlamentare. Ma che dimostra come il potere politico vada a braccetto in tranquillità con personaggi che hanno cospirato contro lo stato, e commissionato delitti di ogni tipo, stragi comprese, fino a portarli dentro al parlamento.

La massoneria è un fenomeno mondiale, organizzato cioè su scala mondiale. Il vertice del Grande Oriente, in tutto il mondo, si trova nella corona inglese. Sono appartenuti alla massoneria quasi tutti i Presidenti degli Stati Uniti, e personaggi come Gheddafi e Arafat, presidenti Francesi, Re Del Belgio, di Olanda, e via discorrendo. Ovverosia i vertici del mondo. E’ una creazione della massoneria – come, perché, e in che misura, sarebbe un problema tutto da studiare e approfondire – l’ONU, ma anche la Croce Rossa, il WWF (il cui presidente è Filippo Di Edimburgo). Fu una creazione massonica il cosiddetto gruppo Bilderberg, e lo fu anche la cosiddetta commissione Trilaterale.

Per capire il problema che potenzialmente può crearsi, in virtù di questa fratellanza tra esponenti di spicco di ogni parte del mondo, si cita spesso l’episodio del Britannia, del 1992; in quell’anno, sul Piroscafo Britannia, della Corona inglese, si riunirono alcuni vertici della finanza e della politica mondiale, tra cui Draghi e Prodi e si decise che sarebbero state privatizzate alcune aziende italiane. Passarono in mani straniere dopo questa riunione la Buitoni, la Invernizzi, Locatelli, Ferrarelle, ecc... Inoltre in quell’occasione, stando a quello che riportano alcuni storici e giornalisti, pare – ma il condizionale è d’obbligo – che si decidesse l’affossamento della lira che infatti avvenne negli anni seguenti, ove la nostra moneta conobbe una svalutazione senza precedenti (fine della svalutazione era quella di far acquistare le nostre aziende ad acquirenti stranieri, per un prezzo irrisorio).

Si spiega probabilmente così – in virtù del legame massonico mondiale - la presenza della Banca d’Inghilterra (i cui vertici sono nominati dalla Corona Inglese) nella BCE con il 17 per cento delle quote (nonostante non sia un paese dell’area Euro); e si spiega così perché molte banche italiane effettuano investimenti ingenti in azioni di Chase Manhattan Bank, Barclayrd, Morgan Stanley, ecc., tutte legate direttamente o indirettamente alla Corona Inglese per mezzo di un complicato gioco di scatole cinesi, creando dei conflitti di interessi spaventosi.

La massoneria ha diverse sfaccettature. Esistono migliaia e migliaia di logge, e decine di istituzioni massoniche o paramassoniche (organizzate cioè come la massoneria, senza potersi chiamare ufficialmente con questo nome). Abbiamo il Grande Oriente, la più diffusa a livello mondiale. Poi abbiamo i Rosacroce, I cavalieri di Malta, i Templari, l’Opus Dei e chissà quante altre magari sconosciute. Tutte queste istituzioni sono caratterizzate dal segreto per quanto riguarda il loro funzionamento interno, e dal fatto di trasformarsi, spesso, in veri e propri comitati di affari, anche illeciti. Queste istituzioni sono diverse tra di loro, e talvolta sono in conflitto. Ma molto spesso collaborano e cooperano. Basti ricordare che Gelli apparteneva contemporaneamente alla P2, che tecnicamente era una loggia del Grande Oriente, ma era iscritto anche ai Cavalieri Di Malta e ai Templari, per sua stessa ammissione.

In teoria la massoneria è un istituzione in cui si entra per fare un percorso iniziatico di conoscenza e approfondimento dei temi principali dell’esistenza. Questo è senz’altro vero per alcuni o molti dei suoi iscritti e per numerose logge. In teoria poi la lista degli iscritti dovrebbe essere pubblica, essendo vietate dal nostro ordinamento le associazioni segrete. Ma in realtà esiste il fenomeno delle logge massoniche coperte, o segrete, dove si iscrivono uomini politici che non vogliono rivelare la loro appartenenza alla massoneria; e a queste logge si affiliano anche boss mafiosi come Inzerillo, Bontate, Riina, Bagarella, Lo Piccolo, Mandalari (il commercialista di Riina) che certamente non entrano in questa istituzione per una sete di conoscenza e approfondimento della ricerca interiore.

La ragione dell’esistenza delle logge coperte la spiega il Gran Maestro Di Bernardo, a pag. 396 del libro: “Le logge coperte sono sempre esistite. La loro funzione era quella di salvaguardare persone di particolare importanza istituzionale, politica e finanziaria, proteggendole da pressioni indebite da parte di altri fratelli”. Le logge massoniche coperte insomma sono il collante tra criminalità organizzata, politica, finanza e imprenditoria (non a caso i più grandi scandali finanziari italiani hanno visto come protagonisti dei massoni). E le logge massoniche coperte sono il motivo, o comunque uno dei motivi, dell’espansione della criminalità organizzata mafiosa nelle regioni del centro e del nord.

Un esempio chiarirà meglio la questione. Se un capo camorra deve costruire un grosso immobile al nord, qualora sia affiliato alla massoneria, chiederà aiuto ai “fratelli” del nord. Che, per il solo motivo di avere davanti un fratello, lo aiuteranno in questa impresa. Se deve riciclare denaro sporco, sono ancora una volta le collusioni con un banchiere massone che consentiranno questo riciclaggio. E il legame massonico è la spiegazione dell’espansione della mafia negli stati dell’Unione Europea. Considerando che la massoneria è una fratellanza “mondiale” non sarà difficile per un mafioso trovare appoggi in Russia, in America, o alle Cayman. Così come non è difficile, per massoni appartenenti alle varie mafie, entrare in collegamento tra loro e stringere patti di alleanza; di qui nascono i patti di alleanza tra mafia, ‘ndrangheta e camorra. Ecco il motivo per cui quando un magistrato inizia ad indagare sulle cosiddette logge massoniche coperte viene regolarmente silurato, fisicamente e/o lavorativamente.

Ora, qui sta il nodo centrale del problema massoneria, tra gli iscritti alla massoneria esiste un giuramento di fedeltà che li porta ad aiutarsi l’un l’altro. Questo è il nodo cruciale del problema massonico: è possibile che un pubblico ufficiale o un funzionario statale siano servitori dello stato ma, contemporaneamente, prestino fedeltà ad un’istituzione non statale? Il tema, ovviamente, è tutto da approfondire, perché ovviamente i più alti esponenti della massoneria negano che il loro giuramento di fedeltà prevalga sulle leggi dello stato. Ma, francamente, quando in una loggia coperta operano mafiosi, esponenti dei servizi segreti, imprenditori, e politici, c’è perlomeno da dubitare di queste affermazioni di lealtà allo stato. Occorre inoltre tenere presente una cosa che pochi sanno; all’interno la massoneria ha i propri tribunali, organizzati in tre gradi proprio come avviene nell’ordinamento giudiziario italiano.

La massoneria si configura quindi come un vero stato nello stato. Potremmo dire uno stato al di sopra dello stato. O perlomeno, per usare le parole della 32 Commissione parlamentare antimafia, “le logge coperte … sono in grado di determinare gravi interferenze nell’esercizio di funzioni pubbliche”. Ecco il motivo dell’allarme che suscita la possibilità che un presidente del Consiglio (Romano Prodi) possa appartenere ad una loggia coperta di San Marino o comunque avere interessi ad essa legati. Ecco la potenziale bomba che potrebbe scoppiare se l’inchiesta di De Magistris, nei suoi contenuti, fosse portata alla luce. Ed ecco perché il clamore mediatico si preferisce dirottarlo sul problema del suo “presenzialismo” in TV, per stornare l’opinione pubblica da un problema immenso, che coinvolge il problema dei rapporti tra politica e criminalità organizzata.

C’è un dato importante poi che non bisogna trascurare: i servizi segreti sono quasi sempre stati diretti da appartenenti alla massoneria, con tutte le conseguenze del caso. E’ documentalmente accertato che furono diretti per quasi 30 anni da appartenenti alla massoneria, oggi non si sa poiché mancano elenchi di iscritti recenti. Ma non a caso è coinvolto nell’inchiesta di De Magistris l'odierno capo della sezione calabrese del Sismi, oltre a vari politici. Per qualche decennio i servizi segreti non rispondevano, insomma, al Governo, ma a Gelli. Ed è probabilmente per questo – per la presenza dei servizi segreti deviati - che in tutti i fatti giudiziari più gravi di questi ultimi anni, quando erano presenti i servizi segreti, i testimoni sono morti in modo misterioso e sempre con le stesse tecniche (suicidi in ginocchio; incidenti stradali; infarti improvvisi). Diciamo “probabilmente” perché il dubbio è sempre un obbligo, quando si tenta di ricostruire un sistema di potere senza avere prove documentali certe (cosa peraltro estremamente facile quando chi deve indagare è legato a quel gruppo di potere e per non tradire il giuramento fatto non indaga). Tuttavia è un fatto che nei principali episodi stragisti dell’Italia di questi ultimi decenni (solo per far qualche esempio: Italicus, Ustica, Moby Prince, Piazza Fontana; Strage di Bologna; strage di Via D’Amelio e strage di Capaci) i servizi segreti deviati erano sempre coinvolti in vario modo; e i testimoni sono sempre morti nello stesso identico modo: con una tecnica che oltre ad essere sempre uguale, è indizio dell’intervento di persone che adottano tecniche sofisticate (ecco il significato dell’espressione “menti raffinatissime” usata da Falcone riguardo al suo attentato all’Addaura). Ciò indica che probabilmente c’è un filo conduttore tra tutte queste stragi. E questo filo conduttore probabilmente lo si troverebbe nello logge massoniche deviate.

In conclusione: le logge massoniche coperte sono il collante che lega tra di loro criminalità, finanza e politica. Il giuramento massonico, e i vari legami che in queste sedi si creano, sono la spiegazione dell’espansione della criminalità organizzata in tutti i campi della vita sociale e politica. Ai vertici della finanza, della politica, dell’imprenditoria, ci sono molto spesso persone legate, direttamente o indirettamente alla massoneria. E i servizi segreti deviati sono stati, da sempre, il braccio armato della massoneria deviata.

Ma su queste logge è impossibile indagare, perché, appunto, chi tocca questi fili muore, o viene delegittimato. Per questo motivo è importante seguire da vicino, per tutti noi che ci occupiamo di queste vicende, le vicende di De Magistris, Woodcock e Forleo. Perché, consapevolmente o inconsapevolmente, hanno toccato i vertici del potere. Hanno toccato cioè quel filo sottile che lega politica e criminalità, ove risiede la spiegazione della maggior parte dei disastri che affliggono il nostro paese da decenni.

GLI INTRECCI AFFARISTICI TRA POLITICA, IMPRENDITORIA, MASSONERIA E POTERI OCCULTI RAPPRESENTANO ORMAI UN SISTEMA COLLAUDATO...EMERGE DA ESSO LA SPARTIZIONE DEL DENARO PUBBLICO, IL FINANZIAMENTO AI PARTITI, IL RUOLO DI LOBBY E POTERI OCCULTI DEVIATI. (Dagli atti del P.M. di Catanzaro, Luigi De Magistris).

Nel mese di luglio 2007, le maggiori agenzie di stampa hanno diffuso la notizia che il P.M. di Catanzaro, Luigi De Magistris, nell'ambito di un'indagine sull'assegnazione dei fondi comunitari, a carico di soggetti appartenenti a logge massoniche, aveva inviato un avviso di garanzia al Presidente del Consiglio, Romano Prodi, sospettato di appartenere alla loggia di San Marino, chiamando in causa alcune figure vicine ai massimi vertici istituzionali. Da allora, stiamo assistendo ad una violenta campagna di delegittimazione della parte sana della magistratura, ad opera di vasti settori della politica, delle istituzioni e del C.S.M. che mirano, senza mezzi termini, a paralizzare ogni indagine in corso sul rapporto tra affari, mafia, politica e massoneria.

Secondo l'ex Gran Maestro venerabile Giuliano Di Bernardo, in un'intervista rilasciata a Ferruccio Pinotti, collaboratore della CNN e dell'International Herald Tribune, pubblicata nel recente volume, "Fratelli d'Italia", edito dalla Biblioteca Universale Rizzoli, uscito nelle librerie lo scorso novembre, vi è un'analogia tra l'attuale situazione politica italiana e quella ai tempi della prima indagine sulle logge massoniche dell'ex Procuratore Capo del Tribunale di Palmi, Agostino Cordova, nel 1992. Nell'analisi dell'ex maestro reggente che, anni orsono, lasciò il "Grande Oriente d'Italia", denunciandone le deviazioni, per fondare la comunione dei cd. "Illuminati", la situazione della massoneria in Calabria "è esattamente quella di allora, dai tempi di Cordova, per quanto riguarda la collusione mafia - massoneria". Solo in Italia, continua Di Bernardo, dalla sua posizione di esperto conoscitore del problema: "la massoneria continua a nascondersi...". "La realtà massonica è rimasta immutata". "La differenza, oggi, potrà farla solo la magistratura, in termini di qualità delle indagini. Quello che è accaduto con l'inchiesta di Catanzaro è la riprova del fatto che i problemi sui quali avevo cercato di intervenire, senza riuscirvi, sono rimasti gli stessi di allora"... "Simili anche le condizioni ambientali."

Non è casuale, secondo Giuliano Di Bernardo, il periodo in cui questa nuova inchiesta esplode. "Se noi andiamo con la memoria all'inchiesta Cordova, vediamo che inizia nel 1992, proprio quando la crisi politica era totale e si preparavano situazioni fino ad allora imprevedibili. Secondo alcuni analisi il trasferimento dell'inchiesta Cordova al "porto delle nebbie" romano concise con la "pax mafiosa", seguita all'assassinio di Falcone e Borsellino del 1992". "Il 5 febbraio di quell'anno, il Sisde inviava una nota al ministro dell'Interno: "non è da sottovalutare la possibilità che frange eversive stipulino con la criminalità organizzata accordi di collaborazione a fini operativi per la destabilizzazione del Paese". Mentre al giudice istruttore di Bologna, Leonardo Grassi, arrivava il 4 marzo una segnalazione di "fatti intesi a destabilizzare l'ordine pubblico, al fine di instaurare "un nuovo ordine massonico deviato"(...)".

Secondo Di Bernardo oggi ci ritroviamo alle prese con le stesse identiche situazioni politiche, lo stato di crisi è esattamente quello che caratterizzava l'epoca in cui Silvio Berlusconi scese in politica per "sopperire" ad una situazione che appariva drammatica, come quella che stiamo vivendo adesso. La politica era in crisi, la gente non aveva più fiducia della classe dirigente, "ecco che allora applaudì l'uomo forte, lo portò sugli scudi e lo fece eleggere". In tale ottica è indubbio sia in atto uno scontro tra un "nuovo ordine massonico" e uno "vecchio" (sui quali vige un assoluto divieto d'indagare, senza soluzione di continuità), nonché tra una "nuova mafia emergente" e una "vecchia" (i cui capi dei capi dopo oltre 40 anni sono stati consegnati alla giustizia per sedare la pubblica indignazione e ridisegnare gli equilibri del potere mafioso). Uno scontro del tutto sommerso e dagli oscuri contorni, dove chiunque prevalga, non c'è logicamente spazio per la legalità e la verità, a cui un Paese civile dovrebbe ambire, ovvero per quella "differenza" in termini di qualità di indagini poc'anzi citata.

Come noto, l'inchiesta di Cordova sulle logge massoniche, dopo il trasferimento del magistrato alla procura di Napoli (promuovere per rimuovere), venne infatti affossata dalla procura di Roma nel giugno 1994 e affidata ai P.M., Lina Cusano e Nello Rossi. Il procedimento restò pressoché fermo per quasi sei anni, eppoi nel dicembre 2000 il giudice per l'indagine preliminare Augusta Iannini dispose la formale archiviazione dell'inchiesta, nonostante fossero stati raccolti ben 800 faldoni e innumerevoli fonti di prova sulle attività illecite delle più importanti logge italiane con ben 61 indagati, coinvolgenti influenti personaggi del mondo imprenditoriale, finanziario, politico e istituzionale, nonché della stessa magistratura, collusi con la ‘ndrangheta con cui avevano costituito delle vere e proprie società di affari, attraverso le quali si spartivano e, tuttora, continuano a spartirsi impunemente, i proventi leciti e illeciti derivanti dagli accordi perversi del sodalizio criminale ("Oltre la cupola. Massoneria, mafia, politica" di Francesco Forgione e Paolo Mondani, con prefazione di Stefano Rodotà, 1994, Rizzoli).

A distanza di oltre 16 anni dalla strage di Capaci la "pax mafiosa" rischiava nuovamente di incrinarsi sotto i colpi delle nuove investigazioni delle procure di Catanzaro, Potenza e del G.I.P. di Milano, Clementina Forleo, ma con l'illegittima avocazione delle indagini del P.M. De Magistris, da parte del Procuratore Generale e le strumentali procedure di trasferimento avviate dal C.S.M., anche nei confronti del G.I.P. di Milano, Forleo, la storia si ripete, dando un segnale forte alla magistratura non asservita alle logiche delle logge e dei partiti di regime, che oltre un certo livello non si può indagare.

Chi lo fece, come Falcone e Borsellino, pagò con la vita. Nel nuovo ordine sociale "massomafioso" il prezzo è il pubblico discredito, la delegittimazione, la procedura di trasferimento, le minacce velate, gli incidenti mortali... E' ciò che puntualmente accade quando si toccano i poteri forti e l'intreccio tra affari, mafia, politica, massoneria.

All'interrogativo se Stato, mafia, massoneria siano divenuti una "cosa sola" è pertanto legittimo rispondere che sono divenuti parte di un unico sistema, attraverso il quale si riproduce il controllo capillare del territorio e delle logiche di governo delle istituzioni democratiche, soffocando in radice la legalità e ogni anelito di giustizia. Tale concezione paradigmatica costituisce una nuova prospettiva teorica per analizzare il fenomeno mafioso e il degrado delle istituzioni, fornendo una chiave per realizzare un mutamento epocale dei rapporti tra governati e governanti. E' indubbio che a taluni potrà risultare ostico digerire che Stato, mafia e massoneria si siano coesi, tanto da fare parte di un unico sistema di malaffare criminale. In specie, per chi vive troppo lontano - o troppo vicino - all'agone politico e giudiziario, subendone il retaggio e rimanendo, in entrambi i casi, vittima di un distorto senso dello Stato e di una cultura dogmatica delle istituzioni che, nell'accezione più diffusa e non condivisibile, "vanno difese ad oltranza e a qualsiasi costo per non pregiudicare i cardini dello Stato di diritto e le basi sociali della pacifica convivenza". In verità, così facendo, si ottiene l'effetto opposto di distruggere nei cittadini il senso di appartenenza e di identificazione nello Stato. Si distrugge la credibilità delle istituzioni e della magistratura, alimentando la storica diffidenza dei cittadini verso il potere. D'altronde, l'esistenza di una "cupola mafiosa" che controlla anche la vita giudiziaria, da sud a nord del Paese, in grado di neutralizzare il lavoro dei magistrati onesti, non è frutto di illazioni o di mere ipotesi sociologiche, bensì il risultato di appronfondite indagini a cui sono approdati, ancora prima del P.M. di Catanzaro, Luigi De Magistris, il Procuratore Antimafia di Reggio Calabria, Salvo Boemi e il suo sostituto Roberto Pennini e l'ex Procuratore di Palmi, Agostino Cordova.

I primi, denunciarono, ripetutamente, in alcune interviste a Panorama e L'Espresso, tra il 1995 e il 1998, di essere stati abbandonati e boicottati dal C.S.M. e dallo Stato, in quanto ritenuti "rei" di "non essersi accontentati di colpire il braccio militare della ‘ndrangheta" e di "avere denunciato i magistrati massoni che a Reggio Calabria avevano deciso di mettere una pietra sui processi anticosche". In proposito, il Dr. Boemi racconta a Panorama: "come dopo lo scandalo della P2, nella massoneria fossero incominciati ad entrare i parenti stretti dei magistrati (i quali volevano evitare in tal modo un coinvolgimento diretto) e come le logge avessero sempre contrattato a Roma chi dovessero essere i capi degli uffici giudiziari", aggiungendo, infine, di essere scampato a un attentato alla sua vita, solo grazie alle rivelazioni di un pentito (Panorama 21.9.95 e L'Espresso 16.7.98).

L'intensa e proficua attività investigativa del Dr. Agostino Cordova, soffocata con il suo strumentale allontanamento dalla Procura di Palmi è invece ben documentata in "Oltre la cupola. Massoneria, mafia, politica" di Francesco Forgione e Paolo Mondani, con la prefazione di Stefano Rodotà e una postfazione di Agostino Cordova, edito da Rizzoli (1994). Il lavoro degli Autori non si limita a ricostruire l'opera del magistrato, ma ci introduce nella più larga dimensione dell'agire complessivo delle istituzioni e del modo in cui esse si intrecciano con la società. Il libro è il racconto delle vicende d'una regione, la Calabria, e del modo in cui venne perduta dallo Stato. Di come lì lo Stato, affermano gli Autori, "abbia cambiato natura, si sia ritirato, lasciando emergere un modo d'organizzazione dell'insieme dei poteri pubblici che perdeva progressivamente i caratteri della legalità e ad essa sostituiva una normalità modellata, invece, sull'accettazione di comportamenti illegali divenuti la norma fondante della società". L'opera ben descrive la sparizione dei confini tra Stato e Antistato, tra diritto e crimine e mette in luce come lo Stato perda i caratteri che dovrebbero caratterizzarlo e, quasi per una forma mimetica ormai obbligata, affermano gli Autori, assuma quelli dei suoi antagonisti, di quelli che dovrebbe avversare". Si perde insomma la possibilità di individuare l'Antistato perché è lo Stato ad essersi dissolto.

Nella postfazione, lo stesso Cordova si sofferma a sottolineare come le indagini sulla massoneria deviata, avviate dalla Procura di Palmi, siano state costellate da una serie di anomali contrattempi, mai avvenuti in altri procedimenti: dal divieto di utilizzare uffici provvisori a Roma (si tenga presente che i locali erano già stati reperiti sia dalla Polizia che dai Carabinieri) dove si trovava la sterminata mole di atti sequestrati, fatto che cagionò oltre tre mesi di ritardo durante la fase iniziale delle investigazioni, precludendo l'immediato sviluppo del materiale acquisito; alla soppressione della Procura Circondariale di Palmi, determinando l'utilizzo di soli tre dei sei magistrati applicati dal Csm, e tante altre difficoltà operative. Eppure i risultati conseguiti, pur tra tante difficoltà, ci ricorda il Dr. Cordova, avevano consentito di riferire alla Commissione parlamentare antimafia che "la massoneria deviata è il tessuto connettivo della gestione del potere, e ciò sia per la natura che per il numero delle attività illecite e degli interessi accertati, sia per la qualità e il numero dei personaggi coinvolti, tutti occupanti appunto posti di potere, e costituenti un enorme partito trasversale ramificato non solo in tutto il territorio nazionale, ma collegato con corrispondenti o analoghe organizzazioni in tutto il mondo".

In conclusione, chiosa, il dr. Cordova, "come ho ripetutamente affermato in ogni occasione, ritengo che la società italiana sia nelle mani di inesplorati gruppi occulti di potere e di altre consociazioni e congregazioni e che solo di tanto in tanto, e unicamente in occasione di vicende eclatanti, se ne renda conto. Per dimenticarsene immediatamente dopo, spesso perché l'attenzione è subito distolta o sviata da altre vicende: come abitualmente avviene nel nostro Paese, in cui la memoria è corta e non si va oltre l'episodio contingente".

E' indubbio, quindi, siamo di fronte a verità storiche ed oggettive che ci offrono il nucleo di quello che può definirsi un vero e proprio paradigma, da cui ripartire per analizzare i mali della società e individuare i rimedi più acconci; paradigma che non potrà tardare a venire recepito dalla comunità scientifica, prigioniera della decadente cultura politica masso-mafiosa, la cui sudditanza alle logiche dei poteri dominanti, appare, abbondantemente, suffragata dalla generale situazione di irreversibile degrado sociale ed economico, in cui versa il Paese, da oltre 40 anni, dove la società civile è, suo malgrado, costretta a convivere, fianco a fianco, della mafia e della corruzione politico-istituzionale. Il Paese ha, quindi, urgente bisogno di una magistratura indipendente e senza padrini politici, libera di indagare in ogni direzione, onde garantire le sue alte funzioni istituzionali di controllo della legalità, conferitegli dalla Costituzione, e il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Il mahatma Gandhi affermava che "il livello di civiltà di un paese si misura dalla considerazione in cui viene tenuta la giustizia". Il problema è, quindi, quello di seguire le orme di Falcone e Borsellino e di non lasciare soli quei magistrati come la Forleo e De Magistris che si adoperano per fare il loro dovere fino in fondo, senza guardare in faccia nessuno, assicurando al Paese una giustizia efficiente e uguale per tutti.

LOGGIA PROPAGANDA 2. La data di fondazione della loggia massonica Propaganda Due si perde nel tempo, come spesso accade per simili consorterie. E' noto, comunque, che era un antico sodalizio che accoglieva gli elementi più importanti e prestigiosi, fin da quando, nel secolo scorso, la massoneria, aveva avuto un ruolo centrale nelle vicende italiane. Dopo la seconda guerra mondiale era stata riorganizzata anche la loggia P2, con l'aiuto della massoneria USA, trasferendovi i massoni più in vista o che dovevano restare "coperti". Nel Dicembre 1965 il Gran Maestro aggiunto Roberto Ascarelli presenta l'apprendista Licio Gelli al Gran Maestro Gamberini, il quale lo eleva immediatamente di grado nella gerarchia massonica e lo inserisce nella loggia P2. Nel 1969 Ascarelli e Gamberini affidano a Gelli un non meglio precisato incarico speciale nella loggia. Nel 1971 Gelli diviene segretario organizzativo e ha il totale controllo della loggia. Nel frattempo molti personaggi eccellenti, soprattutto militari e finanzieri si sono iscritti, tra questi il generale Allavena che porterà in dote le copie dei fascicoli delle schedature del SIFAR. Nel '69 capi massonici diranno che grazie a Gelli 400 alti ufficiali dell'esercito sono stati iniziati alla massoneria al fine di predisporre un "governo di colonnelli", sempre preferibile ad un governo comunista. Nel 1972 il nuovo segretario organizzativo cambia nome alla loggia in "Raggruppamento Gelli-P2" accentuandone le caratteristiche di segretezza evitando qualsiasi tipo di controllo. Nel 1973 la loggia segreta "Giustizia e Libertà" si fonde con la P2. Alla Gran Loggia di Napoli del Dicembre 1974, qualcosa di simile a un conclave massonico alcuni tentarono di sciogliere la P2 e di abrogarne i regolamenti particolari, ma senza successo, Gelli aveva acquisito troppo potere nel frattempo. Lino Salvini, maestro del Grande Oriente d'Italia, quindi, nonostante non vedesse di buon occhio tanto potere concentrato in quella loggia, il 12 Maggio 1975 decretò ufficialmente la ricostituzione della loggia P2 elevando Gelli al grado di maestro venerabile. La loggia P2 valicherà presto i confini nazionali e conterà affiliati in diversi paesi dove non si limiterà a fare proselitismo, ma parteciperà, nei modi che la caratterizzano alla vita politica, economica e finanziaria di tali paesi. In Argentina, per esempio favorirà il golpe militare, per poi perorare la causa del ritorno di Peron, così come risulterà implicata nello scoppio del conflitto delle isole Malvinas. La loggia P2 risulterà attiva in Uruguay, Brasile, Venezuela, negli Stati Uniti, in diversi paesi europei e non ultima in Romania, dove Gelli avrà importanti rapporti con il regime "socialista" di Ceausescu, nonostante l'anticomunismo viscerale di tutti gli aderenti alla P2. Evidentemente a Ceausescu non era rimasto niente di comunista e Gelli lo sapeva. Analizzare gli intrighi, la partecipazione a tentativi di colpo di stato o a colpi di stato riusciti, a stragi, attentati, omicidi, depistamenti, operazioni finanziarie sporche e' praticamente impossibile. Basti pensare che dopo il ritrovamento di una parte dei documenti relativi alle attività della loggia ad Arezzo il 17 Marzo 1981 e di altri a Montevideo in Uruguay e' stata costituita una commissione parlamentare di inchiesta presieduta da Tina Anselmi, i cui atti sono raccolti in 76 volumi di dimensioni consistenti e che la documentazione raccolta occupa diverse scaffalature anch'esse di dimensioni consistenti. Semplicemente ci limiteremo a dare un parziale elenco delle vicende in cui la P2 e' implicata. Anche l'elenco degli iscritti che forniamo e' parziale, purtroppo però è l'unico conosciuto, si calcola comunque che gli iscritti alla loggia fossero 2500/3000 e non 963 come risulta dalle liste sequestrate ad Arezzo.

GLADIO. Quella del gladiatore G.71 è una storia scomoda, per anni tenuta sotto silenzio. Una storia tipicamente italiana, fatta di spie, imprevedibili retroscena, rivelazioni importanti e supportate da documenti. Una vicenda talmente scomoda che anche quando, per frammenti, è arrivata sulle pagine di alcuni giornali nazionali, non ha causato alcun sommovimento politico: il solito muro di gomma l'ha fatta tornare nell'ombra. E’ la storia di Antonino Arconte, 47 anni di Cabras, che fin dal 1997 ha affidato al web il racconto della sua vita all'interno dell'organizzazione Gladio. Agente di una struttura militare segreta facente capo al Sid, Arconte è stato protagonista di operazioni che si sono svolte in mezzo mondo: dal Vietnam alla Russia, dalla Cecoslovacchia al Libano, dagli Stati Uniti all'Africa. Dalla sua testimonianza è emersa una struttura profondamente diversa da quella svelata in Parlamento da Giulio Andreotti il 2 agosto del 1990: non una rete ideata per fronteggiare una possibile invasione da parte delle truppe del Patto di Varsavia (la “Stay Behind”), ma una struttura informativa e operativa che agiva esclusivamente all'estero. La storia ha cominciato a emergere dall'ombra lentamente e a fatica. L'allora ministro della Difesa Sergio Mattarella, rispondendo a un'interrogazione del senatore di Rifondazione Giovanni Russo Spena sulla struttura supersegreta alla quale apparteneva Arconte, si è limitato a rispondere burocraticamente: «Dagli atti del Servizio non sono emerse evidenze in ordine a...». Risposta assolutamente insoddisfacente. Ma il racconto di Arconte non si ferma qui e qualche mese più avanti infittisce di nuovi particolari alcuni dei misteri italiani. Il "caso Moro" in particolare. G.71 ha infatti svelato che, nel marzo del 1978, venne inviato in missione in Libano per consegnare un documento al gladiatore G.219. Si trattava del colonnello Mario Ferraro, passato poi al Sismi, morto misteriosamente nel luglio del 1995, «suicidato», come si dice in gergo militare, visto che è stato ritrovato impiccato alla maniglia della porta del bagno benché fosse alto 1 metro e 90. Nel documento "a distruzione immediata" (Arconte non ha mai distrutto il documento e lo ha esibito alla magistratura inquirente, dalla quale attendiamo ancora un giudizio certo sull'autenticità) viene ordinato di «cercare contatti con gruppi del terrorismo mediorientale, al fine di ottenere collaborazione e informazioni utili alla liberazione dell'onorevole Aldo Moro». L'aspetto inquietante di questa missione è che il documento è datato 2 marzo 1978. Cioé 14 giorni prima del rapimento del presidente della Dc. Qualcuno, quindi, sapeva che Moro sarebbe stato rapito.

GLADIO & CENTURIE. Facciamo qualche passo indietro. Gladio è il nome dato in Italia ad una struttura segreta, collegata con la Nato e istituita nel dopoguerra con la denominazione "Stay Behind" (stare indietro), che aveva il compito di attivare una resistenza armata in caso di invasione sovietica. L'esistenza di questa struttura segreta venne scoperta nel 1990 e successivamente confermata pubblicamente, nel febbraio del 1991, dall'allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti. Secondo quanto riferito in quell'anno dall'ex primo ministro italiano, la Gladio "Stay Behind" sarebbe stata composta da 622 membri civili i quali avevano il compito di svolgere operazioni dentro il territorio nazionale riguardanti attività informative a carattere difensivo e sotto le direttive della Nato. Quella che racconta Antonino Arconte nel suo memoriale, invece, è tutta un'altra storia. Accanto alla cosiddetta Gladio "civile", infatti, sarebbe stata istituita nel nostro Paese una struttura armata dei servizi segreti militari, tenuta per 50 anni nascosta, che avrebbe operato al di là dei confini italiani attraverso un'attività regolata da direttive nazionali e non dalla Nato. Nel memoriale, Arconte spiega che Gladio era in realtà divisa in tre centurie. «La Prima Centuria era chiamata Aquile, erano cioé aviatori, alcuni paracadutisti della Folgore - scrive Arconte - la Seconda Centuria era chiamata Lupi, io appartenevo a questa, composta da quelli provenienti dalla Marina e dall'Esercito. Poi c'era la Terza Centuria detta Colombe. Non era composta da militari ma da civili, anche donne, che dovevano fare da supporto per le informazioni». Per conto dello Stato italiano, il "gladiatore" G-71 avrebbe partecipato a diverse operazioni estere: dalle repubbliche dell'Est comunista al Nord Africa, dal Sahara spagnolo al Vietnam. Arconte rivela, tra l'altro, del ruolo svolto dai nostri agenti segreti armati in Maghreb per la destituzione del presidente Burghiba. G-71 racconta anche di aver ricevuto un riconoscimento formale da parte di Bettino Craxi il quale lo avrebbe invitato, come si evincerebbe da documenti, a tacere per il bene del Paese. L'attività di questa Gladio si svolgeva presso il ministero della Difesa, direzione generale Stay Behind-personale militare della Marina e la mobilitazione dei gladiatori avveniva tramite Consubin (comando subaquei incursori di La Spezia). Un'attività segreta così come quella degli Ossi (operatori speciali servizio informazioni, alle dipendenze di Gladio) che operavano armati e i cui compiti sono stati ritenuti “eversivi dell'ordine costituzionale” da due pronunciamenti della magistratura.

DA ARCONTE A MORO. Arconte è forse depositario di alcuni dei segreti che formano il filo nero che ha cucito e legato il potere dello Stato allo Stato occulto, attraverso il terrorismo nazionale e internazionale, attraverso insabbiamenti e “suicidi” misteriosi. Il libro di Arconte, pubblicato qualche anno fa negli Stati Uniti (ottenendo peraltro un discreto successo e diventando oggetto di studio), ha aperto nuovi, inquietanti scenari sulla Gladio segreta. Vi compare anche l’immagine del documento top secret sul caso Moro. In quel documento si legge che il 2 marzo 1978 - e cioè 14 giorni prima del rapimento di Moro e dell'uccisione della sua scorta - la X Divisione "S.B." (Stay Behind) della direzione del personale del Ministero della Marina, a firma del capitano di vascello, capo della divisione stessa, inviava l'agente G71 appartenente alla Gladio "Stay Behind" (partito da La Spezia il 6 marzo sulla motonave Jumbo M) a Beirut, per consegnare documenti all'agente G 129, ivi dislocato, dipendente dal capocentro, colonnello Stefano Giovannone, affinchè prendesse contatti con i movimenti di liberazione nel vicino Oriente, perchè questi intervenissero sulle Brigate Rosse, ai fini della liberazione di Moro. Il nome del "gladiatore" G-71, Antonino Arconte, non figura nella lista dei 622 resa nota in Parlamento, lista risultata, comunque, "del tutto inattendibile". «Non è vero - ha scritto più volte Falco Accame, ex presidente della commissione difesa - che il "gladiatore" Arconte sia un "signor Nessuno": lo può testimoniare un altro agente di Gladio che operava come civile, il cui nome di battaglia è "Franz». Nel 1997 "Franz" si fece ricevere a Tunisi da Craxi e portò la lettera di Arconte e di un altro gladiatore, Tano Giacomina (ucciso in circostanze misteriose a Capoverde) che chiedeva al leader socialista di rendere pubblica la storia della "Gladio delle Centurie". Secondo "Franz", Craxi aveva chiesto di essere ascoltato dalla Commissione Stragi (cosa che era stata concessa al generale Maletti) e intendeva riferire in quella sede sulla Gladio, ma l'incontro con la commissione non fu mai possibile. L'ipotesi di una Gladio “segreta” che operasse all'estero con modalità di guerra non-ortodossa non è affatto peregrina, anzi, è in linea con modelli operativi ispirati a quelli della Cia. I contatti con la Cia sono documentati fin dall'inizio della nascita di Gladio, negli anni '50, e si svilupparono con il memorandum di Roma del 20 dicembre '72, di cui parla nel suo libro il generale Serravalle, capo dell’organizzazione dal '71 al '74”. Di Gladio come "scuola di eversione" aveva parlato, nel dicembre 1991, Antonio Maria Mira in un articolo sull'Avvenire, in relazione all'Operazione Delfino e a «uno strano documento di Gladio che - scriveva Mira - sta preoccupando i magistrati padovani e romani, il Comitato di controllo sui Servizi e la Commissione Stragi. E' datato aprile '66 e riguarda un'esercitazione denominata "Delfino" che si svolse nella zona di Trieste dal 15 al 24 aprile 1966, e che doveva procedere ad un programma di "attività provocatorie" coordinate dai servizi segreti ed in accordo con la Cia, che prevedevano la partecipazione delle unità di Gladio». Sull'argomento interveniva Antonio Garzotto nel '92, scrivendo: «La "Delfino" altro non sarebbe che un "vademecum per la guerriglia", messo a punto dalla Cia e concepito dal generale Westmoreland, il comandante Usa in Vietnam. Si trattava di un vero e proprio manuale di strategia della tensione: agenti della Gladio avrebbero dovuto infiltrarsi sia nelle file e nelle manifestazioni del Pci, ma pure nelle frange della sinistra estrema per provocare "azioni violente, moti di piazza, uccisioni". Fare, insomma, "insorgenza", in modo tale da sollecitare una forte reazione, la "controinsorgenza", e legittimare un intervento di "stabilizzazione del potere" da parte dell'Autorità di Governo».

GRADOLI STRASSE. Recentemente è sempre Falco Accame, in qualità di presidente dell'Associazione nazionale assistenza vittime arruolate nelle forze armate e famiglie dei caduti, a sollecitare la commissione parlamentare d'inchiesta sul dossier Mitrokhin, per approfondire gli elementi riguardanti la vicenda Moro, che non si esauriscono con le dichiarazioni di Arconte. Nel silenzio generale, infatti, alle affermazioni di Arconte (ricordiamo, sempre supportate dal documento “a distruzione immediata” ancora da valutare), si sono aggiunte negli ultimi mesi anche le dichiarazioni di un altro dei gladiatori che operava all'Est in maniera segreta, Pierfrancesco Cangedda, il quale ha più volte dichiarato di aver ricevuto, mentre operava nella Repubblica democratica tedesca durante i 55 giorni del sequestro Moro, una informazione che proveniva dalla Stasi, contenente un'indicazione specifica sulla base dei brigatisti in via Gradoli. Una base che era situata in “Gradoli Strasse”. Questa informazione, come risulta anche da alcune inchieste ancora in corso alla Procura di Roma, venne raccolta dal “terminale” della struttura, l'ufficiale dei servizi segreti Tonino La Bruna, l'uomo che avrebbe reclutato personalmente lo stesso Arconte. Le due “metà” della storia sembrano combaciare perfettamente. Vista la portata di queste dichiarazioni, e le importanti conseguenze che potrebbero avere qualora ottenessero ulteriori riscontri, è giusto cominciare a fare chiarezza da subito senza tenere lontano i riflettori dei media nazionali dalla vicenda. Siamo a un bivio nella ricostruzione della storia italiana degli anni '70 e '80, a partire dalla genesi del terrorismo rosso fino al caso Moro. O i due gladiatori sono dei cialtroni mitomani, e vanno perseguiti dalla magistratura; oppure si dovrà tener conto di quello che dicono e finalmente si arriverà ad aprire un varco nel “muro di gomma”.

P3 E CRICCHE ANNESSE. Giorgio Napolitano, il 22 luglio 2010, durante la cerimonia del Ventaglio, alla vigilia dell'approvazione finale alla Camera della manovra finanziaria, ha lanciato molti avvertimenti al Paese e, in particolare, alla classe politica. Uno prima di tutti gli altri: «Ci indigna e ci allarma l'emergere di fenomeni di corruzione e di trame inquinanti, anche ad opera di squallide consorterie». «Per ora sicuramente vedo tanto squallore. Poi vedremo cos'altro emergerà. L'importante è che si riesca a far fare alla magistratura il proprio lavoro fino in fondo per accertare fatti e responsabilità».

"Ha fatto bene il presidente della Repubblica a lanciare l’allarme sulle squallide consorterie dei modelli piduisti, ma che l’Italia abbia gli anticorpi è tutto da dimostrare". Lo afferma il leader dell’Italia dei Valori Antonio Di Pietro in un’intervista rilasciata a Sky Tg24 il 23 luglio 2010.

Si parla della vicenda della cosiddetta P3, che vede coinvolti faccendieri, uomini di governo e magistrati. Magistrati che occupano posti di rilievo, importanti, il presidente della Cassazione Vincenzo Carbone, il presidente della Corte d’Appello di Milano Marra; e altri. Il ministro della Giustizia ha detto: “No alle streghe”. Poi ha aggiunto che il "sistema-giustizia" ha in se stesso "tutti gli anticorpi".

Non è questione né di streghe né di stregoni, dice Valter Vecellio, noto giornalista rai e radicale di lungo corso. Il problema è che tra i collaboratori stretti del ministro della Giustizia troviamo personaggi i cui comportamenti sono perlomeno imbarazzanti. Per riassumere i termini della questione, così come la stampa ha dato ampio risalto. C’è questo Pasquale Lombardi che nel suo giro è conosciuto per l’incapacità di sedere a tavola senza sporcarsi di sugo, “quanno magna se sporca sempre”, si legge in un’intercettazione. Un tipo che sembra di casa in Cassazione, al ministero dell’Economia e a quello della Giustizia, al Consiglio Superiore della Magistratura, al consiglio regionale della Lombardia e alla presidenza della Regione Sardegna e in svariate procure. I suoi interlocutori li chiama amichevolmente “Fofò”, “Nicolino”, “Pinuccio”, “Giacomino”, fino ad arrivare a definire il vice-presidente del CSM Nicola Mancino “un cesso” (e cosa abbia fatto il vice-presidente Mancino per meritarsi questo poco encomiabile, ma inequivocabile titolo, Mancino per primo e noi con lui, dovremmo chiedercelo).

Questo Lombardi fa campagna all’interno del CSM per il suo amico “Fofò” Alfonso Marra che diventa capo della corte d’Appello di Milano, e per altri. E’ intimo del sottosegretario alla giustizia Giacomo Caliendo e del capo del Servizio di controllo interno del ministero della Giustizia Angelo Gargani; e quando, a proposito della esclusione della lista Formigoni dalle elezioni regionali, i magistrati di Milano non si comportano come la cricca desidera, chiede consiglio ad Arcibaldo Miller, altro magistrato, e capo degli ispettori del ministero della Giustizia, e invoca un’ispezione ministeriale. E questo Miller, invece di mandare Lombardi a quel paese, amichevolmente e in modo spericolato gli dà consigli su come fare per ottenere questa ispezione. Lo stesso Miller che viene invitato da Lombardi a riunioni, a pranzi a casa del coordinatore del PdL Verdini o in ristoranti per definire le strategie da adottare.

Ora va bene che viviamo in un paese dove un ex ministro come Claudio Scajola può dire che qualcuno gli paga la casa a sua insaputa, e ristruttura la stessa casa e il conto lo paga il SISDE; e un altro sottosegretario, Guido Bertolaso, può dire impunemente in televisione che lui non sa nulla delle operazioni poco limpide che si sono fatte all’ombra del vertice del G8, anche se quelle cose poco limpide erano state puntualmente denunciate in una dettagliata interrogazione di Elisabetta Zamparutti e degli altri parlamentari radicali un anno prima che la vicenda esplodesse. Però è davvero incredibile, letteralmente inaudito che il ministro della Giustizia parli di scongiurare una “caccia alle streghe”, invece di annunciare: ho convocato il sottosegretario Caliendo, il capo del servizio di controllo Gargani, il capo degli ispettori del ministero della Giustizia Miller, e li ho pregati di farsi da parte fino a quando l’inchiesta sarà conclusa, e nel frattempo ho avviato un’inchiesta interna per accertare come sono andate le cose. Questo un ministro della Giustizia avrebbe dovuto fare. Questo il ministro della Giustizia Alfano non ha fatto. Altro che caccia alle streghe!

Se questi sono gli anticorpi in un sistema marcio, figuriamoci che fine possono fare gli esposti e le denunce di semplici cittadini inviati al Ministero della Giustizia, che rilevano abusi ed omissioni di sistema causati da apparati giudiziari.

La prima commissione del Consiglio Superiore della Magistratura ha deciso di avviare il trasferimento d'ufficio per incompatibilità ambientale nei confronti del presidente della Corte d'appello di Milano, Alfonso Marra, a seguito del suo coinvolgimento nelle intercettazioni relative all'inchiesta sull'eolico. La decisione è passata con quattro voti a favore; in commissione ha votato contro soltanto il laico di centrodestra, Anedda. Non ha partecipato al voto Giuseppe Berruti, che nelle intercettazioni viene considerato il maggior ostacolo alla nomina di Marra.

In un'informativa datata 18 giugno 2010, parlando dell'attività svolta dal gruppo occulto, i carabinieri descrivono la "vicenda che ha visto protagonista il neo presidente della Corte d'appello di Milano. Non appena Marra - riferiscono i militari - ha ottenuto, dopo un'intensa attività di pressione esercitata dal gruppo (e in particolare da Pasquale Lombardi) sui membri del Csm, l'ambita carica, i componenti dell'associazione gli chiedono esplicitamente, peraltro dietro mandato del presidente Formigoni, di porre in essere un intervento nell'ambito della nota vicenda dell'esclusione della lista Per la Lombardia". Marra ha commentato: "Sono contento che il Csm abbia aperto la procedura così si chiarirà la mia posizione".

Intanto restano in carcere l'affarista sardo Flavio Carboni e il magistrato tributario Pasquale Lombardi. I giudici del tribunale del riesame di Roma hanno respinto, infatti, le istanze di remissione in libertà o concessione degli arresti domiciliari per i due indagati. I pubblici ministeri avevano dato parere negativo alle richieste dei legali.

In seguito a ciò, il 16 luglio 2010 è stato pubblicato l’editoriale del direttore di “Libero”, Maurizio Belpietro dal titolo: “La cricca dei giudici”. "Se uno di noi fosse sospettato di aver violato la legge e di essere al servizio di pericolosi criminali, il minimo che gli potrebbe capitare sarebbe di essere indagato, il massimo di finire in galera. Cosa che non accadrebbe se si trattasse di un magistrato. Nel qual caso infatti si verrebbe trattati con mille attenzioni, anzi, con mille attenuanti, perché la casta delle toghe è seria, non come quella dei politici, che fa finta di essere potente e poi finisce alla berlina ogni giorno sulle prime pagine dei giornali. Dunque, cari lettori, non fatevi ingannare dal caso Marra, il presidente della Corte d’appello di Milano finito nelle intercettazioni telefoniche della P3. Il suo trasferimento per incompatibilità è infatti la manovra per mettere tutto a tacere o, peggio, per imbrogliare le carte. Mi spiego. Se Marra fosse per davvero un magistrato in combutta con la cricca di Flavio Carboni e si fosse macchiato della grave colpa di aver brigato per favorire la P3 - cosa a cui io non credo -  non dovrebbe essere trasferito ad altra sede, come si appresta a fare il Csm. Semmai, dovrebbe essere radiato, perché non ha le qualità morali per fare il magistrato. Il trasferimento al contrario stabilisce che Marra non faccia più il giudice a Milano, ma possa continuare a farlo altrove, come se nulla fosse accaduto. Del resto, il Consiglio superiore della magistratura è specialista nell’assolvere i suoi protetti.....".

Ma l'amico... l'amico Lombardi è in grado di agire?". Al telefono Roberto Formigoni è supplichevole. Teme che la sua lista venga esclusa dalle elezioni e invoca l'intervento dell'"amico Lombardi": "Ti prego!". Ignora chi sia l'uomo di cui sta invocando il sostegno: un geometra che fatica a parlare in italiano e fa replicare alla supplica del governatore con un "dicitangill pure a chill amic tui su a Milan (diteglielo anche a quell'amico tuo su a Milano)". Eppure l'irpino Pasquale Lombardi, celebre nel suo giro per l'incapacità di sedere a tavola senza imbrattarsi di sugo ("Il nostro comune amico che quanno magna se sporca sempre..."), con il suo eloquio da Pappagone riusciva ad entrare in tutti i palazzi del potere. Il suo motto era semplice: "Arriviamo, arriveremo dove dobbiamo arrivare". In Cassazione, nel ministero dell'Economia e in quello della Giustizia, nel Consiglio superiore della magistratura, nel Pirellone, nella presidenza della Sardegna, in ogni procura d'Italia, il geometra Lombardi trovava sempre le porte aperte. Snocciolava una serie di diminuitivi affettuosi - Fofò, Nicolino, Pinuccio, Giacomino - con cui si rivolgeva a sottosegretari, coordinatori di partito, governatori e procuratori della Repubblica. Fino a incontrare "Chillu cess' e Nicola", al secolo Nicola Mancino, vicepresidente del Csm e suo compaesano. E non era l'unico a godere di simili frequentazioni, intime e pericolose.

Democrazia limitata. In pochi mesi gli italiani hanno scoperto l'altro volto del potere: le cricche, termine antico che indica "un gruppo informale e ristretto di persone che condividono degli interessi". Aggiunge il dizionario: "Generalmente in una cricca è difficile entrarvi". Invece di questi club esclusivi se ne sono emersi parecchi. Un'orda che si è infilata dovunque: hanno influito e interferito su ogni decisione importante degli ultimi dieci anni, dal Giubileo al G8, dalle nomine al vertice della magistratura alla designazione dei presidenti di Regione, dai processi nella Suprema corte al lodo Alfano. Centurie del malaffare, avversarie e alleate a seconda della posta in gioco e dei loro punti di forza, pronte a scambiarsi favori e tirarsi addosso dossier al veleno.

Deviazioni per tutti i gusti. Ogni cricca ha la sua specialità. C'è quella degli appalti, con Diego Anemone - geometra sconosciuto al pari di Lombardi - che riunisce a tavola e negli affari il capo della Protezione civile Bertolaso, il gran commis di tutte le opere pubbliche Balducci, il ministro Scajola e l'ex Lunardi, il coordinatore pdl Verdini, il cardinale Angelo Sepe, un alto magistrato e una sterminata lista di beneficiati eccellenti. C'è quella del riciclaggio scoperchiata dal pm Giancarlo Capaldo, tra traffici sulla telefonia e sospetti di narcotraffico, del pregiudicato romanissimo Gennaro Mokbel e del suo senatore Nicola Di Girolamo, che muovono tanto denaro da non riuscire a contarlo ed esclamare "c'avete rotto il cazzo co tutti sti milioni". C'è poi la rete su scala minore dei fratelli De Luca, imprenditori campani delle ferrovie, con parenti al Csm, agganci in Vaticano e intrallazzi al ministero delle Infrastrutture. E il sogno infranto di Giampi Tarantini, che era entrato nelle notti di Villa Certosa e Palazzo Grazioli, passando dai contratti della sanità pugliese alle holding internazionali come Finmeccanica. Senza dimenticare sullo sfondo la nebulosa di Why Not, la ragnatela di contatti messa a nudo dall'indagine di Luigi De Magistris: una mappa delle relazioni altolocate, senza risvolti penali ma comunque significative per capire cosa resta della democrazia.

Le regole dei clan. Scordatevi delle tessere o dei cappucci: elenchi massonici come nella vecchia P2 sono ricordi del passato. E quanto c'entri la massoneria nel diffondere questo contagio ancora non è chiaro, anche se l'aura dei liberi muratori circonda molti protagonisti tra Toscana e Sardegna. Pur senza gran maestri e gerarchie, come in un gioco di ruolo ogni cricca per funzionare richiede alcune figure specializzate. C'è il tesoriere, in genere un imprenditore, che sostiene le spese del gruppo. Il clan degli irpini poteva attingere ai capitali di Arcangelo Martino, ex assessore socialista napoletano diventato un ras delle forniture ospedaliere: sede legale a Lodi, base operativa nel Casertano e oltre cento Asl nel carniere. Con Formigoni ha un filo diretto e non solo con lui: sono in molti a scommettere che il prossimo filone riguarderà la sanità e sarà dirompente. La gang degli appalti invece usava i fondi di Anemone, costretto a sudare quattro camicie per ragranellare il cash prima di cene con Bertolaso e generoso nel finanziare le dimore di Scajola, di un generale del Sisde e di altre perdine ministeriali. Ma Anemone spesso pagava in natura, ossia faceva lavori a gratis o a prezzo di costo a tutta la Roma che conta. In più c'era la santa alleanza con il cardinale Angelo Sepe che aveva offerto il catalogo di Propaganda Fide, con case da sogno a prezzi modici. Tutte le consorterie cercavano un padre spirituale con mire materiali. Sepe era intimo di Balducci, Bertolaso e company ma avrebbe tenuto relazioni intense anche con Arcangelo Martino e viene chiamato a benedire un convegno dei magistrati sedotti dal geometra Lombardi. Molto attivo e trasversale monsignor Francesco Camaldo, cerimoniere del papa e delle raccomandazioni. Invece i fratelli De Luca si rivolgono al cardinale Fiorenzo Angelini, ben introdotto tra i parlamentari cattolici e nell'ufficio di Bertolaso "che ha aiutato moltissimo...".

Quella nomina fu una ferita mai rimarginata. E con le intercettazioni sulle manovre sotterranee per ottenerla è tornata a sanguinare. Al punto da dover correre ai ripari in tutta fretta, per quanto si può. La decisione di far presiedere la corte d’appello di Milano ad Alfonso Marra divise a metà il Consiglio superiore. Era il 3 febbraio scorso. Marra ottenne 14 voti contro i 12 dell’altro candidato, Renato Rordorf. Fu una spaccatura trasversale, anche all’interno delle correnti. Dentro Unicost e Magistratura indipendente, i due gruppi «moderati», Berruti e Patrono si schierarono a favore di Rordorf, considerato «di sinistra». E tra i «laici» eletti dall’Ulivo, Celestina Tinelli preferì Marra. Come i tre membri dell’ufficio di presidenza (Mancino, il presidente della Cassazione Carbone e il procuratore generale Esposito); per motivi di opportunità, fecero trapelare, legati a un precedente voto unanime in favore dello stesso giudice, e perché Rordorf aveva lavorato al Csm.

Spiegazioni che all’epoca non convinsero. Perché nei corridoi del palazzo dei Marescialli, sede del Csm, si sussurrò fin da subito che dietro i voti determinanti della Tinelli, di Mancino e di Carbone c’era qualcosa di strano. Niente di dimostrabile, ma molto di avvertito. Nell’abituale resoconto per gli aderenti alla sua corrente, la consigliera di Magistratura democratica Elisabetta Cesqui, già pubblico ministero nel processo alla Loggia P2, sulla nomina di Marra si lasciò andare a considerazioni amare: «L’aria viziata delle pressioni si è sentita fortissima... Il Consiglio può fare tutti gli sforzi di rinnovamento che vuole, ma quando si parla di decisioni veramente importanti, l’esigenza di presidio di certi territori e di certi uffici prevale sistematicamente sulle logiche di merito effettivo».

Ora le registrazioni di alcuni colloqui messi a fondamento dell’arresto dei tre ispiratori della presunta «associazione segreta» che si sarebbe adoperata, fra l’altro, per la nomina di Marra, ha dato nuovi argomenti a chi sosteneva quella tesi. Al di là della loro rilevanza penale. I dialoghi fra Pasquale Lombardi, il «ministro della Giustizia» del gruppo, con lo stesso Marra e con il sottosegretario Giacomo Caliendo (ex magistrato di Unicost) sembrano dare concretezza ai sospetti. Come se avessero strappato un velo.

«Mi pare che ho concluso, per te, col capo», diceva Lombardi a Marra dopo un incontro con Carbone. «Ma bisogna avvicinare ’sto cazzo di Berruti... », ribatteva Marra. E Lombardi a Caliendo: «Per quanto riguarda Berruti te la devi vedere tu». Poi ancora a Marra: «Ho parlato con Giacomino e... stiamo operando». Alla Tinelli chiedeva: «È opportuno che ne parli un poco con il presidente Carbone?». E lei: «Sì, assolutamente». In altri dialoghi Lombardi faceva intendere che il voto di Carbone si poteva conquistare prolungando la sua permanenza al vertice della Cassazione, con un emendamento sull’età pensionabile; riferiva di incontri con Mancino, e consigliava Marra di rivolgersi all’ex ministro Diliberto per convincere la «laica» Letizia Vacca.

Tutte chiacchiere e millanterie, replicano gli interessati; Carbone avrebbe persino avvisato il ministro della Giustizia che non avrebbe accettato proroghe della sua presidenza. Ma è difficile districarsi tra intercettazioni e giustificazioni. Restano la puzza di bruciato che si avvertì al tempo della nomina e le conversazioni che oggi rivelano le pressioni. Almeno tentate, visto il tempo trascorso al telefono da Lombardi per il suo amico Marra. «Pasqualì, poi facciamo ’na bella festa, a Milano o a Roma», diceva il giudice. E l’altro: «Eh, ce la facimm’ ’na bella festa!». La rapidissima decisione del Csm, giunto a fine mandato, scadrà fra due settimane, di avviare la pratica per la rimozione di Marra sembra il tentativo di cancellare una pagina opaca della propria storia. Quasi certamente toccherà al prossimo Consiglio decidere il destino di quel giudice, ma chi l’ha nominato ha voluto mettere le basi per dissipare l’ombra di una scelta condizionata da un gruppo di potere occulto e illegale, almeno secondo l’accusa. Lo stesso Csm ha chiesto alla Procura di Roma «ogni utile informazione» su altri magistrati i cui nomi emergono dall’inchiesta. A cominciare da Arcibaldo Miller, il capo degli ispettori del ministero della Giustizia, che, hanno scritto i carabinieri nel loro rapporto, «forniva il proprio contributo alle attività di interferenza». Al pari del sottosegretario Caliendo e dell’ex avvocato generale della Cassazione Antonio Martone, che però hanno abbandonato la toga.

Anche la decisione della Procura generale di aprire l’istruttoria per un procedimento disciplinare a Marra suona come uno squillo di riscossa rispetto alla «questione morale» nella magistratura; e così l’allarme del segretario dell’Associazione magistrati Giuseppe Cascini, che confessa di aver provato «vergogna, indignazione e rabbia» a leggere i dialoghi dei suoi colleghi intercettati. L’Anm ha chiesto ai probiviri di valutare sanzioni, fino all’eventuale espulsione. Come se ci fosse l’urgenza di fare pulizia nella corporazione, a costo di dividere i magistrati e le loro correnti, pure al proprio interno. Per dare un esempio alla politica, l’altro potere toccato dall’indagine giudiziaria, col quale le toghe (non tutte, a leggere i resoconti dell'intercettazioni) sembrano in perenne conflitto.

"Prendono parte alle riunioni nelle quali vengono impostate le operazioni e paiono fornire il proprio contributo alle attività di interferenza". Venti nomi che scottano. Quelli delle toghe coinvolte nell'inchiesta sull'eolico e sulla nuova loggia "P3". Il rapporto dei Carabinieri non lascia adito a equivoci. Era fitta la rete di giudici e procuratori attraverso la quale la banda Carboni portava avanti i suoi piani di "interferenza" sulle istituzioni. Tutto ruotava intorno al ruolo di Arcibaldo Miller (capo degli ispettori del ministero della Giustizia), Giacomo Caliendo (sottosegretario alla Giustizia) e Antonio Martone (ex avvocato generale in Cassazione). Loro gli incaricati di costruire la ragnatela da stendere sui magistrati.  Qualcuno aveva un ruolo di primissimo piano nell'attività dell'associazione segreta, altri davano informazioni preziose. Altri ancora erano semplicemente oggetto di tentativi di avvicinamento da parte della combriccola che - per perseguire i propri obiettivi illeciti - si avvaleva della copertura offerta dal centro studi "Diritti e libertà".

Sono sempre Miller, Caliendo e Martone i commensali del famoso pranzo a casa Verdini del 23 settembre scorso in cui sarebbe stato pianificato il condizionamento della Consulta per far approvare il Lodo Alfano. Martone era stato invitato senza giri di parole da Lombardi all'incontro a piazza dell'Aracoeli: "Noi ci dobbiamo vedere all'una meno un quarto". "Ma io sono impegnato con il procuratore... Mandalo affanc. che chisto non porta voti e vieni da noi...", insiste Lombardi mostrando una certa confidenza.

Caliendo poi è presente in tutte le manovre. Dopo il pranzo a casa Verdini, Lombardi raccomanda al sottosegretario di fare la conta dei giudici costituzionali a favore e contro il Lodo: "Ci dobbiamo vedere ogni giorno, ogni settimana, capire dove sta o' buono e dove o' malamente: vuagliò, ti hai la strada spianata per fare il ministro". Le carte raccontano che Caliendo, su pressione di Lombardi, ha sollecitato al vicepresidente del Csm Mancino la nomina di Alfonso Marra a presidente della Corte d'Appello di Milano. Nomina che si è rivelata poco decisiva: Caliendo infatti è poi intervenuto, senza fortuna, con lo stesso Marra per far accogliere il ricorso di Formigoni contro l'esclusione della sua lista nelle elezioni regionali lombarde. Successivamente, davanti alle pressioni dello stesso Lombardi per far inviare gli ispettori alla Procura di Milano, il sottosegretario ammetterà: "L'ho chiesto trenta volte al ministro!". Della stessa vicenda è protagonista anche Miller, chiamato confidenzialmente Arci dai membri della banda, che in una telefonata del 5 marzo 2010 suggerisce ad Arcangelo Martino cosa fare per ottenere l'ispezione: "Ci vorrebbe un esposto...".

Un magistrato vicino a Lombardi, Angelo Gargani, compare frequentemente nell'inchiesta: con il tributarista, dopo il pranzo a casa Verdini, parla della vicenda del Lodo e gli fornisce il numero di un ex presidente della Consulta da contattare, Cesare Mirabelli (che respingerà la "corte" del disinvolto faccendiere napoletano). Lombardi attiva di continuo la sua rete di contatti con i magistrati. Lo fa all'occorrenza e soprattutto in occasione dell'elezione di Marra che - secondo i carabinieri - è avvenuta proprio grazie all'interferenza della banda. Il tributarista ne parla il 21 ottobre 2009 con Celestina Tinelli, componente del Csm. Alla quale chiede informazioni anche sulle chances di altri due "amici" in corsa per incarichi di rilievo: Gianfranco Izzo per la Procura di Nocera e Paolo Albano per Isernia. Lombardi parla in quel periodo con diversi magistrati. Fra i voti da conquistare (e poi conquistati) per l'elezione di Marra, c'è quello di Vincenzo Carbone, primo presidente di Cassazione: il 22 ottobre Lombardi invita Caliendo a "lavorarselo per bene", e gli comunica di avere già prospettato un aumento dell'età pensionabile da 75 a 78 anni. Una modifica della legge che proprio in quei giorni il governo proporrà con un emendamento. Lo stesso Carbone, un mese prima, aveva chiesto a Lombardi: "Che faccio dopo la pensione?".

Un altro giudice, Francesco Castellano, il 31 gennaio 2010 conferma all'attivissimo Lombardi di avere segnalato alla Tinelli il nome di Marra. Ma intanto Lombardi aveva già parlato del caso Marra a Beppe ("verosimilmente il giudice Giuseppe Grechi", scrivono i carabinieri). Anzi, è quest'ultimo il 16 novembre 2009 a chiedere a Lombardi qual è l'intenzione del "comune amico" Carbone in vista del voto: "Tienilo sotto che lo tengo sotto anch'io", dice il tributarista.

Il 19 gennaio 2010 Lombardi parla con Gaetano Santamaria della candidatura di tale "Nicola" per la Procura di Milano. A Cosimo Ferri, altro componente del Csm, arriva a chiedere il rinvio di quella nomina. Ferri, in realtà, si ritrae imbarazzato. A Lombardi sta a cuore, in quel periodo, anche la candidatura di Nicola Cosentino alla guida della Regione Campania. Vede due volte il procuratore di Napoli Giambattista Lepore per chiedergli informazione sulla situazione giudiziaria di Cosentino, indagato per rapporti con la camorra. Dopo l'incontro del 20 ottobre 2009, Lombardi riferirà, violando tutte le procedure, ad Arcangelo Martino che le prospettive per il sottosegretario (appena dimessosi) non sono buone: "Negativo al 90 per cento". Agli atti anche una telefonata fra Lombardi e il magistrato Giovanni Fargnoli: parlano del ricorso in Cassazione contro la richiesta di arresto a carico di Cosentino: Fargnoli assicura a Lombardi che gli farà sapere perché il ricorso è stato rigettato. Una conferma, l'ennesima, della rete che lega i componenti della combriccola, i politici e i magistrati: il 14 ottobre 2009 Ugo Cappellacci, presidente della Sardegna, chiama Martino per avere il numero di telefono di Cosimo Ferri: vuole evitare il trasferimento di Leonardo Bonsignore, presidente del tribunale di Cagliari, ad altra sede: "Perderemmo un amico carissimo e una persona valida". Martino si attiva subito e parla con la segretaria di Ferri. Secondo i carabinieri proprio per questo motivo Martino "poteva ritenersi creditore nei confronti di Cappellacci".

Le P...Poteri occulti, ma non troppo!!.

La loggia di Licio Gelli.

Propaganda Due, nota come P2, è stata una loggia massonica segreta con fini eversivi. Dal 1970 venne guidata da Licio Gelli (sotto), nel 1982 fu sciolta per legge. Quasi mille gli iscritti alla loggia segreta. Il 17 marzo 1981 il colonnello Vincenzo Bianchi si presenta a Villa Wanda, a Castiglion Fibocchi, vicino ad Arezzo, residenza dell'allora quasi sconosciuto Licio Gelli. Ha in tasca un mandato di perquisizione dei giudici milanesi Giuliano Turone e Gherardo Colombo, che indagano sull'assassinio Ambrosoli e sul finto sequestro di Sindona, mandante del delitto. Dopo qualche ora di lavoro, l'ufficiale riceve una telefonata del comandante generale della Finanza, Orazio Giannini. Si sente dire: «So che hai trovato gli elenchi e so che ci sono anch'io. Personalmente non me ne frega niente, ma fai attenzione perché lì dentro ci sono tutti i massimi vertici». Poche parole, dalle quali Bianchi è colpito per la doppia intimidazione che riassumono. Cioè per quel «non me ne frega niente», che esprime un assoluto senso d'impunità. E per quel «tutti i massimi vertici», che capisce va riferito ai vertici «dello Stato e non del corpo» di cui lui stesso indossa la divisa. Ed è proprio vero: c'è una parte importante dell'Italia che conta, in quella lista di affiliati alla loggia massonica Propaganda Due, che il colonnello sequestra assieme a molti altri documenti e trasporta sotto scorta armata a Milano. Ci sono 12 generali dei carabinieri, 5 della guardia di Finanza, 22 dell'Esercito, 4 dell'Areonautica militare, 8 ammiragli, direttori e funzionari dei vari servizi segreti, 44 parlamentari, 2 ministri in carica, un segretario di partito, banchieri, imprenditori, manager, faccendieri, giornalisti, magistrati. Insomma: nella P2 ci sono 962 nomi di persone che formano «il nocciolo del potere fuori dalla scena del potere, o almeno fuori dalle sue sedi conosciute». Una sorta di «interpartito» formatosi su quello che appare subito come un oscuro groviglio d'interessi dietro il quale affiorano business e tangenti, legami con mafia e stragismo, il golpe Borghese, omicidi eccellenti (Moro, Calvi, Ambrosoli, Pecorella) e soprattutto un progetto politico anti-sistema. Quando, dopo due mesi di traccheggiamenti, gli elenchi sono resi pubblici, lo scandalo è enorme. Il governo ne è travolto e il 9 dicembre 1981, anche per la spinta di un'opinione pubblica sotto shock e che chiede la verità, s'insedia una commissione parlamentare d'inchiesta, che la presidente della Camera, Nilde Jotti, affida alla guida di Tina Anselmi. Da allora l'ex partigiana di Castelfranco Veneto, deputata della Dc e prima donna a ricoprire l'incarico di ministro, comincia a tenere un memorandum a uso personale oggi raccolto in volume: «La P2 nei diari segreti di Tina Anselmi», a cura di Anna Vinci (Chiarelettere, pag. 576, euro 16). Tra i primi appunti, uno è rivelatore del clima che investe la politica («i socialisti sono terrorizzati dall'inchiesta») e l'altro del metodo che la Anselmi intende seguire: «Fare presto, delimitare la materia, stare nei tempi della legge». Un proposito giusto. Lo sfogo del colonnello Bianchi le ha fatto percepire l'enormità dell'indagine e i livelli che è destinata a toccare. Diventa decisivo, per lei, sottrarsi all'accusa di «dar la caccia ai fantasmi» e di certificare quindi l'attendibilità delle liste (su questo si gioca la critica principale), come pure evitare che l'investigazione si chiuda con il giudizio minimalista accreditato da alcuni, secondo i quali la P2 sarebbe solo un «comitato d'affari». È un'impresa dura e difficile, per la Anselmi. Carica di inquietudini. Lo dimostrano i 773 foglietti in cui annota ciò che più la colpisce durante le 147 sedute della commissione. Riflette, ad esempio, il 14 aprile 1983: «Strano atteggiamento del Pci... non mi pare che voglia andare a fondo. La stessa richiesta loro di non approfondire il filone servizi segreti fa pensare che temano delle verità che emergono dal periodo della solidarietà. Ipotesi: ruolo di Andreotti, che li ha traditi? O coinvolgimento di qualche loro uomo? Più probabile la prima ipotesi. Mi pare che Br e P2 si siano mosse in parallelo e abbiano fatto coincidere i loro obiettivi sul rapimento e sulla morte di Moro». Altro appunto, del 26 gennaio '84, con l'audizione di Marco Pannella: «Com'è possibile che Piccoli, Berlinguer e Andreotti non sapessero della P2 prima del 1981?». Ragionando poi sul fatto che gli elenchi non sono forse completi e che Gelli potrebbe essere solo «un segretario», si chiede se la pista non vada esplorata fino a Montecarlo, sede di una evocata super loggia. E ancora, il 16 dicembre '81 mette a verbale che il parlamentare Giuseppe D'Alema (padre di Massimo) «consiglia di parlare» con un poco conosciuto giudice di Palermo che cominciava a conquistarsi le prime pagine sui giornali: Giovanni Falcone. S'incrocia di tutto in quelle carte. La fantapolitica diventa realtà. Ci sono momenti nei quali la commissione è una «buca delle lettere»: arrivano messaggi cifrati, notizie pilotate o false, ricatti. Parecchi riguardano la partita aperta intorno al Corriere della Sera, che era stato infiltrato (nella proprietà e in parte anche nella redazione) da uomini del «venerabile» e alla cui direzione c'è ora Alberto Cavallari, indicato da Pertini per restituire l'onore al giornale. In questo caso sono insieme all'opera finanzieri e politici, ossessionati dalla smania di controllare via Solferino. Si agitano anche pezzi del Vaticano, il cardinale Marcinkus, senza che la cattolica Anselmi se ne turbi e lo dimostra ciò che dice al segretario, Giovanni Di Ciommo: «Non ho fatto la staffetta partigiana per farmi intimidire da un monsignore». Ma a intimidirla ci provano comunque. La pedinano per strada. Qualche collega, passando davanti al suo scranno a Montecitorio, le sibila: «Chi te lo fa fare? Qua dobbiamo metterci i fiori». Fanno trovare tre chili di tritolo vicino a casa sua. Lei tira dritto. Quando, il 9 gennaio '86, presenta alla Camera la monumentale conclusione del suo lavoro, 120 volumi, definisce la P2 «il più dotato arsenale di pericolosi e validi strumenti di eversione politica e morale» (il piano di Rinascita Democratica di Gelli). Nel diario aveva profeticamente scritto: «Le P2 non nascono a caso, ma occupano spazi lasciati vuoti, per insensibilità, e li occupano per creare la P3, la P4...». Sono passati trent'anni e la testimonianza di Tina Anselmi, dimenticata e da tempo malata, è da riprendere. Magari riflettendo su un dato: nella lista compariva anche il nome di Silvio Berlusconi. All'epoca era soltanto un giovane imprenditore rampante e i parlamentari non ritennero di sentirlo perché era parso un «personaggio secondario».

La cricca di Carboni.

È stato ribattezzato P3 il presunto gruppo di potere occulto che ruotava intorno a Flavio Carboni, Arcangelo Martino e Pasquale Lombardi: avrebbe tentato di condizionare la Corte Costituzionale e altre istituzioni. Dalla scoperta della P2 di Licio Gelli sono passati ormai trent'anni. E una legge, l'Anselmi, che ha bandito ogni organizzazione segreta. Eppure da le indagini di due Procure (di Roma e di Napoli) si sono concentrate sull'esistenza di nuovi circoli occulti, ribattezzati P3 e P4, finalizzati ad ottenere indebiti vantaggi (appalti, nomine, finanziamenti) tramite lo scambio di favori.

La Loggia P3.

Il caso nasce nel 2010, nell’ambito di un’inchiesta della Procura di Roma sugli appalti per l’eolico che porta in carcere l’imprenditore Flavio Carboni, il geometra Pasquale Lombardi e il costruttore Angelo Martino. Nel registro degli indagati, per associazione a delinquere e violazione della legge Anselmi sulle società segrete, finiscono anche il senatore del Pdl Marcello dell’Utri, il sottosegretario all’economia Nicola Cosentino, il coordinatore del Pdl Denis Verdini e l’ex assessore all’avvocatura della Regione Campania, Ernesto Sica. La presunta loggia, guidata da Carboni, oltre a consorziarsi per bypassare la concorrenza nella vittoria di appalti pubblici avrebbe anche progettato di influenzare i giudici della Corte Costituzionale incaricati di pronunciarsi sul Lodo Alfano. Carboni, Lombardi e Martino avrebbero tentato persino di avvicinare i magistrati della procura di Firenze che stavano indagando sui Grandi Eventi e sugli appalti legati al G8. Secondo gli inquirenti, il gruppo "per acquisire e rafforzare utili conoscenze nell'ambiente della politica e della magistratura" utilizzava l'associazione culturale "Centro studi giuridici per l'integrazione europea Diritti e Libertà"di Lombardi.

E la Loggia P4.

E’ il nome dato ad una presunta associazione segreta su indagine della Procura di Napoli. Il suo scopo sarebbe quello di “interferire sull’esercizio delle funzioni di organi costituzionali e di amministrazioni pubbliche, anche ad ordinamento autonomo”. L’inchiesta è condotta da due pm di Napoli, secondo i quali i membri dell’associazione si scambiavano favori nell’assegnazione di appalti, di nomine e di finanziamenti. Tra gli indagati ci sono un poliziotto partenopeo ed Enrico La Monica, maresciallo nella sezione anticrimine dei carabinieri di Napoli. I pm ritengono che La Monica abbia rivelato “in più occasioni notizie coperte da segreto, anche attinte da altri appartenenti alle forze dell’ordine”. Gli ultimi a finire nel registro degli indagati sono Luigi Bisigani, giornalista e consulente aziendale, da molti considerato il personaggio chiave della vicenda, arrestato per l'ipotesi di favoreggiamento in relazione alla rivelazione di notizie coperte da segreto, e il parlamentare Pdl Alfonso Papa. Secondo gli inquirenti la P4 sarebbe un sistema informativo parallelo, creato per ottenere notizie riservate su appalti e nomine., con ogni mezzo: dal dossieraggio clandestino al ricatto, anche attraverso organi costituzionali. Quello degli appalti pilotati è la parte più delicata sulla quale i sostituti procuratori napoletani stanno lavorando. La "cricca" avrebbe agito sostanzialmente in due modi. Da un lato, acquisendo, negli ambienti giudiziari, informazioni secretate relative a procedimenti penali in corso. Dall’altro, raccogliendo dati sensibili sulle alte cariche dello Stato. Informazioni e notizie che poi sarebbero state utilizzate in modo "illecito" con lo scopo di ottenere "indebiti vantaggi". Anche il direttore de L’Avanti, Valter La Vitola era satto interrogato come teste riguardo alla faccenda legata alla casa di Montecarlo del presidente della Camera Fini. Ad insospettire gli inquirenti sarebbero stati alcuni scoop messi a segno dalla testata.

Il dossier di Bisignani.

È stato chiamato P4 il «sistema parallelo» messo in piedi da Bisignani e Papa: un sistema finalizzato alla gestione di notizie riservate, appalti e nomine, anche attraverso interferenze su organi costituzionali. P4, la rete di Bisignani e Papa: finanza, giudici e 007. Sui giornali nuove indiscrezioni sull’inchiesta sulla presunta associazione segreta che ha portato all’arresto dell’uomo d’affari e che coinvolge anche il deputato del Pdl. Tra i loro contatti ci sarebbero anche Pollari e Toro.

L'inchiesta sulla cosiddetta P4.

Nuove indiscrezioni sui giornali sull’inchiesta sulla presunta P4 che ha portato ai domiciliari Luigi Bisignani e alla richiesta di custodia cautelare in carcere per Alfonso Papa, deputato eletto nel Pdl. Un’inchiesta su una presunta associazione segreta, i cui membri avevano rapporti ad alti livelli nel mondo della politica, pubblica amministrazione e dell'impresa, che raccoglieva informazioni riservate e le usava per esercitare pressioni, ricatti e ottenere vantaggi personali. Una nuova bufera che ha coinvolto anche il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianni Letta che, secondo indiscrezioni, sarebbe stato il referente principale di Bisignani.

In primo piano sui quotidiani di venerdì 17 giugno 2011 i rapporti di Luigi Bisignani con la Guardia di Finanza e i giudici. Alfonso Papa sarebbe stato il suo contatto per costruire la rete. “Non c’è dubbio che i canali informativi di Alfonso Papa erano prevalentemente nella Guardia di Finanza. Al riguardo, lui aveva rapporti con ufficiali del Corpo”. Queste le parole che Bisignani avrebbe detto, secondo quanto riporta Repubblica. Il legame tra Papa e la Guardia di Finanza risale al 2001 quando giovanissimo magistrato - pm, lascia Napoli per assumere l’incarico di vice-capo di Gabinetto del ministro di Giustizia Roberto Castelli. Da lì in avanti dieci anni di lavoro per agganciare lo stato maggiore della Guardia di Finanza. Secondo il quotidiano diretto da Ezio Mauro “il parlamentare del Pdl diceva di conoscere e vedere i generali Adinolfi, Barbi e Mainolfi”. Tra gli amici di Papa, secondo quanto riportano sia Repubblica sia il Corriere della Sera citando dichiarazioni di Bisignani, ci sarebbe anche l’ex direttore del Sismi Niccolò Pollari. Non solo. L’ex parlamentare Alfredo Vito avrebbe messo a verbale: “La candidatura di Papa fu conseguenza di un intervento diretto di Pollari, lui era legato ai servizi segreti”. Il Corriere della Sera pubblica una pagina dei tabulati relativi alle intercettazioni in cui Papa farebbe riferimento a un appuntamento con “quel generale”. Per quanto riguarda invece i contatti con i pm, Papa avrebbe avuto stretti legami con le Procure di Roma, Napoli, Trani, Bari e Milano. In particolare, in un articolo di Repubblica a firma di Francesco Viviano si citano i nomi del procuratore aggiunto di Roma Achille Toro e del figlio Camillo. L’ex presidente della Corte d’appello di Salerno Umberto Marconi, anche lui coinvolto nell’inchiesta sulla P3, avrebbe detto al collega Woodcock secondo quanto riportano sia Repubblica sia il Corriere della Sera: “Sono certo che Papa abbia spiegato e spieghi le proprie energie intrecciando rapporti con i carabinieri, con i servizi segreti..concentrato sempre ad agire sull’ombra. Papa ha praticamente a disposizione delle truppe che utilizza per perseguire i suoi scopi personali”. La Stampa parla anche di ricatti che Papa avrebbe fatto ad alcuni imprenditori. Come Vittorio Casale, che "per un paio di anni ha pagato a Papa la garconnière di via Giulia a 800 euro al mese. In cambio Papa gli aveva promesso soluzione ai suoi problemi giudiziari. E' stato arrestato". Sul quotidiano anche un ritratto di Alfonso Papa dal titolo "Il trafficante di segreti che mancava alla destra". Sui giornali vicini al centrodestra continuano invece a sostenere che tutta l’inchiesta sia solo un modo per mettere in difficoltà il governo. “Svolazzano attorno a Berlusconi. E’ il momento dei corvi. Basta leggere Repubblica per capire: nell’inchiesta sulla presunta loggia P4 tirano in ballo Letta per colpire il premier” titola Il Giornale. Libero invece riprende una storia pubblicata da l’Espresso e gli dedica la prima pagina: “Il bunga bunga dell’Idv. Una giovane disoccupata accusa il senatore Pedica e il deputato Zazzera: “Mi hanno estorto sesso promettendomi un lavoro. Che non ho mai visto”. Da Toro ad Arcibaldo Miller, "Così Papa controllava le procure". Molti i nomi di magistrati finiti nell'ordinanza del Gip di Napoli sull'inchiesta su Bisignani che dice ai giudici: "Quando parlo di giri e giretti del deputato del Pdl mi riferisco all'ambito napoletano. Lì lui attingeva informazioni". Di FRANCESCO VIVIANO su La Repubblica del 17 giugno 2011.

Roma, Napoli, Trani, Bari, Milano. Una rete che gli permetteva di entrare nelle procure di mezza Italia. Tra fascicoli e segreti d'ufficio. Alfonso Papa, già magistrato poi deputato Pdl, aveva amicizie importanti e, a quanto pare, loquaci. Tanto loquaci da procuragli, a suon di informazioni riservate, uno scranno in Parlamento. Un giro che partiva da Bisignani, toccava molti esponenti della maggioranza e arrivava dritto al sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta. Tanti i nomi di magistrati finiti nell'ordinanza del gip del tribunale di Napoli. Amici di una vita, colleghi di vecchia data, militanti della sua stessa corrente, Unicost, ma anche molte toghe che non sapevano di passare informazioni al collega assetato di potere. Che era interessato alle inchieste più importanti: la P3 di Roma, la P4 di Napoli e quella sul G8. Ma, più in generale, a qualsiasi fascicolo coinvolgesse qualche politico. Spuntano così il nome del procuratore capo di Bari, Antonio Laudati, con cui Papa diceva di essere in buoni rapporti e dell'ex procuratore aggiunto di Roma, Achille Toro, già coinvolto nell'inchiesta sui Grandi Eventi. L'amicizia tra i due era di dominio pubblico. Maria Elena Valanzano, assistente parlamentare di Papa, il 18 febbraio scorso, mette a verbale: "Per quanto riguarda l'ambito giudiziario romano, Papa spesso mi parlava dei suoi contatti e delle sue aderenze con il procuratore Achille Toro e con il figlio, Camillo". Un legame molto stretto, tanto da cercare di dare una mano all'amico caduto in disgrazia. Il 9 marzo 2011 Bisignani chiarisce: "Era molto amico dell'allora procuratore aggiunto di Roma Achille Toro e del figlio Camillo. Al riguardo più volte mi chiese di poter trovare qualche incarico per Toro". Alcune delle toghe citate sono state sentite dal pm John Henry Woodcock. Come nel caso di Arcibaldo Miller che fu "maestro" proprio di Woodcock. Il capo degli ispettori di via Arenula, citato in alcune conversazioni si è difeso: "Voglio ribadire di non aver mai chiesto a Papa di interessarsi delle vicende processuali nella quali è comparso il mio nome". Dall'inchiesta emerge anche che l'onorevole avrebbe tentato di "contattare" il vice presidente del Csm, Michele Vietti. A raccontarlo è la sua ex assistente, Maria Roberta Darsena, una a cui Papa teneva parecchio, tanto da regalarle una Jaguar. È il 12 aprile, la donna spiega: "Dissi a Papa che ero stata a una cena con Vietti, al riguardo mi fece un sacco di domande e mi chiese con insistenza morbosa quale fosse il ristorante, che io non ricordavo, e tutti i dettagli della serata". La procura decide quindi di convocare Vietti, ritenuto una "possibile vittima dell'acquisizione di fatti privati a scopo di pressione". Le sue dichiarazioni non vengono nemmeno riportate. I contatti migliori erano, però, quelli partenopei. "Diceva che a Napoli, in ambito giudiziario, la "comandava lui"", ha spiegato Luigi Matacena ai magistrati. Rapporti consolidati, a detta dello stesso Bisignani. "Quando parlo di Papa, dei suoi "giri" o "giretti" e delle sue "fonti" dalle quali attingeva notizie riservate di matrice giudiziaria, faccio riferimento all'ambito napoletano, nel senso che mi ha sempre detto di avere amicizie e legami tra le forze di polizia e in procura a Napoli". Contatti continui, le informazioni sui procedimenti a carico dei politici sono merce di scambio. L'ex Presidente della Corte di Appello di Salerno, Umberto Marconi, coinvolto anche nell'inchiesta P3 per il falso dossieraggio nei confronti di Caldoro, ha detto al collega Woodcock: "Sono certo che Papa abbia spiegato e spieghi le proprie energie intrecciando rapporti con i carabinieri, con i servizi segreti... concentrato sempre ad agire nell'ombra. Papa ha praticamente a disposizione delle "truppe" che utilizza per perseguire i suoi scopi personali". La trama puntava dritto a palazzo Grazioli. Lo stesso Giacomo Caliendo, sottosegretario alla Giustizia, il 9 dicembre racconta: "Dopo le ultime elezioni il presidente Berlusconi, in una occasione, mi chiese notizie su Papa dal momento che aveva ricevuto qualche segnalazione diretta a fargli ottenere un incarico".

Il messaggio del magistrato Paolo Ferraro Contro il Nuovo Ordine Mondiale, che tutti dovrebbero vedere, scrive a febbraio 2018 complottisti.info. Visto al punto in cui siamo arrivati in questo paese, riteniamo utile ed attuale riproporre il messaggio che l’ex magistrato Paolo Ferraro, poco tempo fa, ha pubblicamente rivolto a tutti coloro che stanno operando in modo occulto per realizzare un nuovo ordine sociale e politico alle spalle dei cittadini. Il magistrato Paolo Ferraro ha lanciato in rete un duro messaggio rivolto ai burattinai del Nuovo Ordine Mondiale. Conosciamo tutti il magistrato Paolo Ferraro e apprezziamo da tempo il suo coraggio e la sua determinazione, come conosciamo le sue battaglie per la verità e per la giustizia. Da tempo oggetto di una vera e propria persecuzione umana e giudiziaria per aver avuto il coraggio di indagare nel campo minato dei servizi segreti deviati e delle tecniche di controllo e manipolazione mentale, ha ricevuto minacce e ha subito attentati, subendo pesanti ritorsioni sulla sua vita privata e professionale. Ma non si è fermato e continua a denunciare il marciume dei poteri occulti che manipolano la politica, la magistratura, l’economia, le forze armate e gli apparati dello Stato. Grazie a lui e alla sua incessante azione divulgativa, sempre più persone sono venute a conoscenza del mondo oscuro che si cela dietro alle nostre istituzioni e degli obiettivi dei burattinai che stringono nelle mani i veri fili del potere. Paolo Ferraro è stato ospite al Congresso Nazionale del P.A.S. che si è tenuto a Roma, ribadendo nel corso di un suo lungo e apprezzato intervento le sue posizioni e le sue denunce. E ha recentemente realizzato un nuovo video, diffuso sulla rete, in cui si rivolge direttamente ai fautori del Nuovo Ordine Mondiale, lanciando un messaggio forte e chiaro: Vergognatevi! Giù le mani dall’umanità, giù le mani dal cielo e dall’aria, giù le mani dai bambini, giù le mani dalla giustizia e dalla politica! Il vostro tempo è finito e presto dovrete rendere conto all’intera umanità delle vostre nefandezze. É questo, in sintesi, ciò che Ferraro dice rivolgendosi a questi grandi burattinai. Si tratta di un messaggio molto forte e diretto, di cui qui di seguito vi proponiamo una sintesi, seguita dal link dove potrete accedere al video. Raccomandiamo a tutti i nostri lettori di vederlo con la massima attenzione. “Non toccate l’acqua. É il bene comune da sempre dell’umanità, state privatizzando ciò che appartiene alla gente. In nome del profitto economico, in nome dell’assurda affermazione che l’acqua gestita dalle strutture pubbliche non è redditizia da gestire. VERGOGNATEVI!” “Non toccate il cielo e l’aria. State facendo esperimenti di nascosto, abbiamo le prove che sostanze chimiche irrorano il cielo. Volete intervenire sulla natura, deviarla, condizionarla e controllarla, sopra la gente e sopra la testa della gente. VERGOGNATEVI !” “Non toccate il cibo. Avete tentato disperatamente di ridurre alla fame il terzo e quarto mondo, riuscendoci. Adesso pretendete di ricattare il mondo occidentale attraverso gli OGM, e cioè gli organismi geneticamente modificati, che sottraggono l’autonomia agricola e produttiva alla gente. VERGOGNATEVI !” “Non toccate gli uomini e le donne. State sperimentando tecniche di condizionamento mentale da 50 anni, ereditate dai “grandi” gestori dell’abominio dell’umanità, i lager nazisti, e siete peggio di loro. Ve li siete portati in casa, avete costruito il progetto “Monarch” e il progetto “MK-Ultra”, gestite bambini e donne come schiavi. Ne avete usate tante, ne avete fatte tante in Italia, di tutti i colori e sta uscendo tutto fuori: manipolazione mentale, condizionamento mentale, tecniche di controllo…” “Non toccate la gente. Beni economici e sociali che appartengono alla gente. State per aggredire i beni fondamentali: la casa, la solidità economica, l’equilibrio psicologico della gente, assediandoli sui beni che fanno di questo occidente almeno un lume di civiltà” “Non toccate, non vi azzardate, a toccare la politica. Avete reso da sempre la politica uno strumento ignominioso di controllo, gestione e condizionamento. Creato partiti come apparati di condizionamento che tramandano al loro interno solamente slogan per gestire disinformando la gente e per governarla occultamente in un finto dissidio, che nasconde un profondo accordo per dominare”. “Non toccate, non vi azzardate a toccare, i valori spirituali di un popolo, il Popolo Italiano, perché avete costruito un progetto malato, fatto di potenze militari, fatto di tecniche di controllo ancora peggiori di quelle individuali sugli uomini e le donne e, oggi, state addirittura pensando di poter condizionare definitivamente questa umanità attraverso … di tutto: la disinformazione, l’assurda impossibilità di far capire alla gente quello che state combinando”. “Non toccate, non toccate assolutamente, i valori di questa società italiana e di questo popolo occidentale perché, se la democrazia è stata per voi una presa per il culo, essa è da sempre il simbolo del popolo che sceglie e decide, la politica non potrà che essere ripresa in mano dalla gente. Tutto quello che state facendo, signori belli, esce fuori. Esce fuori anche grazie al sacrificio di intellettuali, delle persone, ed è il momento in cui le verità escono a galla”. “Avete voluto anche toccare la chiesa, io sono laico. Non toccate il valore religioso che sta dietro l’impianto cattolico. Perché il valore religioso di Cristo, del Cristo che insegna il rispettarsi nell’umanità, è un valore che non solo vi schiaccia, vi travalica, ma che non potete cancellare perché anche noi che siamo laici lo facciamo nostro”. “Non toccate, assolutamente, i bambini. Luridi pedofili, assassini, che state ricostruendo un mondo fatto di sopraffazione, di sesso volgare, di uso strumentale dei bambini, fatto di falsità, di coloro che fanno il bianco nero e il nero bianco, di inversione dei valori”

“Non toccate la società civile. Voi che state inquinando il mondo militare, lo usate per le sperimentazioni, lo portate a schiacciare i popoli della terra”. “Non toccate il diritto alla gente a costruirsi un futuro usando strumentalmente sinistra, destra, poteri, contropoteri, poteri occulti. La gente ha una risorsa ancora: l’anima. La gente sta capendo, la gente vuole salvarsi, ma non vuole più solo salvare il vostro lurido mondo fatto di danaro, dello sfruttamento produttivo. Del produrre per distruggere e distruggere per produrre”. “Non vi azzardate a dire che fate la guerra per la pace, e la pace in realtà la fate per la guerra. Perché anche questo trucco ormai è svelato”. “Non continuate a infiltrare il mondo di quelli che una volta si chiamavano complottisti, che adesso non lo sono più. Sono un progetto politico collettivo che porterà la gente finalmente a capire che esistono ancora veri valori, beni supremi, e una capacità di fare una politica dal basso, vera”. “É finita, signori belli! Ora solo la violenza pura potete esercitare. Potrete pure portare l’umanità alla terza guerra mondiale, e io non lo auguro assolutamente a nessuno, ma non ne uscirete vincitori. State perdendo, avete programmato il default, la crisi del mondo moderno occidentale capitalistico non poteva non venire, ora ripartiamo con un progetto millenario, nuovo, fondato sui valori umani, e voi starete a guardare … perché siete pochi, siete violenti, siete ricattatori, e noi siamo persone per bene”. “Non toccate anche la giustizia umana. Avete deviato la magistratura, avete resa customer degli altri poteri, avete cambiato il corso che aveva fatto, tramite la Costituzione, la nostra magistratura un organo che in qualche motube,com/watchdo tutelava effettivamente i diritti. Adesso, oggi, in questo momento, una parte della gente sa che usate il diritto, un guazzabuglio infinito di norme, maxima iniuria, come diceva Catone, per governare un popolo insipiente e per ingabbiarlo usando le regole come una ragnatela, e il processo come uno stazio. Le pecore vi si infilano dentro e, invece di essere portate all’ovile del diritto e della tutela, vengono portate al macello dell’ingiustizia. Avete trasformato l’esercizio del potere giudiziario, non tutto perché i magistrati sono anche persone perbene, nell’opposto da sé: l’uso di un potere dato da una marea di norme e da un ruolo “magis stratus”, stratificato più in alto, per governare con l’abuso e la violenza”. “TUTTO QUESTO DEVE FINIRE. NON PUÓ NON FINIRE! … FINIRÁ. Perché l’umanità ha conosciuto anche l’Illuminismo, e i vostri padri massoni, che ben altro volevano, di quello che avete realizzato voi”. “Non toccate la libertà individuale e collettiva, condizionando addirittura con tecnologie avanzate di natura meccanica, chimica, ma addirittura sonora, gli esseri umani. La tecnologia HAARP che voi state nascondendo con un mare di bugie esiste. Ci avete anche iniziato a fare guerre. Siete in grado forse oggi di mandare dei suoni che creano reazioni collettive … è possibile? Io non lo affermo con certezza, ma quello che voi state facendo è un REATO CONTRO L’UMANITÁ”. “Avete fatto il processo di Norimberga, i crimini nazisti stanno impallidendo di fronte a quello che state facendo all’umanità”.

Cecchignola: storia di uno stupro, scrive il 24 Luglio 2017 Antonio Del Furbo su zonedombratv.it. Non è un film. E non è nemmeno un racconto immaginario. Purtroppo è un pezzo di vita reale, vissuto 35 anni fa in una camerata di un grande edificio dell’Esercito alla Cecchignola da un uomo che, solo oggi, ha il coraggio di raccontare ciò che gli accadde nel silenzio dei suoi superiori. Mi sono occupato varie volte di questo posto "mitico" che per l'opinione pubblica rappresenta, spesso, un luogo di efficienza e di orgoglio nazionale. Ho raccontato, in particolare, le vicende capitate all'ex magistrato Paolo Ferraro che, per un lungo periodo di tempo, ha frequentato quegli ambienti. Il giudice registrò in audio ciò che accadeva nell'appartamento in cui risiedeva con la compagna appena lui usciva: "Dall'ascolto attento emergevano attività già indicate nella conferenza ma, più in particolare, la possibilità di individuare uso di sostanze, tecniche o procedure verbali a prima vista inquadrabili come volte al condizionamento dei soggetti che li ricevevano. Tutto ciò in un contesto veramente anomalo, fatto di numerose persone di varie età, che sfruttavano una posizione di soppesabile assoggettamento della persona che abitava nell'appartamento oggetto di intercettazione". La vicenda Ferraro è contornata di strane vicende accadute in seguito alla sua denuncia: nel 2009 nel terrazzo di casa di Ferraro si verificò uno strano incendio e il giorno dopo lo stesso giudice subì una proposta di TSO. Da quel momento il Magistrato subì pressioni, intimidazioni indirette e inviti ripetuti a tacere. Il Magistrato ci raccontò di aver notato una donna simile a Carmela Rea nei corridoi della Procura di Roma alle 19 di una sera. A questo seguì la sospensione per quattro mesi, voluta dal CSM, "per gravi motivi di salute". Tra l'altro proprio per quanto riguarda la dichiarazione fatta dal PM su Melania Rea pare trovi riscontro con una dichiarazione rilasciata da un'amica di Melania, Imma Rosa, la quale aveva sostenuto che la donna dopo aver scoperto la relazione extraconiugale del marito con una collega di lavoro, aveva in un primo momento pensato al suicidio e successivamente pensato di denunciare pubblicamente la storia dei due amanti. Oggi, invece, torno a occuparmi della Cecchignola per un altro fatto: non meno grave evidentemente di quello accaduto in passato. Anche questa volta si parla di violenza, di stupro e di sangue. Si parla di un uomo nudo e sanguinante a cui nessuno ha dato aiuto. Un ambiente di depravati che ridevano e sghignazzavano davanti a una persona che, probabilmente, ha rischiato di morire. Una storia triste, fatta di miserabili. Di un miserabile come il capitano A. che gridava in faccia all'uomo stuprato di mentire, mentire, mentire. Una storia fatta di un ricovero in infermeria e poi all’ospedale del Celio. A raccontare la storia, la sua storia, è un cinquantenne che con quell'ambiente non ha più nulla a che fare. L.D. ha impiegato trent’anni per elaborare quel trauma e quelle immagini che gli hanno segnato la vita. Lui, classe 1964, oggi assessore di un Comune in provincia di Torino, ha deciso di raccontare la sua personale tragedia. Era il 1982 ed L.D. era partito in treno per da Porta Nuova per raggiungere la caserma dove era stato assegnato, il Reggimento Genio Trasmissioni. "Ero ingenuo, sognatore. Volevo diventare ufficiale e mi ero iscritto al corso volontari Vto, i tecnici operatori, quelli con le mostrine blu. A Roma non conoscevo nessuno, ero timido...". Ben presto quei sogni si frantumarono con la realtà di quel luogo in una notte di maggio. "Quella sera ero appena rientrato dal primo congedo. Prima di addormentarmi nella camerata da sei, sentii che i miei compagni bisbigliavano e ridacchiavano... Non ci badai, non potevo immaginare". Erano in tre: "Uno si chiamava Giovanni ed era di Foggia, gli altri due di Bitonto. Miei coetanei, o poco più. Ma insieme si sentivano invincibili. Dovevano essere le due quando mi presero dal letto, mani e piedi... Io cercai di dimenarmi, di scappare in corridoio. Ma loro mi sbatterono la testa sul pavimento e persi una prima volta i sensi. Mi portarono nella lavanderia, sullo stesso piano, e abusarono di me. Poi scapparono, lasciandomi svenuto. Mi svegliai forse due ore dopo, completamente nudo. Il sangue usciva dappertutto. Dal naso, dalla bocca, da dietro. Un maresciallo mi coprì con la sua giacca, credevo di morire..." Come se non fosse abbastanza, L.D. racconta di essere stato indotto a mentire, per coprire le responsabilità e salvare il buon nome della caserma, quando era ancora imbottito di psicofarmaci. "Il capitano A. mi venne a trovare in infermeria e mi disse che, se avessi riferito l’accaduto, sarei stato congedato con demerito e non avrei avuto accesso ai concorsi. Io, ragazzino, terrorizzato, non ebbi scelta: accettai di mettere a verbale che al mio arrivo alla stazione Termini tre balordi mi avevano trascinato in un giardinetto e violentato. Ai miei genitori raccontai di essere caduto. Provavo una vergogna che non mi ha mai abbandonato e mi ha rovinato la vita. Solo in tempi recenti sono riuscito a liberarmi dei miei fantasmi".

Dopo una lunga psicoterapia l'uomo ce l'ha fatta. "Nelle caserme italiane, anche se meno che in passato fatti del genere possono ancora succedere. Voglio esortare le vittime, i ragazzi che oggi hanno l’età che avevo io, a non farsi schiacciare dal silenzio" ha aggiunto l'assessore vittima di questa triste storia.

Vogliono annichilire e distruggere il Magistrato Paolo Ferraro, scrive il 9 marzo 2013 Imolaoggi. Come ho accennato ieri, con un post su ImolaOggi c’è una vicenda, innanzitutto umana, che sta scuotendo la coscienza di molti negli ultimi giorni.  La via intrapresa per l’annichilimento e distruzione totale di Paolo Ferraro sta proseguendo a marce e tappe forzate. Paolo Ferraro è stato espulso dalla Magistratura con provvedimenti del CSM perché accusato di essersi inventato la presenza di massonerie e sette sataniche. Ora il CSM mediante procedura Legale ha proposto innanzi al Tribunale di Roma la richiesta che Ferraro venga posto sotto ad Amministrazione di Sostegno e cure farmacologiche. In sostanza una richiesta di revoca di capacità giuridica di agire. Se dovesse essere così, non potrà più comperare neanche il pane, o firmare un qualsiasi documento.  “I fratelli, figli, e coniuge separata – dice Paolo Ferraro– già coinvolti in denunce e ritenuti corresponsabili dal dott. Ferraro, questa volta non compaiono come attori diretti, ma la sostanza di un accerchiamento da più lati per bloccare l’attività di denuncia e politica del dott. Paolo Ferraro rimane in tutta la sua inquietante valenza “. Io credo che questo caso debba farci riflettere tutti e soprattutto credo sia importante che di questo caso sia portato a conoscenza di tutti attraverso media e stampa. Anche perchè questo non è più un fatto personale, ma un provvedimento che coinvolge tutti gli italiani. La verità deve uscire, qualsiasi essa sia. “Per il 14 marzo 2013 – scrive Paolo Ferraro – sono stato convocato in udienza dinanzi al giudice tutelare di Roma (presidente della sezione Tribunale) per la “nomina di amministratore di sostegno” non alla mia anziana madre o alla signora terminale in ospedale… ma a me… Chi sa capisce quanto grave sia questa iniziativa e comunque spiego per gli altri che significa togliere a un soggetto autonomia capacità di agire ed in crescendo intrappolarlo rapidamente nella direzione finale che è stata evidentemente tracciata dall’odio di chi credeva di poter mettere tutto a tacere. Farlo a Paolo Ferraro significa esattamente quello che intuite e non servono parole. Le iniziative relative spettano a voi ma non sono “per me”, sono per la strenua difesa della democrazia e della legalità”. Vi premetto che ritengo la vicenda del Dott. Ferraro, già Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma, attinga e nuoccia i diritti umani – al di là delle valutazioni di verità o meno di quanto lo stesso ritiene stia accadendo (soprattutto a danno della sua persona ma anche della democrazia e della libertà di noi tutti) –. Il Dott. Paolo Ferraro svolgeva la funzione di sostituto PM presso la Procura di Roma ed era definito anche dai Colleghi: Magistrato preparato, attento, scrupoloso e molto affidabile che ha sempre portato a termine in modo ottimale i suoi compiti. Il Dott. Ferraro, alla fine del 2008 formalizzava una denuncia in Procura assumendo che nella sua abitazione, nel quartiere romano della Cecchignola, nei tempi in cui lui non era in casa, avvenivano rituali satanici, pratiche sessuali in condizioni di ipnosi e comunque sotto l’effetto di sostanze alteranti, che vedevano coinvolti adulti, bambini e quale vittima posta in stato di incoscienza l’allora sua compagna. “Si tratta – precisa Ferraro– di modalità e tecniche di manipolazione e condizionamento mentale di varia radice ma anche di ascendenza militare meglio note come operativamente ricollegate al progetto CIA Monarch ed MK.ULTRA e il dott. Paolo Ferraro ne ha fatto denuncia pubblica riportata anche in trasmissioni televisive nazionali. La denuncia del Magistrato veniva suffragata da registrazioni audio ambientali (Evidentemente non era nella possibilità di installare la tecnologia necessaria per fare le riprese visive)

Il sospetto di quanto potesse accadere a danno della sua donna e dei minori conduceva il Dott. Ferraro ad intraprendere una lunga e tortuosa attività di studio e approfondimento personali che, a suo dire, lo portavano a scoprire trame occulte e deviate tra i poteri istituzionali dello Stato, gli alti gradi militari (che trovavano nel quartiere della Cecchignola abitazione), psicologi, psichiatri e altri professionisti compiacenti, massoneria e sette sataniche. Il Dott. Ferraro sostiene di essersi addentrato in questo quadro con grande ingenuità e inconsapevolezza, comprendendone i tasselli, legami e ruoli solo molto tempo dopo. Perciò le sue “denunce”, inizialmente passavano per i canali “ufficiali e istituzionali”. Ciò l’avrebbe portato a “scoprirsi” e a divenire obiettivo da neutralizzare per dette istituzioni e poteri deviati. Così si spiegherebbero, dal suo punto di vista, un TSO convertito in ricovero volontario nel maggio/giugno 2009, con forzata assunzione di neurolettici; due procedure di dispensa dalle sue funzioni, avviate presso il CSM nel 2009 e 2010 su segnalazione delle Procure di Roma e Perugia e concluse con l’archiviazione; un’aspettativa per infermità di più di un anno (agosto 2011- dicembre 2012), seguita dalla delibera di dispensa dalle sue funzioni assunta per motivi di salute dal CSM lo scorso 06.12.2012 (che egli preannuncia di voler impugnare al TAR). Nel frattempo, gli viene notificato lo scorso 07.02.13 il Ricorso del Procuratore Capo di Roma per la nomina di un amministratore di sostegno che dovrà acconsentire in sua vece alla somministrazione a lui di psicofarmaci. Orbene, Paolo Ferraro ha riversato nel web tutta la sua storia e gli atti che – a suo dire – dimostrano il dramma umano di cui è vittima. Egli sostiene che esistano, anche perchè direttamente riscontrato ed oggettivo” BEN SEI CERTIFICAZIONI DI CUI UNA ADDIRITTURA DI PROVENIENZA PUBBLICA E QUATTRO RELAZIONI PRODOTTE IN RETE DIMOSTRANO CHE IL DOTT: PAOLO FERRARO OLTRE AD ESSERE PERSONA PERFETTAMENTE SANA ED EQUILIBRATA E’ UOMO E MAGISTRATO CON DOTI PERSONALI PECULIARI ”. Io ritengo che vada salvaguardato, al di là della fondatezza o meno della sue tesi, il suo diritto individuale di libertà a decidere del suo stato di salute ed, eventualmente, la sua libertà di curarsi o meno; la nomina di un amministratore di sostegno, in assenza di condizioni di pericolosità alcuna, che sostanzialmente gli imponga gravi e pesanti terapie a base di potentissimi psicofarmaci, è una violenza per lui e violazione dei diritti umani per tutti e non ultimo, un aggiramento delle libertà fondamentali dell’individuo che non può venire tollerato. Non di meno il gravissimo fatto che lo sta coinvolgendo lede la fondamentale libertà di espressione e manifestazione del pensiero. Paolo Ferraro sta chiedendo l’aiuto di molti, di tutti, nella sua battaglia per la libertà. Ho ritenuto opportuno portare il caso su ImolaOggi proprio perché sia portato a conoscenza di tutti, sia per la specifica sensibilità di moltissimi lettori sulle tematiche della libertà individuale, sia per valutare se coinvolgere gli stessi lettori a sostegno di questa inaudita violenza e violazione dei diritti umani.

Paolo Ferraro: solo contro massoni e servizi segreti deviati, scrive il 26 Giugno 2012 Antonio Del Furbo su zonedombratv.it. Paolo Ferraro è un magistrato che, a seguito di una vicenda complessa e delicata, ha portato alla luce una setta all'interno di ambienti militari, connessa ai cosiddetti "poteri forti" e collegata all'omicidio di Melania Rea. Per ben due anni in mezzo il PM, uomo di riconosciuta indipendenza e di alto rigore, ha sopportato pesanti attacchi dal punto di vista professionale e privato. Il Magistrato ha riscontrato in prima persona, durante il periodo di residenza presso la cittadella militare della Cecchignola, comportamenti ed attività "non normali", venendo a conoscenza di un mondo "sotterraneo, sconosciuto, poco chiaro, ambiguo, fumoso". Quindi Ferraro sporse denuncia immediatamente nel Novembre 2008 subito dopo aver proceduto all'ascolto di registrazioni audio relative a sei mattine e due pomeriggi che prospettavano una "situazione ambientale" inquietante. "Ebbi dichiarazioni conformi che la disegnavano a grandi linee, e feci ascoltare l'audio sia ad un ufficiale di P.G. particolarmente qualificato, che ad una psicologa incaricata tramite un avvocato che ritenevo di fiducia, psicologa cui avevo conferito il compito di un sostegno esterno e affiancamento alle persone da me ritenute vittime dirette o indirette". Prosegue ancora il Magistrato: "Dall'ascolto attento emergevano attività già indicate nella conferenza ma, più in particolare, la possibilità di individuare uso di sostanze, tecniche o procedure verbali a prima vista inquadrabili come volte al condizionamento dei soggetti che li ricevevano. Tutto ciò in un contesto veramente anomalo, fatto di numerose persone di varie età, che sfruttavano una posizione di soppesabile assoggettamento della persona che abitava nell'appartamento oggetto di intercettazione". Nel 2009 nel terrazzo di casa di Ferrero si verificò uno strano incendio e il giorno dopo subì una proposta di TSO. Da quel momento il Magistrato subì pressioni, intimidazioni indirette e inviti ripetuti a tacere. Poi il Magistrato prosegue dicendo di aver notato simile a Carmela Rea nei corridoi della Procura di Roma alle 19 di sera. A questo seguì la sospensione per quattro mesi, voluta dal CSM, "per gravi motivi di salute". Tra l'altro proprio per quanto riguarda la dichiarazione fatta dal PM su Melania Rea pare trovi riscontro con una dichiarazione rilasciata da un'amica di Melania, Imma Rosa, la quale aveva sostenuto che la donna dopo aver scoperto la relazione extraconiugale del marito con una collega di lavoro, aveva in un primo momento pensato al suicidio e successivamente pensato di denunciare pubblicamente la storia dei due amanti. Ludovica Perrone, l'amante di Parolisi, conferma di aver ricevuto minacce telefoniche da Melania. Ancora. Un magistrato di Teramo e un ufficiale dell’arma di Teramo, che si occupano del caso Melania Rea, sono stati entrambi vittime di due attentati incendiari ai danni delle loro vetture, realizzati alle cinque di mattina del 20 Novembre. Pochi giorni prima era stata acquisita la testimonianza dettagliata del magistrato Paolo Ferraro. In sostanza Ferraro è convinto che il programma "MK-ULTRA" non era stato abbandonato negli anni '70, come sostenuto dalla CIA, ma ripresa negli anni '90 e chiamato "PROGRAMMA MONARCH". Lo schema è semplice: vengono prese civili che hanno sofferto o stanno soffrendo, si drogano o gli vengono fatte torture psicologiche da psichiatri e tramite un codice questa persona andrà ad esempio a consegnare droga. Il dottor Ferraro si è detto certo che Melania Rea sia stata vittima del "PROGRAMMA MONARCH". Stessa esperienza che proprio il Magistrato aveva trovato nella sua esperienza del 2008 con l'amica fissa e permanente che alla Cecchignola fungeva da controllo e condizionamento. Il Gip Giovanni Cirillo ha ipotizzato che Melania Rea avesse scoperto che in caserma si stavano conducendo questo tipo di esperimenti e che ne fosse stata vittima prima della gravidanza. Dopo la nascita della figlia, sempre secondo il Gip, pare ne stesse elaborando il ricordo. Paolo Ferraro, intervistato dalla nostra redazione, ha confermato le sue teorie mai contestate fornendoci dati e ricostruzioni a nostro giudizio inoppugnabili. Chissà se il Magistrato potrà veramente combattere questa battaglia e risolvere i casi più brutti della storia d'Italia.

LA VICENDA DEL MAGISTRATO PAOLO FERRARO. PROVA DEL GOLPE SCIENTIFICO TARGATO TAVISTOCK, dal blog CDD ITALIA LIBERA. Era il 24 novembre del 2008 quando il magistrato Paolo Ferraro denunciò episodi avvenuti tra l’8 ed il 18 novembre nell’appartamento situato nella città militare della Cecchignola dove conviveva da maggio dello stesso anno con donna, moglie separata di sottoufficale dell'esercito impiegato allo stato maggiore della difesa, a sua volta presentatagli (reiteratamente )  da magistrato distaccato presso il Ministero degli Esteri ufficio legislativo.(le circostanze di contorno ma anche di contenuto sono state già spiegate più volte). Per mezzo di registrazioni audio condotte privatamente dallo stesso Paolo Ferraro (allertato da esplicita richiesta di aiuto da parte del figlio minore della signora) si evince che quando egli non era presente nell’abitazione della Cecchignola entrava in azione un gruppo composto da sottoufficiali militari abitanti nel palazzo e nel quartiere, con lo svolgimento di attività anomale coinvolgenti donne, bambini e la particolare presenza di bambini ROM. La procura ottenne la archiviazione della denuncia esattamente tre mesi dopo mentre nel frattempo il dott. Ferraro veniva circondato da alcuni colleghi della Procura di Roma (incluso l’allora procuratore capo Ferrara) i quali con varie pressioni più o meno violente lo invitavano a non approfondire la vicenda scoperta. Il 23 maggio del 2009, sette mesi dopo la denuncia depositata e archiviata dalla Procura di Roma, il magistrato Paolo Ferraro che invece  stava approfondendo i fatti e si apprestava ad una denuncia del tutto, subisce un sequestro di persona venendo prelevato presso la sua abitazione da una psichiatra, un medico,  due agenti di polizia municipale e un’autista di ambulanza con tanto di infermieri, in un vero e proprio agguato concertato e in assenza non solo di qualsiasi presupposto ma altresì di qualsiasi provvedimento formale. Media e complottistoidi parlano di un "TSO ingiusto" ma fu un solo un vero e proprio sequestro di persona (in quanto mancavano tutte le formalità necessarie per configurare un TSO oltrechè i presupposti di fatto) organizzato con urgenza a causa dei gravi fatti denunciati dal magistrato Paolo Ferraro che dal 2011 poi verranno resi pubblici dallo stesso con ulteriori particolari sconosciuti al pubblico. Dal sequestro di persona si passa ad un tentativo di eliminazione fisica del magistrato. Infatti, ad una persona mentalmente e fisicamente sana come il dott. Paolo Ferraro viene imposta a la somministrazione di un antipsicotico dal nome “Risperdal”, un neurolettico molto forte che inibisce i collegamenti chimici tra le sinapsi (intelletto). La psichiatria deviata (ovvero la quinta colonna tavistockiana) sa benissimo che il risperdarolo somministrato ad una persona sana può danneggiare la complessa rete di fibre nervose che regolano il controllo motorio, provocando rigidità muscolare, spasmi e un abbassamento dei globuli bianchi.  Come pure è consapevolissima del fatto che il risperdarolo somministrato ad una persona sana può creare una perdita di coscienza causata dalla riduzione di flusso sanguigno al cervello oltre che portare infiammazione cardiaca e del pancreas (potenzialmente letale). Ma in quel momento la parola d’ordine che la quinta colonna sotterranea faceva passare ai propri membri presenti nella magistratura e negli ambienti sanitari era: “bisogna eliminare il magistrato Paolo Ferraro”, diventato troppo scomodo. Immesso nel perverso meccanismo del trattamento psichiatrico attraverso un sequestro di persona privo dei requisiti formali, ma impossibilitato a ribellarsi al ricovero in quanto qualsiasi reazione interpretata come “sintomo di patologia in atto” avrebbe fornito l’alibi per regolarizzare il trattamento, Paolo Ferraro ha dovuto suo malgrado sottoporsi a 9 mesi di tortura farmacologica. Finito l’effetto risperdal, la procedura Tavistock si inserisce ancora una volta con attività di pressione, minaccia diretta ed indiretta ed altre realizzate poi (taglio delle gomme del camper) proprio a partire dal momento in cui il dott. Ferraro riprende in mano vecchie e nuove prove che gli serviranno a capire ancora più a fondo ciò che gli era successo negli ultimi vent’anni della sua ben più che onorata carriera. Guardando alla sua storia personale e professionale, Ferraro riconosce che la Quinta Colonna all’interno della Procura di Roma lo attenzionava già dal 1991, anche perché era il magistrato più brillante, capace e creativo (ha ideato un programma per la gestione integralmente automatizzata delle attività procedimentali denominato “ATZ” che consentiva di gestire agevolmente circa 12.000 procedimenti penali l’anno senza intervento umano): quello che si mette in luce in un ambiente di lavoro piatto e con l’altissima probabilità di aver rotto dinamiche di clan molto chiuse, tipiche della quinta colonna sotterranea. Vent’anni di metodiche di infiltrazione che hanno letteralmente distrutto e interferito rapporti familiari e sociali intorno al magistrato (allora ignaro di un’attività pianificata a suo danno) che con personalità solida andava avanti addirittura sereno nonostante quello che gli capitava intorno. Il nuovo assalto, dal 2005 in poi, dopo la grande inchiesta OIL FOR DRUG, organizzata gestita e portata a termine dal dott. Ferraro con sistemi informatici avanzati ed approntata in soli sei mesi con 137 indagati, centinaia di intercettazioni, che scopre il doppio fondo del mondo dello sport amatoriale e del doping. Uno snodo essenziale anche per apparati e massonerie coperte. Ciò che è stato fatto al PM Paolo Ferraro è la sintesi di ciò che è il progetto Tavistock e anche delle varie tecniche di analisi dinamica manipolazione e gestione delle vite individuali e degli organismi associativi, istituzionali e sociali: strumenti usati programmaticamente ed operativamente da servizi ed apparati deviati per le attività di infiltrazione e governo ombra delle istituzioni. Studiare attentamente la vicenda del PM Paolo Ferraro significa quindi avere la prova che il progetto Tavistock (con derivati progetti di analisi e governo delle dinamiche individuali e sociali) è attivo sul nostro territorio con le sue tecniche utilizzate operativamente da servizi ed apparati per incidere anche sui tessuti istituzionali degli Stati. La infiltrazione mediante il Tavistock come metodologia di attività elettiva fu proclamata dal direttore medico dell’omonimo Istituto della fondazione Rockfeller, il militare John Reese, sin dal 1949/1950: obiettivo arrivare al governo delle classi mediche e della magistratura negli altri stati (il golpe scientifico!). Poi ci sono tutte quelle strani morti d’infarto di molti magistrati sicuramente non cardiopatici (ad eccezione della familiarità per il dott. Saviotti). Il 5 gennaio 2012 muore di infarto Pietro Saviotti, procuratore aggiunto a Roma. Era a capo del pool anti-terrorismo. Un infarto stronca Pio Avecone, procuratore aggiunto presso la Procura di Napoli. Il 25 luglio 2012 un camion si scontra frontalmente con una Land Cruiser che si dirige verso Otijwarongo in Namibia. I tre occupanti dell’auto muoiono sul colpo, tra loro c’è il giudice Michele Barillaro. Qualche settimana prima, il 9 luglio, il ministero dell’Interno aveva tolto la scorta a Barillaro, gip presso il tribunale di Firenze. In seguito, il 16 luglio, Barillaro aveva ricevuto delle minacce contenute in una lettera recapitata all’Adnkronos. Il giudice Barillaro si occupò tra l’altro del processo Borsellino ter. Il giorno successivo (26 Luglio 2012) moriva Loris D’Ambrosio di infarto fulminante senza che ne fosse disposta l’autopsia. Spariva così il custode delle suppliche di Mancino, imputato al processo di Palermo per i collegamenti mafia-Stato. Ed infine il 13 ottobre del 2012 il procuratore aggiunto di Roma Alberto Caperna muore a 61 anni per attacco cardiaco. Caperna era il responsabile del pool dei reati contro la pubblica amministrazione ed in questa veste coordinava le indagini relative a fatti su corruzione, peculato ed altri. Era titolare dei casi Fiorito e Maruccio. Caperna si è anche occupato dal caso Lusi, della vicenda della casa dell’ex ministro Scajola, dell’appalto nell’ambito dell’inchieste sul G8 della scuola Marescialli di Firenze, dell’indagine Parentopoli romana, del filone romano dell’inchiesta Parmalat, della presunta compravendita di senatori. Forse era scomodo anche perché conosceva bene l'esistenza dell’indagine Fiori nel Fango 2, poteva riconoscere e conosceva la portata della vicenda Ferraro e sapeva bene del contesto in cui erano state portate a termine le iniziative contro il magistrato. E poi c’è l’Italia dei capi cattivi e dei cattivi colleghi che sparsi in tutta la nostra penisola tentano di distruggere gli elementi brillanti ed eccellenti attraverso violenze verbali e morali, attraverso attacchi alla vita privata e vessazioni in genere. Il lavoro per le vittime accerchiate diventa un incubo e le vessazioni da parte di cattivi capi e cattivi colleghi una regola. Cattivi capi e cattivi colleghi che per aver abbracciato il progetto in tutta la sua essenza riescono a fare carriere d’oro (con stipendi d’oro) e veloci ma non per meriti o capacità ma per la destrezza di come utilizzano il modello. Il modello prevede che l’aggressione prenda avvio con una serie di episodi apparentemente casuali e scollegati. Poi però l’attacco si fa sempre più chiaro anche per le vittime designate, poiché dotate di grande intuito, intelletto e di conseguenza di una marcata sensibilità. Questo trova conferma dalle ricostruzioni dettagliate e suffragate da prove del dott. Ferraro. Poi ci sono le sue specifiche analisi politiche storiche, frutto del lavoro più generale del dott. Ferraro e del gruppo CDD (Comitato Difendiamo la Democrazia), che aprono gli orizzonti della storia alle nuove consapevolezze dei progetti reali, di élites reali per un dominio reale, che stanno distruggendo dalle fondamenta l'impianto costituzionale del nostro paese. E proprio nella e dalla vicenda, grazie alla intelligenza investigativa del dott. Ferraro, viene tra le tante una prova oggettivata ed incontrovertibile, diremmo unica per peso e intensità probatoria oggettiva in grado di svelare anche i moventi, di tali attività: " SESSANTA SECONDI SVELANO ATTENTAMENTE VALUTATI PIU' DI MILLE DOCUMENTI".

LA GRANDEDISCOVERY per punti essenziali e metodo. La semplice verità è che quello che ho scoperto e che mi ha portato a capire è successo a me ed in quanto tale (anche se vi sono cose simili successe a molti, selezionati per colpirli) solo a me... e la scommessa è stata dimostrarlo in todo ed in vitro facendolo rivivere integralmente in audio ed analisi. Dovete tutti aiutare me e voi a vivere l'esperimento reale e concreto che ho messo INTEGRALMENTE a disposizione…perché ciò apre cervello cuore istinto ed anima. Il resto, analisi e tutto, viene da solo ... o si capisce solo con la integrale intelligenza di un reale NON PROPRIO rivivendolo anche interiormente come proprio. Solo così il sapere REALE OGGETTIVO scientifico si trasmette profondamente e realmente. Ecco perché la mia attenzione agli audio ed a vari aspetti emotivi descritti. LA GRANDEDISCOVERY E' UNA GRANDE SCOMMESSA, la prima della storia ... Questo è certo per tutti gli elementi e le realtà che vi confluiscono e per la intermediazione sui vari piani da me gestita e portata avanti. Entrare e capire, far entrare e far capire. Questo il compito collettivo primario, contrastando i disinformatori e le manovrette atte a cercare di togliere dimensione ed idea al tutto. Poi le analisi più storiche o sofisticate ed il progetto che stiamo costruendo.

Un magistrato (noto, impegnato e ancor più stimato nel mondo giudiziario romano) viene “messo in mezzo “con tecniche varie in stile servizi deviati, ma scopre sempre qualche minuto prima quello che non doveva scoprire e che svela un intero vaso di pandora coinvolgente anche mondi militari ed altri (oltre quello che gli accadeva vicino). Per tappargli la bocca, visto che continuava ad approfondire e capire, lo sequestrano con una attività costruita a tavolino dalla psichiatria deviata secondo i moduli dell'ancient Tavistock Institute (ti accerchiano, distruggono famiglie e situazioni personali e poi cercano di tombare il tutto compreso l'accerchiato). L'operazione non riesce per vari motivi, tra cui carattere coriaceo e speciale attitudini della vittima predestinata, così come falliscono i vari tentativi di inserire step e profili nella vita dello stesso magistrato, un po' ingenuo e puro ma tanto tanto odiosamente intelligente. Di fronte ad una valanga di prove montante cercano di delegittimarlo per la via della ignominiosa dispensa dal servizio, ma questa è talmente incongrua sul piano della nota e reale professionalità del magistrato che fanno l'ennesimo autogol. Non paghi perseguono la via del distruggerlo tramite la morte civile e l'infangamento e sinanche la nomina di amministratore di sostegno, dopo aver avviato lo strangolamento economico destituendolo dal servizio. Centinaia di conferenze, interviste e trasmissioni, dieci canali video, centinaia di migliaia di notizie e video in rete, la sua presentazione alle elezione come capolista al Senato in varie regioni e la crescita irrefrenabile della coscienza collettiva nonché il suo impegno politico e nuove e dettagliate denunce tutte arrivate a tutti i gangli dello Stato, fanno da contorno alle ulteriori ultime iniziative, sempre più caotiche, disordinate, confuse ed improvvisate a suo danno. Mentre si comincia a delineare concretamente una Truman Show story reale ma da leggenda, con tanto di rivelazione di ascolto di tecniche di trattamento mentale, prove concrete verificabili da chiunque, in concreto, di attività criminali etc etc … siamo in attesa della giustizia, ormai tutta allertata ...

LETTERA APERTA DI PAOLO FERRARO AL PROFESSORE ... Egregio professor..., le scrivo "brevemente" come da promessa telefonica tardivamente adempiuta, perché ho avuto sei anni di tempo, da ultimo, epperò di accurato lavoro. Questa mail, a voler sottilizzare forse le arriva con “30 anni di ritardo” in quanto indirizzata al Prof. del 1985, per un mio possibile difetto di aggiornamento certamente a me solo ascrivibile. Mi sono fatto "barca" mentre il mare saliva e non ho aspettato nemmeno di essere soccorso (se lo ricorderà il motto in prima pagina del testo di "una ricerca per l'insegnamento" 1972 BARI). Di recente mi sono trovato difatti impegnato in nuovo corso di laurea, cui sono stato iscritto a forza dal 2009, ed invece di cambiare facoltà sono andato sino in fondo, ed ho ora terminato la tesi finale dopo molto più' dei 24 esami con cui si laureò il "pirotecnico" Paolo Ferraro, che neanche supponeva (tra l'altro) di essere attinto anche da patologica altrui invidia e rabbia, su tutti i piani essenziali, sentimenti a me sconosciuti e cemento di un mobbing criminale orizzontale e verticale emerso alla luce, che non tarderà perciò a cogliere con il coraggio di leggere approfondire e capire (dietro ai subdoli celamenti che posso immaginare abbia presentito o intravisto o ricevuto). Con l'occasione le allego scansionata in pdf la sola pagina intestata della mia prima tesi di laurea del 1980. La nuova tesi di laurea è invece pubblica, già spalmata in quattro anni e mezzo di analisi, prove raccolte (audibili e verificabili altresì). E di seguito le immetto la sinossi sintetica della "tesi", riassuntiva e analitica poi con rinvio all'articolo di raccordo ultimo pubblicato, che a loro volta rinviano al tutto. Si tratta però di una "tesi" "multimediale" che richiede ascolto attento, lettura di una cospicua mole di documenti, vaglio di svariate prove anche e sopratutto audio, e comporta un approfondimento un pò faticoso per l'importanza e "numerosità” dei dati e la complessità di primo acchitto delle vicende. A differenza della mia prima, questa mia "seconda tesi e laurea" chiude sei anni di artefatti e bocciature, minacce, diffamazioni orchestrate, falsificate profilazioni e attività varie a conformazione di norma criminale o di destabilizzazione preparatoria ( ben più risalenti anche), poste in essere con la sicumera di coloro che si attribuiscono la patente e il NOMEN di Poteri forti, che agiscono sotto velate e secondo loro inarrivabili ed inconoscibili spoglie, ma si tratta di un coagulo di minuscoli esseri coperti da un potere pubblico di cui non sono degni, e gerenti uno "strano" potere condiviso che esercitano anche in forme non legali e sotterranee. Robaccia che non ha nulla a che spartire con le regole, il diritto, i valori, la Costituzione. Ora che metodi, metodologie, strumentazioni, logiche, protocolli, ruoli e attività e NOMI E COGNOMI E FACCE sono non solo pubblici ma accompagnati da prove e documenti storicamente ineluttabili (altra cosa à la patologica perpetuazione della finzione altrui), la informo che FORTI non sono più come prima, perché la segretezza delle attività e degli orditi è finita, e sono alquanto NUDI, direi da ultimo scioccati per essere stati colti in flagrante e, ben preparato, da chi le scrive, in ennesime attività criminali ultime. Magistrati, servizi non deviati e altro, tra ammirazione e attenzione silenziose e lettura approfondita, sia pure in modo talvolta vile e tremebondo, mi hanno affibbiato uno strano ulteriore 110 e lode che porterebbe comunque, secondo altri intendimenti marcescenti, al mio isolamento ed alla mia ansimata distruzione ("bocciatura"). Per questo corso estremo di laurea non basta studiare, capire e sinanche fare oggetto di pratica e lezioni riconosciute i risultati di rilievo analitico raggiunti ed assicurati. E sapendolo mi sono mosso informando soggetti istituzionali con taglio informativo e scientificamente vagliabile, sicchè può dirsi che una parte cospicua della magistratura "ingenua" e del servizi "già compartimentati ed ora decompartimentati" dalla mia informazione, sono ora "avvertiti" e vigili per il futuro quantomeno. IL resto si vedrà. Non ho mai dubitato che varie persone, a Lei solo un pò ed indirettamente vicine e non degne di alcuna stima (come alcune di esse, poche, già dai tempi dell'Università) potessero effettivamente riuscire a trarla in inganno, e continuo ad avere fiducia nella cultura, razionalità e capacità critica serena collegata alla missione (umana e semplice) di approfondire, capire, sentire. Tra le mille prove audio se lo vorrà potrà riconoscere senza ombra di dubbio, nascosto sotto mentite spoglie e falso nome come partecipante a trasmissione radio "demenziale", un suo ex assistente che in un condiviso progetto si è dato da fare sotterraneamente, e "ascolterà" poi una sconvolgente dichiarazione di intenti distruttivi che svelano un arcano finto, da un Aggiunto della Procura di Roma …più molto molto altro. A voler essere precisi le indico conclusivamente, come leggerà ed ascolterà, che IL CASO FERRARO acceleratosi sotterraneamente sin dal marzo 1992 ha oggi la conferma indiretta ma eclatante di ciò che è stato fatto sinanche alla mia prima moglie di allora. All’epoca io membro del Consiglio giudiziario della Corte di Appello di Roma , impegnato in una strenua battaglia per assicurare il rispetto del principio costituzionale tabellare per il “tribunale dei ministri” ed in aspro scontro con i più temibili e sotterranei nemici di Giovanni Falcone: una nomenklatura a missione segreta radicata in MD, nomi e ruoli ora noti, come le attività relative (ma allora non riuscivo a darmene una completa e convincente spiegazione e così è stato sino alla seconda metà del decennio passato). Per non parlare del ruolo ed attività mia nella magistratura, che non mi vedeva inviso, allora, apertamente, ma sotterraneamente osteggiato da una specifica e pericolosa cordata. Ai pochi diffamatori inventori di falsificazioni e manovratori sotterranei (ben potenziati da un insensato principio di “condivisione” manipolato ed usato anche a fini distorti di trame a moventi "individuali") si assommano anche alcuni “avvocati e non” a lei in qualche modo un poco vicini o non lontanissimi: semmai le propalassero/avessero propalato idiozie malate...si faccia, se vuole, un suo completo giudizio autonomo da intellettuale, quale è, o se vuole anche da politico indipendente quale è stato. Troverà elencate in buona parte, nefandezze, prove, tramette e meschinità allegate a prova, e debitamente provate. E se ed in quanto avendo manipolato (BassaLex) avessero tratto in inganno anche Lei, e ne dubito fortissimamente, ora comunque non è loro più possibile farlo nei confronti di nessuno. Al massimo possono tentare di gestire un torvo silenzio, o la perpetuazione del solo nucleo di una sceneggiata condivisa (ridicola ormai e a suo modo schizofrenica e patologica sin dalle sue propaggini). Ventitré anni di attività orchestrate di sottecchi sono di dominio pubblico, con PROVE ormai acquisite e pubbliche a loro volta, ed anzi addirittura emerge la PROVA testimoniale (registrata) che Paolo Ferraro fu “attenzionato” sin dal 1977 (!) con metodi e modalità degni della miglior scuola internazionale e del peggior "cerchio". Nessun risultato utile perchè Paolo Ferraro è ed è rimasto lo stesso di sempre e ha difeso la sua individualità e indipendenza interiore (proprio quando le "offerte di sottomissione" si fecero esplicite per la prima volta nella mia storia di uomo e magistrato), e LE CONFERMO che la seconda laurea mia, rimarrà, sui piani storico, culturale e documentale, e mi è stata a voce e sinanche per scritto riconosciuta, obtorto collo, da chi conta e mi avversa persino. Salvi altri esiti possibili ulteriori. Ad una attenta lettura le emergeranno uno stuolo cospicuo di fatti e percorsi che in modo dettagliato e con prove documentali illuminano anche un pezzo della storia romana di un palazzo-porto che dalle nebbie è passato ai rifiuti tossici nocivi e mortali, ed ora gestisce una immagine di legalità a suo modo sottilmente tremante, che i servizi resi dalla medesima criminalità alta della capitale o ad essa richiesti per intermediazione militare o civile, in vicenda che mi riguarda o limitrofe, sono stati tanti e NE FUI addirittura in parte personalmente avvisato: da criminali "ordinari" che nel febbraio del 2012 per stima avvisarono un magistrato sotto attacco (o "botta"), solo per STIMA pura dell'uomo, incredibile a dirsi ma vero. La saluto ora, e non la tedio più. Paolo Ferraro

BREVE CRONISTORIA E FRONTE PROFESSIONALE. Per chi non conosce le vicende a monte rimandiamo al sommario in coda con chiarimenti e rinvii, riassumendo ora solo una essenziale cronistoria di quanto subìto da Paolo Ferraro dopo che ebbe presentato nel 2008 una circostanziata denuncia, corredata di prove audio (periziate da fonico di riconosciuta professionalità) e documentali, riguardo quanto accaduto nell’appartamento del quartiere romano della Cecchignola dove egli conviveva da qualche mese con Sabrina ( moglie separata di sottoufficiale dell’esercito) e il figlio dodicenne di lei. A seguito di una reiterata richiesta di aiuto fattagli dal bambino, oltre che insospettito dai numerosi   movimenti che avvenivano nel condominio e dopo aver sommato decine e decine di dubbi e rilevazioni di fatti e circostanze affatto chiare (che chiama ironicamente “i cento indizi zero”), decise di accertare quanto avveniva in sua assenza attraverso registrazioni audio effettuate con un computer portatile lasciato acceso all’interno della sua abitazione. Il risultato fu devastante: in presenza di un gruppo organizzato di persone che si introducevano  nell’appartamento come la libera disponibilità di chiave, Sabrina,   anche a  seguito di precise sequenze di condizionamento vocali e anche sonore ,  si trasformava completamente e compiva atti e poneva in essere comportamenti giudicati agghiaccianti per contesto modalità e ruolo imposto, non da Paolo Ferraro,  ma da chiunque abbia sentito e vagliato con mente libera e sgombra da pregiudizi di parte. In queste situazioni “off limits” venivano coinvolti, oltre ad adulti anche dei minori (tra cui è individuabile un bambino ROM) su cui si consumavano atti di pedofilia/parafilia nonché di certamente ipotizzabile violenza fisica (nè manca un colpo di pistola in un contesto macabro, segnalato pubblicamente e fatto ascoltare pubblicamente). Il tutto condito anche con accenti a cadenze innaturali a volte sinanche "medioevaleggianti".  Tra i partecipanti uomini di taglio e caratteristiche vocali ovviamente militari, e tra le tante una sequenza aggiacciante che rivela che il tutto era necessariamente organizzato, gestito e finalizzato.  ( N.B.  le sequenze di registrazione vengono ripetute con didascalie). È ben vero che la procedura usata (registrazione ambientale) non era conforme al dettato della legge, ma per il principio giuridico dell’urgenza che la situazione richiedeva, e per la natura degli interessi coinvolti legati a persone vittime, i mezzi usati diventano, de iure, leciti ed ammissibili. Da magistrato prima, ma anche da persona cosciente e consapevole della responsabilità morale che doveva essere assunta, il dottor Ferraro si rivolse subito, nel novembre del 2008, alla Procura della Repubblica di Roma chiedendo che venisse aperto un procedimento e svolta un’indagine approfondita sui fatti da lui denunciati. La reazione del Procuratore e di alcuni colleghi risultò fin da subito sconcertante: prima di tutto il "consiglio" insinuante di riposarsi e ricorrere ad assistenza psicologica, ovviamente già in mente l'addetto "ideale" al trattamento di Ferraro. Contemporaneamente si faceva capire al magistrato che doveva lasciar perdere (“togliti fuori da questa storia”), in quanto erano ineluttabilmente chiamate in causa istituzioni assolutamente intoccabili come le Forze Armate e la stessa Magistratura. A seguito della denuncia presentata, come dicevamo, Paolo Ferraro ha visto stringersi attorno a sè le maglie di una rete che già lo circondava da tempo. Da almeno 20 anni, come già illustrato in altri contributi persino mediante dichiarazioni di terza persona informata, e non a caso, Sabrina gli fu presentata dal medesimo collega Roberto Amorosi, addetto all'ufficio legislativo del Ministero degli Esteri quando era D'alema ministro... lo stesso Amorosi che si era attivato nella "vicinanza" al dott. Ferraro sin dal luglio 2006...piombando inaspettatamente nel luogo dove  egli era in vacanza sul suo camper  ( frequentazione,  per una “popolana"  non spiegabile, ma all'opposto comprensibile se la donna avesse avuto come  ragionevolmente aveva rapporti con servizi e mondo militare, quelli allusi ed ammessi anche ed in parte indicati nel MEMORIALE) . Frequentazione di Sabrina che si scoprirà tra l'altro preceduta da una infiltrazione/partecipazione della stessa a circuiti politici e ambiti romani, da Rifondazione Comunista ad aree Trozkiste ferrandiane, fino a IDV, ma soprattutto l’area notoriamente infiltrata e gestita di LOTTA COMUNISTA (  ala militarista e pseudo-maoista sopravvissuta con modalità “settaria" alle ceneri degli anni settanta e ottanta,  nella veste e ruolo noti agli esperti di terrorismo, infiltrazione e gestione di apparati segreti.) Fin dal principio furono ad arte moltiplicate le insinuazioni circa il carattere “visionario” dell’ostinazione di Ferraro a difendere la scoperta di una realtà - anche registrata - ma da loro negata (non si sentiva nulla di quelle registrazioni...anche un ufficiale del RIS stilerà una perizia assurda senza tentare nemmeno di migliorare la qualità delle registrazione, pur con i potenti mezzi a disposizione). Peccato che un perito fonico di fama internazionale, un ufficiale di polizia giudiziaria (che per primo indicò a  Ferraro che il quadro di elementi riconduceva a realtà sotterranee e pericolose), una psicologa (che in principio confermerà salvo poi attivare l’atteggiamento omertoso ed impaurito di chi si rende conto che la vicenda è ben più ampia e pericolosa del prevedibile),  oltreché innumerevoli cittadini in buona fede ne certifichino il contenuto, certamente non riconducibile ad attività ordinaria di una casalinga o a banale relazione extraconiugale, non fosse altro data la chiaramente individuabile presenza di molteplici persone (uomini, donne, bambini e almeno un bambino ROM). Nonostante ciò, Ferraro che approfondiva seriamente la vicenda e si apprestava a depositare denuncia altrove con gli elementi acquisiti, sarà bloccato nel 2009 con un sequestro di persona, fallito (fortunatamente) nel suo scopo primario di totale annientamento fisico per via psichiatrica, in perfetto stile NAZI-Staliniano. Seguiranno tre procedure presso il CSM (due archiviate e una terza nel 2013 sfociata in un provvedimento di dispensa per inettitudine) ed una causa di divorzio tutta improntata a distruggerlo economicamente e moralmente, che si spiega con il ruolo dalla ex coniuge legata agli apparati attivati, e forse un ruolo di  lei e  dei  potenti  parenti anche acquisiti  (Lucio Caracciolo)  più decisivo del prevedibile.  Infine, ecco sopraggiungere nel marzo 2013 la richiesta (firmata - solo - dal succeduto procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Roma Giuseppe Pignatone e predisposta già prima del provvedimento finale del CSM) di sottoporre Paolo Ferraro ad amministrazione di sostegno. Anche questo incredibile e (questo sì) veramente folle tentativo non sortirà l’effetto sperato, dato che il sostegno manifestato pubblicamente da molti cittadini nei confronti di Ferraro impediva di coltivare l'ennesimo tentativo troppo smaccato (istanza assurda nel contenuto ma avente il preciso scopo di tentare di "comminare la morte civile" all’ex magistrato da neutralizzare). Il Presidente della Sezione prima bis (Tutele e Minori) del Tribunale civile di Roma dott. Rosario Mario Ciancio ha emesso in data 15 Luglio 2013 il provvedimento di rigetto dell’istanza. Ad un primo sguardo potrebbe sembrare una vittoria della ragione, ma leggendo le motivazioni del provvedimento appare chiara la volontà di preservare la finzione  fondamentale alla base di tutte le azioni intraprese contro l’ex (per ora) magistrato: l’attribuzione di un disturbo mentale che si manifesterebbe ( guarda caso) allorquando egli divulga quanto vissuto e scoperto (prove alla mano, rese pubbliche) riguardo i fatti della Cecchignola e più in generale riguardo i progetti e gli assetti di potere sotterraneo in atto nel nostro Paese. Il provvedimento di rigetto si appella al principio di diritto, ovviamente sacrosanto, che a un malato non può imporsi la cura e che in assenza di pericolosità o di prodigalità non va “amministrato”.   Ma “che ci azzecca” tutto questo con Paolo Ferraro “persona reale”, perfettamente sano da tutti i punti di vista? È evidente che la tesi del disturbo/patologie di Paolo Ferraro non doveva essere intaccata dal rigetto. Il Giudice Ciancio  conferma così , oltre che la propria  “appartenenza”, anche una volta di più il quadro della persecuzione in stile NAZI-Staliniano messa in atto contro Ferraro, dilungandosi in giudizi a priori sui fatti della Cecchignola in Roma, sulla consulenza (effettuata dallo psichiatra Cantelmi , ampiamente smascherato ), sostenendo una (presunta) ragionevolezza e scientificità dell’opinione circa l’esistenza di uno stato patologico di Ferraro ( il CSM non  ha  definito una patologia ma "usato" il  "disturbo misto", propostogli come peraltro inventata ad hoc per dare una parvenza giuridica  e  supportare la dichiarazione di inettitudine al lavoro del  magistrato senza alcuna minima pecca professionale e ben noto per le sue capacità ). In realtà la artefatta diagnosi di disturbo misto apriva la porta in termini di quadro sintomatico (manipolato e costruito arificialmente) all'invenzione di  gravissime patologia ed è polivalente , piegabile a qualunque utilizzo strumentale :  prefigurava gli ulteriori step studiati da psichiatri che ormai emerge come credibile ipotesi, lavoravano da anni al fine ultimo. Ma tutto questo verrà analizzato nella prossima parte che pubblicheremo. Nel corpo della motivazione si legge comunque  il seguente passo: “Non possono non rilevarsi le inverosimili affermazioni, relative all’operato di una setta satanica massonica in ambiente militare, con estensioni nel campo della magistratura, che il medesimo afferma di aver colto all’opera, in casa della sua convivente all’epoca, dall’ascolto di una serie di registrazioni, attuate nel 2008, quando si allontanava dall’abitazione: affermazioni che nel caso concreto possono porsi in stretto rapporto con la diagnosi”. In altri termini, un giudice si esibisce in un giudizio a priori “di non verosimiglianza” su fatti di prova integrali prodotti anche dinanzi a lui e mai valutati, su registrazioni mai ascoltate e vagliate, su reali argomenti ed analisi circostanziate effettuate da Paolo Ferraro ma anche dagli avvocati Marra, Frattallone e Rustico. Non valuta se i fatti siano veri, se siano sorretti da elementi valutativi di prova, se sia ragionevole valutarli come fonte della persecuzione di Paolo Ferraro (vero scopo della falsa diagnosi e dei profili di personalità costruiti a tavolino e dinamicamente succedutisi per adattarsi volta per volta alle esigenze represssive del momento). Un giudice deve valutare fatti e prove, non esterna giudizi socioantropologici o logico aprioristici. Ma in questo caso la verità è l’ultima preoccupazione, trattandosi di un contesto nel quale l’obiettivo è annientare Paolo Ferraro per via socio-psichiatrico- giudiziaria. Il tutto è stato oggetto di una dettagliata analisi tecnica e di denuncia pubblica nel noto articolo "TRITTICO". Almeno tre circostanze generali, già da sole, rendono evidenti artefazione e   malafede che pervadono la vicenda (nella frangia eversiva della Procura di Roma, e negli ambienti psichiatrici deviati, infine di riflesso nel CSM). Tutti hanno preso parte alla vicenda fingendo di ignorare e considerare vaneggiamenti quanto sostenuto prove alla mano da Paolo Ferraro:

1. Indipendentemente da ciò che ha registrato, capito, ricostruito e saputo Paolo Ferraro, la presenza di sètte a copertura esoterico-satanista (nella Cecchignola, nel territorio a sud di Roma esteso sino ai castelli romani) viene considerata una certezza dal Ministero degli Interni nel momento in cui istituisce (con una importante circolare del 1996) la S.A.S. SQUADRA ANTI SETTE. Nella circolare si fa inoltre esplicito riferimento ad attività di “destrutturazione mentale” poste in atto in alcune tipologie di sètte.

2.Un articolo dell’Unità datato 8.11.2006 riporta notizia relativa ad un giro di pedofilia partecipato anche da sotto-ufficiale militare della Cecchignola, di Roma e da sottoufficiali dell'aviazione militare in danno di circa 200 bambini Zingari, per il quale vi furono 32 arresti nell’ambito dell’inchiesta "Fiori nel fango" coordinata dai PM Maria Cordova e Mirella Cervadoro della Procura di Roma, e condotta dalla Squadra Mobile, diretta da Alberto Intini. Le prime misure trasmesse per la convalida dalla GIP Maria Teresa Covatta, all'epoca moglie di Giuseppe Cascini.

3.Nell’ambito della vicenda Marrazzo (coeva all’operazione contro Ferraro) emerge il coinvolgimento del carabiniere Donato D'autilia, già indagato proprio nell’inchiesta "Fiori nel fango 2". L’inchiesta relativa alla vicenda Marrazzo, che vede coinvolto il militare della Cecchignola D’Autilia (accusato di ricattare Marrazzo in concorso con altri carabinieri) era gestita da Rodolfo Sabelli e Giancarlo Capaldo. E nelle registrazioni audio della Cecchignola bambino Rom e voce tipica.... Tenuto conto anche solo di queste sole tre circostanze apprendiamo che quantomeno nell’ambito della Procura di Roma scenari riguardanti  attività settarie a copertura satanista esercitate all’interno del quartiere militare della Cecchignola coinvolgenti militari, appunto comprendenti manipolazione di soggetti con tecniche di controllo mentale (MK-Ultra/Monarch, definite nella circolare del Ministero attività di “destrutturazione mentale”, ed in questo consistono tecnicamente) comprendenti anche attività a sfondo sessuale anche con il coinvolgimento di bambini ROM il tutto con finalità di coinvolgimento, ricatto ed irretimento di persone con ruoli istituzionali particolari non potevano certo essere considerati inverosimili, e tantomeno prodotti di una mente non sana. Riportiamo invece quanto sfacciatamente dichiarato il 09 giugno 2011 dall’allora procuratore della Repubblica di Roma Giovanni Ferrara (autore delle molteplici segnalazioni al CSM caldeggianti apertura di procedimenti a carico di Paolo Ferraro) nel corso dell’audizione del giugno 2011 presso la IV commissione del CSM:

dott. FERRARA – Non sono in grado di dare un giudizio medico e non so che cosa sia questa cosa, però posso dire che, in realtà, l’attività giudiziaria per i settori di cui si occupa (si occupa di informatica e di ecologia, materie che conosce benissimo è preparatissimo) la svolge in modo normale, ordinario, routinario; insomma, tutto sommato non ho ancora lamentele da questo punto di vista. Non sono in grado di definire questo tipo di malanno, però in realtà in un settore lui va bene, se però si toccano altri settori non va bene, nel senso che negli ultimi tempi (sono venuti anche gli aggiunti per testimoniare questa situazione) parla in modo criptico. Io ho mandato anche un’altra lettera recentissima: svolge dei discorsi un po’ criptici, non si capisce di che cosa parla, si parla di complotti, di sette, di cose varie, il tutto riconducibile, ripeto a quella vecchia vicenda.

e poi ancora...

dott. FERRARA – Parla di sette varie, di complotti e soprattutto di una vicenda che riguarderebbe la Cecchignola, dei militari che farebbero non so che cosa. Insomma cose incomprensibili.

Cons. CARFI’ – Cioè che sarebbero implicati in una setta di tipo anche satanico militare?

dott. FERRARA – Cose onestamente incomprensibili, onestamente farneticanti. Le definirei così.

Cons. CARFI’ – Fa dei discorsi farneticanti con lei che hanno per oggetto questo tipo di attività.

dott. FERRARA – Questa è l’impressione che io ho, però lui espressamente a me non dice più di tanto.

Al di là del fatto che Ferraro in ambito lavorativo non andava genericamente girando per uffici a parlare sistematicamente della sua vicenda (per stessa ammissione del Procuratore Ferrara che definisce questo dato da lui riportato come una “impressione”), e  avendolo  fatto esponeva  scenari già noti ai colleghi, per tutte le vicende sopra citate (Fiori nel Fango 2, Marrazzo e Circolare Ministero degli Interni sulle S.A.S) egli  lo faceva nella sua consueta veste di magistrato democratico politicamente ed istituzionalmente da sempre presente,  ovviamente soprattutto nel suo ufficio. Quale fosse lo schema adottato nelle assurde dichiarazioni del 2011, sopra riportate, quando si trattava di arginare gli effetti di una denuncia penale e poi pubblica, è evidente: già nel luglio 2010 era stato indicato implicitamente dal Procuratore Capo Farrara quale fosse il limite invalicabile dalla manovra di distruzione di Paolo Ferraro. Occorreva aggirare in toto la sua intonsa immacolata immagine di professionalità, e la impostazione delle due prime tentate dispense avviate era invece erronea, in quanto emergeva dallo stesso contenuto delle attestazioni e certificazioni una totale insostenibilità di un attacco diretto (tutto fu archiviato de plano e comunque   dopo un ulteriore tentativo riavviato appositamente). Dalle precedenti e veritiere dichiarazioni di Giovanni Ferrara dinanzi al CSM nel luglio 2010: " IL dott. Paolo Ferraro è un magistrato preparato, attento, scrupoloso, molto affidabile. Ha sempre lavorato con attenzione, con scrupolo ed ha esaurito sempre bene i suoi compiti. Ho portato le statistiche comparate del 2009 e del 2010 che sono il periodo che interessa; insomma, lui lavora bene, esaurisce quello che gli mando e di lamentele, personalmente, non ne ho." (nel 2011 mediante provvedimento "cautelare" urgente  e nel 2013 con provvedimento definitivo, si sarebbe giunti ad  una declaratoria di “inettitudine”,  con "piena salute e  profitto sul lavoro"  sancita da un intermedio provvedimento di progressione di carriera che lo definirà ancora eccellente :  una declaratoria   comica "auto-contradditoria" , se non fosse il frutto di un contorto ordito  studiato evidentemente a tavolino e continuamente "aggiornato " dopo la denuncia del 7 marzo 2011 e la "grandediscovery" avviata nell'aprile 2012, ormai nota). La vicenda è assai articolata e nelle parti successive approfondiremo i temi necessari per coglierla in ogni aspetto,   ma la domanda chiarificatrice è infine una sola: nel caso in cui la denuncia di Ferraro avesse riguardato  fatti inesistenti o comunque non costituenti reato (non avendo all'inizio lo stesso Ferraro certezza della portata di quanto rilevato, chiedendo per l’appunto alla Procura di indagare), perché archiviare di tutta fretta la denuncia e proseguire poi nelle attività orchestrate di diffamazione  mobbing lavorativo, psichiatrico e familiare ?! Il fatto che colleghi precisamente individuabili,  alcuni familiari legati a “certi ambienti”, psichiatri “chiamati in causa” ecc. abbiano in diverse circostanze tentato di far passare Ferraro per matto (detto così “terra-terra”, per intenderci),  si spiega solo con la loro necessità di coprire quel che si celava dietro,  di ordito ed architettato,  e con la impossibilità di smontare anche solo l’iniziale mole di prove e testimonianze  da lui raccolte (a quell’epoca già  i file audio, figuriamoci il resto, e ciò  che è stato analiticamente ricostruito dopo!). È proprio questa complessa “manovra” che ci consente di individuare uno ad uno, in base alla loro partecipazione ad essa, i protagonisti affiliati e/o collusi con l’apparato deviato incistato nelle istituzioni, avente chiare finalità eversive (come mostrato altrove. Invitiamo a visionare tutta la documentazione e gli articoli disponibili in rete). Quindi, il tentativo (disperato, a questo punto) di tracciare un profilo “patologico” di Paolo Ferraro, chiaramente costruito, non fa altro che confermare la realtà dello scenario delineato in questi anni.

Se ancora questo non fosse evidente, rileviamo alcune circostanze:

1.Personaggi nel mondo della cosiddetta più o meno artefatta controinformazione delineano scenari lontani dal senso comune, a differenza di Ferraro, e senza portare prove concrete a suffragio (in realtà mescolando verità e menzogne sostanzialmente per confondere le acque ed arginare l’informazione seria su certi argomenti, come abbiamo mostrato in altre occasioni). Non ci risulta che, per esempio, il noto avvocato Paolo Franceschetti sia mai stato interessato da richieste di TSO o assegnazione di amministratore di sostegno sostenendo che fosse l’ex procuratore di Firenze Pierluigi Vigna uno degli autori degli omicidi del cd. “mostro di Firenze”, accanto al giornalista Mario Spezi. Non ci risulta che l’ordine degli avvocati abbia aperto alcuna procedura per la sua radiazione dall’albo nonostante il Franceschetti teorizzi l’esistenza di una (questa sì fantomatica) organizzazione criminale di stampo massonico dedita agli omicidi rituali (la “rosa rossa”), a suo dire responsabile dei più importanti fatti di cronaca nera della storia italiana. Sulla base di questa sua "invenzione" egli esercita e pubblica ma non risultano provvedimenti a suo carico.

2. A proposito di affermazioni “inverosimili” anche per il senso comune, il professore di chimica dell’università di Pisa, Corrado Malanga svolge da anni attività di ricerca nell’ambito dei rapimenti alieni (  ... ) , delineando uno scenario terrificante e fantascientifico coinvolgente anche apparati militari ed organizzazioni massoniche, trattando con ipnosi e  tecniche di simulazione mentale migliaia di cittadini italiani (ovviamente consenzienti). Non ci risulta che sia stato interessato da procedure di valutazione psichiatrica né conseguentemente rimosso dall’incarico di professore universitario (interagendo con migliaia di studenti).

Con queste apparentemente extra vaganti constatazioni non auspichiamo certo che vengano presi dei provvedimenti psichiatrico coercitivi  nei confronti di Paolo Franceschetti (da noi considerato un disinformatore) o del prof. Malanga (sul merito delle cui ricerche non entriamo  ora), oltre che di  Massimo Mazzucco, David Icke (che guadagna 20mila euro a conferenza per dire che i reali inglesi sono alieni rettiloidi celati all'interno di involucri umani...) e  nomi più o meno noti  della cosiddetta (pseudo) "controinformazione". Vogliamo solo evidenziare il fatto che il discrimine della “verosimiglianza” applicato per attribuire a Ferraro una patologia e conseguente inettitudine lavorativa (peraltro mai dimostrate) è stato architettato solo nel suo caso, ed è privo si qualunque consistenza scientifica o giuridica. Sarebbe inspiegabile questo tipo di argomentazione usata contro Ferraro, se non fosse che anche gli psichiatri che operano non possono scoprirsi troppo  nel piegare la propria disciplina ai loro scopi: la forzatura che hanno potuto esercitare sull'interpretazione artefatta dei test cui è stato  sottoposto l'ex magistrato dal consulente del CSM Tonino Cantelmi è consistita nel "partorire" il  rilievo un "disturbo misto" (disturbo, non patologia , che apre in realtà le porte a tutto e a niente ,  secondo le  tecniche manipolative, queste sì, della surrettizia scienza psichiatrica ), interpretando come tratti paranoici  proprio quelle realtà per cui viene perseguitato e addirittura strappando i test sulle attitudini vere e generali emerse inequivocamente, mediante una sorta di   baro gioco delle tre carte . Sul tutto, con le prove torneremo nella seconda parte, ma tutto è stato già illustrato da Paolo Ferraro pubblicamente (vedi ad esempio memoriale del 3 novembre 2012).   

Un circolo vizioso da cui è difficile uscire, se non spezzando l'accerchiamento stesso. Siamo quindi ancora più indotti a ritenere ragionevolmente che il parametro della "verosimiglianza" abbia funto  solo da copertura per una volontà persecutoria da tempo pianificata, la cui azione non fa che suffragare la verità di quanto scoperto denunciato e  provato da Ferraro addirittura  a prescindere dalle stesse  numerose prove da lui prodotte (se avesse torto, perché perseguitarlo con attività su più fronti, tutte peraltro illustrate, dimostrate e persino denunciate a loro volta anche con prove “oggettive” ed oggettivate?). (Per quanto sembri strano, proprio sulla oggettivata incontestabilità dei due fatti analizzati, denunciati e sui due documenti-denuncia qui sopra linkati si sta giocando una porzione non secondaria della partita istituzionale.)  Oggi quel lavorìo sotterraneo ancora a regime ( d'altronde un intero progetto ha oliato le orchestrazioni e macchine del controllo per una intera società  )  ci induce ad intervenire per neutralizzare con le sole armi dell'intelletto e della verità ogni ulteriore tentativo  (tentativo  ipotizzabile anche in quanto potenzialmente gestito ancora  attraverso l’uso deviato del circuito socio-assistenziale e psichiatrico a partire anche dalla sede di giudizio civile/causa di divorzio attualmente in corso,  e dietro il paravento della bigenitorialità).

IN PRESENZA DI UNA PUBBLICA OPINIONE CONSAPEVOLE NON E' PIU' POSSIBILE CREARE UNA REALTA' ARTIFICIALE. La semplice comprensione da parte di un certo numero (più alto è, meglio è) di cittadini attenti e consapevoli  ribalta  tutto: in presenza di testimoni consapevoli non possono più agire senza limiti, in quanto giudici, avvocati e psichiatri verrebbero subito individuati  come elementi eversivi all'interno delle rispettive istituzioni e perseguiti dalla parte sana che ancora esiste ed è maggioritaria (anche se debole perché ha perduto il controllo del posti chiave, la parte non infiltrata è ancora largamente maggioritaria). Per questo "gli altri", la componente non sana, si impegnano per tenere cittadini ed istituzioni all’oscuro: visitando i nostri blog avrete visto foto e letto dei nomi di soggetti aventi cariche istituzionali, ma che non sono “famosi”, non a caso. A loro copertura, talvolta inconsapevolmente, è schierato persino uno stuolo di controinformatori, complottistoidi ingenui. Essi spostano l'attenzione dei cittadini più attenti indicando "bersagli" fasulli o irraggiungibili e sviando dalle questioni fondamentali, sforzandosi di creare assuefazione e indurre l'accettazione di un potere posto come lontano e invincibile (che in realtà nelle sue articolazioni concrete e necessarie è vicino e smantellabile, ristabilendo semplicemente la verità dei fatti e sostenendo i leali servitori dello Stato che operano nell'interesse della collettività). Nella seconda parte, mostreremo gli psichiatri in azione sul terreno del "trattamento" riservato a Paolo Ferraro dalle attività preparatorie al sequestro di persona del 2009 fino alla conclusione della inscenata procedura di dispensa presso il CSM. [Nella vicenda della grandediscovery colletti bianchi, professionisti rispettati e stimati. Tanti anni fa in uno scenario affatto diverso   funzionari e gerarchi (ricordate il programma di eutanasia nelle cliniche psichiatriche tedesche, con eliminazione dei primi e precoci oppositori politici?). Vi sono profonde differenze: oggi i il progetto del quarto reich moderno di cui costoro sono in diversa misura consapevoli non è ancora realizzato (si sta attuando attraverso lo svuotamento dall'interno della democrazia, come Paolo Ferraro ha mostrato dettagliatamente in questi anni). Mentre nei film i "cattivi" sono subito individuabili, nella realtà non sempre lo sono. Ma non sono "cattivi", fanno solo gli interessi propri e di chi li dirige: la questione non è tanto la loro forza ma quella della consapevole opposizione. L'opposizione più efficace è innanzitutto intellettuale, come spiegato più volte: si sono attrezzati per annichilire persone senza la “forza bruta”, con una violenza più sottile e indiretta ma potente, che richiede la segretezza (rammentate l'insegnamento di John Fitzgerald Kennedy).